Non solo le celle affollate. Un appello alla giustizia per tutelare i carcerati ammalati di Giovanni Fiandaca Il Foglio Quotidiano, 27 marzo 2020 L’attuale emergenza sanitaria da Covid19 - com’è noto - comporta rischi di enorme gravità e crea, di conseguenza, gravissimi problemi nell’universo penitenziario. Non a caso, su questo giornale sono stati più volte evidenziati i molti limiti delle misure deflattive già varate dal governo ed è stata prospettata l’esigenza di più efficaci disposizioni normative tendenti ad allargare l’area dei detenuti potenzialmente beneficiari. Alludo, in particolare, al numero notevole di persone recluse ultrasessantacinquenni e soprattutto a quelle affette - come non di rado accade - da molteplici patologie puntualmente documentate: tra queste, è tutt’altro che piccolo il numero dei soggetti con disturbi cardiaci e respiratori o con insufficienti difese immunitarie, che risultano quindi assai esposti a un contagio con effetti potenzialmente letali e che rischiano a loro volta di diventare causa di ulteriore diffusione delle infezioni intramurarie. Così stando le cose, non sorprende che vadano in atto aumentando le richieste alla magistratura di sorveglianza di misure extra-detentive da parte di detenuti seriamente infermi. Come si orientano in proposito i giudici operanti sul territorio nazionale? In realtà in maniera abbastanza disomogenea. Ciò perché, essendo loro di fatto affidato il bilanciamento tra le contrapposte esigenze di salvaguardia della salute individuale e di tutela della sicurezza collettiva, essi manifestano orientamenti divergenti sul modo di contemperare i due importanti valori in gioco. Anzi, in qualche caso, si è perfino ritenuto che il mantenimento in carcere sia più funzionale alla tutela della stessa salute della persona reclusa: ad esempio, un magistrato di sorveglianza del nord ha rigettato una istanza di detenzione domiciliare anche in considerazione del fatto che il detenuto interessato aveva il domicilio in una “zona rossa”, e dunque in un contesto territoriale tutt’altro che immune da rischi. Ma l’interrogativo ovvio è questo: un giudice fino a che punto è in grado, in un momento come questo, di comparare i rispettivi rischi connessi a una permanenza in carcere o a un ritorno in libertà? Anche allo scopo di evitare ingiustificate disparità di trattamento tra detenuti malati, sarebbe forse da prendere in seria considerazione la necessità di predeterminare criteri normativi volti a guidare la discrezionalità giudiziale. È impresa impossibile? Il Csm boccia gli interventi sulle carceri del decreto “Cura Italia” di Federica Olivo huffingtonpost.it, 27 marzo 2020 Per molti “inefficace” sul sovraffollamento. Per Di Matteo è “indulto mascherato”. Palazzo dei Marescialli giudica “inadeguato” l’operato del governo: “La magistratura di sorveglianza si troverà a svolgere un difficile ruolo di supplenza, con l’assunzione di gravi responsabilità”. Secondo decesso tra gli agenti penitenziari. Il decreto Cura Italia non basta. Le norme per arginare il sovraffollamento nelle carceri nel mezzo nell’emergenza coronavirus non sono sufficienti. È la posizione espressa dal Csm, nel plenum straordinario convocato proprio per discutere delle misure del governo sugli istituti penitenziari. Misure che per i membri di Palazzo dei marescialli non sono sufficienti. Con un documento approvato a maggioranza, l’assemblea avverte: “Una parte numericamente non esigua della popolazione detenuta non potrà, infatti, avere accesso alla misura per l’indisponibilità di un effettivo domicilio. Per i detenuti che potranno fruirne, l’incisività dell’intervento risulterà invece fortemente depotenziata dalla indisponibilità degli strumenti di controllo elettronici, la cui carenza, non da oggi, costituisce una delle maggiori criticità del nostro sistema”. L’ultimo riferimento è ai braccialetti elettronici. Il 25 marzo, in Parlamento, il ministro Bonafede aveva affermato che i braccialetti disponibili - necessari se il detenuto deve scontare ancora più di sette mesi - sono 2600 fino a metà maggio. E che i detenuti che potrebbero beneficiare del provvedimento del Cura Italia sono un massimo di 6mila. Una stima, quest’ultima, fatta al netto delle valutazioni che potrà fare il magistrato di sorveglianza. Il decreto, infatti, rende più semplice l’applicazione di una legge voluta dal centrodestra nel 2010 e consente a chi deve scontare al massimo 18 mesi di pena e non ha commesso reati gravi di chiedere di scontare il residuo della pena a casa. Il magistrato, però, dovrà valutare se, ad esempio, ha un domicilio idoneo. Il testo del Csm, approvato oggi pomeriggio, mette in evidenza che “in difetto di un significativo mutamento di prospettiva da parte del legislatore, la magistratura di sorveglianza si troverà a svolgere un difficile ruolo di supplenza, con l’assunzione di gravi responsabilità: i giudici di sorveglianza, infatti, dovranno ricercare soluzioni adeguate a contemperare la sicurezza collettiva con l’esigenza di garantire la massima tutela della salute dei detenuti e di tutti coloro che operano all’interno degli istituti penitenziari, muovendosi in un quadro normativo che non offre strumenti per risolvere il problema strutturale del sovraffollamento che, in considerazione dei gravi rischi che determina per la salute collettiva, richiede precise e urgenti scelte da parte del legislatore”. Infine, nel parere si rileva “l’opportunità di interventi tesi a differire l’ingresso in carcere di condannati a pene brevi per reati non gravi, per il solo periodo corrispondente alla durata dell’emergenza epidemiologica”. Il documento è stato approvato con 12 voti a favori, 7 contrari e 6 astensioni. Hanno votato contro i laici di Lega e Cinque Stelle e i togati Nino di Matteo e Sebastiano Ardita (il primo indipendente, il secondo Autonomia e Indipendenza). Si è astenuto tutto il gruppo di Area, l’associazione dei magistrati progressisti. Gli altri consiglieri hanno votato tutti a favore, compresi il primo presidente e il Pg della Cassazione. “Attualmente in carcere ci sono circa 60 mila detenuti e circa 60 mila persone vi accedono ogni giorno per lavorarci - ha rilevato Giuseppe Cascini, togato di Area, in plenum - ed è quindi impossibile garantire quel distanziamento sociale che tutti gli esperti ci dicono essere l’unico presidio efficace contro la diffusione del virus. Il Csm ha il dovere di dire con chiarezza che questo provvedimento non può in nessun modo conseguire l’obiettivo dichiarato di ridurre la popolazione penitenziaria e ha il dovere istituzionale di indicare le soluzioni idonee a garantire gli obiettivi perseguiti”. In senso opposto le opinioni di Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita, che hanno parlato di “indulto mascherato, emanato all’indomani delle rivolte” e accusato: “Si scarica sulla magistratura di sorveglianza il compito di darvi esecuzione”. Sulle proteste avvenute qualche settimana fa in decine di carceri, Di Matteo ha affermato: “Non abbiamo certezza che tutti gli autori delle rivolte siano stati identificati e possiamo pensare che siano state proteste organizzate, e quelli individuati sono la manovalanza, non chi le ha ideate, che di certo non sarà mai identificato”. Il provvedimento del governo, con la “concessione di un beneficio in maniera sostanzialmente indiscriminata e con una procedura che non garantisce una valutazione significativa caso per caso - ha affermato Di Matteo - è particolarmente grave e rischia di apparire come un cedimento dello Stato di fronte a un ricatto, soprattutto agli occhi della popolazione detenuta e delle organizzazioni criminali che hanno organizzato le rivolte”. Dai benefici, è bene ricordarlo, sono esclusi i detenuti che sono stati autori delle rivolte, i condannati per stalking e maltrattamenti e i condannati per reati gravi. Si tratta dei delitti cosiddetti ostativi, come la criminalità organizzata, il terrorismo, la riduzione in schiavitù e tanti altri. Il pm antimafia, però, ha sottolineato che non vengono escluse dalla possibilità di ottenere i domiciliari le persone che hanno compiuto più volte lo stesso reato e nel provvedimento non venga preso in considerazione il rischio di fuga: “È possibile che (il beneficio, ndr) sia concesso anche a chi è evaso più volte dal carcere e potrebbe essere scarcerato anche chi si è macchiato di gravi reati contro la Pubblica amministrazione”. Stando ai dati forniti il 25 marzo dal Guardasigilli, sono appena 50, in una settimana, i detenuti che hanno giovato di questa misura. Per altri 150 è stata applicata un’altra norma del Cura Italia, che consente a chi è già in regime di semilibertà di ottenere una licenza speciale. Continua, intanto, a preoccupare la diffusione del coronavirus nelle carceri. Gli spazi stretti, e il sovraffollamento, rischiano di rendere il contagio molto più semplice. Il presidente dell’Unione delle camere penali, Gian Domenico Caiazza, ha definito l’atteggiamento del governo “inerzia irresponsabile”. “Dal garante - continua - notizie gravissime, dal Csm parole gravissime: il carcere è una polveriera”. Ieri il Guardasigilli ha affermato che i detenuti risultati positivi in Italia erano 15. Oggi la notizia del secondo morto tra gli agenti penitenziari, a Milano. Era in servizio al carcere di Opera ed è morto all’ospedale Niguarda, dove era stato ricoverato dopo essersi aggravato nel giro di pochi giorni. I contagiati, secondo il segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Aldo Di Giacomo, sono molti di più: “Anche cinque medici, un infermiere e il provveditore regionale. Gli agenti non hanno le mascherine; è necessario che siano fatti i tamponi a tutti”, denuncia. Poi l’allarme: “La situazione sta per esplodere”. E la richiesta: “Servono provvedimenti urgenti”. Csm. Di Matteo contro Cascini: “Niente domiciliari, sarebbe un indulto” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 27 marzo 2020 Scontro sull’ipotesi di alleggerire le carceri. Il Consiglio superiore della magistratura ha votato ieri il parere sulle recenti misure previste dal governo per contrastare l’emergenza Covid-19. La parte più dibattuta è stata quella relativa alle “disposizioni in materia di detenzione domiciliare” e alle “licenze premio straordinarie per i detenuti in semi libertà”. Due temi che hanno fatto emergere profonde divergenze all’interno della magistratura. Le nuove disposizione prevedono una procedura “semplificata” da parte dei giudici di sorveglianza per la concessione della detenzione domiciliare ai detenuti a cui rimane da scontare una pena non superiore ai diciotto mesi. Il tribunale di sorveglianza, come indicato nel Dl n. 18 dello scorso 17 marzo, potrà decidere sullo stato degli atti, senza attendere la relazione della Direzione dell’istituto di pena. Unico paletto, la non presenza di condizioni “ostative” e, soprattutto, la disponibilità del braccialetto elettronico. Strumento quest’ultimo che, come è stato ricordato, non essendo spesso disponibile, potrebbe rendere di fatto irraggiungibile le finalità deflattive del Dl. Giuseppe Cascini, togato di Area, il cartello progressista della magistratura, ha allora avanzato la proposta di prevedere la detenzione domiciliare “per tutti coloro che stanno scontando una pena al di sotto dei due anni”. L’ex segretario dell’Anm ha ricordato che sono 120 mila le persone, fra detenuti ed operati, giornalmente presenti nelle carceri. Numeri ad altissimo rischio contagio per l’impossibilità di mantenere il distanziamento sociale previsto dalle disposizioni sanitarie. Sul punto ha ricordato l’esempio di Emanuel Macron che in Francia ha provveduto all’immediata scarcerazione di 5.000 detenuti. Proposta respinta da Nino Di Matteo, secondo cui si tratterebbe di un “indulto mascherato”. Il pm della Trattativa Stato-mafia ha bollato l’idea come un “ricatto” allo Stato da parte della criminalità. Dietro le sanguinose rivolte dei primi giorni di marzo ci sarebbe, secondo Di Matteo, un’unica regia criminale. Affermazione poi ridimensionata dalla togata di Magistratura indipendente Paola Braggion che ha ipotizzato come causa scatenante delle rivolte la limitazione dei colloqui. Carceri e coronavirus, il bollettino del Garante: 257 i detenuti in isolamento Il Riformista, 27 marzo 2020 Sono 257 in totale i detenuti in isolamento precauzionale nelle carceri italiane. E un nuovo caso, asintomatico, si è registrato nel Centro di Permanenza per il Rimpatrio di Gradisca d’Isonzo. È quanto riporta il bollettino del Garante Nazionale dei detenuti del 26 marzo. Un report limitato a causa della sanificazione che nel pomeriggio è stata effettuata nella stessa sede del Garante Nazionale. Dunque le sezioni di isolamento precauzionale sono 138 distribuite in 102 istituti. E, come si citava, ospitano 257 detenuti. Ma la criticità più grave è sempre quella del sovraffollamento: “Tuttavia - si legge nella nota - la tipologia delle stanze di questi reparti varia da istituto e istituto e in taluni casi non corrisponde al significato specifico della parola isolamento. Per esempio, un reparto di un Istituto a tal fine destinato e? costituito da cinque stanze di cui quattro sono a tre letti e una a due letti e ospitano 14 persone”. Il problema sottolineato dal Garante è una varietà di spazi che il sistema non riesce ad assicurare. “Il numero delle persone detenute questo pomeriggio e? di 58.243, con una diminuzione, rispetto a ieri, di 136 unita?”, si legge nel documento. “Il Garante regionale del Piemonte - si riporta - ha segnalato una serie di disfunzioni negli Istituti del territorio di sua competenza relative all’effettiva fruibilità delle misure di comunicazione messe in atto per sopperire alla mancanza di colloqui visivi. Il Garante nazionale ha potuto soltanto segnalare la questione al Provveditorato e al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria nell’auspicio che l’interlocuzione che il Garante locale intraprenderà? con tali autorità? possa essere risolutiva”. La Tim ha inoltre contattato il Dipartimento per la Giustizia minorile per offrire 35 tablet da mettere a disposizione nei 17 Istituti penali minorili, sempre per cercare di compensare l’interruzione di fatto dei colloqui. Per quanto riguarda i Cpr continua l’interlocuzione del Garante con i relativi ministri. Mentre EuroPris, l’Associazione internazionale delle Amministrazioni penitenziarie europee “ha raccolto una rassegna, aggiornata al 19 marzo 2020, delle misure adottate in diversi Paesi stranieri per prevenire la diffusione del contagio da Coronavirus negli Istituti penitenziari di Italia, Francia, Spagna, Belgio, Slovenia, Slovacchia, Romania, Repubblica Ceca, Ungheria, Lituania, Lettonia, Israele. Stiamo elaborando una tavola comparativa che presenteremo domani”, si legge nella nota. Nei prossimi giorni sarà resa nota anche un documento sulla pandemia del Coronavirus nei luoghi di restrizione della libertà pubblicato dal Sottocomitato per la prevenzione della tortura (Spt) delle Nazioni Unite, la cui traduzione è in corso di elaborazione sotto la cura del Garante. “Fate presto: evitate l’apocalisse da Covid nelle nostre carceri” Il Dubbio, 27 marzo 2020 Ecco il drammatico appello dell’Associazione Italiana Professori di Diritto Penale: decongestionare gli istituti, a inizare dai reclusi più deboli. Sul rischio di un’apocalisse da Covid-19 nelle carceri italiane si leva da giorni un grido d’allarme, in cui si uniscono più voci. A guidare la mobilitazione è l’avvocatura, e in particolare l’Unione Camere penali italiane, che quotidianamente