Carceri, le proposte di toghe, avvocati e sindacati di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 marzo 2020 Coronavirus. Il Csm: misure governative “inadeguate”. Sale a 18 il numero di detenuti colpiti da Covid-19, 200 in quarantena, due agenti morti. Mentre sale a diciotto il numero dei detenuti, in diversi istituti, colpiti da Covid-19, oltre 200 quelli in quarantena, e purtroppo si devono registrare due agenti penitenziari morti dall’inizio dell’epidemia e altri risultati positivi, ieri è tornata a salire la tensione nella Casa circondariale di Civitavecchia dove i reclusi della I Sezione - stando alla denuncia dei sindacati di polizia - sembra abbiano “tentato di sequestrare” un poliziotto. È dunque una situazione, quella delle carceri ancora talmente sovraffollate da rischiare di trasformarsi in una bomba virale, che peggiora di ora in ora, e che non può sopportare né attese né misure al contagocce. E che tali siano quelle prese dal ministro di Giustizia Alfonso Bonafede non lo dicono solo gli osservatori sui diritti dei detenuti o gli avvocati penalisti ma perfino il Consiglio superiore della magistratura che, riunito giovedì in plenum, ha approvato un parere del tutto negativo sulle misure contenute nel decreto “Cura Italia”, definendole “inadeguate” a ridurre il sovraffollamento e di conseguenza a prevenire il dilagare del contagio intramurario. Il quale, naturalmente, avrebbe ripercussioni a catena su tutto il territorio italiano. In particolar modo, l’assemblea di Palazzo dei Marescialli boccia la norma che subordina la concessione della detenzione domiciliare per i detenuti con pene residue fino a 18 mesi all’applicazione dei braccialetti elettronici, indisponibili al momento. Una presa di posizione perfino prudente. Un quarto dei magistrati, infatti, quelli appartenenti ad Area, si è astenuto perché avrebbe voluto un pressing maggiore sul governo affinché, in questa situazione drammatica, assumesse “scelte drastiche”, come l’ampliamento della platea cui applicare la detenzione domiciliare. Il modo proposto dalle toghe di Area non si discosta da quello suggerito dall’Associazione italiana dei professori di diritto penale (Aipdp) o dall’Unione delle Camere Penali che in un documento inviato ieri a governo e parlamento, pur rilevando la “posizione negazionista” del ministro Bonafede, elenca una serie di possibili interventi “più incisivi” da adottare “in sede di conversione in legge del decreto emanato”: “La detenzione domiciliare, indipendentemente dalla disponibilità del braccialetto elettronico, per residui di pena inferiori a 2 anni; la sospensione fino al 30 giugno della emissione degli ordini di carcerazione di pene fino a 4 anni divenute definitive; la liberazione anticipata speciale, di 75 giorni a semestre, per buona condotta e l’estensione da 45 a 75 giorni per i semestri già oggetto di concessione; la concessione di licenze speciali di 75 giorni ai detenuti semiliberi; per i detenuti in attesa di giudizio, che rappresentano oltre un terzo della popolazione carceraria e che sono presunti innocenti dalla Costituzione, l’attribuzione al giudice competente di un termine di 5 giorni per riesaminare la situazione cautelare in funzione della concessione degli arresti domiciliari, tenendo in considerazione il pericolo alla loro salute in rapporto alla caratteristica di extrema ratio della detenzione cautelare”. Dello stesso parere l’associazione Antigone che, insieme a Cgil, Anpi, Arci, Gruppo Abele, Ristretti, Cnvg, Diaconia Valdese, Uisp Bergamo e InOltre Alternativa Progressista, elenca misure equivalenti per far tornare nella legalità i penitenziari italiani e chiede “un piano straordinario di protezione igienico-sanitaria della polizia penitenziaria, dei direttori, degli educatori, dei cappellani, dei medici e degli infermieri che operano nelle carceri”. Il problema delle carceri italiane oltre l’emergenza coronavirus di Giuliano Pisapia* Il Foglio, 28 marzo 2020 Usiamo questo tempo per imparare dai nostri errori. È necessario che l’Italia ritrovi la sua dignità in ambito carcerario. Non è tempo di polemiche. Dobbiamo marciare uniti per sconfiggere il coronavirus; lo dobbiamo a chi è impegnato giorno e notte a contrastare una tragedia umana, sociale, economica. Allo stesso tempo cerchiamo di imparare dagli errori, alcuni dei quali tragici e ripetuti, come quelli legati al mondo carcerario e più in generale alla Giustizia. Il sovraffollamento disumano delle carceri è un autentico attentato all’articolo 27 della Costituzione che prevede tra l’altro il rispetto della dignità del carcerato e la sua rieducazione. A fianco del sovraffollamento non si può dimenticare l’uso sproporzionato della carcerazione preventiva degno di una visione che prevede il “carcere” anche quando sarebbero più giuste e più efficaci sanzioni immediate anche non detentive. Le problematiche legate al possibile contagio del coronavirus e alle restrizioni dei colloqui con i parenti hanno riaperto in modo drammatico un problema cronico del sistema penitenziario italiano. Le proteste nelle carceri hanno attraversato il nostro paese da nord a sud, da Milano a Rieti, da Modena a Palermo causando la morte di dodici detenuti e numerose evasioni. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato più volte il nostro paese per i tempi lunghi della giustizia, per l’eccesso di carcerazione preventiva, per il trattamento inumano e degradante dei detenuti, per il sovraffollamento delle nostre carceri e per la mancanza di spazio vitale nelle celle. Ma la nostra Costituzione è tradita anche per il mancato rispetto del principio per cui l’imputato non può essere considerato colpevole fino alla condanna definitiva e che indica come ogni processo si debba svolgere nel contraddittorio delle parti, in condizione di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale con la legge che ne assicuri la ragionevole durata. Aggiungo, considerata la situazione di emergenza in cui ci troviamo, che le Convenzioni internazionali sottoscritte dal nostro paese prevedono che “in caso di pericolo pubblico internazionale” possano essere prese misure che deroghino agli obblighi imposti per un tempo determinato e limitato: “nessuna deroga può però essere prevista per alcuni diritti fondamentali, tra cui la libertà di pensiero, di coscienza e religione, il diritto alla vita nonché il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti”. Eppure quello che viviamo da decenni nei nostri istituti penitenziari è, ora più che mai, una situazione inaccettabile. Basti ricordare le condanne del nostro Paese da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. Secondo i dati del ministero della Giustizia, attualmente i detenuti in Italia sono oltre 61.000 e la capienza regolamentare è pari a poco meno di 51.000 posti. Il rapporto del 2019 dell’osservatorio sulla situazione carceraria in Europa evidenzia che il tasso di sovraffollamento delle carceri italiane è pari al 119,8%, ossia il più alto dell’Unione Europea, seguito da Ungheria e Francia. Il decreto legge del 16 marzo scorso prevede gli arresti domiciliari per i detenuti che ancora devono scontare sino a 18 mesi di carcere e, quando il residuo pena sia superiore a 6 mesi l’obbligo del braccialetto elettronico (dovrebbero essercene in dotazione 15.000 mentre attualmente ve ne sono meno di 2.600). Ne sono esclusi i detenuti i responsabili di gravi reati, i delinquenti abituali e quelli coinvolti nelle violenze dei giorni scorsi. Queste disposizioni saranno valide fino al 30 giugno e dovrebbero prevedere una procedura per la concessione della detenzione domiciliare molto più “rapida” dell’attuale. Ma tutto questo può bastare? No di certo, purtroppo. Per questo sarebbe un importante passo in avanti se il Parlamento avesse la forza e il coraggio, in sede di conversione del decreto, di migliorarlo promuovendo l’estensione di questi benefici oltre il 30 giugno e avviando una selettiva analisi di quali reati possono prevedere misure alternative al carcere, ponendo l’obiettivo della reclusione per i soli soggetti violenti e pericolosi e incapaci del rispetto delle regole. Per gli altri occorre pensare a una forte depenalizzazione e a una promozione più accentuata dei riti alternativi arrivando anche a forme di giustizia riparativa già avviate, con esito positivo, in Italia e all’estero. Nel breve periodo occorre rendere effettivo l’organico disponibile di braccialetti elettronici e, addirittura, accrescerlo notevolmente. Le norme previste nel decreto legge prevedono anche, in alcuni punti una eccessiva la discrezionalità. L’esperienza insegna - e i dati lo dimostrano - che ove sono applicate pene alternative al carcere si abbassa di molto la percentuale di recidiva. Perché non ragionare - per i residui di pena inferiori ai 2 anni - a una “sospensione condizionale della pena”, con la clausola che non solo se si commette un nuovo reato ma anche se si violano gli obblighi imposti, si rientra in carcere per scontare l’intera pena e quella prevista per il nuovo illecito commesso? Ma vi è un altro problema che si deve porre. Col decreto legge si vorrebbe intervenire su chi ha una pena residua da scontare inferiore a 2 anni. Ma nessun intervento è previsto per chi è in attesa di giudizio ed è quindi presunto innocente. Sarebbe una assurdità. Chi è condannato potrebbe, a determinate condizioni, usufruire degli arresti domiciliari e uscire dal carcere, chi non è condannato dovrebbe continuare a stare in carcere. Per gli oltre 19.000 detenuti in attesa di giudizio gli oltre 10.000 con sentenza non definitiva il decreto legge non prevede nulla. Perché non cogliere questa tremenda situazione per estendere le possibilità, in fase di indagine o di dibattimento, di accedere a misure ristrettive differenti al carcere? In ultimo ricordo come una risoluzione del Parlamento europeo dell’ottobre 2017 rilevi come “il numero di detenuti continua a superare il numero di posti disponibili in un terzo degli istituti penitenziari europei” e che il 20% della popolazione carceraria era costituita - ottobre 2017 - da detenuti in carcerazione preventiva. L’aumento e l’ammodernamento della capacità delle strutture detentive, attingendo ai fondi strutturali europei, è quanto mai urgente e necessario, ma non è e non può essere l’unica soluzione a un problema così radicato. Il nostro paese si trova quasi all’anno zero. Perché questa ferita venga curata è necessario avere una visione di lungo periodo al di là dei momenti emergenziali, seppur gravissimi, come quello che viviamo oggi. Per questo è necessario che l’Italia ritrovi la sua dignità in ambito carcerario. *Europarlamentare Pd Cascini: “Ci illudiamo di tenere il virus chiuso nelle carceri: e se la bomba esplodesse?” di Errico Novi Il Dubbio, 28 marzo 2020 Intervista a Giuseppe Cascini, consigliere togato del Csm. “Conosciamo la dinamica. Non è nuova: il carcere come zona altra, separata. L’illusione del muro che ci dividerebbe da chi è dentro: dentro ci sono solo i cattivi, fuori i buoni. Io sono fra i buoni, pensano molti, e non voglio sapere cosa avviene al di là del muro. Ecco in sintesi la drammatica, assurda logica in base alla quale ancora una volta trattiamo il carcere. Anche stavolta, anche di fronte all’emergenza coronavirus. Noi consiglieri di Area abbiamo cercato di portare in plenum un contributo di pragmatismo. Non siamo riusciti a ottenere fino in fondo tale esito”. Giuseppe Cascini, procuratore aggiunto a Roma finché non è stato eletto al Csm per il gruppo di Area, appunto, non è un buonista. Non è tra quelli che lui stesso definisce “l’altro estremo della dialettica con gli ultra rigoristi, costituito da vorrebbe sempre risparmiare la sanzione”. Cascini non è un buonista ma è pragmatico: “Davvero sappiamo come fare a gestire l’eventuale esplosione di una bomba epidemiologica dietro le sbarre? E se non c’è un piano chiaro, non sarebbe meglio consentire una concessione dei domiciliari a chi ha residui di pena bassi anche più ampia dell’attuale, e rinviare gli ordini di carcerazione di 6 mesi per le condanne entro i 4 anni?”. Sì, forse sarebbe meglio. E invece l’Italia, per il resto apprezzata in tutto il mondo quanto a misure di contrasto dell’emergenza, solo nel gestire la parte relativa al carcere sembra farsi superare dall’Iran: perché? Dall’Iran, certo. Anche dalla Somalia. Pochi giorni fa ha liberato un buon numero di detenuti. E com’è possibile? Perché quando si discute del carcere lo si fa col classico schema del dialogo fra sordi. Prevale l’ideologia, si accantona il pragmatismo. Forse i rigoristi pensano che se aumentassero i contagiati in carcere, ci sarebbe la possibilità di isolarli... Dove? Non mi risulta che il nostro sistema penitenziario disponga di spazi liberi. Se ci fossero, non saremmo stati condannati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per l’inumano sovraffollamento dei nostri istituti. Andiamo dritti verso la catastrofe? Vorrei solo porre alcuni interrogativi. Parto dalle premesse, dai dati noti. I nostri detenuti non alloggiano in camere singole con bagno. Dormono in camere multiple, dividono i servizi, spesso cucinano e consumano pasti sempre all’interno di quello spazio. Dividono in tanti quegli spazi comuni che non sono certo smisurati, sono costantemente a stretto contatto con gli agenti di polizia penitenziaria. Se dunque noi che viviamo fuori, me compreso, ci siamo giustamente autoconsegnati all’isolamento domestico, con eccezione per poche assolute necessità, è altrettanto chiaro che chi si trova in un penitenziario non può osservare la prescrizione del distanziamento di un metro. E questa è la premessa... Aggiungo che se le carceri fossero meno affollate sarebbe comunque difficile evitare che vi si diffonda il contagio. Ma sarebbe o no un po’ meno difficile? Ciò detto, parliamo della salute di tutti, non solo dei reclusi. Parliamo di una possibile bomba epidemiologica, che potrebbe esplodere. Crede si sottovaluti l’inevitabile osmosi fra dentro e fuori dal carcere? Che ci si dimentichi per esempio degli agenti, i quali dormono pur sempre a casa, e dei detenuti che nelle prossime settimane finiranno di scontare la pena e torneranno fra noi? È l’illusione di cui le ho detto prima: l’illusione del carcere come mondo chiuso. Secondo cui potremmo lasciarli là dentro chiusi col loro virus: non verranno a infettare anche noi. No, non è così. Gli agenti entrano ed escono, tutti i giorni. Così come gli psicologi, i volontari, i cappellani. La realtà è assai diversa dall’illusione: così come i problemi del carcere infettano la società, perché un detenuto a cui non sia stato assicurato un trattamento davvero rieducativo, risocializzante, torna fuori più criminale di com’era entrato in carcere, così è per il virus. Non si può impedire che la quota di reclusi destinata fisiologicamente a uscire per fine pena veicoli all’esterno l’eventuale contagio diffusosi dietro le sbarre. E oltre che di salute in senso stretto, è anche un problema di sicurezza. Perché? Immaginiamo cosa accadrebbe se aumentasse notevolmente il numero dei contagiati fra gli agenti penitenziari: dovrebbero andare in quarantena, in congedo per malattia. E chi gestirebbe la sicurezza dentro gli istituti? Proprio le rivolte di inizio marzo dimostrano come i detenuti possano impadronirsi di una struttura. Immaginiamo cosa accadrebbe se cominciasse a diffondersi il virus tra di loro e, appunto, nella polizia. E invece chi al Csm non condivide la sua linea ribatte che non si può concedere nulla ai rivoltosi... Dico di più: non mi allineo alla visione per cui in carcere ci vanno solo i poveracci. No. Ci vanno persone responsabili di atti criminali. Ma mi chiedo: visto che noi consiglieri di Area proponiamo di concedere i domiciliari a chiunque abbia un residuo fino a 24 mesi di pena, anche senza il vincolo del braccialetto e con l’esclusione dei reati ex articolo 4 bis, chi si dice contrario davvero pensa che una persona a cui resta poco da scontare trovi conveniente darsi alla fuga? O davvero credete che nelle circostanze di paralisi della vita collettiva come l’attuale, ci siano significativi rischi di reiterazione dei reati? A me pare che non vi sia neppure la materia per commetterli, i reati. In una proposta di emendamento inoltrata al ministro della Giustizia, il Cnf chiede di sospendere in modo esplicito il termine dei 30 giorni che, una volta ordinata la carcerazione, consente di chiedere le pene alternative. Pare tanto più sensato se si considera che i servizi sociali a cui chiedere l’affidamento in prova ora sono chiusi... Certo, assolutamente. Si rischia di sottoporre alla misura inframuraria anche chi avrebbe potuto scontare la pena all’esterno ed evitare così di contribuire a sovraffollare ulteriormente le carceri. In realtà a me sembrerebbe indiscutibile che, una volta sospesi tutti i termini processuali, anche quelli relativi agli ordini di esecuzione smettano di correre. Ma vede, siamo all’altra proposta che noi consiglieri di Area abbiamo avanzato per la definizione del parere del Csm, e che non ha trovato il necessario ascolto: abbiamo chiesto di non eseguire affatto, per 6 mesi, gli ordini di esecuzione rispetto a tutte le condanne entro i 4 anni, escluso sempre il 4 bis. Al di là del nodo sospensione, sappiate che ci sono molti reati a bassa pericolosità per i quali la richiesta di misure alternative non è prevista, a cominciare dai furti. Avremmo avuto un po’ meno ingressi. E invece no. Continuiamo a chiudere gli occhi su cosa potrebbe avvenire se dentro le carceri quella bomba epidemiologica esplodesse davvero. Di Matteo, il Pm che vuole solo la galera, contro le norme del governo di Tiziana Maiolo Il Riformista, 28 marzo 2020 Magistrati coraggiosi o magistrati ossessionati? Se non c’è la “trattativa Stato-mafia”, c’è il “cedimento dello Stato di fronte a un ricatto”. Il protagonista è sempre lui, Nino Di Matteo, colui che faceva parte del pool di accusatori quando fu costruito il finto pentito Scarantino, colui che poi lottò contro i mulini a vento di un’inesistente patto scellerato tra uomini di governo e uomini d’onore, e infine, esausto da tanto lottare, planò al Csm. Ed è in questa sede, nel plenum che avrebbe dovuto discutere di come salvare la vita dei detenuti dal coronavirus, che ieri Di Matteo ha gridato “in galeeera!”, come faceva da un altro palcoscenico Giorgio Bracardi negli anni Novanta a Striscia la notizia. Il timidissimo provvedimento del governo che consente la (teorica, perché condizionata agli inesistenti braccialetti) scarcerazione ai detenuti che devono ancora scontare 18 mesi di carcere, agli occhi di Di Matteo “è particolarmente grave e rischia di apparire come un cedimento dello Stato di fronte a un ricatto, soprattutto agli occhi della popolazione detenuta e delle organizzazioni criminali che hanno organizzato le rivolte”. Ma c’è di più, e qui scatta la seconda ossessione del magistrato coraggioso. Se uscissero dal carcere