Quarantena di tutti, parole dalla galera vera di Francesca de Carolis remocontro.it, 29 marzo 2020 Se è vero che, come in molti si dice, dopo il coronavirus nulla sarà più come prima, è il caso di approfittarne, e iniziare subito a rinnovare il nostro linguaggio. Se il mondo è nelle parole che pronunciamo… La prima parola da cancellare? “Indifferenza”. E parole buone arrivano, nonostante tutto, da chi è in carcere. Ristretti Orizzonti - Mi ha colpito molto, e per questo ve lo voglio proporre, l’intervento, alcuni giorni fa, di Giuliano Napoli, della redazione di Ristretti Orizzonti di Padova, ergastolano. Parla con accorata comprensione, Giuliano, pensando lui a noi fuori, delle difficoltà di chi è costretto a vivere “in una sorta di detenzione domiciliare senza aver commesso alcun crimine”, e ci regala parole buone, invitandoci, lui a noi, a trovare la forza “per rispettare le regole che ci impongono per il bene di tutti”. E se si sente il bisogno irrefrenabile di uscire? Pensate, suggerisce Giuliano, a chi sta peggio di noi… ed elenca “gli anziani, i medici e gli infermieri, anche le forze dell’ordine, e a chi magari, anche se per colpa sua, si trova a scontare una pena in carcere e non ha la percezione di quello che accade fuori, ma sa più di chiunque altro quanto sia difficile accettare il “distacco sociale” del quale siamo un po’ tutti più consapevoli, oggi che lo viviamo sulla nostra pelle”. Parole Buone - Una lunga lettera di molte parole buone, che mi viene da proporre, tutta (www.ristretti.org/index.php?option=com_content&view=article&id=88528) al percorso di ‘Parole buone’, la bella iniziativa ideata da Sergio Astori, scrittore, psicanalista, che ha l’obbiettivo di trasmettere «una parola pensata e condivisa in mezzo a tante parole sprecate, che ammalano di infodemia un tempo già carico di inquietudine, rancore e sconforto, che offra senso e appartenenza a chi subisce isolamenti e quarantene…». (Le #ParoleBuone sono già in rete. Rintracciabili attraverso l’hashtag su Facebook. Ma possono essere disseminate ovunque). Parole buone… non sarà un disgelo, dice Astori, ma qua e là spuntano bucaneve, che dobbiamo valorizzare. Bucaneve, bellissima immagine, simbolo di speranza e consolazione, annuncio di un nuovo inizio quando tutto intorno è ancora gelo… Ed è vero, in tanto gelo del pianeta carcere, proprio mi è sembrato avere la garbata forza del bucaneve l’intervento di Giuliano. E non è l’unico. Ieri, su Il Dubbio, sono intervenuti i detenuti della redazione di “Dietro il cancello”, di Rebibbia, con parole piene di buon senso e di proposte concrete, per la tutela delle persone detenute come per tutte le persone che lavorano nei circuiti carcerari (se volete averne un’idea: www.ildubbio.news/2020/03/26/noi-detenuti-siamo-esposti-al-virus-insieme-agli-agenti). Strutture senza scampo - A confronto sembrano ancora più povere le parole di chi dovrebbe prendere provvedimenti che fermino l’indecenza, e che non vengono presi nonostante le richieste accorate e continue di associazioni e garanti e magistratura di sorveglianza… Parole nulle, difronte alla condizione tremenda di più di sessantamila persone costrette in strutture senza scampo (vi dice nulla quello che accade nel chiuso delle case di riposo?), insieme a tutti quelli che lì dentro lavorano. C’è da vergognarsi, se si guarda ai provvedimenti che con più saggezza altri Paesi stanno prendendo. Ma cosa volete, se l’unico costante suono che arriva è un sottile tintinnar di manette (ho trovato sinceramente grottesca l’idea di prevedere il carcere per chi viola le norme sulla quarantena, se positivo. Come gettare una miccia in un serbatoio di benzina, pensateci un po’…). Parole nulle, anche per le persone che dai giorni delle rivolte in carcere non hanno notizia dei loro familiari, e alle cui domande risponde solo il silenzio… Associazione Yairaiha - Come non pensarci, scorrendo le pagine di segnalazioni e denunce arrivate dopo i giorni delle rivolte all’associazione Yairaiha. Quali parole per le mogli, i figli… cui a poco a poco stanno arrivando lettere, con testimonianze da brividi, che “segnalano violenze di ogni genere”, che “abbiamo tra l’altro saputo che la mattina dei trasferimenti sono stati trasportati con pigiami e scalzi senza l’opportunità di potersi mettere una tuta e un paio di scarpe”… lettere e telefonate che “ci lasciano senza parole e con tanta sofferenza!”. Quali parole per chi racconta “volevamo protestare verbalmente per il diritto alle telefonate e ai tamponi… vedo arrivare gli agenti con i manganelli e picchiavano tutti senza motivo e senza alcuna resistenza. Informa tutti…”. E mi fermo qui. Ma se tutto questo è possibile è anche per via delle nostre nulle parole. E allora mi viene da proporre un percorso “parallelo” a quello delle ‘Parole buone’, quello delle ‘Parole da cancellare’. Se è vero che, come in molti si dice, nulla dopo sarà più come prima (e chissà se l’esperienza di questi giorni ci aiuterà a capire che significa trascorrere i giorni, gli anni, la vita al chiuso di una stanza, e senza tutte le cose confortevoli di cui noi disponiamo…) è il caso di approfittarne, e iniziare subito. La prima parola da cancellare? “Indifferenza”. Quarantena perpetua - Tornando alle parole di Giuliano Napoli, che è in carcere da quando aveva 22 anni, per una rapina finita con la morte di un altro rapinatore e del commerciante che aveva reagito, ma non è stato Giuliano l’autore materiale dell’omicidio… e ora, attivo redattore di Ristretti Orizzonti, sa regalare a sé e agli altri molte buone parole. Finisce, il suo scritto, con la speranza che sparisca quel tremendo “facciamoli marcire in galera fino all’ultimo giorno”, pensiero cattivissimo, che ancora troppo serpeggia fra noi. E spero davvero anch’io con Giuliano che anneghino, queste cattive parole, nel mare di parole buone che riusciremo a comporre… perché “credetemi, quello che oggi quasi tutti voi state vivendo è uguale a 1 su una scala di mille in base a quello che tutti i detenuti vivono quotidianamente, fatevi forza su questo, per tutti voi si tratta di un periodo limitatamente circoscritto all’emergenza, mentre in alcuni casi c’è chi questo dramma lo vive fino alla fine della vita, parola di ergastolano”. Credetegli, è proprio così. Per questo le parole buone che offro dunque oggi alla rete sono: ascolto, immedesimazione. Capacità di metamorfosi. Ecco, ritorna il mio “faro”, Canetti. Che spiega che alla metamorfosi l’uomo deve la sua pietà, che “esige la concreta metamorfosi in ogni essere che vive e che c’è”. Nessuno, dice Canetti, sia respinto nel nulla. Il virus in carcere rischia di fare strage di Anna Lisa Antonucci L’Osservatore Romano, 29 marzo 2020 L’avvertimento dell’Alto commissario per i diritti dell’uomo. Il virus ha bussato anche alle porte del carcere. I primi casi di infezione si sono già registrati nelle camere di sicurezza, nei centri di accoglienza per migranti, nelle residenze per anziani e negli ospedali psichiatrici “dove il coronavirus rischia di fare strage della popolazione vulnerabile che vive all’interno di queste istituzioni”. L’allarme arriva dall’Alto commissario per i diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, Michelle Bachelet, secondo cui è necessario agire in fretta riducendo l’affollamento in carcere, innanzitutto liberando i reclusi anziani e i malati. “Ora più che mai - sottolinea - i governi dovrebbero rilasciare chiunque sia detenuto senza una base giuridica sufficiente, compresi i prigionieri politici e coloro che sono in prigione semplicemente per aver espresso opinioni critiche o dissenzienti”. “In troppo Paesi i centri di detenzione sono sovraffollati - sottolinea il Commissario Onu - e rappresentano dunque un pericolo. Le persone sono spesso detenute in cattive condizioni igieniche e i servizi sanitari sono inadeguati o inesistenti. La lontananza fisica e l’isolamento sono praticamente impossibili in tali condizioni”, ha aggiunto. Secondo l’Alto commissario, i governi, pur costretti a prendere decisioni difficili e ad affrontare la richiesta di risorse enormi, non possono dimenticare i detenuti, o i pazienti delle strutture di salute mentale, chi vive nelle case di riposo e negli istituti per minori, poiché “trascurarli potrebbe avere conseguenze catastrofiche”, ha detto. “È fondamentale che i governi tengano conto della situazione dei detenuti nel loro piano d’azione per la crisi, in modo da proteggere i reclusi, il personale, i visitatori e, naturalmente, la società nel suo complesso”. Bachelet ha affermato che di fronte all’insorgenza della malattia e al crescente numero di decessi già registrati nelle carceri e in altri centri in un numero sempre maggiore di paesi, le autorità dovrebbero agire ora per prevenire ulteriori perdite di vite umane tra i detenuti e il personale. Dunque, serve lavorare rapidamente per ridurre il numero delle persone detenute, come hanno già fatto - mette in evidenza Bachelet - diversi Paesi che hanno intrapreso azioni positive in questo senso. Le autorità, suggerisce l’Alto commissario, dovrebbero inoltre continuare a soddisfare le esigenze sanitarie specifiche delle donne in carcere, comprese le donne incinte, nonché quelle dei detenuti disabili e minori. Secondo le norme internazionali dei diritti umani, ricorda Bachelet, gli Stati devono adottare le misure necessarie per prevenire le prevedibili minacce alla salute pubblica e garantire che chiunque abbia bisogno di cure mediche essenziali possa riceverle. Per quanto riguarda le persone detenute, Bachelet richiama le norme minime stabilite dal regolamento che prende il nome dal leader sudafricano Nelson Mandela che stabilisce uno standard minimo per il trattamento dei prigionieri e nella gestione delle carceri. In particolare, raccomanda l’Alto commissario, le misure adottate durante una crisi sanitaria non dovrebbero compromettere i diritti umani dei detenuti, dovrebbero essere pienamente rispettate le misure di salvaguardia contro i maltrattamenti delle persone in custodia della polizia, compreso l’accesso a un avvocato e a un medico. Le necessarie restrizioni alle visite nelle carceri per contribuire a prevenire i focolai di Covid-19, aggiunge, devono essere introdotte in modo trasparente ed essere chiaramente comunicate alle persone colpite. “L’improvvisa cessazione del contatto con il mondo esterno rischia di esacerbare situazioni già tese, difficili e potenzialmente pericolose”, avverte la rappresentante Onu. È importante, dunque, introdurre, come già fatto in alcuni paesi, l’uso diffuso di sistemi di videoconferenza, l’aumento delle telefonate con i membri della famiglia e l’autorizzazione alle e-mail. Infine, Michele Bachelet esprime preoccupazione riguardo al fatto che per far rispettare la lontananza fisica, come misura preventiva della pandemia, alcuni paesi minacciano pene detentive per coloro che non rispettano le regole. “Ciò - avverte l’Alto commissario - rischia di esacerbare la già tesa situazione nelle carceri e di avere solo effetti limitati sulla diffusione della malattia”. “La prigionia dovrebbe essere sempre l’ultima ratio, soprattutto durante questa crisi”. Il difficile compito di gestire l’emergenza delle carceri ai tempi del coronavirus di Amedea Franco La Stampa, 29 marzo 2020 Né agenti penitenziari né cancelli servono a molto se il coronavirus decide di entrare nelle carceri. Quindi quell’isolamento nell’isolamento va tenuto sotto stretta osservazione. Perché ogni casa di reclusione è una piccola città nella città, abitata dai detenuti e dove ci lavorano agenti, operatori sanitari e personale amministrativo. L’allerta è dunque molto alta. L’emergenza ha sospeso i colloqui, le attività didattiche e quelle lavorative che permettevano ad alcuni detenuti di uscire in semilibertà. Ovvero tutto quello che aiuta a riabilitare l’individuo. A rialzare chi è caduto. Per consentire ai reclusi un seppur minimo rapporto con i parenti sono state intensificate le telefonate straordinarie e le chiamate via Skype. “Ma quest’ultima soluzione abbiamo visto non funziona molto bene. Le linee sono quelle che sono - spiega Bruno Mellano, garante regionale dei detenuti e delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà. A risolvere un po’ la situazione 1600 telefoni cellulari e altrettante sim-card, messi a disposizione da Tim. Ventidue saranno affidati ai responsabili delle carceri cuneesi: 2 ad Alba, 7 a Cuneo, 3 a Fossano e 10 a Saluzzo. Si potranno fare video chiamate sotto la sorveglianza del personale”. Ecco alcuni dati forniti da Mellano relativi al numero di detenuti nelle 4 case di reclusione della Granda: “A Fossano sono 119, Cuneo 282 di cui 46 in regime speciale; a Saluzzo, carcere di alta sicurezza, sono 407 (tra questi alcuni reclusi arrivati da Modena a causa dei danneggiamenti della struttura dopo la rivolta dei giorni scorsi) mentre ad Alba 48. In tutto il Piemonte a fine febbraio risultavano 4553 reclusi in 13 istituti, per una capienza, sulla carta, di 3971 posti. Ripeto: sulla carta perché qui non si tiene conto che Alba funziona a metà e a Cuneo il vecchio padiglione è chiuso da 10 anni”. Dunque Mellano qual è la capienza reale? “È di 3721 posti”. Abbiamo raggiunto telefonicamente il direttore della casa circondariale di Cuneo, dottor Giorgio Leggieri. La situazione spiega che è tranquilla e i detenuti fin da subito si sono dimostrati collaborativi nella pulizia e sanificazione