rinnova al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede l’appello affinché sia scongiurata l’epidemia negli istituti. Due giorni fa è stato il Consiglio nazionale forense a formalizzare, d’intesa con i penalisti, proposte di emendamenti al decreto “Cura Italia” per ampliare le misure deflattive e ridurre il sovraffollamento nel sistema penitenziario. Anche da Csm e Anm sono venute sollecitazioni per una politica dell’esecuzione penale adeguata alla possibile catastrofe. Va però segnalato come una del le voci più autorevoli tra quelle che si sono schierate ci sia l’Associazione italiana dei professori di diritto penale (Aipdp), che nei giorni scorsi ha definito un dettagliato e rigoroso documento di “Osservazioni e proposte sull’emergenza carceraria da coronavirus”. Eccone il testo integrale. Le condizioni di detenzione nelle carceri italiane sono da tempo connotate, al di là di pur rilevanti differenze territoriali, da una situazione di grave sovraffollamento e da preoccupanti carenze igienicosanitarie. Si tratta di una crisi strutturale che dipende da vari fattori; tra essi spicca una obsoleta ed insostenibile visione carcerocentrica, preclusiva della previsione di sanzioni principali diverse dalla pena detentiva, che esistono, invece, in molti Paesi europei e che il Cpt del Consiglio d’Europa raccomanda di introdurre. Nonostante le condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo ed i provvedimenti di deflazione carceraria fin qui adottati, il sovraffollamento permane. Secondo i dati del Ministero della giustizia, al 29 febbraio scorso i detenuti erano 61.230, e un comunicato del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute indica che al 20 marzo i detenuti sono scesi a 59.132, a fronte di una capienza regolamentare pari a 50.931 posti, con un’eccedenza, dunque, ancora prossima al 20%. Tuttavia, in alcuni istituti si arriva ad un’eccedenza vicina al 90%. Al sovraffollamento contribuisce la presenza di detenuti in custodia cautelare - misura che dovrebbe costituire l’extrema ratio, trattandosi di persone che, in base all’art. 27 co. 2 della nostra Costituzione, devono presumersi non colpevoli fino alla condanna definitiva -: essi, al 29 febbraio scorso, rappresentavano poco più del 30% della popolazione penitenziaria. A ciò si aggiungono le carenze dei servizi igienico- sanitari, che fanno del carcere un ambiente patogeno. L’assistenza medica ed infermieristica all’interno delle prigioni è insufficiente ed è distribuita in modo disomogeneo sul territorio nazionale; naturalmente, mancano gli strumenti tipici della medicina d’urgenza, della cura di malattie infettive e della terapia intensiva (ventilatori, ossigeno). Inoltre, all’incirca il 25% dei detenuti è costituito da tossicodipendenti che necessitano di cure ed un’ulteriore, elevata percentuale di detenuti presenta patologie pregresse anche gravi, ad esempio cardiache o respiratorie: queste persone molto malate, oltre a essere destinate, se contagiate, a sicuro decesso, proprio a causa della loro maggiore vulnerabilità al contagio rischiano di diventarne, in carcere, moltiplicatori di diffusione. Una “bomba epidemiologica” devastante per tutti - A fronte di tale situazione, già incompatibile con i principi relativi alla pena - che, secondo l’art. 27 co. 3 della Costituzione non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato -, l’emergenza coronavirus rischia di innescare quella che il Ministro degli interni ha definito una “bomba epidemiologica”, come tale destinata a mettere gravemente a repentaglio la salute non solo dei detenuti, ma dello stesso personale penitenziario - già messo a dura prova anche a causa delle carenze di organico - e della collettività. Nelle attuali condizioni delle carceri non è possibile assicurare adeguatamente l’adozione delle misure indispensabili per evitare contagi da coronavirus: distanza di sicurezza, igiene personale, sanificazione dell’ambiente. Sono tuttora carenti i dispositivi di protezione individuale. Si rendono pertanto necessarie misure volte ad affrontare questa situazione anche prescindere dal sovraffollamento, dato che anche in sua assenza il rischio di contagi rimarrebbe elevato: il che esige l’adozione di specifiche tutele, per i numerosi detenuti o condannati che presentino aspetti di accentuata vulnerabilità individuale al contagio. Il carcere è stato chiuso, ma non all’ingresso del virus - In tale contesto, i provvedimenti recentemente adottati dal Governo appaiono ancora insufficienti. L’art. 2 co. 8 e co. 9 d. l. 8 marzo 2020, n. 11 dispone che i colloqui con i detenuti avvengano solo in via telefonica o ‘da remoto’ e che la concessione dei permessi- premio e della semilibertà possa essere sospesa fino al 31 maggio 2020. Tale provvedimento si limita dunque a chiudere il carcere, senza poterlo tuttavia rendere impermeabile, dal momento che ogni giorno vi transitano tantissime persone, dal personale civile alle forze dell’ordine. Con il d. l. 17 marzo 2020, n. 18, invece, si dispone, all’art. 123, che salvo eccezioni per alcune categorie di reati o di condannati, ai sensi della l. n. 199/ 2010 e fino al 30 giugno 2020 la pena detentiva non superiore a 18 mesi, anche se parte residua di maggior pena, sia eseguita, su istanza, presso il domicilio. L’art. 124 dello stesso d. l., “Licenze premio straordinarie per i detenuti in regime di semilibertà”, stabilisce inoltre che, in deroga all’art. 52 ord. penit., tali licenze possano durare fino al 30 giugno 2020. Il citato art. 123 prevede disposizioni in deroga all’art. 1 l. n. 199/ 2010 - in tema di esecuzione della pena detentiva presso il domicilio - relativamente alle preclusioni, alla procedura per la concessione e agli strumenti di controllo. Tuttavia, attesa la situazione di assoluta emergenza e la connessa urgente necessità di contrastare il grave sovraffollamento carcerario, non appare condivisibile la scelta di limitare l’applicazione del d. l. alla pena detentiva non superiore a 18 mesi, anche se residua; tanto più che si tratta di una disciplina di carattere temporaneo. Inoltre, secondo il co. 3 dello stesso art. 123, “salvo si tratti di condannati minorenni o di condannati la cui pena da eseguire non è superiore a sei mesi è applicata la procedura di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici resi disponibili per i singoli istituti penitenziari”. Ebbene, la previsione dell’obbligatorietà del controllo mediante strumenti tecnici rischia di limitare eccessivamente l’applicabilità della misura, data la ben nota scarsa disponibilità di braccialetti elettronici; e si espone a censure di illegittimità costituzionale per violazione del principio di eguaglianza- ragionevolezza (art. 3 Cost.), considerato che il controllo meramente facoltativo, già previsto dall’art. 58 quinquies ord. penit., riguarda anche condannati a pene ben superiori a diciotto mesi. L’ulteriore misura prevista dall’art. 124 d. l. n. 18/ 2020, seppur apprezzabile, non risulta idonea ad una significativa riduzione della popolazione carceraria, se si considera che al 15 febbraio 2020 le persone in semilibertà erano 1039. Le proposte dell’Associazione per modificare il Decreto Legge 18/2020 - Ciò premesso, il Consiglio direttivo dell’Aipdp ritiene necessarie ulteriori iniziative legislative volte sia a contrastare sul piano strutturale il sovraffollamento, sia a fronteggiare i gravissimi rischi legati al contagio da coronavirus nelle carceri. Pertanto, nell’intento di fornire un contributo costruttivo della comunità dei professori universitari di diritto penale, propone di prevedere urgentemente, al più tardi in sede di conversione del d. l. n. 18/ 2020, quanto segue: 1) il differimento (fino al 30 giugno 2020) dell’emissione dell’ordine di esecuzione delle condanne fino a quattro anni, rispetto alle quali, di norma, già ora i condannati hanno diritto di attendere in libertà l’esito della richiesta di fruire di una misura alternativa alla pena detentiva. In tal modo si limiterebbero nell’attuale fase di emergenza i nuovi ingressi in carcere e si alleggerirebbe subito il carico di lavoro della magistratura di sorveglianza; 2) l’innalzamento a due anni del limite di pena detentiva, anche residua, eseguibile presso il domicilio, ampliando la portata dell’art. 123 d.l. n. 18/ 2020 e precisando che tale disciplina si applica “salvo quanto previsto” in via ordinaria dall’art. 1 l. n. 199/ 2010, ossia in aggiunta e non in sostituzione di quanto disposto da quest’ultimo; 3) la modifica dell’art. 123 d. l. n. 18/ 2020 nel senso di rendere facoltativo il controllo mediante dispositivi elettronici, come è già previsto per la detenzione domiciliare di cui all’art. 58-quinquies ord. penit. e dall’art. 275- bis c. p. p. per gli arresti domiciliari; 4) la reintroduzione di uno degli strumenti temporanei rivelatisi più efficaci tra quelli introdotti dalle leggi di deflazione carceraria: la liberazione anticipata speciale di cui all’art. 4 d. l. 23 dicembre 2013, n. 146, che aveva portato da 45 a 75 giorni a semestre la detrazione di pena ai fini dell’ammissione, tra l’altro, alla semilibertà. In particolare, andrebbe precisata l’applicabilità di tale detrazione anche ai fini della detenzione domiciliare; 5) la previsione fino al 30 giugno 2020 - ampliando l’ambito di applicazione dell’art. 124 d. l. n. 18/ 2020 - della possibilità per tutti i semiliberi e gli ammessi al lavoro all’esterno, che abbiano già dato prova di buona condotta, di permanere presso il proprio domicilio o altro luogo di assistenza; 6) l’introduzione di una disciplina temporanea che imponga al giudice di tener conto, al momento della scelta della misura cautelare, anche dell’attuale emergenza sanitaria legata al coronavirus: ciò consentirebbe di disporre più spesso gli arresti domiciliari in luogo della custodia in carcere, eventualmente con l’uso del braccialetto elettronico, come previsto dall’art. 275 bis c. p. p.; la legge di conversione dovrebbe, inoltre, espressamente stabilire che tale disciplina si applica anche a quanti si trovano già in stato di custodia cautelare in carcere all’entrata in vigore della legge; 7) ai fini della gestione dell’emergenza all’interno delle carceri, l’istituzione, presso ogni Istituto, di unità di crisi che coinvolgano rappresentanti di tutti gli operatori, compresi i volontari; l’adozione di misure straordinarie per l’adeguamento delle strutture sanitarie e l’assunzione urgente di personale medico, socio-sanitario e penitenziario, nonché per l’agevolazione della comunicazione a distanza tra detenuti e familiari; 8) l’individuazione di strumenti o di criteri applicativi di misure di tutela specifica, sino a prevedere provvedimenti mirati di detenzione domiciliare, per i detenuti o i condannati che presentino aspetti di accentuata vulnerabilità individuale al contagio. Il Direttivo segnala, inoltre, la necessità di monitorare la situazione relativa agli internati nelle residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza (Rems) e nei centri di detenzione per il rimpatrio e di accoglienza per migranti e, ove necessario, di predisporre misure di contrasto del sovraffollamento e/ o di adeguamento delle condizioni igienico-sanitarie. Il nuovo allarme dei medici penitenziari su coronavirus, tubercolosi e Hiv agi.it, 27 marzo 2020 I sanitari chiedono tamponi e controlli su chi entra e spiegano che, oltre il coronavirus, sono molti i problemi all’interno delle carceri italiane. I medici penitenziari, dopo le rivolte di inizio marzo, tornano a lanciare l’allarme sulla situazione nelle carceri legata al rischio coronavirus e non solo. Le misure prese, come i casi sintomatici dei nuovi ingressi messi in isolamento, i colloqui in modalità telefonica o video e la limitazione di permessi e libertà vigilata, “si sono scontrate con una realtà non semplice”, sottolinea il Presidente della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria - Simspe, Luciano Lucanìa. “Gli istituti penitenziari italiani soffrono di problemi cronici che periodicamente vengono affrontati ma non del tutto risolti. Ad oggi rispetto all’effettiva capienza delle carceri, in grado di ospitare intorno ai 51 mila detenuti, i reclusi effettivi sono oltre 60 mila, di cui circa un terzo stranieri”. “Nel sistema carcere - aggiunge - ravviso molta buona volontà, ma assoluta mancanza di un piano organico condiviso per affrontare l’emergenza coronavirus, già assolutamente gravissima nel contesto nazionale per i suoi riflessi sulla salute generale e sull’economia. Nelle carceri potrebbe provocare una tragedia se vi fosse un impatto differente e di maggiore portata”. “Vi è una perdurante mancanza di Dispositivi di Protezione Individuale - evidenzia Lucanìa. - Abbiamo fatto numerose segnalazioni: siamo certi che le nostre richieste verranno accolte, ma il problema è sovranazionale. Noi operatori della salute, medici e professionisti sanitari, abbiamo il mandato, che oggi diventa una missione, di tutelare la salute e la vita all’interno del sistema carcere, essendo operatori provenienti dalla sanità pubblica, dalle Aziende Sanitarie del Sistema Sanitario Nazionale. È dall’inizio di questa epidemia che per le carceri si susseguono lettere circolari dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ed indicazioni più specificamente sanitarie provenienti dalle sanità regionali e dal Ministero della Salute”. Ad oggi tra i positivi al Covid-19, risulta un numero di 15 detenuti, mentre rimane non conosciuto tra gli operatori, fra cui poliziotti e operatori sanitari. “Il carcere è un servizio essenziale e le conseguenze dell’ingresso dell’infezione, anche in una singola sede, possono avere ripercussioni di estrema gravità, non solo per le persone, ma per l’intero sistema - afferma Lucanìa - Credo che dovremmo invocare un forte comportamento pro-attivo e, oltre alle comuni misure di pre-triage. Di concerto con la Sanità territoriale, dovremmo procedere con lo screening dei soggetti che quotidianamente fanno accesso alla struttura penitenziaria e hanno contatti con i detenuti, anche indirettamente”. “Gli screening, nonostante la complessità ed i presumibili costi, devono realizzarsi mediante tamponi naso-faringei da ripetersi in maniera regolare, anche a cadenza settimanale, nelle aree che registrano le maggiori prevalenze di infezione. In questa fase, nell’attesa che le curve epidemiologiche evidenzino sostanziali fasi di regressione, un simile approccio è indispensabile. Inoltre, si devono sviluppare iniziative omogenee fra gli attori del sistema, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e la sanità dei territori”. Non solo Coronavirus, perché come emerso già nel Congresso Simspe di fine 2019, tra i detenuti continuano a prevalere patologie psichiatriche e infettive, la cui gestione e cura costituisce in larga parte l’attività di Simspe. La prevalenza di detenuti HIV positivi è discesa dal 8,1% del 2003 al 1,9% attuale. “Questi dati - spiega Sergio Babudieri, Direttore Scientifico Simspe - indicano chiaramente che, nonostante i comportamenti a rischio come lo scambio delle siringhe ed i tatuaggi non siano diminuiti, la circolazione di hiv non avviene più perché assente dal sangue dei positivi in terapia antivirale. Questi farmaci non sono in grado di eradicare l’infezione ma solo di bloccarla. Di fatto con l’aderenza alle terapie viene impedita l’infezione di nuovi pazienti”. Risulta poi dai dati ufficiali del Ministero della Giustizia che un terzo della popolazione sia straniera, e, con il collasso di sistemi sanitari esteri, con il movimento delle