con l’anticipo di pochi mesi persone che comunque dopo poco tempo sarebbero comunque libere, ci sarebbe il pericolo di aver rimesso in libertà persone che avessero commesso gravi reati, persino contro la Pubblica Amministrazione. Immaginatevi che rischi per la società se andasse ai domiciliari qualche consigliere comunale! C’è un’intera storia, ma soprattutto un’intera (sub)cultura, dietro questo ragionamento. Prima di tutto, della strage del coronavirus che ha già ucciso settemila persone e della vera bomba che esploderebbe se il contagio si espandesse nelle carceri, al pm Di Matteo pare non importare molto. “In galeeeera!” è l’unica regola conosciuta, alla faccia della Costituzione. In secondo luogo, da bravo pubblico accusatore, ha già emesso la sentenza: le rivolte nelle carceri dei giorni scorsi sono state dirette dalle “organizzazione criminali”. Lui non sa nulla della paura (è un magistrato coraggioso) che ti prende quando senti nell’aria un nemico insidioso che non puoi combattere, a maggior ragione se sei rinchiuso. Lui non sa nulla dell’importanza dell’affettività, anche come forma di rieducazione e di speranza nel futuro, per rompere la solitudine della cella. E il dolore che ti pervade quando il timore del contagio spezza quel filo sottile che ti lega all’esterno attraverso i colloqui con le persone che ti vogliono bene. Un dolore che nel modo sbagliato di cui poi magari ci si pente si trasforma in rabbia, e allora compi gesti che rompono gli oggetti e magari anche il tuo stesso futuro. Quindici persone sono morte, dottor Di Matteo, in quelle rivolte. E quelli che comunque hanno partecipato ai disordini saranno esclusi dal provvedimento del ministro Bonafede, così come i condannati per i reati più gravi. Ma a lei questo ancora non basta. No, lei cerca i “mandanti”, cioè i capi della rivolta, che, immaginiamo, dirigevano l’orchestra da una qualche stanza dei bottoni. C’è sempre qualche oscuro mandante che agisce nell’ombra, nella sua cultura. Un po’ come quando si parla di Dell’Utri come “garante” di un patto tra Berlusconi e la mafia. Un po’ come quando si attenta alla giugulare di Calogero Mannino, che poi viene regolarmente assolto. Perché il nome di Berlusconi, i nomi dei politici (un po’ di invidia?) sono un’altra delle ossessioni dei magistrati coraggiosi. E non è un caso che, nel denunciare che gli scarcerati, una volta mandati a casa, potrebbero evadere o ripetere i loro reati (cosa che evidentemente non accadrebbe un anno dopo), il pm siciliano nomini anche i condannati per” reati contro la pubblica amministrazione”. Un disco rotto. E, visto che il membro del Csm lamenta anche che, con questo provvedimento si “è scaricata sui magistrati di sorveglianza la responsabilità di scarcerare i detenuti”, sarà bene rammentare al distratto magistrato coraggioso la lettera che nei giorni scorsi hanno inviato al ministro guardasigilli le presidenti dei tribunali di sorveglianza di Milano e Brescia. Cioè delle zone più colpite dall’epidemia determinata da Covid-19. Le dottoresse Di Rosa e Lazzaroni avevano invocato misure ben più forti, per fronteggiare l’emergenza ed evitare altre proteste, forse altre rivolte. Detenzione domiciliare per coloro che “hanno pena anche residua inferiore ai quattro anni”. E poi riduzione di pena di 75 giorni ogni sei mesi scontati in buona condotta e licenza speciale di 75 giorni ai semiliberi. Questo è un approccio di tipo riformatore da parte di magistrati che fanno il loro mestiere di magistrati. Senza la pretesa di essere coraggiosi né eroici. E del resto lo stesso parere espresso ieri dal plenum del Csm, pur timidissimo, pare sollecitare al governo decisioni più veloci e utili, come quella del governo francese sulle pene brevi, per dare almeno un segnale di attenzione alla salute dei detenuti nei giorni del virus e al perenne problema del sovraffollamento delle carceri. Il membro togato Nino Di Matteo ha votato contro. Con coraggio e sprezzo del pericolo. Carceri, altro che indulto mascherato! di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 28 marzo 2020 Le misure del Cura Italia sono insufficienti e si rischia il massacro sanitario. Il Consiglio Superiore della Magistratura ha bocciato gli articoli 123 e 124 del decreto Cura Italia, quelli che si riferiscono alle carceri. Lo ha fatto con un parere non unanime, bensì approvato con la maggioranza di 12 consiglieri, la contrarietà di 7 e l’astensione di 6. Anche chi si è espresso contro il parere, tuttavia, lo ha fatto in maniera critica verso il decreto. Gli interventi che esso introduce sulle carceri vengono insomma attaccati da un lato e dall’altro: la maggioranza del Csm li ritiene troppo poco incisivi, mentre tra i voti contrari a tale pronunciamento c’è quello di chi sostiene che il decreto nasconda addirittura - in linea con quanto affermano alcuni esponenti della politica - un indulto mascherato. Vediamo dunque di fare chiarezza, perché così è difficile capire la situazione al di là dei pregiudizi. La storia parte da più lontano, vale a dire da quel 13 gennaio 2010 nel quale l’allora premier Silvio Berlusconi dichiarò lo stato di emergenza penitenziaria a causa del sovraffollamento carcerario. La coalizione di centro-destra al governo esprimeva quattro ministri della Lega Nord, tra cui Roberto Maroni all’Interno, e svariati sottosegretari di quello stesso partito che oggi grida all’indulto camuffato. Per far fronte all’emergenza, si introdusse per decreto la possibilità per il magistrato di sorveglianza di far scontare in detenzione domiciliare al condannato l’ultimo anno di pena, elevato poi a un anno e mezzo l’anno successivo. Tale norma la si deve dunque al centro-destra, Lega compresa. Circa 27.200 detenuti sono a oggi usciti dalle carceri a seguito di tale disposizione. Sono usciti dalle carceri, ma non sono andati per strada liberi di scorrazzare a piacimento: sono andati a chiudersi a casa loro o in altro luogo di dimora certificato (quali le case di accoglienza per i più indigenti), sotto controllo delle forze di polizia. Ora: cosa fanno i nuovi articoli 123 e 124? Vista l’emergenza coronavirus, rendono più veloce la pratica di concessione di questa forma di detenzione domiciliare. Bisogna sbrigarsi a fare posto in carcere per evitare un massacro sanitario che coinvolgerebbe non solo i detenuti. La vecchia norma prevedeva che il carcere inviasse al magistrato una relazione sulla condotta tenuta dal detenuto. Questa viene abolita. Ma si vieta tuttavia al magistrato di disporre la detenzione domiciliare per chi ha riportato sanzioni disciplinari per alcune violazioni o per chi anche solo si sospetta che abbia partecipato alle rivolte di venti giorni fa. Senza che il carcere perda tempo a scrivere la relazione e il magistrato perda tempo a esaminarla, basterà leggere nel fascicolo del detenuto le sue note disciplinari per decidere. Molto più rapido. Ma chi dice che si è ceduto ai rivoltosi mente, perché l’articolo 123 comma 1 lettera e) è su questo chiarissimo. Il decreto prevede tuttavia, cosa che la vecchia legge del centro-destra non faceva, che chi va in detenzione domiciliare ci vada con il braccialetto elettronico, a meno che non debba scontare meno di sei mesi. Ecco allora che il Csm ha bocciato la norma come troppo poco incisiva: di braccialetti c’è penuria, questo lo sanno tutti, e se dobbiamo aspettare di averne per poter fare uscire le persone dal carcere allora certo non affronteremo la situazione con i tempi che si convengono a un’emergenza. È importante che si faccia in fretta, torniamo a ripeterlo: l’ingresso del virus in carcere con i numeri attuali, con i quali non è possibile garantire alcun isolamento, significa la rapida diffusione, la messa a rischio di detenuti e operatori, un enorme peso supplementare e contemporaneo sulla sanità pubblica. Bene ha detto il Csm chiedendo misure più incisive. Il consigliere Nino Di Matteo critica invece il decreto dal fronte opposto e vota contro il parere della maggioranza. Rispetto alla legge del 2010, dice, sono state eliminate dalla lettera della norma le condizioni ostative del pericolo di fuga e della reiterazione del reato. Vero. Quindi si crea un “automatismo che potrebbe prescindere dalla valutazione del magistrato di sorveglianza”. Falso. Il magistrato è sempre libero di decidere. E può decidere di non concedere la detenzione domiciliare. Aver tolto quella dicitura vaga dalla lettera della norma non ne cambia la sostanza. Non la trasforma in un indulto, che è indiscriminato e vale per tutti quelli che vi ricadono. Quando c’è valutazione del magistrato, non c’è indulto. Certo: togliere quella frase aiuta una decisione più distesa. Un detenuto tossicodipendente, come sono uno su quattro in carcere, potrà mai non essere teoricamente a rischio di tornare a rubare un portafogli per comprarsi la dose? Ovvio che no. In teoria no. E il magistrato che si attiene alla teoria letterale della norma non lo manderà in detenzione domiciliare. Dove invece, con controlli di polizia e addirittura con il braccialetto elettronico, sarà realisticamente impossibilitato a commettere altri reati. Voglio inoltre riflettere su un altro dato: fino alla fine di febbraio i detenuti sono cresciuti inesorabilmente. Con l’allarme sanitario, dal primo marzo a ieri sono diminuiti di 2.987 unità. Solo poche decine, come ha raccontato il ministro Bonafede al Parlamento qualche giorno fa, sono usciti per effetto del Cura Italia. A normativa invariata dunque la magistratura, che ha ben compreso la necessità di ridurre l’affollamento penitenziario, non ha avuto problemi a disporre detenzioni domiciliari e altri provvedimenti. Ma è ancora troppo poco: se almeno 10.000 persone non lasceranno la sezione per la casa (ripeto: chiusi in casa, non liberi), non riusciremo a tutelare la salute di chi è dentro e di chi è fuori. Bisogna al più presto risolvere il tema dei braccialetti elettronici. Ha ragione la maggioranza del Csm a farlo presente con forza. Gli strumenti normativi ci sono. C’erano anche prima dell’ultimo decreto. Chi grida all’indulto e alla resa dello Stato ai rivoltosi mente sapendo di mentire. Così Salvini, che oggi ha perso l’appoggio anche dei sindacati di polizia penitenziaria che un tempo gli erano più vicini. I poliziotti in carcere sanno cosa rischiano. È criminale metterli in pericolo per guadagnare quel poco di consenso che sempre dà fare la voce grossa e la faccia truce. Antigone ha messo al lavoro una task force di propri avvocati ed esperti che è a disposizione per aiutare i detenuti che rientrano in questa possibilità a chiedere la detenzione domiciliare. Il Garante nazionale dei detenuti - che ha ricevuto di recente indegni attacchi di stampa - sta lavorando senza sosta, mettendo a rischio anche la propria salute, per controllare che le precauzioni sanitarie siano rispettate e funzionino. Un gruppo di organizzazioni (Antigone, Cgil, Anpi, Arci, Gruppo Abele, Cnvg, Uisp Bergamo, Diaconia Valdese, InOltre Alternativa Progressista) ha proposto misure ragionevoli ma ben più incisive da approvarsi in fase di conversione in legge del decreto. Queste sono le strade per tutelare chiunque frequenti il carcere, personale compreso, nonché la collettività esterna che ha bisogno di un servizio sanitario non ulteriormente gravato. Non fidatevi di chi parla di indulto mascherato. Andate a leggere il decreto in Gazzetta se non credete a me. Ma non fidatevi. Come non si sono più fidati i poliziotti. *Coordinatrice associazione Antigone I detenuti? Sono cattivi, chi se ne frega se crepano? di Iuri Maria Prado Il Riformista, 28 marzo 2020 C’è questa inciviltà supplementare nelle scelte politiche e di governo che trascurano la salute dei prigionieri: quelle scelte riguardano una categoria debole della società. Chi è costretto in prigione, infatti, è un soggetto debole già solo perché è sottoposto al potere dello Stato che gli rinchiude la vita in una cella. Il fatto che abbia commesso delitti (e non è scontato che li abbia commessi, visto che è perlopiù l’innocenza a sovraffollare il carcere) non dovrebbe implicare il diritto dell’ordinamento di lasciarlo in coda nelle politiche di tutela. Semmai quella condizione di subordinazione al potere dello Stato che toglie la libertà ai detenuti dovrebbe essere mitigata da politiche preferenziali: appunto perché discutiamo di persone più deboli. Gli abitanti di un edificio in fiamme devono essere salvati perché sono in pericolo: non perché hanno la fedina penale a posto. E il diritto del detenuto di veder tutelata la propria salute dovrebbe primeggiare sul suo obbligo di sopportare la pena. Così come la pretesa punitiva della società non dovrebbe escludere, ma supporre, l’obbligo dello Stato di tenere in cura tanto più attentamente la salute delle persone che incarcera. Sotto sotto, invece, ma spesso proprio apertamente, lavora il presupposto contrario: e cioè che si tratti di assicurare innanzitutto la salute dei cittadini “per bene”, che è un modo solo diverso per dire appunto che alla minorazione ordinarla dei diritti dei detenuti deve a accompagnarsi il loro dovere di esporsi alla malattia senza tante storie. Sappiamo amaramente che nessun politico (sottolineo: nessuno, nemmeno tra i pochi pur meritoriamente impegnati a riaffermare i diritti dei detenuti) reperisce il coraggio necessario a spiegare che lo Stato non dovrebbe occuparsi “anche” della salute dei carcerati, ma “innanzitutto”. Innanzitutto perché lo Stato dovrebbe risentire e dimostrare colpa e rimorso, non indifferenza, nell’esercitare il proprio potere punitivo. L’azione pubblica dovrebbe chiedere scusa ai detenuti già solo per il fatto che li incarcera, e questa richiesta di perdono non dovrebbe essere formale ma concreta e fattiva: escludendo che i detenuti siano doppiamente puniti da uno Stato in tal modo doppiamente colpevole. Dramma Carceri. Intervista a Vittorio Sgarbi: “Bonafede, io ti denuncerò” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 28 marzo 2020 “Denuncio alla Procura l’inadempienza di Bonafede perché non permette il rispetto del decreto. I detenuti non sono a un metro l’uno dall’altro. Appena muore qualcuno in carcere, lo denuncio per omicidio premeditato”. Ferrarese, classe 1952, Vittorio Sgarbi è tra i critici d’arte più conosciuti nel mondo ma negli annali della Camera dei Deputati, dove è stato rieletto nel 2018, figura come “polemista”. Eletto con Forza Italia e poi transitato al gruppo Misto, ha preso la parola per puntare il dito contro il ministro della Giustizia a Montecitorio. “Mi chiedo come possa vivere serenamente in questi giorni il ministro Bonafede che è in piena flagranza di reato. Come può garantire la distanza di sicurezza di un metro in carceri dove sono in tre, in quattro, in cinque insieme… Lei, dunque, per la sua responsabilità giuridica e morale, è indagato! Un giudice che abbia correttezza dovrebbe indagarla perché lei è un untore…”, gli ha urlato contro. Conferma? Confermo e aggiungo: ho intenzione di farlo indagare per omicidio premeditato. Gli ho scritto. E gli ho mandato un appello che mi arriva dalla sorella di Paolo Ruggirello, in carcere con febbre alta a Santa Maria Capua Vetere. È chiaro che i carcerati non sono a un metro di distanza. Bonafede non faccia lo spiritoso perché è un ministro che sta procurando morte. Rispetti per primo le leggi del governo Conte. È in fragranza di reato. Qui si sta perdendo la libertà, per tenerci la salute. Ma valga per tutti. Chi è in galera per carcerazione preventiva, da non colpevole riconosciuto, non può essere sottoposto alla crudele tortura del contagio di pandemia. Il Dpcm parla di un metro, valga per tutti. Chi è in galera rischia di essere assolto e risarcito, ma rischia di morire. Mi ha scritto un’altra persona. È alla Dozza, Bologna, da otto mesi in carcerazione preventiva. Il regime cautelare di chi doveva essere giudicato a marzo è stato rimandato a ottobre, chissà se sarà vivo. “Alla Dozza ci sono 19 operatori sanitari e detenuti infetti”, mi scrivono. Quindi Bonafede mente quando dice che i contagiati sono quindici in tutto. Denuncio alla Procura l’inadempienza del ministro perché non permette il rispetto del decreto. È inaudito il comportamento di Bonafede. Appena muore qualcuno in carcere, lo denuncio per omicidio premeditato. Anche lei chiede le dimissioni del Capo del Dap? Non so se è giusto focalizzare l’attenzione su di lui. Il capo del Dap risponde alla volontà dei magistrati ed è subordinato al ministro. Chi ha la responsabilità morale e politica è Bonafede. Cosa si può fare in concreto per far partire i braccialetti elettronici? Bisogna farli, per prima cosa. È una soluzione di civiltà. Sono rari come i dispositivi sanitari, eppure sono entrambi beni essenziali. Io oggi libererei tutti coloro che sono in attesa di giudizio, per prima cosa. La presunzione legata all’indizio certo non può più funzionare. A Nuoro c’è il caso dell’avvocato Pittelli… Una vicenda che grida vendetta. Un avvocato che sto seguendo personalmente perché su di lui ci sono solo intercettazioni telefoniche da cui non risultano evidenze, e soffre una prostrazione comprensibile. E oggi questo innocente in galera da quattro mesi senza giudizio rischia la vita per il coronavirus. Quando parla di giustizia-spettacolo parla di Gratteri. Su trecentoquaranta arrestati, duecento liberati: vuol dire che il magistrato che ha firmato le ordinanze ha sbagliato, e di parecchio. Ci sarebbe da prendere e da arrestare chi porta in carcere innocenti, perché il coronavirus è una doppia tragedia, colpisce due volte chi è ferito nella sua dignità, e sconta una pena per cui non sono neanche stati ancora condannati. Basta un solo innocente in galera, a dannare chi l’ha voluto lì. È meglio un colpevole libero che un innocente in galera. Personaggi alla Gratteri non fanno il bene della giustizia, fanno il loro bene personale. Libertà e salute, siamo disposti a rinunciare a un po’ di libertà per mettere in sicurezza la salute? Parlando con un carabiniere in strada, abbiamo convenuto su un punto: è essenziale la distanza di un metro, non il divieto di uscire di casa. Il coronavirus non è una peste nell’aria. Si può uscire senza venir contagiato, se si mantiene la distanza di sicurezza dagli altri. Mi sembra una inibizione di libertà elementari. Mi sembra che ci siano misure pensate in buona fede ma forzate, sin troppo draconiane. Si è agito in modo rapsodico, tardi per un verso e senza informazione corretta. Le alte percentuali di morti in Lombardia dimostrano che gli anziani che oggi accusano il colpo sono stati quelli più colpiti all’inizio del contagio, quando le informazioni erano poche e confuse. Quattro moduli in dieci giorni, forse sono troppi per chiunque. Ai cittadini viene chiesto un sacrificio, mentre la burocrazia rimane quella di sempre. È vero che c’è poca chiarezza. Le nuove restrizioni riguardano il divieto di non uscire dal Comune. Se si parla di Roma o Milano lo capisco, ma come si applica