Rieducazione fuori cella. Al 31 gennaio solo 379 i minori detenuti di Marzia Paolucci Italia Oggi, 2 marzo 2020 Al 31 gennaio 2020, sono solo 379 i minori e i giovani adulti presenti nei 17 Istituti penali minorili su 13.500 totali in carico al sistema penale. Il più sono misure alternative al carcere: un traguardo importante che la giustizia minorile rivendica rispetto al circuito penale degli adulti in occasione del V Rapporto di Antigone sugli Ipm-Istituti penali minorili a un anno di distanza dal nuovo ordinamento penitenziario minorile arrivato dopo 40 anni di attesa. Ma le linee guida sono uscite solo un mese fa, segno che molto resta ancora da fare per Susanna Marietti, coordinatrice nazionale Antigone e responsabile dell’Osservatorio minorile dell’Associazione che immagina il futuro degli Istituti dove diventino la regola quelle che ora sono le eccezioni: sezioni a custodia attenuata disciplinate dall’articolo 21 dell’Ordinamento. Dovrebbero ospitare detenuti che non presentano rilevanti profili di pericolosità o vicini alle dimissioni e ammessi allo svolgimento di attività all’esterno con spazi organizzati di autonomia nella gestione della vita personale e comunitaria. “Credo”, ragiona Marietti con Italia Oggi Sette, “che anche laddove sussista ancora il regime detentivo, le sezioni a custodia attenuata previste per i detenuti “facili” in alternativa al regime detentivo ordinario, possano rappresentare con il tempo l’unico modello detentivo del sistema, aperto verso l’esterno e in collegamento con le scuole di istruzione e formazione professionale”. Il rapporto presentato al pubblico il 21 febbraio scorso presso la Comunità di accoglienza Borgo Amigò intitolata al suo fondatore Monsignor Luis Amigó fondata e coordinata dal 1995 da Padre Gaetano della Congregazione dei Religiosi Terziari Cappuccini dell’Addolorata con trentasei anni di esperienza da cappellano all’Ipm di Casal del Marmo a Roma. Un punto di riferimento per i ragazzi sottoposti alle misure alternative al carcere. I numeri del circuito penale minorile. “Un sistema sottodimensionato che certo non soffre di sovraffollamento visti i 540 posti complessivi nei 17 istituti penitenziari italiani”, per Gemma Tuccillo, capo dipartimento della giustizia minorile e di comunità. “Una ragione in più”, dichiara il magistrato a Italia Oggi Sette, “per realizzare quelle previsioni migliorative della vita detentiva previste dall’Ordinamento penale minorile entrato in vigore l’anno scorso”. Il 70% degli imputati sono italiani, la maggioranza ha tra i 18 e i 20 anni e solo il 7% ha una un’età compresa tra i 14 e i 15 anni. I reati contro la persona riguardano solo il 17% di chi entra negli Ipm, gli omicidi calano del 50%, furti e rapine del 15%, aumentano invece i minori segnalati per associazione di tipo mafioso: 95 nel 2018 contro i 49 di quattro anni prima. Il rinvio a giudizio è richiesto dal pm nel 37% dei casi, mentre la richiesta al giudice di pronunciarsi nel corso delle indagini preliminari con sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto copre il 22% dei casi, nel 12% dei casi, l’archiviazione è proposta dal pm per non imputabilità o per mancanza di condizioni di procedibilità come il ritiro o la presentazione oltre termine di una querela. Soddisfazione per i 2.382 casi di messa alla prova del primo semestre 2019 che ha dato risultati positivi a cominciare dall’estinzione del reato nell’82% dei casi. Le comunità di accoglienza. I ragazzi arrivano nelle comunità attraverso misure cautelari o alternative al carcere. In dieci anni la realtà ha raddoppiato la propria presenza nel settore anche grazie al numero esponenziale di ragazzi che accolgono. Al 15 gennaio scorso i ragazzi in comunità erano 1104, un numero largamente superiore rispetto alle poche centinaia degli Ipm e il 20% di questi mille, è al centro di un progetto di messa alla prova. La comunità Borgo Amigó a Casalotti diretta dalla presenza rassicurante di Padre Gaetano, ospita ragazzi italiani e stranieri dai 14 ai 25 anni che escono per andare a scuola, a corsi professionali, giocano nei campi di calcio coperti a cinque e a otto e soprattutto sperimentano nei due plessi, uno destinato ai più piccoli e l’altro ai più grandi, la normalità di una famiglia che in molti casi gli è mancata prima, durante l’infanzia e poi in carcere. Tra le attività appena terminate anche un corso Caritas per agricoltori con messa a dimora di colture invernali ed estive nei tre ettari di terreno della Casa sotto la direzione di un agronomo. “Qui il principio è educare alla libertà attraverso la libertà”, racconta con entusiasmo un volontario. “Le vostre prigioni”, lettere dal 41bis di Katya Maugeri www.sicilianetwork.info, 2 marzo 2020 “Su il quotidiano “Il Dubbio” del 29 febbraio 2020, a cura di Damiano Aliprandi, leggo: “Violenze a San Gimignano, il video dell’aggressione al detenuto tunisino. Gli agenti avrebbero abusato dei poteri o comunque violato i doveri inerenti alla funzione o al servizio svolto”. E mi sono venuti in mente brutti ricordi carcerari”. Brutti ricordi trascritti in un diario, quello di Carmelo Musumeci, intervistato da me mesi fa. L’ex boss della mafia della Versilia protagonista di una violenta guerra con il clan Tancredi che insanguinò le province di Massa-Carrara, Lucca, Livorno e La Spezia negli anni Ottanta fino al 1991 quando venne arrestato e condannato all’ergastolo per l’omicidio di Alessio Gozzani, ex portiere della Carrarese affiliato al clan rivale. Brani inediti scritti durante il suo 41bis all’Asinara e che oggi Musumeci affida alla nostra redazione, un diario che racconta condizioni inumane durante il lungo periodo di detenzione. “Ricordi carcerari”, afferma più volte, “che ho allegato in una istanza destinata al magistrato di sorveglianza di Perugia (che successivamente ne riconosce un parziale risarcimento) per denunciare le condizioni in cui vivevo. Non smetterò mai di ricordare che: la carcerazione non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione. Che l’articolo 3 pone a carico delle autorità un obbligo positivo che consiste nell’assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana”. Nell’istanza sono riportati tanti esempi di disagio, di malessere e sconforto causato da “condizioni inumane” - continua a ripetere Musumeci. Durante la detenzione al carcere dell’Asinara, si legge nell’istanza “non esisteva nessun tipo di allarme interno delle celle con il quale chiamare il personale di custodia. Per quanto concerne le condizioni igieniche c’erano topi ed escrementi dappertutto; una sola doccia settimanale con l’acqua solo per pochi minuti, in un locale fatiscente pervaso da muffe e insetti. Ricordi carcerari che Carmelo Musumeci conserva non solo nella sua memoria, sottopelle, ma in quel diario personale che scriveva per contrastare la rabbia, la solitudine e alimentare la speranza. Carcere dell’Asinara 1992/1997 - A un tratto le guardie si schierarono a destra e a sinistra lasciando un corridoio nel mezzo che portava dritto dentro il carcere. Avevano scudi in plexiglass e manganelli nelle mani. Quando uscimmo dal cancello fummo subito subito bersagliati di manganellate. Corsi piegato in due con le braccia alzate per cercare di ripararmi dai colpi di manganello. Cercavo di proteggermi la testa, ma le manganellate arrivarono proprio lì. Carcere di Parma 1998/1999 - Direzione dittatoriale. Accadeva di tutto, piccole e grande violenze. E guardie che brutalizzavano in nome del popolo italiano. L’alimentazione era scarsa e cattiva. Diario: Mi presero di peso. E mi trascinarono nelle celle di punizione. Mi scaraventarono nella cella liscia. Volarono pugni, calci e ingiurie. Mi ordinarono di denudarmi. E mi perquisirono. Le guardie iniziarono a insultarmi “Figlio di puttana” “Prendi questo e quest’altro”. Poi si stancarono. E se ne andarono. Mi sdraiai per terra, nella cella liscia non c’era neppure la branda. Mi coprì con una vecchia coperta buttata in un angolo, l’unica cosa che c’era in quella cella. Carcere di Novara 1999/2000 - Soprusi e violenze. Sadismi, perquisizioni ad oltranza e umilianti. Spogliati dalle nostre piccole cose. Derisi. Pacchi e vestiari mandati indietro, se non persi, oppure saccheggiati, in balia d’aguzzini con licenza di fare come gli pareva, se gli pareva, quanto gli pareva. Diario: Le pareti erano grigie. Erano fradice di muffa, dolore e umidità. Puzzavano di ferro, cemento armato, sudore e sangue. Il soffitto era giallo. Il colore della nicotina. Le sbarre della finestra erano le più grosse che avesse mai visto. C’era una branda fissata nel pavimento, un tavolino e uno stipetto al muro. Carcere Sulmona 2001/2002 - Avevamo due ore di aria il mattino, due il pomeriggio e poi stavamo tutto il giorno chiusi in cella. La televisione la telecomandava la Direzione del carcere. E a mezzanotte veniva spenta. La Direttrice non voleva che di notte vedessimo gli spogliarelli nelle televisioni private. Non ci faceva comprare neppure i pornografici alla spesa. Alcuni detenuti avevano reclamato e si sono rivolti al magistrato di sorveglianza, che aveva accolto il loro reclamo. Nonostante ciò la direttrice venne in sezione e gridò: “Fin quando ci sarò io… nel mio carcere quei giornalacci non entreranno… non sono letture educative… dovrete passare sul mio cadavere”. Durante la conta di mezzanotte e delle quattro del mattino le guardie aprivano i blindati, il cancello e entrano in cella a svegliarci. In questo modo attuavano una vera e propria tortura del sonno. Diario: Mi presero di peso. Mi strascinarono per il corridoio. Feci tutte le scale che conducevano nelle celle di punizione a ruzzoloni. Mi misi all’angolo del muro. Le guardie si disposero a semicerchio. Ero abituato a prendere le botte. Sapevo per esperienza che fanno male solo i primi colpi. Poi non si sente quasi più nulla. Mi saltarono subito addosso. Mi presero a calci nello stomaco. Provai a dare un morso in una gamba alla guardia più vicina ma s’incazzarono ancora di più. Non mi rimaneva altro che prenderle e dire parolacce. Non potevo fare altro. Le scarpate nei fianchi mi impedivano di respirare. Presto rimasi a corto di aria nei polmoni. Poi non sentii più nulla. Carcere Nuoro 2002/2007 - Le condizioni igieniche erano terribili, basti pensare che bisognava andare in bagno davanti ai propri compagni. I cortili dei passeggi sembravano delle gabbie voliere. Vivevamo in condizioni illegali di sovraffollamento, ozio forzato, mancanza di igiene e cure. Diario: I detenuti della prima sezione del carcere di Nuoro segnalano che la struttura di questo istituto è vecchia e decadente (a dir poco obsoleta), all’interno dell’istituto il detenuto è abbandonato a sé stesso. La cosa più angosciosa è che il gabinetto è scoperto e si è costretti ad espletare i bisogni corporali sotto la vista dei compagni che occupano la stessa cella, ciò ci toglie quel briciolo di dignità che ci è rimasta…non siamo animali. La nostra sezione ha tre piani e per distribuire il vitto c’è un solo carrello e questo viene trasportato a mano attraverso le rampe delle scale. È facile immaginare i disagi che ne derivano. Nutrirsi con quel minimo di decenza è quindi affidato alla sorte, perché è fortunato il piano da cui si comincia la distribuzione del vitto. Per i detenuti che arrivano dal continente e che per ovvie ragioni difficilmente possono usufruire di colloqui, ricevere un pacco postale dai propri cari diventa come una lotteria perché ci viene consegnato a distanza di settimane. E se c’è qualcosa di commestibile si deteriora e va buttata. Carmelo Musumeci, oggi in semilibertà, nei suoi libri e attraverso il suo blog continua a dare voce agli “uomini ombra” raccontando quanto sia cambiato dopo aver conosciuto il bene, quello incondizionato, incontrato alla comunità per disabili Papa Giovanni XXIII Bevagna di don Oreste Benzi in provincia di Perugia. Perché la lezione più importante la riceviamo dall’amore. Il Coronavirus è sparito e ha lasciato un’Italia con trojan e in recessione di Piero Sansonetti Il Dubbio, 2 marzo 2020 Il virus “Corona” sta perdendo potenza. Non so se potenza biologica, sicuramente potenza mediatica. In Italia, al momento, si contano circa 400 casi di possibile infezione, ma ora le autorità dicono che forse sono meno. Comunque sono un numero tra le tre e le cinquemila volte più piccoli di quelli che servono per conteggiare i casi di influenza. L’influenza è una malattia molto simile a quella del virus “Corona”. I morti però sono molti di più. Ieri, in un’intervista al nostro giornale, la ex ministra Lorenzin ci ha fatto sapere che nel 2015 furono circa 4.500. Il virus Corona finora ne ha provocati una decina, ma non è sicuro che i decessi siano dovuti al virus, anzi è improbabile. Il virus però ha avuto una incredibile forza sociale. Ha preso la direzione di tutti i giornali, del governo, del Parlamento. Ha cancellato ogni dissenso in politica e ha agito in profondità sull’economia. Tiriamo qualche somma. In politica: il virus ha messo la mordacchia a chiunque dissentisse, mentre governo e Parlamento portavano a termine una delle più grandiose operazioni autoritarie della storia della Repubblica. Fine della prescrizione, processi eterni, aumento a dismisura delle possibilità di intercettare e spiare i cittadini (stile Germania dell’Est), riforma burla del processo. È scivolato tutto in un gran silenzio, accompagnato dall’amuchina. Sul piano dell’economia meglio stendere un velo. L’Italia ha ricevuto un danno che sarà molto difficile recuperare. Ci vorranno mesi e forse anni. Molte attività economiche, a partire dal turismo, sono state rase al suolo. La recessione è qui. Di chi è la colpa? Ah, non lo so. La politica si è mostrata per quello che è. Non c’è bisogno che vi dica io cosa è: lo sapete. Il sistema dell’informazione ha fatto corto circuito. Si è avvitato su sé stesso, ha mostrato quanto sia subalterno alla fake news considerata come motrice del mercato. Servirà