degli ambienti. E hanno manifestato disponibilità a rendersi utili. Per quanto riguarda il personale addetto alla sicurezza è stato attivato un pre-triage con la rilevazione della temperatura corporea prima di prendere servizio. Per il personale amministrativo è stato attivato lo smart working. Il direttore ci ha spiegato le difficoltà e gli sforzi nel gestire una situazione che anche tra quelle mura è una prova non semplice. Nonostante i reati che li hanno portati in carcere, resta forte il legame con gli affetti lasciati nell’altra vita. Quella fuori. E anche quegli affetti che sono fuori sono preoccupati per i loro parenti che sono reclusi. Lo stesso le famiglie degli agenti e del personale che ogni giorno presta servizio nelle carceri. Lo ribadisce Mellano: “L’allarme sociale investe anche la realtà carceraria, c’è paura per sé stessi ma soprattutto per chi è fuori, dunque figli, genitori, compagni. La percezione è ancora più forte perché l’isolamento è doppio. Purtroppo di questa situazione non se ne parla. Fanno più notizia le rivolte violente come quella di Modena. Poi cala il silenzio”. Ancora: “Manca l’ora di colloquio, il pacco con la roba pulita. Un legame che pur piccolo può essere d’aiuto. Tra i problemi che abbiamo sempre evidenziato (la regione Piemonte è l’unica in Italia ad avere un garante comunale per ogni città sede di carcere): c’è infatti la carenza in molte realtà carcerarie di un supporto lavanderia efficace. Spesso quello presente non è sufficiente per tutti”. Ma la cosa che sta più a cuore in questo momento al garante è il problema trasferimenti: “A parte quelli d’urgenza, dovrebbero essere del tutto bloccati per permettere effettivamente alle Direzioni di organizzare i propri istituti per gestire la doppia emergenza: il sovraffollamento e il rischio di contagio. Per evitare che un domani la situazione possa sfuggire di mano occorre valutare cosa si può fare per rendere più sicure queste realtà. Anche in cella ci sono persone anziane e malate. Dunque chiederemo alla Magistratura di sorveglianza di valutare con urgenza e con la consapevolezza dell’emergenza i casi che possono scontare la pena fuori dal carcere, ad esempio agli arresti domiciliari”. La Giunta delle Camere Penali: “C’è un’emergenza carceri e il governo è l’unico a negare” Il Riformista, 29 marzo 2020 Per contrastare la diffusione del coronavirus nelle carceri italiane è necessario diminuire il numero dei detenuti nelle carceri italiane. È quello che dichiara la delibera della Giunta dell’Unione delle Cameri Penali italiane che esorta il Governo e il Parlamento ad agire in questa direzione. La Giunta evidenzia più volte la “posizione negazionista” assunta dal “solo Governo”, al contrario di altre istituzioni interessate come il Consiglio Superiore della Magistratura, l’Associazione Nazionale Magistrati, i Presidenti dei più importanti Tribunali di Sorveglianza, l’Università, i Sindacati, il Volontariato e dell’appello del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. L’esecutivo è quindi invitato ad adottare misure efficaci provenienti nei confronti della situazione emergenziale nella quale versano le carceri. Criticato anche l’intervento del Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che “ha fornito dati che sconcertano per mancanza di logica e di concretezza di intervento, quali la scarcerazione di 200 detenuti a fronte di 6.000 che si è indicato potrebbero godere delle misure varate, rinviando con noncuranza fino al mese di maggio le possibili applicazioni”. Posto anche che il “Garante dei detenuti ha ineffabilmente chiarito che il c.d. isolamento all’interno delle carceri dei detenuti portatori di sintomi avviene con una media di tre persone per cella” la Giunta dichiara “che la vera ed indifferibile esigenza di prevenire ed evitare una massiva diffusione del contagio tra la popolazione carceraria può essere soddisfatta solo con una immediata e significativa diminuzione della stessa, in misura tale da eliminare il sovraffollamento rispetto ai posti disponibili e di assicurare anche all’interno degli istituti penitenziari la praticabilità delle misure di prevenzione del contagio che lo stesso Governo impone ai cittadini liberi”. Tale misura, sottolinea il testo, è stato portato avanti all’estero e invece i provvedimenti adottati dal Governo appaiono (e tali sono ormai unanimemente giudicati) totalmente inadeguati ed addirittura paradossali, come la subordinazione della detenzione domiciliare all’applicazione di braccialetti elettronici che non sono disponibili”. La Giunta dell’Unione delle Camere Penali chiede allora “con la massima urgenza al Governo ed al Parlamento, anche in sede di conversione in legge del decreto emanato, di adottare ben più incisivi interventi, che l’Unione delle Camere Penali Italiane è in grado di indicare (anche offrendosi per la elaborazione dei testi), ovviamente nei limiti quali-quantitativi che assicurino una applicazione a favore di persone detenute per reati di non rilevante allarme sociale, quali: - la detenzione domiciliare, indipendentemente dalla disponibilità del braccialetto elettronico, per residui di pena inferiori a 2 anni - la sospensione fino al 30 giugno della emissione degli ordini di carcerazione di pene fino a 4 anni divenute definitive - la liberazione anticipata speciale, di 75 giorni a semestre, per buona condotta e l’estensione da 45 a 75 giorni per i semestri già oggetto di concessione - la concessione di licenze speciali di 75 giorni ai detenuti semiliberi - per i detenuti in attesa di giudizio, che rappresentano oltre un terzo della popolazione carceraria e che sono presunti innocenti dalla Costituzione, l’attribuzione al giudice competente di un termine di 5 giorni per riesaminare la situazione cautelare in funzione della concessione degli arresti domiciliari, tenendo in considerazione il pericolo alla loro salute in rapporto alla caratteristica di extrema ratio della detenzione cautelare”. La Giunta auspica infine “un recupero di responsabilità e di umanità, non solo nei confronti della popolazione detenuta, degli agenti di custodia e di tutte le persone che operano nelle carceri, ma anche di tutti i cittadini, perché le strutture sanitarie attualmente sottoposte ad uno sforzo oltre ogni limite immaginabile, non potrebbero sopportare un ulteriore carico di pazienti, peraltro portatori di esigenze di controllo inattuabili”. Cascini attacca il Csm: “Sul carcere abbiamo ignorato Mattarella” di Giulio Seminara Il Riformista, 29 marzo 2020 Acque agitate al Consiglio superiore della magistratura, incapace di presentare una proposta forte e unitaria al governo sull’emergenza carceraria legata al Coronavirus. L’altro ieri il Csm ha affrontato il tema in un plenum ad hoc ma non è riuscito a essere compatto. Il massimo organo della magistratura italiana è diviso tra i “prudenti”, i “pragmatici” e i “giustizialisti”. I primi sono rimasti sostanzialmente in silenzio, mentre i “pragmatici” hanno proposto una maxi ma ragionata scarcerazione con passaggio alla detenzione domiciliare di detenuti non condannati per reati e con meno di due anni da scontare. A questa ipotesi si sono opposti i “giustizialisti” come Nino Di Matteo. Alla fine il Csm ha approvato a maggioranza, con 12 voti favorevoli, 7 contrari e 6 astensioni, un documento in cui si afferma che i provvedimenti del governo contenuti nel decreto “Cura Italia” contro il sovraffollamento delle carceri a rischio epidemia sono “insufficienti”. Il Riformista ha sentito il membro togato del Csm Giuseppe Cascini, già segretario dell’Anm ed esponente di Area. Dottore Cascini, lei ritiene che le carceri italiane oggi siano luoghi pericolosi? Dobbiamo ammettere che nelle nostre carceri, sovraffollate e con condizioni igieniche non ottimali, avviene tutto il contrario di quanto ci consigliano i medici e ci impongono i decreti, a cominciare dalle distanze sociali impossibili da rispettare in celle così stipate. Obbligano me a non uscire e in caso a salutare un amico da lontano, ma i detenuti condividono le piccole cucine, i bagni e l’ora d’aria. E sempre senza mascherine e guanti. Queste carceri sono chiaramente bombe epidemiologiche. Il ministro Bonafede dice che i detenuti contagiati sono appena 15… Il Guardasigilli così non può rassicurarci dato che ignoriamo quanti detenuti abbiano in realtà fatto il test del tampone. E sfatiamo il falso mito che siccome in carcere ci sono molte persone giovani e in salute allora il problema non si pone, semmai in assenza di iniziali sintomi gravi, il virus è ancora più invisibile e facilmente diffondibile. Esiste in certa politica, magistratura e opinione pubblica l’opinione che i detenuti siano in fondo cittadini di serie b e che i loro diritti non contino poi tanto? Certamente c’è gente convinta che il mondo carcere sia fuori dalla società, ma è un grave errore. Ogni giorno negli istituti penitenziari entrano ed escono tante persone, come gli agenti e gli operatori, tutti possibili vettori di contagio in famiglia e in giro. Lo dico al partito del “metto dentro e butto via la chiave”: i carcerati non sono estranei alla società e possono pure contagiare le città. Finora come valuta l’impegno del governo nel contrastare l’emergenza sovraffollamento carcerario? Ancora insufficiente, basti vedere l’ipocrisia sull’incentivo alla detenzione domiciliare: lo sanno tutti che i braccialetti elettronici, fondamentali, non ci sono e che quindi le carceri resteranno piene. Qual è il contributo del Csm sulla vicenda? E come valuta il vostro ultimo plenum? Abbiamo sprecato un’occasione importante e abdicato al nostro ruolo istituzionale di interlocutore del governo su certi temi. Per me il Csm deve dire la sua anche su alcuni temi politici, come questo. Al plenum non siamo stati compatti e il documento finale è timido, privo di una proposta forte. Non siete stati coraggiosi? Certamente diverse categorie sono state più incisive di noi, penso ad Anm, Camere penali, l’associazione dei docenti di diritto penale. E non abbiamo nemmeno seguito del tutto il forte messaggio del nostro Presidente, che è anche il capo dello Stato. Mi ha anche deluso il silenzio dei membri laici del Csm, mi aspettavo più idee. Eppure lei una proposta l’aveva fatta… Bisognava essere pragmatici. Io ho chiesto a tutti di mettere un attimo da parte le rispettive ideologie e posizioni sul carcere per affrontare insieme un’emergenza straordinaria. Poiché il problema sovraffollamento esiste, dobbiamo decongestionare i penitenziari che rischiano di diventare bombe epidemiologiche. Ho proposto di convertire alla detenzione domiciliare i quasi 20mila carcerati non condannati per reati gravi che devono scontare una pena, o un suo residuo, di massimo 2 anni. Sarebbe un miglioramento reale della situazione. E dove starebbero i tanti detenuti senza una casa? Allo Stato basterebbe requisire dei locali e adibirli a strutture eccezionali di detenzione. Non dobbiamo essere abolizionisti ma ragionevoli. Come mai la sua proposta non è passata? Non deve chiederlo a me. Purtroppo si fa troppa politica e propaganda sulla pelle dei detenuti. Come se la repressione e l’opposizione all’indulgenza consegnassero consenso. Che dire, spero di avere torto. Il suo collega Nino Di Matteo ha detto che si tratterebbe di un “indulto mascherato” e che le rivolte in carcere erano “un ricatto della criminalità organizzata”. Non credo sia il momento di insistere sulle proprie posizioni ma di provare a risolvere un problema. Sulle rivolte in carcere, costate diversi morti, dico che ovviamente è sbagliato essere indulgenti, ma sono atti da studiare. Dovremo approfondire ma forse c’è stato un errore di comunicazione verso gente che si è sentita abbandonata. Vuole rivolgere un appello a opinione pubblica e colleghi, inclusi i cosiddetti “giustizialisti”? Questo non è il momento giusto per divisioni ideologiche o per fare filosofia sul diritto, la pena e il carcere. C’è un’emergenza sanitaria e dobbiamo impegnarci per salvare vite umane e rendere attuabili le norme che lo stesso Stato si è dato contro il Coronavirus. Sappiano tutti che il carcere fuori dalla società è un’illusione, un’esplosione del contagio nelle prigioni coinvolgerebbe tutto il Paese. Cura Italia, spaccatura in Autonomia e Indipendenza: Di Matteo e Ardita contro Davigo di Giovanni Altoprati Il Riformista, 29 marzo 2020 Giuseppe Marra, magistrato componente, insieme a Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita, della pattuglia dei “davighiani”, è stato il relatore del parere che il Consiglio superiore della magistratura ha redatto a proposito delle misure nel settore giustizia previste dal governo a seguito dell’emergenza Covid-19. Il parere si è concentrato sullo stop dei procedimenti in corso e sulle disposizioni in materia di detenzione domiciliare e licenze premio straordinarie per i detenuti in semi libertà. Il Csm, secondo la sua legge istitutiva, “dà pareri al ministro della Giustizia sui disegni di legge concernenti l’ordinamento giudiziario, l’amministrazione della giustizia e su ogni altro oggetto comunque attinente alle predette materie”. I pareri non sono vincolanti. Ma, considerata l’autorevole provenienza, è difficile che non siano tenuti in debito conto da parte del Parlamento. Si ricordano pareri durissimi, soprattutto durante i governi Berlusconi. Il lodo Alfano, contenuto nel dl sicurezza del 2008, è “potenzialmente