ad agglomerati dove ci sono tanti piccoli comuni confinanti, dove magari i servizi sono di prossimità tra loro? La burocrazia fa sempre pasticci. La politica al tempo del coronavirus. Come vede il Parlamento a distanza? Il Parlamento si può riunire su Skype ma il voto è legato a una ritualità, come quella religiosa. Non c’è solo il voto, è un luogo di lavoro e come tanti altri, dove il lavoro è ritenuto essenziale e strategico per il sistema-Paese, deve rimanere aperto. A me i privilegi non piacciono mai, da nessuna parte. Lucanìa (Simspe): “Se il coronavirus arriva nelle carceri potrebbe essere una tragedia” quotidianosanita.it, 28 marzo 2020 L’allarme dei medici della sanità penitenziaria. Ad oggi risultano positivi 15 detenuti, mentre rimane non conosciuto il dato di eventuali positivi tra gli operatori. Per il presidente della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria “oltre alle misure di pre-triage, assieme alla Sanità territoriale, dovremmo procedere con lo screening di coloro che ogni giorno accedono alla struttura penitenziaria”. La comunità scientifica esorta quindi i decisori a impegnarsi per una efficace risoluzione “Nel sistema carcere ravviso molta buona volontà, ma assoluta mancanza di un piano organico condiviso per affrontare l’emergenza coronavirus già assolutamente gravissima nel contesto nazionale per i suoi riflessi sulla salute generale e sull’economia; nelle carceri potrebbe provocare una tragedia se vi fosse un impatto differente e di maggiore portata”. A lanciare l’allarme è Luciano Lucanìa, Presidente della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (Simspe). L’emergenza coronavirus e le proteste di inizio marzo nelle carceri italiane avevano già portato alla luce uno dei tanti settori colpiti dalle restrizioni per prevenire i contagi. Il Dpcm dell’8 marzo ha previsto norme apposite per gli istituti penitenziari: i casi sintomatici dei nuovi ingressi devono essere posti in condizione di isolamento dagli altri detenuti; i colloqui visivi si devono svolgere in modalità telefonica o video; diventano limitati i permessi e la libertà vigilata. Ma queste misure, volte a favorire un contenimento della diffusione del virus, si sono scontrate con una realtà non semplice. Gli istituti penitenziari italiani soffrono di problemi cronici che periodicamente vengono affrontati ma non del tutto risolti. Ad oggi, come riporta il sito del Ministero della Giustizia, rispetto all’effettiva capienza delle carceri italiane, in grado di ospitare intorno ai 51mila detenuti, i reclusi effettivi sono oltre 60mila, di cui circa un terzo stranieri. Proprio in questi giorni l’Oms, Ufficio per l’Europa ha pubblicato una specifica linea guida: “Preparedness, prevention and control of Covid -19 in prisons and other places of detention”, ricorda la Società Italiana, tuttavia le indicazioni non sembrano del tutto adeguate a questa fase dell’epidemia nel nostro territorio nazionale. La Protezione Civile ha provveduto all’installazione di tensostrutture come unità di accoglienza, che però non hanno le caratteristiche per essere utilizzate come ambulatori. Per queste ragioni, gli specialisti da anni impegnati a tutelare la salute nei penitenziari lanciano l’allarme. “Vi è una perdurante mancanza di Dispositivi di Protezione Individuale - evidenzia il Presidente Simspe - Abbiamo fatto numerose segnalazioni: siamo certi che le nostre richieste verranno accolte, ma il problema è sovranazionale. Noi operatori della salute, medici e professionisti sanitari, abbiamo il mandato, che oggi diventa una missione, di tutelare la salute e la vita all’interno del sistema carcere, essendo operatori provenienti dalla sanità pubblica, dalle Aziende Sanitarie del Sistema Sanitario Nazionale. È dall’inizio di questa epidemia che per le carceri si susseguono lettere circolari dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ed indicazioni più specificamente sanitarie provenienti dalle sanità regionali e dal Ministero della Salute”. Le misure necessarie. Ad oggi tra i positivi al Covid-19, risulta un numero di 15 detenuti, mentre rimane non conosciuto, auspicando che non ve ne siano, tra gli operatori, fra cui poliziotti e operatori sanitari. La positività non equivale a malattia, non comporta necessariamente il ricovero e solo in alcuni casi provoca peggiori esiti. Tuttavia, la positività al virus implica la certezza di essere contagiosi e la necessità di isolamento reale. Il carcere, in quanto mondo chiuso, potrebbe sembrare protetto dall’infezione, ma in realtà il virus può farvi ingresso in qualsiasi momento. “Il carcere è un servizio essenziale e le conseguenze dell’ingresso dell’infezione, anche in una singola sede, possono avere ripercussioni di estrema gravità, non solo per le persone, ma per l’intero sistema - afferma Lucanìa - credo che dovremmo invocare un forte comportamento proattivo e, oltre alle comuni misure di pretriage. Di concerto con la Sanità territoriale, dovremmo procedere con lo screening dei soggetti che quotidianamente fanno accesso alla struttura penitenziaria e hanno contatti con i detenuti, anche indirettamente. Gli screening, nonostante la complessità ed i presumibili costi, devono realizzarsi mediante tamponi naso-faringei da ripetersi in maniera regolare, anche a cadenza settimanale, nelle aree che registrano le maggiori prevalenze di infezione. In questa fase, nell’attesa che le curve epidemiologiche evidenzino sostanziali fasi di regressione, un simile approccio è indispensabile. Inoltre, si devono sviluppare iniziative omogenee fra gli attori del sistema, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e la sanità dei territori”. Le patologie nelle carceri italiane. Non solo Coronavirus, perché come emerso già nel Congresso Simspe di fine 2019, tra i detenuti continuano a prevalere patologie psichiatriche e infettive, la cui gestione e cura costituisce in larga parte l’attività di Simspe. La prevalenza di detenuti hiv positivi è discesa dal 8,1% del 2003 al 1,9% attuale. “Questi dati - spiega Sergio Babudieri, Direttore Scientifico Simspe - indicano chiaramente che, nonostante i comportamenti a rischio come lo scambio delle siringhe ed i tatuaggi non siano diminuiti, la circolazione di HIV non avviene più perché assente dal sangue dei positivi in terapia antivirale. Questi farmaci non sono in grado di eradicare l’infezione ma solo di bloccarla. Di fatto con l’aderenza alle terapie viene impedita l’infezione di nuovi pazienti”. Risulta poi dai dati ufficiali del Ministero della Giustizia che un terzo della popolazione sia straniera, e, con il collasso di sistemi sanitari esteri, con il movimento delle persone, si riscontrano nelle carceri tassi di tubercolosi latente molto più alti rispetto alla popolazione generale. Se in Italia tra la popolazione generale si stima un tasso di tubercolosi latenti, cioè di portatori non malati, pari al 1-2%, nelle strutture penitenziarie ne abbiamo rilevati il 25-30%, che aumentano ad oltre il 50% se consideriamo solo la popolazione straniera. La salute dimenticata dei detenuti: Covid-19 peggiora un quadro già gravissimo di Angela Cappetta aboutpharma.com, 28 marzo 2020 Dopo i primi casi nelle carceri e le rivolte, parla Luciano Lucanìa, presidente della Società italiana di medicina penitenziaria. Le precauzioni impossibili da adottare si sommano ad altri disagi in un contesto nel quale anche l’epidemiologia delle altre patologie infettive non è certa. La “bomba” dei transitanti. Undici detenuti infettati dal Covid-19 e un decesso nel carcere di Voghera. Un agente penitenziario di Locri in missione a Bergamo contagiato e poi deceduto. E ancora: un medico e due infermieri del carcere di Santa Maria Capua Vetere a Caserta affetti dal Coronavirus. Dopo le proteste nelle carceri italiane di inizio marzo, a seguito delle misure restrittive adottate dal Governo anche per i detenuti (stop ai colloqui e alle traduzioni), nel giro di una settimana, le notizie di cosa sta accadendo nelle carceri italiane si susseguono, allarmano e poi vengono smentite o rettificate dal Dap. Ma cosa sta accadendo nel mondo di dentro? E perché è così difficile reperire dati certi? Quanto fa paura il Covid-19 nelle carceri e perché fa così spavento? Il distanziamento è impossibile - “Perché è una malattia insidiosa e disgraziata che contagia più della tubercolosi e anche perché la sua prevenzione impone misure, come quello che oggi viene chiamato distanziamento sociale che, in realtà come il carcere, non possono essere applicate”. A rispondere è Luciano Lucanìa, presidente della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria, nonché medico nel carcere di Reggio Calabria, una regione di 18 mila abitanti e 500 detenuti, dove finora il Covid-19 non ha fatto grossi numeri. Quello che però ha sollevato il nuovo virus è una grande questione, rimossa un po’ da tutti: la salute dei detenuti, tutelata a livello costituzionale al pari di quella di tutti i cittadini liberi, ma da anni marginalizzata e dimenticata nonostante due norme (la legge 230 del 1999 e il Dpcm del 2008) hanno cercato, con il trasferimento dell’assistenza sanitaria penitenziaria dal Ministero della Giustizia a quello della Salute (e quindi alle Regioni), di migliorare le condizioni di salute di chi vive nel mondo di dentro. Sale anche la Tbc - Questa è stata la teoria. La pratica, come spesso accade, purtroppo non sempre segue i dogmi. E in una popolazione come quella carceraria, condannata al sovraffollamento da decenni (61.230 detenuti nelle 190 carceri italiane con una capienza pari a 50.931) e a vivere ancora in quegli spazi ristretti che ha fatto guadagnare all’Italia una condanna da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (sentenza Torreggiani), le infezioni corrono più veloci di quanto accada nel mondo di fuori. Per quanto i dati raccolti da Simspe, registrano un calo di infezioni da HIV rispetto ai primi anni del 2000, l’epatite C è ancora presente con una percentuale che oscilla tra il 25 e il 35% (una forbice cioè che coinvolge dai 25 mila ai 35 mila detenuti, la maggior parte tossicodipendenti), a cui si aggiungono i 6.500 portatori attivi del virus dell’epatite B. Anche i numeri della diffusione della tubercolosi non sono promettenti: Tullio Prestileo, responsabile dell’unità operativa per le malattie infettive dell’ospedale civico Benfratelli di Palermo, che dal 2017 coordina il progetto ITaCA - Immigrants Take Care Advocac (una rete di 41 centri che forniscono assistenza agli immigrati che arrivano in Sicilia) denuncia che la permanenza nelle carceri libiche ha fatto aumentare le infezioni da Tbc negli istituti italiani. Precauzioni assenti - Se non fosse per i dati raccolti dal Simspe, quelli del Ministero della Salute non riuscirebbero a fotografare la reale situazione in cui versa la sanità penitenziaria. L’ultimo rapporto ministeriale risale al 2018 e mette insieme i dati inviati dagli istituti penitenziari italiani riferiti al 2017. Non tutti gli istituti però hanno inviato le loro comunicazioni e quelli che lo hanno fatto non hanno contribuito di certo a dare un segnale di miglioramento sulla salute dei detenuti e sulle prestazioni sanitarie fornite nelle carceri italiane. A Poggioreale (Napoli), ad esempio, dove c’è il più alto numero di tossicodipendenti manca il dato sul numero dei detenuti sottoposti a trattamento di disintossicazione. Il Naloxone (il farmaco salvavita in caso di overdose) non è disponibile in tutti gli istituti. Non si riesce a sapere quanti sono i detenuti morti a causa dell’Aids (a parte un decesso registrato a Pistoia), la terapia antiretrovirale non esiste nelle carceri di Arbus e Tempio Pausania e, infine, in Campania, Piemonte e Sardegna non è attiva la profilassi post-esposizione per coloro che temono di aver contratto il virus. In nessun istituto penitenziario italiano è garantito l’accesso a strumenti sterili per i tatuaggi, solo nel 35% delle carceri è possibile usare l’acqua calda sanitaria e solo a Pavia sono stati consegnati preservativi all’uscita (nessuno li consegna all’entrata). Se a questi problemi atavici si aggiungono i numeri della popolazione transitante, che rappresenta il 40% della popolazione residente (si stima che ogni anno trascorrono almeno una notte nelle 190 carceri italiane circa 105 mila arrestati), l’ipotetico ingresso nelle carceri del Coronavirus significherebbe far esplodere una bomba che, se nel mondo di fuori si può attenuare con misure di contenimento, nel mondo di dentro non conoscerebbe limiti. Le misure del “Cura Italia” - Cosa fare allora per evitare che il nuovo virus entri in carcere? Nel decreto “Cura Italia” è stata disposta la detenzione domiciliare (con tanto di braccialetto elettronico) per coloro che hanno da scontare gli ultimi 18 mesi di pena e per coloro che sono stati condannati a una pena di reclusione che va dai 7 ai 18 mesi): il decreto riguarderà circa 4 mila detenuti. Davanti agli istituti di pena, lontani dai padiglioni, il Dap ha fatto installare tensotrutture per effettuare il pre-triage a coloro che vengono da fuori (colloqui sugli ultimi spostamenti e misurazione della temperatura). “Una misura utile ma non sufficiente”, afferma Luciano Lucanìa, secondo cui sarebbero altre le misure da adottare per “evitare che scoppi un sotto problema nel problema”. “Andrebbero fatti i tamponi a tutto il personale sanitario, agli agenti penitenziari e agli psicologi, fisioterapisti e tutti coloro che vengono dall’esterno - aggiunge il presidente Simspe - e andrebbero fatti più tamponi con cadenza stabilita di concerto con l’ufficio di igiene. Fare un tampone singolo non serve a niente. Anche perché le tensostrutture montate nelle carceri non sono attrezzate come gli ospedali da campo messi su davanti agli ospedali. C’è un tavolino, due sedie e la corrente elettrica, ma non abbiamo l’acqua quindi non si può fare ambulatorio”. Tamponi e trasferimenti - La richiesta di maggiori tamponi è stata avanzata anche dal sindacato degli agenti penitenziari, mentre un altro grido d’allarme arriva dal coordinatore nazionale Fimmg - settore Medicina Penitenziaria. “Il personale che vi opera teme per la sua incolumità e per il clima che si respira all’interno degli istituti - dichiara Franco Alberti - e nella maggior parte dei casi opera senza o con scarsa dotazione dei Dispositivi di Protezione Individuali. Non se ne parla di eseguire tamponi e c’è difficoltà di isolamento per i casi sospetti o provenienti dalla libertà o da altri istituti a seguito dei trasferimenti disposti dopo le proteste”. “I trasferimenti sono stati il frutto scellerato delle rivolte - aggiunge Lucania - e chi li ha decisi ha commesso un atto criminale, che ha provocato danni economici al Paese e chissà quali in termini di salute della popolazione carceraria”. Ed ecco che ritorniamo di nuovo ai dati e alla difficoltà di reperirli. A quali misure di prevenzione sono stati sottoposti i detenuti trasferiti in altre carceri dopo le rivolte? Non si sa. Una cosa però è certa: per i detenuti in generale non è stato disposto alcun tampone. Lucanìa conferma. Deceduto per coronavirus un medico in servizio nelle carceri della Puglia fimmg.org, 28 marzo 2020 Altri contagi tra il personale sanitario dei penitenziari. “Quello che si temeva e che avevamo denunciato purtroppo si sta avverando. Ieri un medico penitenziario della Puglia di 59 anni di San Severo, ricoverato per infezione da coronavirus, è deceduto per complicanze cardiopolmonari”. Lo dichiara Franco Alberti, coordinatore nazionale di Fimmg Settore Medicina Penitenziaria. “Al Centro Clinico del carcere di Pisa - prosegue - un sanitario sintomatico è risultato positivo al tampone, il responsabile della Rems di Volterra (ex Opg) è ricoverato in rianimazione per complicanze polmonari da infezione da coronavirus. Anche nel carcere romano di Rebibbia due sanitari del femminile, dove ci sono anche bambini, sono positivi al tampone, a Bologna nove sanitari positivi e 15 infermieri, a Napoli Secondigliano contagiati un medico e un infermiere e un medico contagiato a Favignana”. “Siamo sicuri che non ci fermeremo qui - prosegue Alberti - cosa hanno in comune queste situazioni? A tutti è stato inibito l’uso dei Dpi. A Bologna il responsabile del servizio e il direttore sanitario avrebbero messo per iscritto il divieto. Una cosa che non è accettabile dalle Direzioni degli Istituti, ma è ancora più inaccettabile se deciso da un medico. È necessario che venga fatto un Piano nazionale sanitario per la prevenzione dell’infezione da coronavirus, non è con i braccialetti o le amnistie che si risolve un problema che è solo ed esclusivamente sanitario, che coinvolge in egual misura le persone ristrette e chi opera all’interno degli Istituti Penitenziari. Chiediamo con forza - sottolinea Alberti - di mettere a disposizione non solo mezzi di protezione idonei per salvaguardare il personale sanitario e gli stessi detenuti, ma anche interventi preventivi per contenere l ‘infezione. Denunceremo nelle sedi opportune, anche giudiziarie, tali carenze”. Dl Cura Italia e carcere. Il diritto alla vita non è inderogabile per tutti di Chiara Formica 2duerighe.com, 28 marzo 2020 Le misure previste dal Dl Cura Italia per le carceri non saranno sufficienti nel caso in cui il covid-19 dovesse diffondersi all’interno delle strutture. Il rapporto tra Dl Cura Italia e carcere è inadeguato a fronteggiare la diffusione del contagio. Possiamo fingere, certo, che non sia così, che le misure proposte finora siano le uniche strade percorribili, che i contagi siano ridotti, ma sappiamo che le cose stanno in un altro modo. Vite di seria a e vite di serie b: il diritto alla vita non è inderogabile per tutti. Dalle discussioni parlamentari e dal decreto emerge una verità di fondo, quella secondo cui le persone che stanno scontando una detenzione sono prima detenuti e poi persone aventi diritto alla salute. La loro malattia e il loro decesso sono rischi che possiamo assumere con maggior disinvoltura. Allo stato di allerta e di emergenza epidemiologica, il ministro della Giustizia - supportato dal Governo - ha deciso in prima battuta di inasprire le misure restrittive. E quindi giustamente: no agli ingressi dall’esterno, no ai colloqui con i familiari, ma al contempo si al sovraffollamento, braccio destro del contagio. Solo in un secondo momento, nel Dl Cura Italia, sono state introdotte le prime misure per alleviare il sovraffollamento carcerario. Misure che, in ogni caso, non sono in grado di contrastare il contagio, poiché blande e affatto coraggiose. Una diffusione importante del Covid-19 nelle carceri italiane, trasformerebbe queste ultime, come si sta dicendo negli ultimi giorni, in lazzaretti. Ma niente di nuovo: i lazzaretti nascono per accogliere i lebbrosi, per tenerli fuori dalla comunità. E cosa sono le persone detenute se non lebbrosi da allontanare? “Ci meritiamo una pena, ma non la tortura”. Così le persone detenute nelle carceri del