persone, si riscontrano nelle carceri tassi di tubercolosi latente molto più alti rispetto alla popolazione generale. Se in Italia tra la popolazione generale si stima un tasso di tubercolosi latenti, cioè di portatori non malati, pari al 1-2%, nelle strutture penitenziarie ne abbiamo rilevati il 25-30%, che aumentano ad oltre il 50% se consideriamo solo la popolazione straniera. Quel grosso guaio delle carceri al tempo del coronavirus di Maria Miceli Il Sole 24 Ore, 27 marzo 2020 La questione carceri ai tempi del coronavirus sembra essere relegata a una questione di secondo piano; eppure, il totale dei detenuti nelle carceri italiane - secondo l’ultimo dato Istat - è pari a 60.581 detenuti: di cui 58.308 uomini e 2.273 donne. Nelle scorse settimane si sono susseguite ondate di ribellioni in diversi istituti di pena, culminate con evasioni, morti e feriti in diverse carceri. I detenuti protestano perché esasperati dal rischio di contagi da Covid-19, e inoltre sono insofferenti per le nuove misure prese dal Governo, che hanno imposto restrizioni su visite parentali e colloqui. Tali decisioni, quindi, si innestano in un sistema carcerario già al collasso: il sovraffollamento è pari al 120%, con punte del 140 % in Lombardia. Appare di tutta evidenza che le misure per contenere l’emergenza Covid -19 siano - ad oggi - assolutamente impraticabili all’interno delle carceri, basti pensare al metro di distanza da mantenere per evitare il contagio; a questo si aggiunge anche la necessaria tutela del personale della polizia penitenziaria, e di operai e impiegati amministrativi. A questa situazione di sovraffollamento le limitazioni dovute alle misure adottate dal Governo per contenere l’epidemia, fino al prossimo 3 aprile hanno comportato, altresì, che i colloqui in carcere si svolgeranno in video o al telefono, e saranno limitati i permessi e la libertà vigilata, mentre maggiore libertà è stata riconosciuta alla detenzione domiciliare. Ad oggi, e in un momento di piena emergenza sanitaria, l’attuale sistema carcerario presenta il 90,1 % di personale di custodia, mentre la media europea è del 68,6 % [Fonte: Antigone]: negli altri Paesi europei, infatti, è molto più pregnante la presenza di altro tipo di personale, in particolare di educatori professionali, il cui numero è invece ridottissimo nei nostri istituti di pena. Questo dato ci indica come il nostro sistema carcerario, per quanto il dato costituzionale ci indichi diversamente (la Carta costituzionale all’art. 27 espressamente prevede la funzione rieducativa della pena) sia orientato verso una dimensione custodiale più che, appunto, rieducativa. A più voci i garanti regionali dei diritti della persona avevano richiamato il senso di responsabilità dei magistrati di sorveglianza, a cui è stato chiesto di applicare in misura maggiore le misure alternative alla detenzione previste dalla legge, in particolare la detenzione domiciliare, che potrebbe contribuire allo sfollamento delle carceri indispensabile nella attuale situazione sanitaria. I garanti, inoltre, chiedono che presso le case circondariali vengano predisposti i necessari presidi sanitari, a tutela di tutti gli operatori del settore. La gestione dei nuovi ingressi così sarebbe guidata adottando i protocolli sanitari elaborati dalla Direzione generale della prevenzione sanitaria del Ministero della Salute, nel caso d’ingresso di soggetti risultati positivi al virus, l’ISS dovrà provvedere a porre in isolamento il detenuto, valutando ove possibile anche le misure alternative al carcere di detenzione domiciliare. Così, il Decreto Cura Italia del 17 marzo 2020 oltre ad aver introdotto misure di sostegno economico per famiglie, lavoratori ed imprese per contrastare gli effetti sull’economia provocati dall’emergenza epidemiologica da Covid-19, dopo le rivolte scoppiate all’interno di numerose carceri italiane a causa dell’emergenza sanitaria ha introdotto disposizione che dovrebbero interessare circa 4000 detenuti, prevedendo la detenzione domiciliare per chi ha meno di 18 mesi di pena da scontare. In particolare, sino al 30 giugno 2020 potranno ottenere la detenzione domiciliare i detenuti che debbono scontare una pena o un residuo di pena fino a 18 mesi, il tutto grazie ad una procedura semplificata. Il Consiglio dei Ministri, con una propria nota, ha chiarito le misure contenute all’interno del decreto ed ha stabilito che la misura sarà applicata dal magistrato di sorveglianza, non solo su istanza del detenuto, ma anche per iniziativa del pubblico ministero o della direzione del carcere. Queste misure - come riferito dall’avvocato Valentina Restaino, portavoce di Mga sindacato nazionale forense - non sono state stabilite in modo uniforme per tutto il territorio nazionale “ma lasciate dal Governo alle decisioni delle singole amministrazioni carcerarie”: il sindacato, per ridurre le presenze nelle carceri in tempi di emergenza sanitaria, chiede ad esempio di: sospendere il rientro serale presso l’istituto di detenzione dei semiliberi, di rendere quotidiana la possibilità dei colloqui telefonici dei detenuti con i congiunti; infine chiede altresì di disporre che gli operatori carcerari e gli impiegati la cui attività sia a ciò compatibile proseguano il loro lavoro in modalità smartworking. La questione carceraria in Italia, quindi, continua a ricoprire un ruolo scomodo. Da una parte si sgomberano i parchi e dall’altra prevale l’istinto punitivo. Il contagio è già dentro le carceri. *Analista giuridico Dietro le sbarre ai tempi del coronavirus di Marina Lomunno lavocedeltempo.com, 27 marzo 2020 Sebbene le proteste nelle carceri italiane causate dai provvedimenti restrittivi per l’emergenza coronavirus sembrano per il momento rientrate, non si placa l’apprensione degli operatori e dei reclusi in strutture spesso sottodimensionate e obsolete. A questo proposito, il Garante dei detenuti della Regione Bruno Mellano con il coordinamento dei garanti dei Comuni piemontesi, ha espresso nei giorni scorsi preoccupazione per la situazione di emergenza causata dal coronavirus nella popolazione carceraria auspicando che al più presto, laddove è possibile si mettano in atto - come è accaduto nel carcere di Rebibbia a Roma - gli arresti domiciliari, provvedimento ancora a rilento per via della carenza dei braccialetti elettronici indispensabili per il controllo dei ristretti. Dopo il Papa che non manca mai nelle sue preghiere di ricordare i detenuti che in questo tempo di isolamento soffrono l’impossibilità di essere visitati da parenti e volontari, anche il Presidente della Repubblica Mattarella, ringraziando i reclusi delle carceri del Veneto che hanno avviato una raccolta fondi per il reparto di Terapia intensiva dell’ospedale di Mestre, ha inviato una lettera rivolgendosi a tutti i carcerati italiani: “Ho ben presente la difficile situazione delle nostre carceri, sovraffollate e non sempre adeguate a garantire appieno i livelli di dignità umana e mi adopero, per quanto è nelle mie possibilità, per sollecitare il massimo impegno al fine di migliorare la condizione di tutti i detenuti e del personale della Polizia penitenziaria che lavora con impegno e sacrificio”. Anche nel carcere minorile torinese “Ferrante Aporti”, come sottolinea Emma Avezzù, Procuratore per i minorenni del Piemonte e della Valle d’Aosta, in questi giorni difficili i ragazzi reclusi raggiungono la capienza massima dell’Istituto: “L’auspicio” sottolinea il Procuratore “è che si possano mettere in atto per i giovani detenuti definitivi misure alternative come la detenzione domiciliare in modo da alleggerire un momento difficile in cui, a causa dell’emergenza coronavirus, non si possono mettere in atto attività sia dentro che fuori dal carcere”. Stessa preoccupazione espressa dal cappellano del “Ferrante”, il salesiano don Domenico Ricca che, a causa dell’impossibilità di ingresso dei volontari, ha dovuto sospendere la Messa quindicinale nella cappella dell’Istituto a cui partecipano regolarmente decine di ragazzi ristretti di tutte le confessioni religiose. “Il carcere per ora regge grazie a chi lo presidia, allo staff di direzione, agli agenti della Polizia Penitenziaria in continuo contatto con i ragazzi, al personale educativo e di supporto psicologico, ai Servizi Sociali. Siamo rimasti noi. Grazie ai ragazzi, che reggono questo stato di privazione, ma sono troppi, speriamo che con i nuovi decreti alcuni possano trovare altre strade con le misure alternative” spiega don Ricca. “Dopo l’interruzione della Messa avevo invitato i ragazzi a venire in cappella la domenica per una riflessione quaresimale ma abbiamo dovuto interrompere anche questi incontri per motivi di sicurezza. I giovani mi chiedono un ricordo nella preghiera per loro e le vostre famiglie. Lo faccio ogni mattina nella celebrazione della Messa prima di andare in carcere con la mia comunità religiosa”. Il cappellano ha poi mandato a tutti i detenuti un messaggio: “Sono sempre disponibile per un incontro personale anche solo per condividere una preghiera. Fatemelo sapere tramite solita domandina. Siamo in tempo di Quaresima, ma guardiamo alla Pasqua. Il Signore risorto è il fondamento della nostra speranza. E in questo momento abbiamo bisogno di speranza. Coraggio ragazzi”. Coronavirus, nelle carceri si producono 10mila mascherine al giorno di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 27 marzo 2020 “Non solo per uso interno, vanno anche a strutture sanitarie”. Sono 25 gli istituti penitenziari che hanno aderito all’iniziativa in tutta Italia, nata dall’iniziativa del penitenziario di Massa: “L’idea è venuta dal crescente bisogno di protezione e fabbisogno all’interno della prigione, ma adesso le distribuiamo in tutta la provincia”. Venticinque istituti penitenziari di tutta Italia per un totale di circa 10mila mascherine chirurgiche al giorno. Dall’inizio dell’emergenza coronavirus, le carceri italiane hanno fatto notizia solo per le rivolte interne, ma negli ultimi giorni, in realtà, proprio in molti istituti sparsi su tutto il territorio nazionale è iniziata la produzione autonoma di mascherine di cui c’è grande bisogno nelle strutture sanitarie, nei luoghi di lavoro tutt’ora aperti e nelle stesse carceri. Il progetto del Dipartimento dell’Amministrazione Giudiziaria (Dap) del Ministero della Giustizia ha ottenuto il via libera dell’Istituto Superiore di Sanità: i 25 laboratori sartoriali nelle carceri di tutta Italia - da quelli delle zone più colpite di Bergamo, San Vittore e Opera passando per Massa, Volterra e Orvieto fino a Rebibbia, Lecce e Siracusa - hanno iniziato a produrre le mascherine chirurgiche “in tessuto non tessuto”, ovvero composti da due o tre strati di poliestere e polipropilene. Dopo le richieste di maggiori protezioni per i detenuti, nel question time di mercoledì pomeriggio alla Camera, il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha assicurato che negli istituti penitenziari sono già arrivate 200mila mascherine e 768.889 guanti per metterli in sicurezza, mentre la capacità giornaliera di mascherine prodotte è di circa 8mila al giorno che “potranno rappresentare un evidente incremento della dotazione”. Alcuni istituti sono già partiti e hanno già distribuito le mascherine, altri inizieranno la produzione nei prossimi giorni. Il prototipo e la prima produzione a Massa - Il prototipo di mascherina, di cui è già stato prodotto un primo lotto, arriva dall’istituto penitenziario di Massa (circa 200 detenuti) che, in seguito all’autorizzazione dell’Asl, ha convertito il proprio laboratorio sartoriale dalla produzione di federe e lenzuola alle mascherine chirurgiche. Il primo stock ha riguardato circa un migliaio di mascherine che, a pieno regime, diventeranno circa 5mila al giorno, distribuite a detenuti e agenti penitenziari interni, ma anche alle strutture ospedaliere e alle Rsa della Asl Toscana Nord-Ovest con cui è stato firmato un protocollo. “La collaborazione tra istituzioni è sempre importante e determinante per una buona gestione del bene comune - spiega il direttore generale della Asl, Maria Letizia Casani - ma lo è ancor di più in momenti di difficoltà e di emergenza”. Un’iniziativa fortemente voluta dalla direttrice del carcere di Massa, Maria Cristina Bigi: “L’idea è nata dal crescente bisogno di protezione e fabbisogno di mascherine all’interno carcere - spiega al fattoquotidiano.it - e ci tengo a precisare che il lavoro dei detenuti non è solo una auto produzione per i dipendenti del carcere, ma le mascherine vengono distribuite anche nelle strutture sanitarie della provincia che hanno bisogno. Credo sia un bel modo attraverso cui i detenuti possono rendersi utili in un momento così difficile”. “Le mascherine servono agli agenti penitenziari” - Tra i penitenziari che hanno già iniziato a produrre mascherine ci sono quelli campani di Secondigliano, Santa Maria Capua Vetere e Salerno, il carcere “Mammagialla” di Viterbo e quello di Sulmona (L’Aquila). Molti di questi lo stanno facendo per uso interno, tra cui il carcere Orvieto che inizierà nei prossimi giorni: “Avevamo già un laboratorio di tappezzeria che è stato convertito per produrre mascherine - racconta la direttrice del carcere umbro, Chiara Pellegrini - Il carcere è un luogo chiuso che, in quanto tale, protegge i detenuti, ma solo in parte perché noi operatori accediamo dall’esterno. Quindi servono mascherine più agli operatori penitenziari che ai detenuti, che possono indossarle quando c’è un caso sospetto o di contagio. La salute nelle nostre carceri è un principio fondamentale che va garantito quotidianamente”. Coronavirus. Per il Csm eccessiva la sospensione nel settore penale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 27 marzo 2020 Troppo numerosi i procedimenti penali da tenere. Da precisare il perimetro del fermo delle udienze nel civile. Da valutare il rispetto del contraddittorio nel settore civile. E infine, assolutamente insufficiente l’intervento sulle carceri. Il plenum del Csm ha approvato ieri a maggioranza un denso parere, 32 pagine, sulle misure approvate dal Governo per fronteggiare l’emergenza sanitaria e assicurare l’attività giudiziaria, sia pure a scartamento ridotto. Misure inserite nel decreto Cura Italia. Nel merito, nel settore penale, il parere mette in evidenza come è troppo ampio l’elenco dei casi di trattazione obbligatoria su richiesta dell’interessato del difensore: vi rientrano per esempio, anche i procedimenti relativi a misure cautelari reali, come il sequestro, oppure le misure di prevenzione patrimoniali che dovrebbero essere trattati con urgenza solo dopo valutazione del giudice sull’effettività del pregiudizio. Nel civile, ha sollevato perplessità la sottrazione al rinvio di tutti i procedimenti di inibitoria dell’efficacia esecutiva delle sentenze, quando il pregiudizio legato alla celebrazione della sentenza di appello andrebbe valutato con attenzione nel contesto della sospensione delle procedure esecutive. Ancora e quanto alla sospensione dei termini, il Csm sottolinea come, in sede di conversione del decreto, andrebbe chiarita meglio la tipologia degli atti esclusi nel settore penale. In caso contrario nel regime di sospensione potrebbero rientrare anche i termini imposti per assicurare un controllo tempestivo da parte del giudice o del pm su atti che incidono su diritti fondamentali degli indagati (è il caso, per esempio, dei termini per le richieste di convalida e proroga delle intercettazioni e di quello per l’interrogatorio di garanzia di un indagato sottoposto a custodia cautelare). Insomma, a giudizio