incompatibile con gli articoli 111 e 3 della Costituzione”, che sanciscono i principi di ragionevole durata del processo e di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. L’Europa “non capirebbe le ragioni della scelta” visto che “l’Italia è già finita sotto accusa per la lentezza dei processi”, e questa disposizione “allunga ulteriormente i tempi”. La politica non cerchi espedienti per “eludere le leggi”. Finché l’azione penale è obbligatoria, “non si può chiedere ai giudici di non fare i processi”. Quasi tutte le leggi dei governi Berlusconi in tema di giustizia venivano stroncate a Palazzo dei Marescialli. Per evitare di essere continuamente sotto tiro, Berlusconi e l’allora ministro della Giustizia Alfano arrivarono a proporre una legge che impedisse ai consiglieri del Csm di esprime pareri. Archiviato il berlusconismo, gli animi si sono rasserenati. Al punto che, pur di fronte a una norma che non risolve affatto il problema del sovraffollamento, il Csm si è limitato questa settimana a “richiedere” al legislatore delle “scelte precise ed urgenti”, rilevando “l’opportunità” di interventi tesi a differire l’ingresso in carcere per i condannati a pene brevi per i reati non gravi per il solo periodo corrispondente alla durata dell’emergenza. Toni decisamente “soft”. Sul cambio di rotta, maligna qualcuno, potrebbe aver influito il fatto che Marra, fino alla scorsa estate, prima quindi di diventare consigliere del Csm, fosse direttore generale degli affari giuridici e legislativi del Dipartimento Affari di Giustizia, l’ufficio chiave di via Arenula che mette in pratica l’atto d’indirizzo politico del Guardasigilli. Si sarebbe trattato, allora, di un parere sul suo ex ufficio. Infine una curiosità: Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita hanno espresso la loro contrarietà a questo parere. A differenza di Piercamillo Davigo. Una scissione in vista nel gruppo di Autonomia & Indipendenza? “L’emergenza ha obbligato al salto tecnologico, ma il sistema funziona” di Giulia Merlo Il Dubbio, 29 marzo 2020 Intervista a Barbara Fabbrini, Capo dipartimento del Ministero della Giustizia. La macchina della giustizia italiana reagisce alla crisi sanitaria, mettendo in campo nuovi strumenti informatici e paradigmi organizzativi. “Grazie al lavoro instancabile del personale del dipartimento che si è impegnato per dare risposta alle necessità di magistrati e personale amministrativo, siamo riusciti ad attivare meccanismi organizzativi efficaci e il ministro Bonafede è sempre stato al nostro fianco”, ha confermato Barbara Fabbrini, capo del dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi presso il Ministero della Giustizia. Quali passi sono stati fatti per garantire il funzionamento della giustizia anche in emergenza? Ci siamo mossi a 360 gradi e per step, partendo da un dato: ci riferiamo a una platea molto ampia che comprende oltre 10mila magistrati, 36mila dipendenti e 5mila magistrati onorari circa, cui vanno sommate le altre professionalità interconnesse, come gli avvocati. Insomma siamo un’amministrazione centrale ma numerosa e fortemente ramificata nel territorio. I passaggi sono stati prima la dotazione di strumenti tecnologici; poi la creazione di strumenti organizzativi; infine la spinta alla formazione a distanza. Quanto è stato complicato questo processo? Sicuramente ha richiesto un enorme sforzo da parte di tutto il personale del dipartimento, che non si è risparmiato. Tuttavia, partivamo già da un buon livello rispetto al resto della pubblica amministrazione, sia per quanto riguarda l’infrastruttura tecnologica che la capacità di utilizzo da parte di tutti i soggetti interessati. Partiamo dalla dotazione di strumenti tecnologici. Da che livello si è partiti? Rispetto al resto della pubblica amministrazione, il settore della giustizia si trova già in una condizione più avanzata. Grazie al processo civile telematico introdotto nel 2014, gli uffici sono già dotati dell’attrezzatura necessaria, della infrastruttura e dei server necessari per permettere il lavoro da remoto. Inoltre, tutti i magistrati sono già dotati di personal computer e smart card; stiamo verificando di completare le abilitazioni per chi non le avesse effettuate in passato. Per il personale amministrativo, ovviamente, questo non è possibile, ma i dipendenti che hanno dato la disponibilità allo smart working con dispositivi propri sono stati seguiti nell’installazione degli applicativi. Certo è che, in futuro, potranno essere fatte altre riflessioni per favorire in modo strutturale il lavoro agile per tutti. Dal punto di vista organizzativo, è stato possibile creare prassi omogenee su tutto il territorio nazionale? L’indicazione del Ministero è stata quella di dare forte impulso al lavoro agile ma soprattutto di creare delle logiche organizzative per l’emergenza sanitaria che fossero replicabili su tutto il territorio. Prima si è trattato di rispondere alle esigenze strettamente sanitarie, poi di permettere le udienze da remoto, ma anche di attivare i servizi necessari per rendere possibile l’espletamento di tutte le funzioni amministrative. Per farlo, abbiamo tenuto numerose call conference con i vertici di tutti i distretti, in modo da creare le migliori condizioni organizzative possibili, anche in territori in cui la situazione è molto difficile, come nel nord Italia più colpito dal virus. Come hanno risposto i territori? Molto bene, da nord a sud. In moltissimi distretti le udienze hanno iniziato a svolgersi da remoto, Milano, Roma; Salerno, Napoli solo per citare alcuni degli uffici, come anche le riunioni dei magistrati ad esempio per i consigli giudiziari, Firenze in questo ha aperto proprio l’altro giorno la strada. L’applicativo che stiamo utilizzando permette di lavorare bene e di coinvolgere anche gli altri soggetti esterni, come gli avvocati e le forze dell’ordine. I territori, nonostante il momento delicato, si sono mostrati molto dinamici e hanno iniziato subito a dotarsi di prassi organizzative attraverso protocolli tra tribunali, procure e avvocatura. Noi monitoriamo ogni cosa, pur garantendo la piena autonomia degli uffici: l’obiettivo futuro è esportare le prassi virtuose e anche immaginare che possano produrre evoluzioni normative, utili anche una volta conclusa l’emergenza. E proprio su questo il Ministro sta ponendo attenzione, anche nella logica peculiare di normazione che accompagna questo momento. In che modo è stata affrontata la necessità di formare il personale ai nuovi strumenti organizzativi? Abbiamo reso disponibile a tutti la piattaforma di e-learning che era stata predisposta per i percorsi concorsuali. Ora tutto il personale dipendente e i magistrati possono accedere ai moduli formativi tematici, che vanno dal funzionamento della “camera virtuale” dell’applicativo in uso ai servizi di cancelleria, fino ai vademecum per l’installazione dei software necessari. Nei giorni scorsi si è tenuta una web-conference con 1800 magistrati, che verrà ripetuta anche per omologare le modalità di organizzazione su tali applicativi. Si può già fare qualche riflessione su come la macchina della giustizia sta reagendo all’emergenza? Io credo che questo momento di estrema difficoltà stia obbligando al salto organizzativo e tecnologico che non si era riusciti a compiere per molti anni. Da tempo ad esempio si discuteva di smart working con i sindacati e vi erano state aperture, ma facevamo fatica a immaginare un funzionamento concreto dei meccanismi, soprattutto per i limiti normativi a tale tipologia di lavoro. L’emergenza ci ha costretti trovare nuovi paradigmi. Qual è stata la risposta dei dipendenti? Ottima, stando al numero di accessi alla piattaforma informatica. Il tutto è costato un grosso impegno per la direzione generale dei sistemi informativi, ma il risultato è visibile, e siamo estremamente contenti per la risposta del personale e dei magistrati. Ogni progresso è seguito attraverso call periodiche con i vertici dei distretti e uno dei dati emersi è che l’utilizzo del lavoro agile è molto più intenso al nord, dove l’emergenza è più forte, con due terzi dei dipendenti operativi da remoto. Al centro sud, invece, si procede con maggiore calma perché le esigenze sono diverse. Tuttavia la logica che guida queste nuove procedure è unitaria. Se sul fronte civile il pct aveva già portato a una digitalizzazione dei processi, quello penale è stato più complicato da gestire? Paradossalmente, proprio sul fronte penale c’è molto fermento e stanno nascendo protocolli su tutti i territori, per costruire nuovi flussi organizzativi che permettano di gestire le necessità. Al momento, l’infrastruttura telematica permette di svolgere regolarmente le udienze in videoconferenza. Tutto questo ha comportato costi aggiuntivi per il ministero? No, perché il grosso investimento in infrastruttura telematica era già stato fatto negli anni scorsi. Di fatto, si sta solo ampliando la platea degli utilizzatori ma con una struttura forte non fa differenza permettere l’accesso a mille o a quindicimila utenti. L’emergenza sta facendo sì che si utilizzi in modo più performante una infrastruttura che prima era sottoutilizzata. Gli unici veri costi aggiuntivi e non ancora quantificati riguardano le sanificazioni delle strutture, l’acquisto di mascherine, guanti e detergenti. Abbiamo attinto al fondo per le emergenze, che stiamo implementando, ma il Ministero è andato incontro a tutte le legittime esigenze degli uffici per la sicurezza del personale e dell’utenza. Lombardia. Coronavirus, aumentano i malati in carcere. Lo spettro di nuove proteste di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 29 marzo 2020 Salgono vertiginosamente i contagiati da coronavirus nelle 18 carceri della Lombardia. In un solo giorno 16 detenuti e 24 operatori sono risultati infetti. Sommati ai casi precedenti e successivi, si rischia di raggiungere livelli drammatici di cui al momento non si sanno le dimensioni. La “fotografia” scattata il 24 marzo su tutta la Regione da un “report” del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria conta, solo per quel giorno, 12 nuovi contagiati sotto osservazione all’interno delle carceri (uno ciascuno a Bollate e San Vittore, 5 ciascuno a Pavia e Voghera) a quali si aggiungono altri 4 ricoverati in ospedale. Numeri che si coniugano con difficoltà con quanto dichiarato 24 ore dopo dal ministro della giustizia Alfonso Bonafede secondo il quale che in tutta Italia “risultano 15 detenuti contagiati”. Dati che risultano ancora più preoccupanti perché fino ad allora su una popolazione carceraria che in Lombardia è di circa 8.500 persone (al 31 gennaio) erano stati fatti appena 147 tamponi. Niente, soprattutto se si considera l’indice di affollamento delle carceri lombarde (6.200 posti teorici, ai quali vanno sottratti quelli indisponibili dopo le rivolte de 8-9 marzo) che impedisce il distanziamento per prevenire i contagi e rende difficile isolare in quarantena i detenuti sintomatici, per fortuna quel giorno solo 5, o che sono asintomatici (92), ma hanno avuto contatti con positivi. Il virus non fa distinzioni e colpisce anche il personale che lavora dentro le mura. Tra agenti della polizia penitenziaria, amministrativi e operatori si sommano 24 contagiati ai quali vanno aggiunte 61 persone che sono state lasciate precauzionalmente a casa perché presentano sintomi e 64 che hanno avuto contatti con contagiati. Una situazione che preoccupa gli operatori lombardi alla quale si è arrivati nonostante le misure di contenimento volute dal governo, quelle che innescarono una serie di rivolte che si propagarono in molte carceri italiane e durante le quali morirono 14 detenuti che avevano assunto dosi letali di farmaci e di metadone che avevano prelevato negli ambulatori devastati. Nel distretto del Tribunale di sorveglianza di Milano, che copre metà del territorio regionale, l’altra metà è di competenza della Sorveglianza di Brescia, quelle misure erano state addirittura varate un paio di settimane prima. Il timore è che, se i contagi dovessero aumentare a dismisura, come la “fotografia” del 24 marzo lascia immaginare, potrebbero riprendere le proteste che rischierebbero di essere incontrollabili, non come le ultime alle quali ha partecipato solo una minoranza dei reclusi. Ogni giorno, negli istituti penitenziari lombardi entrano e transitano centinaia di persone. Si va dagli imputati per i quali la condanna diventa definitiva ai detenuti che vengono “sfollati” da un carcere all’altro, ad esempio per ristrutturate i reparti devastati, per finire agli arrestati che ogni giorno finiscono nelle carceri circondariali. Tutti, come gli operatori, vengono sopposti a triage e bloccati se hanno sintomi, che però possono emergere anche dopo giorni. Veneto. I giudici stoppano i detenuti, no a scarcerazioni. A Verona 15 agenti “positivi” di Gianluca Amadori Il Mattino, 29 marzo 2020 In tutto il Veneto da parte dei detenuti vi è grande preoccupazione e il crescente timore di contagi ha come conseguenza una valanga di istanze per poter usufruire di permessi, per chiedere la concessione degli arresti domiciliari o la remissione in libertà. Da un paio di settimane gli uffici giudiziari ricevono decine di istanze al giorno, sulle quali i giudici decidono dopo aver assunto informazioni dalle direzioni dei penitenziari che, finora, hanno assicurato che la situazione è sotto controllo e non vi sono