Nordest riassumono ciò che sta avvenendo nelle varie strutture detentive in una lettera al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che a sua volta ha definito le carceri italiane “sovraffollate e non sempre adeguate a garantire appieno i livelli di dignità umana”. Mattarella, proseguendo nella richiesta di intervento da parte del governo in merito alla questione dignità e sovraffollamento carcerario, coglie la radice del vero problema: il senso di comunità, dal quale le persone detenute sono tagliate fuori. Stanno intervenendo nel merito vari enti, tra cui l’Onu, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt), l’Oms, l’Associazione nazionale italiana dei professionisti di diritto penale. E proprio questi ultimi hanno avanzato le loro proposte: dal differimento, fino al prossimo 30 giugno, “dell’emissione dell’ordine di esecuzione delle condanne fino a 4 anni”, alla possibilità di “innalzamento a due anni del limite di pena detentiva, anche residua, eseguibile presso il domicilio” e di “rendere facoltativo il controllo mediante dispositivi elettronici”. Ad esporsi a favore di una scarcerazione più massiccia anche l’alto commissario Onu per i Diritti umani, Michelle Bachelet, che ha voluto sottolineare la portata “devastante” del covid-19 per i detenuti e la necessità di liberare i reclusi più “vulnerabili al virus”, come “anziani e malati”, ma anche “i non pericolosi”. Eppure le misure prese dal ministro Bonafede insistono sulla sicurezza sanitaria all’interno delle carceri, attraverso la fornitura di mascherine e tende da triage. Nel question time alla Camera, Bonafede ha riferito che sono state realizzate 145 tende per coloro che devono entrare in carcere. Niente che vada nella direzione, individuata anche dal Garante nazionale Mauro Palma, della “liberazione anticipata speciale”. Ci si limita ad intervenire sulla semilibertà, autorizzando i detenuti che ne usufruiscono a non tornare a dormire in carcere, sempre fino al 30 giugno. Mauro Palma, intervistato da Repubblica, spiega che “il decreto incide solo su una posizione molto ridotta, perché riguarda chi deve scontare ancora 18 mesi. Bisogna non far dipendere, se non quando è proprio necessario, dal braccialetto elettronico l’effettiva detenzione domiciliare. Il braccialetto va potenziato, va sveltita la procedura, ma non può essere per tutti l’elemento preclusivo”. A questo proposito il ministro Bonafede, intervenendo alla Camera, ha confermato la poca incisività delle misure riportando i numeri: finora sono usciti solo 200 detenuti, di cui 50 con il braccialetto elettronico. Aggiungendo poi che “gli aventi diritto a uscire più in fretta sono in tutto 6.000, ma i braccialetti disponibili, al 15 maggio, saranno 2.600”. Ci dicono di mantenere una distanza di almeno un metro dagli altri, di stare a contatto con meno persone possibile, di non formare assembramenti. Ecco, forse ciò che sfugge è che il carcere di per sé, per costituzione, non è altro che assembramento di persone. Ad oggi, stando ai dati ufficiali del Garante nazionale, il numero delle persone detenute arriva a 58.810, a fronte di una capienza regolamentare di 50.931, di cui 22.374 sono persone condannate che hanno una pena residua inferiore a tre anni. Le persone recluse che, finora, risultano positive al coronavirus sono 17, mentre 200 si trovano in isolamento sanitario. Ma i dati non possono essere esatti, tanto che dal carcere di Voghera arrivano notizie preoccupanti dalla madre di un detenuto, come riporta Il Dubbio. I casi di contagio sarebbero già 5 accertati, ma la donna precisa che “molte celle sono state chiuse per la presenza di più casi di detenuti che manifestano sintomi di febbre alta. Mi ha anche detto - riferendosi al figlio - che l’unica precauzione che viene adottata è la misurazione della temperatura corporea, ma non sono stati forniti dispositivi di protezione individuale”. Da un lato Mauro Palma che ricorda come “l’emergenza sanitaria deve superare la contrapposizione politica perché è interesse di tutti che questa parte di cittadini italiani non sia attaccata dal virus, anche per i riflessi sulla comunità esterna. I detenuti sono un pezzo della nostra società, è un pezzo vulnerabile. Oggi l’emergenza supera tutto”. Dall’altro lato Salvini, portavoce di un partito unanime contro la scarcerazione che definisce questi provvedimenti “svuota-carceri mascherato”, sminuisce la gravità della situazione, affermando che “il contagio nelle carceri non c’è, sono ambienti protetti. I detenuti sono più protetti in carcere che a spasso”. Verrebbe da chiedere all’ex ministro dell’Interno come mai allora, se le carceri sono luoghi sicuri e protetti, non è stato consigliato alle persone libere di fare lì, in quei posti sicuri e protetti, la loro quarantena. E non solo: dall’Onu ci dicono di liberare quante più persone possibile, perché ora l’emergenza epidemiologica è la priorità assoluta, Salvini risponde dicendo che uno Stato serio non premia chi incendia le carceri ma “ti chiude la cella e ti dà sei mesi di più”. Pura demagogia, dal momento che le persone individuate come le responsabili delle rivolte sono state escluse dalle misure di scarcerazione. E allora, adesso più che mai i versi di De André tornano ad aprirci gli occhi, perché cantando la dignità dei reclusi aveva il coraggio di ricordare agli uomini per bene che “per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti”. Coronavirus, misure urgenti per le carceri di Antonio Russo Città Nuova, 28 marzo 2020 La situazione degli istituti di pena in Italia è insostenibile sotto l’emergenza da contagio da Covid-19. Alcune soluzioni possibili. Il 40% dei detenuti che vivono nei circa 200 istituti penitenziari sono ancora presunti innocenti. Sovraffollamento e solitudine, due termini in contraddizione che caratterizzano però la maggior parte delle nostre carceri. In altre parole, i detenuti sono sempre a contatto fra loro, ma in realtà sono persone molto sole. Secondo l’ultimo Rapporto di Antigone, i reclusi in Italia sono 60.439, quasi 10 mila in più rispetto ai 50.511 posti letto ufficialmente disponibili - se non si considerano gli spazi in ristrutturazione/manutenzione - per un tasso di affollamento di circa il 120%. Insomma, mentre gli istituti di pena italiani sembrano esplodere, la solitudine implode negli animi dei detenuti, tant’è che la depressione è molto diffusa. Secondo Ristretti Orizzonti nel 2018 si è rilevato l’elevato numero di 67 suicidi. Ciò che preoccupa è che il numero di suicidi negli anni aumenta, e al di là dei motivi che portano i detenuti a compiere un gesto così estremo, è il chiaro sintomo di una sofferenza a volte inascoltata o semplicemente non capita. In questo senso il suicidio rappresenta da una parte la totale solitudine del detenuto, dall’altra, l’ultimo gesto di richiesta di comunicazione e attenzione. Proviamo ora ad immaginare cosa significano questi due termini in tempi di coronavirus. Dall’indice di affollamento evidenziato possiamo immaginare che vi sia un alto tasso di promiscuità fra le persone, che vi siano cattive condizioni igieniche e ambienti insalubri, dove il rischio di contagio da Covid-19 diventa elevatissimo e dove è impossibile rispettare le misure di distanziamento sociale, di igiene e di prevenzione previste dai moniti e dai vari decreti profusi dal nostro Governo. Dall’altra parte, la richiesta di interruzione improvvisa, immediata e sine die degli incontri fra detenuti e familiari, avvocati e volontari, la sospensione delle poche attività svolte in quei luoghi, la soppressione dei permessi premio per evitare che il detenuto, rientrando possa portare il virus nei luoghi di detenzione, ha praticamente tagliato i fili degli unici contatti che il detenuto ha con l’esterno. Insomma, una situazione che rischia di aumentare il disagio e i tentativi di suicidio. A tal proposito è utile ricordare che il 40% dei detenuti che vivono nei circa 200 istituti penitenziari sono ancora presunti innocenti in quanto non ha ancora una condanna definitiva e che nel 2018 si sono contati circa un migliaio di risarcimenti per ingiusta detenzione. In questo delicato momento di pandemia nessuno può essere lasciato indietro. Per tale motivo le Acli hanno chiesto al Governo di stanziare ogni possibile mezzo economico, e non, per portare a termine nel più breve tempo possibile quattro azioni. La prima azione da compiere è l’immediata sanificazione di tutte le strutture carcerarie onde evitare il diffondersi del virus e il rafforzamento dei loro presidi sanitari. La seconda azione dovrebbe prevedere l’alleggerimento dei luoghi di detenzione mediante norme e strumenti giuridici di esecuzione penali alternativi alla detenzione, già previsti dall’ordinamento italiano. Sono circa 16 mila i detenuti a cui resta da scontare meno di due anni di reclusione che potrebbero estinguere la rimanenza della loro pena fuori dal carcere. Sarebbe una bella occasione per sperimentare la diffusione di pene alternative, molto utilizzate in alcuni Paesi europei (Svezia, per esempio), dove diminuiscono luoghi di detenzione e detenuti. La terza azione dovrebbe rappresentare un antidoto alla solitudine dei carcerati, contro cui si chiede di mettere in campo mezzi di comunicazione alternativi, per esempio, l’uso dell’email o di cellulari comuni per non interrompere il flusso di relazione fra detenuti e familiari. La quarta azione è quella di incentivare una stretta collaborazione fra cooperative interne alle carceri, Ministero della Sanità e Ministero di Grazia e Giustizia per produrre le mascherine adatte non solo alla comunità interna ai luoghi di detenzione, ma anche alla comunità esterna. Ciò avrebbe il doppio vantaggio di produrre qualcosa di utile in un momento di tale bisogno e di dare un messaggio di solidarietà e speranza ai detenuti, dando loro un compito importante per il Paese. Sarebbe un modo molto semplice per riabilitare la loro immagine a quella parte di popolazione che vede la detenzione come mera punizione. Ai detenuti può essere tolta la libertà, ma mai si potranno loro togliere la dignità e i diritti di cui noi tutti godiamo, in primis quello alla salute fisica e mentale. Stiamo attraversando una crisi poderosa che avrà uno strascico molto lungo e che, a partire dalla sanità, toccherà tutte le altre sfere della vita umana, da quella economica a quella sociale a quella psicologica. Il termine crisi deriva dalla lingua greca krino che vuol dire separare e in senso più ampio, giudicare, discernere, valutare. In realtà, contrariamente al significato corrente negativo, crisi ha dunque un’accezione positiva, rappresentando un momento di riflessione, valutazione, scelta in una direzione piuttosto che in un’altra. Bene, è proprio in questo momento di crisi, che bisogna avere il coraggio di trovare soluzioni che consentano di tutelare la salute come diritto di tutti. Carceri sovraffollate: il Coronavirus, andar fuori e non saper dove andare di Chiara D’Incà triesteallnews.it, 28 marzo 2020 Con l’avvento dell’emergenza da Coronavirus sono molti i problemi che la Penisola deve affrontare; molti di essi sono di vecchia data e, con una situazione così instabile, tornano alla ribalta in maniera esponenziale. Uno di questi è sicuramente il sovraffollamento delle carceri che, a causa del timore legittimo del contagio, ha portato molti detenuti a protestare, sperando in una mossa politica atta a sbloccare questa situazione ormai stagna da anni. Una misura per far fronte ai troppi detenuti in poco spazio, in modo da avere nelle carceri numeri più accettabili per una nazione attenta ai diritti, è ad esempio la detenzione domiciliare prevista dal Decreto Cura Italia, che non tiene però conto di una questione fondamentale: molte delle persone che potrebbero accedere al beneficio previsto, e ridurre così il sovraffollamento negli istituti di detenzione, non hanno un luogo dove andare. Così facendo si rischia di rimanere bloccati in una spirale che si avvita su sé stessa, senza uscita, facendo spola tra la problematica dei centri di detenzione e quella, rilevante, legata ai senzatetto: in queste giornate di quarantena, infatti, anche a causa del calo delle temperature dell’ultimo periodo, le persone senza dimora si trovano in ancor più difficoltà, ed è un altro grido sociale che, sulle piattaforme online, si leva dall’Hashtag #vorreirestareacasa. Su questo, nel Comune di Trieste, possiamo stare più tranquilli: l’amministrazione comunale ha infatti aperto un nuovo centro diurno per i senzatetto in modo da garantire a queste persone un riparo dal freddo in condizioni di sicurezza sanitaria. Per quanto riguarda la detenzione domiciliare, ci si affida al fatto che coloro che non dispongono di una casa dove andare debbano trovare sistemazione nelle case di accoglienza, le quali per far fronte al rischio Covid-19 devono attivare delle misure igienico-sanitarie di igienizzazione e di uso di dispositivi di protezione individuale che hanno costi molto elevati. A queste strutture, che specialmente in periodi di emergenza come questi stanno già operando a pieno regime, viene chiesto di ricevere ancora altre persone, con cui non potranno fare un colloquio preliminare, spesso con patologie o con problemi di dipendenza e nel contempo senza adeguato supporto sanitario. Il problema dunque non è di natura prettamente morale, ma altresì logistico: chi è in grado di attivare procedure per assegnare un medico di base alle persone che eventualmente accedano a misure alternative, quando già si fa fatica a telefonare e reperire il medico nelle ore di apertura ambulatoriale per chi è già in carico nelle strutture? “Da anni il volontariato chiede trasparenza e maggior accesso ai fondi di Cassa Ammende, per poter implementare progetti di accoglienza che garantiscano serietà e capacità progettuale”, sostiene in un articolo dedicato l’operatore Alessandro Pedrotti, sottolineando come fare accoglienza, seguire un detenuto domiciliare, significa accompagnare queste persone con personale volontario e personale retribuito. “Significa che durante quelle 24 ore devi garantire a quelle persone un’accoglienza degna”. Un impegno costante, dove spesso l’istituzione non tiene in considerazione la leva umana che azionerà il meccanismo e tutte le persone che, da queste scelte, dovranno dipendere, specialmente in questi tempi complessi e già di per sé estenuanti. Con l’emergenza da Coronavirus infatti, gestire un centro di accoglienza significa tutelare e tutelarsi: avere tutti detenuti domiciliari, anche chi è libero o affidato deve stare rinchiuso, ciò significa dover mediare tutte le informazioni che arrivano dall’esterno, ascoltare le paure e le contraddizioni che un isolamento simile può far scaturire e soprattutto offrire alle persone la possibilità di sentirsi protetti. Per poter avere un’accoglienza rispettosa e responsabile bisogna riconoscere quando le condizioni non ci sono. Cosa si può fare allora per venire a capo di un problema tanto ampio? “Si può fare un piano straordinario di accoglienza che può essere finanziato con Cassa ammende e con fondi straordinari. Un piano che preveda uno stanziamento significativo per sostenere tutte quelle iniziative che sgraveranno il sistema carcerario di quei 5 o 10mila detenuti che potrebbero usufruire delle misure straordinarie approvate e anche di quei detenuti che hanno un fine pena sotto i 4 anni e potrebbero tranquillamente accedere all’affidamento in prova” suggerisce Pedrotti. Didattica a distanza, si parli anche del diritto all’istruzione degli studenti in carcere di Lara La Gatta tecnicadellascuola.it, 28 marzo 2020 Come abbiamo già riferito, nell’ambito delle indicazioni fornite per l’Istruzione degli adulti con nota 4739 del 20 marzo 2020, il Ministero dell’Istruzione ha anche richiamato l’attenzione sulle scuole in carcere. In particolare, il M.I. sottolinea la necessità di favorire, in via straordinaria ed emergenziale, in tutte le situazioni ove ciò sia possibile, il diritto all’istruzione attraverso modalità di apprendimento a distanza anche per i frequentanti i percorsi di istruzione degli adulti presso gli istituti di prevenzione e pena in accordo con le Direzioni degli istituti medesimi. Pertanto, i gruppi regionali Paideia sosterranno i Cpia nell’individuare d’intesa con gli Istituti di prevenzione e pena interessati le modalità più adeguate ed opportune per svolgere la didattica a distanza presso le scuole carcerarie tenuto conto, laddove siglati, anche dei protocolli tra Usr e Prap competenti; particolare attenzione andrà rivolta alle attività in favore dei soggetti sottoposti a provvedimenti penali da parte dell’autorità giudiziaria minorile. Ancora poca attenzione alle scuole in carcere - Anna Grazia Stammati (presidente Cesp-Rete delle scuole ristrette e docente nei percorsi di istruzione in carcere) ci ha scritto per segnalare come poco si parli, in questi giorni di sospensione delle attività didattiche e di attivazione della didattica a distanza a causa del Covid-19, degli studenti “ristretti”, ovvero di quegli studenti che frequentano i percorsi scolastici in carcere. Si tratta di un’ampia platea di persone, composta non solo da stranieri che hanno bisogno di essere alfabetizzati, ma anche di giovani e meno giovani italiani (che appartengono spesso a quel 18% di evasione scolastica) che, dentro, continua, per fortuna, il percorso scolastico, tanto nei minorili, quanto nelle istituzioni penitenziarie degli adulti. I docenti delle scuole in carcere si sono raccolti, da alcuni anni, nella rete delle scuole ristrette ed hanno portato avanti una battaglia incessante per far riconoscere la scuola in carcere quale elemento essenziale dell’esecuzione penale, visto che i docenti, per nove mesi l’anno, hanno un rapporto quotidiano e costante con i detenuti iscritti e rappresentano, per loro, l’unico contatto con il mondo esterno, nel quale, prima o poi, dovranno ritornare. “Oggi, però, - ci scrive la prof.ssa Stammati - mentre le scuole esterne continuano (tra mille difficoltà e problematiche) il proprio percorso, gli studenti e le studentesse detenute, non hanno più alcun rapporto diretto con i propri insegnanti, se non mediato da materiale cartaceo consegnato tramite educatori o agenti penitenziari che spesso, per le condizioni di invivibilità interna, non potranno essere neppure lette”. Per questo la Cesp-Rete delle scuole ristrette ha scritto una lettera al Dap (e sulla falsariga di questa al Miur) per richiedere più attenzione ed interventi mirati per i ragazzi e le ragazze in carcere. I docenti della rete delle scuole ristrette, preso atto della Circolare del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del 12 marzo, nella quale si richiamava l’opportunità, vista l’emergenza Covid-19, di garantire il prosieguo dei percorsi scolastici in carcere e si invitavano i Provveditori Regionali a comunicare ai Direttori degli Istituti Penitenziari degli ambiti territoriali di competenza, di