del Csm, dall’ area soggetta a sospensione andrebbero esclusi quegli atti indirizzati alla tutela di diritti costituzionalmente garantiti. Nel civile si mettono in evidenza aspetti particolarmente problematici soprattutto per la trattazione da remoto delle udienze (misura che i capi degli uffici giudiziari possono adottare dopo il 15 aprile). Dove andrebbero meglio chiarite le conseguenze del mancato deposito delle note scritte di parte e la sua equivalenza con la mancata comparizione. Tutto l’appello, è il suggerimento, potrebbe poi svolgersi solo su base documentale e senza celebrazione di udienze. A dividere il Csm è stata però la parte sulle carceri. Il parere, infatti, considera assolutamente inadeguato il meccanismo della detenzione domiciliare in deroga voluto dal Governo. Non convince soprattutto l’avere reso l’utilizzo dei braccialetti elettronici una condizione per l’accesso alla misura di decongestione delle carceri per chi ha tra 6 e 18 mesi di pena residua da scontare. I braccialetti infatti sono pochi e distribuiti con il contagocce; inoltre ai domiciliari potrà andare solo chi ha un domicilio e non tutti i detenuti ne hanno uno effettivo. Tra le proposte, la sospensione delle pene detentive non superiori a tre o quattro anni e la previsione di un’ulteriore ipotesi di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena. Coronavirus, in casa anche i criminali. A marzo reati diminuiti del 75 per cento di Alessandra Ziniti La Repubblica, 27 marzo 2020 Primo report della Direzione centrale della polizia criminale. Nel mirino dei rapinatori restano però le farmacie. Diminuiscono, ma a un ritmo più lento, anche i maltrattamenti in famiglia. Il Coronavirus blocca in casa anche i criminali. Dal primo report pubblicato oggi sul sito del Viminale, viene fuori che le limitazioni agli spostamenti hanno fatto crollare i delitti del 75 per cento. Preso in esame il periodo dall’1 al 22 marzo, sono stati 52.596 i delitti consumati a fronte dei 146.762 dello stesso periodo dell’anno scorso. Il report - elaborato dalla Direzione centrale della polizia criminale del Dipartimento di pubblica sicurezza - prende in esame diverse tipologie di reati. Calano del 69 per cento le violenze sessuali, del 67,4 i furti in genere, del 72,5 quelli in abitazione. Percentuali analoghe (-73,7 per cento) per le rapine agli uffici postali e -77 per cento per lo sfruttamento della prostituzione. Dimezzate invece le rapine (-54,4 per cento) anche se in queste settimane nel mirino restano le farmacie, dove furti e rapine fanno registrare un decremento molto lieve, solo -13,8 e -24,6 per cento. Fanno registrare una diminuzione, ma inferiore rispetto alla media, anche i maltrattamenti in famiglia (-43,6 per cento) ma il timore è che ci siano solo meno denunce. Diminuiscono del 46 per cento anche i reati relativi agli stupefacenti anche se gli spacciatori stanno adattando le modalità di consegna degli stupefacenti ai clienti o a domicilio o con incontri davanti ai supermercati o davanti ai pochi negozi rimasti aperti. Nelle città deserte i reati crollano, ma in Rete è boom di minori adescati di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 27 marzo 2020 Il virus e le misure di contenimento degli spostamenti ridisegnano la geografia del crimine nel Paese. Mai così pochi furti e rapine, allerta maltrattamenti. Nel Paese chiuso e pressoché immobile causa misure anti coronavirus diminuiscono i reati, com’è naturale che sia. Calano di due terzi, il 64 per cento in meno se si raffrontano i primi 22 giorni di marzo del 2020 rispetto allo stesso periodo del 2019. Tutti i tipi di reati, a cominciare da quelli “da strada”. Tranne per una categoria, che invece si consuma normalmente tra le mura domestiche: i crimini informatici, e in particolare l’adescamento dei minori on line. Sul sito del ministero dell’Interno è comparso un allarme fondato sui dati raccolti dalla Polizia postale, che non si ferma alle denunce (in calo anche su questo fronte) ma si basa su altri sensori; in particolare un monitoraggio del web attraverso algoritmi che consentono di rilevare i traffici che più interessano gli investigatori telematici. Il risultato è che l’obbligo di restare a casa si trasforma in maggior tempo da trascorrere davanti al computer. E “i pedofili che usano i social network per individuare le vittime, sfruttano l’attitudine dei più giovani a “postare” larga parte della loro vita pubblica e privata, fornendo così agli adescatori tutta una serie di dati preziosi. Servizi come WhatsApp, Snapchat, Telegram e quelli di messaggistica istantanea vengono scelti dai pedofili on line come territori di “caccia” dove tentare l’aggancio delle potenziali vittime, privilegiando quei social network che rendono tecnicamente più difficile l’identificazione dei “predatori”. Anche i tentativi di truffa telematica sono in aumento, proprio nel tentativo di sfruttare l’emergenza: “False raccolta fondi, siti civetta per la vendita di mascherine e prodotti igienizzanti per le mani, oppure la vendita a prezzi aumentati anche del 5000 per cento”. Attraverso messaggi ben confezionati vengono indicati Iban truffaldini dove inviare soldi, o finti messaggi dell’Organizzazioni mondiale della sanità sui dati della diffusione del coronavirus, che una volta aperti scaricano malware in grado di prelevare dati sensibili come quelli delle carte di credito; oppure di rubare i dati di studi professionali per i quali si chiede un immediato pagamento del riscatto in bitcoin. “Bisogna fare grande attenzione - avverte Nunzia Ciardi, dirigente della Polizia postale e delle comunicazioni - perché ormai queste truffe sono confezionate in maniera efficace e suggestiva, e anche tra le persone più avvedute è facile cadere nella trappola. Occorre diffidare della propaganda digitale, e verificare sempre ogni informazione che rimanda a raccolte fondi o comunicazioni ufficiali controllando sempre sui siti istituzionali”. Come quelli informatici, ci sono altri tipi di reati rispetto ai quali al calo delle denunce certificato dal Viminale non corrisponde - probabilmente - una diminuzione nella realtà. È il caso dei maltrattamenti in famiglia, che registrano una riduzione del 43,6 per cento (dunque inferiore alla media generale), ma l’obbligo di rimanere a casa, o di tornarci dopo essersi rivolti a polizia o carabinieri, non facilita l’emersione di queste situazioni. Che anzi potrebbero aumentare in virtù della convivenza forzata. Per altre categorie di crimini, invece, la riduzione è reale, a partire dagli omicidi (- 65 per cento), i furti (-67,4 per cento, quelli in abitazione -72,5) e le rapine (54,4 per cento). Tuttavia i furti e le rapine nelle farmacie sono tra i reati che calano meno (rispettivamente -13,8 e -24,6 per cento). Analizzando la realtà delle singole regioni si scopre che tra quelle dove si registra il maggior calo di reati ci sono Lombardia e Veneto, dove le limitazioni alla circolazione sono entrate in vigore prima che altrove; ciò nonostante la Lombardia resta la regione dove sono stati commessi più reati, anche in tempi di riduzione causa virus. Impugnazioni, se c’è incertezza sui termini va scelta la via più restrittiva di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 27 marzo 2020 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 26 marzo 2020 n. 10659. Nel caso di incertezza della giurisprudenza sui termini utili per impugnare, la parte deve seguire l’orientamento più restrittivo per evitare di incorrere nella sanzione della decadenza. Un criterio che vale a maggior ragione quando, come nel caso esaminato, l’orientamento che estende di più la facoltà processuale non è quello dominante, ma rappresenta solo una delle due vie possibili, indicate dalla giurisprudenza, prima dell’intervento risolutivo delle sezioni unite. La Corte di cassazione, con la sentenza 10659, bolla come inammissibile il ricorso contro la decisione con la quale la corte d’Appello aveva considerato, a sua volta, inammissibile perché tardiva, l’impugnazione arrivata dopo la scadenza dei 45 giorni dal deposito delle motivazioni della sentenza, giunte entro i 90 giorni previsti. Nello specifico si trattava di un giudizio abbreviato in assenza dell’imputato. Un caso rispetto al quale, dopo l’intervento della legge 67/2014, che ha introdotto l’istituto dell’assenza passando un colpo di spugna sulla contumacia, si era creato un contrasto giurisprudenziale proprio rispetto ai termini per l’impugnazione. Due gli opposti orientamenti che si erano affermati, prima dell’intervento delle Sezioni unite, sugli effetti dell’abolizione della contumacia. Secondo il principio abbracciato dalla decisione impugnata, la notifica della sentenza emessa nel giudizio abbreviato non era più necessaria, mentre l’altra tesi sosteneva la necessità della notifica dalla quale sarebbe dovuto decorrere il termine per l’impugnazione e non dalla pubblicazione della sentenza. Il ricorrente avrebbe dovuto scegliere la via più restrittiva. “Giusto tutelare i detenuti, no allo svuota-carceri” di Matteo Salvini Il Gazzettino, 27 marzo 2020 Dopo Mattarella e Conte anche il leader della Lega interviene sulla lettera al Gazzettino dei carcerati. Egregio direttore, mi permetto di intervenire dopo la lettera dei detenuti nelle carceri del Veneto e che ha ricevuto le risposte del Capo dello Stato e del Presidente del Consiglio. Prima di tutto, però, mi permetta di rivolgermi alle donne e agli uomini della Polizia Penitenziaria: molti di loro, in tutta Italia, non hanno mascherine e guanti protettivi. Una situazione comune ad altre Forze dell’Ordine e addirittura a parecchi medici, infermieri, operatori sanitari. Il governo, come ho chiesto direttamente al premier Conte, deve intervenire immediatamente. È questa la prima emergenza: aiutare i nostri eroi a difendere gli italiani in piena sicurezza. Sono convinto, invece, che lo svuota-carceri non sia una necessità, e soprattutto ritengo che il dibattito nasca in un momento sbagliato. Non possiamo dimenticare quanto successo nelle recenti settimane. Decine di case circondariali, da Nord a Sud, hanno subìto rivolte o proteste che hanno provocato danni superiori ai 30 milioni di euro, tredici morti tra i detenuti, decine di feriti tra le Forze dell’Ordine, evasioni di gruppo. Pensare di mandare ai domiciliari migliaia di carcerati, fra cui anche condannati per spaccio di droga, rapina, furto e truffa, sarebbe la resa dello Stato. Uno schiaffo alle Forze dell’Ordine e alla certezza della pena. Molti detenuti non avrebbero nemmeno un alloggio in cui scontare la condanna, e infatti il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano si è rivolto al Comune per chiedere case o alberghi. Non mi sembra accettabile. Il problema del sovraffollamento carcerario è figlio anche della carcerazione preventiva: troppi innocenti sono dietro le sbarre. È questa la vera vergogna, altro che perdere mesi con la prescrizione. Questo è un problema strutturale che vogliamo e dobbiamo risolvere, quello dei troppi innocenti finiti ingiustamente in galera. Aggiungo che servirebbe un piano carceri per realizzare nuove strutture, ma non è mai stata una preoccupazione del centrosinistra e dei grillini. I governi targati Pd avevano approvato almeno cinque svuota-carceri, sempre con la scusa del sovraffollamento, ma il problema si è poi puntualmente ripresentato. È inutile dire, direttore, che chi è in carcere abbia tutto il diritto di essere protetto dal virus, dalla malattia, dalla paura. Né mi sfugge l’importanza delle iniziative di solidarietà che hanno visto detenute e detenuti donare quanto potevano per le terapie intensive, oppure continuare a tener vivo il servizio di prenotazione sanitario in alcuni territori, ma la preoccupazione del Coronavirus non può essere la scusa per spalancare i cancelli. Oltretutto, i detenuti semiliberi che hanno scritto la lettera non dovrebbero avere contatti con gli altri reclusi. Le loro preoccupazioni mi sembrano quindi eccessive: ci si ammala più fuori dal carcere che dietro le sbarre. Aggiungo che nel piano del governo andrebbero a casa migliaia di condannati senza che vengano valutate la pericolosità o il pericolo di fuga. Piuttosto, è ragionevole immaginare strade alternative per permettere loro di avere rapporti con i parenti. Magari con le videochiamate. In tutta Italia e nel Nordest la gente si ammala e rischia di morire. C’è un’emergenza sanitaria che diventerà economica e sociale. Alla casella emergenza@legaonline.it arrivano, ogni giorno, migliaia di messaggi che ci chiedono aiuto e denunciano problemi. Molti commercianti, artigiani, Partite Iva, professionisti rischiano di chiudere. Lavoro per tenere aperte le loro attività e tenere le galere sicure, civili, vivibili, senza innocenti dietro le sbarre. Ma chiuse per i condannati definitivi. Campania. Il Garante dei detenuti consegna 25 lavatrici agli istituti penitenziari retesei.com, 27 marzo 2020 Ciambriello: “un gesto per migliorare la qualità della vita dei detenuti e gli standard di igiene e sicurezza sanitaria”. “Ci sono gesti piccoli, ma che in un momento di emergenza assumono un grande valore e sono essenziali. Sono lieto di annunciare che grazie al sostegno dell’Assessore regionale alle politiche sociali Lucia Fortini, l’ufficio del Garante riuscirà a consegnare agli istituti penitenziari della Campania, 25 lavatrici che serviranno a migliorare la qualità della vita dei detenuti e gli standard di igiene e sicurezza sanitaria” Così Samuele Ciambriello, Garante regionale delle persone prive della libertà personale, commenta l’iniziativa realizzata in poche ore di concerto con il Dipartimento regionale dell’amministrazione penitenziaria. “Con la sospensione dei colloqui e del supporto dei familiari - ha spiegato Ciambriello - c’è la necessità di lavare nelle carceri gli indumenti della popolazione reclusa e, purtroppo, non c’erano abbastanza lavatrici per farlo. Su richiesta del provveditore il dr. Antonio Fullone, ci siamo immediatamente attivati per risolvere il problema. È il segno che se le istituzioni sanno dialogare si trova modo per rispondere alle piccole e grandi emergenze. In un clima come questo, di grande preoccupazione per la salute pubblica, dobbiamo saper dire a tutti i cittadini che ognuno deve fare la sua piccola parte per rendere più ricchi di speranza questi giorni difficili. Da parte nostra, ce la stiamo mettendo tutta perché tutti coloro che operano e vivono negli istituti penitenziari (agenti, personale civile, detenuti) sentano vicine e presenti le istituzioni”. Milano. Polizia penitenziaria, seconda vittima: infettato durante un piantonamento di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 27 marzo 2020 Lavorava nel carcere di Opera. C’è un secondo morto per virus Covid-19 tra il personale della Polizia Penitenziaria: era un assistente capo, veniva dalla provincia di Foggia, lascia moglie e figli, nel 2014 aveva ricevuto una medaglia di bronzo al Merito di servizio, ed è morto ieri all’ospedale milanese Humanitas, dove era stato ricoverato da alcuni giorni. Lavorava nella Casa di reclusione milanese di Opera, ma di fatto era in servizio al Nucleo Traduzioni dei detenuti, e nell’ambito di questo compito aveva piantonato all’ospedale Niguarda un detenuto, il quale aveva probabilmente contratto l’infezione proprio durante il ricovero da otto mesi. Il 9 marzo, ai primi sintomi della malattia, l’agente era stato posto in isolamento precauzionale in caserma, e il giorno successivo il tampone aveva dato esito positivo. L’altro ieri in parlamento