L’appello dell’Onu. “Covid devastante per i detenuti: liberateli!” di Errico Novi Il Dubbio, 26 marzo 2020 L’Alto commissario delle Nazioni Unite: “Fuori dalle galere almeno gli anziani e i malati”. Ma al question time Bonafede dice candidamente che, col Dl “Cura Italia”, sono usciti solo “200 reclusi”, di cui “50 col braccialetto”. Nonostante il sovraffollamento sia a quota 10mila. Sgarbi lo chiama “untore”. Ma il problema è la Lega. Che parla di “svuota-carceri mascherato”. Si potrebbe dire che in fondo ciascuno vede le carceri dall’angolo visuale della sua cultura di appartenenza. Prendiamo i magistrati, visto che l’idea garantista di giurisdizione propria degli avvocati è ben nota. Prendiamo non solo l’Anm, ma una sua componente, “Area”, notoriamente progressista. Nell’avvertire il guardasigilli Alfonso Bonafede che “il rischio coronavirus nei penitenziari è altissimo”, ricorda che a dover essere tutelati sono “i detenuti e tutti quelli che per loro lavorano”. Ecco. Visto che parlare dei diritti dei reclusi forse non basta a commuovere i cittadini, ben venga chi punta sui lavoratori. Rischiano pure loro. Anche dentro le carceri. Proprio la pluralità di sguardi sul carcere emerge anche nel question time di ieri a Montecitorio. Bonafede vi contribuisce con un dato terrificante: dall’entrata in vigore del Dl Cura Italia - che prevede una concessione dei domiciliari “accelerata” a chi potrebbe uscire comunque, ma (se la pena residua supera i 6 mesi) solo se è disponibile il “braccialetto” - hanno fisicamente lasciato la galera appena “200 persone”. Cioè: solo 200 sui circa 10mila detenuti in più rispetto alla capienza totale del sistema penitenziario nazionale. Basterebbe per chiudere la partita e dire: il guardsigilli scherza col fuoco. C’è chi lo fa: Vittorio Sgarbi. Lo chiama “untore”. Lei, urla al ministro con la solita proverbiale verve, “per la sua responsabilità giuridica e morale dovrebbe essere indagato!”. C’è anche chi lo fa indirettamente: l’alto commissario Onu per i Diritti umani Michelle Bachelet. Che ricorda a propria volta come il covid-19 possa essere “devastante” per i detenuti, e che bisognerebbe liberare i reclusi più “vulnerabili al virus”, come “anziani e malati”, ma anche “i non pericolosi”. Cosa che il decreto Cura Italia favorisce solo in minima parte. Il punto è il pluralismo di cui sopra. Perché all’invettiva di Sgarbi e al monito dell’Onu, e alle obiezioni persino del Csm, fa da contrappunto l’incredibile voce contraria del leghista Jacopo Morrone, ex sottosegretario alla Giustizia, che parla di “svuota-carceri mascherato” e di “stupratori e truffatori che potranno tornare liberi e darsi alla fuga”. È la media dei due estremi che assolve Bonafede. Neppure il dem Walter Verini lo scalfisce: “Ci sono 10mila reclusi in più e al tempo del coronavirus il sistema penitenziario rischia di diventare una bomba sanitaria”. Il Pd chiede “misure per ridurre la pressione” negli istituti - e qui è Alfredo Bazoli a parlare - e di farlo in fretta perché in galera “non è possibile far rispettare la distanza necessaria”. Ci provano anche i due deputati di Italia viva intervenuti, Lucia Annibali e Gennaro Migliore. Proprio i due parlamentari del partito di Matteo Renzi, che pure ha personalmente incalzato il guardasigilli sull’allarme penitenziario, hanno il merito di ricordare come “l’Unione Camere penali, caro ministro” sia in realtà “la prima a interrogarla da giorni” e che “tutti gli avvocati penalisti esprimono critiche, e lo fanno anche il Csm e i radicali di Rita Bernardini”. Ebbene, le domande rivolte a Bonafede e al Dap dagli avvocati sono specifiche e semplici: l’Ucpi chiede di sapere quanti detenuti potranno beneficiare delle nuove (si fa per dire) misure, quanti braccialetti sono disponibili, quanti casi di reclusi positivi già si contano e cosa pensa di fare il capo del Dap (che Italia viva chiede di rimuovere) per consentire l’eventuale isolamento dei contagiati. Bonafede offre all’aula e alla diretta su Rai 3 risposte in parte terribili: innanzitutto quei soli 200 finiti ai domiciliari in virtù delle norme acceleratorie del “Cura Italia, dei quali - per giunta - solo 50 col braccialetto elettronico e altri 150 già titolari di licenza per lavoro esterno, autorizzati ora a dormire a casa per evitare che si portino il covid in galera. I contagiati “sono 15, isolati o ricoverati”, assicura Bonafede. Gli aventi diritto a uscire più in fretta sono in tutto 6.000, ma “i braccialetti disponibili, al 15 maggio, saranno 2.600”. Bisognerebbe sapere quanti sono i reclusi con pena residua inferiore ai 6 mesi, per i quali il dispositivo non è necessario, il dato però non arriva. Ci si dovrebbe rallegrare per il trend in calo riguardo alle presenze: “Da fine febbraio ad oggi siamo scesi da 61.235 a 58.592 detenuti”. Morale della favola: non c’è alcuno svuota-carceri, quel poco introdotto dal “Cura Italia” non consentirà di scarcerare che pochissime migliaia di persone. C’è solo, forse, qualche reato in meno, e qualche giudice pietoso che si mette una mano sulla coscienza e deposita la sentenza in ritardo per evitare di ingolfare il lazzaretto. Bonafede, “Nessun indulto mascherato”. Ma i renziani: “Capo Dap si dimetta” di Liana Milella La Repubblica, 26 marzo 2020 Alla Camera il Guardasigilli fa il punto sull’emergenza: 15 detenuti positivi, finora solo 50 scarcerati per effetto dei decreti sul coronavirus. Detenuti e rivolte dividono ancora la maggioranza, da una parte Pd e M5S con il Guardasigilli Alfonso Bonafede, dall’altra i renziani che con l’opposizione chiedono, ormai da due settimane, le dimissioni del capo delle carceri Francesco Basentini. Ma dal ministro della Giustizia, su questo, non giunge alcun consenso durante il question time a Montecitorio in cui la Lega insiste sull’indulto che sarebbe frutto dei decreti sul Coronavirus dedicati alle carceri. Ma il niet di Bonafede in proposito è netto. “Nessun indulto mascherato, ma solo 50 detenuti usciti, per giunta con la garanzia del braccialetto elettronico”. Subito dopo la polemica proprio con la Lega che dieci anni fa, in pieno governo con Berlusconi, “e senza alcuna emergenza sanitaria” sottolinea il Guardasigilli, diede il suo via libera a una legge, la 199, che “nei primi tre anni ha permesso a circa 9 mila detenuti di passare alla detenzione domiciliare”. Dice Bonafede: “Devo dedurre che nel 2010, ripeto senza alcuna emergenza sanitaria, quella legge andava bene perché c’era il voto della Lega Nord nel quarto governo Berlusconi; mentre oggi che la Lega è all’opposizione, non va più bene e sarebbe addirittura, secondo quanto espongono gli interroganti, un indulto mascherato’“. Quelle norme prevedevano che chi doveva scontare ancora 18 mesi poteva lasciare il carcere. Quelle attuali, sottolinea il ministro, riguarderebbero solo 6mila detenuti, ma con molte eccezioni, non solo l’effettiva disponibilità di un domicilio, ma anche l’avvenuta riabilitazione, e soprattutto l’assenza di reati gravi, come la corruzione, lo stalking, i maltrattamenti in famiglia. Esclusi anche tutti quelli che, negli ultimi 12 mesi, abbiano ricevuto sanzioni disciplinari per comportamenti gravi in cella. Fuori anche tutti quelli che hanno partecipato alle rivolte. In più, per chi esce, ci sarà l’obbligo del braccialetto elettronico. In ogni caso, sottolinea Bonafede, fino a oggi e per via dei decreti sul Coronavirus, sono solo 50 i detenuti usciti, quelli già in condizione di semi-libertà (lavoro esterno durante il giorno e poi rientro in cella per dormire), che invece adesso resteranno del tutto fuori dal carcere. Ma il Guardasigilli dichiara che, a oggi, non è ancora possibile quantificare quanti detenuti potrebbero lasciare le prigioni per effetto dei nuovi decreti. Ma ecco, nelle sue parole, la situazione aggiornata sui penitenziari, sconvolti due settimane fa dalle rivolte (27 quelle coinvolte, 35 milioni di euro di danni, 13 morti per overdose da farmaci rubati). Innanzitutto, e non per effetti dei decreti per l’emergenza, calano i detenuti nelle prime tre settimane di marzo, da 61.235 passano a 58.592 effettivi, con un calo di 2.643 persone. I positivi al virus al momento sono solo 15 i detenuti. Sonno state distribuite 200mila mascherine e organizzate 345 tende per il pre-triage. I telefonini - 1.600 già giunti e altri 1.600 in arrivo - hanno sostituito per ora il blocco dei colloqui diretti con i familiari, blocco che è stato all’origine della protesta stessa. Un discorso a parte va fatto per i braccialetti elettronici. Come anticipato da Repubblica.it, Bonafede conferma che al momento, secondo le verifiche fatte dal Viminale, i braccialetti disponibili sono 2.600, e se ne possono attivare 2-300 a settimana. Quindi un numero inferiore rispetto