consentire lo svolgimento di esami di laurea, esami universitari, e colloqui didattici tra docenti e studenti detenuti, mediante videoconferenza e/o tramite Skype, hanno ritenuto opportuno predisporre un monitoraggio presso le scuole appartenenti alla rete, che copre un territorio vasto (da Udine ad Enna). All’indagine ha risposto il 25% delle istituzioni penitenziarie, con percorsi di studio di primo e secondo livello, che hanno fornito i seguenti dati: - una sola istituzione penitenziaria, Terni, risulterebbe aver applicato la Circolare sull’utilizzo di Skype per i contatti tra docenti e studenti “ristretti” (anche se ad una verifica del referente territoriale Cesp con il Magistrato di sorveglianza risulta che i tre PC forniti dalla scuola sono utilizzati per agevolare contatti Skype con i familiari per i detenuti di media sicurezza); - il Cpia di Verona (percorso scolastico di primo livello) ha avuto una conferma di disponibilità ad utilizzare Skype dalla prossima settimana da parte del Direttore del carcere; - 22 istituzioni penitenziarie non hanno ancora consegnato materiali cartacei agli studenti detenuti per problematiche di vario genere; - 25 istituzioni penitenziarie hanno provveduto nell’immediato ad inviare materiale cartaceo agli studenti attraverso l’area educativa o gli agenti penitenziari. È del tutto evidente che l’utilizzo di videoconferenze tramite Skype sia pressoché nullo, per oggettive difficoltà, dovute anche al gravoso impegno che in una situazione emergenziale quale quella attuale stanno sostenendo educatori e agenti penitenziari, ma anche alla mancanza di personal computer, di spazi, di personale addetto. Ciò però sta evidentemente comportando la lesione di un diritto, qual è quello all’istruzione, che non può che produrre ulteriore e profonda destabilizzazione nella popolazione detenuta, che vede nella scuola in carcere un elemento fondamentale dell’esecuzione penale e ciò ci preoccupa molto, nella consapevolezza dell’importanza che il nostro ruolo riveste nella relazione quotidiana da noi costruita con i nostri studenti “ristretti”. Le richieste della Cesp - Per queste ragioni, la Cesp-Rete delle scuole ristrette ha chiesto sia alla Dap, sia al Ministero dell’Istruzione di occuparsi del problema. E in proposito segnala lo scambio intercorso con l’Ufficio Scolastico Regionale della Liguria, il quale ha confermato che anche in Liguria, al momento, l’unica modalità possibile per garantire la continuità dell’attività scolastica è quella dell’invio di materiali didattici da parte dei docenti agli educatori. Al momento, le scuole di La Spezia si stanno organizzando per utilizzare il canale TV per fare scuola a distanza a beneficio di chi rimane escluso dalla Didattica a Distanza promossa dalle scuole perché privo di connessione. Questa soluzione potrebbe essere seguita anche dalla popolazione scolastica carceraria e infatti il Cpia locale e gli istituti secondari che hanno percorsi di secondo livello in carcere si stanno organizzando. Questa potrebbe essere un’indicazione da seguire, nella speranza che possa servire per colmare un vuoto che sta comportando danni enormi agli studenti detenuti perché, come si legge anche nella lettera indirizzata agli studenti in carcere: “I disagi e la sofferenza che viviamo non ci devono far dimenticare chi è colpito in prima persona, i tanti morti di cui sentiamo quotidianamente le cifre con il rischio di non considerare che dietro ad esse ci sono persone, storie, affetti che si spezzano; questo virus annulla anche i riti con cui l’umanità ha accompagnato, in modalità diverse nel tempo e nei luoghi, il momento della morte: ancora una volta questa esperienza fa toccare con mano a noi, che siamo fuori del muro, quanto debba essere sconvolgente la lontananza in caso di malattia e l’impossibilità di partecipare ai funerali dei propri cari”. Coronavirus. Psicologa: “Ansia tra detenuti, carceri non attrezzate per l’epidemia” dire.it, 28 marzo 2020 Nelle carceri si sono ridotte tutta una serie di attività che vedeva impegnati i detenuti, così “anche per questo è aumentato il livello di ansia dei detenuti”. Spiega la psicologa esperta in tematiche carcerarie, Francesca Andronico, dell’Ordine degli psicologi del Lazio, intervistata dall’agenzia Dire in merito allo stato d’animo dei detenuti in questo periodo di emergenza sanitaria per il Coronavirus. “Tra i detenuti c’è preoccupazione - prosegue Andronico - se dovesse scoppiare un’epidemia in carcere sarebbe difficile da contenere, anche da un punto di vista delle infrastrutture. Gli stessi ospedali a volte non sono attrezzati, paradossalmente, figuriamoci un carcere. Sappiamo che questo virus ha una virulenza importante e, nonostante l’amministrazione sanitaria e quella penitenziaria abbiano disposto tutte le misure di sicurezza, questo non basta a tranquillizzare la popolazione carceraria. Poi ognuno chiaramente ha il suo carattere, c’è chi è più ansioso e chi lo è di meno, ma c’è anche chi è più a rischio perché ha patologie pregresse”. Il discorso della “privazione” riguarda in generale tutta la popolazione ma ovviamente la problematica aumenta in un’istituzione chiusa e totale come il carcere. La diminuzione dei colloqui con i familiari è stato poi “un problema enorme per i detenuti - prosegue Andronico - perché il carcere già ti “stacca” totalmente dalle tue appartenenze. I detenuti vivono in funzione del colloquio, per loro parlare con i propri familiari è fondamentale perché è un aggancio alla realtà esterna”. In merito ai colloqui con gli psicologi, i detenuti chiedono misure di rassicurazione “ma noi operatori sanitari - prosegue Andronico - più di “contenerli psicologicamente” non possiamo fare d’altra parte siamo tutti esposti. Noi abbiamo strumenti per contenere le loro angosce, ansie e paure, ma ci sono dei ischi oggettivi che non possono essere trascurati”. Allora quello che bisogna fare, secondo l’esperta, è distinguere tra il rischio di contagio e la percezione del rischio. “Noi psicologi possiamo lavorare sulla percezione del rischio e sul contenimento - spiega - cercando di far avere ai detenuti una visione il più possibile realistica e concreta di quella che è la situazione. Cerchiamo insomma di ridimensionare tutti gli aspetti che la paura può attivare”. Su cosa sia cambiato in carcere, nello specifico dall’inizio dell’epidemia da Coronavirus, la psicologa Andronico ha così risposto: “Dobbiamo partire dal pregresso: in Italia ci sono penitenziari virtuosi, ma gestire un carcere è sempre molto complesso da vari punti di vista. C’è il problema del sovraffollamento, i presidi sanitari sono presenti ma gli operatori sono in difficoltà perché sotto organico, così come lo è la polizia penitenziaria. Quindi la risposta non è mai così efficiente rispetto alla domanda di cura. La situazione a volte è esplosiva. Questa emergenza allora non ha fatto altro che far emergere ed aggravare tutta una serie di difficoltà che già c’erano”. Il mandato degli operatori sanitari resta però quello di garantire “la continuità dell’assistenza. Oggi questo viene fatto ovviamente con tutte le misure di sicurezza - ha aggiunto la psicologa - con mascherine, guanti e distanza di sicurezza, perché in un momento così difficile i detenuti non si possono abbandonare, altrimenti si perde anche tutto il lavoro svolto in precedenza. Il carcere è un’istituzione totale e come tale comporta tutta una serie di difficoltà, non solo per i detenuti ma anche per la polizia penitenziaria. Il discorso vale in generale, ma soprattutto ora in questa situazione, dove noi sanitari, insieme agli agenti di polizia penitenziaria, non possiamo rimanere a casa, ma dobbiamo mandare avanti il lavoro”. Ha concluso Andronico. Braccialetti sbloccati? Forse oggi il via libera di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 marzo 2020 Il sottosegretario Variati a “Radio Radicale”. Ora la vicenda dei braccialetti elettronici è più chiara. I dispositivi ancora non sono disponibili, come aveva evidenziato Il Dubbio in un articolo, da quale è poi scaturita una interrogazione parlamentare di Roberto Giachetti di Italia Viva. Ieri la conduttrice di Radio Radicale Giovanna Reanda ha intervistato il sottosegretario agli Interni Achille Variati e gli ha chiesto proprio di fare il punto sulla questione, specificando la vicenda del bando di gara vinto da Fastweb, secondo il quale la produzione di 1000- 1200 braccialetti mensili sarebbe dovuta partire già 15 mesi fa. “Ma quindi perché sono così pochi?”, ha chiesto Reanda. “In realtà nella giornata di oggi (27/ 03/ 2020, ndr) - ha risposto il sottosegretario Variati - verrà firmato il decreto interdirettoriale tra il capo della Polizia e il capo dell’Amministrazione penitenziaria, dando così seguito al particolare articolo presente nel decreto “Cura Italia”. Quindi ha proseguito Variati - verranno resi disponibili circa 5000 braccialetti che saranno consegnati con un numero non inferiore ai 300 a settimana”. Poi ha aggiunto: “Già da domani fino alla fine di giugno ci saranno un totale di circa 5000 braccialetti”. Grazie all’intervista di Radio Radicale si è scoperto forse finalmente l’arcano, ovvero che fino ad oggi ancora non è partita la fornitura di nuovi braccialetti perché mancava la fase di collaudo come ha evidenziato Il Dubbio. Ricordiamo, infatti, che l’Amministrazione dell’Interno, nel dicembre 2016, ha avviato una procedura ad evidenza pubblica per la fornitura di braccialetti elettronici conclusasi nell’agosto del 2018 con l’aggiudicazione definitiva dell’appalto a Rti Fastweb: il servizio prevede, per un periodo minimo di 27 mesi, la fornitura di 1.000-1.200 braccialetti mensili per l’intera durata triennale fino al 31 dicembre del 2021. L’erogazione del servizio sarebbe dovuta partire già da ottobre del 2018, previa nomina da parte del ministero dell’Interno di una commissione di collaudo, ma tale organo è stata nominato o solo a fine novembre 2018 e ad oggi, dal sito della Polizia di Stato, risulta che la procedura di collaudo sia ancora aperta. Infatti è stato pubblicato esclusivamente il decreto di approvazione del verbale di collaudo positivo relativo alla fase uno e non risulta invece il “piano di collaudo della fase 2” che rappresenta la base di tutte le attività di verifica di conformità della fornitura e che deve essere sottoposto a valutazione e approvazione da parte dall’Amministrazione. Ora sappiamo che da oggi - come annunciato dal sottosegretario a Radio Radicale - dovrebbe finalmente partire la fornitura dei braccialetti elettronici in maniera tale da garantire i domiciliari per i detenuti che ne necessitano. Antigone: “Il Parlamento emendi il decreto Cura-Italia. C’è bisogno di agire subito” di Andrea Oleandri* antigone.it, 28 marzo 2020 “Ieri abbiamo inviato ai parlamentari delle commissioni bilancio e giustizia e a tutti i capigruppo parlamentari una serie di proposte emendative (che è possibile leggere qui) degli articolo 123 e 124 del decreto Cura-Italia. Si tratta di proposte che vogliono far accrescere la possibilità di avere provvedimenti di detenzione domiciliare, liberazione anticipata e affidamento al servizio sociale. Ciò che chiediamo è che vengano approvate affinché le carceri possano tornare ad una situazione di legalità che consenta di affrontare al meglio il diffondersi dei casi di coronavirus. Quello di cui abbiamo bisogno sono posti in terapia intensiva e non nuovi focolai”. Queste le parole di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, a proposito delle proposte che l’associazione ha avanzato insieme a Cgil, Anpi, Arci, Gruppo Abele, Ristretti, Cnvg, Diaconia Valdese, Uisp Bergamo e InOltre Alternativa Progressista. “Abbiamo appreso dalla relazione in Parlamento del ministro della Giustizia Bonafede che i casi di detenuti trovati positivi al Covid-19 sono 15, mentre oltre 200 sono quelli in quarantena. Un dato che ci preoccupa, specialmente guardando quanto accaduto nel mondo libero in particolare riferimento alla crescita esponenziale dei contagi che, in un ambiente come il carcere, dove le persone sono tenute forzatamente a stretto contatto, sarebbe ancor più difficile da controllare e arrestare” prosegue Gonnella. “Dal 29 febbraio sono oltre 2.500 i detenuti scarcerati. Attualmente quelli presenti negli istituti di pena sono poco più di 58.000. Tuttavia, sapendo che i posti regolamentari sono 50.000, a cui vanno sottratti varie altre migliaia di posti conteggiati ma non disponibili si può dire che ad oggi ci sono ancora 12.000 detenuti che non hanno un posto regolamentare. Una situazione di sovraffollamento che può trasformarsi in un veicolo drammatico di contagio” sottolinea ancora il Presidente di Antigone. “Attraverso le nostre proposte emendative, dunque, vogliamo fare in modo che ancora altri detenuti possano uscire dal carcere e terminare di scontare la loro pena in detenzione domiciliare, anche a protezione di tutto lo staff carcerario. Lo Stato deve avere a cuore la salute di tutti e, in questo momento, la realtà delle prigioni italiane non può garantirla, né alle persone recluse, né agli operatori. Purtroppo - conclude Gonnella - il tempo per agire è sempre meno. In questa direzione si tenga almeno conto del parere del Csm per non condizionare l’accesso alla detenzione domiciliare all’uso di braccialetti elettronici che nella realtà non ci sono. Inoltre chiediamo un piano straordinario di protezione igienico-sanitaria della polizia penitenziaria, dei direttori, degli educatori, dei cappellani, dei medici e degli infermieri che operano nelle carceri”. *Ufficio Stampa Associazione Antigone Il decreto legge sull’emergenza e la retroattività delle nuove sanzioni di Giovanni Guzzetta Il Dubbio, 28 marzo 2020 Qualche ora prima che il governo adottasse il Decreto- legge n. 19/ 2020, il Dipartimento della Protezione Civile, istituito presso la presidenza del Consiglio, diramava una “Raccolta delle disposizioni in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19”. Questa specie di Testo Unico era costituito, prima dell’ultimo D. L., da un volume di 295 pagine! Una sorta di enciclopedia dell’emergenza i cui destinatari sono, oltre alle varie istituzioni, anche i 60 milioni di italiani che stanno cercando di orientarsi nella giungla di ordinanze e direttive su come circoscrivere i confini e continuare per quanto possibile a godere delle libertà previste dalla Costituzione. Basterebbe questo dato per far salutare con favore la scelta del governo di intervenire, finalmente, con un Decreto- Legge che ha cercato di tracciare una linea chiara tra la fase tumultuosa delle ultime settimane e quello che appare essere l’orizzonte di medio periodo nel quale ci ha precipitato la crisi sanitaria, economica e sociale. E, finalmente, verrebbe da dire, il governo e i suoi tecnici si sono applicati ad uno sforzo sistematico di dare ordine ai tanti poteri dell’emergenza, sorti o riemersi nel corso di questa crisi, sfruttando norme e istituti sparsi nell’ordinamento, ma certamente non pensati per fronteggiare una tragedia di dimensioni epocali come quella che stiamo vivendo. Si intravede, insomma, un’architettura istituzionale. Si può discutere o meno, e certamente si potrà fare a mente fredda, ma lo sforzo di porre un freno al rischio di ingorgo decisionale non può essere sottaciuto. Il decreto-legge si propone di tipizzare i possibili interventi di emergenza, di prevedere limiti temporali ed esigenze di proporzionalità, di stabilire una gerarchia e un argine all’esercizio dei poteri tra i vari livelli di governo, di farsi carico di alcuni effetti annunciati dell’approccio precedente, come la paralisi certa di procure della Repubblica e Tribunali. Infine, esso rimette in gioco il Parlamento, sia perché, com’è noto, dovrà convertire il decreto, sia perché esso potrà esercitare un controllo sostanziale (almeno ogni due settimane) su quegli atti che formalmente gli sfuggirebbero perché adottati al di fuori del perimetro dell’art. 77 della Costituzione. Adesso si passa alla prova dei fatti. E si tratterà di vedere se il tentativo potrà riuscire. Inoltre, il dibattito parlamentare potrebbe quantomeno aiutare ad accendere i riflettori sugli aspetti che richiedono un più attento vaglio. Alcune questioni, infatti, meritano certamente un approfondimento. Ne citerò due perché mi paiono le più rilevanti sotto il profilo del rapporto tra autorità e libertà. La questione di fondo negli stati di “eccezione”. Primo. La depenalizzazione delle violazioni delle ordinanze, al di là di alcuni aspetti di drafting che potranno essere corretti in sede di conversione, costituisce senz’altro una scelta da apprezzare. Non foss’altro che per il fatto che il sistema giudiziario non avrebbe retto l’impatto con le violazioni previste. Benché si tratti di percentuali bassissime, rispetto alla totalità della popolazione, che non elogeremo mai abbastanza per il suo spirito civico (con buona pace dei sadomasochisti dell’autodisprezzo nazionale), parliamo comunque di cifre, in termini assoluti, pur sempre rilevanti per il già sovraccarico circuito penale. Perché però consentire che le nuove sanzioni amministrative si applichino retroattivamente con effetti pecuniari potenzialmente più gravosi di quelli previsti dalla precedente ipotesi di reato? Se è stato un errore prevedere la “criminalizzazione” dei comportamenti, perché adesso farla pagare, retroattivamente, ai cittadini (al di là di indagare se questa sia una scelta costituzionalmente corretta ai sensi della sent. 223/ 2018 della Corte costituzionale)? Non sarebbe bastato prevedere sanzioni equiparabili ai costi che avrebbero dovuto subire per estinguere il reato con l’oblazione di 103 euro (senza considerare i risparmi derivanti dal mancato utilizzo della macchina giudiziaria a tale scopo)? Secondo. Di fronte alla disciplina dimostrata dai nostri concittadini, non sarebbe forse stato il caso di precisare un po’ meglio i confini degli obblighi su di essi gravanti. A parte il pedaggio burocratico di inseguire ogni paio di giorni il nuovo modulo di autocertificazione sempre più complesso, non sarebbe il caso di spiegare un po’ meglio, ad esempio, cosa significhi dichiarare di essere in uno stato di necessità “per spostamenti all’interno del comune o che rivestono carattere di quotidianità o che, comunque, siano effettuati abitualmente in ragione della brevità delle distanze da percorrere”? Nessuno qui vuole sottrarsi agli obblighi, ma capire, una volta per tutte, quali essi siano, forse aiuterebbe a propiziare l’effettività delle norme, senza dover rincorrere alla repressione, magari dell’esercito: ipotesi non esclusa neanche da questo decreto- legge e che forse non suona esattamente come manifestazione di fiducia nei confronti del popolo italiano. Reato “di passeggiata”? La norma c’è, ma l’hanno dimenticata tutti di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 28 marzo 2020 È sensata l’obiezione della Procura di Genova, che ritiene