il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha indicato (su 58.200 reclusi in 50.000 posti teorici) i detenuti positivi in 15, e in 248 le persone in isolamento sanitario precauzionale per quarantena, aggiungendo che in Italia con il suo recente decreto legge sono usciti in detenzione domiciliare appena 5o detenuti con meno di 18 mesi da scontare, e 150 semiliberi in licenza. Voghera (Pv). Coronavirus, cinque contagiati fra i detenuti di Sandro Barberis La Provincia Pavese, 27 marzo 2020 Aumentano i contagi nelle carceri della provincia di Pavia: sono già undici i positivi accertati. Cinque malati Covid nel penitenziario di Voghera, sei in quello di Pavia. È allarme tra gli agenti di polizia penitenziaria che sono preoccupati sia per la loro salute, ma anche per le accuse di violenza e cattiva gestione che gli sono state rivolte da alcuni detenuti di Voghera tra cui l’ex boss della Mala del Brenta Felice Maniero. “Le proteste dei detenuti in alcuni casi sono giuste perché temono il contagio, ma in altre sono strumentali: e comunque non ci sono stati casi di violenza” spiegano dal coordinamento regionale del sindacato di Polizia penitenziaria. A Vigevano ci sono 385 detenuti (capacità 242), a Voghera 451 (capacità 341) e a Pavia 723 (capacità 518). “Non ci sono riscontri di violenze e dell’uso di mezzi di coercizione fisica nel carcere di Voghera - spiegano dal coordinamento regionale dei sindacati della polizia penitenziaria. C’è una protesta diffusa da parte di alcuni detenuti di una sezione che hanno tentato di ribellarsi utilizzando come leva le giuste preoccupazioni per il timore di contagio. Una protesta strumentale da parte solo di alcuni detenuti che volevano violare le regole, il personale è intervenuto senza violenza per riportarli nelle camere. Questo in un quadro di turni massacranti, riposi saltati e preoccupazione da parte degli agenti che da settimane lavorano in condizioni difficili per via dell’emergenza”. Una situazione a rischio, non solo a Voghera, che ieri ha portato i sindacati a chiedere di nuovo interventi per le tre prigioni pavesi ai vertici nazionali e regionali dell’amministrazione carceraria. “Non si può ancora sottovalutare l’enorme rischio di contagio all’interno degli istituti - spiega il coordinatore regionale, il vigevanese Michele De Nunzio. Le notizie di positività ai test di alcuni detenuti sono ormai note e alcune direzioni stanno organizzando sezioni ad hoc per i “positivi”, nonché zone di isolamento sanitario. Tutto questo, però, senza un benché minimo standard di sicurezza per il personale di polizia che, in alcuni casi, viene addirittura “inviato al fronte senza armi”, ovvero all’interno di questi reparti senza guanti, mascherine e occhiali”. Per questo i sindacati della polizia penitenziaria chiedono, ancora, tamponi a tappetto in tutti gli istituti. Circa 2mila persone tra detenuti, agenti e civili. “I focolai di Covid hanno appiccato una catena di contagio che verrà fermata solo attraverso scelte serie, urgenti e ragionate - chiude De Nunzio -. L’interesse di tutti è quello di fermare una diffusione incontrollata del virus, serve un tampone ogni dieci giorni”. Ieri il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha promesso “8mila mascherine al giorno per le carceri italiane”. Verona. L’appello dei penalisti: “Tempo scaduto, pene alternative ai detenuti” di Laura Tedesco Corriere di Verona, 27 marzo 2020 Carcere al tempo del coronavirus: “Tempo scaduto, è giunta l’ora delle decisioni”. A dirlo sono gli avvocati penalisti veronesi che hanno posto le loro istanze nero su bianco scrivendo al presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia, ai magistrati di Sorveglianza di Verona, al comandante della polizia penitenziaria della Casa circondariale di Verona: “Noi avvocati in questi giorni abbiamo sentito le voci di decine e decine di detenuti che oggi si sentono ancora più reclusi perché senza alcun contatto con l’esterno, senza colloqui con i propri famigliari, senza permessi, senza attività lavorativa, senza scuola e senza incontri con gli insegnanti, con i volontari e che possono contattare solo telefonicamente i propri difensori. Voci piene di speranza tuttavia e che - si legge nel documento della Camera penale scaligera - incoraggiavano noi avvocati a presentare istanze perché i magistrati avevano promesso loro una risposta rapida alle loro richieste. Noi avvocati abbiamo gli anticorpi necessari per comprendere che ogni fascicolo è diverso e non vogliamo in alcun modo dare l’impressione di cavalcare l’onda emergenziale per ottenere facili risultati. Tuttavia, oggi - rimarcano i penalisti veronesi - dopo esserci confrontati con la Direzione del carcere, con l’Area sanitaria ed il Garante, siamo preoccupati per il numero davvero limitato di riconoscimenti di misure alternative per persone che pure dispongono di un idoneo alloggio, di un lavoro stabile, di un programma terapeutico esterno o di condizioni di salute talmente precarie che vista la pandemia in atto potrebbero per taluno risultare fatali. Per i medici in carcere le possibilità di contatto o di contagio con personale sanitario e/o personale di polizia potenzialmente infetto nella forma asintomatica o sintomatica lieve o di incubazione è più alta della possibilità di contagio in quarantena nella propria abitazione con i soli familiari più stretti e che una eventuale epidemia interna avrebbe effetti disastrosi sulla salute della popolazione detenuta, della polizia penitenziaria, del personale civile”. Per questo, conclude la Camera penale, “il tempo è scaduto perché la pandemia in atto non ammette ritardi né ripensamenti: è l’ora delle decisioni coraggiose”. Bologna. Carcere e coronavirus, la situazione del carcere Dozza di Francesco Errani francescoerrani.it, 27 marzo 2020 Durante le tensioni scoppiate anche all’interno del carcere della Dozza a Bologna, in seguito alle restrizioni imposte dalle misure anti-coronavirus che hanno limitato i colloqui con i familiari, alcuni detenuti hanno sottratto le medicine dall’infermeria e un detenuto della Casa Circondariale di Bologna è morto per un’overdose da psicofarmaci. Le rivolte nelle carceri sono episodi molto gravi e la violenza, oltre a essere sempre sbagliata, è anche controproducente. Oltre ai danni economici, dobbiamo purtroppo “contare” anche i danni umani, creati da una gestione superficiale della situazione carceraria, che ha messo in difficoltà tutto il personale che opera già in condizioni difficili all’interno delle carceri. Penso naturalmente al personale della polizia penitenziaria e agli educatori. Nelle carceri italiane, oltre alle carenze strutturali degli edifici, è allarmante anche la carenza di personale della polizia penitenziaria e di educatori: nel carcere Dozza di Bologna sono solo 6 gli educatori per 891 detenuti. Il decreto “Cura Italia” punta a facilitare la detenzione domiciliare per le persone che sono a fine pena, per rispondere così sia alla crisi legata al sovraffollamento che all’epidemia Coronavirus. In Italia ci sono più di 8.000 detenuti che devono scontare da 1 giorno a 12 mesi e altrettanti da 1 a 2 anni come pena residua. Parliamo di circa 16.000 perone. Il quotidiano “La Repubblica” scrive di quattro contagi all’interno del carcere Dozza di Bologna. Bisogna prevenire l’epidemia, non cercare rimedio dopo. Bisogna ricorrere alle misure alternative e aumentare la detenzione domiciliare, tenendo presente che 16mila detenuti hanno una pena residua inferiore ai due anni. Gentile Presidente, nelle carceri, gli interventi proposti dal Ministro Bonafede temo siano insufficienti. Non è previsto ad esempio il distanziamento sociale, impossibile da applicare nei casi di sovraffollamento, mentre sappiamo essere un comportamento richiamato come indispensabile dalla Comunità scientifica mondiale per evitare i contagi: la distanza minima di un metro dentro alle celle non viene infatti rispettata. Il decreto è anche inadeguato perché non serve a ripristinare l’ordine e la sicurezza sanitaria dentro le carceri, ormai vicine al collasso. L’introduzione del braccialetto elettronico per la detenzione domiciliare per chi ha una pena inferiore ai 18 mesi da scontare è sbagliato, perché rallenta il sistema e lo appesantisce di nuove procedure. Inoltre, non inciderà sufficientemente sul problema del sovraffollamento, perché, con tutte le limitazioni imposte, non sono così numerosi coloro a cui resta da scontare meno di 18 mesi. Bisogna intervenire prima che l’epidemia entri dentro agli istituti di pena, causando problemi sanitari e di sicurezza sociale enormi per il Paese, aumentando la pressione per il nostro sistema sanitario nazionale. In uno Stato democratico, vista l’emergenza del Coronavirus, l’amnistia e l’indulto sarebbero provvedimenti necessari. I tribunali sono congestionati da milioni di processi pendenti e la popolazione carceraria è oltre il limite di legge. In alcune carceri italiane, il sovraffollamento ha picchi del 200%: alla Dozza la capienza massima di 500 persone è ampiamente superata dalla presenza di 890 detenuti. Oggi in una lettera su Repubblica, la moglie di un detenuto denuncia come “i detenuti non siano considerati da nessuno, dimenticati da tutti e da tutto”. Gentile Presidente, se non vogliamo che il carcere sia un processo di esclusione sociale, di disumanizzazione, scontare una pena deve poter essere un percorso che ristabilisce giustizia, non che aggiunge ingiustizia, e dobbiamo garantire condizioni di lavoro e di vita dignitose sia per chi lavora (polizia penitenziaria e educatori) che per gli uomini e le donne detenuti. Enna. Coronavirus: un agente ricoverato, altri 10 con sintomi rainews.it, 27 marzo 2020 Un agente penitenziario in servizio al carcere “Bodenza” di Enna è risultato positivo al test del coronavirus. L’uomo, che aveva accusato febbre e difficoltà respiratorie è già stato ricoverato ma altri 10 agenti in sevizio nello stesso penitenziario, accusano sintomi febbrili e respiratori. A comunicarlo è stato il segretario nazionale dell’Unione sindacati Polizia Penitenziaria, Francesco D’Antoni, secondo il quale la direzione della casa circondariale non sarebbe intervenuta per garantire che venissero “eseguiti accertamenti diagnostici utili ad evitare che gli stessi potessero contagiare quanti operano nel penitenziario”. D’Antoni chiede che siano eseguiti test “veloci” su tutto il personale in servizio ad Enna e che venga garantita la fornitura dei dispositivi di protezione individuale, oltre alla costante e programmata sanificazione degli ambienti di lavoro. Napoli. Niente libertà per due detenuti: “Se vanno a casa rischiano il contagio” di Viviana Lanza Il Riformista, 27 marzo 2020 Ci sono due passaggi cruciali nella decisione con cui un giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Trani ha respinto l’istanza di scarcerazione nei confronti di due napoletani, attualmente detenuti nel carcere di Poggioreale e in attesa del processo, con rito abbreviato e slittato a ottobre, in cui sono accusati di armi e violenza privata per aver esploso colpi di pistola verso la finestra di casa di un abitante di Trani. È uno dei due passaggi del provvedimento del gip sta facendo molto discutere gli avvocati napoletani. È quello in cui il giudice scrive che la misura cautelare in carcere non va modificata non solo in base a una valutazione sulla pericolosità sociale degli indagati (e fin qui nulla di straordinario) ma considerando “che lo stato di restrizione in un ambiente difficilmente permeabile dall’esterno (quale è il carcere, ndr), rispetto a quello sicuramente più rischioso del domicilio dove risiedono soggetti non ristretti e, quindi, liberi di avere contatti, sia pur limitati con contesti potenzialmente infetti, salvo mutamenti della situazione che eventualmente verranno valutati in seguito, meglio garantisce la salute del pervenuto”. Come a dire che la salute dell’indagato è più tutelata in carcere che fuori. E tra gli avvocati è subito polemica. “Non è possibile pensare di valutare la salute di un detenuto immaginando che il carcere sia più sicuro di altri luoghi rispetto al rischio di contagio da coronavirus” è stato il commento. “Anche in carcere ci si può ammalare di Covid-19, e anche il carcere può essere veicolo di contagio perché frequentato da persone che arrivano dall’esterno, come ad esempio gli agenti della penitenziaria, gli educatori e così via”. La decisione sembra destinata ad aprire un’ampia discussione negli ambienti giudiziari. Intanto i difensori dei due indagati, gli avvocati Leopoldo Perone e Antonio Rizzo, hanno dichiarato: “Questa è la manifestazione, con agghiacciante evidenza, della distanza siderale che corre tra i principi virtuosi, declinati dai rappresentanti della magistratura associata nei roboanti proclami offerti alla stampa (vedasi Md e Mi per tutti) e le determinazioni assunte nella ponderosa penombra della camera di consiglio dei singoli rappresentanti dell’ordine magistraturale. Non ci resta - hanno concluso - che augurare a noi e ai nostri cari l’intervento salvifico di una generalizzata riduzione in vinculis della popolazione attiva”. Reggio Emilia. “Vengano fatti i tamponi agli operatori delle carceri” Gazzetta di Reggio, 27 marzo 2020 È la richiesta dei sindacati per evitare l’ulteriore diffusione del Coronavirus Denunciata anche la situazione di sovraffollamento. “Non vogliamo medaglie, vogliamo poter lavorare in sicurezza”. È il grido dei lavoratori degli istituti penitenziari, che già nei mesi scorsi avevano indetto una manifestazione, sia a Reggio Emilia sia davanti al Provveditorato di Bologna, per denunciare “l’insostenibile situazione di vita e di lavoro negli istituti penitenziari di Reggio Emilia”. Manifestazione che voleva mettere in luce tutti i problemi che continuano a riguardare le carceri, ma che è stata sospesa a causa dei provvedimenti legati all’emergenza Covid-19. Uil Pa, Sinappe, Cnpp, Uspp, Fns Cisl e Fp Cgil si erano mobilitati per denunciare la situazione di sovraffollamento, inadeguatezza della struttura, concentrazione di detenuti pericolosi e psichiatrici, carenze degli organici e mancanza di figure legate alla gestione del sistema penitenziario, a partire dai magistrati di sorveglianza, direttori, educatori, assistenti sociali dell’esecuzione penale esterna, polizia penitenziaria. L’obiettivo era porre l’attenzione su “un sistema al collasso, che ha dimostrato tutte le sue debolezze con i gravissimi disordini di due settimane fa anche a Reggio Emilia”. Pur nella consapevolezza delle difficoltà che attraversa anche il nostro territorio a causa dell’emergenza Covid-19, i sindacati denunciano che “le misure prese fino ad oggi sono insufficienti”. Non solo. Proprio durante questa emergenza è evidente come non siano state prese misure per evitare la diffusione del virus. “È indispensabile quanto prima, per evitare il potenziale diffondersi del Coronavirus in carcere, che tutti gli operatori costretti a recarsi al lavoro siano sottoposti a tampone”, la richiesta dei sindacalisti. Solo così, dicono, “potremo evitare il peggio, salvaguardare l’incolumità degli operatori, delle loro famiglie e di tutta la comunità carceraria, ed evitare, in questo modo, possibili incrementi della diffusione del virus, di allarmismi e di ulteriori disordini tra la popolazione detenuta”. Concludono i sindacalisti: “Siamo ancora in tempo per limitare i danni con una migliore organizzazione e provvedimenti come quello auspicato per evitare il peggio. Le medaglie si danno agli eroi. Noi vogliamo solo essere annoverati