rischi né per i detenuti, né per il personale di custodia. Di conseguenza gran parte delle richieste presentate dai difensori ottiene parere negativo della Procura e viene rigettata. Negli ultimi giorni la situazione di maggiore agitazione si è verificata a Verona Montorio, dove il sindacato di polizia penitenziaria ha segnalato l’esistenza di una quindicina di casi di positività al Covid 19 tra gli agenti di sorveglianza, con la conseguente richiesta di attivare speciali misure di sicurezza. Nessuna conferma ufficiale in merito all’esistenza di contagi tra il personale è però pervenuta. Dopo le rivolte di inizio marzo, la situazione è molto tesa anche perché la prospettata liberazione di tutti i detenuti a cui sia possibile applicare il braccialetto elettronico è di fatto inattuabile in quanto i braccialetti non ci sono e quelli che sono stati ordinati dal ministero potranno essere messi in funzione soltanto un po’ alla volta. A fine febbraio erano presenti nelle carceri italiane ben 61.230 detenuti (di cui 2702 donne e 19.899 stranieri) rispetto ad una capienza di circa 50 mila posti; in tutto il Veneto lo scorso anno erano mediamente 2394 a fronte di una capienza regolamentare di 1942, e la situazione peggiore la vive Venezia (Santa Maria Maggiore) dove alla data dello scorso 4 marzo erano detenute ben 268 persone, a fronte di una capienza di 169, con un tasso di sovraffollamento di oltre il 158 per cento. Non migliore il quadro del Friuli Venezia Giulia dove a fronte di una capienza di 479 posti, sono ristrette 663 persone (23 donne e 236 stranieri). Per la Camera penale veneziana, ridurre il rischio di contagio è un dovere giuridico prima ancora che etico e per questo motivo chiede interventi tempestivi ed efficaci: Si impongono soluzioni eccezionali quali l’amnistia e l’indulto - è la proposta - Occorre, inoltre, immediatamente rafforzare il personale del Tribunale di sorveglianza al fine di verificare quanti detenuti abbiano diritto a ottenere la detenzione domiciliare ovvero le misure alternative al carcere. Venezia. I detenuti hanno paura di contrarre il coronavirus, vogliono uscire Corriere del Veneto, 29 marzo 2020 L’attività giudiziaria è ferma, salvo le urgenze. Ma a pm e gip di turno stanno arrivando una montagna di istanze di scarcerazione da parte di detenuti di Santa Maria Maggiore e non solo, tutte con un motivo: la paura di contrarre il coronavirus. A Venezia non ci sono casi, anche se ieri la Cgil ha segnalato che è arrivato un detenuto da un istituto che invece aveva avuto dei positivi, senza che gli fosse fatto il tampone. Solo negli ultimi giorni sono arrivate una ventina di istanze, per lo più respinte. Il decreto “Cura Italia” anticipa l’uscita per i detenuti vicini alla fine della pena, ma a Venezia dovrebbero goderne solo una dozzina. Intanto la procura sta anche pensando di revocare le misure dell’obbligo di presentazione, per evitare la circolazione di chi va a firmare in caserma. Milano. Una casa per chi torna in libertà di Isabella Bossi Fedrigotti Corriere della Sera, 29 marzo 2020 L’argomento che ci interessa trattare - scrive Furio Ghislieri - non è principalmente milanese, però anche milanese. Mi riferisco alla questione dei carcerati che, se hanno poco da scontare, potranno venire posti in libertà per svuotare le celle in cui è impossibile tenere le distanze di sicurezza per salvarsi da un eventuale contagio da Covid-19. Non ho niente contro il provvedimento, per carità, a patto che i detenuti che usciranno vengano obbligati a una quarantena per evitare che l’infezione si diffonda nelle loro famiglie”. Speriamo che per loro quarantena ci sia. Ma non sarà facile attuarla perché buona parte dei detenuti con fine pena entro i i8 mesi che potrebbero perciò ottenere gli arresti domiciliari non hanno una casa dove andare. Non è un caso se proprio il Tribunale di Milano abbia rivolto un appello al Comune per trovare per costoro alloggi dove finire di scontare la pena. E dove - speriamo - sottoporsi a quarantena. L’alternativa per loro è di rimanere in carcere, pigiati in quattro, sei o anche otto in celle per due: con i rischi che possiamo immaginare. Le rivolte nelle carceri andate in scena alcune settimane fa (con parecchi morti) potrebbero essere solo un assaggio di quel che, chissà, succederebbe se il contagio dovesse dilagare all’interno dei luoghi di pena. Problema non molto diverso è quello dei tanti centri di accoglienza per migranti sparsi in tutto il paese, anche in Lombardia, dove, si sa, le camere singole non sono previste e i pasti vengono consumati gomito a gomito. Già è tristemente noto quel che succede nelle comunità numerose, per esempio nei conventi e nelle case di riposo per anziani, quando parte il contagio. Se poi si pensa a quei migranti che con il bel tempo di primavera torneranno a sbarcare nel sud, magari in arrivo da un’Africa che tra qualche mese potrebbe trovarsi a sua volta in pandemia, non è da escludere che il flagello, nel frattempo forse messo sotto controllo in Italia, di nuovo si riaccenda. E di ridistribuzione allora non si parlerà proprio più perché nessun paese vorrà accogliere, per paura del virus, anche una sola persona: panorama inquietante che speriamo irreale. Milano. Dopo la rivolta di San Vittore, intervista a Ileana Montagnini di Salvatore Porcaro napolimonitor.it, 29 marzo 2020 In queste giornate, cupe e desolanti, continuo a ripensare alla protesta nel carcere di San Vittore, in particolare a due immagini che col passare del tempo invece di rarefarsi diventano sempre più nitide ed eloquenti. La prima ha come protagonista una bambina, probabilmente la figlia di un detenuto, che gioca nei giardinetti di piazzale Aquilea. Siamo in viale di Porta Vercellina, in una zona centrale di Milano, dove termina uno dei bracci della Casa circondariale di San Vittore, una struttura costruita alla fine dell’Ottocento secondo il modello del panopticon con una torre centrale e sei raggi ciascuno di tre piani. La rivolta è iniziata da qualche ora, le strade che circondano il carcere sono state chiuse al traffico dalla polizia, che ora presidia la zona, mentre all’esterno delle mura si sono raggruppate alcune persone. Ci sono giornalisti che riprendono e commentano la protesta in diretta, un gruppo di anarchici che sta organizzando un presidio, familiari o amici dei detenuti che dalla strada cercano di comunicare con chi è all’interno della struttura. Al termine del braccio che affaccia su piazzale Aquilea ci sono tre finestre, strette e alte, alle quali è appeso un lenzuolo con la scritta “Libertà”. Dietro le finestre, nell’oscurità che contrasta con la luce del giorno, si percepiscono appena alcune figure umane. La loro voce al contrario ci arriva chiara e forte. “Vai a casa!”, urla un detenuto. “Mo’ vado”, gli risponde una giovane donna. “Libertà, libertà!” grida un altro. “Libertà, libertà”, gli fa eco la voce esile di una bambina. E poi di nuovo: “Libertà, libertà”, ripete quella stessa voce con un tono sempre più sfumato e distaccato. Mi volto per capire chi pronuncia quei suoni simili a una preghiera, e nel farlo mi immagino di vedere una bambina che stringe la mano della mamma, con il volto triste rivolto a quelle finestre che incombono sulla strada, e invece scopro che a emetterli è una bambina che gioca da sola nel piccolo giardino dando le spalle al carcere e a tutto quello che le sta accadendo intorno. La seconda scena si svolge a poche centinaia di metri dalla prima. Siamo davanti a un altro braccio del carcere di San Vittore, quello che affaccia su via Gian Battista Vico. Qui alcuni detenuti sono riusciti a salire sul tetto, e ora sono pacificamente seduti sul colmo. Sotto di loro, ma al di fuori delle mura, la polizia in tenuta antisommossa si è disposta davanti a un accesso della Casa Circondariale. Poco distante, gli anarchici gridano: “Fuoco, fuoco alle galere! Tutti liberi, tutte libere!”. Intorno a loro, giornalisti, fotografi e videomaker documentano quello che sta accadendo. Alla protesta assistono in silenzio alcuni familiari dei detenuti. Dal basso guardo i movimenti dei detenuti sul tetto, osservo i volti parzialmente coperti, ascoltando distrattamente le cronache dei giornalisti e le domande che alcuni manifestanti rivolgono ai detenuti con un megafono. Poi i ragazzi sul tetto, come se fossero appagati da quel momento di libertà, ci salutano e in fila indiana si allontanano uno alla volta. Sembra la conclusione della rivolta, invece, inaspettatamente, uno di loro torna indietro, si sporge verso di noi, allarga le braccia, porta il petto all’infuori e con tutta le energie che ha grida disperatamente: “Aiuto! Aiuto! Aiuto!”. Qualche giorno dopo la rivolta incontro Ileana Montagnini, responsabile area carcere della Fondazione Caritas Ambrosiana, che da molti anni segue percorsi di reinserimento sociale di persone in esecuzione penale esterna. “Il carcere convince un po’ tutti - mi confida - forse perché l’idea di prendere, chiudere e isolare parla alla pancia delle persone. Eppure così com’è non funziona. In Italia abbiamo una recidiva che sfiora il settanta per cento e ci sono organismi come Antigone, come la Conferenza nazionale volontariato e giustizia che denunciano sistematicamente il mancato rispetto dell’art. 27 della Costituzione, che parla di esecuzione penale in termini di rieducazione. Già è difficile usare la parola “rieducazione” con gli adulti, però se ci atteniamo al testo costituzionale, noi dovremmo avere delle strutture volte a questo scopo. Invece, a noi sembra che le condizioni di sovraffollamento, di precarietà e di carcere vissuto come discarica sociale non rispettino questo articolo. Al contrario ci sembra che funzioni meglio l’esecuzione penale esterna. Sulla quale però non ce la sentiamo di dire che la recidiva crolla al venti per cento, perché è un dato che si basa su un campione per il momento poco rappresentativo, quello di coloro che accedono alla misura alternativa. Quindi è vero che la recidiva crolla, però sarebbe più corretto fare degli studi su campioni più vasti”. In Italia, aggiunge, ci sono circa 67 mila persone che eseguono la pena intra-moenia, cioè all’interno di strutture circondariali o penali, e 45 mila che eseguono la pena extra-moenia. I progetti della Caritas si rivolgono soprattutto a questi ultimi, cioè a chi è fuori dal carcere o chi ha diritto a uscire ma, per mancanza di requisiti sociali, resta all’interno delle strutture penitenziarie. Sono gli educatori, i cappellani e i volontari che segnalano alla Caritas le persone che possono accedere ai progetti esterni, abitativi o di orientamento al lavoro. L’accesso alle misure alternative è fortemente legato a condizioni sociali, come per esempio la presenza di un’abitazione idonea per richiedere la detenzione domiciliare. Per questo la Caritas mette a disposizione una rete di appartamenti, dando la possibilità di usufruire di una comunità per gli arresti domiciliari e offrendo un servizio di orientamento al lavoro. “Tante persone in carcere - continua Montagnini - azzardo una cifra, il trenta per cento, hanno problemi di natura psicologica o psichiatrica, un altro trenta per cento è costituito da persone dipendenti da sostanze, alcol o comportamenti. Un numero crescente è costituito da persone straniere prive di mezzi. Non tanto perché le persone straniere commettono più reati, le statistiche dimostrano il contrario, quanto perché le condizioni di precarietà dovute alla criminalizzazione del fenomeno migratorio, hanno creato un substrato favorevole alla commissione di reati. Tutte queste categorie hanno poco a che fare con quello di cui dovrebbe occuparsi il carcere, cioè la delinquenza. In più di dieci anni di esperienza ho incontrato principalmente poveri, malati, persone ignoranti - nel senso che ignoravano anche i propri diritti - persone con problemi di dipendenza, persone senza reti. E queste non mi sembrano che siano le categorie che studiano i criminologi. Almeno, non è quello che ho studiato io”. Queste condizioni di inadeguatezza per alcuni istituti e indecorose per altri, hanno fatto sì che in un momento di emergenza come quello che stiamo vivendo non ci fosse uno spazio per il dialogo e che le preoccupazioni delle persone in carcere - alimentate dall’unica fonte di informazione che hanno: la tv - sfociassero in rivolte. A San Vittore, racconta Montagnini, circa quindici giorni fa, per evitare contagi da coronavirus, gli ingressi sono stati fortemente contingentati, così come in altri istituti lombardi e poi italiani; dopo pochi giorni, per gli stessi motivi i colloqui con i familiari sono stati sospesi, e tutte le attività sociali, come la scuola, sono state interrotte. Queste restrizioni hanno fatto crescere ansia e tensione fino all’esplosione di giorni scorsi. “Se si toglie un beneficio così importante - dice Montagnini - come quello di vedere i propri familiari, è chiaro che si innesca una miccia, che va spenta con il dialogo ma anche con la concessione delle misure ordinarie, non solamente quelle straordinarie, che già si possono mettere in campo. Più di un anno fa, per esempio, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria ha emesso una circolare in cui concede la possibilità di effettuare videochiamate tramite Skype e gli istituti si devono attrezzare per poterle garantire. A San Vittore l’accesso alle telefonate per tutti è stata un’assicurazione che ha fatto