a qualcosa questa settimana di follia collettiva? Servirà magari a capire che la invincibile abitudine italiana di considerare la politica una variabile delle emergenze può portare solo al collasso della vita pubblica? Lascio la parola agli ottimisti. Io mi allineo a Giuliano Cazzola, che spiega come tutto questo sia figlio del giustizialismo profondo, endemico. Mi allineo a Cazzola e dico che non ci spero più. Intercettazioni, parte la riforma. Trojan estesi e risultati utilizzabili in procedimenti diversi di Claudia Morelli Italia Oggi, 2 marzo 2020 Via libera dal Parlamento alla conversione in Legge del Decreto n. 161 del 2019. Intercettazioni, più spazio ai difensori; ma trojan ad ampio raggio e utilizzo dei risultati in procedimenti diversi. Tutto dal 1° maggio prossimo e per i processi penali iscritti a partire dalla stessa data. Sempre dal 1° maggio entrerà in vigore l’eccezione al divieto di pubblicazione con riguardo alle ordinanze che dispongono la custodia cautelare. I difensori potranno ascoltare e ottenere copia delle registrazioni intercettate, potranno esaminare per via telematica gli atti depositati al termine delle indagini preliminari e chiedere, entro 20 giorni dall’avviso di chiusura delle indagini preliminari, di integrare la lista delle registrazioni ritenute rilevanti. Nel contempo, però, dovranno “digerire” il sostanziale ampliamento della utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni (anche tramite captatore informatico se rilevanti e indispensabili per accertare la responsabilità penale) anche in procedimenti penali diversi da quello in cui è stato autorizzato lo strumento di indagine, sempre che riguardi la stessa categoria di reati. Quanto al divieto di pubblicazione, anche parziale, esso è esteso a tutte le intercettazioni non acquisite al procedimento. Chissà se il tema “intercettazioni” sarà tra quelli archiviati politicamente, dopo che la camera dei deputati ha approvato in via definitiva il disegno di legge di conversione del decreto legge 161/2019, che modifica sostanzialmente la riforma “Orlando” (legge n. 103/2017 e decreto legislativo n. 161/2017). Negli ultimi tre anni, la questione è stata tra quelle ad alta tensione politica e le norme del codice di procedura penale sono state trattate come la tela di Penelope. Elemento “positivo”, la circostanza che tutto si sia svolto sulla carta, visto che della riforma Orlando sono state in vigore, in questi tre anni, solo la norma “Daddario” (cioè il nuovo delitto di diffusione di riprese e registrazioni fraudolente) e l’articolo 6 sulla semplificazione dei presupposti per disporre le intercettazioni nei procedimenti per i reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Dalla legge “Orlando” in poi sono stati diversi i momenti ad alta tensione, tanto che sono state approvate successive proroghe per l’entrata in vigore della riforma (l’ultima, al 1° gennaio 2020 dal decreto legge sicurezza bis). Mentre, nel frattempo, la legge “spazza-corrotti” ha portato con sé una integrazione piuttosto criticata; l’ammissione de l’intercettazione a mezzo captatore informatico (trojan) anche nei luoghi di privata dimora per i reati dei pubblici ufficiali contro la p.a. puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni. Il provvedimento approvato definitivamente da una parte dispone la proroga della entrata in vigore di tutta la riforma al 1° maggio prossimo e per i processi iscritti a partire dalla stessa data; dall’altra apporta una serie di modifiche sostanziali alla stessa riforma Orlando, in qualche caso riportando i testi del codice di procedura penale alla versione precedente. Vediamo le modifiche più importanti. Divieto di pubblicazione. Estende il regime del divieto di pubblicazione a tutte le intercettazioni non acquisite al procedimento. Trojan. Le attività di intercettazione ambientale mediante utilizzo di captatori informatici, già consentite per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, potranno essere autorizzate anche ai delitti degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione. Anche per i delitti contro la pubblica amministrazione, poi, non sarà necessario indicare “i luoghi e il tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono”. Tuttavia, se il luogo è il domicilio del target, il decreto di autorizzazione deve indicare espressamente le ragioni che giustificano l’utilizzo di questa modalità (non sono chiare le sanzioni nel caso ciò non avvenga). I risultati delle intercettazioni effettuate per mezzo del captatore sono utilizzabili anche per la prova dei reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione, a condizione che si tratti di reati contro la pubblica amministrazione puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni o dei gravi delitti attribuiti alla competenza della procura distrettuale (ai sensi dell’art. 51, comma 3-bis e comma 3-quater c.p.p.). I risultati delle intercettazioni devono essere indispensabili per l’accertamento di tali delitti. Un decreto del ministro della giustizia dovrà definire i requisiti tecnici dei programmi informatici funzionali alle intercettazioni mediante trojan nei dispositivi portatili. Pubblico ministero. Viene soppressa la norma della riforma Orlando (criticata anche da capi di Procure importanti) che affidava alla polizia giudiziaria l’iniziale valutazione discrezionale su cosa trascrivere e cosa annotare. Lo deciderà il pubblico ministero, che dovrò anche vigilare affinché nei verbali non siano riportate espressioni lesive della reputazione delle persone o quelle che riguardano particolari categorie di dati personali, salvo che si tratti di intercettazioni rilevanti ai fi ni delle indagini. Il p.m. ha inoltre l’obbligo, una volta concluse le indagini preliminari e se non ha effettuato il deposito, di indicare le intercettazioni ritenute rilevanti ai fini del procedimento, con interlocuzione con la difesa e, in caso di contrasto di vedute, con un intervento del giudice per la selezione del materiale. Un decreto ministeriale dovrà fissare i criteri cui i titolari degli uffici di procura dovranno uniformarsi per regolare l’accesso all’archivio da parte dei difensori e degli altri titolari del diritto di accesso; oltre ai criteri sulle modalità e termini di informatizzazione di tutte le attività di deposito e di trasmissione relative alle intercettazioni. Esecuzione delle intercettazioni. Si torna ad ante 2017 (cioè non cambia nulla) con riguardo alla trasmissione dei verbali delle intercettazioni; all’immediata comunicazione ai difensori che, in via telematica, hanno facoltà di esaminare gli atti e di ascoltare le registrazioni ovvero di prendere cognizione dei flussi di comunicazioni; all’apposito procedimento incidentale finalizzato alla cernita e alla selezione del materiale probatorio nell’ambito di una apposita udienza camerale (viene soppresso il procedimento di stralcio nonché la trascrizione delle intercettazioni in fase dibattimentale introdotti dalla riforma Orlando). Lo stralcio può riguardare, oltre alle registrazioni di cui è vietata l’utilizzazione, anche quelle che riguardano categorie particolari di dati personali, sempre che non ne sia dimostrata la rilevanza; alle operazioni di stralcio possono partecipare sia il p.m. che i difensori; questi ultimi possono estrarre copia delle trascrizioni integrali delle registrazioni disposte dal giudice e possono far eseguire la loro copia, su supporto o carta. Il giudice, con il consenso delle parti, può disporre l’utilizzazione delle trascrizioni delle registrazioni già effettuate dalla polizia giudiziaria nel corso delle indagini, senza procedere alla trascrizione integrale attraverso perizia. In caso di contestazioni si dovrà procedere alla trascrizione integrale. Estensione dei risultati delle intercettazioni. È stata una delle norme più contestate (unitamente a quella relativa all’estensione dell’utilizzo dei captatori), anche per la direzione contraria assunta rispetto alle Sezioni unite della Cassazione (sentenza Cavallo, gennaio 2020): il provvedimento estende la possibilità di usare i risultati delle intercettazioni in procedimenti penali diversi rispetto a quello nel quale l’intercettazione è stata autorizzata purché si tratti di uno dei reati per il quale il codice consente l’uso di questo mezzo di prova. Le intercettazioni potranno essere utilizzate solo se “rilevanti e indispensabili” per l’accertamento della responsabilità penale. L’avviso della conclusione delle indagini preliminari deve contenere anche l’avvertimento che l’indagato e il suo difensore hanno facoltà di esaminare per via telematica gli atti relativi ad intercettazioni e ascoltare le registrazioni ovvero di prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche e che hanno facoltà di estrarre copia delle registrazioni o dei flussi indicati come rilevanti dal p.m. La nuova disposizione riconosce inoltre al difensore la facoltà, entro il termine di venti giorni, di depositare l’elenco delle ulteriori registrazioni ritenute rilevanti di cui chiede copia. Su tale istanza provvede con decreto motivato il pubblico ministero. Manette uguali per tutti, lo strano garantismo di Caselli di Iuri Maria Prado Il Riformista, 2 marzo 2020 Un illustre articolista del Fatto Quotidiano, Gian Carlo Caselli, ha scritto l’altro giorno che “il garantismo doc, o è veicolo di uguaglianza (e non di sopraffazione e privilegio), o semplicemente non è”. Il resto del garantismo, spiega, cioè quello che ha denunciato l’inciviltà delle riforme del Dj in parentesi ministeriale, è “tarocco”. Vale la pena di restarci un momento. Perché è abbastanza vero che una certa parte della magistratura, sia essa in ritiro o invece in ruolo attivo, desidera in candida equanimità un sistema di giustizia uguale per tutti. Bisogna vedere tuttavia in che cosa dovrebbe risolversi questo ugualitarismo giudiziario. L’impressione è che si tratti del desiderio che lo Stato tolga diritti a tutti; che tutti siano sommessi a una giustizia incattivita; che tutti e in modo appunto eguale siano cittadini di un Paese intimorito. E c’è senz’altro una specie di buona fede in quel desiderio. Solo che esiste - dovrebbe poter esistere - un’impostazione diversa e opposta, e cioè che sia preferibile un sistema di uguaglianza nell’affermazione anziché nella compressione dei diritti delle persone. Uguali con meno anziché più galera. Uguali con meno anziché più carcerazione preventiva. Uguali con meno anziché più manette. E per stare al direttore di Gian Carlo Caselli, che vuole vedere i detenuti “in catene”: uguali senza catene, anziché tutti in catene. Questo sarà pure un garantismo diverso rispetto a quello plumbeo vagheggiato da Gian Carlo Caselli e dal giornale che ne pubblica le ruminazioni, ma fino a prova contraria non è “tarocco”. E la prova contraria, si permetta, non la ritroviamo negli articoli di elogio che Il Fatto Quotidiano, pel tramite di questo o quel collaboratore togato, dedica al “nostro Guardasigilli”. Nel diuturno lavorio screditante di questi candidi moralizzatori è sempre presente il riferimento obliquo a una pretesa mira assolutoria del garantismo che non gli piace, insomma l’idea che ci si muova a spuntare le armi dei giudici per proteggere il privilegio dei potenti. Ma devono cacciarsi in testa che non è così, e che alcuni (pochi magari, ma ci sono) risentono i problemi di giustizia come problemi di tutti: alcuni a cui l’ingiustizia ripugna perché c’è, non secondo che affligga questo o un altro. Ed è vero che l’ingiustizia in questo Paese opprime innanzitutto la povera gente ed infatti è di questa, di povera gente, che le carceri sono piene. È vero, ci finiscono soprattutto i poveri e i disadattati, là dentro. Garantismo, per noi, sarebbe sprigionarli. Per altri sarebbe riempire ancora quelle prigioni e mandarci dentro quanta più gente possibile. Possibilmente in catene. È un’uguaglianza che non ci piace. Diffamazione e carcere, ammissibile intervento Ordine Giornalisti in giudizio costituzionalità ossigeno.info, 2 marzo 2020 Il prossimo 21 aprile 2020 il Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti (Cnog) potrà intervenire nel giudizio costituzionale sulla legittimità delle norme in materia di diffamazione a mezzo stampa, norme che prevedono di punire i colpevoli con la multa o con il carcere fino sei anni. In questo reato incorrono soprattutto i giornalisti e i direttori responsabili dei giornali e ciò appare in contrasto con l’articolo 10 della Convenzione europea dei Diritti Umani recepita dalla Costituzione italiana, come hanno fatto osservare i difensori di alcuni giornalisti. Di conseguenza il Tribunale di Salerno e quello di Modugno hanno sollevando l’eccezione di costituzionalità (www.ossigeno.info/carcere-per-diffamazione-investita-la-corte-costituzionale). La Corte Costituzionale ha accettato con l’ordinanza n.37 depositata il 26 febbraio 2020 (relatore Francesco Viganò) la richiesta dell’OdG di partecipare alla discussione. La causa sarà discussa in udienza pubblica. La motivazione - L’intervento del Cnog è stato accettato in quanto ha competenza a decidere sui ricorsi in materia disciplinare. La legge stabilisce che le condanne penali con interdizione dai pubblici uffici determinano automaticamente la cancellazione o la sospensione del giornalista dall’Albo. Invece le altre condanne penali al Cnog di avviare un’azione disciplinare qualora il fatto offenda il decoro e la dignità professionali ovvero comprometta la reputazione del giornalista o la dignità dell’Ordine. Pertanto, da un’eventuale condanna penale del giornalista e del direttore responsabile imputati nel procedimento da cui è nata la questione di costituzionalità deriverebbero specifiche conseguenze in ordine all’avvio dell’azione disciplinare, riguardanti la sfera dei poteri del Cnog e aventi ad oggetto, “in modo diretto e immediato”, lo specifico rapporto giuridico sostanziale dedotto in quel giudizio (la pretesa