tra i servitori dello Stato che fanno il loro dovere - sottolineano - e, allo stesso tempo, chiedono riconoscimento della dignità per un lavoro fondamentale, per la tenuta dello Stato, in rispetto della Costituzione e delle leggi Italiane”. Ancona. Il coronavirus ferma anche il Tribunale di Sorveglianza di Stefano Pagliarini anconatoday.it, 27 marzo 2020 L’avvocato Francesca Petruzzo, segretario della Camera Penale di Ancona, ha già segnalato la questione. Tra Ufficio e Tribunale di Sorveglianza di Ancona sono presenti due addetti al giorno e tutte le richieste degli avvocati per i loro assistiti, sono ferme. Sono ferme perché quelle richieste, come ad esempio le misure alternative di detenzione, dovrebbero essere elaborate da impiegati, che però sono stati costretti ad andare in malattia o prendere le ferie dall’inizio del mese. Dunque i diritti dei detenuti del carcere di Barcaglione di Ancona sono sospesi perché nessuno, all’interno di un palazzo istituzionale, scarica le mail dei legali, di chi invoca il diritto ad una misura di pena alternativa. Lo invocano soprattutto oggi, quando il Coronavirus rischia di essere una bomba all’interno degli istituti penitenziari ed è proprio per la quarantena forzata che gli uffici di Sorveglianza sono svuotati. Infatti le leggi anti Coronavirus servono a prevenire il diffondersi della pandemia ma, quanto meno ad Ancona, a prezzo dei diritti civili dei detenuti. Tutto questo in carceri già sovraffollate e dove, anche alla luce delle rivolte esplose nelle scorse settimane in varie zone d’Italia, la Polizia penitenziaria fa fatica a garantire il diritto alla salute dei detenuti. Petruzzo Francesca avvocato-2Per questo l’avvocato Francesca Petruzzo, segretario della Camera Penale di Ancona, ha già segnalato la questione all’avvocato Simone Mancini, responsabile dell’Osservatorio delle Carceri dell’Unione camere penali italiane e l’avvocato Andrea Nobili, garante dei detenuti delle Marche. In quelle Pec mai scaricate ci sono richieste legittime, per detenuti che avevano raggiunto i limiti di legge prescritti, per chi aveva già in atto una istruttoria per misure alternative e per chi, oltre tutto, si trova in condizioni precarie di salute anche per età anagrafica. Tutto fermo. Non perché illegittime o pretestuose, ma perché la giustizia si è dovuta fermare per motivi di salute. La salute che, come si dice, viene prima di tutto. Oggi anche prima dei diritti civili, in attesa che qualche addetto del Tribunale di Sorveglianza torni dalle ferie e accenda un computer. Insomma l’attività di cancelleria è rimessa alla buona volontà di chi è già al lavoro e svolge una attività che non rientrerebbe tra le sue funzioni. Si parla di 1, massimo 2 esigenze al giorno. Difficile sapere come e quando si potrà sbloccare la situazione, ma di sicuro, di tutte le richieste inviate dagli avvocati fin dall’inizio dell’emergenza Covid, l’Ufficio di Sorveglianza dorico non ha dato, ad oggi, nessun riscontro. “Si chiede un intervento quanto mai celere per cercare di aiutare i colleghi anconetani a risolvere la situazione” ha detto l’avvocato del foro di Ancona Francesca Petruzzo, che poi spiega: “Io chiedo che si applichi la legge. Per cui chi ha diritto, deve essere mandato a casa o in semilibertà con licenza. Chi non ha maturato il limite di pena per la detenzione domiciliare e ha diritto ad altre misure alternative può andare a casa in affidamento provvisorio o in detenzione domiciliare provvisoria. Se il virus si diffonde in carcere il sistema sanitario penitenziario non è in grado di reggere il colpo. Inoltre a causa delle rivolte a Barcaglione sono arrivati altri 20 detenuti da Bologna quindi è praticamente impossibile per i detenuti mantenere la distanza di un metro e mezzo”. Napoli. I detenuti di Poggioreale pronti a donare il sangue di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 marzo 2020 Hanno fatto alcune richieste per risolvere delle problematiche, ma nello stesso tempo hanno capito l’importanza del divieto dei colloqui visivi per evitare il contagio e hanno anche stigmatizzato la rivolta scorsa inscenata da alcuni di loro. Parliamo dei ristretti del carcere napoletano di Poggioreale. Mercoledì scorso il garante locale delle persone private della libertà Pietro Ioia, si è recato, accompagnato dalla sua collaboratrice Sarah Meraviglia, presso la casa circondariale “G. Salvia” di Napoli Poggioreale per incontrare il direttore dell’Istituto, Carlo Berdini, nonché i delegati dei detenuti per monitorare l’impatto e le ripercussioni dello stato d’emergenza sulle condizioni di vita e di salute dei detenuti. Durante le sette ore di colloqui, le delegazioni rappresentanti ciascuno degli undici reparti dell’istituto hanno portato all’attenzione del Garante le preoccupazioni della popolazione ristretta per l’emergenza sanitaria che tutti stanno vivendo in queste ore. A tal proposito numerosissimi detenuti hanno richiesto a gran voce la possibilità di donare il proprio sangue, effettuare donazioni in danaro o contribuire alla fabbricazione di mascherine sanitarie. Inoltre hanno mostrato consapevolezza sulla necessità delle misure governative anti- contagio in seguito alle quali sono stati sospesi i colloqui con i familiari fino a data da destinarsi. Gli stessi hanno inoltre condannato l’uso improprio della forza da parte di quei detenuti che lo scorso 8 marzo hanno provocato tramite azioni violente danni da oltre un milione di euro. Ai detenuti è stata data la possibilità di continuare ad avere contatti con i propri cari attraverso due videochiamate a settimana della durata di 10- 15 minuti. Tra le principali problematiche di cui si farà carico il Garante figura la questione relativa alla gestione della procedura che assicura il recapito ai familiari dei pacchi dei detenuti in uscita dall’istituto. Secondo quanto riportato da Ioia, il nuovo direttore Carlo Berdini si è dimostrato determinato nell’ascoltare le istanze e le preoccupazioni dei detenuti. Oltre a mettere in atto una serie di misure di prima necessità quali la fornitura di detergenti disinfettanti per l’igiene all’interno delle celle nonché l’acquisto di mascherine e di guanti per il personale della polizia penitenziaria (potenziale vettore per il contagio avendo contatti costanti con l’esterno), la direzione ha reso possibile l’installazione di uno scanner termico all’ingresso dell’istituto, a tutela dei detenuti e di tutto il personale. Il Garante intende altresì rassicurare i familiari dei detenuti circa l’espletamento all’interno della struttura dei protocolli Asl di contenimento del contagio (come il triage per i nuovi giunti) nonché la predisposizione di un reparto intero attualmente non ospitante detenuti in vista di eventuali futuri casi di sospetto Coronavirus. Il Garante si unisce alla popolazione detenuta tutta nel rivolgere un appello alla Magistratura di Sorveglianza affinché vengano velocizzate le procedure per la concessione di misure alternative al fine di ridurre le presenze. Pozzuoli (Na). Le Lazzarelle: un caffè per provare a tornare alla normalità di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 27 marzo 2020 Le donne che da 10 anni gestiscono la torrefazione impiantata nella casa circondariale femminile di Pozzuoli, le Lazzarelle, si sono prese “una pausa per capire cosa stesse accadendo” tutto intorno a loro, nel mondo fuori e dentro. Nel tempo sconosciuto che il Coronavirus ha reso inizialmente incomprensibile per donne e uomini, che ha costellato di ostacoli il percorso di ciascuno, che ha sparigliato le carte e le ha distribuite alla cieca. Come hanno detto molto bene loro: “Come tutti i cambiamenti c’è voluto un tempo di adattamento e abbiamo preferito il silenzio in queste settimane per riflettere su cosa fare”. Le Lazzarelle si descrivono “donne libere, abbiamo scelto di impegnarci attivamente in una impresa tutta femminile che valorizzi i saperi artigianali e generi inclusione sociale”. Ora sono ritornate in campo e hanno ripreso in mano quel ‘miracolo’ che dieci anni fa crearono, avviando una iniziativa imprenditoriale nel carcere di Pozzuoli, grazie al progetto Chicco Solidale finanziato dall’Assessorato alla Politiche sociali della Regione Campania, riuscendo a impiegare dieci detenute nella gestione della torrefazione. Le lavoratrici, 56 quelle che si sono avvicendate nella produzione in questi 10 anni, sono state formate come esperte in tecniche di torrefazione e tostatura; si sono occupate fin dall’inizio - nel 2010 - della gestione dei magazzini, della pulizia, della cura e della manutenzione di macchine e locali, con il supporto delle associazioni Il Pioppo e Giancarlo Siani, insieme alla cooperativa partner del progetto Officine.ecs. La produzione, la tostatura e il confezionamento di chicchi di ottima qualità provenienti da Brasile, Costa Rica, Colombia, Guatemala, India e Uganda, hanno richiesto un serio e costante impegno lavorativo per poter mettere in commercio, nei circuiti tradizionali e in quelli dell’economia equa e solidale, confezioni di caffè con il nome di Lazzarelle. Ora si riparte, come hanno spiegato: “Da lunedì saremo nuovamente operative anche con le nostre spedizioni e siamo riuscite ad avere un accordo con i nostri corrieri: per tutto il periodo di questa emergenza, le nostre spedizioni avranno un prezzo unico, quali che siano le quantità, di 4,90 euro”. Hanno sanificato la torrefazione, indossato camici, guanti e mascherine e riavviato la produzione, per i clienti certo, ma “anche per dare una prospettiva economica alle nostre Lazzarelle e sostenerle. Perché se la situazione che viviamo fuori è dura, in carcere lo è ancora di più”. Potenza. Anche dietro le sbarre c’è tanta solidarietà ufficiostampabasilicata.it, 27 marzo 2020 I detenuti della Casa circondariale hanno organizzato una raccolta di fondi a sostegno della Protezione Civile. Dalla Casa Circondariale di Potenza parte una raccolta Fondi per la Protezione Civile Italiana promossa dai detenuti. Una notizia che colpisce, che fa riflettere; che supera luoghi comuni, pregiudizi. Che fa guardare al di là di quelle sbarre dove c’è anche tanta solidarietà. Nella lettera con la quale i detenuti hanno comunicato la loro lodevole iniziativa una frase colpisce fra tutte: ““Ognuno di noi - scrivono - è chiamato a fare la propria parte, secondo le proprie possibilità, perché i detenuti fanno parte della società civile come affermato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e noi con questo piccolo contributo vorremmo far sentire proprio alla società civile la nostra appartenenza”. E della società civile, della quale sentono di far parte, esprimono “la piena solidarietà a tutti coloro che in questo momento difficile per il nostro paese stanno mettendo in gioco se stessi più di quanto il senso civico richiede e a quanti hanno perso la vita per questa epidemia. Vorremmo fare un plauso - scrivono ancora - in primis ai medici, agli operatori della Protezione Civile e a tutti i volontari che quotidianamente si battono in prima linea contro questo virus, mettendo consapevolmente a rischio le proprie vite, sacrificando gli affetti familiari con turni massacranti spesso in strutture carenti sul piano della sicurezza personale, in più di un’occasione sprovvisti dei più elementari materiali di protezione, mostrando un altissimo senso del dovere”. Nella lettera i detenuti menzionano anche “tutti coloro che ogni giorno lavorano per garantire i servizi essenziali. In uno scenario apocalittico - concludono - nessuno può rimanere indifferente. Ognuno è chiamato a fare la propria parte. Anche la popolazione detenuta di questo istituto”. Non aggiungiamo altro. Trapani. I reclusi del “Pietro Cerulli” donano soldi per la terapia intensiva di Fabio Pace telesudweb.it, 27 marzo 2020 I detenuti della casa circondariale “Pietro Cerulli” di Trapani hanno raccolto una somma da donare in beneficenza per l’acquisto di materiale sanitario da destinare al reparto di terapia intensiva dell’ospedale Sant’Antonio Abate di Trapani. I reclusi sono riusciti a raccogliere quasi 1500 euro. La somma sarà consegnata nei prossimi giorni dal comandante della Polizia Penitenziaria, Giuseppe Romano, al direttore generale dell’ASP, Fabio Damiani. Non appaia, quella di 1.500 euro, una piccola somma: è il frutto di sacrifici personali. Per chi è recluso ogni euro è fondamentale per i piccoli acquisti consentiti: sigarette e sopravvitto, in prima battuta. Vogliamo leggere questa raccolta di denaro da destinare al reparto di terapia intensiva come un segnale, un messaggio che possa far comprendere al mondo di fuori, a noi, come la preoccupazione per il coronavirus sia vissuta allo stesso modo, e forse perfino in maniera amplificata, all’interno delle carceri. Questa preoccupazione, manifestata con i gesti eclatanti delle rivolte, non può certo giustificare gli atti di violenza, i danneggiamenti, l’atteggiamento di sfida verso la polizia penitenziaria e le forze dell’ordine in generale. Bisogna tuttavia ammettere che proprio la protesta ha acceso una attenzione generale sulle carceri italiane che è approdata fino al Parlamento dove ieri s’è svolto il question time nel corso del quale, attraverso interpellanze e interrogazioni, diversi esponenti, di maggioranza e opposizione sono arrivati a chiedere le dimissioni e la rimozione del capo del Dap, il dipartimento della amministrazione penitenziaria. Infine va sottolineato come ancora in corso sia il dibattito, tra giuristi, avvocati penalisti, magistrati e garante dei detenuti, sulla opportunità, a fronte dell’affollamento delle carceri, di ridurre la popolazione carceraria applicando misure restrittive alternative, almeno per le pene comminate per i reati meno gravi e per quelle in scadenza. Vercelli. Tavolo Carcere: raccolti più di 1.000 euro per le spese dei detenuti centroterritorialevolontariato.org, 27 marzo 2020 Consegnati anche generi alimentari di prima necessità e prodotti per l’Igiene. L’isolamento a cui siamo tutti tenuti in questi giorni per contenere la diffusione del coronavirus, l’incertezza della situazione e il rincorrersi di notizie preoccupanti tocca in particolare le persone più fragili: tra queste i detenuti e le detenute. Abbiamo visto tutti quello che è successo a livello nazionale. Per garantire la salute di tutti le Case Circondariali hanno sospeso i colloqui con i famigliari e questa misura in alcuni casi ha generato delle tensioni. Senza giustificare in nessun modo i fatti che si sono verificati in alcune carceri, conoscendo però un po’ questo mondo complesso, è importante provare a immaginare che cosa voglia dire tagliare quel sottile filo che lega chi è in carcere con il mondo esterno (si prova paura, non si comprende la situazione, si hanno preoccupazioni per sé e per i propri cari). Per ovviare a questo, in sostituzione dei colloqui, il Carcere di Vercelli ha subito aumentato la possibilità di telefonare a casa, ma non tutti i detenuti e le detenute sono in grado di pagare le telefonate. Il Tavolo Carcere insieme a Sant’Egidio si è quindi attivato con una raccolta fondi, arrivando a 1050 euro che sono ora a disposizione dei detenuti in condizioni economiche più difficili. Il Tavolo Carcere è nato circa due anni fa su un preesistente gruppo di Caritas ed è facilitato da Ctv, riunisce associazioni e volontari che operano in carcere. Il rischio contagio nelle Rsa e il controllo del Garante di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 marzo 2020 La vigilanza in residenze per anziani e hotspot è tra i compiti dell’autorità. C’è forte preoccupazione