rapidamente placare l’ansia”. “È naturale - aggiunge infine - che in questi momenti di crisi si avanzino delle richieste particolari. Ma non ci dovrebbe essere bisogno di questi momenti per chiedere misure di riduzione del sovraffollamento delle carceri. Oggi in Italia ci sono 17 mila detenuti sotto i due anni di pena che potrebbero essere tutti fuori dagli istituti, questo lo dice la legge, non lo dice la Caritas, non lo dicono le associazioni”. Milano. Incendio nel Palazzo di giustizia. “Atti urgenti salvi, ma è un disastro” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 29 marzo 2020 Innesco accidentale. Distrutti gli uffici dei gip e la cancelleria centrale. Nessun ferito. Mancano solo le cavallette ormai. E poi - dopo l’incendio che ieri all’alba ha reso inagibili tre piani su sette - il Palazzo di giustizia di Milano, già alle prese con il Covid-19 come ogni lembo di Paese, le avrà viste tutte: falle nei metal detector quando un imputato sparò a morte a un avvocato e a un giudice e a un coimputato, l’arresto per contiguità mafiose del titolare di una società di vigilantes del tribunale, pluriennali negligenze sui parapetti culminate nella caduta dalle scale di un avvocato rimasto paralizzato, da un mese la contabilità dei giudici o cancellieri positivi al virus e i relativi salti mortali per assicurare almeno i servizi essenziali, magistrati issati su una gru a San Vittore per cercare di raffreddare una rivolta di detenuti, e adesso appunto il rogo. Che, per cause accidentali ancora da chiarire, prende a serpeggiare forse già di notte al VII dei sette piani (dove lavorano i giudici delle indagini preliminari e il Tribunale di Sorveglianza), incenerisce all’alba la cancelleria centrale Gip oltre al Punto informativo per il pubblico, e “gassa” l’antistante ala dei giudici di sorveglianza. Quello che non fa in tempo a fare il fuoco, soffocato a fatica da tre ore di gran lavoro di sette automezzi e due scale dei pompieri, finisce di farlo l’acqua nei tre piani posticci, sopraelevati decenni fa con materiali approssimativi: acqua che non solo infradicia i fascicoli nella parte inferiore degli armadi del Tribunale di Sorveglianza, ma allaga i sottostanti VI e V piano dove lavorano i pm del pool Antimafia e alcuni giudici civili. L’acqua percola sino ad alcune zone del IV piano della Procura, dove si staccano controsoffitti di cartongesso vicini agli uffici di due procuratori aggiunti. “Al momento non ci sono evidenze diverse da un fatto accidentale, ma è stato un incendio violentissimo”, rileva il pm Alberto Nobili, accorso sul posto, mentre il presidente gip Aurelio Barazzetta constata “un danno importante, la cancelleria centrale è distrutta”. “Tutto allagato, tutto buio, abbiamo dovuto inoltrare gli atti urgenti a Pavia, stavamo già dando risposte oltre le nostre forze e ora i nostri uffici sono chiusi”, non crede ai propri occhi Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di Sorveglianza. Per ora sono inagibili VII, VI e parte del V piano, poi occorrerà verificare tre tipi di danni: ai fascicoli (quanti andati persi e se recuperatili da versioni informatiche), alla staticità delle strutture, e alla utilizzabilità o meno dell’impianto elettrico. Al momento sono state recuperate in qualche modo 8 stanze al IV piano per sistemarvi i primi “esuli” in via di sgombero. Ai vertici giudiziari arriva la telefonata del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che ringrazia il personale per il “puro ed encomiabile spirito di servizio” che va “oltre quello che è dovuto allo Stato”, aggiungendo che “è giusto che i cittadini sappiano che il ministero sta dando e darà tutto il sostegno possibile”. “Non può tacersi - osservava appena lo scorso primo febbraio all’Anno giudiziario la presidente della Corte d’Appello, Marina Tavas si - dei gravissimi ritardi con i quali il ministero della Giustizia risponde alle richieste urgenti reiterate insistentemente” per “molti interventi di adeguamento rispetto alle norme sulla sicurezza sul lavoro”, tra i quali proprio “il rifacimento del sistema antincendio del Palazzo, non funzionale e necessitante di integrale ristrutturazione”. Venezia. “Al personale dei penitenziari dispositivi come quelli dei sanitari” veneziatoday.it, 29 marzo 2020 L’appello della Funzione Pubblica Cgil veneziana: “Tamponi estesi, mascherine adeguate, visiere e il camice. Sveltire le procedure di trasferimento agli arresti domiciliari. Armi spuntate quelle della polizia penitenziaria per combattere la guerra contro il coronavirus. Lo dice in una lettera il sindacato Fp Cgil veneziano, lanciando un appello affinché i poliziotti in servizio al carcere Santa Maria Maggiore vengano dotati di dispositivi di protezione uguali a quelli del personale della sanità. “Mascherine, ma non quelle chirurgiche, guanti, visiera, come nei reparti più a rischio, e un camice da indossare sopra la divisa e da gettare alla fine del servizio. Solo così si garantisce la sicurezza di chi lavora e di chi è detenuto”. Questo è tanto più vero, spiega il sindacato, nel caso dei trasferimenti delle persone in reclusione. È chiaro che tutto avviene nel rispetto delle precauzioni. E che le persone che passano da una casa di reclusione a un’altra vengono sottoposte a tampone e restano, in attesa di esito, in un ambito differenziato rispetto a quello degli altri detenuti. “Perché - chiede il sindacato - non estendere il tampone a tutti gli agenti? Non può esserci improvvisazione nella gestione di questa emergenza”. Il personale penitenziario che presta servizio nei reparti diversificati, dove ci sono le persone in quarantena, “deve essere dotato di mascherine FFP2, non della classica mascherina chirurgica. Non lo diciamo noi, ma il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”, aggiunge il sindacato. Questa situazione sta creando preoccupazione in una condizione straordinaria come quella attuale. È impossibile gestire il funzionamento di una struttura così complessa senza le misure adeguate, che per lo meno riducano lo stress e la tensione presente nelle case di reclusione, che si aggiungono alla carenza di organico. “Siano più rapide e più numerose - infine dice il sindacato - le procedure di trasferimento agli arresti domiciliari dei detenuti che hanno pene fino a un anno al massimo da scontare”. Anche questo aiuterebbe”. Roma. Positivi 4 sanitari nel carcere femminile di Rebibbia. “Far uscire i bambini” di Marco Tribuzi agenziadire.com, 29 marzo 2020 Il Sindacato di Polizia penitenziaria lancia l’allarme dopo la notizia dei tamponi positivi: “L’intero istituto è in pericolo”. “Sono risultati positivi al Coronavirus due medici e due infermieri che prestavano servizio nel complesso femminile del carcere di Rebibbia”. Lo ha detto all’agenzia Dire il segretario generale del sindacato generale del sindacato di Polizia Penitenziaria, Aldo Di Giacomo. “Questa segreteria generale - ha scritto Di Giacomo in una lettera inviata al capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, al Provveditore di Lazio-Abruzzo-Molise e al direttore del carcere Rebibbia Femminile - è venuta a conoscenza che un medico che prestava il proprio servizio all’interno dell’istituto è risultato affetto da Covid-19. Risulterebbe altresì che nella mattinata di oggi sono stati effettuati 7 tamponi alle detenute venute in contatto con il predetto medico. Lamentele a riguardo giungono da parte degli operatori di Polizia Penitenziaria ai quali risulterebbe non effettuato il tampone e nessuna precauzione per il possibile contagio è stata messa in atto”. “Tale episodio se fosse vero risulterebbe una grave lesione del diritto alla salute del personale di Polizia Penitenziaria oltre a costituire, evidentemente, una messa in pericolo per l’intero istituto in quanto il personale contagiato potrebbe essere untore e propagare il virus all’interno nello stesso, nuocendo agli stessi detenuti che si è cercato di tutelare effettuando il tampone- prosegue la lettera-. Si prega di voler mettere in campo tutti gli idonei accorgimenti per evitare di arrecare danno al personale di Polizia Penitenziaria, chiarendo fin da ora che la scrivente seguirà le vie legali in caso si dovessero riscontrare delle inadempienze da parte dell’Amministrazione penitenziaria, augurandovi di avere un unico interesse, ossia, la salvaguardia e la tutela di tutto il sistema carcerario, agenti e detenuti”. “Nella sezione femminile di Rebibbia ci sono nove bambini che vivono con le mamme detenute. Dopo il caso accertato di medico positivo al Coronavirus si facciano uscire i bambini dal carcere affidandoli a familiari o ai servizi sociali o alle stesse madri agli arresti domiciliari”. È l’appello, come si legge in una nota, che il segretario generale del sindacato di Polizia Penitenziaria, Aldo Di Giacomo. Di Giacomo ha rivolto al presidente della Repubblica Mattarella e ai ministri della Salute, Speranza, e Giustizia, Bonafede. “Una situazione di grande inciviltà che si aggiunge- dice Di Giacomo- all’autorevole e recente denuncia del presidente Mattarella sulla “mancanza di dignità in carcere”. Al 29 febbraio scorso, spiega la nota, sono 55 i bambini di meno di tre anni d’età che vivono in carcere con le loro madri, alle quali non è stata concessa, per decisione del giudice, la possibilità di accedere alle misure alternative dedicate proprio alle detenute madri. Ad essere recluse con i propri figli sono 51 donne, 31 straniere e 20 italiane. Per Di Giacomo: “non possono essere i bambini a pagare la sempre più grave disattenzione dell’Amministrazione penitenziaria che si manifesta in relazione alla crescente diffusione del contagio Covid-19 in tutte le carceri italiane. Questi bambini devono uscire subito”. Tra le misure decise per ridurre il numero di detenuti secondo il dl varato dal Governo la condizione dei bambini in carcere con le madri richiede priorità su tutti gli altri casi. È una situazione insostenibile che va rimossa e che, conclude la nota, come sindacato di Polizia Penitenziaria abbiamo denunciato “in tempi normali” figuriamoci in questi tempi di emergenza sanitaria. I bambini non devono stare in carcere né tanto meno rischiare la salute. Pisa. Carcere, contagiati un medico e due poliziotti: uno è in ospedale di Pietro Barghigiani Il Tirreno, 29 marzo 2020 Almeno una cinquantina gli agenti in malattia con febbre. La denuncia del sindacato Ciisa: “Non rispettate le norme sulla sicurezza nei luoghi di lavoro”. Una dottoressa dei servizi sanitari all’interno del carcere Don Bosco e due agenti della polizia penitenziaria sono risultati positivi al coronavirus. Per un agente, di 45 anni, è stato necessario il ricovero. Le sue condizioni sono stabili. Gli altri due contagiati sono seguiti a domicilio. Come conseguenze collaterali all’ingresso del virus nel carcere ci sono quasi una cinquantina di poliziotti con febbre e in malattia. Una situazione che rischia di innescare un effetto dominio capace di trasformare il Don Bosco in un fronte sanitario. Romeo Chierchia, segretario della Ciisa penitenziaria, denuncia i ritardi con cui è stata affrontata l’emergenza. “L’utilizzo improvviso dei dispositivi di protezione personali dal 21 marzo solo per gli operatori sanitari, ci aveva insospettito circa il fatto che l’area sanitaria Asl e la direzione fossero a conoscenza dell’esito del test della dottoressa, classe 1958, risultata positiva al Covid-19 - afferma. Tenere nascosta una notizia per la tutela alla salute pubblica, è gravissimo, dal momento che non sono stati predisposte le misure previste dalla norma Covid-19. Per chi ha lavorato in stretto contatto deve essere messo in quarantena, provvedere alla sanificazione degli ambienti di lavoro. Intanto tutto è taciuto. Ma non c’è l’obbligo del datore di lavoro di predisporre tutte le misure necessarie a garantire l’integrità fisica e la personalità morale dei propri dipendenti?” Il sindacalista annuncia l’ipotesi di una denuncia per lesioni personali gravi/gravissime “aggravate dalla violazione delle norme antinfortunistiche qualora non siano state adottate le misure necessarie a prevenire il rischio di contagio dei lavoratori, cagionando la malattia o la morte del lavoratore”. Gli agenti si ammalano con una frequenza ormai quotidiana. Dall’inizio della prossima settimana inizierà un controllo attraverso i tamponi per tutto il personale del Don Bosco. La Ciisa proclama lo stato di agitazione del personale di polizia penitenziaria non escludendo di arrivare allo “sciopero bianco” ad oltranza. “Un’altra cosa che non va bene sono i colloqui con l’accesso dei familiari dei detenuti - riprende il sindacalista -. Si permettono ingressi che in questo momento sono inopportuni”. Torino. Carcere, positivi due detenuti: accompagnati a casa dalla Polizia penitenziaria torinotoday.it, 29 marzo 2020 Nella tarda mattinata e nel primo pomeriggio di sabato 28 marzo, due detenuti al carcere Lorusso e Cutugno, riscontrati positivi al tampone da Covid-19, sono stati ammessi alla detenzione domiciliare mediante accompagnamento con automezzi e personale del Corpo di Polizia Penitenziaria. A darne notizia l’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) per voce del segretario generale Leo Beneduci che aggiunge. “Nel merito dell’iniziativa preoccupa fortemente la scelta di adibire al trasporto di soggetti positivi al contagio da Covid-19 automezzi e personale di Polizia Penitenziaria come se si trattasse