punitiva statale nei confronti degli imputati). Il comunicato della Corte costituzionale Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti (Cnog) potrà intervenire nel giudizio costituzionale sulla legittimità delle norme in materia di diffamazione a mezzo stampa, che puniscono con il carcere il giornalista e il direttore responsabile. Lo ha stabilito la Corte costituzionale con l’ordinanza n.37 depositata oggi (relatore Francesco Viganò) dichiarando ammissibile la richiesta di intervento dell’Ordine nel giudizio di costituzionalità sulle norme che puniscono con il carcere il reato di diffamazione a mezzo stampa. La causa sarà discussa in udienza pubblica il prossimo 21 aprile 2020. L’ordinanza ribadisce che, in base alle norme integrative sui giudizi davanti alla Corte, l’intervento del terzo deve essere giustificato da “un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in giudizio”. Tale interesse non è di per sé insito nella posizione di rappresentanza istituzionale della professione giornalistica, rivestita dal Cnog. A legittimare l’intervento del Cnog è la sua competenza a decidere sui ricorsi in materia disciplinare. La legge stabilisce infatti che le condanne penali che comportano interdizione dai pubblici uffici determinano automaticamente la cancellazione o la sospensione del giornalista dall’albo, mentre in ogni altro caso di condanna penale è previsto che il Cnog inizi l’azione disciplinare qualora il fatto offenda il decoro e la dignità professionali ovvero comprometta la reputazione del giornalista o la dignità dell’Ordine. Pertanto, da un’eventuale condanna penale del giornalista e del direttore responsabile imputati nel procedimento da cui è nata la questione di costituzionalità deriverebbero specifiche conseguenze in ordine all’avvio dell’azione disciplinare, riguardanti la sfera dei poteri del Cnog e aventi ad oggetto, “in modo diretto e immediato”, lo specifico rapporto giuridico sostanziale dedotto in quel giudizio (la pretesa punitiva statale nei confronti degli imputati). Estinzione del reato più snella. Se non si può pagare basta il lavoro di pubblica utilità di Stefano Loconte Italia Oggi, 2 marzo 2020 I chiarimenti della Corte di cassazione sull’applicabilità della messa alla prova. In materia di reati tributari, per essere ammessi all’istituto processuale della messa alla prova, non è necessario ed automatico aver risarcito il danno e dunque avere estinto il debito tributario: è quanto ha statuito la Corte di cassazione con la sentenza n. 3179 depositata il 27 gennaio scorso, prospettando così ai contribuenti che si trovano coinvolti in un procedimento penale per evasione la possibilità di estinguere il reato pur senza pagare il debito. Il caso. Una contribuente era imputata per il reato di omessa presentazione della dichiarazione ai sensi dell’art. 5, Dlgs 74/2000. Nel corso del procedimento penale, la stessa chiedeva di essere ammessa all’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova di cui all’art. 168-bis c.p. Il Tribunale concedeva l’istituto, subordinandolo però alla integrale estinzione del debito tributario, così come era stato quantificato dall’agente della riscossione. L’imputata ricorreva, pertanto, in Cassazione, lamentando come i giudici avessero erroneamente previsto l’estinzione del debito tributario quale condicio sine qua non per accedere alla suddetta procedura, senza peraltro aver acquisito il preventivo consenso dell’interessata, che sarebbe stato al contrario necessario trattandosi di una modifica del programma di trattamento. Inoltre, evidenziava violazione della norma di cui all’art. 168-bis c.p., comma 2, che postula il risarcimento del danno “ove possibile”, mentre l’ordinanza impugnata non aveva tenuto conto dell’ammissione dell’imputata al patrocinio a spese dello Stato, così omettendo di effettuare alcuna analisi o ponderazione della situazione economica della stessa, e negandole a priori la sospensione del procedimento con messa alla prova laddove invece la mancata effettuazione integrale del pagamento non poteva avere carattere di per sé ostativo. La normativa. L’istituto oggetto della sentenza, ovvero la sospensione del processo con messa alla prova, è stato introdotto nel nostro ordinamento dalla legge n. 67/2014. Si tratta, in sintesi, di una modalità alternativa di definizione del processo, attivabile sin dalla fase delle indagini preliminari, mediante la quale è possibile pervenire ad una pronuncia di proscioglimento per estinzione del reato, laddove il periodo di prova cui acceda l’indagato/imputato, ammesso dal giudice in presenza di determinati presupposti normativi, si concluda con esito positivo. Specificamente, la sospensione del procedimento con messa alla prova non è applicabile a tutti i reati, ma solo a quelli meno gravi, quali quelli puniti con la sola pena pecuniaria, nonché con la reclusione fi no a quattro anni. Inoltre, può essere concessa alla stessa persona una sola volta: quindi nel caso di commissione di un nuovo reato l’imputato non potrà più chiederla, anche se la prima volta la messa prova è stata revocata o ha avuto esito negativo. Analogamente, non può essere concessa a chi sia stato dichiarato delinquente abituale, per professione o per tendenza. Per ottenere il beneficio l’imputato deve rivolgersi all’Ufficio per l’esecuzione penale esterna (Uepe) territorialmente competente, chiedendo l’elaborazione di un programma di trattamento a cui l’imputato deve attenersi. La messa alla prova comporta in particolare la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato; la concessione è altresì subordinata all’affidamento dell’imputato al servizio sociale, e alla prestazione di lavoro di pubblica utilità, consistente in una prestazione non retribuita, affidata tenendo conto anche delle specifiche professionalità e attitudini lavorative dell’imputato, di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi. Come anticipato, l’esito positivo della prova comporta l’estinzione del reato, mentre quello negativo per grave e reiterata trasgressione del programma di trattamento o delle prescrizioni, per il rifiuto opposto alla prestazione del lavoro di pubblica utilità, per la commissione durante il periodo di prova di un nuovo delitto non colposo o di un reato della stessa indole di quello per cui si procede, implica che il giudice con ordinanza disponga la revoca e la ripresa del procedimento. Con particolare riferimento alla fattispecie di reato in esame, il limite edittale di quattro anni ha fatto sì che l’istituto si applicasse anche ad alcuni reati tributari previsti dal Dlgs 74/2000, anche se il novero ora si è ridotto drasticamente. Infatti, alla luce del dl 124/2019 al sistema penal-tributario, caratterizzato da un inasprimento del trattamento sanzionatorio per la maggior parte delle fattispecie, l’istituto, a partire dal 25 dicembre 2019, data di entrata in vigore della legge di conversione 157/2019, può applicarsi solo ai reati di omesso versamento di ritenute o Iva, indebita compensazione con crediti non spettanti e sottrazione fraudolenta per un ammontare complessivo non superiore a 200 mila euro. Prima delle modifiche apportate dal predetto decreto, vi rientravano anche l’infedele e l’omessa dichiarazione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, ma l’innalzamento del massimo edittale di pena rispettivamente a 4 anni e sei mesi e 5 anni di reclusione ne comporta l’esclusione, con la conseguenza che sarà possibile beneficiare della messa alla prova solo se i suddetti reati siano stati commessi anteriormente alla entrata in vigore della riforma. La decisione. La Corte di cassazione, con la sentenza n. 3179/2020, ha accolto il ricorso della contribuente. La Suprema corte ricorda, anzitutto, che in tema di sospensione del procedimento con messa alla prova, è illegittimo il provvedimento con cui il giudice modifichi il programma di trattamento elaborato ai sensi dell’art. 464-bis, comma 2, c.p.p., in difetto della previa consultazione delle parti e del consenso dell’imputato. Inoltre, poiché la lettera della norma prevede, ai fi ni della messa alla prova, il risarcimento del danno solo “ove possibile”, va esclusa l’automatica subordinazione dell’accesso alla procedura al ristoro del danno. Peraltro, nel caso degli illeciti fi scali, tale risarcimento è rappresentato dalla restituzione del debito erariale, con la conseguenza che il giudice non può pretendere automaticamente il pagamento per beneficiare dell’istituto; bensì nel caso di specie avrebbe dovuto procedere nel rispetto del suddetto art. 464-bis c.p.p., secondo cui al fine di decidere sulla concessione, nonché ai fini della determinazione degli obblighi e delle prescrizioni cui eventualmente subordinarla, il giudice può acquisire tutte le ulteriori informazioni ritenute necessarie in relazione alle condizioni di vita personale, familiare, sociale ed economica dell’imputato. Da qui l’accoglimento del ricorso, con annullamento dell’ordinanza impugnata e rinvio al Tribunale per nuovo giudizio. Incidente stradale: respinta la tesi del malore se mancano elementi concreti che la provano di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2020 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 30 gennaio 2020 n. 3899. Nel processo penale, l’imputato, pur non gravando su di lui un onere probatorio, ha tuttavia un onere di allegazione, in virtù del quale egli è peraltro tenuto a fornire all’ufficio le indicazioni e gli elementi necessari all’accertamento di fatti e circostanze ignoti che siano idonei - beninteso, ove riscontrati - a volgere il giudizio in suo favore. Lo ha stabilito la Cassazione penale con la sentenza 30 gennaio 2020 n. 3899. Un’affermazione resa in una vicenda in cui l’imputato, condannato per il reato di omicidio colposo conseguente a incidente stradale, aveva evocato a sua difesa, il tema del malore. Secondo la Cassazione, quindi, in tema di omicidio colposo determinato dalla perdita di controllo di un autoveicolo, nel caso in cui venga prospettata dalla difesa dell’imputato la tesi del malore, il giudice di merito può correttamente disattenderla qualora manchino elementi concreti capaci di renderla plausibile, specie laddove per converso siano presenti elementi idonei a far ritenere che la perdita di controllo del veicolo sia stata determinata da un altro fattore non imprevedibile, che avrebbe dovuto indurre il conducente a desistere dalla guida. In tema, più in generale, sul tema della distribuzione degli oneri probatori sull’essersi verificato un malore improvviso, è pacifica l’affermazione secondo cui non è sufficiente che tale situazione venga dedotta perché il giudice sia tenuto a svolgere accertamenti complessi sulle effettive condizioni psicofisiche dell’imputato al momento del fatto. Infatti, in mancanza di allegazione di elementi precisi e specifici e in presenza di risultanze inequivoche confortanti la colpevolezza, deve presumersi che la condotta del soggetto, normalmente capace, sia riferibile a un’azione cosciente e volontaria e, quindi, liberamente determinata. Ne deriva che il giudice ben può respingere la tesi difensiva del malore improvviso laddove manchino elementi concreti capaci di renderla plausibile (ad esempio, l’età e le condizioni psicofisiche dell’imputato), specie se, per converso, emergano elementi idonei a far ritenere che la perdita del controllo del veicolo è stata determinata da altro fattore non imprevedibile (improvviso colpo di sonno) (in termini, cfr. Cassazione, sezione IV, 12 giugno 1991, Esposti; nonché, sezione IV, 30 ottobre 2001, Bonanno; sezione IV, 20 maggio 2004, Oddo). Droghe: niente lieve entità con elementi non conciliabili con la fattispecie attenuata di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2020 Cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 14 febbraio 2020 n. 5927. Ai fini del riconoscimento o dell’esclusione del fatto di lieve entità ex articolo 73, comma 5, del Dpr n. 309 del 1990, è necessaria la valutazione complessiva degli indici elencati dalla disposizione. Solo poi all’esito della “valutazione globale” di tutti gli indici che determinano il profilo tipico del fatto di lieve entità, è poi possibile che uno di essi assuma in concreto valore assorbente e cioè che la sua intrinseca espressività sia tale da non poter essere compensata da quella di segno eventualmente opposto di uno o più degli altri (come argomentato dalle sezioni Unite, 27 settembre 2018, Murolo). A tal riguardo, prosegue la sentenza 14 febbraio 2020 n. 5927, non è revocabile in dubbio che lo svolgimento dell’attività di spaccio in forma organizzata non sia di per sé ostativo alla qualificazione del fatto come di lieve entità, giusta l’espressa previsione dell’articolo 74, comma 6, del Dpr n. 309 del 1990, nella parte in cui riconosce (e sanziona con una pena più mite) la figura dell’associazione finalizzata al narcotraffico di lieve entità. Ciò nondimeno, tale assunto è valevole solo allorché si tratti comunque di un’attività di spaccio che sia suscettibile di essere ricondotta nell’alveo dell’ipotesi meno grave, alla luce dei parametri fissati al comma 5 del citato articolo 73 unitariamente valutati secondo le indicazioni delle sezioni Unite. Proprio da queste premesse, la Corte ha ritenuto corretto il diniego del fatto lieve motivato non solo in ragione della professionalità e della sistematicità dello spaccio - in effetti astrattamente compatibili con l’ipotesi lieve - ma ponendo soprattutto in risalto una serie di elementi non irragionevolmente considerati non conciliabili con la fattispecie attenuata: l’uso di un apposito locale destinato all’attività di spaccio; il rinvenimento di materiale atto al confezionamento della droga; la presenza di cosiddetti “pizzini” con l’annotazione della contabilità della clientela e dei relativi numeri di telefono; la contestuale detenzione di materiale drogante di diverso tipo; e, soprattutto, il rilevante dato