alle persone che ne potrebbero usufruire con la detenzione domiciliare, che presuppone però anche la disponibilità di un effettivo domicilio. Il dato certo, a sentire le voci della maggioranza, è che non solo i renziani, ma anche il Pd insiste per misure più ampie che consentano le scarcerazioni. Le chiedono Lucia Annibali e Gennaro Migliore di Italia viva che citano le parole di Mattarella e insistono per “un vero provvedimento che alleggerisca il carcere”. Ma su questa linea si muovono anche Alfredo Bazoli e Walter Verini del Pd. I Dem parlano di “10mila detenuti in più, una bomba sanitaria che mette a rischio la vita di chi sta e di chi lavora in carcere”. Da qui l’invito a “bruciare le tappe per avere più braccialetti, tenendo dentro chi ha commesso gravi reati, ma lasciando fuori chi può avere domiciliari, con il risultato di avere più spazi nelle celle e quindi meno tensioni, e anche meno rischi di rivolta”. Il Pd non insiste sulle dimissioni di Basentini ma sollecita Bonafede a “rafforzare il vertice del Dap nominando il vicedirettore che manca”. Bonafede: sono 6.000 i detenuti potenzialmente destinati alla detenzione domiciliare di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 26 marzo 2020 Sono 6.000 i detenuti potenzialmente destinati alla detenzione domiciliare per effetto delle misure approvate nel decreto legge Cura Italia. Lo ha annunciato ieri pomeriggio alla Camera il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede nel question time. E sono 2.600 i braccialetti oggi disponibili, che verranno installati progressivamente con cadenza settimanale. Sinora però, a uscire dal carcere con la misura di controllo a distanza del braccialetto sono stati solo 50 detenuti, mentre altri 150 hanno usufruito dell’altra misura del decreto, perché già in semilibertà durante il giorno hanno ottenuto di non dovere più rientrare in cella alla sera. I contagiati sinora sono 15. Inoltre, ha sottolineato Bonafede “sono stati già acquisiti dall’amministrazione penitenziaria e da quella della giustizia minorile, a seguito di donazione, 1.600 telefoni cellulari e altri 1.600 sono in via di acquisizione”. E ancora “abbiamo previsto e stiamo implementando la possibilità di effettuare i video-colloqui senza alcuna spesa per tutti i detenuti; l’incremento della corrispondenza telefonica, che sarà effettuata gratuitamente; l’utilizzo senza costi del servizio di lavanderia; la possibilità di ricevere vaglia postali on line; l’aumento dei limiti di spesa per ciascun detenuto”. Che il tema delle carceri però sia tra quelli più divisivi tra maggioranza e opposizione, tra chi ritiene che le misure appena approvate siano eccessive e chi le ritiene invece insufficienti, lo si è visto dalle reazioni alle risposte di Bonafede, con 2 ex sottosegretari alla Giustizia sugli scudi. Già Bonafede nel suo intervento aveva risposto alle critiche della Lega, ricordando come la norma ora approvata ricalca quella del 2010, una precedente e proverbiale “svuota-carceri”, votata senza problemi da una Lega allora al Governo con premier Silvio Berlusconi. “Nel 2010 - l’affondo di Bonafede -, senza alcuna emergenza sanitaria, andava bene perché c’era il voto della Lega Nord nel quarto governo Berlusconi; oggi che la Lega è all’opposizione, non va più bene e sarebbe addirittura, un indulto mascherato”. Secca la replica dell’ex sottosegretario dello stesso Bonafede nel Governo Conte 1, il leghista Jacopo Morrone per il quale il decreto rappresenta una resa a chi ha promosso le recenti rivolte carcerarie, liberando detenuti che non ne avrebbero diritto e aumentando i pregiudicati per le strade. E per Morrone l’azione del Governo è tanto più censurabile perché si negano mascherine, guanti e strumenti di difesa agli agenti di polizia penitenziaria. Gennaro Migliore, Italia Viva, invece da una parte sollecita misure più coraggiose per affrontare l’emergenza e però chiede la rimozione del capo del Dap (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) “per dare una linea di comando più adeguata alla crisi che stimo vivendo”. Al di fuori del Parlamento, quella che ieri Walter Verini responsabile giustizia Pd ha qualificato come “bomba sanitaria”, mette d’accordo un po’ tutti, con Anm e Camere penali per una volta concordi nel chiedere misure più incisive e nel criticare come inadeguate quelle appena varate. Oggi sarà poi il Csm a esaminare in plenum un parere estremamente critico su questo punto del Cura Italia. “Detenuti liberati: 200”. Bonafede senza scuse di Eleonora Martini Il Manifesto, 26 marzo 2020 Il Guardasigilli si difende (solo) dalla Lega. Italia Viva chiede la testa del capo del Dap. Nelle carceri italiane ci sono ancora almeno dieci mila detenuti in più di quanti ce ne dovrebbero essere, malgrado le prime misure deflattive, e ci sono “15 malati di Covid-19” (il numero dei positivi al Coronavirus non è pervenuto, però, perché i tamponi non hanno ancora varcato i cancelli degli istituti). Ma il ministro di Giustizia Alfonso Bonafede fornisce solo risposte rassicuranti, ai deputati che lo interpellano durante il question time a Montecitorio, il primo nell’era dell’epidemia. “Non è possibile accertare adesso quanti detenuti passeranno alla detenzione domiciliare”, afferma il Guardasigilli rispondendo alla meno corrosiva delle domande, quella posta dal dem Alfredo Bazoli circa gli effetti delle misure contenute nel cosiddetto “decreto marzo” che stabiliscono i domiciliari per i detenuti che abbiano commesso reati non gravi con residuo di pena di 18 mesi. Ma, aggiunge il ministro come fosse un dato rilevante, a sette giorni dall’entrata in vigore del decreto “sono 50 i detenuti che hanno beneficiato della misura” e “150 quelli in semilibertà cui è stata concessa una licenza in modo da non farli rientrare in carcere la sera”. In ogni caso, al massimo ne usciranno 6 mila. L’alleato Walter Verini è gentile e nella replica lo esorta solo ad “accelerare”, perché il carcere, dice, “è una bomba sanitaria”, e a “rafforzare il vertice del Dap, con un vicedirettore che manca da tempo”. Altri, più diretti, in primis Italia Viva, chiedono invece la testa del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, che ha dimostrato, affermano Lucia Annibali e Gennaro Migliore, di essere “inadeguato”. Più tardi, a fine question time, sarà invece Vittorio Sgarbi a puntare il dito direttamente contro il ministro: “Bonafede, lei è in piena flagranza di reato, dovrebbe essere indagato, perché viola le leggi che il suo stesso governo ha varato, quelle che vietano assembramenti pubblici in luoghi dove non si possa rispettare la distanza di almeno un metro tra le persone”. Eppure, a preoccupare maggiormente l’esponente pentastellato è piuttosto la Lega che lo accusa di aver varato un altro “svuota-carceri”, addirittura un “indulto mascherato”, e di aver ceduto alle rivolte scoppiate in vari istituti “dietro una regia e con uno scopo ben preciso: ottenere una premialità”, afferma il deputato Jacopo Morrone. Altro che “indulto mascherato”, ribatte non a torto Bonafede: “Nelle prime tre settimane di marzo c’è stata una riduzione della popolazione detenuta in carcere, passata dai 61.235 ai 58.592 effettivi”, ma non per effetto del “Cura Italia” che, precisa il ministro, “ha avuto un’incidenza stimata di circa 200 detenuti”, bensì per via della “legge n. 199/2010, votata dall’allora Lega nord e dal Popolo delle Libertà”. E, rispondendo all’accusa di aver speso soldi per i braccialetti elettronici in un momento come questo, il delegato alla Giustizia chiarisce che i 2600 braccialetti effettivamente disponibili e da installare “non hanno costi ulteriori, in quanto compresi nel contratto triennale, siglato nel 2018, per un valore complessivo di 23 milioni di euro”. Per il resto, all’attivo ci sono “145 tensostrutture per il controllo dei nuovi giunti installate all’ingresso dei penitenziari”, “quasi 200 mila mascherine chirurgiche e 800 mila guanti monouso consegnati ai provveditorati” per il personale e per gli agenti penitenziari, e l’intento di agevolare la produzione di mascherine all’interno degli istituti (oggi “la produzione si attesta attorno alle 8 mila al giorno”). E per stemperare la tensione, dopo l’interruzione delle visite di familiari e volontari? “A seguito di donazione - chiarisce Bonafede - sono stati acquisiti 1.600 telefoni cellulari e altri 1.600 sono in via di acquisizione” per i video-colloqui e le telefonate dei detenuti. Da via Arenula è tutto. Il braccialetto, mito odioso e inutile di Franco Corleone Il Riformista, 26 marzo 2020 Le norme sull’emergenza virus vincolano la detenzione domiciliare all’uso del dispositivo elettronico, misura costata dal 2002 al 2011 ben 10 milioni all’anno, per appena 15 apparecchi