di una operazione attuata in condizioni normali che invece, in questo momento non sussistono”. “Soprattutto - indica ancora il leader dell’Osapp - oltre all’impiego di automezzi di cui non si è certi che sarà effettuata l’idonea sanificazione, desta non poca perplessità il fatto che pur conoscendo da un lato, l’insufficiente dotazione di dispositivi di protezione individuale e dall’altro il fatto che durante tali operazioni naturalmente non si rispetti la distanza di oltre un metro tra i soggetti, si sia scelto di adottare tali modalità e non l’utilizzo di ambulanze e personale sanitario. Reggio Calabria. Le detenute di cuciono mascherine per le carceri calabresi di Fabio Mandato paroladivita.org, 29 marzo 2020 Il garante Siviglia: la situazione nelle carceri calabresi in questo momento è sotto controllo. Non c’é nessun contagio e anzi alcuni problemi di assistenza sanitaria si stanno risolvendo. “In considerazione dell’emergenza coronavirus, le detenute del carcere S. Pietro di Reggio Calabria hanno dato disponibilità a cucire delle mascherine, intanto ad uso interno, per quanto riguarda gli stessi detenuti, la polizia penitenziaria, i medici e gli infermieri che lavorano in carcere in tutti gli istituti penitenziari della Calabria ed eventualmente per i cittadini”. È quanto spiegato da Agostino Siviglia, garante dei detenuti della Calabria. Un’iniziativa che nasce dai magistrati di Area democratica per la giustizia di Reggio Calabria grazie al progetto ‘Ricuciamo’, “che avevamo iniziato lo scorso anno facendo cucire alle donne detenute le pettorine sia per gli avvocati che per i magistrati per le udienze”. Le detenute del carcere reggino, ormai in possesso di una professionalità che merita di essere valorizzata, riescono a realizzare 250 mascherine al giorno - spiega Siviglia. Considerando che negli istituti penitenziari della Calabria ci sono più di 2000 detenuti, l’obiettivo è quello di fare fronte anzitutto a alle esigenze interne. Man mano le mascherine potrebbero essere anche esternalizzate”. Il tessuto acquistato da Area Democratica “è quello indicato dall’Istituto Superiore di Sanità. L’amministrazione penitenziaria ha comprato gli elastici e quanto mancava, quindi tutto è fatto secondo le prescrizioni”. Relativamente alla situazione nelle carceri calabresi, Siviglia evidenzia che “in questo momento la situazione è sotto controllo, nel senso che non ci sono stati episodi di rivolta come negli altri istituti italiani nelle settimane scorse; i detenuti hanno compreso il grave momento di difficoltà per tutti, anche l’impossibilità di visite da parte dei familiari, dimostrando un grande senso di responsabilità”. “Non c’è al momento in Calabria nessun contagio - sottolinea il garante - ed anzi qualche problematica che c’era di assistenza sanitaria, ad esempio nel carcere di Arghillà, si stanno risolvendo. Infatti mancavano gli infermieri e li stanno reclutando con l’Asp provinciale”. Napoli. Il Garante: “I detenuti di Poggioreale vogliono contribuire nella lotta contro il Covid-19” di Rossella Grasso Il Riformista, 29 marzo 2020 “Poggioreale è una potenziale bomba a orologeria solo se succedesse un caso di Coronavirus all’interno. Sono 2.000 detenuti stipati in celle a 9 o a 10 persone. Non è immaginabile cosa potrebbe succedere se scoppiasse il virus”. Così, Pietro Ioia, garante dei detenuti di Napoli, ha espresso le preoccupazioni sue e dei detenuti di uno delle carceri più grandi e affollate d’Italia. Il garante, accompagnato dalla sua collaboratrice Sarah Meraviglia, ha fatto una lunga visita presso la Casa circondariale “G. Salvia” di Napoli Poggioreale per incontrare il Direttore dell’Istituto, Carlo Berdini, e i delegati dei detenuti ristretti al fine di monitorare l’impatto e le ripercussioni dello stato d’emergenza sulle condizioni di vita e di salute dei detenuti. Una visita durata sette ore di colloqui con le delegazioni rappresentanti ciascuno degli undici reparti dell’istituto che hanno portato all’attenzione del Garante le preoccupazioni della popolazione ristretta circa l’emergenza sanitaria che tutti stanno vivendo in queste ore. Numerosissimi detenuti hanno richiesto a gran voce la possibilità di donare il proprio sangue, effettuare donazioni in danaro o contribuire alla fabbricazione di mascherine sanitarie. Inoltre hanno mostrato consapevolezza circa la necessità delle misure governative anti-contagio in seguito alle quali sono stati sospesi i colloqui con i familiari fino a data da destinarsi. Hanno condannato l’uso improprio della forza da parte di quei detenuti che lo scorso 8 marzo hanno provocato tramite azioni violente danni da oltre un milione di euro. Ai detenuti è stata data la possibilità di continuare ad avere contatti con i propri cari attraverso due videochiamate a settimana della durata di 10-15 minuti. Tra le principali problematiche di cui si farà carico il Garante figura la questione relativa alla gestione della procedura che assicura il recapito ai familiari dei pacchi dei detenuti in uscita dall’istituto. Secondo quanto riportato da Ioia, il nuovo direttore Carlo Berdini si è dimostrato determinato nell’ascoltare le istanze e le preoccupazioni dei detenuti. Oltre a mettere in atto una serie di misure di prima necessità quali la fornitura di detergenti disinfettanti per l’igiene all’interno delle celle nonché l’acquisto di mascherine e di guanti per il personale della polizia penitenziaria (potenziale vettore per il contagio avendo contatti costanti con l’esterno), la direzione ha reso possibile l’installazione di uno scanner termico all’ingresso dell’istituto, a tutela dei detenuti e di tutto il personale. Il Garante ha voluto anche rassicurare i familiari dei detenuti circa l’espletamento all’interno della struttura dei protocolli ASL di contenimento del contagio (come il triage per i nuovi giunti) nonché la predisposizione di un reparto intero attualmente non ospitante detenuti in vista di eventuali futuri casi di sospetto coronavirus. Il Garante si unisce alla popolazione detenuta tutta nel rivolgere un appello alla Magistratura di Sorveglianza affinché vengano velocizzate le procedure per la concessione di misure alternative al fine di ridurre le presenze. Pescara. Da giorni impossibile avere notizie dei detenuti nel carcere di Castrogno di Loredana Lombardo ilcapoluogo.it, 29 marzo 2020 Centralino staccato e nessuna notizia dei detenuti reclusi nel carcere teramano di Castrogno. Da giorni alcuni congiunti di persone detenute nel carcere teramano di Castrogno non riescono a mettersi in contatto con i propri cari dopo che sono state sospese le visite e i permessi a causa dell’emergenza Coronavirus. La segnalazione arriva al Capoluogo da alcuni aquilani che non riescono ad avere notizie dei propri cari che si trovano reclusi nel carcere di Castrogno. La redazione ha provato a contattare direttamente il centralino del carcere di Castrogno al numero 0861/414777 ed effettivamente non è possibile prendere la linea; il numero sembra staccato. Il decreto del governo emanato per arginare la diffusione del Coronavirus dispone che fino al 3 aprile per alzare il livello di guardia anche in tutte le carceri italiane, i colloqui potranno avvenire solo tramite video o al telefono, così come sono stati sospesi i permessi e la libertà vigilata. Anche in questo caso, in base a quanto riferito alla redazione, non è stato possibile mettersi in contatto con il carcere di Castrogno nemmeno tramite Skype e effettuare quindi i colloqui con le modalità emergenziali previste dal decreto. Il Capoluogo ha sentito l’avvocato aquilano Vincenzo Calderoni che difende una persona che attualmente si trova reclusa in carcere a Castrogno. L’avvocato calderoni ha riferito di aver visitato il detenuto in carcere la scorsa settimana e di aver sentito in questi giorni i parenti del suo assistito, preoccupati, perché non hanno notizie del proprio congiunto e non riescono a mettersi in contatto. L’avvocato ha contattato allora Gianmarco Cifaldi, Garante per i diritti delle persone detenute in Abruzzo per avere delucidazioni in merito. Il dottor Cifaldi ha risposto di inviare una mail all’indirizzo istituzionale per sottoporre la questione. L’avvocato ha già provveduto a inoltrarla ma ancora non ha ricevuto risposta. Auspichiamo che in un momento così delicato, la nostra civiltà non si dimentichi che anche i detenuti hanno dei diritti e che soprattutto vanno rispettati soprattutto nei momenti difficili come l’attuale”, è il commento dell’avvocato Calderoni rilasciato al Capoluogo. La sospensione dei colloqui e dei permessi ha reso la situazione nelle carceri italiane incandescente; sono diverse le proteste e le rivolte scoppiate in queste ultime settimane nelle carceri da Nord a Sud del Paese, in alcuni casi molto affollate. Anche nel carcere di Castrogno, nelle scorse settimane i detenuti hanno protestato dopo le restrizioni imposte a causa dell’emergenza Coronavirus. Ci sono state rivolte nella sezione detenuti comuni della struttura (430 contro i 250 previsti), tanto che la voce dei detenuti è stata sentita anche a distanza, con le suppellettili battute contro le inferriate delle celle. Anche le detenute della sezione femminile di Castrogno si sono fatte sentire dando alle fiamme cartoni e un materasso. La protesta è stata poi contenuta dal personale di polizia penitenziaria che è riuscito a convincere i reclusi (soprattutto quelli della sezione Alto rischio) a rientrare nelle stanze. Napoli. Coronavirus, le paure e le speranze dei ragazzi dell’Ipm di Nisida di Elvira Ragosta vaticannews.va, 29 marzo 2020 Il cappellano dell’Istituto penale per i minorenni di Nisida, racconta a Vatican News come i ragazzi stanno vivendo la pandemia. “Oggi siamo tutti ai margini, non solo i ragazzi del carcere, pertanto - afferma - è più forte il desiderio di libertà che è speranza di una vita serena”. Sono ragazzi sottoposti a misure penali restrittive quelli che si trovano nell’Istituto penale di Nisida, a Napoli. Don Gennaro Pagano, il giovane cappellano, li incontra almeno cinque giorni a settimana per trascorrere un po’ di tempo con loro, fare una chiacchierata e pregare insieme. Il sacerdote racconta che c’è grande attenzione da parte del direttore e del personale per aiutare i ragazzi a vivere con serenità questo momento, nonostante siano ovviamente sospese tutte le attività e i laboratori esterni. “In sinergia con loro, come cappellania - sottolinea - stiamo cercando di essere presenti per dare un conforto non solo spirituale ma anche pratico, con relazioni, attività, guardando film insieme, cerchiamo di essere presenti”. Apprensione per le notizie sulla pandemia - “Ovviamente - aggiunge don Gennaro - c’è un po’ apprensione per i parenti che sono fuori ma anche per la loro stessa salute. I ragazzi guardano la televisione, che dà notizie abbastanza allarmati, a volte in maniera bulimica, quindi c’è certamente tensione. Anche negli istituti penali per minorenni, come in tutte le carceri italiane, sono stati sospesi i colloqui con i parenti. L’Istituto si è però attrezzato per le videochiamate. Ovviamente questa mancanza, anche fisica, di genitori e familiari è risentita dai ragazzi, ma stiamo cercando di colmare questa lacuna come possiamo”. Evitare il contagio della paura - Don Gennaro incontra i ragazzi di Nisida quasi tutti i giorni. “Anzitutto - precisa - cerchiamo di non avere il coronavirus come oggetto continuo di dialogo, altrimenti diventa un’ossessione da cui è difficile uscire. Bisogna stare attenti in questo periodo ad evitare anche il contagio della paura, dell’ansia che, soprattutto in un carcere, è molto problematico”. “Guardiamo un film, facciamo una chiacchierata, ho munito la cappella - aggiunge il sacerdote - di una macchinetta del caffè per dare loro la possibilità di vivere un momento conviviale. E ovviamente trascorriamo il tempo anche trovando la forza nella Parola di Dio, in quello che il Signore ci dice nelle sue promesse di bene, di amore e di vita. La preghiera per loro - sottolinea ancora don Gennaro - è sicuramente un grande conforto, un modo per essere vicini anche a chi è fuori”. Il cappellano ricorda che, per i ragazzi, è qualcosa di assolutamente importante sapere di poter affidare al Signore coloro che amano e che in questo momento non possono vedere. “È di conforto sapere che anche da fuori pregano per noi. La domenica, in un campo sportivo all’aperto dell’Istituto, viviamo sempre un momento di preghiera o un momento eucaristico, con tutte le precauzioni del caso. I ragazzi sono consapevoli, anche se all’aperto, di essere in questo privilegiati perché altri non possono accedere ad un tempio. In questo senso si sono fatti voce anche di tutta la città, dei bisogni di Napoli, di Pozzuoli, della diocesi, sono voce orante ed è molto bello”. Nisida, luogo-simbolo - Non essere dimenticati da chi è fuori, sottolinea don Gennaro, è la cosa di cui, soprattutto adesso, hanno bisogno questi ragazzi. “C’è bisogno di attenzione a loro e a questo luogo, molto simbolico per Napoli e per tutta la Campania, perché è un luogo in cui si misura la temperatura del benessere giovanile del futuro. È importante in questo momento non dimenticarsi dei ristretti, di coloro che sono in carcere”. L’importanza della speranza - La speranza per i ragazzi di Nisida assume un’importanza maggiore in questi giorni. “Credo sia la virtù fondamentale per loro - continua il