ponderale delle sostanze detenute a fini di spaccio; elementi tutti deponenti per un rischio elevato di diffusività delle sostanze stupefacenti. La giurisprudenza è consolidata nel ritenere che fattispecie di cui all’articolo 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990 n. 309 richiede una valutazione complessiva di tutti i parametri richiamati dalla norma stessa (mezzi, modalità, circostanze dell’azione, quantità e qualità della sostanza), nessuno escluso, sì da giustificare il riconoscimento dell’ipotesi attenuata soltanto quando gli stessi depongano nel senso di un fatto di lieve entità; con la speculare conseguenza per cui, di contro, è sufficiente che uno solo dei canoni citati ecceda questo limite per giustificare il diniego dell’ipotesi di reato di minore gravità (tra le tante, sezione III, 4 dicembre 2014, M. e altro, nella specie, la Corte, accogliendo il ricorso del procuratore generale, ha ritenuto immotivata la qualificazione del fatto come lieve operata dal giudice di merito, che, a tal fine, aveva impropriamente proceduto a un frazionamento della condotta - detenzione di cocaina e marijuana - non consentito alla luce della contestualità spazio-temporale che aveva caratterizzato la detenzione delle sostanze, valorizzando solo il quantitativo di una delle due; nonché, sezione VI, 6 dicembre 2018, Izzo, laddove si è precisato che, nell’ambito di questa valutazione complessiva della vicenda, anche la condotta del reo successiva al fatto di reato - nella specie, il perdurante svolgimento dell’attività illecita pur in costanza di arresti domiciliari - può legittimamente essere valorizzata dal giudice, all’interno della valutazione globale e unitaria del fatto, giacché tale dato rientra a pieno titolo tra le “modalità e circostanze dell’azione”, cui fa espresso riferimento il citato comma 5, se e in quanto è in grado di rivelare l’inserimento del reo all’interno di una rete commerciale, sia di clienti che di fornitori, significativamente vasta e stabile; sezione IV, 8 novembre 2019, Huayanay, che, proprio in ragione della ravvisata necessità di un apprezzamento congiunto dei parametri di riferimento normativo, nella specie ha annullato il diniego del riconoscimento del fatto di lieve entità, siccome inadeguatamente motivato solo sul numero delle dosi detenuto - neppure 40 - e sul luogo ove l’imputato si era recato per spacciare, senza alcun accenno al grado di purezza e di capacità drogante dello stupefacente, derivando per l’effetto arbitraria la ritenuta collocazione dell’imputato in un ambiente criminale). Va ricordato che la sentenza delle sezioni Unite, 27 settembre 2018, Murolo, citata dalla sentenza massimata, ha avuto occasione di affermare che la diversità di sostanze stupefacenti oggetto della condotta non è di per sé ostativa alla configurabilità del reato di cui all’articolo 73, comma 5, del Dpr n. 309 del 1990, in quanto è necessario procedere a una “valutazione complessiva” degli elementi della fattispecie concreta selezionati in relazione a tutti gli indici sintomatici previsti dalla suddetta disposizione al fine di determinare la lieve entità del fatto: è in esito a tale apprezzamento complessivo che la diversità delle sostanze oggetto della condotta sarà considerata, nello specifico, ai fini della qualificazione del fatto come di lieve entità o no, tenendo conto che la detenzione di sostanze diverse non può essere a priori definita sempre come espressione di un più significativo inserimento dell’agente nell’ambiente criminale dedito al traffico di stupefacenti - e quindi di un fatto non lieve - giacché, al contrario, l’esperienza giudiziaria esprime casi in cui il possesso contestuale di differenti tipi di stupefacente è aspetto sostanzialmente neutro, come, ad esempio, quando i quantitativi detenuti risultino essere assai modesti ovvero la condotta dell’agente risulti per altro verso meramente occasionale. La procedura di audizione del minore vittima di abuso sessuale. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2020 Giudizio - Istruzione dibattimentale - Esame dei testimoni - Minorenne - Consulente o perito - Esame del minore - Inosservanza delle prescrizioni della “carta di noto” - Conseguenze - Nullità o inutilizzabilità delle dichiarazioni raccolte - Esclusione. In tema di testimonianza del minore vittima di violenza sessuale, l’inosservanza dei protocolli prescritti dalla cosiddetta “Carta di Noto” nella conduzione dell’esame non determina alcuna nullità o inutilizzabilità, né è, di per sé, ragione di inattendibilità delle dichiarazioni raccolte, pur quando l’esame sia condotto dal consulente o dal perito in sede di consulenza o perizia. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 14 febbraio 2020 n. 5915. Giudizio - Istruzione dibattimentale - Esame dei testimoni - Minorenne - Esame del minore - Inosservanza delle prescrizioni della Carta di noto - Nullità o inutilizzabilità - Esclusione. In tema di esame testimoniale, non determina nullità o inutilizzabilità della prova l’inosservanza dei criteri dettati dalla cosiddetta “Carta di Noto” nella conduzione dell’esame dei minori, persone offese di reati di natura sessuale, che hanno carattere non tassativo, in quanto si limitano a fornire suggerimenti volti a garantire l’attendibilità delle dichiarazioni del minore e la protezione psicologica dello stesso. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 10 aprile 2019 n. 15737. Giudizio - Istruzione dibattimentale - Esame dei testimoni - Minorenne - Esame del minore - Inosservanza delle linee guide della “Carta di noto” - Conseguenze - Individuazione. In tema di testimonianza del minore vittima di abusi sessuali, il giudice non è vincolato, nell’assunzione e valutazione della prova, al rispetto delle metodiche suggerite dalla cd. “Carta di Noto”, salvo che non siano già trasfuse in disposizioni del codice di rito con relativa disciplina degli effetti in caso di inosservanza, di modo che la loro violazione non comporta l’inutilizzabilità della prova così assunta; tuttavia, il giudice è tenuto a motivare perché, secondo il suo libero ma non arbitrario convincimento, ritenga comunque attendibile la prova dichiarativa assunta in violazione di tali metodiche, dovendo adempiere a un onere motivazionale sul punto tanto più stringente quanto più grave sia stato, anche alla luce delle eccezioni difensive, lo scostamento dalle citate linee guida. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 9 gennaio 2017 n. 648. Giudizio - Istruzione dibattimentale - Esame dei testimoni - Minorenne - Esame del minore - Inosservanza delle linee guide della “Carta di Noto” - Conseguenze - Individuazione. In tema di testimonianza del minore vittima di abusi sessuali, le dichiarazioni - acquisite in violazione delle linee guida della cosiddetta “Carta di Noto” - nella parte in cui queste ultime non risultano già trasfuse in disposizioni del codice di rito con conseguente disciplina degli effetti derivanti dallo loro inosservanza non sono inutilizzabili, ma in relazione a esse il giudice ha l’obbligo di motivare perché egli ritiene attendibile la prova assunta con modalità non rispettosa delle cautele e metodologie previste nell’indicato documento. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 25 settembre 2014 n. 39411. Toscana. Carceri, ritarda la nomina del nuovo Garante dei detenuti di Laura Montanari La Repubblica, 2 marzo 2020 Franco Corleone digiuna per protesta. Tra i nomi in campo deciderà il Consiglio regionale. “Bisogna fare in fretta a nominare il mio successore”. Dice e intanto lui comincia da oggi uno sciopero della fame di tre giorni. Franco Corleone è l’ultimo garante regionale per i diritti dei detenuti, il suo mandato è scaduto lo scorso 26 ottobre. Poi è stato prorogato per altri novanta giorni. Ma è finita anche la proroga e da un mese quel ruolo è vacante. “La Regione proceda in fretta alla nomina, nelle carceri ci sono tanti problemi da affrontare (a cominciare dal sovraffollamento) e la figura del garante è decisiva” dice ancora Corleone. La commissione Affari istituzionali si riunirà proprio fra tre giorni, mercoledì per selezionare una cerchia ristretta di nomi di uno o due nomi da sottoporre al consiglio che dovrebbe decidere il 10 o l’11 marzo. Poi provvederà alla nomina. I giochi sono aperti. Fra i candidati in corsa c’è Giuseppe Fanfani, ex sindaco di Arezzo (per due mandati), avvocato, ex deputato Dem ed ex componente laico del Consiglio superiore della magistratura. In corsa anche Francesco Ceraudo, pioniere della medicina penitenziaria, ha diretto per diversi anni il Centro clinico del carcere Don Bosco di Pisa, è autore del libro “Uomini come bestie” (Edizioni Ets) proprio sulla condizione negli istituti di pena. Altri candidati sono Emilio Santoro, docente universitario, ordinario di Filosofia del diritto e diritto degli stranieri all’università di Firenze e tra i fondatori dell’Altro Diritto, Saverio Migliori altro docente universitario, responsabile dell’area carcere e giustizia per la Fondazione Michelucci e Roberto Bocchieri, medico, esperto di psichiatria, si è a lungo occupato di questioni legate alla salute in carcere, è stato il responsabile del progetto speciale Sollicciano e Gozzini per la Regione Toscana. Sul ritardo della Regione in merito alla nomina del successore di Franco Corleone interviene Eros Cruccolini, garante per i diritti dei detenuti del Comune di Firenze: “Il Consiglio regionale sciolga al più presto il nodo della nomina essendo ormai scaduto il mandato di Corleone e non potendo ancora permanere questa incomprensibile vacanza”. Uno stallo che potrebbe nascondere divisioni politiche sul nome a cui affidare l’incarico. “I tempi si stanno oltremodo dilungando e mi sembra paradossale che non si riesca a trovare un percorso condiviso per questa necessaria nomina - riprende Eros Cruccolini - per cui chiedo pubblicamente di evitare dispute territoriali o candidature di bandiera e si trovi un percorso politico che sia condiviso all’interno della maggioranza auspicando un dialogo costruttivo tra Pd ed Italia Viva e trovando magari anche altre convergenze nell’ambito della sinistra o comunque con chi esprima sensibilità in proposito”. Secondo Cruccolini la partita sarebbe ristretta a tre nomi: “in ordine alfabetico, Bocchieri, Ceraudo e Fanfani ciascuno con specifica competenza e storia curriculare per cui, visto che andiamo verso nuove elezioni e abbiamo bisogno di coesione e condivisione su percorsi unitari, mi auguro che si riesca a mettere in pratica questi propositi”. Corleone ha spiegato ieri che “Nessuno in Regione mi ha chiesto un consiglio o una valutazione per la scelta tra i candidati. Mi auguro - aggiunge - che la preferenza vada a chi garantisca un impegno totale per la difesa dei diritti e della dignità delle persone private della libertà secondo i principi della Costituzione”. Toscana. Sulla nomina del Garante dei detenuti di William Frediani* Ristretti Orizzonti, 2 marzo 2020 La carica dei Garante dei detenuti è vacante in Toscana dall’ottobre dello scorso anno. Trovo paradossale che questo si stia verificando nella regione che, per prima in Italia, ha abolito la condanna a morte e si è dimostrata sempre aperta a una visione umana della pena. Ho scritto un libro sulla vita quotidiana in carcere, che ho ancora inciso sulla pelle e nell’anima, ho tenuto seminari e conferenze in scuole e università italiane e, in tutto il lavoro di ricerca e di confronto, è sempre emerso il lato più oscuro del sistema penitenziario: la sua auto-referenzialità, il suo rigore punitivo privato, la mancanza di un organo che rappresenti - per statuto - i prigionieri e li tuteli dalle storture istituzionali. La figura del Garante è estremamente importante e la notizia che la sua nomina possa essere sospesa per ragioni di palazzo e spartizioni partitiche “all’italiana” crea angoscia e timori fondati di politiche perniciose nei confronti della popolazione carceraria. Auspico, dunque, che si possa trovare una soluzione a questo vuoto preoccupante nel minor tempo possibile, senza aspettare i risultati della tornata elettorale che vedrà impegnata la Toscana nelle prossime settimane; che si agisca nell’interesse degli “ultimi”, dei reclusi, degli internati di ogni colore, estromessi dalla civiltà e privati d’ogni rappresentanza e d’ogni parvenza di cittadinanza. Al di là della scelta che verrà fatta, mi auguro che il nuovo Garante sia una persona con curriculum prestigioso, un provato difensore sincero dei diritti dei prigionieri; sincero perché li conosce, perché per anni e anni è stato al loro fianco. Una persona con una visione aperta e civile che contempli l’idea di una pena che garantisca una salute psico-fisica ai detenuti almeno parificata a quella degli altri esseri umani in libertà. Sarebbe, questa, una “rivoluzione copernicana” della solidarietà. Auspico, inoltre, che sia una persona accettata dai prigionieri, una persona di cui si possano fidare. E non trovo assurda o lesiva delle libertà democratiche l’idea che i detenuti vengano ascoltati prima di effettuare la nomina. Mi viene addirittura l’insana idea che il Garante dovrebbe essere eletto dai detenuti a loro tutela, esattamente come fu per i Tribuni della plebe o i Capitani del Popolo. Inizialmente cariche non ufficiali, poi inserite a tutti gli effetti negli ordinamenti costituzionali in cui operavano. Mi domando se la Repubblica romana avrebbe avuto una storia così gloriosa senza i Tribuni della plebe, o se il Comune medievale sarebbe stato tanto importante senza il Capitano del Popolo, eletto per contrastare le angherie del potere sulla cittadinanza. Ma questa è solo un’utopia, per il momento. Certo è che dovremmo augurarci che il nuovo Garante sia una persona che trovi largo consenso nelle celle. La consultazione dei prigionieri alla scelta del Garante sarebbe, oltretutto, un’opera di partecipazione alla vita “istituzionale” rientrante in