utilizzati. Ancora oggi sono oggetti del desiderio e i detenuti restano in cella. In uno degli innumerevoli decreti del Governo emessi sulla base dell’emergenza virus, una norma che interessa il carcere (art. 123 del decreto legge 18/2020) si ripropone la soluzione tecnologica di condizionare una misura alternativa alla detenzione all’utilizzo del controllo a distanza affidato al cosiddetto braccialetto elettronico. Questa misura è sostenuta anche da parte di persone in buona fede e animate da buone intenzioni. Per me è la disperante constatazione che abbiamo predicato nel deserto e che le nostre ragioni legate ai principi della Costituzione sono destinate alla sconfitta. Le mie perplessità vengono da lontano e sono andato a rileggere un formidabile pezzo di Alessandro Margara pubblicato sul mensile Fuoriluogo allegato al Manifesto il 26 ottobre 1999 intitolato “L’illusione elettronica” e con il sottotitolo: Braccialetto ai detenuti: un dialogo di fine millennio. L’ironia di Margara demoliva i presupposti e le conseguenze della proposta. Iniziava così: “Una volta si sarebbero dette delle sciocchezze come quella che è bene trattare le persone come persone e non come cose, ma una volta è una volta. Meno male che almeno Caselli ha detto che il braccialetto è odioso e Corleone ha messo in guardia sui ritrovati tecnici: si sa - dice - dove si comincia e non si sa dove si finisce”. Assicuro che l’articolo va letto integralmente ed è assai istruttivo. Purtroppo la storia andò avanti in maniera oscura che ho ricostruito in un intervento nel volume Volti e maschere della pena, curato da Andrea Pugiotto e da me pubblicato nella collana della Società della Ragione edito da Ediesse nel 2013. Partivo dalla denuncia della Corte dei Conti del 13 settembre 2012 di critica serrata al cosiddetto “Piano carceri”. L’attenzione più penetrante si concentrava proprio sull’uso dei braccialetti elettronici. Nel pacchetto sicurezza del 2001 fu previsto che la detenzione domiciliare fosse controllata attraverso tale strumentazione. Una misura odiosa e inutile, che è costata dal 2002 al 2011 ben 10 milioni di euro all’anno! Lo scandalo, davvero ciclopico, è reso avvilente e offensivo dal numero di braccialetti effettivamente utilizzati: quindici. Ripeto: quindici! Una semplice operazione aritmetica dimostra che uno strumento di scarso pregio ha un costo per l’amministrazione pubblica superiore a quello di un gioiello acquistato da Tiffany. La Telecom è stata la beneficiaria di quest’affare di regime e la cosa incredibile è che il contratto alla Telecom è stato confermato dal Ministero dell’Interno fino al 2018: agli oltre 81 milioni già incassati in cambio di nulla, si somma la manna di una proroga contrattuale per sette anni, grazie alla decisione della ministra Cancellieri, che pure gode di buona stampa e di consensi trasversali. Nel frattempo, i detenuti vivono come bestie, con cibo insufficiente e con esborsi da strozzinaggio per il sopravvitto. Vicende come queste, che sono un colpo mortale all’attendibilità istituzionale, rendono impossibile convincere la popolazione detenuta che la mission del carcere sia davvero la loro risocializzazione. Perché gli esempi che si danno non sono particolarmente edificanti. Anche questo spreco di denaro rischia di rappresentare per i detenuti un incentivo a sentirsi “vittime” e, quindi, a non ascoltare neppure le sirene del reinserimento. Noi abbiamo vissuto in questa lunga stagione, che dura da lustri, di deserto di pensiero, una vera tabula rasa. Parlare di carcere può consentirci di ricominciare a ragionare sul diritto, sui diritti umani, sulla Costituzione, sul garantismo, sul codice penale. Significa, cioè, cambiare registro e vocabolario. Così scrivevo sette anni fa. Ora ho scoperto che dopo avere arricchito Telecom, l’appalto è stato aggiudicato a Fastweb. Pare però che i braccialetti rappresentino ancora l’oggetto del desiderio e subiscano la sorte delle mascherine. Intanto i detenuti rimangono in carcere. Al sicuro. Nelle prigioni impera la barbarie di Stato: l’amnistia è il minimo di Vincenzo Maiello* Il Riformista, 26 marzo 2020 Da tempo i detenuti vivono in condizioni inaccettabili, ma il governo ha scelto di ignorare i suoi doveri costituzionali persino di fronte all’emergenza. Bisogna dirlo: anche a mettercela tutta, il nostro governo proprio non riesce a liberarsi della camicia di forza di una visione arcaica e inflessibilmente rancorosa e vendicativa della pena, che non conosce deroghe, fosse anche solo attenuative e flessibilizzanti, neppure in situazioni straordinariamente calamitose, come quella che ha investito il Paese e che ha già determinato la sospensione del corso normale della vita sociale e la più imponente limitazione di massa dei diritti fondamentali conosciuta dalla storia repubblicana. A confermarlo, in termini francamente imbarazzanti, è - come sottolineato dai più - l’ineffabile scelta di legare il beneficio penitenziario della detenzione domiciliare alla disponibilità dei dispositivi elettronici di controllo (alias braccialetti), di cui è nota (e dovrebbe esserlo anche nei luoghi delle decisioni di governo) una disponibilità in larga misura insufficiente finanche per le ordinarie esigenze di gestione applicativa delle misure cautelari. La manifesta inadeguatezza della scelta ha penosamente immiserito la qualità della risposta politica a una vicenda - quella del sovraffollamento carcerario e della esplosività del connesso rischio epidemico - che fa impallidire l’ethos dello Stato costituzionale che, non a caso, dedica all’incolumità fisica e morale del detenuto (a qualsiasi titolo) le forme più intransigenti di tutela (art. 13, comma 4). Si rammenta troppo poco che l’unico obbligo espresso di ricorso alla sanzione penale che la Costituzione pone a carico del legislatore riguarda le condotte istituzionali violente in danno dei detenuti: segno che la condizione di vittima del detenuto integra il supremo disvalore nella logica costituente dello Stato di diritto, nel cui patrimonio genetico primeggiano le istanze di protezione dell’habeas corpus. Oggi, le condizioni di vita all’interno dei penitenziari segnalano una inadeguatezza strutturale a garantire elementari condizioni di rispetto per le esigenze di difesa dei beni biofisici dei detenuti, trasformando la pena nel rovescio simmetrico di quella offerta di risocializzazione che dovrebbe farne oggetto di una prestazione virtuosa dello Stato costituzionale. Una situazione così gravemente eccezionale meriterebbe di essere affrontata e gestita col ricorso al più classico e tradizionale degli strumenti storicamente utilizzati per riportare a normalità di funzionamento le istituzioni della giustizia penale, vale a dire una misura di clemenza generale. Essa avrebbe il merito di deflazionare la popolazione detenuta con una decisione che vedrebbe di nuovo protagonista la politica. Non è un caso che la prospettiva del ricorso a un provvedimento di remissione sanzionatoria (amnistia e/o indulto) - dopo esser stata affacciata come la più naturale soluzione del problema - sia stata d’un colpo accantonata in coincidenza con la fuoriuscita del parlamento dalla gestione dell’emergenza sanitaria. Invocare un provvedimento di clemenza riveste allora anche il significato civile dell’appello alla normalità costituzionale e alla sua pretesa di affidare le decisioni in tema di istituzioni e giustizia al confronto parlamentare. Oltre a corrispondere a un’esigenza di rivitalizzazione dello Stato legislativo di diritto, una discussione d’assemblea sulle questioni coinvolte in una decisione di clemenza collettiva porterebbe allo scoperto unità e divisioni sulle idee di fondo di un’autentica cultura costituzionale dei diritti e, in particolare, su quel che resta della lezione di solidarietà e di umanità che (dovrebbe) trasmetterci) la disposizione sulla funzione rieducativa della pena e sul divieto di trattamenti che offendono il senso profondo della dignità. Consentirebbe di conoscere il pensiero del nostro Parlamento sulla realtà carceraria del Paese, verificando se per il nostro legislatore costituisca una situazione compatibile con gli standard, costituzionali e convenzionali, di tutela dei diritti umani e se ne rappresenti una flagrante violazione; e se, per il futuro, esso non ritenga che occorra voltare pagina, magari riprendendo i risultati del lavoro compiuto negli Stati generali dell’esecuzione durante la scorsa legislatura. In questo caso, il varo di una misura di clemenza generale - oltre alla portata interruttiva di una situazione di intollerabile illegalismo costituzionale - avrebbe il significato di anticipare in parte gli effetti di una futura riforma, sia pure abbozzata solo nelle sue direttrici di fondo. Insomma, dobbiamo