parroco- e in questo senso ripeto insieme a loro continuamente quello che Papa Francesco ci ha detto fin dall’inizio del suo Pontificato, cioè “non lasciatevi rubare la speranza”. Speranza che in questo momento si allarga non solo alla speranza della libertà materiale, ma che diventa speranza di una libertà più grande, per vivere una vita serena, in cui l’amore e la solidarietà la facciano da attori principali e non da comparse”. “Credo - evidenzia don Gennaro Pagano - che questo sia l’insegnamento della pandemia per i ragazzi. C’è una fragilità comune, una difficoltà comune. Per la prima volta non sono solo loro ai margini, ma tutti siamo un po’ messi ai margini dal virus. E in questo senso di solidarietà c’è anche la consapevolezza che sperando insieme e attuando insieme la speranza se ne può uscire”. Una Chiesa che allarga le porte - Don Gennaro è anche direttore della fondazione “Regina Pacis” che si occupa di due case di accoglienza: “una si chiama Casa Papa Francesco, dove accogliamo ragazzi provenienti dall’Istituto di Nisida; l’altra è Casa Donna Nuova, dove accogliamo le donne detenute di Pozzuoli. Anche in questi giorni l’accoglienza non si è fermata. Come diocesi di Pozzuoli - perché Nisida ricade ecclesialmente nella competenza di questa diocesi - continuiamo a prestare la nostra accoglienza per quei minori che, secondo la legge e l’ultimo decreto, possono accedere a misure alternative. Proprio negli ultimi giorni ne abbiamo accolto uno, e contemporaneamente, grazie alla pastorale carceraria diocesana, abbiamo accolto anche delle detenute che vengono nel carcere di Pozzuoli. Come Chiesa stiamo allargando le porte”. Bologna. Stop al teatro in carcere di Massimo Marino Corriere di Bologna, 29 marzo 2020 Il regista Billi e il laboratorio femminile alla Dozza. “Il laboratorio teatrale all’interno della sezione femminile della Dozza è stato sospeso all’inizio dell’emergenza. Dal 24 febbraio non siamo più entrati in carcere”. Così Paolo Billi, direttore artistico e regista del Teatro del Pratello, racconta quello che sta succedendo in un settore delicato dell’attività teatrale, quello che con la sua compagnia e col Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna svolge in varie istituzioni penitenziarie della regione. “Abbiamo ripreso però il mondo”. Le musiche, elaborate dalla classe di musica applicata di Aurelio Zarrelli del Conservatorio, sono quasi pronte. Il laboratorio sulla parte iconografica svolto da MamBo si concluderà online. “Il laboratorio di scrittura, poi, ha avuto un gran successo. I posti disponibili, 20, sono stati prenotati in pochissimo tempo e ora si sta lavorando a distanza. Non sarà possibile effettuare lo spettacolo il 25 aprile, come era previsto: l’abbiamo spostato a data da destinarsi”. Dovrebbe svolgersi in Salaborsa, usandone tutti gli spazi, in un viaggio che dagli antefatti storici, dall’incontro tra san Francesco e il Sultano d’Egitto, passando per la conferenza del 1920 e per altri momenti, arriverà alle crisi attuali. “Su Radio Città Fujiko sono partite trasmissioni in cui presentiamo i materiali, il venerdì. Ci vorrà comunque del tempo per tirare le fila, perché è stato bloccato il laboratorio di scenografia, che doveva costruire sei grandi tappeti dove narrare la storia”. L’interruzione delle attività interne al carcere per Billi è un problema: “Le rivolte recenti hanno la ragione, sì, nella mancanza di contatti con ‘esterno, ma anche nell’inattività in cui sono precipitati gli istituti, una stasi che dilata il tempo e crea tensioni”. Un altro progetto in corso è dedicato al lavoro, in collaborazione con il Mulino, con varie scuole, col sindacato e le officine del carcere della Dozza. Dovrebbe confluire nello spettacolo che il Teatro del Pratello presenta ogni anno all’Arena del Sole in gennaio. Sperando che tutto riparta. Minori, disabili e detenuti, non ci dimentichiamo di loro di don Gennaro Pagano* Il Riformista, 29 marzo 2020 La consapevolezza della difficoltà del tempo presente dovuta alla crisi sanitaria ed economica provocata dalla pandemia che ha colpito il nostro paese, in alcune aree in modo drammatico in altre ancora contenuto, mi spinge in qualità di Direttore della Fondazione Regina Pacis, da sempre vicina alle istanze dei più fragili e marginali, ad invocare soluzioni importanti capaci di tener conto del bene integrale della persona e delle fasce più marginali della popolazione. Più volte ho sentito ripetere da qualcuno che l’epidemia da covid-19 è democratica in quanto potenzialmente coinvolge tutti: se lo è dal punto di vista biologico e medico non lo è dal punto di vista sociale. Siamo nel bel mezzo di una crisi che non è più esclusivamente sanitaria ma anche psicologica, sociale, economica. Pertanto credo, con i mezzi che solo chi governa e amministra può immaginare, anche questi altri tre criteri (psicologico, sociale, economico) debbano essere utilizzati con maggior centralità, nell’ambito della riflessione politica e sociale. Nell’affermare tale istanza penso ad alcune fasce di marginalità sociale che soffrono più di altre in questo momento. I minori. Bombardati da continui bollettini di guerra, spesso in balia di genitori che a causa della propria comprensibile ansia fanno fatica ad essere rassicuranti, respirano un senso di insicurezza che probabilmente avrà in molti di loro forti ricadute dal punto di vista della salute psichica. L’assenza totale dalla vita dei bambini e degli adolescenti di adulti di riferimento, come maestri, insegnanti, educatori, operatori che spesso sostengono i loro genitori nel compito educativo e di cura, ha per alcuni di essi conseguenze disastrose. Penso soprattutto a quei bambini che vivono in famiglie multiproblematiche, come molti dei minori che frequentano i nostri Centri Diurni: dal loro orizzonte è completamente scomparso un adulto di riferimento esterno alla famiglia, capace di coadiuvare quest’ultima, di sostenerne la resilienza e di vigilare sulla loro salute integrale. Inoltre per molti ragazzi che vivono in famiglie con enormi problemi economici e di arretratezza culturale e multimediale, la didattica a distanza è solo una terminologia incomprensibile e un’esperienza inarrivabile. I detenuti. Occupandoci di accoglienza di adolescenti di aera penale e di donne provenienti dall’esperienza carceraria, il nostro rapporto con alcune strutture detentive è costante. Io stesso, in qualità di Cappellano, mi reco quasi ogni giorno nell’Istituto Penale per Minorenni di Nisida, constatando la difficoltà del momento, la tensione dei ragazzi e la problematicità nella gestione del tempo: se non fosse per la dedizione creativa del Direttore e della costante disponibilità del Comandante di Reparto, unitamente alla collaborazione della Magistratura Minorile e di tutto il Personale, i detenuti, privi dei colloqui, delle occasioni ricreative organizzate dal volontariato carcerario, delle attività formative e laboratoriali si troverebbero a fare i conti con un tempo vuoto, generatore di malessere interiore e di dinamiche pericolose. Se in un Istituto minorile la competenza di chi vi lavora riesce a contenere e a gestire il tutto, in Carceri ben più grandi la situazione è seria e pericolosa - non solo dal punto di vista sanitario - tanto per il personale, quanto per i detenuti. In uno stato civile è impensabile che, seppur in una situazione emergenziale, la vita carceraria possa proseguire a lungo in questa sorta di limbo dove, contrariamente a quanto affermato dall’articolo 27 della nostra Costituzione, si fa fatica in questo momento ad offrire stimoli realmente rieducativi. I disabili. La chiusura di diversi centri specializzati e di molte realtà socio- educative sta producendo un’inevitabile ricaduta psicologica su molte persone con disabilità e lascia sprofondare in un senso di stanchezza e di indicibile solitudine molte delle loro famiglie. In molte zone del paese anche l’assistenza domiciliare è stata sospesa o mai avviata. Occorre fare qualcosa in tal senso per evitare delle vere e proprie tragedie familiari, pensando a modalità di fruizione dei servizi che possano mettere insieme le istanze sanitarie con quelle psicosociali dei disabili e delle loro famiglie. Le tre categorie a rischio di marginalità appena citate non sono le uniche: molti sono i problemi sociali prodotti da questa reclusione forzata e necessaria, fra tutti ad esempio le problematiche legate alla violenza domestica. Per questo, come Fondazione, raccomandiamo che lo stato di necessità sia più che mai valutato e rivalutato, modulato e rimodulato anche a partire da serie considerazioni derivanti dalle altre emergenze sociali in corso, tenendo presente che, nella crisi sistemica che stiamo vivendo, generatrice di povertà e miseria, anche forze oscure e criminali si stanno rendendo più che mai presenti sul nostro territorio, a partire dalla criminalità organizzata. Ieri, il Santo Padre, in Piazza San Pietro così pregava: “Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato. Ora, mentre stiamo in mare agitato, ti imploriamo: Svegliati Signore!.” Che questo risveglio possa riguardare non solo il Signore - a cui le parole sono rivolte in modo retorico e in cui come credenti poniamo la nostra fiducia - ma tutta la comunità nazionale e locale, a partire da chi ha responsabilità politiche e amministrative. *Cappellano Ipm Nisida, direttore Fondazione “Centro Educativo Diocesano Regina Pacis” La bugia dei numeri, la droga delle sei di sera di Alessandro Gilioli L’Espresso, 29 marzo 2020 Il sindaco di Nembro, ieri sera, spiegava a Radio Popolare che i numeri ufficiali sui deceduti di Covid-19 nel suo comune sono tutti falsi: “Bisognerebbe almeno moltiplicarli per quattro. La maggior parte sono morti nelle loro case o nella residenza per anziani. Poi non li hanno nemmeno tamponati. Quindi non risultano alle statistiche”. È esattamente la stessa cosa che mi diceva l’altro giorno Elena Testi, la brava collega che scriverà da Bergamo sul prossimo numero dell’Espresso: “Quando si parla dei numeri ufficiali qui tutti mi spiegano che non significano niente. C’è molta gente che muore a casa e gli ospedali non impegnano certo le macchine per fare i tamponi a chi è già morto. Quindi nessuno di loro compare nei dati”. Lo stesso sindaco Giorgio Gori, seppure con toni meno diretti, ha detto cose simili: nella mia città i conti non tornano. Ieri alla conferenza stampa della Protezione civile un collega (chiedo scusa se non ricordo chi) ha fatto proprio questa domanda ad Agostino Miozzo, il dirigente della protezione Civile che sostituiva Borrelli: avete idea di quanta gente muore in casa? Non ha avuta alcuna risposta. Nessuna. Miozzo ha replicato parlando d’altro, mascherine, furbetti, ciclisti, le solite cose. Il che forse pone anche questioni di altro tipo, cioè che senso ha fare conferenze stampa se poi non si risponde alle domande, a questa come ad altre poste dai colleghi più svegli (ad esempio, senza ottenere risposta è stato chiesto: perché Nembro e Alzano non sono stati dichiarati zone rosse come Codogno? Ha inciso o no quella mancata decisione sull’attuale mattanza di Bergamo e provincia? Quanti sono i cittadini stranieri e gli immigrati contagiati? Ha funzionato l’autoisolamento della comunità cinese a Prato o è una fake?). Se quelli della Protezione civile incontrano i giornalisti per non rispondere, ci mandino un video su Facebook come tutti gli altri e chiudiamo la finzione. Ma il punto non è nemmeno questo. Il punto è quello dei numeri quotidiani, a cui siamo tutti attaccati per capire se possiamo sperare o no. Ed è ormai evidente che questi numeri sono, se non del tutto falsi, comunque molto, molto, molto approssimativi. Le cifre sui morti, appunto, nascondono chi se n’è andato in casa. Quanto ai numeri quotidiani dei contagiati, quelli che ossessivamente guardiamo tutti alle sei del pomeriggio, dipendono da almeno due varianti: la quantità di tamponi effettuati e la tempistica con cui vengono forniti i risultati dai diversi laboratori. Che a volte rallentano, a volte invece si accavallano. Quindi questo stillicidio quotidiano di cifre non ha alcun valore reale. “Ci sono fluttuazioni dovute al caso”, spiega oggi a Repubblica Vittorio Demicheli, epidemiologo della task force lombarda in campo contro il virus. Ma sul numero dei contagiati c’è anche una terza variabile, forse più sottovalutata. E cioè che - come testimoniano i medici di famiglia - ci sono tantissime persone che restano a casa, con tosse e sintomi da Coronavirus, ma che non hanno abbastanza febbre o ipossia da essere ricoverati, quindi nemmeno tamponati. I loro medici di famiglia li curano come possono, con Tachipirina o altro. Sono contagiati fantasma, fuori dai numeri delle sei di sera. Del resto ce lo aveva già rivelato Borrelli, che le cifre dei contagiati erano false, quando l’altro giorno ha ammesso che “è verosimile il rapporto uno a dieci tra contagiati ufficiali e quelli veri”. Insomma, siamo tutti attaccati quotidianamente a numeri che sono, diciamo così, molto approssimativi. O più semplicemente farlocchi, almeno nel day-by-day. Eppure siamo tutti lì a studiarne le varianti anche minime, oggi più cento, ieri meno trenta, stasera va un po’ meglio, stasera va un po’ peggio. Che dire, che fare, allora? L’ideale sarebbe non guardarli ogni pomeriggio, staccarsi da questa tortura quotidiana per almeno una settimana: magari dopo un po’ di giorni