inapplicabile la “Inosservanza dei provvedimenti dell’autorità”: al tempo del Covid-19, chi mente sui propri spostamenti non altera le “generalità” e, soprattutto, si tratta di un illecito “oblazionabile” con una piccola somma. Molto più efficace contestare l’invece dimenticato articolo 260 del Testo unico delle Leggi sanitarie: che, in caso di condanna, impone la trascrizione nel casellario giudiziario. In questo periodo di profonda crisi, il susseguirsi di provvedimenti nazionali e regionali, per i quali, a seguito delle misure stringenti del governo, tutti i cittadini si vedono - legittimamente - limitati nei propri spostamenti, sono sorti alcuni - inevitabili - problemi collaterali, legati alle conseguenze penali in caso di inosservanza della normativa di emergenza adottata dall’organo esecutivo. In particolare, il governo ha progressivamente adottato diversi decreti legge, l’ultimo dei quali, annunciato nella serata di martedì scorso dal presidente Conte, introduce alcuni chiarimenti, da un lato, in relazione al rapporto tra i provvedimenti del governo e quelli delle regioni e, dall’altro lato, in ordine al sistema sanzionatorio previsto per coloro che non osservano quanto disposto finora. In particolare, con l’approvazione del nuovo decreto, la condotta di coloro che violeranno le misure restrittive sarà punita con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 500 a euro 4.000; non si applicheranno più le sanzioni contravvenzionali previste dall’articolo 650 del codice penale. Come noto nel diritto penale vi sono una serie di principi fondamentali, quali il principio di legalità e di tassatività o sufficiente determinatezza della fattispecie penale, finalizzati a garantire che ad un soggetto possa essere comminata una pena solo in presenza di una legge preesistente che configura in maniera chiara e tassativa il comportamento ritenuto punibile quale un reato. Se un soggetto ha posto in essere un reato occorre guardare agli elementi costitutivi della fattispecie penale asseritamente violata: in altre parole, vi deve essere una perfetta coincidenza tra ciò che dice la legge e la condotta posta in essere dal soggetto, a noi tutti nota quale tipicità nel diritto penale. Tralasciando ulteriori approfondimenti legati agli altri elementi del reato, quali antigiuridicità e gradazione dell’elemento soggettivo, occorre rilevare che dal punto di vista tecnico, in questa attuale situazione di crisi epidemiologica in cui il governo ha adottato precise misure restrittive, vi sono tre tipologie di fattispecie penale ipoteticamente realizzabili legate direttamente all’inosservanza di dette disposizioni: la prima sicuramente era riconducibile all’art. 650 c.p. (“Inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità”), la seconda legata ai cosiddetti reati di falso e la terza, residuale, relativa alla diffusione - colposa o dolosa - della pandemia (contagio da risiko-delikt). Per quanto riguarda la contravvenzione di cui all’art. 650 c.p. - che con l’adozione del nuovo provvedimento non troverà più applicazione - non vi sono molti dubbi interpretativi. In tale sede, risulta doveroso, tuttavia, rilevare come tale fattispecie penale sia una contravvenzione e non un delitto (al pari delle violazioni del cosiddetto Tulps, Testo unico di Pubblica sicurezza). Di delitti, invece, si parla in caso di falsa attestazione del soggetto colto fuori dal proprio domicilio senza, quindi, giustificato motivo. Per queste tipologie di reato i cittadini potranno continuare a rispondere dinanzi all’Autorità giudiziaria. In tale ipotesi, le fattispecie penali configurabili sono quelle legate all’495 cp, “Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri”, e quelle relative al combinato disposto degli artt. 477, 482 e 483 dello stesso codice. Identificare la tipicità della norma - ovvero, come detto, la perfetta coincidenza tra quanto posto in essere e quanto punito dalla legge - non è così agevole poiché vi sono elementi soggetti ad interpretazione, quali, ad esempio, la natura dell’atto con cui il cittadino attesta falsamente la propria condizione, se atto pubblico o certificazione amministrativa. Ed infatti, sul punto, sono già sorte le prime criticità: condivisibile (e non poteva andar diversamente) la scelta operata dalla Procura della Repubblica di Genova che ha promosso richiesta di archiviazione in relazione proprio alla violazione dell’art. 495 c.p. in quanto tale delitto - secondo l’interpretazione dell’Ufficio di Procura - verrebbe integrato esclusivamente dalle false attestazioni aventi ad oggetto l’identità, lo stato od altre qualità della persona. Secondo tale interpretazione, quindi il soggetto che attesta falsamente una condizione lavorativa o personale non rientra nel caso di falsità relativa ad un proprio stato o ad una propria qualità. Le conclusioni cui è pervenuta la Procura di Genova sono, come detto, figlie di una interpretazione legalmente orientata della lettera della norma penale. Non si può escludere che altre Autorità scelgano, invece, la prosecuzione del procedimento penale collegando la falsità su una condizione lavorativa o personale del cittadino quale alterazione dello stato o di una qualità del soggetto medesimo, condizione richiesta dall’art. 495 c.p. per la configurazione del delitto: è il prezzo che -ontologicamente- il Sistema paga in virtù dell’indipendenza del Magistrato (che ad avviso di chi scrive fa dell’Ordinamento italiano l’espressione più alta della democrazia) e dell’assenza del precedente vincolante. Ma senza entrare in teoremi di filosofia del diritto, l’interpretazione della Procura di Genova appare condivisibile soprattutto perché l’imputazione per il reato di falso - in generale - incorre nell’ovvio limite da parte dell’Accusa di dover provare la falsità dell’attestazione, ed in occorrenza di una situazione di crisi del genere, appare chiaro come, pertanto, non esiste una norma stringente in grado di consentire la concreta ed immediata applicazione delle misure anti-contagio se non la Legge del buon senso. Tuttavia, se proprio si volesse ricondurre una siffatta condotta ad una fattispecie penalmente rilevante, a parere di chi scrive, sarebbe più opportuno fare riferimento al dettato di cui all’art. 260 del Testo unico delle Leggi sanitarie: tale disposizione punisce con l’arresto fino a sei mesi e con l’ammenda chiunque non osservi un ordine legalmente dato per impedire l’invasione o la diffusione di una malattia infettiva dell’uomo. Già ad una prima lettura, la tipicità descritta dalla norma risulta più aderente alla realtà che stiamo vivendo, trattando proprio il caso di una malattia infettiva. Peraltro, questa disposizione - uscendo per un attimo dal ruolo dell’avvocato penalista e ponendosi dal punto di vista di coloro che devono applicare la norma - ha la caratteristica, rispetto alla “previgente” contestazione di cui all’art. 650 c.p., di non essere oblazionabile: in caso di condanna, la stessa verrebbe trascritta nel casellario giudiziario. Più severità, quindi e -forse- più ascolto. *Avvocato, direttore Ispeg - Istituto per gli studi politici, economici e giuridici Sicilia. Il Garante: “nelle carceri molti over 65 infermi e detenuti con patologie gravi” teletermini.it, 28 marzo 2020 Stabilire criteri normativi certi per l’applicazione di misure alternative, senza creare ingiuste e pericolose disparità”. “Rispetto alle carceri, l’emergenza Covid-19 apre numerose questioni. Non solo quella delle celle affollate ma della discrezionalità dei giudici rispetto alle istanze di misure extracarcerarie che in questo periodo sono in forte aumento”. Lo dice il Garante dei detenuti Giovanni Fiandaca che oggi, dalle pagine de Il Foglio, ha lanciato un appello alla politica chiedendo di “predeterminare criteri normativi volti ad eliminare, o comunque a ridurre, la discrezionalità giudiziale”. Fiandaca esamina quanto sta accadendo in Italia in questo momento: giudici che accordano, ad esempio, la detenzione domiciliare e altri che la negano anche a parità di gravi condizioni di salute. “Allo scopo di evitare ingiustificate disparità di trattamento - dice Fiandaca - bisognerebbe fissare con legge dei criteri generali che, soprattutto in questo momento di emergenza, possano tutelare detenuti over 65 infermi e detenuti affetti da gravi patologie puntualmente documentate. Non sono pochi, infatti, i detenuti con disturbi cardiaci e respiratori o con insufficienti difese immunitarie e dunque particolarmente esposti a un contagio con effetti potenzialmente letali e che rischiano, a loro volta, di diventare causa di ulteriore diffusione delle infezioni intramurarie. Un’epidemia all’interno delle carceri, inoltre, può provocare ulteriori effetti dannosi anche all’esterno. Tutelare la salute dei carcerati significa tutelare, più in generale, la salute di tutti”. Toscana. Le carceri nel cono d’ombra della pandemia di Katia Poneti societadellaragione.it, 28 marzo 2020 Gli Istituti della Toscana offrono una rappresentazione eloquente delle criticità che si sono dovute affrontare nelle ultime settimane, dalla rivolta a Prato e dalle proteste a Sollicciano e Pisa all’arrivo a Porto Azzurro e San Gimignano di detenuti trasferiti da Modena. Sono state installate tende per il controllo sanitario all’ingresso e sono sati distribuiti telefonini per telefonate skype ma il funzionamento è a macchia di leopardo. Molto poche le uscite dal carcere sulla base del decreto del Governo, troppo condizionato da requisiti impossibili. Il sovraffollamento impedisce il rispetto delle norme di igiene previste dall’Oms. La richiesta di effettuare il tampone ad agenti e detenuti. L’arrivo dell’emergenza Covid-19 ha trovato purtroppo la Toscana senza Garante regionale dei detenuti, dopo la cessazione del mandato di Franco Corleone, già proseguito con i tre mesi di prorogatio fino alla fine di gennaio. I garanti comunali, gli esperti e le associazioni che si occupano ogni giorno di carcere stanno lavorando in rete per raccogliere e condividere le informazioni sui vari istituti e intervenire con le istituzioni. Le carceri toscane sono state investite dall’ondata di rivolte delle scorse settimane: a Prato vi è stata la devastazione di una sezione, mentre a Pisa e Sollicciano era iniziata l’agitazione, fortunatamente rientrata. Porto Azzurro e San Gimignano ospitano alcune decine di detenuti trasferiti dal carcere di Modena e da altri in cui vi sono state rivolte. L’organizzazione interna di questi istituti ha dovuto essere ripensata, riaprendo sezioni chiuse per ospitare i nuovi giunti, mantenendoli nello stesso tempo in isolamento sanitario e separati per classificazione penitenziaria (a San Gimignano, diventato recentemente istituto solo di alta sicurezza, è stata riaperta una sezione di media sicurezza). All’esterno delle carceri sono state montate tende della protezione civile, in cui fare il pre-triage per chi entra in carcere; che ormai, con il divieto generalizzato di spostamenti, è soltanto il personale penitenziario ed eventuali nuovi giunti, mentre non entrano più gli operatori esterni. In seguito al blocco dei colloqui, sono stati distribuiti dal Dap/Prap un certo numero di cellulari perché i detenuti possano effettuare chiamate skype e/o whatsapp con familiari e avvocati (a Sollicciano ne sono arrivati una trentina), e questo fatto ha un po’ placato la sensazione di abbandono in cui si erano sentiti precipitati i detenuti. Non solo, le videochiamate hanno portato in molti casi un grande impatto emotivo, molto positivo, sui bambini, i familiari all’esterno e quelli detenuti, trasmettendo un senso di vicinanza che da tempo non veniva sperimentato. Molti detenuti, che da mesi se non da anni non riuscivano a vedere figli, nipoti e parenti sono riusciti ad avere l’opportunità di un contatto visivo, spesso negato dalle concrete difficoltà economiche dei familiari, che da mesi non riuscivano ad organizzare una trasferta dalle zone di origine per visitare il parente detenuto. Nell’attuale criticità c’è dunque l’opportunità per consolidare i benefici che derivano dalle videochiamate attraverso strumenti normativi, ovviamente in aggiunta ai colloqui dal vivo che una volta superata l’emergenza saranno ripristinati. La posta elettronica, l’uso dei cellulari, le videochiamate devono fare parte della normalità e non dell’eccezionalità. Molti restano i nodi critici, primo fra tutti quello di scongiurare il diffondersi dell’epidemia all’interno delle carceri. Il primo passo sarebbe quello di ridurre, azzerare, il sovraffollamento, facendo uscire quanti più detenuti possibile, soprattutto quelli che sono vicini al fine pena e hanno una casa o una struttura in cui andare. Ma riguardo a questo obiettivo è del tutto inadeguata la norma adottata con il Dl 18/2020, art. 123, che prevede una forma di detenzione domiciliare quasi identica nei presupposti sostanziali, a quella già in vigore ex lege 199/2010 (addirittura con l’aggiunta di due reati ostativi: artt. 572 e 612-bis c.p.), e solo con facilitazioni procedurali. Senza parlare dell’aggravamento posto dalla necessità del ricorso al braccialetto elettronico. Sarebbero piuttosto necessarie misure più incisive, come l’estensione della detenzione domiciliare ex lege 199/2010 così come integrata dall’art. 123 DL 18/2020 alle pene sotto i quattro anni e la liberazione anticipata “speciale” di 75 giorni ogni sei mesi di detenzione. In Toscana la Magistratura di sorveglianza sta cercando di dare la più ampia attuazione possibile alla norma, con la collaborazione degli operatori penitenziari che fanno la ricognizione dei casi e istruiscono le pratiche. Tuttavia, i primi dati che giungono dai diversi garanti comunali confermano che sono poche le persone che hanno i requisiti per accedervi, dato che chi aveva i requisiti per la 199/2010 già aveva fatto domanda. Si sa che da Sollicciano sono usciti in 3, da San Gimignano in 7, da Livorno in 2, quest’ultimi per differimento pena. Più numerose sono ovviamente le istanze pendenti, anche per differimento pena per motivi di salute. Il blocco degli ingressi degli operatori è poi particolarmente pesante per quei 4 bambini che si trovano in carcere a Sollicciano con le loro madri, e che ora non possono più beneficiare di quelle attività che rendevano meno dura la loro prigionia. Gli avvocati, il Garante comunale, l’associazione L’altro diritto e la Magistratura di sorveglianza si stanno impegnando per dare una soluzione ai singoli casi. I semiliberi, dal conto loro, possono beneficiare ora, con l’art. 124 DL 18/2020, di licenze anche più lunghe dei 45 giorni previsti dall’Ordinamento penitenziario, e questo è un bene. Tuttavia, per coloro che non possono accedere alla licenza si apre la prospettiva opposta della chiusura in regime detentivo. In questo frangente viene così al pettine anche il nodo della mancata collocazione dei semiliberi in una struttura differente rispetto a quella penitenziaria fiorentina. La tutela della salute dei detenuti rimane così in un limbo, in cui la paura del contagio è in parte contenuta dalle misure prese per monitorare i casi sospetti e dalla felicità di poter parlare con i propri cari in videochiamata, ma in cui mancano misure generalizzate per una seria prevenzione, che in carcere in quanto luogo chiuso deve essere ancora più accurata che all’esterno. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha emanato linee guida per affrontare l’emergenza da Covid-19 in carcere che dovrebbero essere attuate in tutti gli istituti toscani, tra cui si possono richiamare il lavaggio frequente delle mani con sapone, seguito dall’asciugatura con panni usa e getta, oppure l’uso di disinfettanti contenenti almeno il 60% di alcool, distanziamento fisico tra le persone di almeno 1 metro, uso di fazzoletti usa e getta per coprire la tosse. E ancora, si richiamano la necessità di una pulizia accurata degli ambienti e le norme da seguire per l’uso della mascherina. Tutte pratiche che per essere attuate necessitano di spazi e mezzi adeguati, standard da cui le condizioni attuali delle nostre carceri sono molto lontane. Una buona notizia arriva dall’iniziativa del Provveditore regionale Toscana e Umbria, che ha chiesto alla Regione Toscana di procedere, nell’ambito dello screening di massa deciso dalla Regione per identificare i soggetti positivi ma asintomatici, in via prioritaria allo screening del personale penitenziario e dei detenuti nelle carceri toscane. La proposta è sostenuta con forza dai garanti locali, come mezzo di tutela della salute dell’intera comunità penitenziaria. Foggia. “Mio figlio e gli altri reclusi picchiati e trasferiti dopo la rivolta” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 marzo 2020 Esposto in procura della Rete Emergenza Carcere con le testimonianze dei familiari. Tutti abbiamo ancora impresse le immagini della rivolta avvenuta al carcere di Foggia e la conseguente evasione di massa. Una evasione, tra l’altro, che tuttora lascia dei punti interrogativi. Dopo quell’evento qualcosa sarebbe accaduto. Tante, troppe, testimonianze si sono accavallate di presunti pestaggi che diversi reclusi avrebbero ricevuto come atto di ritorsione. La Rete Emergenza Carcere composta dalle associazioni Yairaiha Onlus, Bianca Guidetti Serra, Legal Team, Osservatorio Repressione e LasciateCIEntrare, ha raccolto diverse testimonianze e ha presentato un esposto alla Procura della Repubblica. Si tratta di testimonianze dei familiari di alcuni detenuti presso la Casa circondariale di Foggia prima dell’intervenuto trasferimento in seguito alla rivolta. Sono ben sette le testimonianze e vale la pena riportarle tutte. “In data 8/03/2020 mio figlio, detenuto fino al 12/03 presso la Casa circondariale di Foggia durante la chiamata, mi ha riferito quanto segue: a seguito delle manifestazioni di protesta messe in atto da parte di numerosi detenuti impauriti a causa dell’allarme Coronavirus, il giorno della rivolta sono entrati in 5 o 6, incappucciati e con manganelli. I detenuti sono stati massacrati di botte, trasferiti solo con ciabatte e pigiama e tenuti in isolamento per i successivi 6/7 giorni. Solo dopo una settimana i detenuti hanno ricevuto i loro oggetti personali”, riferisce la madre del detenuto, trasferito al carcere di Viterbo. Poi c’è la moglie di un altro recluso. Una testimonianza che combacia con quella precedente, ma con l’aggiunta che la presunta azione violenta sarebbe addirittura continuata nel carcere viterbese: “Il giorno del trasferimento, il 12/03/2020, durante la notte, mentre si trovava presso la Casa circondariale di Foggia, le guardie esterne sono entrate in cella e hanno pestato i detenuti. Successivamente al trasferimento non ho più ricevuto notizie. Dopo dieci giorni, durante una chiamata, mio marito mi ha riferito che ci sono state altre violenze all’interno del carcere di Viterbo”. Nell’esposto viene riportata la testimonianza della sorella di un altro detenuto, trasferito in seguito alla rivolta al