all’interno di alcune Residenze Sanitarie assistite (Rsa) per gli anziani dove il contagio aumenta a dismisura. Basti pensare al tragico bilancio della Rsa don Mori di Stagno Lombardo, nel cremonese, dove sono morti, nel giro di un mese, 21 anziani su 70 ospiti. Per questo motivo, il sindaco Roberto Mariani ha scritto all’Asst di Cremona chiedendo tamponi per personale e ospiti. Non si sa se i decessi siano legati al Coronavirus ma il dato “ha messo in allarme tutti. Per questo motivo - ha spiegato - ho deciso di inoltrare la richiesta”. Anche il consigliere regionale del Pd Matteo Piloni ha chiesto non solo di autorizzare i tamponi per il personale delle Rsa, ma anche di “utilizzare le strutture ospedaliere dismesse per accogliere i pazienti” dimessi per Coronavirus. Una situazione difficile per gli operatori sanitari, oramai allo stremo. A Trento, ad esempio, si stanno estendendo diversi focolai e le assenze di operatori socio-sanitari per malattia o positività ai tamponi arrivano in alcune strutture anche al 50%. Da qui la richiesta alla Provincia dell’Ordine delle professioni infermieristiche, di dispositivi di protezione e dotazioni infermieristiche sicure. Il personale è costretto a turni prolungati con carichi assistenziali ed emotivi elevatissimi. “Siamo professionisti - ha spiegato in una nota il presidente dell’ordine Daniel Pedrotti -, stiamo dando il massimo e di più e continueremo a farlo, ma pretendiamo di lavorare in sicurezza”. Di tutto questa situazione se ne sta occupando, ovviamente, il Garante nazionale delle persone private della libertà, perché rientra tra i suoi compiti. Si tratta di una figura di garanzia che copre le diverse aree di intervento: tutte connotate dalla privazione della libertà. Quindi non solo i detenuti. Difficile non considerare privative della libertà strutture come gli hotspot, dove le persone sono ristrette per fini identificativi. Così come è difficile non vedere la privazione della libertà di una persona anziana o disabile che, entrata un tempo volontariamente in una struttura di tipo residenziale, abbia poi perso la capacità legale e i propri riferimenti parentali o assistenziali e sia nel concreto affidata in tutto alla struttura stessa. Così come è di vitale importanza che il Garante si occupi anche della quarantena, altra limitazione della libertà per evidenti motivi emergenziali. Proprio in momenti come questi una figura di garanzia deve vigilare sui diritti essenziali dell’uomo privato della libertà. Non è un caso che qualche giorno fa - fa sapere i Garante Mauro Palma nel bollettino - l’associazione per la prevenzione della tortura di Ginevra ha svolto una riunione in video-conferenza con 29 partecipanti, la maggior parte rappresentanti di Meccanismi nazionali di prevenzione (Npm) europei, avente come oggetto l’impatto delle misure prese per contenere il virus (a livello regionale o nazionale) e le sfide che la situazione pone per le attività di monitoraggio. Ma ritorniamo alla questione delle Rsa. L’autorità del Garante fa sapere che, secondo la sua banca dati realizzata per la geolocalizzazione delle strutture sul territorio italiano, le Rsa sono 4.629, di cui 2.651 al Nord, 668 al Centro, 493 al Sud e 817 nelle Isole. Solo in Lombardia, la regione più colpita dalla pandemia, le Rsa sono 689. Seguono il Piemonte con 616 strutture, l’Emilia- Romagna con 565 e il Veneto con 324. Al centro Italia è la Toscana, con 315 strutture, ad avere il primo posto per numero di Rsa, mentre nel Sud la Puglia è la regione nella quale si registra la presenza più elevata. Inoltre, il Garante rileva che il rischio di diffusione del Covid-19 nelle strutture socioassistenziali e sanitarie residenziali, per minori e adulti è particolarmente elevato. Basti pensare che il totale di posti letto in queste strutture è pari a 340.593. Solo al Nord sono 226.516, al Centro 45.124, al Sud 36.562 e infine nelle Isole 32.391. Il Garante ha inviato un questionario finalizzato ad acquisire informazioni sulla gestione di eventuali casi di sospetto o conferma di positività al Covid- 19 e adottare strategie di rafforzamento dei programmi di prevenzione delle infezioni correlate all’assistenza. I Cpr sono una bomba a orologeria. Il Covid-19 tra le mura di Gradisca di Giansandro Merli Il Manifesto, 27 marzo 2020 Primo caso ufficiale di Covid-19 nella struttura detentiva per migranti di Gradisca d’Isonzo. A rischio tutte le altre. Si moltiplicano gli appelli al rilascio dei reclusi. Una misura di buon senso a protezione dei loro diritti e del sistema sanitario nazionale messo sotto pressione dalla pandemia. All’interno del Centro di permanenza per i rimpatri di Gradisca d’Isonzo un uomo è risultato positivo al Covid-19. Si tratta del primo caso ufficiale in una struttura detentiva per migranti. È stato confermato martedì scorso dal prefetto di Gorizia Massimo Marchesiello a Linda Tomasinsig (Partito democratico), sindaca del paese del Friuli Venezia-Giulia. “Il Prefetto mi ha informato che il detenuto è stato posto in isolamento fin dall’arrivo al Cpr e che sono stati messi in atto accorgimenti per evitare contatti con il personale”, scrive la prima cittadina. Nello stesso comunicato esprime forte preoccupazione per la mancanza di trasparenza intorno alla comunicazione dei casi presenti sul territorio gradiscano e sottolinea come “ancora una volta ciò che ruota attorno all’istituzione Cpr è mantenuto riservato e fuori dal controllo pubblico”. La persona affetta da Coronavirus è stata trasferita ieri in ospedale e il locale in cui era trattenuto sanificato. Era arrivata a Gradisca il 19 marzo scorso da Cremona, uno degli epicentri dell’epidemia. “In un momento di emergenza sanitaria come questo, disporre simili trasferimenti è una scelta discutibile e pericolosa”, afferma Giovanna Corbatto, Garante comunale delle persone private della libertà personale. Una scelta che ha messo a rischio anche gli agenti che hanno accompagnato il migrante in un viaggio in macchina durato diverse ore e il personale dell’ente gestore del Cpr. Dentro la struttura, intanto, i reclusi sono in sciopero della fame. Per la rete “No Cpr e no frontiere - Fvg”, in contatto con alcuni reclusi, circa 50 persone starebbero rifiutando il cibo da lunedì scorso. Hanno paura di contrarre il virus e denunciano la scarsa assistenza medica. Chiedono di essere liberati. Secondo il Prefetto, invece, la situazione è “sotto controllo” e la protesta, realizzata a rotazione, riguarderebbe le singole situazioni. “Il 18 marzo ho portato la spesa al mio compagno che è trattenuto nel Cpr di Ponte Galeria, alle porte di Roma - racconta Carla Livia Trevisan - Gli agenti mi hanno detto che se fossi tornata mi avrebbero denunciato per inottemperanza delle misure previste dal Dpcm. L’altro ieri ci sono andata di nuovo e ho ricevuto lo stesso avviso. Sono preoccupata: non indossavano guanti, né mascherina”. Nella struttura detentiva le persone vivono in 8 per stanza. Qui, come negli altri Cpr, è impossibile rispettare le distanze di sicurezza e le misure di prevenzione indicate dall’Organizzazione mondiale della sanità e dalle autorità mediche nazionali. Anche nel Cpr di Palazzo San Gervasio (provincia di Potenza) nei giorni scorsi le persone hanno rifiutato il cibo, chiedendo di essere liberati. “Non siamo protetti dal virus, non abbiamo mascherine né niente - raccontano al manifesto alcuni reclusi - C’è un ragazzo tunisino in isolamento a causa di un’ernia. Si dice che abbia anche la febbre alta”. I migranti sono molto preoccupati che agenti e operatori, che entrano ed escono dal Cpr, possano introdurre il virus nella struttura di reclusione. La stessa preoccupazione è condivisa su vari livelli. “Il pericolo di contagio proviene anche da soggetti asintomatici per cui le misure eventualmente adottabili non appaiono idonee a scongiurare il rischio di diffusione del virus nei centri”, ha scritto il 12 maggio scorso un cartello di associazioni in una lettera indirizzata al ministro dell’Interno, prefetti e questori. Con quel testo, che elenca le ragioni per cui l’ingresso del virus nei Cpr avrebbe “conseguenze drammatiche”, i numerosi firmatari hanno chiesto l’immediata sospensione di ogni nuovo ingresso delle strutture, la disposizione di misure alternative al trattenimento e la massima tempestività nella progressiva chiusura dei centri. Analoghe richieste sono giunte ieri dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa Dunja Mijatovi?. “Il rilascio dei migranti detenuti è l’unica misura che gli Stati membri possono adottare durante la pandemia da Covid-19 per proteggere i diritti delle persone private della libertà e più in generale quelli di richiedenti asilo e migranti”, recita l’appello rivolto a tutti i paesi facenti parte dell’organizzazione internazionale. Il Commissario dà notizia di avvenuti rilasci in Belgio, Olanda, Regno Unito e Spagna. Nel paese iberico tre centri di detenzione sono stati chiusi in virtù dell’emergenza. Al 24 marzo scorso erano 381 le persone recluse nei Cpr italiani. Tra loro 33 donne. Lo ha reso noto con una nota il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma. Rispetto alle due settimane precedente la figura di garanzia ha registrato una diminuzione di 44 unità. Nella stessa nota, il Garante ha sollevato un problema dirimente rispetto alla detenzione amministrativa delle persone migranti nell’attuale congiuntura pandemica. “La questione riguarda la sensatezza della privazione della libertà in funzione del rimpatrio di persone che al momento non possono essere rimpatriate, data la chiusura dei confini e l’inesistenza di collegamenti aerei o navali con la gran maggioranza degli Stati”, scrive il Garante, che ha sollevato il tema al ministero dell’Interno ed è in attesa della relativa risposta. Le modalità di diffusione del Covid-19 e i suoi effetti sul sistema sanitario dovrebbero spingere a interpretare la detenzione amministrativa dei migranti in forma radicalmente differente rispetto al passato. Non solo inutile da un punto di vista funzionale, dal momento che i rimpatri sono fermi, ma anche come un vero e proprio pericolo per la società nella sua interezza. Con gli ospedali in forte difficoltà, e in alcuni casi vicini al collasso, la diffusione del virus negli affollati Cpr costituirebbe un aggravio per il sistema sanitario nazionale e quindi un rischio per tutta la popolazione, italiana e migrante. Questo dato di fatto dovrebbe essere sufficiente a produrre l’immediato rilascio di tutte le persone recluse, al pari di quanto sta già accadendo in altri paesi europei. Mijatovi? (Ue) chiede il rilascio degli immigrati detenuti durante la crisi del Covid-19 coe.int, 27 marzo 2020 Dichiarazione della Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovi?: “Chiedo a tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa di rivedere la situazione dei richiedenti asilo respinti e dei migranti irregolari in centri di detenzione per immigrati e di procedere al loro rilascio nella massima misura possibile. Di fronte alla pandemia globale di Covid-19, numerosi Stati membri hanno dovuto sospendere i rimpatri forzati di persone non più autorizzate a rimanere nei loro territori, compresi i cosiddetti rimpatri di Dublino, e non è chiaro quando potranno essere ripresi. Secondo la normativa in materia di diritti umani, la detenzione per immigrazione a fini di rimpatrio può essere legittima solo qualora il rimpatrio possa effettivamente avere luogo. Al momento, è evidente che in molti casi questa non è una prospettiva concreta. Inoltre, generalmente le strutture di detenzione per immigrati offrono ai migranti e al personale scarse possibilità di mantenere il distanziamento sociale e attuare altre misure di protezione contro l’infezione da Covid-19. Rilasci sono stati registrati in numerosi Stati membri, tra cui Belgio, Spagna, Paesi Bassi e Regno Unito. Quest’ultimo ha appena annunciato una revisione della situazione di tutti i migranti nei centri di detenzione per immigrati. Ora è importante che tale processo venga portato avanti e che altri Stati membri procedano allo stesso modo. La priorità dovrebbe essere assegnata al rilascio delle persone più vulnerabili. Poiché la detenzione dei minori migranti, siano essi non accompagnati o con le loro famiglie, non è mai nel loro migliore interesse, questi dovrebbero essere rilasciati immediatamente. Le autorità degli Stati membri dovrebbero inoltre astenersi dall’emettere nuovi ordini di detenzione per le persone che hanno scarse probabilità di essere rimpatriate nel prossimo futuro. Gli Stati membri dovrebbero inoltre assicurare che le persone rilasciate dai centri di detenzione abbiano adeguato accesso a un alloggio e ai servizi di base, compresa l’assistenza sanitaria. Questo è necessario per tutelare la loro dignità e anche per proteggere la salute pubblica negli Stati membri. Il rilascio degli immigrati detenuti è solo una delle misure che gli Stati membri possono prendere durante la pandemia di Covid-19 per proteggere i diritti delle persone private della loro libertà in generale, come anche quelli dei richiedenti asilo e dei migranti”. Accordo trovato sulla nuova missione Ue: i migranti in Grecia di Carlo Lania Il Manifesto, 27 marzo 2020 “Irini” comincerà ad aprile. Oggi il via libera degli Stati. Previsto un meccanismo su base volontaria per la distribuzione dei profughi. Alla fine tutto si è risolto come al solito, offrendo soldi e riconoscimenti politici al Paese che accetta di farsi carico dei migranti. Dimostrando di essere sempre meno capace di esprimere solidarietà, dopo settimane di trattative l’Unione europea è riuscita a trovare un accordo sulla nuova missione europea “Irini” che sostituisce la vecchia operazione Sophia destinata ad essere archiviata dal prossimo 31 marzo. Nata dopo la conferenza di Berlino con il mandato esplicito di far rispettare l’embargo Onu di armi alla Libia, fino a ieri la missione era rimasta bloccata su un punto in teoria secondario, visto che non rappresenta il suo core business, ma in realtà ritenuto decisivo dagli Stati: dove sbarcare i migranti che verranno salvati nel Mediterraneo, intervento reso obbligatorio dal diritto internazionale. La soluzione è arrivata ieri al termine di una riunione del Coreper, il Comitato dei rappresentati permanenti, durante la quale è stata indicata la Grecia come porto di sbarco per i naufraghi. Soluzione accettata da Atene in cambio di non meglio precisate compensazioni economiche e politiche, con il rischio di rendere ancora più invivibile la condizione dei numerosi migranti che già si trovano nel Paese. I dettagli, e l’eventuale via libera definitivo alla missione dovrebbe arrivare dagli Stati entro oggi con la procedura del silenzio-assenso. A rendere più complicati i negoziati fino a bloccarli, è stata la posizione assunta dall’Italia decisa a non essere più considerata, come avvenuto in passato con Sophia, l’unico Paese nel quale far arrivare i migranti. Una posizione assunta fin dall’inizio dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio e motivata in seguito anche con l’insorgere dell’emergenza coronavirus. Francia, Spagna, Germania e Finlandia affiancheranno l’Italia nella missione che dovrà far rispettare l’embargo deciso dalle Nazioni unite e potrà disporre nuovamente delle navi insieme ad aerei, elicotteri, droni e satelliti. Previste anche missioni a terra, ma solo dopo aver ricevuto l’autorizzazione da parte delle autorità di Tripoli e comunque dopo una nuova risoluzione dell’Onu. Per quanto i migranti, è previsto un meccanismo di