essere tutti consapevoli che, nella terribile esperienza che stiamo vivendo, in gioco non è solo la salute delle persone, ma anche quella del modello di regolazione politica della convivenza consegnatoci dal cammino giuridico e istituzionale della Modernità. *Docente di Diritto penale - Università Federico II di Napoli “Il Cura Italia non basta a risolvere il sovraffollamento nelle carceri”, dicono i giuristi di Augusto Romano Il Foglio, 26 marzo 2020 “Nel medioevo, quando c’era la peste, i prigionieri venivano liberati, ed è sempre stato così nella storia dell’umanità. Fino ad oggi”. Parola di Guido Camera, membro del consiglio direttivo di Italiastatodidiritto, associazione di giuristi impegnati nella difesa dei valori costituzionali, che ha lanciato un appello al Parlamento affinché intervenga per tutelare il diritto alla salute delle persone recluse e del personale carcerario. Partiamo dai numeri per inquadrare la situazione: lo stato di sovraffollamento delle case circondariali e degli istituti di pena è un fattore patologico del nostro sistema penitenziario, al 30 novembre del 2018, a 60.002 detenuti corrispondevano 45.983 posti (al netto di 4.600 posti inagibili e inutilizzati), con un sovraffollamento nazionale pari al 130,4%. Il numero dei detenuti è cresciuto nel 2019, senza che siano aumentati i posti a disposizione nelle carceri: al 29 febbraio 2020, infatti, i carcerati erano 61.230. Occorre inoltre considerare che 94 istituti penitenziari, nel 2018, hanno registrato un sovraffollamento oscillante tra il 120,7% e il 204,2%. In questi 94 istituti sono presenti 37.506 detenuti in 26.166 posti con un sovraffollamento medio del 143,3%, sicché il 62,5% della popolazione detenuta vive in un sovraffollamento di gran lunga superiore alla media nazionale. Più del 33% dei detenuti è in attesa del primo giudizio o della definizione del giudizio di appello. Tempi che sono destinati ad allungarsi in conseguenza della sospensione delle attività giudiziarie. Condizioni che hanno provocato un aumento dei suicidi: tra il 2013 e il 2016 erano stabilmente al di sotto del numero di 50 all’anno, ma sono diventati 52 nel 2017 e 63 nel 2018. “Le misure adottate dal governo con il decreto Cura Italia - spiega l’avvocato Guido Camera - non sembrano purtroppo in alcun modo sufficienti a risolvere tali problemi e nemmeno a garantire adeguatamente il diritto alla salute del personale di custodia e dei detenuti. La Corte europea dei diritti dell’Uomo, in una storica sentenza del 2013, ha chiaramente stabilito che quando lo stato non è in grado di garantire a ciascun detenuto condizioni detentive conformi all’articolo 3 della Convenzione, la Corte lo esorta ad agire in modo da ridurre il numero di persone incarcerate, in particolare attraverso una maggiore applicazione di misure punitive non privative della libertà. A quest’ultimo riguardo, la Corte è colpita dal fatto che il 40% circa dei detenuti nelle carceri italiane siano persone sottoposte a custodia cautelare in attesa di giudizio”. “Il decreto Cura Italia - afferma il prof Aldo Travi- interviene, in materia penitenziaria, in due modi: il primo intervento è strettamente economico e consiste nello stanziamento di 20 milioni di euro, principalmente destinati all’attività di ristrutturazione delle carceri danneggiate dalle rivolte; il secondo consiste in un ampliamento delle norme sullo svuota-carceri del 2010”. “Non sono previsti - afferma il professore Eugenio Bruti Liberati - interventi e fondi specifici per garantire il diritto alla salute dei detenuti non destinatari dei provvedimenti di scarcerazione, che rimarranno un numero molto significativo. In concreto, i detenuti per reati di minore gravità che hanno meno di 18 mesi di pena da scontare lo faranno agli arresti domiciliari (si tratta di una parte esigua della popolazione carceraria, visto che il decreto esclude molte categorie di detenuti, tra cui i delinquenti abituali, che spesso sono tossicodipendenti); se però il residuo di pena è superiore ai 6 mesi, dovranno indossare il braccialetto elettronico, ovvero uno strumento di controllo a distanza che in astratto potrebbe essere considerato efficiente ma la cui carenza nel nostro sistema è da tempo nota a tutti gli operatori del settore, e che il decreto Cura Italia non risolve”. “Le nuove misure adottate - spiega il professor Fabrizio Cassella - dovrebbero riguardare circa 3 mila detenuti: dunque la situazione di sovraffollamento carcerario rimarrà ancora allarmante, dato che i carcerati rimarranno circa 58 mila, a fronte di circa 45 mila posti. Ma, soprattutto, in assenza di interventi organici sul sistema, è destinata a tornare uguale (se non a crescere) in tempi purtroppo brevi. Senza contare che l’assenza di braccialetti elettronici - ovvero la condizione necessaria per scarcerare chi ha più di 6 mesi di detenzione ancora da espiare - rischia di ridurre significativamente il numero degli scarcerati effettivi”. “Le misure adottate nel decreto Cura Italia - concludono i giuristi di Italiastatodidiritto - non appaiono sufficienti a garantire i diritti costituzionali dei detenuti, definitivi o in attesa di giudizio che siano, e non è una differenza da poco, in uno stato dove la presunzione di innocenza è scolpita nella Costituzione. Per questi ultimi, peraltro, il decreto Cura Italia non prevede alcuna disposizione che tuteli la loro salute, come avrebbe potuto fare, ad esempio, il ricorso agli arresti domiciliari anche in fase cautelare, rovesciando l’attuale sistema in cui viene sempre incentivato il ricorso al carcere come unico strumento coercitivo idoneo a garantire le esigenze cautelari. È importante che il governo e le forze politiche agiscano in questa situazione d’urgenza, ma soprattutto che il ministro della Giustizia riattivi il percorso svolto dagli stati generali dell’esecuzione penale, per giungere a una riforma complessiva dell’ordinamento penitenziario che consenta l’effettivo rispetto di tutti i princìpi fondamentali della Costituzione e della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo”. Covid 19: il diritto alla salute nelle carceri sovraffollate di Fabio Viglione* agenziaradicale.com, 26 marzo 2020 Le parole del Presidente della Repubblica, in risposta al recente appello da parte di detenuti del Nordest, non possono non invitare tutti ad una immediata presa di coscienza. Il tema delle “carceri sovraffollate e non sempre adeguate a garantire appieno i livelli di dignità umana”, oggi si innesta all’interno della complicatissima gestione dell’emergenza epidemiologica. Ed è corretto partire proprio dai numeri. I più recenti rilevamenti - raccolti dal Garante Nazionale dei detenuti - ci segnalano la presenza, nelle strutture di reclusione, di oltre 59.000 detenuti, rispetto alla capienza regolamentare di meno di 51.000. Il tema delle “carceri sovraffollate e non sempre adeguate a garantire appieno i livelli di dignità umana”, oggi si innesta all’interno della complicatissima gestione dell’emergenza epidemiologica. Ed è corretto partire proprio dai numeri. I più recenti rilevamenti - raccolti dal Garante Nazionale dei detenuti - ci segnalano la presenza, nelle strutture di reclusione, di oltre 59.000 detenuti, rispetto alla capienza regolamentare di meno di 51.000. Non si tratta di uno “scarto” di poco momento, dovendo considerare la necessità di offrire il rispetto di spazi vitali adeguati come primo livello di praticabilità di una funzione costituzionale della sanzione. Uno spazio vitale che nutre di significato il concetto di dignità umana. Parliamo, sia chiaro, di circa 7 metri quadri da assicurare a ciascun detenuto, non di quanto talvolta si favoleggia da parte di chi ama attingere a rappresentazioni caricaturali nella evocazione della esecuzione delle pene nel nostro Paese. Peraltro, in alcuni penitenziari, il sovraffollamento raggiunge percentuali elevatissime. Non è possibile, dunque, accettare che il sovraffollamento dei penitenziari così come le diffuse criticità igienico sanitarie vengano vissute come la fisiologia di un luogo in cui, tutto sommato, le condizioni di normalità debbano considerarsi una fin troppo generosa concessione. Certo, mi rendo conto che, si tratta, prima di tutto, di un approccio culturale. Un approccio nel quale se non si pone al centro l’uomo e la sua dignità si finisce per trattare queste questioni con grande superficialità. Ben a prescindere dalla funzione risocializzante della pena che ancora, a quanto pare, è presente nella nostra Costituzione. Troppe volte frasi come “bisogna buttare la chiave” o “deve marcire in galera” vengono pronunciate da interlocutori politici con i quali si è chiamati a fare i conti. Interlocutori che spesso sembrano più interessati ad aumentare il numero