quell’azione di “recupero” che la società dovrebbe promuovere. Sia nominato il Garante, dunque, senza interessi di parte o spartizione di poltrone. Non una persona estranea al mondo della prigione, ma una che conosca l’odore di polvere, sigarette e cemento delle celle, che sappia quanto distruttivo è il rumore delle serrature di acciaio, che abbia assaggiato il rancio immangiabile del vitto, che abbia visto gli effetti devastanti della deprivazione sensoriale e affettiva, che sia perfettamente conscia della tortura ambientale che si riproduce ogni giorno sui corpi e nei cervelli. Una persona che abbia conosciuto il carcere umanamente e professionalmente. Se mi si chiedesse di scegliere un nome tra i candidati, non avrei dubbi: Francesco Ceraudo. *Autore di “Un universo di acciaio e cemento”, Sensibili alle Foglie, 2018 Napoli. Tentativo di rapina al carabiniere che reagisce sparando: morto 15enne di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 2 marzo 2020 Arrestato il complice 17enne. Rivolta contro la caserma. Un tentativo di rapina in via Orsini a Santa Lucia con una pistola finta ai danni di un carabiniere fuori dal servizio che ha reagito sparando con la sua pistola d’ordinanza. Questa la dinamica della morte di un ragazzo di 15 anni, Ugo Russo, stanotte a Napoli. Il carabiniere, un 23enne di stanza a Bologna, avrebbe sparato dopo aver udito lo scarrellamento della pistola mentre era in auto con la sua fidanzata. La pistola finta (che era uguale al modello Beretta 92) gli sarebbe stata puntata alla tempia dal giovane malvivente con il volto travisato con scalda-collo e casco, nel tentativo di impadronirsi di un prezioso Rolex. Nel corso della notte si è costituito un minorenne. Non è chiaro quale sia stato il ruolo del ragazzino ucciso. Si indaga su ambienti malavitosi legati agli ambienti del Pallonetto e dei Quartieri Spagnoli. Ne è seguita una domenica mattina da far west. Ben quattro i colpi di pistola esplosi alle 4 del mattino all’esterno della caserma Pastrengo, sede del comando provinciale dei carabinieri a Napoli, subito dopo la morte del 16enne. Sono stati avvistati due ragazzi in sella a uno scooter che hanno esploso i colpi in aria all’esterno della Pastrengo, all’interno della caserma dei carabinieri dove erano state portate alcune donne parenti del presunto complice del minorenne. Gli spari potrebbero essere stati esplosi come manifestazione di violenza contro l’Arma, ma anche e soprattutto contro le donne dell’altro ragazzino invischiato nella rapina, ritenendolo responsabile di non aver protetto il 15enne. Intanto risulta incensurato e non risulta legato agli ambienti della malavita il 17enne arrestato con l’accusa di rapina dai carabinieri che indagano sulla morte di Russo. Il ragazzo, complice della vittima, era in sella allo scooter che ha avvicinato l’auto guidata dal carabiniere che ha fatto fuoco per tre volte, terrorizzato dalla pistola puntata alla tempia. La dinamica del ferimento di Ugo Russo, inoltre, è simile, secondo le fonti investigative, a quella dell’uccisione, il 13 aprile scorso, di Vincenzo Carlo Di Gennaro, il 46enne maresciallo maggiore dei Carabinieri ucciso a colpi di pistola da Giuseppe Papantuono durante un controllo a Cagnano Varano in provincia di Foggia. Il 67enne, già noto alle forze dell’ordine, fece fuoco contro il vicecomandante della stazione locale dei carabinieri dopo essersi avvicinato all’auto di servizio dove la vittima si trovava insieme al collega 23enne Pasquale Casertano per una segnalazione di lite in famiglia. Napoli. “Emergenza baby gang, reati fuori controllo” di Luigi Roano Il Mattino, 2 marzo 2020 Baby gang, se ne parla tanto, ma si fa poco. Questo il senso di una giornata di lutto perché quando un ragazzino di 15 anni muore non si può che essere in lutto. Ad aggiungere fuoco sulla benzina la furia distruttrice dei conoscenti della vittima che hanno devastato il pronto soccorso del Vecchio Pellegrini facendo riemergere un problema serissimo: l’aggressione a medici e infermieri. I politici si scuotono, ognuno propone la sua ricetta e interroga il Viminale dove il ministro Luciana Lamorgese riflette sul da farsi. Al riguardo a far sentire la voce dello Stato è il prefetto Marco Valentini. Che ha contattato i dirigenti dell’Asl Napoli 1 e assicura “l’espletamento di adeguati servizi di vigilanza, che sono stati immediatamente disposti, l’intensificazione dei servizi di controllo del territorio e di vigilanza ad obiettivi sensibili”. Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini aspetta delucidazioni sulla dinamica dei fatti e nel frattempo fa il punto della situazione: “La perdita di una giovane vita è sempre un tragico evento. Sulla valutazione dell’episodio non posso che affidarmi alla scrupolosità e alla diligenza con cui, come sempre, l’Arma dei Carabinieri e l’Autorità Giudiziaria condurranno le necessarie indagini”. Il ministro - tuttavia - è molto colpito dagli spari esplosi all’esterno della Pastrengo e dalla devastazione del pronto soccorso: “Devo però stigmatizzare - conclude - l’assoluta gravità degli atti di devastazione commessi al pronto soccorso e di intimidazione perpetrati nei pressi del Comando Provinciale dell’Arma. Sono vicino ai Carabinieri di Napoli così come ai medici e ai sanitari del Vecchio Pellegrini”. Il senso di tutta questa vicenda è che a Napoli l’emergenza criminalità - che coinvolge anche i minorenni - è nota per questo non è un caso il sindaco Luigi de Magistris e il presidente della Regione Vincenzo De Luca sono stati tra i primissimi a chiedere interventi dello Stato. Il governatore è stato al Pellegrini e invoca iniziative da parte dello Stato: “Esiste un problema di violenza diffusa - racconta - senza che nessuno sia chiamato a risponderne. Non si possono non richiamare tutte le articolazioni dello Stato a produrre iniziative concrete per porre termine a questi episodi”. Probabilmente il governatore si riferisce alla questione dell’abbassamento dell’età per la punibilità. Poi una sottolineatura polemica: “Chiediamo formalmente l’istituzione di un posto di polizia nel presidio, come già fatto senza ottenere risposta da un anno e mezzo, per l’ospedale San Giovanni Bosco”. De Magistris pone l’accento pure lui sulla sicurezza dei nosocomi: “La morte di un quindicenne è sempre una tragedia. Ma è inaccettabile che sia stato devastato il pronto soccorso. Medici e infermieri devono lavorare in serenità per poter curare pazienti in emergenza”. Sul fronte della politica la tragica vicenda napoletana assume sfumature diverse. Per Mara Carfagna, consigliera comunale di Fi e vicepresidente della Camera “la situazione dell’ordine pubblico a Napoli è fuori controllo. Troppi ragazzi senza speranza cadono nelle mani della criminalità. Probabilmente il carabiniere si è difeso, ma questo non cancella il dolore per una giovane vita spezzata”. Il leader della Lega Matteo Salvini invece si schiera subito: “Quando muore un ragazzo è sempre un dramma, ma nessuno può attaccare un Carabiniere che, aggredito, ha reagito per difendere la sua vita e la sua fidanzata. In pochi Paesi scene così”. Il parlamentare napoletano del M5S Alessandro Amitrano si rivolge al Governo cioè al suo Movimento: “Lancio un appello al Governo: vari subito un piano integrato per contrastare il crimine e prevenire la devianza giovanile a Napoli. Lo Stato deve essere più presente ed efficiente in città”. Giorgia Meloni la leader di Fdi rispolvera la ricetta storica della destra: “È emergenza sicurezza a Napoli. Serve l’Esercito e una legge speciale”. Graziella Pagano segretario regionale di Iv rompe gli indugi nel centrosinistra: “Bisogna fermare questa deriva “sudamericana” della città. Occorre ripristinare l’ordine e la legalità. Non si tratta di rincorrere la destra su questi temi, ma ribadire che il diritto alla sicurezza non ha bandiere di partito. È solo buon senso”. l Pd napoletano con il segretario Marco Sarracino, il presidente Paolo Mancuso, l’ex magistrato Aldo De Chiara e il parlamentare Paolo Siani, ha chiesto un incontro al Prefetto: “È necessario avere delucidazioni sull’accaduto e tracciare una linea comune per contrastare il fenomeno delle baby gang, accelerare il recupero scolastico e sociale dei ragazzi affinché possano avere opportunità nella loro vita”. Per Tommaso Delli Paoli segretario nazionale degli operatori di Polizia “La morte di un ragazzo di 15 anni a seguito di un tentativo di rapina a danno di un giovane Carabiniere sta a dimostrare che la microcriminalità continua a generare paura e insicurezza”. Napoli. Gangsterismo di massa: caso nazionale di Adolfo Scotto di Luzio Il Mattino, 2 marzo 2020 La stessa città che pochi giorni fa ha ospitato il vertice tra il capo del governo italiano Giuseppe Conte e il presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron è diventata nel giro di poche ore la scena di una catena di episodi che ha dell’incredibile. A poca distanza dalla sede della Regione Campania, un ragazzo di sedici anni ha provato a rapinare a volto coperto un carabiniere in borghese e fuori servizio puntandogli, secondo le prime ricostruzioni degli inquirenti, una pistola in faccia. L’uomo ha risposto sparandogli alla testa e al torace. Decine e decine di persone hanno preso d’assalto l’ospedale vecchio Pellegrini nel cuore di Napoli dove era stato portato in fin di vita il giovane e che sta a pochi metri in linea d’aria dalla Questura e dal comando provinciale dell’Arma - e da quel bar dove una foto che ha fatto il giro del mondo ha immortalato i due politici davanti a caffè e brioches. Il pronto soccorso è stato completamente devastato, i danni ammontano a centinaia di migliaia di euro, medici e infermieri colpiti da una furia scatenata da un gruppo pare molto esteso di parenti e amici della vittima. La mattina dopo, per i danni riportati, il Pronto soccorso è stato chiuso, per essere riaperto solo in serata. Negli stessi momenti due persone a bordo di uno scooter hanno inscenato un rodeo intimidatorio davanti alla caserma Pastrengo, sparando in aria colpi di pistola che erano rivolti non solo contro i carabinieri ma, con molta probabilità, contro i parenti di uno dei complici, un ragazzo costituitosi nella notte, che venivano ascoltati in quel momento dai soldati dell’Arma. Per chi conosce Napoli tutto è accaduto nel perimetro di pochi isolati: non ai margini di una periferia degradata, bensì nel cuore di una città fitta di vita popolare e di istituzioni. Ecco, io credo che non esista oggi in Europa un’altra città in cui accadano cose del genere. Siamo di fronte ad un’eccezione napoletana che chiede di essere compresa nelle sue diverse componenti. Un’eccezione che è maturata nel quadro di un crescente abbandono, di una vera e propria scomparsa in questi anni di Napoli dai radar della coscienza civile del nostro Paese. La prima questione è, naturalmente, la giovane età del ragazzo ucciso, sulle circostanze della cui morte è in corso in queste ore un’indagine e che solo la magistratura potrà accertare. Da molto tempo, tuttavia, Napoli assiste a fenomeni delinquenziali gravissimi che coinvolgono adolescenti e spesso poco più che bambini. Almeno dalla metà degli anni Ottanta, quando, secondo l’allora ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro, nel capoluogo partenopeo era ben riconoscibile, accanto alla criminalità organizzata vera e propria, un allarmante fenomeno di “gangsterismo minorile” (così si esprimeva allora il ministro, non disponendo ancora della formula poi ampiamente divulgata di baby gang). Un filo rosso arriva da lì fino ai giorni nostri, alle cosiddette “stese”, alle molte tragiche aggressioni di cui altri adolescenti sono state le vittime indifese: da Arturo a Gaetano, il quindicenne pestato a sangue all’uscita della metropolitana di Chiaiano, per citare solo alcuni degli episodi che più di altri hanno impressionato in questi anni l’opinione pubblica. In tutti questi casi gli attori della violenza criminale occupano una posizione giuridicamente ambigua, legata esplicitamente all’età anagrafica dei delinquenti, che mette in scacco non solo l’ordinamento, con le sue categorie di imputabilità e maturità psichica, ma l’intero apparato socio-educativo che proprio l’estrema difficoltà di trattare questi soggetti con gli strumenti del diritto penale chiama in causa. Sul terreno dell’eccezione napoletana, la giustizia non ha mani adeguate per intervenire, ma l’idea di non delegare ad essa i temi della delinquenza minorile, attraverso approcci di carattere sostitutivo (punti di ascolto, centri polivalenti, inclusione sociale), non ha prodotto nessun risultato socialmente apprezzabile. C’è un limite irriducibile che la città oppone tenacemente a qualsiasi tentativo di trattamento in senso moderno della devianza sulla base di tecniche di controllo a base psico-pedagogica. In una società come quella napoletana, che storicamente non ha conosciuto il rapporto tra lavoro salariato e capitale come principio fondamentale di organizzazione sociale, lo scarto tra i codici culturali di chi opera per il recupero e quelli dei loro destinatari è troppo ampio per non essere preso in considerazione. Questo scarto emerge con chiarezza negli episodi scatenati dalla morte del giovane rapinatore. L’assalto all’ospedale e l’incursione armata contro la caserma dei carabinieri evidenziano una capacità di mobilitazione che avviene sulla base di una struttura parentale allargata in grado di spingere decine di persone ad una violenza che le forze dell’ordine presenti sul posto non potevano in nessun modo fronteggiare. Non siamo di fronte a generiche forme di aggressione ai danni di medici, infermieri e ambulanze, ma ad un principio di mob urbano che nessuna società industriale europeo-occidentale conosce più da tempo in queste forme specifiche. Simili reti sociali sono sostanzialmente impenetrabili e vanno fronteggiate con strumenti repressivi adeguati. Questo punto è a mio avviso molto