carcere di Vibo Valentia. “In data 9 marzo mio fratello, durante la telefonata, mi ha riferito quanto segue: in piena notte è stato picchiato a manganellate e portato via in pigiama e ciabatte per essere trasferito in un’altra struttura, dopo la rivolta fatta alcuni giorni prima”. Sempre la sorella del detenuto ha proseguito con una riflessione accorata: “Premetto che i detenuti sono esseri umani e non meritano trattamenti disumani, come quelli subiti. Se hanno sbagliato è per un motivo valido. La paura per il Coronavirus e la sospensione dei colloqui con i parenti hanno generato il panico. Hanno percepito il pericolo mortale del virus e non potendo avere più notizie si sono allarmati ed è subentrato il caos”. Nell’esposto in Procura si aggiunge anche la testimonianza di un’altra madre di un detenuto, ora recluso nel carcere di Catanzaro: “In data 9 marzo mio figlio, durante la telefonata, mi ha riferito quanto segue: di essere stato picchiato a manganellate su tutto il corpo, specialmente sulle gambe e portato al carcere di Catanzaro senza avere la possibilità di prendere il vestiario o il minimo indispensabile”. C’è poi un’altra testimonianza, questa volta della moglie di un detenuto che addirittura sarebbe un invalido. “Il 20/03/2020 durante la telefonata con mio marito - testimonia la donna - ho avvertito la sua sofferenza, accusava dolori alle costole e mi ha riferito di aver sbattuto da qualche parte. Lui è invalido al 100% e non potrebbe mai muoversi con violenza dal momento che è in carrozzina. Sono certa che lui non può parlare liberamente. Infatti, successivamente mi ha riferito che la prima lettera che avrebbe voluto inviarmi dopo il massacro successo a Foggia gli è stata strappata. Gli ho detto di farsi portare al pronto soccorso ma non lo fanno perché altrimenti andrebbe in quarantena. Io voglio vederci chiaro”. Il padre di un detenuto ha riferito ancora che il figlio gli avrebbe detto di essere stato trasferito, in piena notte, senza alcun vestito, aggiungendo che sarebbe stato picchiato. L’ultima testimonianza è davvero emblematica. In questo caso, il detenuto, vittima di un presunto pestaggio, non avrebbe nemmeno partecipato alla rivolta del carcere di Foggia. Infatti non è tra coloro che ha subito un trasferimento. Alla sorella avrebbe raccontato, con una telefonata e una lettera, l’accaduto: “Oltre allo spavento anche le mazzate mi sono preso dalla polizia, in questi giorni ho avuto un attacco di ansia, la notte non dormo più, ho tanta paura, io che non ho fatto niente le ho prese. Ci hanno sequestrato tutti i viveri, siamo stati giorni senza caffè, sigarette, detersivi, cibo. Ci hanno levato tutto”. Sono tutte testimonianze, molto drammatiche, che rimangono tali. Sarà la Procura ad accertare quanto sia effettivamente avvenuto e, nel caso, ad esercitare un’azione penale nei confronti dei responsabili di eventuali reati. Rimangono sullo sfondo le diverse testimonianze che coincidono perfettamente. Milano. Il Tribunale: trovate un domicilio al detenuto da scarcerare di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 28 marzo 2020 Il Tribunale di Sorveglianza di Milano mette in mora l’amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia e la invita a “trovare, attraverso le proprie articolazioni sociali e pedagogiche, una adeguata collocazione” per un 43enne detenuto incompatibile con il carcere per gravi malattie ma che, anche per come è scritto il decreto sull’emergenza virus nelle carceri, non può essere messo in detenzione domiciliare perché non ha un domicilio e la legge non si preoccupa di questi casi assai numerosi. Il sovraffollamento è piaga antica e quindi certo non responsabilità di questa gestione, se mai responsabile di averla negata nel suo vertice operativo (il Dap) o minimizzata nel suo vertice politico (il ministro). Ad oggi, con 58.944 detenuti e cioè 10 mila più della capienza teorica e 12 mila più rispetto dei posti effettivamente disponibili, nelle carceri ci sono stati 2 agenti e un medico penitenziari morti, 16 detenuti positivi, 257 persone in quarantena. Il 17 marzo un articolo del decreto legge n. 18 sull’emergenza Covid-19 ha ammesso alla detenzione domiciliare chi abbia ancora da scontare meno di 18 mesi, però con una serie di preclusioni, tra le quali soprattutto, ecco il corto circuito normativo, quella ai detenuti “privi di domicilio effettivo e idoneo”. Non a caso mercoledì in Parlamento il ministro Bonafede ha comunicato che sinora in base al decreto sono usciti appena 5o detenuti in detenzione domiciliare e 150 semiliberi. Il Tribunale di Sorveglianza doveva decidere sulla richiesta, avanzata dai legali Antonella Mascia e Antonella Calcaterra con il professore Davide Galliani, di differire in detenzione domiciliare gli ultimi 8 mesi di una condanna a 2 anni di un detenuto che già 5 volte era stato dichiarato dai giudici incompatibile con il carcere perché positivo all’Hiv, affetto da tubercolosi polmonare, deambulazione assistita e grave deficit cognitivo, dunque molto a rischio se ora prendesse pure il virus in cella con altre due persone a San Vittore. La sorella non è in grado di gestire il congiunto super-problematico, la sua ultima casa è stata sgomberata per malsane condizioni igieniche, nessuna comunità in questa fase di rischio-contagio si rende disponibile, e quindi il giudice Simone Luerti non può che rigettare la richiesta perché il detenuto non ha appunto un domicilio: però mette alle strette il Ministero affinché allora gli trovi una “adeguata collocazione”. È un tema di larga scala, perché nella teorica platea di 6 mila trasferibili dal carcere alla detenzione domiciliare sotto i 18 mesi, sono tantissimi i senza domicilio: molti più dei 30o stimati dal ministero (che sono solo i senza tetto), e tantissimi per definizione fra gli stranieri (oltre un terzo del totale dei detenuti) e fra gli italiani in disastrate condizioni economiche e familiari. Al punto che la presidente del Tribunale di Sorveglianza, Giovanna Di Rosa, in audizione quasi ha supplicato il Comune di trovare per questi detenuti scarceratili un albergo, un po’ come fatto per la quarantena dei guariti dal virus. Pisa. Coronavirus, paura in carcere: 40 agenti e 6 detenuti ammalati di Eleonora Mancini La Nazione, 28 marzo 2020 Caos nel carcere “Don Bosco” di Pisa. La tensione è altissima. Ma stavolta non sono i detenuti a insorgere, come due settimane fa, bensì gli agenti della Polizia penitenziaria. La situazione è incandescente ora che, dal 24 marzo, due poliziotti e una dottoressa sono risultati positivi al Covid-19. La paura è che il virus sia entrato in carcere e possa aver infettato detenuti (sei avrebbero la febbre in questi giorni) e altri agenti: una quarantina di loro si sarebbero ammalati proprio in queste ore. Tutto nasce dalla gestione emergenza Covid-19 all’interno della Casa circondariale, che rischia di diventare un nuovo focolaio, incontrollato e incontrollabile. Sotto accusa la direzione del Don Bosco, che avrebbe “impedito” l’impiego dei dispositivi di protezione individuale, quindi mascherine, guanti, al personale in servizio. “Per evitare - queste sarebbero le motivazioni - di innescare una reazione negativa da parte dei detenuti”. Mascherine e guanti di cui per legge deve dotarsi chi è entrato in contatto con persone positive al Covid-19. Ma non ce ne sono a sufficienza per tutta la popolazione carceraria - è la denuncia - e si sarebbe preferito non farli indossare agli agenti per non diffondere tra i detenuti “la convinzione della necessità dei dispositivi di protezione, innescando eventuali reazioni per la loro mancata concessione”. Nel mirino però c’è anche la dirigenza dell’Asl Toscana Nord-Ovest, “a conoscenza - scrive il sindacato - assieme al direttore, dell’esito del test della dottoressa risultata positiva al Covid-19”. “Tutto è taciuto”, denuncia il sindacato, nonostante “l’obbligo del datore di lavoro di predisporre tutte le misure necessarie a garantire l’integrità fisica e la personalità morale dei propri dipendenti”. Ieri è stato proclamato lo stato di agitazione, con riserva di sciopero bianco, mentre si chiede alla direzione del carcere di “avviare con urgenza la procedura dei tamponi a tutti gli agenti di Polizia Penitenziaria, già predisposto e accordato dall’Asl”. La polizia penitenziaria che presta servizio presso le carceri della Toscana lancia l’allarme e chiede al servizio sanitario della Regione il tampone per il personale. E l’appello si leva forte, dietro le sbarre del Don Bosco: prevenire la diffusione del contagio da coronavirus tra i detenuti”. “Se scoppia il focolaio tra i detenuti sarà una sconfitta per lo Stato”, avvertono i rappresentanti della polizia penitenziaria. Un rischio enorme per la sicurezza all’interno dell’Istituto e per la tenuta della sanità pisana: ci sono 248 reclusi, là dentro e 40 guardie con la febbre. L’Asl Toscana Nord Ovest intanto fa sapere che i tamponi sono stati estesi sia ai detenuti che agli altri operatori “come da procedura”. La situazione è davvero seria. Civitavecchia (Rm). Coronavirus: protesta in carcere, agente sequestrato Il Messaggero, 28 marzo 2020 Alta tensione nella Casa circondariale di Civitavecchia, dove durante una violenta protesta dei detenuti, legata sembra, all’emergenza Coronavirus, i reclusi della I Sezione hanno prima sequestrato e poi rilasciato un poliziotto penitenziario. A darne notizia è il sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria. “I detenuti hanno preso gli estintori e creato disordine - spiega Maurizio Somma, segretario nazionale per il Lazio - Tutto è nato dal fatto che alcuni di loro sono stati messi in isolamento e adesso gli altri hanno paura di essere stati contagiati”. “Le donne e gli uomini appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria devono essere sottoposti, tutti e con urgenza, al tampone per l’accertamento dell’eventuale contagio - ribadisce Donato Capece, segretario generale del Sappe - Anche alla luce dei tanti casi positivi e di già due decessi nella Polizia Penitenziaria, denuncio che non siamo dotati di un adeguato numero di idonee mascherine e guanti per fronteggiare l’epidemia in un contesto, come quello penitenziario, ad altissimo rischio”. Brindisi. Bruno Mitrugno nominato Garante provinciale dei diritti dei detenuti quimesagne.it, 28 marzo 2020 Il Presidente della Provincia di Brindisi, Riccardo Rossi, con Decreto Presidenziale n.15 del 10 marzo 2020, ha designato il sig. Bruno Mitrugno, ex direttore della Caritas diocesana di Brindisi e Ostuni, quale “Garante per i diritti delle persone private della libertà personale della Provincia di Brindisi”. Tale incarico è svolto in forma del tutto gratuita; per la scelta della persona il Presidente ha tenuto conto sia dei curricula sia delle motivazioni presentate da ciascun candidato. L’istituzione della figura del Garante è stata fortemente voluta dal Consiglio Provinciale che l’ha prevista su input del Garante regionale dei detenuti; la funzione è normata dallo specifico Regolamento approvato con deliberazione del Consiglio Provinciale n. 21 dell’8 agosto 2019. Il provvedimento voluto dal presidente Riccardo Rossi e dall’intera struttura dell’Ente di via De Leo assume oggi, tra gli altri, un valore ancora più pregnante e necessario, all’interno delle varie strutture deputate, come il Carcere, il centro per gli immigrati o la Residenza per le Misure di Sicurezza (Rems) di Carovigno, alla luce anche dell’emergenza sanitaria che in questi giorni stiamo tutti vivendo, in condizioni tuttavia molto differenti rispetto ai detenuti, per la diffusione del contagio da CoVid 19, in cui la privazione della libertà si aggiunge alle limitazioni che ogni cittadino o familiare del detenuto sta riscontrando. L’attenzione, in questo periodo, da parte della Provincia di Brindisi è, pertanto, anche riposta a far sì che si possa affrontare al meglio l’impatto che il diffondersi dell’epidemia potrebbe avere sulla sicurezza di ogni persona costretta in quelle strutture perché privata, per un periodo di vita circoscritto, della propria libertà. Il Garante, in sostanza, avrà in generale il compito di individuare, attraverso un monitoraggio periodico e costante nelle varie strutture di privazione della libertà (carcere, Rems, centri per gli immigrati, luoghi di Polizia) eventuali criticità di carattere globale, trovando soluzioni condivise con le autorità competenti per risolverle, al fine di prevenire qualsiasi situazione di possibile trattamento contrario alla dignità delle persone. La scelta da parte di Rossi di una personalità quale quella di Bruno Mitrugno, noto in città per il suo forte impegno a favore degli ultimi e di coloro che vivono condizioni di estrema marginalità sociale ed economica, è il segno tangibile di una sensibilità e di un’attenzione che troverà terreno fertile di attività a favore di coloro che vivono restrizioni di libertà, per ogni possibile opportunità di recupero e di reinserimento. Pozzuoli (Na). Fuori dal carcere la donna costretta a sfidare il virus di Viviana Lanza Il Riformista, 28 marzo 2020 La Sorveglianza consente a Claudia di scontare la pena a casa per assistere i figli malati. Pochi giorni fa la Procura si era opposta Il garante: “Che gioia quando i detenuti sono trattati come persone”. Claudia potrà scontare ai domiciliari la sua condanna e prendersi cura quotidianamente dei suoi fi gli, piccoli e gravemente malati, senza dover fare la spola a giorni alterni tra il carcere di Pozzuoli e la sua casa di Maddaloni. Claudia (il nome è di fantasia) è la giovane mamma, originaria del Casertano, accusata di aver fatto parte di una rete di spacciatori e perciò condannata in via definitiva a nove di reclusione nel 2018. La sua storia era diventata un caso, di cui Il Riformista si è occupato, quando il pm aveva proposto reclamo contro la possibilità della detenzione domiciliare sebbene Claudia - e, di conseguenza, le sue compagne di cella - fosse esposta al rischio di contrarre il Covid-19 entrando e uscendo dall’istituto di pena. La scarcerazione, decisa ieri con provvedimento monocratico dal magistrato di Sorveglianza, ha dato una svolta alla storia della donna che ha finalmente ottenuto la detenzione domiciliare. Accolta la tesi dell’avvocato Andrea Scardamaglio che ha motivato la sua istanza in punta di diritto, facendo riferimento all’articolo 47 quinquies dell’ordinamento penitenziario, che riconosce alle madri detenute la possibilità di una detenzione domiciliare speciale per ripristinare la convivenza con i figli, e a una sentenza della Corte Costituzionale, che consente di superare certi limiti previsti dalla legge e di estendere il beneficio a tutte le madri detenute con fi gli affetti da grave disabilità a prescindere dalla pena già scontata in cella e ancora da scontare. I due figli di Claudia, che hanno sette e sei anni, sono affetti da una grave forma di emofilia e le loro condizioni sono tali per cui un’emorragia, se non tamponata nell’immediato, può rivelarsi fatale. Di qui la necessità che la madre potesse stare accanto ai due piccoli, continuando a scontare la sua condanna a casa. Nelle ultime settimane, inoltre, la storia di Claudia era diventata un caso anche per via della pandemia da Covid-19: il provvedimento che le consentiva di uscire dal carcere tre giorni alla settimana per seguire le terapie dei bambini era apparso troppo rischioso in quanto avrebbe potuto esporre lei e chi le stava vicino al pericolo di contrarre il virus. “Che bello trattare le persone detenute come persone - ha dichiarato il garante regionale per i detenuti Samuele Ciambriello, commentando la decisione del magistrato di Sorveglianza - Una scelta coraggiosa e coerente verso una diversamente libera che deve scontare ai domiciliari una pena lunga, in un clima di sofferenza e dolore per i figli e di responsabilità per lei”. Venezia. Termo-scanner per il carcere, i “Cavalieri di San Marco” raccolgono l’appello di Daniela Ghio Il Gazzettino, 28 marzo 2020 Un piccolo gesto di solidarietà che vuole portare attenzione alle problematiche del carcere di Santa Maria Maggiore e a quanti vi operano all’interno. Ieri l’associazione Cavalieri di San Marco ha regalato alcuni termometri digitali elettronici a infrarossi per la misurazione a distanza della temperatura alla Polizia penitenziaria del carcere maschile veneziano. Un piccolo aiuto nella prevenzione del contagio da Codiv 19 che il sodalizio guidato da Giuseppe Vianello ha fortemente voluto come gesto di solidarietà. “Da tanti anni il direttivo dei Cavalieri di San Marco - spiega Vianello - assegna i fondi raccolti annualmente, ripartendoli in quote per compiere atti di beneficenza e di assistenza prettamente umanitaria e sociale, secondo gli indirizzi fissati dall’assemblea annuale dei soci. Accanto a questo abbiamo collaborato inoltre al restauro di opere d’arte e di edicole antiche, nonché di numerosissimi capitelli e lapidi di Venezia”. Diverse sono state le attenzioni rivolte ai disabili e ai non vedenti con la fornitura di computer adatti per il loro apprendimento scolastico, oltre alla donazione di sofisticate strumentazioni mediche per l’ospedale rumeno di Timisoara e l’erogazione di aiuti alle missioni cattoliche in vari paesi del terzo mondo, sono state finanziate parecchie borse di studio. Questa volta l’attenzione dei cavalieri si è rivolta alle forze dell’ordine che operano in carcere. “Abbiamo avuto da parte della polizia penitenziaria la richiesta di un aiuto per trovare termometri che misurassero la temperatura da distante, di cui erano sprovvisti - spiega ancora il presidente Vianello. Ci siamo attivati e grazie ad alcuni dei nostri soci in 48 ore li abbiamo trovati in una società farmaceutica italiana. È giusto aiutare chi è in prima linea ad affrontare, oltre ai problemi delle carceri, anche l’epidemia di coronavirus”. Ora il sodalizio sta cercando di rispondere a richieste di termometri ad infrarossi, introvabili, per altri enti. Inoltre il direttivo ha scritto ai 900 soci sparsi nel mondo perché aiutino la Regione nella attuale raccolta fondi. Cremona. Covid-19, lezione del dottor Pan: il primario spiega il virus ai detenuti di Antonella Barone gnewsonline.it, 28 marzo 2020 Ai detenuti del carcere di Cremona nei giorni scorsi, su iniziativa della direttrice Rossella Padula, è stata data l’opportunità di avere un’informazione autorevole sul Coronavirus e sugli accorgimenti per evitare il contagio, da parte di Angelo Pan primario di Malattie infettive dell’ospedale Maggiore nel corso di un incontro nell’istituto penitenziario. Al lungo applauso con cui è stato salutato il medico, è seguita anche un’azione concreta da parte dei reclusi che hanno promosso una colletta che ha raccolto, sinora, circa 1.300 euro da destinare all’Ospedale. Va ricordato che la Lombardia è la regione più segnata dall’emergenza e che la casa circondariale di Cremona dista poco più di un chilometro dall’ospedale cittadino, dove ogni