dei “like” piuttosto che a trovare soluzioni che rischiano l’impopolarità. Siamo sempre alle solite: il tema delle carceri riguarda un numero esiguo di persone, è scivoloso, certamente relegabile a dibattiti di secondo piano e trafiletti. A ciò aggiungiamo una visione rigidamente “carcerocentrica” dei campioni del populismo che sono riusciti a saldare, nell’immaginario collettivo, il concetto di “certezza della pena” con quello di “più carcere. Tentazioni neo-sicuritarie che sembrano sposarsi alla perfezione con un giustizialismo forcaiolo e muscolare che ha fatto palestra sui social network. Le più recenti riforme ne sono la plastica dimostrazione. A cominciare dalla ostatività per le pene alternative al carcere nei confronti dei condannati per una serie di reati contro la pubblica amministrazione. Su questi temi, purtroppo, stiamo tornando indietro e l’informazione, nella sua gran parte, segue il sensazionalismo provocato dalla enfatizzazione di fatti di cronaca che sembrano dare conferma della impossibilità di prevenire e reprimere se non attraverso lunghe detenzioni carcerarie. In questo piano di semplificazione, quasi mai si offrono dati sulla recidiva in rapporto alle modalità di esecuzione. Proprio i dati che, al contrario, dovrebbero orientare le scelte e formare la sensibilità sul tema. In realtà numerosi studi dimostrano la minore incidenza di recidiva per chi sconta la pena con misure alternative al carcere. Certo, al frastuono provocato dal delitto commesso da un condannato in espiazione alternativa si contrappone il silenzio di tante vite che si rimettono in carreggiata completando un percorso di reinserimento esterno. Ma questa, purtroppo, è storia antica. Oggi l’emergenza è rappresentata dalla necessità che vengano assicurate le condizioni indispensabili affinché nelle strutture carcerarie non si diffonda in modo esteso l’insidioso virus. Ora c’è un’emergenza nell’emergenza, ed è necessario agire presto anche a prescindere, a mio avviso, dalle singole visioni e concezioni in ordine alla sanzione penale. Dalla sua funzione alle ricadute sulla comunità. I dibattiti potranno essere ripresi quando si ritornerà alla normalità. Adesso credo sia necessario ampliare gli spazi disponibili all’interno delle strutture per avere la possibilità, in concreto, di isolare le persone consentendogli di essere opportunamente distanziate. Ad oggi, le misure previste dal Governo non sembrano sufficientemente adeguate a fronteggiare l’emergenza. Il decreto incide solo sulla posizione dei detenuti chiamati a scontare un residuo pena di diciotto mesi e prevede l’utilizzo degli strumenti di controllo a distanza (braccialetto elettronico) per la sanzione domiciliare. In questo senso, molte perplessità persistono se solo guardiamo alle difficoltà che da tempo si sono manifestate in ordine alle disponibilità degli apparati elettronici di controllo a distanza. Vincolare la detenzione domiciliare alla disponibilità del braccialetto elettronico significa rischiare concretamente l’inapplicabilità della misura. Quanto meno nell’immediato. È fin troppo evidente come i tempi con i quali si diffonde il virus ben potrebbero essere incompatibili con quelli di effettivo reperimento degli strumenti elettronici. Spero vengano ascoltate le sollecitazioni che da più parti stanno pervenendo al Governo, dalla magistratura, dall’avvocatura, dal mondo accademico, per affrontare in modo più efficace e rapido l’emergenza. Proprio l’Unione delle Camere Penali, ha da tempo molto opportunamente proposto una serie di interventi specifici e urgenti. Ma sembra ci sia una titubanza e un silenzio troppo prolungato. Il tempo scorre. C’è, poi, da augurarsi che si mettano da parte al più presto le vocazioni alla demagogia che già stanno facendo pervenire la melodia di antichi refrain, all’indomani dell’annunciato decreto. Servono provvedimenti immediati ed efficaci per assicurare il piano di prevenzione. Anche per evitare che si intervenga in ritardo in una situazione non più gestibile neanche per gli operatori sanitari. Parliamo di un problema che riguarda, come è evidente, anche la tutela di tutto il personale impegnato quotidianamente all’interno delle strutture. Ed è proprio guardando ai diritti in generale ed al diritto alla salute, collettiva e individuale, che non possiamo mai dimenticare un principio di fondo. Un principio ben presente anche nelle parole inequivoche e puntuali del Presidente della Repubblica. La condizione che caratterizza lo status di detenuto comporta sì la perdita della sua libertà ma non può mai limitare il suo diritto alla salute. Meno che mai la sua dignità. Ed allora, in questi giorni, in piena emergenza sanitaria, guardiamo a loro come esseri umani, riconoscendogli quel diritto alla salute che può concretamente essere tutelato nella nostra democrazia solo se inscindibilmente saldato al principio di uguaglianza. *Avvocato Le carceri sovraffollate con il Coronavirus sono una vera “bomba” per l’epidemia di Antonio Salvati globalist.it, 26 marzo 2020 Mattarella ha chiesto il “massimo impegno” su una situazione allarmante: numeri disastrosi, il 30% attende ancora la condanna definitiva. Qualche rimedio ci sarebbe. Sergio Mattarella ha chiesto il “massimo impegno” per affrontare la “difficile situazione” delle carceri. Il sovraffollamento, avverte, non assicura la dignità e danneggia sia i reclusi che gli addetti. Il presidente della Repubblica interviene sulla questione carceraria rispondendo - con una lettera al Gazzettino - rispondendo all’appello che hanno rivolto a lui e al Papa i detenuti di Venezia, Padova e Vicenza. I detenuti non hanno solo lamentato le restrizioni imposte per l’epidemia sui colloqui con i familiari, ma anche annunciato una colletta a favore degli ospedali veneti. Da anni le condizioni di detenzione nelle carceri italiane sono caratterizzate, seppur considerando le differenze territoriali, da una situazione di grave sovraffollamento e da preoccupanti carenze igienico-sanitarie. È una crisi che proviene da lontano. Le cause sono diverse e tra queste spicca “una obsoleta ed insostenibile visione carcerocentrica”, che spesso preclude l’attuazione di sanzioni diverse dalla pena detentiva, malgrado i numerosi richiami del Cpt (il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti) del Consiglio d’Europa. Il sovraffollamento persiste, nonostante le condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo ed i provvedimenti di deflazione carceraria fin qui adottati, il sovraffollamento permane. Il Ministero della giustizia ci informa che al 29 febbraio scorso i detenuti erano 61.230, e un comunicato del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute indica che al 20 marzo i detenuti sono scesi a 59.132, a fronte di una capienza regolamentare pari a 50.931 posti, con un’eccedenza, dunque, ancora prossima al 20%. In alcuni istituti si arriva ad un’eccedenza vicina al 90%. Al sovraffollamento - denuncia l’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale - contribuisce la presenza di detenuti in custodia cautelare - misura che dovrebbe costituire l’extrema ratio, trattandosi di persone che, in base all’art. 27 co. 2 della nostra Costituzione, devono presumersi non colpevoli fino alla condanna definitiva: essi, al 29 febbraio scorso, rappresentavano poco più del 30% della popolazione penitenziaria. L’emergenza coronavirus rischia di innescare quella che il Ministro degli interni ha definito una “bomba epidemiologica”, con il serio rischio di mettere gravemente a repentaglio la salute non solo dei detenuti, ma dello stesso personale penitenziario - già messo a dura prova anche a causa delle carenze di organico - e della collettività. Le carenze dei servizi igienico-sanitari trasformano il carcere in un ambiente patogeno. L’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale giudica insufficienti i provvedimenti recentemente adottati dal Governo. Il decreto legge 8 marzo 2020, n. 11 dispone che i colloqui con i detenuti avvengano solo in via telefonica o ‘da remoto’ e che la concessione dei permessi-premio e della semilibertà possa essere sospesa fino al 31 maggio 2020. Tale provvedimento - sottolineano i giuristi penali - si limita dunque a “chiudere” il carcere, “senza poterlo tuttavia rendere “impermeabile”, dal momento che ogni giorno vi transitano tantissime persone, dal personale civile alle forze dell’ordine”. Con il d.l. 17 marzo 2020, n. 18, invece, si dispone, che salvo eccezioni per alcune categorie di reati o di condannati, ai sensi della legge n. 199/2010 e fino al 30 giugno 2020 la pena detentiva non superiore a 18 mesi, anche se parte residua di maggior pena, sia eseguita, su istanza, presso il domicilio. Il recente d.l. n. 18/2020, seppur va nella giusta