importante, perché sulla scena della criminalità napoletana non agiscono come si tende a credere di solito “ragazzini”, ma esponenti anagraficamente giovani di formazioni sociali criminali con un forte insediamento popolare. Non dobbiamo cioè fronteggiare semplicemente degli individui e i loro atti, ma gruppi sociali di natura criminale di cui i singoli tanto più se in giovane età sono la parte più esposta. E questo per ragioni che sfuggono ormai largamente alla nostra comprensione. Mi riferisco all’importanza che in certi ambienti giovanili collocati immediatamente sotto la soglia della società legale assumono “valori” generalmente estranei ad una società che al contrario si vuole pienamente acculturata, quali forza, energia, vitalità, coraggio ed ostentazione virile. Le ragioni per le quali troppo spesso questi giovani praticano la violenza, subendone il più delle volte le tragiche conseguenze, sono essenzialmente di natura morale e chiamano in causa tutto l’ambiente della loro formazione. Estirparne le radici è la questione oggi aperta del caso Napoli. Un caso, appunto e non una serie di episodi criminali. La terza città italiana e non il quartiere periferico di una metropoli. C’è un’ultima considerazione alla quale conviene prestare attenzione, vale a dire la circostanza che l’ospedale napoletano è stato assaltato nel corso di una settimana drammaticamente segnata da un’emergenza sanitaria globale. È una spia ulteriore dello scollamento profondo tra il mondo in cui è sprofondata la criminalità napoletana e il resto del mondo. Una sfasatura radicale, che dice del livello allarmante in cui sta precipitando la crisi della città. Napoli. Così rivendicano la giustizia fai da te di Francesco La Licata La Stampa, 2 marzo 2020 Scorrendo le notizie provenienti dal quartiere Santa Lucia, a Napoli, abbiamo avuto la sensazione di rivedere un film già visto più volte: un ragazzo, poco più di un bambino, che arriva in ospedale ferito da due colpi di pistola e non ce la fa. Muore prima che i medici possano fare qualcosa per salvarlo. Contemporaneamente la sala del pronto soccorso si riempie di familiari, amici e vicini di casa: donne urlanti e disperate, uomini pieni di rabbia e risentimento. Tanto risentimento rivolto verso chiunque, in quel momento, viene visto come una “controparte”: i medici perché non hanno saputo salvare il ragazzo, gli infermieri e le “divise” perché considerati un impedimento fisico all’ultimo abbraccio col proprio caro. È una scena che abbiamo vissuto tante volte durante il peregrinare tra le disgrazie: a Napoli come in Calabria o in Puglia, a Palermo e nella Sicilia dei mille delitti. La rabbia prevaleva sempre o per scaricare la frustrazione per il “danno” subìto o addirittura per strappare ciò che veniva considerato un diritto negato da una burocrazia in quel momento incomprensibile: non poter portare subito a casa il corpo su cui piangere. Quante sale mediche abbiamo visto devastare nel tentativo di evitare la permanenza in camera mortuaria di un parente morto. Si arrivava a dover fare intervenire in massa polizia e carabinieri. Eppure lì prevaleva la pietà. Qualcosa di diverso sembra essere accaduto, invece, ieri a Napoli. La devastazione del pronto soccorso dov’è morto Ugo Russo si allontana dalla collera dolorosa per imboccare la pericolosa china della quasi “rivendicazione” di un diritto alla ricerca di una giustizia fai da te. Come valutare, altrimenti, la “stesa” immediatamente messa in atto dalla malavita a Santa Lucia? I motorini che si impennano e i giovani guappi che sparano in aria passando davanti alla caserma dei carabinieri “Pastrengo” non hanno nulla a che vedere col dolore dei familiari di Ugo. Tant’è che lo stesso padre della vittima, Vincenzo, ha dovuto “chiedere scusa” per quello che è avvenuto in ospedale. Ma è proprio la reazione di Vincenzo Russo che presta il fianco ad una riflessione amara che deve andare oltre il dolore per la morte di un ragazzino. Mentre, infatti, la zia difende il nipote arrivando a sostenere - contro l’evidenza - che Ugo “aveva paura delle armi” e “non rubava”, il padre fa un ragionamento più sottile che tende a “legittimare” l’errore del figlio come una cosa da uomini: “Io non lo so perché non ero con mio figlio, ma, ammettendo che stesse facendo una rapina, è giusto che tu, carabiniere, lo uccidi?”. E, secondo il suo concetto di legalità, aggiunge: “Sparagli a una gamba o fallo scappare”. Come se il rapinatore e il carabiniere (tra l’altro un ragazzo di 23 anni) fossero attori di una “normale lite”. E, alla fine, Vincenzo Russo chiude con la consueta richiesta di giustizia, sorvolando sul fatto che la società civile ha già messo in moto l’unico sistema per cercarla, quella giustizia. Il carabiniere è stato indagato per eccesso colposo di legittima difesa e le indagini diranno se basta. Napoli. “È efficace togliere la patria potestà, ma servono risorse per i servizi sociali” di Valentino Di Giacomo Il Mattino, 2 marzo 2020 Intervista a Francesco Cananzi, Segretario nazionale di Unicost, ex componente del Csm e oggi giudice al Tribunale di Napoli. “Questa vicenda fa riflettere molto sul tasso di violenza minorile enorme che c’è in città. Certo, non si può entrare nel merito del caso perché andranno fatte tutte le verifiche da parte dell’autorità giudiziaria, solo dopo si potrà giudicare cosa sia realmente avvenuto. Intanto registriamo sicuramente una tragedia per la morte di un ragazzo di 15 anni e anche per il militare coinvolto”. Il magistrato Francesco Cananzi è consapevole che i passi da fare per evitare queste tragedie sono ancora tanti. L’ennesima morte di un ragazzino napoletano interroga le coscienze, ma soprattutto offre ancora una volta la sensazione di un fallimento dello Stato. Cosa non funziona? “La risposta non può che essere corale da parte di tutte le componenti dello Stato mettendo al centro tutti gli attori sociali. È evidente che la parola chiave per dare un segnale non può essere solo la repressione fatta da magistrati e forze dell’ordine, ma soprattutto ci vuole una grande attività di prevenzione attraverso la scuola. Bisogna fare rete per individuare queste sacche di disagio e intervenire in tempi rapidi”. Servono nuove norme o leggi speciali per Napoli di cui si torna a parlare? E ancora: l’abbassamento dell’età imputabile a 14 anni può funzionare? “Quando ero componente del Csm tenemmo un plenum straordinario proprio a Napoli per affrontare la piaga delle baby gang. Facemmo alcune proposte, come è competenza del Consiglio superiore della magistratura. Dicemmo che non serve la riduzione dell’età imputabile, ma forse può essere utile introdurre e ampliare la possibilità di arrestare i minori per alcune fattispecie di reati che oggi non sono previsti. Questo servirebbe soprattutto per superare quel senso di impunità, anche pienamente consapevole, che troppo spesso avvertono i minori sapendo di non poter essere arrestati. Chiaramente è un discorso in generale, che non riguarda il caso specifico perché non sappiamo se questo ragazzino appartenesse a una gang”. In Parlamento c’è la proposta di portare l’obbligo scolastico a 18 anni, magari tenendo di più a scuola questi ragazzini certi comportamenti possono essere corretti… “Certo, ma non serve solo far restare più tempo i ragazzi a scuola, ma è anche necessario potenziare l’istituzione scolastica e soprattutto creare una rete di comunicazione tra i vari attori sociali. In questi anni anche la magistratura minorile sta facendo tantissimo. Tra gli interventi più efficaci c’è sicuramente quello di poter togliere la potestà genitoriale per quelle mamme e i papà che non mandano i figli a scuola, ma per fare questo c’è bisogno di risorse e di investimenti soprattutto a Napoli per riuscire a dare una risposta corale da parte dello Stato a questi fenomeni”. Proprio osservando le dinamiche di familiari e amici del ragazzo resta grave la reazione di distruggere un pronto soccorso come pure quei colpi di pistola esplosi contro la caserma dei carabinieri. Come si interviene? “Reazioni di questo tipo mettono a repentaglio la sanità pubblica, tanto più in momenti di emergenza legati al coronavirus. Su questo vanno fatti interventi immediati. Una volta negli ospedali c’erano i presidi di polizia, poi per razionalizzare i costi sono stati tagliati. Servono nuove assunzioni di agenti perché non bastano interventi tampone, come l’invio di contingenti da altre parti d’Italia secondo logiche solo emergenziali”. Queste reazioni contro i beni pubblici sono dovute al fatto che tutto ciò che è Stato è vissuto come un nemico? “Può essere vero però bisogna farsi anche la domanda di come lo Stato si presenta ai cittadini. Se si presenta solo con le manette e non anche con servizi adeguati rischia di apparire come un nemico. Su questo la responsabilità è politica che deve garantire la qualità dei servizi senza dimenticare il lavoro che serve come il pane per togliere i ragazzi dai tentacoli della camorra”. Milano. A 15 anni cerca di entrare al carcere Beccaria con pistola e droga di Andrea Galli Corriere della Sera, 2 marzo 2020 Fermato assieme a due complici. Nel carcere è detenuto il fratello. “Forse un piano di evasione”. A ieri sera, il mistero permaneva. Nessuna ipotesi concreta, tranne forse un fumoso e complicato piano di evasione, per spiegare l’idea, venuta a un quindicenne e due amici, un ragazzo e una ragazza da poco maggiorenni, di cercare d’entrare in un carcere con una pistola, un tirapugni, un coltello e della droga. Il carcere è quello minorile del Beccaria dove peraltro, al netto del sovraffollamento tornato un problema, da tempo non succedevano ulteriori guai. Invece sabato ecco il terzetto in azione. Anche considerato che uno di loro, il più piccolo, originario della Moldavia, ha il fratello detenuto nello stesso penitenziario e dunque armi e sostanza stupefacente potevano a essere destinati a lui, rimane la domanda su come pensassero di accedere indisturbati. Non avevano in programma colloqui con un carcerato, fratello o non fratello, il loro arrivo non era in agenda e da subito, come è successo alle guardie del passo carraio, era plausibile ipotizzare che sarebbero stati fermati. La recita (“Siamo assistenti sociali in visita”) è parsa immediatamente una farsa: gli assistenti sociali in servizio sono pochissimi e nessuna nuova figura era attesa. Ammesso la riuscita del primo passo, quello d’accedere al Beccaria, ci sarebbero stati i successivi controlli dei visitatori, e vigendo il divieto di portarsi dentro il cellulare, figurarsi la pistola, una di quelle ad aria compressa senza copertura rossa, il tirapugni, il coltello e la sostanza stupefacente (venticinque grammi di hashish). Il quindicenne, che aveva addosso armamentario e droga, è stato arrestato. Siccome - conseguenza del coronavirus - il centro di prima accoglienza di Milano per minori con guai giudiziari è chiuso, l’adolescente è stato trasferito a Torino. Denunciati i due compari. Nessuno avrebbe collaborato con gli investigatori. Alfonso Greco, segretario lombardo del sindacato Sappe, elogia la reattività del personale, ma nemmeno lui riesce a immaginarsi una motivazione alla base del tentativo d’ingresso. È stato ascoltato anche il detenuto, il possibile destinatario del “carico”, ma allo stesso modo non avrebbe fornito elementi utili. Oristano. Le persone dopo il carcere, al via un laboratorio teatrale La Nuova Sardegna, 2 marzo 2020 Quello dei diritti civili è un tema ricorrente nell’attività divulgativa e di sensibilizzazione svolta dall’Associazione per Antonio Gramsci, attualmente impegnata con l’organizzazione di un laboratorio teatrale sulla condizione carceraria. “Cosa resta di un uomo” è il titolo del corso gratuito che il sodalizio culturale ha aperto alla partecipazione di ragazzi e adulti dai 12 ai 35 anni con l’intento di far conoscere più a fondo la dimensione in cui vive il detenuto e di mettere a fuoco le dinamiche interne agli istituti di pena che favoriscono, impediscono o rendono più problematici la riabilitazione e il riscatto sociale di chi ha scontato la condanna. “Proseguendo la riflessione riguardante i muri avviata nel ventennale della caduta del muro di Berlino - spiegano i promotori dell’iniziativa -, con il laboratorio e lo spettacolo teatrale s’intende indagare e riflettere sul senso della pena, della condizione umana fuori e dentro il carcere, sul concetto di rieducazione del detenuto e sull’efficacia del carcere in termini di reinserimento attivo della persona nella società”. Con questa esperienza, che culminerà in un saggio di recitazione, s’intende anche “Proporre il ruolo attivo del teatro sul tema dei diritti civili e come mezzo espressivo dove ciascuno trovi la propria dimensione”. Il laboratorio durerà trenta ore e sarà diretto dall’attore Paolo Floris, autore e interprete del monologo Gramsci spiegato a mia figlia e reduce da una tournée in Sardegna e in Toscana con Storia di un uomo magro, dramma sull’olocausto e sulla vita nei campi di sterminio. Le domande d’iscrizione saranno raccolte all’indirizzo di posta associazioneperantoniogramsci@gmail.com. Roma. “Ritorno a Casa Base”, il Baseball5 in carcere di Massimo Moretti baseballmania.eu, 2 marzo 2020 Nell’ultimo Consiglio Federale della Fibs è stato ratificato l’accordo con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) del Ministero della Giustizia, relativo al progetto “Ritorno a Casa Base”, nell’ambito del programma “Sport in Carcere”. Tale progetto è stato presentato alla Convention Coni di Rimini, dal presidente federale Andrea Marcon. Giova evidenziare che il progetto “Sport in carcere” è stato sviluppato in collaborazione fra il Ministero della Giustizia-Dap - e il Coni, sulla base del Protocollo d’intesa sottoscritto il 3 dicembre 2013, ed è diretto al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione carceraria attraverso la pratica e la formazione sportiva, ma soprattutto è rivolto a partecipare