distribuzione su base volontaria tra i paesi che partecipano alla missione. Nonostante l’obiettivo dichiarato di Irini (che in greco significa “pace”) sia quello di contribuire alla pacificazione della Libia, specie dopo il fallito cessate il fuoco decretato dal presidente turco Erdogan e quello russo Putin il 9 gennaio scorso, è proprio sui migranti che i negoziati si sono impantanati a lungo. Al punto che prima è stato deciso di spostare l’area di intervento della missione più a Est rispetto a dove operava Sophia, in modo che le navi si trovino lontane dalle rotte abitualmente percorse dai barconi carichi di migranti (come richiesto da alcuni Paesi tra i quali Austria e Ungheria) e lungo le quali opera la cosiddetta Guardia costiera libica. Infine, secondo indiscrezioni filtrate ieri da Bruxelles, inserendo una clausola che prevede la possibilità per il comandante di Irini di chiedere il riposizionamento delle navi nel caso dovesse ritenere che la missione rappresenti un incentivo per le organizzazioni criminali per aumentare le partenze sfruttando la presenza dei mezzi europei al largo delle coste libiche. Il cosiddetto pull factor attribuito più volte in passato anche alla missione Sophia e alle navi delle ong, ma mai dimostrato. Il mandato di Irini durerà un anno e sono previste verifiche ogni quattro mesi. Migranti, l’Europa in campo con Irini: la missione che garantirà l’embargo di armi alla Libia di Alberto D’argenio La Repubblica, 27 marzo 2020 La missione che sostituirà Sophia ha richiesto mesi di negoziati e scontri tra governi. I governi dell’Unione trovano un accordo su Irini, la missione navale europea che da aprile sostituirà Sophia per garantire l’embargo di armi alla Libia. Ci sono voluti mesi di negoziati e scontri tra governi prima che la Grecia tirasse fuori dall’imbarazzo i partner e facilitasse l’intesa: tutti i migranti salvati dai vascelli militari a dodici stelle saranno sbarcati nei porti dell’Ellade, a meno che qualche Paese di volta in volta non si offra volontario. Dunque stop agli sbarchi in Italia, approdo unico di Sophia. Il comando invece rimane in mani tricolori, con Roma confermata centro operativo della missione. L’accordo è stato raggiunto a Bruxelles dagli ambasciatori dei Ventisette e sarà operativo dal primo aprile. Irini, nome scelto dai greci, conterà su diverse navi militari con una copertura aerea, satellitare e di droni. La missione sarà spostata a Est rispetto a Sophia: non più nel Canale di Sicilia, ma nelle acque tra Egitto e Creta con gli occhi puntati sulla Cirenaica. Il salvataggio dei migranti non entra nel mandato della spedizione, ma se le imbarcazioni Ue incroceranno dei barconi ovviamente dovranno salvare coloro che rischiano la vita in conformità con il diritto internazionale. Il nuovo quadrante scelto per la missione, tuttavia, dovrebbe rendere esiguo il numero di persone da soccorrere. Almeno questo è quanto prevedono (e sperano) i governi. Coloro che verranno salvati, saranno sbarcati in Grecia e di volta in volta redistribuiti tra i Paesi che volontariamente si presteranno. Inoltre la zona operativa di Irini verrà spostata se si dovesse verificare un effetto pull factor, ovvero se la presenza delle navi militari dovesse far aumentare il traffico di barconi in quel tratto di mare nella speranza di salvataggio e trasporto verso l’Europa. L’Italia ha fatto allegare al mandato di Irini una dichiarazione con la quale informa i partner che a causa dell’emergenza da coronavirus almeno fino alla prossima revisione della missione, tra quattro mesi, non offrirà porti per lo sbarco alternativi a quelli greci e non parteciperà alla redistribuzione dei migranti. Atene, già in difficoltà per il numero di rifugiati siriani sbarcati sulle sue coste dopo l’apertura delle frontiere turche decretata da Erdogan, accetta l’ulteriore peso che verrà indennizzato finanziariamente dall’Europa, che pagherà le spese legate agli sbarchi e ai migranti. La Grecia ha preferito farsi carico di altri rifugiati pur di avere una flotta Ue davanti alle sue acque, un modo per controllare i movimenti dei vascelli militari turchi le cui attività nella parte orientale del Mediterraneo negli ultimi mesi hanno fatto salire la tensione tra i due vicini. La missione prevede la possibilità di allargare il monitoraggio alle frontiere terrestri della Libia, dunque con personale Ue a terra, ma solo se arriverà una richiesta delle autorità locali. Difficile che in questo momento Haftar e Serraj trovino un accordo in tal senso. E questo sembra essere il tallone d’Achille della missione. Il vantaggio, invece, è che l’Europa ritrova un minimo di coesione e riprende a monitorare la Libia anche con attività di intelligence condivisa grazie al nuovo dispiegamento di navi. Lo scorso anno infatti Salvini aveva imposto ai partner di far rientrare i vascelli di Sophia pur di non far sbarcare i migranti salvati dalle sue imbarcazioni. Scelta contestata, visto che i numeri erano esigui e che ritirando le imbarcazioni a dodici stelle al momento dell’escalation tra le fazioni libiche l’Unione si è trovata completamente scoperta nel Mediterraneo e senza un ombrello comune sulla Libia. Ora con Irini l’Europa torna in campo. Stati Uniti. Il virus svuota-carceri di Matteo Angeli ytali.com, 27 marzo 2020 Mentre centinaia di detenuti sono già in quarantena, gli istituti penitenziari cercano di isolarsi dai contatti esterni e di mettere al sicuro i soggetti più deboli. Se uno si ammala, si ammalano tutti, perché in carcere non c’è posto dove ripararsi. Suona così, come una condanna senza appello, uno dei grandi enigmi che attanagliano le autorità pubbliche di fronte alla crisi da coronavirus: come proteggere la popolazione carceraria dall’avanzata dell’epidemia, là dove lo spazio a disposizione è molto ridotto ed è praticamente impossibile mettere in atto pratiche di distanziamento sociale? Negli Stati Uniti, dove centinaia di detenuti sono già in quarantena e, in molti stati, le visite di famigliari e avvocati sospese, le amministrazioni degli istituti penitenziari hanno scelto, per far fronte al panico, di liberare alcuni detenuti e di confinarli ai domiciliari. Solo nella scorsa settimana, il New Jersey, ad esempio, ne ha liberati a centinaia. L’obiettivo è di ridurre l’affollamento nelle prigioni e contenere così la diffusione del virus tra i 2,3 milioni di persone che stanno scontando una pena in America, ma anche tra il personale penitenziario e sanitario. La maggior parte dei carcerati vive infatti in spazi angusti, simili a dormitori. Se uno si ammala, gli altri non possono scappare: è come una condanna a morte per i soggetti più deboli. Non è solo un problema di spazio. Le autorità sanitarie e i direttori degli istituti penitenziari mettono l’accento anche sulle condizioni igieniche, che lascerebbero a desiderare nella maggior parte dei casi e che farebbero delle prigioni americane l’habitat perfetto per la propagazione del virus. In questo contesto, c’è chi chiede al presidente Donald Trump di concedere la grazia a quei detenuti che sono gravemente malati e ad altri soggetti potenzialmente a rischio, come le persone anziane e quelle con problemi di salute. Quest’appello è stato attivamente sostenuto da un gruppo bipartisan di quattordici senatori - tra i quali figurano quattro ex candidati alle primarie democratiche (Elizabeth Warren, Amy Klobuchar, Cory Booker e Kamala Harris), che ha inviato una lettera al Dipartimento della giustizia, chiedendo di rilasciare gli anziani (più di sessant’anni), i malati terminali e i detenuti “poco pericolosi”, commutandone la pena in un arresto ai domiciliari. Una richiesta che, a dire la verità, le associazioni che lottano per una riforma del diritto penale avevano avanzato già a partire da fine 2018, quando Trump aveva firmato una legge che estende i casi in cui si possono applicare gli arresti domiciliari. Finora, il Dipartimento di giustizia non aveva ceduto a queste pressioni, ma ora la situazione di estrema eccezionalità rende urgente e inderogabile il rilascio dei detenuti più a rischio. A questo proposito, domenica, in conferenza stampa, Trump ha rivelato di stare riflettendo alla possibilità di adottare un ordine esecutivo che permetterebbe ai detenuti anziani e non violenti di uscire dalle carceri federali. Solo quelli “totalmente non violenti”, ha tenuto a rimarcare il presidente. Ma intanto il panico dilaga, colpevole anche la notizia di un contagio illustre come quello di Harvey Weinstein. Il produttore cinematografico, condannato a ventitré anni di prigione per aggressione sessuale, sta scontando la sua pena nel Walden Correctional Center di Alden, una cittadina appena fuori Buffalo, nello stato di New York. Domenica, Weinstein, che ha sessantotto anni, e un altro prigioniero dell’istituto penitenziario sono risultati positivi al Covid-19 e sono stati messi in quarantena, così come alcuni membri del personale carcerario. Intanto, i legali di un altro detenuto famoso, l’attore e comico Bill Cosby, ottantadue anni, anche lui in carcere per violenza sessuale, ne chiedono l’immediato rilascio e la messa agli arresti domiciliari, perché preoccupati per il suo stato di salute. Fanno notare che un dipendente del carcere della Pennsylvania in cui è detenuto Cosby sarebbe stato trovato positivo al virus e già questo, di per sé, rappresenterebbe una gravissima minaccia per la salute del loro cliente. Se per i detenuti più anziani e malati gli istituti penitenziari aprono le loro porte, per il resto della popolazione carceraria il messaggio è l’opposto: è il momento di chiudere le prigioni, isolarle dai contatti esterni per evitare l’ingresso del temuto virus. Basta visite (avvocati e famiglia), meno trasferimenti di carcerati da un prigione all’altra e rigidi controlli sanitari per i nuovi arrivati. Meno libertà, meno diritti. Per chi è già prigioniero il confinamento ha un sapore particolarmente amaro. Brasile. I vescovi: carceri in condizioni disumane per il virus di Roberta Barbi vaticannews.va, 27 marzo 2020 Carenza di acqua e cibo, scarse misure igieniche e difficoltà nel comunicare con l’esterno segnano la vita dei detenuti in Brasile. I vescovi della Pastorale dei detenuti interna alla Conferenza episcopale brasiliana pubblica sul suo portale una denuncia sulla gestione delle carceri in questo periodo di crisi del sistema sanitario dovuta alla pandemia da Coronavirus. “La realtà dimostra che i direttori delle carceri di tutto il Brasile hanno scelto di aumentare il numero di barriere in ingresso a cibo pulito, materiale per l’igiene personale, pulizia e medicinali”, si legge. Carenza di cibo per i detenuti - In Amazzonia, ad esempio, i vescovi della Pastorale carceraria che normalmente lavorano con i detenuti e con le loro famiglie, indicano che ci sono segnalazioni di problemi alimentari, sia a causa della mancanza di cibo che della sua scarsa salubrità: ciò provoca una riduzione delle vitamine nel corpo e, di conseguenza, una diminuzione dell’immunità fisiologica: “Nel Minas Gerais abbiamo anche ricevuto lamentele per il divieto di consegna delle merci da parte dei parenti - scrivono - i prodotti per l’igiene personale e per la pulizia sono costantemente messi alla porta”. Non entrano oggetti dall’esterno - In una prigione situata all’interno di San Paolo, i presuli della Pastorale sottolineano che i detenuti non ricevono saponi, dentifricio, carta igienica, medicinali, cibo sano, tra gli altri oggetti essenziali per combattere qualsiasi epidemia. “I parenti, molti dei quali versano in precarie condizioni economiche, hanno speso per l’acquisto dei prodotti e per l’invio tramite posta. L’autorità responsabile della gestione del carcere, tuttavia, ha vietato l’ingresso di qualsiasi materiale dall’esterno”, evidenziano. Interrotte le visite - Secondo i parenti, quindi, in molti istituti di pena sono interrotte sia le visite dei parenti sia la consegna dei beni che arrivano per posta dall’esterno, mentre lo Stato non riesce a supplire adeguatamente alle esigenze dei reclusi. A Rio de Janeiro, la Pastorale penitenziaria ha ricevuto la notizia che sono stati incrementati i turni delle infermerie per compensare la mancanza di medici, visto l’aumento di persone con problemi respiratori, ma senza la quantità necessaria di farmaci e attrezzature per il trattamento. Rischio di cure sommarie - Sempre dalle famiglie, in forma anonima, è arrivata ai vescovi della Pastorale carceraria la segnalazione che ci sarebbero almeno 300 detenuti che presentano sintomi simili a quelli causati dal virus. Tuttavia, questo non viene trattato: “Danno uno sciroppo per chi ha la tosse, una medicina per il dolore e dicono che passerà”, denunciano i parenti. Razionamento dell’acqua - Tra le altre denunce arrivate alla Pastorale carceraria del Brasile c’è il razionamento dell’acqua e la diminuzione delle ore trascorse fuori dalle celle: “In questo momento, i detenuti sono sempre più spesso rinchiusi nelle loro celle, senza il diritto di ricevere una dose giornaliera di luce solare, senza il diritto di camminare per più di 1 metro, senza il diritto di esistere per più di 50cm²”, sottolinea l’articolo. Mancanza di informazioni - Inoltre i familiari sono preoccupati per la mancanza di notizie e di informazioni: “Di fronte a questa pandemia che sta affliggendo il mondo intero, come stanno realmente i nostri parenti?”, domandano. La Pastorale penitenziaria, nonostante la sua azione limitata in questo momento a causa della quarantena stabilita e del divieto di visite, si è comunque mantenuta accanto alle famiglie, raccogliendo materiale per i detenuti che però non viene loro recapitato: “In questo momento in cui le porte sono limitate al nostro ingresso, più che mai le nostre preghiere saranno la nostra forza”, si legge. Azerbaigian. Coronavirus, rilasciati circa 200 detenuti agenzianova.com, 27 marzo 2020 Sono stati rilasciati circa 200 detenuti dalle carceri azerbaigiane. È quanto riferito dal ministero della Giustizia secondo cui si tratta di una delle misure adottate dal governo di Baku per prevenire la diffusione del coronavirus nel paese. Secondo quanto riportato i servizi penitenziari stanno lavorando a un regime rafforzato per garantire il rispetto delle misure di prevenzione adottate dall’esecutivo. “Non sono consentiti incontri con i condannati e gli accusati, nonché il trasferimento dei pacchi. Lo stato di salute dei dipendenti, nonché dei prigionieri, è sotto controllo medico e viene effettuata una visita medica ogni giorno con annesso controllo della temperatura corporea”, si legge nella nota del dicastero. Il sovraffollamento delle carceri è uno dei problemi riscontrato in molti paesi fra le necessità da risolvere per affrontare al meglio l’emergenza del coronavirus. Libia. Scarcerati 82 detenuti dal carcere di Tripoli per emergenza coronavirus agenzianova.com, 27 marzo 2020 Il capo della sezione della polizia giudiziaria di Tripoli, il brigadiere Abdel-Ghani al Harati, ha annunciato la scarcerazione di 82 detenuti dal carcere centrale della capitale libica. Il rilascio di questi detenuti comuni rientra nelle procedure previste dal piano di emergenza contro la diffusione del coronavirus. La polizia giudiziaria sta cercando di ridurre il sovraffollamento nelle carceri libiche. Prima di essere rilasciati, i detenuti verranno sottoposti a esami clinici. Nella giornata di ieri la polizia giudiziaria ha deciso di rilasciare 70 detenuti che erano stati “arrestati in relazione a casi di droga e alcolici”, riducendo così la congestione nelle carceri della capitale.