direzione, non risulta idoneo a realizzare una significativa riduzione della popolazione carceraria, se si considera che al 15 febbraio 2020 le persone in semilibertà erano 1039. Non è questo il tempo delle recriminazioni, sottolinea giustamente il professor Glauco Giostra in un articolo apparso recentemente sulle pagine di Avvenire. Servono immediate contromisure per arginare il contagio: distanze, igiene personale, sanificazione dell’ambiente per non trasformare il carcere in una sorta di stabulario. Non si dica, come pure si dice (spesso per puro sciacallaggio politico), che in tal modo si premierebbero le violenze delle scorse settimane. I provvedimenti sono da prendere per necessità, non certo perché ci sono state le violenze, da condannare senza ambiguità. Non vi è un’unica soluzione, come pure in questo tempo di eccesso di semplificazioni tanti sarebbero portati a suggerire. Prima che la situazione diventi ingovernabile o addirittura esplosiva si potrebbe innanzitutto intervenire sul flusso in entrata - propone giustamente Giostra - differendo (ad esempio, di sei mesi) l’emissione dell’ordine di esecuzione delle condanne non molto gravi; “quanto meno di quelle sino a quattro anni, rispetto alle quali, di norma, già ora i condannati hanno diritto di attendere in libertà l’esito della loro richiesta di fruire di una misura alternativa al carcere. Si alleggerirebbe nell’immediato il carico della magistratura di sorveglianza e si eviterebbe il rischio che i cosiddetti ‘nuovi giunti’ introducano il contagio negli istituti”. Per agevolare il flusso in uscita, invece, vi sono alcuni rimedi, in mancanza di un indulto, per il quale non ci sono né i tempi, né i presupposti politici. Una dimissione selettiva dei condannati si può ottenere con l’ampliamento della possibilità di accesso alle misure alternative al carcere, affidando alla magistratura di sorveglianza l’accertamento della sussistenza dei presupposti. Per ovviare all’intasamento del lavoro della magistratura di sorveglianza - che deve valutare i detenuti meritevoli di un credibile percorso rieducativo con conseguente dilatazione dei tempi decisionali - si potrebbe far riferimento alle valutazioni che la magistratura di sorveglianza ha già espresso nel periodo che ha preceduto l’attuale tsunami socio-sanitario. Si potrebbe - spiega Giostra - “prevedere una sostanziosa, ulteriore riduzione di pena per chi nell’ultimo periodo (due anni? tre anni?) ne è già stato riconosciuto meritevole di liberazione anticipata ai sensi dell’art. 54 della Legge sull’ordinamento penitenziario. Si potrebbe anche immaginare di consentire a coloro che versano in tale condizione e che sono relativamente prossimi alla dimissione di “monetizzare” immediatamente, ad esempio, i tre mesi di riduzione meritati nell’ultimo anno, godendo subito di questa sorta di parentesi di libertà, anziché di una anticipazione del fine pena. Si potrebbe consentire ai semiliberi (e agli ammessi al lavoro all’esterno), che da congruo tempo non hanno mai dato problemi nel loro andirivieni penitenziario, di non rientrare in carcere la sera, ma di trascorrere la notte, con obbligo penalmente sanzionato, nel proprio domicilio o in una struttura adeguata”. Bisogna evidentemente muoversi subito, con la chiara consapevolezza che ancora una volta i provvedimenti che fanno bene alla popolazione penitenziaria fanno bene alla società tutta. A cominciare dalle donne e dagli uomini della polizia penitenziaria che vive a stretto contatto con la realtà carceraria, svolgendo le loro mansioni in condizioni difficilissime per il degrado e l’affollamento dei nostri penitenziari. Impariamo dalla Francia, che ha subito mandato a casa 5 mila detenuti di Tiziana Maiolo Il Riformista, 26 marzo 2020 Una riunione in collegamento telefonico con i soggetti coinvolti, magistrati, cancellieri e i responsabili dell’Amministrazione Penitenziaria, compresi gli educatori e i rappresentanti sindacali, e la decisione è presa: 5.000 detenuti usciranno dal carcere e andranno agli arresti domiciliari, senza braccialetto elettronico. Il ministro Guardasigilli che ha assunto l’iniziativa non si chiama Bonafede ma Nicole Belloubet, e i carcerati che andranno a casa non sono italiani ma francesi. Anche oltralpe gli istituti penitenziari sono sovraffollati, 70.000 persone occupano il posto di 61.000, e la consapevolezza, con grave ritardo, anche da parte del governo Macron, del pericolo di contagio dell’epidemia da coronavirus, ha costretto all’allarme sui luoghi di reclusione. Immediatamente gli organismi di difesa dei diritti dei detenuti, ma anche molti magistrati e avvocati hanno richiesto il “massiccio” svuotamento delle carceri, giustificato con la situazione emergenziale. E già da venerdì scorso il ministro Belloubet aveva dichiarato che avrebbe preso provvedimenti nei confronti di eventuali detenuti malati o che stessero scontando un periodo di fine pena. Ma il primo concreto provvedimento del Guardasigilli è stata l’immediata disposizione agli uffici giudiziari di non eseguire le pene detentive “brevi” per non sovraccaricare le carceri, oltre a tutto con ingressi di persone che potrebbero essere inconsapevoli portatori del virus. Anche perché, proprio come in Italia, cinque detenuti sono già risultati positivi al Covid-19. Infine, nella giornata di lunedi, la riunione ad alto livello con tutti i soggetti dell’amministrazione della giustizia, comprese le organizzazioni sindacali, molto disponibili ad alleggerire un sovraffollamento che pesa anche sui loro iscritti che lavorano all’interno degli istituti di detenzione. Il provvedimento è inserito in una recente legge sull’emergenza sanitaria e prevede innanzi tutto la semplificazione delle procedure per alleggerire il sovraffollamento, con la scarcerazione immediata di tutti i condannati con un residuo pena di due mesi. Sono esclusi solo i condannati per reati di terrorismo o di violenza all’interno della famiglia. Una piccola cosa, ma qualcosa di immediato, anche se non si allarga ai detenuti in attesa di giudizio, che comunque in Francia sono in numero molto inferiore rispetto all’Italia. C’è anche un intervento di semplificazione sulla liberazione anticipata, che consente ai detenuti che abbiano scontato due terzi di una condanna complessiva a cinque anni, di trascorrere l’ultimo terzo della pena ai domiciliari. Non è previsto per nessun carcerato l’impiego del braccialetto elettronico, proprio per l’urgenza di applicare in tempi rapidi il provvedimento ministeriale e per la velocità con cui nel frattempo cammina il virus. Il riferimento al meccanismo ci ricorda non solo il provvedimento fantasma del nostro ministro Bonafede che, evocando l’uso di qualcosa che non esiste, ha di fatto vanificato quel che aveva scritto sulla carta, ma anche la storia scandalosa di un vero imbroglio politico. È lungo l’elenco dei ministri degli interni che, a partire dalla prima sperimentazione di Bianco nel 2001, investirono energie e denaro pubblico per uno strumento forse un po’ lesivo dei diritti individuali, ma utilissimo per il singolo detenuto e per sfollare un po’ l’asfissia delle nostre carceri. Dopo i primi duecento milioni investiti dal ministro Bianco, ne arrivano altri cento da parte del successore Pisanu, e poi 63 da Annamaria Cancellieri e infine ancora 45 per un bando da 12.000 braccialetti promosso dal ministro Minniti nel 2017. Ma ci sono questi braccialetti? Non più di duemila, pare, e non si hanno più notizie di quell’ultimo inutile bando. Sarebbe bene che qualcuno dicesse la verità, magari il ministro dell’interno attuale, su quell’imbroglio politico. A meno che la verità vera non sia sempre la solita: qualunque procedura che sa troppo di processo accusatorio, di prova formata in dibattimento, di carcere come ultima ratio, non è accettata dalla corporazione dei magistrati, quindi nei fatti viene boicottata. Si tolga quindi immediatamente dal decreto Bonafede il riferimento al fantasma-imbroglio del braccialetto, si raccolgano le parole sagge del Presidente Mattarella e di papa Francesco, che hanno mostrato sensibilità nei confronti di chi, essendo rinchiuso, ha diritto di avere più paura di noi tutti rispetto al contagio. E si aprano le porte delle carceri almeno a qualche migliaia di prigionieri, come stanno facendo in Francia e in altri Paesi del mondo. Aumentano gli istituti attrezzati per videochiamate tra detenuti e familiari di Antonella Barone gnewsonline.it, 26 marzo 2020 Le videochiamate, usate in tempi di Coronavirus anche dai cittadini meno “social”, sono ormai concesse ai detenuti in quasi tutti gli istituti penitenziari per supplire alla mancanza di colloqui “in presenza” con i familiari imposta dalle misure di prevenzione del contagio. Un’opportunità