al percorso educativo del detenuto, quale alternativa positiva al percorso di reintegrazione del detenuto nel tessuto sociale. Il progetto “Sport in carcere” ha permesso non solo lo svolgimento di numerose attività sportive, delle discipline più diverse, ma anche la possibilità per i detenuti di apprendere le competenze necessarie a divenire insegnanti di sport (es. calcio, pallavolo, pallamano ecc.). Trattandosi di iniziative già attive esternamente, la loro estensione all’interno degli istituti penitenziari risponde al principio di non-discriminazione e serve ad abbattere quel muro che divide l’interno dall’esterno, evitando la marginalizzazione dell’individuo che comprometterebbe il suo futuro reinserimento sociale. Il referente di questo progetto in ambito Fibs è il Segretario Generale, Giampiero Curti, che ringraziamo della disponibilità. Come nasce il progetto “Ritorno a Casabase” in ambito Fibs e con quali obiettivi? Il progetto è stato avviato da tempo, ma ha avuto una accelerazione con l’avvio della disciplina del Baseball5, che consente di giocare senza utilizzare strumenti come la mazza, per i quali occorrono autorizzazioni e una particolare cautela nell’introduzione nei penitenziari. Questo vuol dire anche minori costi, un ridotto numero di giocatori, possibilità di giocare in uno spazio più piccolo, anche al coperto e soprattutto una semplicità di apprendimento rispetto alle discipline canoniche. L’obiettivo del progetto è rivolto a partecipare al percorso educativo del detenuto, quale alternativa positiva al percorso di reintegrazione del detenuto nel tessuto sociale. La nostra è una disciplina che può essere intesa sia di squadra che individuale, può essere il veicolo di integrazione anche multirazziale, porta all’educazione ed al rispetto delle regole e degli avversari. In questo percorso particolare supporto è stato offerto, anche, dal Gruppo Sportivo Fiamme Azzurre ed in particolare dal suo responsabile. Come si svolgerà e quali discipline saranno impegnate (baseball/softball/slow pitch, baseball 5)? Come detto sopra la disciplina utilizzata è quella del Baseball5. Il progetto nei dettagli deve essere ancora definito con il primo carcere interessato, quello di Rebibbia, che è stato individuato dal Dap. Prevede in generale quattro ore settimanali, per due giorni a settimana, per un totale di 4 mesi. Oltre il carcere di Rebibbia a Roma, quali altre strutture saranno impegnate, se è previsto un allargamento anche in altre strutture penitenziarie? Al momento la Convenzione sottoscritta con il Dap prevede di operare solo con il Carcere di Rebibbia, e al termine del corso sarà rilasciata una relazione che dovrà attestare la validità trattamentale del progetto, affinché sia estesa anche ad altre realtà sul territorio nazionale. Comunque, la Fibs in accordo con il Coni regionale delle Marche ha avviato un progetto locale e si è solo in attesa di assegnazione del penitenziario di riferimento. Chi farà parte dello “staff tecnico” e quante persone saranno impegnate? Lo staff sarà composto da tecnici indicati dal Presidente del Comitato Nazionale Tecnici e da arbitri individuati dal Comitato Nazionale, dopo avere effettuato un corso preparatorio. Possono essere interessate le società nello sviluppo di questo progetto? In generale, soprattutto in questa fase di avvio, il progetto sarà portato avanti direttamente dalla Fibs, affinché possano essere definite al meglio le modalità di intervento e ottenere il maggior numero di adesioni in altre carceri. Sarà valutato in futuro, quando il sistema sarà a regime e ben avviato coinvolgere le società interessate, garantendo una più semplice introduzione. Migranti. Nuovo esodo siriano al confine greco di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 2 marzo 2020 Migliaia di profughi dalla zona di Idlib. La Turchia li lascia passare. La Ue cerca la sponda di Putin per fermare l’offensiva dell’esercito di Assad nel nord del Paese. Via dall’inferno siriano, via dai campi profughi in Turchia. Sfidano il filo spinato e i lacrimogeni. Si battono a mani nude contro manganelli e scudi. A terra fagotti con povere cose, vestiti vecchi. Sono migliaia di uomini, donne, anziani, ragazzini, bambini che cercano di passare la frontiera dalla Turchia alla Grecia. Accade nelle ultime ore nella zona turca di Edirne, sul confine orientale greco a est di Salonicco, in particolare al punto di passaggio presso Kastanies. Oltre 10.000 migranti brutalmente fermati sabato e altri 5.500 ieri dalla polizia greca, che impedisce il passaggio. Mentre loro scappano, si disperdono, cercano di farsi varchi nelle reti di confine in zone più nascoste di montagna e foresta. Altri 500 sono arrivati con gommoni di fortuna dalla costa turca alle isole greche di Lesbos, Chios e Samos. Le organizzazioni Onu parlano di 13.000 in marcia dal Bosforo verso ovest. Ci sono filmati di vero dramma, con civili greci che cercano di fermare le barche nell’acqua, bambini che piangono infreddoliti: la guerra tra poveri nella sua versione più crudele. Civili - Scene che ricordano quelle terribili del grande esodo del 2015. Solo che adesso la situazione è anche più tesa. Il presidente turco Erdogan prometteva a muso duro l’altro ieri ai governi europei che entro pochi giorni i migranti in partenza saranno “oltre 30.000”. Numeri da minaccia, un vero ricatto politico. I civili siriani, afghani, iracheni, africani, marocchini si trovano al cuore della sfida senza esclusione di colpi tra la Turchia, che si sente abbandonata dalla comunità internazionale, e l’Europa indignata, che accusa Erdogan di violare i patti. La guerra - A complicare le cose c’è alle origini la guerra in Siria. Erdogan è schierato con le milizie sunnite siriane nella zona di Idlib, dove vivono tre milioni e mezzo di oppositori al regime di Assad. Tra loro jihadisti radicalizzati da 9 anni di guerra, repressione e morte. Un milione stanno cercando di scappare in Turchia. Ma qui vivono già 3 milioni e 700mila profughi. Erdogan non ne vuole altri. Così li lascia partire verso la Grecia. E ciò nonostante nel 2016 abbia promesso di tenerli in Turchia in cambio di 6 miliardi di euro pagati dall’Europa. “L’esodo dei migranti è collegato alla crisi di Idlib”, ammettono i dirigenti turchi. La riunione Ue - L’offensiva lanciata a dicembre dal regime di Damasco con il sostegno russo rende tutto più grave. I Turchi hanno perso una cinquantina di soldati nella zona di Idlib a febbraio, 33 tra giovedì e venerdì scorsi. Adesso dicono di avere reagito in modo duro e determinato. Ieri la guerra si è fatta più aspra. La contraerea turca ha abbattuto due caccia siriani, dopo che questi avevano distrutto un drone turco. Il ministro della Difesa turco, Hulusi Akar, racconta che le sue truppe avrebbero “neutralizzato” 2.200 militari di Bashar, oltre a 103 carri armati e 8 elicotteri. Intanto gli organismi europei offrono solidarietà alla Grecia. I ministri degli Esteri Ue terranno una riunione straordinaria nei prossimi giorni, in cui cercheranno tra l’altro di coinvolgere Putin per fermare Assad. Migranti. Nigrizia: “Bruxelles annulli gli accordi criminali” di Concetto Vecchio La Repubblica, 2 marzo 2020 “Siamo tutti concentrati sull’emergenza coronavirus, ma quella dei rifugiati siriani e afgani in Turchia e nelle isole greche di Chio e Lesbo è una questione ben più drammatica. Non possiamo più tacere” denuncia il direttore di Nigrizia, padre Filippo Ivardi Ganapini. “La pentola a pressione nel Medio Oriente sta scoppiando”. La Commissione Giustizia e Pace dei missionari comboniani ha lanciato un appello alla Ue: annulli “il criminale accordo” con il leader turco Erdogan e trovi “soluzioni umane” per i milioni di rifugiati stanziati in Turchia. Attui l’embargo della vendita alle armi, “anche l’Italia continua a venderle. È in corso un ricatto all’Europa. È proprio per questo è davvero incredibile che rimanga in piedi un simile patto con un regime. Vogliono altri soldi, oltre ai sei miliardi di euro già ottenuti per tenersi i migranti. Erdogan sta facendo un gioco cinico, sapendo che l’Europa è in difficoltà per il coronavirus. Ma l’Unione europea deve fare il proprio dovere visto che si proclama patria dei diritti umani, e non solo essere presente quando ci sono diktat finanziari da imporre”. L’Europa vuole tenere queste persone lontane dai propri paesi, nel timore che il loro arrivo possa portare altra benzina al fuoco dei sovranismi. “Il problema andrebbe risolto alla fonte, in Siria. E il nostro appello vale anche per l’Onu: riprenda in mano la questione siriana. A quel punto non si porrebbe più il problema di dove andranno i rifugiati che premono alle frontiere greche”. Padre Ganapini, che tutti chiamano padre Filo, è reggiano. Ha scoperto la vocazione dopo la laurea in ingegneria gestionale al Politecnico di Milano. Cita il Vangelo di Matteo: “Ero straniero e mi avete accolto”. Dice che l’Europa deve riattivare l’operazione Sophia, che nel 2015 provò a fermare il traffico di migranti nel Mediterraneo. “Nel campo di Moria a Lesbo, che può ospitare 3mila persone, ce sono già 20mila. I minori tentano il suicidio. È insostenibile”. E la Chiesa? “Chiediamo ai vescovi italiani di alzare la voce a sostegno delle vittime di questi conflitti di cui anche noi siamo responsabili. E di denunciare con forza politiche disumane e anticristiane. Chiediamo alle comunità cristiane di prendere a cuore la sorte di questi fratelli e sorelle allo stremo. È inconcepibile che tanti fedeli simpatizzino per la Lega che chiude le porte ai migranti. Vuol dire sbarrare la porta a Gesù di Nazaret”. La lezione di Macron su Asia Bibi di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 2 marzo 2020 Per fortuna Asia Bibi ha trovato nella Francia, che peraltro è scossa da tensioni interne molto più clamorose delle nostre, un rifugio e una casa. Dovremmo essere grati al presidente Macron. Finalmente una buona notizia per chi ha a cuore i diritti umani fondamentali calpestati e si vergogna un po’ per l’indifferenza cinica dell’Italia, dell’Europa e del mondo nei confronti dei perseguitati abbandonati a sé stessi, ostaggi nelle mani dei loro aguzzini con cui non intendiamo rovinare le relazioni, e anche per paura delle rappresaglie. Asia Bibi, giovane cristiana prima condannata a morte poi liberata dopo anni di prigione, accusata in Pakistan di “blasfemia” solo per non aver seguito i precetti islamici, minacciata da turbe di fanatici che hanno tentato di lapidarla dopo l’uscita del carcere, è stata infatti accolta solennemente dal presidente francese all’Eliseo e la Francia si è detta disposta a concederle asilo per proteggerla dalle minacce e da un potere politico arbitrario e oppressivo. Emmanuel Macron ha dato una lezione ai campioni del realismo politico a buon mercato. E ha anche messo in evidenza, con il suo gesto, l’ipocrisia di chi, Italia compresa a destra come a sinistra in egual misura, proclama l’universalità dei diritti ma solo se non costa niente, solo se non fa correre qualche pericolo, solo se non fa arrabbiare i despoti potenti e ricattatori. Macron ha dimostrato che con la buona volontà si può fare: si può contestare la politica di discriminazione e di persecuzione dei cristiani che nei Paesi dominati dal fondamentalismo islamista sono accusati di “blasfemia” solo se si premettono di nascondere un crocefisso o un rosario nel cassetto. Ha dimostrato che noi italiani siamo i primi a tirarci indietro quando si tratta di solidarizzare con i perseguitati, visto che nessuno si era detto disponibile a offrire asilo ad Asia Bibi mentre torme di energumeni la minacciavano di morte per le piazze pakistane. Ha dimostrato che l’Europa politica non esiste, che non è credibile, che è impotente, che non merita nessuna fiducia e che sarà schiacciata da un divario così macroscopico tra i princìpi proclamati e le pratiche compromissorie di sempre. Non occorre molto: solo un po’ di coerenza e un briciolo di coraggio. Per fortuna Asia Bibi ha trovato nella Francia, che peraltro è scossa da tensioni interne molto più clamorose delle nostre, un rifugio e una casa. Dovremmo essere grati al presidente Macron. E, insieme, dovremmo provare un po’ di vergogna in più. Egitto. La detenzione di Patrick Zaky puzza di persecuzione politica di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 2 marzo 2020 Sabato 7 marzo sarà trascorso un mese dall’arresto, avvenuto all’aeroporto del Cairo, dello studente dell’Università di Bologna Patrick Zaky. Come sappiamo, dopo un periodo di sparizione forzata di circa un giorno, durante il quale è stato bendato e torturato nel corso degli interrogatori, Patrick è comparso negli uffici della procura della città di Mansoura. È stato poi posto in detenzione preventiva, indagato per cinque diversi capi d’accusa contenuti in un mandato di cattura emesso nel settembre 2019, quando era già in Italia: minaccia alla sicurezza nazionale, incitamento a manifestazione illegale, sovversione, diffusione di notizie false e propaganda per il terrorismo. Si tratta dello stesso “set” di accuse formulato nei confronti di tantissimi altri detenuti: attivisti per i diritti umani, avvocati, giornalisti, blogger, esponenti dell’opposizione politica, difensori dei diritti umani. Sabato 22 febbraio, Patrick è entrato nel tunnel della detenzione preventiva rinnovabile di 15 giorni in 15 giorni per “supplemento d’indagine”. Subito dopo, è stato trasferito da una stazione di polizia al carcere di Mansoura. In quel tunnel sono già da mesi figure molto note del dissenso egiziano, come l’avvocata Mahienour el-Masry e Alaa Abdelfattah. Funziona così. La detenzione preventiva viene rinnovata in automatico per settimane, mesi o persino anni, senza interrogatori, senza supplementi d’indagine. Alla fine, nel migliore dei casi arriva un tardivo proscioglimento, nel peggiore un processo. Per i reati che gli sono contestati, Patrick rischia l’ergastolo, che in Egitto è automaticamente