giorno si combatte la guerra contro il Covid-19. Una prossimità che aggiunge emozione e partecipazione da parte dei detenuti al dramma di un territorio con i presidi sanitari ormai al collasso. Un altro segnale, l’ennesimo di partecipazione all’emergenza che i cittadini stanno affrontando e di solidarietà ai sanitari impegnati, arriva anche da un carcere dell’estremità opposta del Paese, la casa circondariale di Trapani, dove alcuni detenuti hanno raccolto 1431 euro da versare, tramite l’ASP, al reparto di terapia intensiva dell’ospedale cittadino Sant’Antonio Abate. Coronavirus: l’OMS pubblica linee guida per le carceri di Fabrizio Maffioletti pressenza.com, 28 marzo 2020 Il WHO (World Health Organization, OMS) ha pubblicato le linee guida per la prevenzione del contagio nei luoghi di detenzione. Pubblichiamo alcuni punti del documento. Le persone private della libertà, come le persone in prigione, sono probabilmente più vulnerabili a varie malattie e condizioni. Il fatto stesso di essere privati della libertà implica, generalmente, che le persone nelle carceri e in altri luoghi di detenzione vivano in stretta vicinanza l’una con l’altra, il che potrebbe comportare un aumento del rischio di trasmissione da persona a persona e di goccioline di agenti patogeni come Covid-19. Oltre alle caratteristiche demografiche, le persone nelle carceri hanno in genere un maggiore carico di malattie e condizioni di salute peggiori rispetto alla popolazione generale e spesso affrontano una maggiore esposizione a rischi come fumo, scarsa igiene e debole difesa immunitaria a causa di stress, cattiva alimentazione, o prevalenza di malattie coesistenti, come virus trasmessi dal sangue, tubercolosi e disturbi da uso di sostanze stupefacenti. In tali circostanze, la prevenzione dell’importazione del virus nelle carceri e altri luoghi di detenzione sono un elemento essenziale per evitare o ridurre al minimo l’insorgenza dell’infezione e di gravi epidemie in questi contesti e oltre. A seconda dell’andamento dell’epidemia nei diversi Paesi, il rischio di introdurre Covid-19 nelle carceri e in altri luoghi di detenzione può variare. Nelle aree senza circolazione locale di virus, il rischio può essere associato al personale carcerario o alle persone appena ammesse che hanno recentemente soggiornato in paesi o aree colpiti o che sono state in contatto con persone di ritorno da paesi o aree colpiti. Poiché diversi paesi in Europa stanno vivendo una diffusa trasmissione comunitaria, il rischio di trasmissione è aumentato notevolmente. Una sospensione temporanea delle visite in carcere in loco dovrà essere attentamente considerata in linea con le valutazioni dei rischi locali e in collaborazione con i colleghi della sanità pubblica e dovrebbe includere misure per mitigare l’impatto negativo che tale misura potrebbe avere sulla popolazione carceraria. L’impatto psicologico di queste misure deve essere considerato e mitigato il più possibile e dovrebbe essere disponibile un supporto emotivo e pratico di base per le persone colpite in carcere. Le carceri e altri luoghi di detenzione sono ambienti chiusi in cui le persone (incluso il personale) vivono molto vicine tra loro. Dovrebbero essere previsti controlli ambientali e ingegneristici intesi a ridurre la diffusione di agenti patogeni e la contaminazione di superfici e oggetti inanimati; ciò dovrebbe includere la disponibilità di uno spazio adeguato tra le persone, un adeguato ricambio d’aria e una disinfezione ordinaria dell’ambiente (preferibilmente almeno una volta al giorno). Dovrebbero essere prese in considerazione misure come la distribuzione di cibo nelle stanze o celle invece di una mensa comune, o ripartire il tempo fuori dalla cella, che potrebbe essere diviso per ala o unità per evitare la concentrazione dei prigionieri e del personale anche in spazi aperti. Con queste avvertenze, l’accesso dei detenuti all’aria aperta dovrebbe essere mantenuto e non scendere al di sotto di almeno un’ora al giorno. La gestione delle carceri e dei luoghi di detenzione dovrebbe prendere in considerazione misure di attuazione per limitare la mobilità delle persone all’interno del sistema detentivo e limitare l’accesso del personale non essenziale e dei visitatori alle carceri e ad altri luoghi di detenzione, a seconda del livello di rischio nel Paese o area specifici L’impatto psicologico di queste misure deve essere considerato e mitigato il più possibile e dovrebbe essere disponibile un supporto emotivo e pratico di base per le persone colpite in carcere. La gestione delle prigioni e della detenzione dovrebbe aumentare il livello di informazioni su Covid-19 condivise in modo proattivo con persone in detenzione. Le restrizioni, inclusa una limitazione dei visitatori, devono essere spiegate con attenzione in anticipo e misure alternative per fornire il contatto con la famiglia e/o amici, ad es. telefonate o chiamate Skype, dovrebbero essere introdotte. Per affrontare le barriere linguistiche, potrebbe essere necessario il materiale di traduzione o visivo. Proclamato il cessate il fuoco nei Paesi in guerra per paura della pandemia di Pietro Del Re La Repubblica, 28 marzo 2020 Dallo Yemen alla Siria e dal Camerun alle Filippine, ribelli e eserciti governativi rispondono all’appello per una tregua lanciato dal Segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. È uno dei pochi effetti positivi del virus. Dopo tanti lutti e tanto dolore, un effetto virtuoso il coronavirus l’avrà pur prodotto: la proclamazione di cessate il fuoco in diversi Paesi funestati da sanguinari conflitti, dalle Filippine al Camerun e dallo Yemen alla Siria. Lunedì scorso, il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, aveva lanciato un appello affinché le parti in lotta facessero tacere i loro cannoni e i loro kalashnikov. La sua invocazione, dicono alcuni funzionari del Palazzo di Vetro, era soprattutto destinata a proteggere i civili delle zone di guerra, i più vulnerali di fronte alla furia del Covid-19. Ma nessuno sperava che le sue parole venissero ascoltate sul campo dai vari belligeranti. Invece, in un Paese in guerra dopo l’altro, le diverse fazioni ribelli e gli eserciti governativi contro cui combattono sono giunti a un accordo di pace temporanea per difendersi da un’altra aggressione, più subdola e potenzialmente altrettanto mortifera, quella della pandemia virale. Ora, secondo una fonte diplomatica che preferisce restare anonima, si sarebbe anche parlato del progetto di una risoluzione tra i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza sull’impatto del coronavirus sulle situazioni di guerra. “Alcuni Paesi dell’Onu hanno pensato a una dichiarazione congiunta per sostenere l’appello di Guterres”, ha detto la fonte. All’origine di quest’operazione ci sarebbe la Francia. Non è un caso se nella notte il presidente Emmanuel Macron ha pubblicato su Twitter la notizia di una “nuova, importante iniziativa” per contrastare la pandemia, concepita durante una sua telefonata con il suo omologo Donald Trump. Tuttavia, tra la Russia che si dice reticente a che il Consiglio di Sicurezza si occupi di sanità e gli Stati Uniti che insistono per imputare la colpa della pandemia alla Cina, l’approvazione di una tale risoluzione appare quantomeno problematica. Intanto, però, nei teatri di guerra si è subito colta l’opportunità di una tregua. Martin Griffiths, l’inviato dell’Onu nello Yemen, Paese devastato da cinque anni di guerra, ha annunciato le “risposte positive” per un cessate il fuoco e per una pausa umanitaria giunte sia dai ribelli houthi sia dal governo yemenita per meglio lottare contro il coronavirus. Lo stesso è accaduto in Camerun, dove i ribelli anglofoni delle Forze di difese camerunensi del Sud (Socadef) hanno proclamato un cessate il fuoco temporaneo. Tre giorni fa, un messaggio analogo è giunto dal Partito comunista delle Filippine, insieme al governo del Paese. E ieri anche le Forze democratiche siriane (Sdf) hanno sostenuto l’idea di una tregua e si sono dette disponibili “a fermare ogni azione militare” nel nord-est del Paese, mentre il Segretario generale Guterres ha invitato gli altri protagonisti del conflitto siriano a fare lo stesso. Nella speranza che questi cessate il fuoco “servano da esempio nel mondo intero” per far tacere le armi di fronte alla minaccia del Covid-19. Stati Uniti. La pandemia blocca anche il boia, stop alla pena di morte di Sergio D’Elia* Il Riformista, 28 marzo 2020 La pandemia da coronavirus si è abbattuta come una minaccia mortale in molti Stati della Federazione ma sul braccio della morte del Texas è caduta come una manna dal cielo. John Hummel doveva essere giustiziato tramite iniezione letale il 18 marzo nella camera della morte di Huntsville, alle 6 del pomeriggio, come è consuetudine. Normalmente, a un’esecuzione partecipano molte persone, affollate in una stanzetta adiacente a quella dell’estremo supplizio dove su un lettino fatto a forma di croce è legato il condannato. Seduti fianco a fianco, da dietro a una vetrata, assistono al rito capitale avvocati, medici, agenti carcerari, parenti della vittima del reato e gli amici e la famiglia del detenuto. Il Dipartimento di giustizia penale aveva preparato con cura l’intera procedura di controllo anti-contagio per tutti i presenti ed era pronto per eseguire l’esecuzione. I pubblici ministeri, dopo aver escluso i visitatori dalle carceri in tutto lo Stato, si erano opposti alle richieste di annullamento dell’esecuzione e i funzionari del Dipartimento di Giustizia Penale avevano affermato di poter ancora effettuare iniezioni letali in tutta sicurezza. La mano di Dio si è manifestata a favore di Hummel con l’ordine di sospensione per 60 giorni emesso alla vigilia della sua esecuzione dalla corte d’Appello del Texas: “Abbiamo stabilito che l’esecuzione deve essere subito sospesa alla luce dell’attuale crisi sanitaria e delle enormi risorse necessarie per far fronte all’emergenza”. Pochi giorni dopo, la stessa buona sorte ha toccato la vita di Tracy Beatty, salvato dallo stesso tribunale che ha rinviato di 60 giorni l’esecuzione prevista il 25 marzo, perché il numero di persone che si radunano per vedere ed eseguire l’esecuzione rischierebbe di diffondere il virus. Da qui fino alla fine dell’anno sono programmate altre sette esecuzioni in Texas, sei in Ohio, quattro in Tennessee e una in Missouri. È molto probabile che siano rinviate, a partire da quelle di Fabian Hernandez, Billy Wardlow, Edward Busbye e Randall Mays fissate in Texas tra la fine di aprile e i primi di maggio. Fermare le esecuzioni in Texas equivale a una sospensione in tutta l’America, essendo lo Stato nella cosiddetta “fascia della Bibbia” dove ogni anno si pratica di più, in coincidenza perfetta con la “fascia della morte”, il rito pagano della “crocifissione” tramite la “civile” iniezione letale. Non c’è solo questa moratoria di fatto delle esecuzioni capitali. La crescente pandemia ha anche interrotto i processi in cui era stata chiesta la pena di morte, anche perché gli avvocati, limitati nei propri movimenti, nella possibilità di accesso ai tribunali o di accesso ai clienti, non avrebbero potuto indagare sui loro casi e preparare come si deve una difesa in un processo capitale come quello americano nel quale la rappresentanza legale è sacra. Invece, il governatore Jared Polis del Colorado non ha aspettato il coronavirus per liberarsi di questo ferro vecchio della storia dell’umanità e lunedì scorso ha fatto del Colorado il 22° Stato americano ad abolire la pena di morte. Esecuzioni negli USA sono spesso sospese da decisioni della Corte suprema in casi particolari oppure del tutto vietate come nei casi di malati mentali e di minori. Nel 2009, una “carestia” di droga, indispensabile per condurre le iniezioni letali, si è abbattuta su molti Stati che hanno dovuto interromperle per molti anni a seguire. Ma è raro che siano eventi naturali a inceppare la macchina della morte. È accaduto proprio in Texas nel 2017, quando l’uragano Harvey che si era abbattuto sullo Stato aveva portato all’interruzione dell’esecuzione di Juan Castillo che fu giustiziato l’anno successivo tra mille dubbi sulla sua reale colpevolezza. Ma il male di una pandemia così mortale per molti e per molto tempo che comporti, seppure per pochi e per poco tempo, il bene di una moratoria delle esecuzioni capitali e dell’esecuzione penale stessa, non era mai accaduto, ed è qualcosa che può assomigliare a un castigo divino, la giusta punizione inflitta a fronte di una intollerabile malvagità umana. Oppure può anche essere un monito volto a cambiare modo di pensare, di sentire, di agire: non sfidate la capacità di un sistema, sia esso il pianeta o una prigione, per sua natura limitato, caricandolo di un dolore illimitato, strutturalmente insopportabile, umanamente intollerabile. L’Antico Testamento è stracolmo di storie, di maledizioni e benedizioni, di castighi e perdoni. Non c’è scritto solo “occhio per occhio”, c’è scritto anche “nessuno tocchi Caino”. Ritorniamo alla letteralità di quel passo della Genesi: “il Signore pose su Caino un segno perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato”. Nessun marchio d’infamia, nessuna pena, nessun patibolo, nessuna violenza, nessuna sofferenza. Caino-costruttore-di-città, questa fu la soluzione, attualissima, concreta, trovata nella Genesi, alle origini e nei “principi” della Storia e dell’umanità, quando eravamo più civili, più umani, più giusti di oggi. *Nessuno Tocchi Caino L’Iran chiede la liberazione dei sui detenuti negli Stati Uniti di Maria Grazia Rutigliano sicurezzainternazionale.luiss.it, 28 marzo 2020 Il governo di Teheran ha esortato gli Stati Uniti a liberare i detenuti iraniani nelle carceri statunitensi, citando i timori per la pandemia di coronavirus. Il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, ha accusato Washington di aver imprigionato un certo numero di iraniani, sopratutto per questioni legate al mancato rispetto delle sanzioni, e ha dichiarato che in queste circostanze quelle persone dovrebbero essere liberate. “Gli Stati Uniti rifiutano persino il ritiro medico degli uomini innocenti imprigionati in strutture orribili. Rilasciate i nostri uomini”, ha scritto su Twitter. Nel frattempo, il bilancio delle vittime in Iran per il coronavirus è salito a 2.378, il 27 marzo, con un balzo di 144 nuove vittime. L’Iran è uno dei Paesi più colpiti al mondo. Zarif ha anche fatto riferimento a un rapporto del quotidiano The Guardian su Sirous Asgari, un professore che secondo il ministro è ancora detenuto in una struttura affollata, dopo essere stato assolto a novembre dall’accusa federale di aver rubato segreti commerciali. “Gli Stati Uniti hanno preso in ostaggio diversi scienziati iraniani, senza accusa o con accuse legate alle sanzioni, e non rilasciandoli; anche quando i propri tribunali respingono le assurde accuse”, ha aggiunto Zarif. Intanto, come previsto dagli esperti del settore, la pandemia si sta diffondendo rapidamente anche negli Stati Uniti, con gravi conseguenze per il futuro del Paese. Il 27 marzo si è verificato, su scala nazionale, un aumento di oltre 15.000 casi in un giorno. Tale sconvolgente ondata può essere spiegata sia dalla diffusione del virus sia da un aumento dei test, dopo settimane di carenza. Con tale aumento, il numero totale dei casi confermati negli Stati Uniti supera gli 82.000. A peggiorare la situazione, quando l’epidemia è arrivata negli Stati Uniti, lo stesso presidente ha ignorato i campanelli d’allarme e ha minimizzato i rischi. Il risultato, ad oggi, è che il numero di casi confermati è salito alle stelle negli Stati Uniti, con oltre 250 casi per 1 milione di persone, molto più della Cina, che ha circa 57 casi per 1 milione di persone. Egitto. Patrick Zaky resta ancora in carcere di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 28 marzo 2020 Lo studente è accusato di attività eversive. Il regime del generale al Sisi usa il carcere e le misure punitive come mezzo per condannare all’oblio coloro che sono perseguitati per il loro orientamento politico o l’attività di difesa dei diritti umani. Ecco perché c’è preoccupazione, a livello internazionale, per la sorte di Patrick Zaki, lo studente ventisettenne che studiava a Bologna che all’inizio di febbraio è stato tratto in arresto non appena sceso dall’aereo che lo aveva riportato al Cairo dove vive la sua famiglia. Attualmente Zaki si trova in una sezione di massima sicurezza del carcere di Tora in attesa che si tenga un’ennesima udienza, alla quale si è arrivati dopo una serie di sconcertanti rinvii, fissata per il 30 marzo. Una situazione apparentemente inspiegabile dal punto di vista del diritto ma che sembra essere proprio la pratica del governo egiziano per tacitare i suoi oppositori. Lo studente infatti frequentava il master in Studi di genere dell’Alma Mater, un corso internazionale chiamati Genna. L’accusa che gli è stata mossa è quella di aver rilasciato informazioni false sulla politica dell’Egitto. In realtà sono proprio i suoi studi e le opinioni espresse attraverso i social ad averlo fatto oggetto di attenzione” da parte delle autorità di polizia del Cairo. Inoltre Zaki ha lavorato anche con coloro che si sono occupati della vicenda tragica di Giulio Regeni, cosa che lo ha posto ancora di più sotto una luce pericolosa secondo il regime. Patrick Zaki dunque è a tutti gli effetti un prigioniero di coscienza del quale in questo momento non si conosce la sorte finale. Pochi giorni fa la famiglia aveva cercato ancora di non far spegnere la luce sul suo caso attraverso un appello: “Non sappiamo nulla di Patrick da due settimane e chiediamo il suo immediato rilascio, in quanto soffre di asma ed è a rischio per il coronavirus”. Ripercorrendo le tappe della vicenda si comprende quale sia la strategia persecutoria nei suoi confronti. Dopo il suo arresto il 7 febbraio, il ragazzo venne tenuto bendato, ammanettato e interrogato per 17 ore da parte degli uomini dell’Agenzia di sicurezza nazionale (Nsa). Poi portato nella prigione di Mansoura in detenzione preventiva in attesa di ulteriori indagini su presunti crimini terroristici. Il 22 febbraio la prima udienza e un ulteriore rinvio di 15 giorni Il 5 marzo un nuovo trasferimento nel penitenziario di Tora, nei dintorni del Cairo, il suo legale Hoda Nasrallah dette notizia il giorno 7 che, per decisione della Procura per la sicurezza dello Stato, Zaki sarebbe stato di nuovo trattenuto per un tempo analogo alla precedente occasione. Ciò, nonostante si fossero attivati l’ambasciatore italiano in Egitto e all’udienza fossero presenti anche diplomatici italiani, dell’Unione europea e svizzeri. Sembrava che una decisione definitiva potesse arrivare il giorno 21 ma c’è stato un nuovo e inspiegabile allungamento del tempo di carcerazione motivato ufficialmente con l’epidemia di coronavirus. Ora la speranza è che tra poco si possa giungere alla conclusione di questo calvario.