consentita già da una circolare del 2015 del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) che aveva aperto la strada ad alcune sperimentazioni, ma che la diffusione del Covid-19 ha reso una forma di comunicazione ordinaria. La piattaforma individuata per le garanzie di sicurezza offerte è l’applicazione Skype for business. Ma una soluzione alternativa è arrivata dalla sperimentazione dell’uso della piattaforma Cisco Webex - normalmente usata per le videoconferenze e la collaborazione in ambito aziendale - avviata nel carcere di Bollate, struttura che ospita ormai da vent’anni la Networking Academy Cisco. Una realtà di alto livello formativo frequentata da oltre mille detenuti e detenute, molti dei quali hanno conseguito certificazioni utili per il reinserimento socio-lavorativo una volta terminata la pena. La sperimentazione si è rivelata funzionale alle esigenze di comunicazione e di sicurezza, grazie alla presenza di lunga data dell’azienda negli istituti penitenziari e alla conoscenza delle particolari caratteristiche di queste realtà. Cisco Webex, disponibile con licenza gratuita da scaricare online, si acquisisce in pochi minuti su qualsiasi dispositivo, non grava troppo sulle infrastrutture tecnologiche presenti negli istituti di pena ed è di facile e utilizzo anche per i familiari dei detenuti. L’applicazione è ora in uso in ben 30 istituti penitenziari, da quello romano di Regina Coeli a quello di San Vittore a Milano, dalla casa circondariale di Aosta a quella di Gela in Sicilia. Si tratta di un progetto che è stato possibile realizzare in breve tempo, grazie anche alla disponibilità della direttrice di Bollate Cosima Buccoliero, all’azione della Cooperativa Universo creata da Lorenzo Lento, ‘storico’ istruttore della Networking Academy a Bollate, e al contributo dell’agente della Polizia Penitenziaria Costantino Minonne, assistente capo coordinatore e appassionato d’informatica. Minonne, formatosi alla Cisco Academy (“fuori orario di servizio” come specifica lui), ha svolto un ruolo chiave per permettere di replicare il progetto di Bollate in altri istituti. L’agente ha fatto da tramite formativo per i colleghi dei primi trenta istituti che già si avvalgono della piattaforma: “L’impegno è quello di fornire assistenza, indicazioni in caso di dubbi e anche di accertarmi del funzionamento effettivo negli istituti in cui è stato implementato il sistema”. Grazie a Costantino e ai suoi colleghi, sempre più detenuti ogni giorno potranno non solo parlare e vedere i loro familiari, ma ritrovare scorci di ambienti casalinghi, dettagli domestici magari dimenticati. “È consentito inquadrare ambienti dell’abitazione, ma nel rispetto delle norme di sicurezza - spiega Costantino - che per le videochiamate sono le stesse che si utilizzano per i colloqui visivi. Il familiare inquadrato mostra il documento e dalla postazione di controllo l’operatore verifica che si tratti di una persona autorizzata ai colloqui. La vigilanza è sempre scrupolosa e se compaiono persone non autorizzate, la videochiamata viene subito bloccata”. La presenza di Costantino in carcere, anche in tempo di Coronavirus, è ormai divenuta indispensabile. “I problemi veri sono quelli con la mia famiglia che non mi vede più - conclude sorridendo - per il resto non corro rischi di contagio, perché lavoro da solo in una stanza in compagnia solo dei miei monitor”. Sequestro, nel concorso tra dichiarazione fraudolenta e riciclaggio, sì alla sommatoria dei profitti di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 26 marzo 2020 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 25 marzo 2020 n. 10649. In caso di concorso tra dichiarazione fraudolenta e riciclaggio via libera alla sommatoria, ai fini del sequestro, tra il profitto delle somme provento del reato di dichiarazione fraudolenta e quelle riciclate. La Corte di cassazione, con la sentenza 10649 depositata ieri, respinge la tesi della difesa della ricorrente, secondo la quale il profitto confiscabile non poteva essere pari all’intero valore del profitto derivante dal reato presupposto, ma andava “tarato” sul vantaggio economico ottenuto attraverso le condotte di sostituzione, trasferimento o impiego in attività economiche o finanziarie. Alla ricorrente era stato contestato il reimpiego e il riciclaggio del denaro delle somme derivanti da altri reati, commessi dal marito coindagato, attraverso le dichiarazioni fiscali fraudolente. Reati che avevano fatto scattare il sequestro di beni che risultavano nella piena disponibilità della coppia. Per la Cassazione la sommatoria dei profitti è legittima. I giudici chiariscono, infatti, che nel caso specifico il profitto del reato presupposto e dunque relativo alle dichiarazioni fraudolente, andava individuato nelle somme che il coindagato aveva sottratto all’Erario e distratto dalle Srl in favore della moglie. Mentre il profitto del riciclaggio, attribuito alla ricorrente, stava in quanto era derivato all’indagata dall’impiego delle somme nelle sue attività economiche. Per la Suprema corte non c’è dubbio sull’esistenza di più profitti confiscabili e dunque della correttezza del criterio del “cumulo” seguito dal Tribunale della libertà. Riciclaggio, il giudice non può escludere il dolo anche solo eventuale di manager esperti di Paola Rossi Il Sole 24 Ore Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 25 marzo 2020 n. 10638. Il processo per l’accusa di riciclaggio - nell’ambito delle truffe ai danni delle controllate di Banca Carige dal 2004 al 2015 - contro Davide Enderlin, uomo d’affari di un’influente famiglia in Svizzera, è da rifare. E ieri - con la sentenza n. 10638 - la Cassazione ha depositato le motivazioni dell’annullamento, pronunciato il 30 gennaio scorso, della decisione assolutoria della Corte di appello di Milano. La Cassazione sollecitata col ricorso della Procura e delle parti civili (allora Carige Assicurazioni Spa e Carige Nuova Vita Spa) ha bocciato il mancato riscontro - da parte dei giudici di appello che hanno ribaltato la condanna - del dolo anche solo eventuale, nel delitto di riciclaggio, con cui avrebbe agito l’imputato promuovendo e partecipando alle compravendite a prezzi gonfiati di immobili o di quote societarie, realizzate dai vertici apicali delle due controllate di Carige Banca Spa e dei cui proventi avrebbero profittato, grazie anche all’opera di reimmissione del denaro in circuiti internazionali ad opera di Enderlin. Dolo anche eventuale - La Cassazione ha accolto in pieno il ragionamento del Pm che riteneva ingiustificata l’esclusione della conoscenza o anche solo del dubbio della provenienza illecita del denaro oggetto di riciclaggio, da parte di un amministratore di società e consulente di affari del cabotaggio di Enderlin. Secondo la cassazione non si potevano svalutare alcuni sintomi dell’aver agito con dolo e con finalità decettive: il ruolo apicale di Enderlin in società che avevano partecipato alle compravendite, poste in essere ai danni delle controllate Carige, in relazione all’obbligo legato alla carica sulla conoscenza dell’origine delle somme gestite e alla materia dell’antiriciclaggio; l’elevata competenza tecnica; la signoria mostrata nelle operazioni sospettate di riciclaggio; l’ingente importo delle somme investite; la particolare complessità e accuratezza delle operazioni nel mirino dei giudici; la “veloce” liquidazione di una delle società coinvolte nelle compravendite e la destinazione finale del denaro, inizialmente incamerato dalle società venditrici, ai manager delle società Carige condannati per truffa e appropriazione indebita. Infine, per la Cassazione, chiaro sintomo della conoscenza da parte di Enderlin della provenienza illecita del denaro, impiegato nelle diverse operazioni sub iudice, sta nel fatto che in un caso la sua partecipazione alla truffa nei confronti delle stesse parti civili era stata accertata per l’acquisto nel 2009 - varato dagli stessi vertici delle società Carige - di partecipazioni “sopravvalutate” della società a lui facente capo. Indebita percezione di erogazioni pubbliche per esenzione da pagamenti dovuti allo Stato Il Sole 24 Ore, 26 marzo 2020 Reati contro la Pa - Indebita percezione di erogazioni a danno dello stato - Conguaglio di indennità economica e maternità - Configurabilità. Le erogazioni di cui all’articolo 316-ter c.p., non devono necessariamente consistere nel conseguimento diretto di una somma di denaro, ben potendo anche consistere nell’esenzione dal pagamento di una somma altrimenti dovuta, ovvero in un risparmio. Situazione corrispondente a quella sottoposta a verifica che aveva ad oggetto somme di danaro falsamente indicate come anticipate dal datore di lavoro in favore del lavoratore, che erano poste a conguaglio in sede