commutato in 25 anni di carcere. Questa storia, come innumerevoli altre, puzza di persecuzione politica e contiene numerose irregolarità. Intanto, il verbale d’arresto è stato completamente falsificato e fabbricato. Il documento consegnato dalla polizia alla procura afferma che Patrick è stato arrestato a un posto di blocco della polizia a Mansoura, mentre l’arresto è avvenuto all’aeroporto del Cairo un giorno prima. Su questo falso verbale, gli avvocati di Patrick hanno presentato una denuncia (protocollata col numero 9944/2020) contro il dirigente dell’ufficio indagini della stazione di polizia di Mansoura. In secondo luogo, la detenzione preventiva di Patrick è contraria persino al diritto egiziano. L’articolo 134 del codice di procedura penale consente di prorogare la detenzione preventiva solo in presenza di motivi fondati, descritti minuziosamente. Nessuno di essi è applicabile nel caso di Patrick, né nella maggior parte dei casi in cui le indagini si basano su presunti materiali pubblicati sui social media, dato che raramente in circostanze del genere può esservi la “flagranza” del reato. Né si capisce in che modo una persona sottoposta a indagini di questo tipo possa avere modo di alterarne il corso, manomettere prove o influenzare testimoni. L’obiettivo della detenzione preventiva prolungata è di consegnare un prigioniero all’oblio. Per questo, è fondamentale che in vista di sabato prossimo, e di quelli che eventualmente seguiranno, non si disperdano l’entusiasmo, l’emozione e la solidarietà dell’ultimo mese e che ognuno (le piazze per quello che le limitazioni per ragioni sanitarie permetteranno, gli organi d’informazione e soprattutto la diplomazia italiana) continui a fare la sua parte. Il prossimo appuntamento per chiedere la scarcerazione di Patrick è previsto a Roma, al Pantheon, giovedì 5 marzo alle 18. *Portavoce di Amnesty International Italia La lezione dell’Afghanistan. L’accordo Usa-talebani di Federico Rampini La Repubblica, 2 marzo 2020 Si sta chiudendo la più lunga di tutte le guerre americane: l’Afghanistan è durato molto più del Vietnam e della Seconda guerra mondiale messi insieme. Donald Trump riuscirà probabilmente a mantenere quella promessa agli elettori americani che anche Barack Obama aveva lanciato, e poi disatteso. È l’ennesimo paradosso di un presidente spesso incompreso: militarista e isolazionista al tempo stesso, nazionalista ma non guerrafondaio. La fine della guerra americana in Afghanistan contiene molte lezioni sul mondo che verrà anche dopo Trump. Un mondo dove l’America è in ritirata e si prepara ad accettare un ritorno alle “sfere d’influenza” di una volta, cioè a lasciare alcune parti del mondo sotto l’egemonia di altri imperialismi: Cina, Russia o Turchia. È chiaro che il ritiro dei militari americani e della Nato non risolve i problemi dell’Afghanistan. Non sappiamo neppure se ci sarà, dopo l’accordo Usa-talebani, un accordo tra il governo di Kabul e i talebani. È possibile un ritorno di guerra civile o di violenze tribali. È purtroppo realistico immaginare che i talebani tornino a calpestare i diritti umani, a cominciare da quelli delle donne. Ma chi l’aveva detto che un intervento militare degli Stati Uniti poteva portare a una democrazia liberale, laica e pluralista? Sappiamo le enormi ambiguità che hanno accompagnato le guerre americane nel mondo. Da una parte, nella versione della destra neoconservatrice, c’era un’agenda geostrategica e una logica imperiale - allargare l’egemonia. D’altra parte, nella versione progressista, si affidava alla guerra una missione umanitaria, l’esportazione di diritti e libertà. Le due versioni della Pax Americana si sono alternate da Clinton a Bush a Obama. Sotto Clinton, con l’intervento Nato in Kosovo, anche la sinistra europea salì a bordo dell’operazione in nome di un “dovere d’ingerenza umanitaria”. Anzi rimproverò all’America di non aver fatto altrettanto per prevenire altri genocidi. La fase unipolare, l’egemonia incontrastata degli Usa, dopo la fine dell’Unione sovietica durò vent’anni. Con la destra dei neocon al potere sotto Bush, ci fu il tentativo di ridisegnare la mappa geostrategica del Medio Oriente. Ma due guerre in Iraq e Afghanistan, più il crac finanziario del 2008, hanno accelerato i tempi della rincorsa cinese. Anche il riarmo russo ha modificato la situazione. Con Trump è al potere una destra che torna alle origini. L’isolazionismo fu un tratto genetico dei Padri fondatori: fuggiti dalle guerre di religione europee, volevano starsene alla larga dai conflitti altrui. La destra all’antica tentò di tenere gli Stati Uniti fuori dalla prima e dalla seconda guerra mondiale. La parola d’ordine, sulle colonne della rivista Foreign Affairs, è retrenchment. Traduzione letterale: ritirarsi dietro le trincee. Arroccarsi. Ma soprattutto: dosare la forza militare solo laddove sia necessaria a difendere interessi vitali della nazione. La scuola realista dice: quali interessi americani sono mai in gioco in Afghanistan? Purché i talebani mantengano la promessa di non ospitare né proteggere altri gruppi terroristici come Al Qaeda o l’Isis, purché non parta più un altro attacco all’America come quello del 2001, non c’è motivo di sprecare risorse e rischiare vite in quel Paese. L’Afghanistan può andare in malora. Quest’America trumpiana è cinica, egoista, ma almeno ha smesso di farsi illusioni. Lo stesso Obama aveva cominciato a nutrire dubbi sulla dottrina progressista del “dovere di guerra umanitaria”. Si era fatto trascinare - da francesi e inglesi - nell’intervento militare per deporre Gheddafi; poi lo considerò un errore; è difficile sostenere che quella guerra abbia fatto avanzare la causa dei diritti umani, in Libia o altrove. Trump non è un teorico, agisce d’istinto, non ha una dottrina delle relazioni internazionali. Deve anche vedersela con le resistenze che gli oppongono vari settori dell’establishment, a cominciare dal Pentagono. I generali americani non sono entusiasti di gestire una ritirata dagli affari mondiali. La scuola del pensiero realista però comincia a fare breccia nelle accademie militari, nei think tank, a destra come a sinistra. Nasce dalla constatazione che l’America non è onnipotente, e la sua forza deve usarla solo per sé stessa. Gli alleati, tutti quanti, ne traggano le conseguenze. Il futuro della Nato è tutt’altro che sicuro. Afghanistan. Ghani frena il patto fra taleban e Usa: “Nessun impegno sui prigionieri” La Stampa, 2 marzo 2020 Le dichiarazioni del presidente Ghani all’indomani della storica firma dell’accordo tra talebani e Stati Uniti. La firma dell’accordo di pace tra Stati Uniti e taleban, avvenuto a Doha, è un fatto storico. Ma già c’è chi frena sull’intesa. Il presidente asghano Ashraf Ghani ha fatto sapere di essere contrario a uno dei punti cruciali dell’accordo, ovvero la liberazione di 5mila detenuti da parte di Kabul. “Non c’è nessun impegno in questo senso”, ha affermato Ghani in una conferenza stampa a Kabul all’indomani dell’intesa. Per il presidente uno scambio di detenuti “potrebbe entrare nell’agenda per i colloqui inter-afghani, ma non può essere un pre-requisito per i negoziati”. L’accordo firmato dagli Stati Uniti prevede il ritiro entro 14 mesi di tutte le truppe straniere dall’Afghanistan a patto che i talebani rispettino una serie di impegni e avviino negoziati con Kabul per un accordo di pace complessivo. “La riduzione della violenza continuerà con l’obiettivo di raggiungere un pieno cessate il fuoco”, ha dichiarato Ghani, “il generale americano Scott Miller (comandante delle truppe straniere in Afghanistan, ndr) ha detto ai talebani di attenervisi e ci si attende che prosegua”. Gli accordi di Doha sono stati raggiunti dalle delegazioni di Stati Uniti e talebani, guidate dall’inviato della Casa Bianca Zalmay Khalilzad e dal mullah Baradar. Sono una prima intesa, a oltre 18 anni dall’intervento americano dopo gli attentati dell’11 settembre. Tra i punti cruciali c’è proprio lo scambio di prigionieri: i talebani ne dovrebbero rilasciare un migliaio e il governo afghano dovrebbe rimettere in libertà 5mila talebani. Le parole di Ghani, già nel mirino in patria per le accuse di brogli nella sua rielezione annunciata la settimana scorsa dopo mesi di attesa, fanno capire quanto sia ancora lunga la strada verso la pace in Afghanistan. L’Africa, il continente che non piange: “Beati che avete solo il coronavirus” di Domenico Quirico La Stampa, 2 marzo 2020 Qui si muore di colera, dengue, listerosi, febbre di lassa, ebola. In Mozambico è tornata la peste. Anche il panico è diventato un lusso. E se la paura, questo immateriale potere, fosse in fondo un lusso, un lusso che solo noi, nel mondo della sicurezza, di favole pulite, terse, confidenti, amabili, possiamo permetterci? Insomma: nel contempo è maledizione e privilegio, che si insinua nelle pause in cui le nostre certezze, salute, Pil, frontiere aperte, per una improvvisa, insidiosa affezione respiratoria di massa, sembrano sfilarsi tra le dita. Affondano in dubbi, sconforti, afflizioni, lacrime, clamore di voci dispari. Così la Paura si fa universalmente visibile in giornate lombardo-venete di gente in quarantena e intristita, una nebbia sporca attorno alla vita quotidiana. Come per gli attentati: che ci portano a domicilio la guerra che noi non conosciamo, e soprattutto non vogliamo vedere. Abituati a specchiarci in un avvenire radioso, dove la Morte è sgradevole argomento di conversazione, da evitare nel “bon ton”, e sulla sofferenza non indugiamo mai, ci sembra che il mondo si sia addirittura capovolto: per un virus. Ma appena la pressione atmosferica della modernità e della sicurezza scompare, in Africa per esempio, tutto diventa tragicamente più semplice. Il panico si fa appunto lusso, come gli ospedali asettici e attrezzati, i virologi, i vaccini che prima o poi si troveranno, le ambulanze, le quarantene precauzionali, il turismo, i supermercati da svuotare. Che loro non hanno. Se la sgrondano di dosso, gli uomini che vivono lì, perché non possono permettersela, la Paura. La sicurezza di sopravvivere, restar sani, non morire di fame o di kalashnikov e machete, nell’usura di quelle esistenze, nel mondo che percorro io, non è in dotazione. La Peste è permanente, come la vita, e la morte. Dopo una settimana di “peste” nostrana, le frasi si confondono, i discorsi di politici, epidemiologi, catastrofisti tenaci e immarcescibili “candide” sono ormai caricati a carta, esaurite anche le facezie sfiancate sulla amuchina, il lavarsi le mani e le mascherine; stenta anche la ricerca delle coincidenze, a costo di qualche sbandamento filologico, con i morbi ben scritti di Manzoni Tucidide Defoe Boccaccio e perfino la metafisica peste di Camus, una sorta di grottesco antidoto da letteratura. Allora è il momento di un viaggio concepito come esame di coscienza, nell’altro mondo che ci sta intorno. Solo così ci libereremo dalla Paura: che è fatta del guardate solo me, non distogliete lo sguardo, proibito evocare altre vittime. Per esempio: ho attraversato da poco il Sahel, dove quattro milioni di uomini, donne e bambini sono esposti alla denutrizione e alla immediata possibilità della carestia. Dietro c’è un micidiale impasto di insicurezza causata dalle guerre etniche e del fanatismo islamista che nelle zone rurali costringe contadini e allevatori a farsi profughi, abbandonando bestiame e campi; a cui si aggiunge la desertificazione. La fame, la più primitiva delle angosce, endemica, ricorrente a vampate, nei luoghi del mondo in cui la geografia simboleggia il travaglio della vita. Guardo negli occhi le file degli affamati che si allungano nei luoghi dove sperano di trovare cibo. Non c’è paura ma quel tanto di indomito fatalismo che entra nel sangue dei popoli abituati a strappare davvero la vita al nulla. Allora capisco quello che mi scrive un amico che vive in Niger replicando alla mia dettagliata descrizione del virus, delle vittime anziane, delle attività economiche impacciate: “Beati voi che avete solo il problema del coronavirus, qui non riusciamo nemmeno a contarli, i problemi...”. Già: continenti interi dove la vita è appesa a fili insignificanti, un abisso quotidiano in cui si può precipitare senza avere l’impressione di ferirsi, un abisso madre, un precipizio di ombra antico come l’uomo e appunto la peste, un imbuto infinito in cui, se ci vivi, ti infili ogni giorno come per un viaggio qualsiasi. Il mondo delle maledizioni bibliche, fame guerre epidemie, dove un ospedale, quando c’è, ha un bacino di utenza di 350 mila persone; dove puoi vedere statistiche di bambini che muoiono di morbillo (nel terzo millennio!) o per il morso di un cane rognoso che come lui rovistava tra i rifiuti (non c’è l’antidoto contro la rabbia). Dove non usa che gli uomini piangano. E nessuno può aver paura. Un virus in più non fa crescere certo il loro affanno di tagliati fuori. Forse ci aiuterà, ad affrontare i nostri guai epidemici e avere meno paura, consultare le cifre della Sanità in Africa, che, purtroppo, non è quella dei villaggi vacanza e degli economisti che si fregano le mani per le cifre della Crescita del continente. Ma non si accorgono che la ricchezza aumenta, sì, ma va nelle mani di una quarantina di manigoldi, i presidenti, con cui facciamo affari. Si scopre che migliaia di persone muoiono ogni anno di colera, dengue, listeriosi, febbre di lassa. Che in Madagascar c’è stata una micidiale epidemia di peste, quella vera, davvero manzoniana. E c’è ebola: ricordate ebola nel 2014, la fiammata brutale di febbre che in Africa occidentale causò la morte ventimila persone? In Congo l’epidemia non è mai finita, sonnecchia, guizza, uccide. Dalla Nigeria al Sudan, dallo Zambia al Centrafrica, il timore di infettarsi, di morire, non è che un immenso fatale disturbo. La paura è una faccenda tra noi e noi; gli altri, quelli del terzo mondo, non compaiono nella fotografia. Forse guardarli ci aiuterà ad avere più coraggio.