le cifre hanno un po’ più senso, come tendenza, come curva. Lo dice, in linguaggio più tecnico, sempre Demicheli: “I numeri vanno letti per la tendenza e non per i valori puntuali”. Guardando più a ritroso, la settimana scorsa, si vede ad esempio che in Lombardia la percentuale dei contagiati aumentava ogni giorno a doppia cifra, adesso no, siamo tra il più 7,9 per cento di ieri e il più 5,4 di mercoledì. In sintesi nasce come una bella idea, questa conferenza stampa quotidiana: nasce come un esercizio di trasparenza e di confronto tra istituzioni e media-cittadini in un momento di emergenza. Ma è diventata un’altra cosa, un esercizio di reticenze, di mezze bugie e soprattutto di numeri sbilenchi. Colpa di nessuno, probabilmente: le cose vanno in modo inaspettato quando accadono catastrofi così inaspettate. Dovremmo staccarci, da quel rito quotidiano, soprattutto dal suo sciorinamento di cifre ballerine. Ma è difficile, e non ce la faccio neppure io, s’intende: ogni sera, alle sei, come a prendere una droga che sai che ti fa male ma di cui non riesci a fare a meno. Se il virus diventa un alibi per i leader autoritari di Alessandra Coppola Corriere della Sera, 29 marzo 2020 Lo stato d’emergenza è da sempre l’alibi perfetto per i delitti contro la libertà. Il peggio, in questi tempi di quarantena, è per chi si muove in spazi stretti, dove già si respirava poca libertà: lo stato d’emergenza è da sempre l’alibi perfetto per i delitti del leader autoritario (o del politico che aspira a diventarlo). Non è necessario attraversare i Continenti, l’ha raccontato sul Corriere di mercoledì Paolo Valentino: il premier ungherese Viktor Orbán ha presentato un disegno di legge che di fatto gli consentirà di esautorare il Parlamento, in una condizione d’allerta indeterminata. Non è passato ancora, ma questa settimana i voti dovrebbero essere sufficienti per stravolgere la democrazia a Budapest e permettere al capo di governare per decreto. “Emergenza coronavirus” e da settimane in Egitto non viene fissata un’udienza; pertanto lo studente di Bologna, Patrick Zaki, resta in carcerazione preventiva al Cairo. Allo stesso modo e con la stessa motivazione, in Arabia Saudita è stato posticipato a data da destinarsi il processo che Loujain Alhathloul attende da due anni in prigione, per aver infranto (appena prima che fosse abrogata) la legge che impediva alle donne di guidare: ne ha scritto Viviana Mazza. Il mondo è concentrato sulla pandemia e la polizia algerina arresta l’attivista e presentatore tv Khaled Drareni, che ha raccontato i mesi di “hirak”, di protesta, e ora è accusato di “attentato all’integrità del territorio nazionale”. Scendere in piazza non si può più, è evidente: che ne sarà delle primavere che stavano appena rifiorendo? C’è il pericolo di contagio, il primo ministro Narendra Modi ha gioco facile a proibire a New Delhi la marcia che da dicembre lo sfida, contestando la discriminazione dei musulmani in India. Di questi tempi, si cita spesso “Cecità” di José Saramago, un contagio bianco che appannava la vista e imbestialiva gli uomini. Ecco: stiamo in allerta, tenendo gli occhi aperti sul morbo ma anche sulla violazione dei diritti fondamentali che rischia ugualmente di aggravarsi. Senza tregua, il falso cessate il fuoco di Alberto Negri Il Manifesto, 29 marzo 2020 Antonio Guterres, segretario generale dell’Onu, il 23 marzo si era rivolto ai paesi in guerra chiedendo un cessate il fuoco per impedire che in zone già devastate e indebolite dai conflitti il coronavirus potesse mietere ancora più vittime. Nessuna grande o media potenza se lo è filato, tranne qualche gruppo di guerriglia come gli insorti comunisti delle Filippine. Siamo senza tregua ma sui media ci raccontiamo la favoletta della “pace da coronavirus”. Il Pentagono ha ordinato ai comandanti militari di prepararsi a un aumento dei combattimenti in Iraq emanando una direttiva per preparare una campagna contro le milizie sciite: alcuni generali esitano ma Trump e Pompeo spingono per approfittare dell’indebolimento dell’Iran prostrato dall’epidemia. Il quadrante iracheno è ribollente. Gli Usa si sono defilati da alcune basi per evitare attacchi dei miliziani mentre la Francia ha ritirato qualche centinaio di soldati: questo è il prezzo che Macron ha pagato per la liberazione di quattro ostaggi francesi dell’organizzazione umanitaria Cristiani d’Oriente prigionieri per oltre un mese non si sa se di qualche milizia o degli stessi servizi iracheni. Appare sempre più chiaro che a Baghdad si sta aprendo un nuovo capitolo della “guerra di Soleimani” tra le forze che vorrebbero un ritiro degli americani e gli Usa che qui vogliono fare la guerra a Teheran e alla Mezzaluna sciita. Altro che tregua. Non finiscono neppure le guerre economiche. Anzi gli Stati Uniti continuano a strangolare Teheran con le sanzioni e hanno imposto persino una taglia sul presidente venezuelano Maduro. Da ogni parte si chiede la sospensione delle sanzioni all’Iran: quelle finanziarie e bancarie, lo scrive anche il New York Times, impediscono a Teheran qualunque operazione di pagamento internazionale, compreso l’importa di medicinali. Non solo: Washington, dopo avere offerto agli ayatollah la carità pelosa di aiuti umanitari, si prepara a bloccare la richiesta di Teheran di un presto da 5 miliardi di dollari al Fondo monetario. Ognuno strangola chi può. Non pensiamo che noi europei siamo tanto meglio: il Nord dell’Unione europea non ci vuole regalare soldi perché spera di raccogliere quel che resterà di buono tra le macerie delle economie meridionali come la nostra. La Germania non ha bisogno di eserciti: fa lavorare l’epidemia e l’economia. Dopo avere evocato terminologie belliche per settimane adesso che è in guerra la nostra classe dirigente stenta ad accorgersene e se ne meraviglia. L’America di Trump non rinuncia al suo obiettivo, cambiare i regimi che non gli piacciono perseguendo politiche contrarie alla carta delle Nazioni Unite. Del resto non ci si poteva aspettare altro visto che hanno cominciato l’anno il 3 gennaio assassinando il generale iraniano Qassem Soleimani a Baghdad. Si combatte eccome, dalla Siria allo Yemen, dall’Afghanistan all’Iraq. Quel che si vede sono soltanto pause o un rallentamento delle operazioni. Nella provincia di Idlib siriani e turchi continuano a spararsi in mezzo ad azioni di guerriglia e attentati. In Libia sono in corso violenti scontri a sud-est di Misurata e le forze di Khalifa Haftar si stanno scontrando con quelle del governo di Tripoli. Haftar sta tentando a Ovest di impadronirsi di Zuara sulla direttrice di terminali di gas dell’Eni a Mellitah. Il governo di Tobruk garantisce che non intende interrompere il flusso del metano nella pipeline verso l’Italia ma quello che sta accadendo in Libia non è un buon viatico per la nuova missione europea Irene destinata a far rispettare l’embargo sulle armi. Dove non si guerreggia è soltanto perché si teme la diffusione del coronavirus non tra le popolazioni, completamente abbandonate al loro destino, ma tra eserciti e miliziani: quando la pandemia sarà passata serviranno truppe efficienti per regolare i conti. Certo c’è anche spazio anche per la diplomazia. Ma sui generis, per fare altre guerre. Il principe ereditario di Abu Dhabi, lo sceicco Mohammed bin Zayed e il presidente della Siria Assad si sono messi d’accordo: i Paesi del Golfo stanno riaprendo a Damasco che è entrata nell’asse con la Russia e l’Egitto in appoggio al generale Haftar in Libia. I siriani insieme a Mosca stanno reclutando schiere di miliziani da mandare a combattere per il generale libico e controbilanciare la presenza della Turchia a favore di Tripoli e di Sarraj. I più dimenticati di tutti sono i profughi: per loro non c’è fine alla sofferenza. E ora sono vulnerabili anche all’epidemia. In Medio Oriente, dalla Siria, allo Yemen, dall’Afghanistan alla Libia, oltre 20-30 milioni di persone ammassate nei campi profughi, all’addiaccio, o in cammino tra deserti e montagne, vivono senza neppure la speranza di raggiungere l’Europa. Loro restano in una perenne “zona rossa”, sospesi tra la vita e la morte. Senza tregua. Iran. Coronavirus: rivolte nelle carceri, 70 detenuti evadono rainews.it, 29 marzo 2020 In Iran quasi 25mila casi e duemila morti 28 marzo 2020 Altre 139 persone sono morte per il coronavirus in Iran nelle ultime 24 ore, portando il totale a 2.571. Lo ha reso noto un portavoce del ministero della Salute, Kianoush Jahangiri. Il numero totale dei contagiati è 35.408, con un aumento di 3.076 nelle ultime 24 ore. I guariti sono 11.679. Almeno 70 detenuti sono evasi durante una rivolta nel carcere di Saghez, nella regione curda dell’Iran, aggiungendosi ai 23 evasi il 19 marzo dal penitenziario di Khorramabad: si tratta della quarta rivolta in carcere in Iran, fomentata anch’essa dal contagio di coronavirus, in una decina di giorni. Lo scrive l’agenzia Farsnews, che, citando il capo della polizia del Kurdistan iraniano, aggiunge che cinque degli evasi da Saghez sono stati ricatturati. Il 20 marzo ci sono state sommosse anche nelle carceri di Tabriz e Aligoudarz, durante le quali c’è stato anche un morto. Le rivolte, scoppiate in occasione del rilascio per amnistia decisa dal governo di 85.000 detenuti, sono state scatenate dalla paura del contagio e la carenza di misure igieniche per prevenirlo. Salta l’udienza per Zaki in Egitto di Luca Muleo Corriere di Bologna, 29 marzo 2020 Era fissata per domani, la denuncia di amici e famigliari: senza notizie da settimane. Mobilitati Bologna, Amnesty e l’Alma Mater, dove studia, sono scesi in strada e hanno organizzato iniziative per chiedere la liberazione dello studente. Si fa sempre più disperata la situazione di Patrick Zaki lo studente dell’Alma Mater di origini egiziane arrestato il 7 febbraio scorso con l’accusa di propaganda sovversiva una volta tornato al Cairo. L’ennesiam udienza prevista per decidere il suo destino è stata rinviata a data da destinarsi dopo che l’Egitto ha chiuso i tribunali per l’emergenza coronavirus. L’appello di amici e familiari per il giovane che tra l’atro soffre d’asma: “Senza notizie da settimane”. L’emergenza coronavirus rischia di complicare in modo drammatico la situazione di Patrick Zaki, lo studente dell’Alma Mater detenuto in Egitto dal 7 febbraio scorso, accusato di propaganda sovversiva. Sia sul piano giuridico, che su quello della salute. Udienze e processi sospesi, tribunali chiusi fanno sì che l’attivista per i diritti umani resti in detenzione preventiva senza scadenza, dopo settimane in cui la sua carcerazione veniva rinnovata ogni quindici giorni. L’ultima volta in tribunale doveva essere il 21 marzo, ma la comparsa davanti al giudice era stata prima anticipata, poi rinviata al 30 marzo e adesso si intende a data da destinarsi per l’emergenza virus. “È da due settimane che non abbiamo notizie di lui” si erano detti preoccupati i genitori pochi giorni fa, parlando delle sue condizioni di salute, pericolose con l’avanzare della pandemia, asmatico e provato dai giorni passati in cella com’è. Torturato come denuncia Amnesty International, “picchiato, minacciato, sottoposto a scariche elettriche”. “Nelle sue condizioni non può restare in un contesto come quello di un carcere egiziano un giorno di più” aveva detto Riccardo Noury portavoce italiano dell’associazione che difende i diritti umani. Facendo capire anche quella che è la preoccupazione per l’ultima residenza carceraria del 27 enne studente, il penitenziario di Tora al Cairo “insalubre e sovraffollato”. E purtroppo non solo, secondo la denuncia del Cairo Institute for Human Rights e del Forum Egiziano per i diritti umani, che hanno citato come fonte le Nazioni Unite: 449 prigionieri sono morti tra il 2014 e il 2018. Registrando all’interno dell’istituto, secondo quanto riportato dalle associazioni umanitarie, “violazioni di ogni tipo”. Anche se la situazione si fa sempre più difficile, l’emergenza non deve far calare l’attenzione sulla vicenda. La mobilitazione per la scarcerazione continua, veicolata dalla pagina Facebook “Patrick libero”, dove utenti e amici lasciano messaggi e aggiornamenti tutti i giorni - “ci manchi resisti, non vediamo l’ora di riabbracciarti” - e gli eventuali aggiornamenti. L’Università di Bologna ha reso disponibile l’account di posta elettronica forpatrick@unibo.it, dove scrivere a Patrick e raccogliere messaggi di vicinanza e solidarietà allo scopo di sostenerlo. Mentre il rettore, Francesco Ubertini, ha scritto all’ambasciatore italiano in Egitto per chiedere che Patrick possa tornare a frequentare le lezioni del master europeo Gemma, seguendo i corsi on line. Una posizione però ritenuta troppo morbida dagli attivisti bolognesi dei collettivi. “Scrivere all’ambasciatore del Cairo per questioni legate alla sola didattica e non alle condizioni di prigionia di Patrick è una buffonata, oltre che l’ennesima occasione persa per instaurare una dialettica istituzionale realmente funzionale alla scarcerazione del nostro compagno” scrive il collettivo Labas, che chiede di boicottare i corsi, bombardando la chat di Microsoft Teams durante le lezioni in teledidattica allegando il testo “No alle mail di facciata dell’Unibo. Stop accordi UniboEgitto, vogliamo Patrick libero, ora”. Puntando poi alla posta dello stesso rettore, chiamato a cambiare atteggiamento in una forma più incisiva, per non essere “complice di quanto sta accadendo”.