di dichiarazione attraverso la predisposizione del modello c.d. “DM10”, modulo per mezzo del quale era stato conseguito, all’atto della presentazione, un immediato risparmio rispetto alle somme dovute quale debito previdenziale. (Nella fattispecie l’indebito è risultato inferiore alla soglia di punibilità di cui al comma 2 dell’art. 316- ter cp con riconduzione del fatto ad illecito amministrativo con conseguente annullamento senza rinvio della sentenza) • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 27 febbraio 2020, n. 7963. Reati contro la Pa - Indebita percezione di erogazioni a danno dello stato - Conguaglio di indennità malattia, assegni familiari e - Soglia di punibilità - Illecito amministrativo. Integra il delitto di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato ex articolo 316-ter c.p., e non quelli di truffa o di appropriazione indebita o di indebita compensazione Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, ex articolo 10-quater la condotta del datore di lavoro che, esponendo falsamente di aver corrisposto al lavoratore somme a titolo di indennità per malattia, assegni familiari e cassa integrazione guadagni, ottiene dall’I.N.P.S. il conguaglio di tali somme, in realtà non corrisposte, con quelle da lui dovute a titolo di contributi previdenziali e assistenziali, così percependo indebitamente dallo stesso istituto le corrispondenti erogazioni. Qualora la somma indebitamente percepita sia inferiore ad Euro 3.999,96 il fatto deve essere ricondotto nell’alveo dell’illecito amministrativo, ex articolo 316-ter, comma 2, c.p., con annullamento senza rinvio della sentenza perché il fatto non costituisce reato. • Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 19 febbraio 2019, n. 7600. Falsa indicazione del datore di lavoro di avvenuta corresponsione di somme a titolo di indennità assistenziali ai lavoratori - Conguaglio delle somme fittiziamente indicate da parte dell’i.n.p.s. - Reato configurabile - Indebita percezione di erogazioni a danno dello stato - Sussistenza. Integra il delitto di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato ex art. 316-ter cod. pen., la condotta del datore di lavoro che, esponendo falsamente di aver corrisposto al lavoratore somme a titolo di indennità per malattia, assegni familiari e cassa integrazione guadagni, ottenga dall’I.N.P.S. il conguaglio di tali somme, in realtà non corrisposte, con quelle da lui dovute a titolo di contributi previdenziali e assistenziali, così percependo indebitamente dallo stesso istituto le corrispondenti erogazioni. • Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 1 dicembre 2016 n. 51334. Falsa indicazione del datore di lavoro di avvenuta corresponsione di somme a titolo di indennità assistenziali ai lavoratori - Conguaglio delle somme fittiziamente indicate da parte dell’I.N.P.S. - Reato configurabile - Indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato. Integra il delitto di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato ex art. 316-ter cod. pen., e non quelli di truffa o di appropriazione indebita o di indebita compensazione ex art. 10-quater D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, la condotta del datore di lavoro che, esponendo falsamente di aver corrisposto al lavoratore somme a titolo di indennità per malattia, assegni familiari e cassa integrazione guadagni, ottiene dall’I.N.P.S. il conguaglio di tali somme, in realtà non corrisposte, con quelle da lui dovute a titolo di contributi previdenziali e assistenziali, così percependo indebitamente dallo stesso istituto le corrispondenti erogazioni. (In motivazione, la S.C. ha precisato che queste ultime possono consistere anche nell’esenzione dal pagamento di una somma altrimenti dovuta, non essendo necessario l’ottenimento di una somma di denaro). • Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 19 aprile 2016, n. 15989. Skype è comunque una boccata di ossigeno, finalmente concessa anche a noi dell’Alta Sicurezza di Gian Marco Avarello* Ristretti Orizzonti, 26 marzo 2020 È triste dirlo, ma è stata la tragedia del coronavirus a far sì che venisse applicata la circolare sui colloqui Skype anche al circuito di Alta Sicurezza del carcere di Parma. Dicono che è in via sperimentale e per rimediare al problema dell’attuale epidemia, fino a quando non ritornerà tutto alla normalità, poi decideranno se lasciarlo o meno; dipenderà da come andrà l’esperimento con gli A.S. Io ho già avuto la possibilità di effettuare un colloquio Skype con la famiglia; forse ancora l’unico in sezione perché avevo il numero corretto e quindi non hanno avuto nessuna difficoltà a farmi collegare; ma so che stanno lavorando per tutti e che, a giorni, anche gli altri compagni avranno la gioia di vedere i loro cari. Non vedevo la mia famiglia (moglie e figlio) da oltre sette mesi e, quando si è acceso il collegamento, ci siamo emozionati tanto, anche perché eravamo tutti preoccupati per la nostra salute e, quindi, emotivamente provati. Purtroppo il collegamento era molto disturbato per causa dell’immagine e della voce dei miei cari a intermittenza; loro vedevano e sentivano me, ed io in modo discontinuo loro. Alla fine mi sono adattato all’inconveniente e ho cercato quantomeno di far gioire della mia immagine e di quanto avevo da dire, rassicurandoli. Naturalmente spero che il prossimo colloquio avvenga con un abbraccio reale e non virtuale perché tutti noi abbiamo bisogno di cose vere, di toccare con mano. Ma poter usare Skype è stata comunque una boccata di ossigeno. *Redazione Ristretti Parma “Noi detenuti e gli agenti siamo esposti al virus” Il Dubbio, 26 marzo 2020 Lettera al Presidente della Repubblica, al governo e alle opposizioni dalla redazione del Giornale “Dietro il Cancello” di Rebibbia N.C. di Roma. A seguito della classificazione di “pandemia” raggiunta da coronavirus nelle carceri cresce la solidarietà tra i detenuti e gli agenti di Polizia penitenziaria. Un evento storico su cui riflettere, l’elemento comune è il valore della vita, paradossalmente la problematica consente l’opportunità di elevare la concezione della vita stessa in tutte le derive che negli ultimi anni sono state indotte dall’assottigliamento dell’etica. Senza etica professioni e mestieri sono ridotti a una recita finalizzata a suscitare consensi, si perdono di vista i valori umani e sociali maturati in Italia, in Europa e nel mondo. Le continue informazioni inerenti alla facile propagazione del virus che per l’indice di mortalità è stato classificato pandemico congiuntamente alle misure preventive da adottare imposte dal governo ci fanno comprendere che in regime di sovraffollamento non è possibile ottemperare a nessuna di esse. I dati indicano 61 mila detenuti in più dell’effettiva capienza, a dispetto dei principi di civiltà e umanità che la detenzione in carcere si prefigge di inculcare nel percorso rieducativo, così come richiesto dal ormai troppo menzionato art. 27 della Costituzione. Disponibilità e “tolleranza”, sono identificativi di buon senso, di spirito d’immedesimazione, e in assenza del virus è stata sempre dimostrata con l’adattamento incondizionato alle fatiscenti condizioni d’igiene e abitabilità che vigono nelle strutture penitenziarie. Le carceri fanno parte dello Stato italiano, a tale proposito chiediamo una se pur blanda verifica ispettiva dei Nas nelle aree di preparazione dei cibi, smaltimento rifiuti, stanze pernottamento, etc., al fine di verificare se in concreto l’aggiunta della diffusione del virus sia la goccia che possa concorrere a esasperare una già difficile condizione di vita. Sul punto, ci si potrebbe soffermare a riflettere, e rammentare ai politici, che nelle carceri Italiane non vige uno stato di diritto, ma lo stesso è affidato al buon senso, e alla discrezionalità di chi gestisce il “mondo carcere”, che grazie all’esperienza maturata, e ai propri principi etici, morali e umani, sopperiscono a numerose deficienze che non sono in linea con gli standard di umana accettabilità e decoro. Interrotta la tematica dei migranti, si è passati stimolare il furore del popolo contro i detenuti, argomenti ormai collaudati i cui temi sono funzionali a raggiungere consensi elettorali e a distrarre le masse dalle problematiche socio economiche che se risolte sarebbero il vero deterrente al crimine. Alla presenza di una condizione di necessità e di urgenza bisogna avere il coraggio e la competenza di adottare provvedimenti seri e radicali, non basta indicare anni di carcerazione come unica soluzione alla reale problematiche. Il fenomeno del sovraffollamento è la conseguenza di problematiche irrisolte alla cui base in primis, vi è l’istruzione che negli anni si è assottigliata notevolmente ed è mediamente mediocre anche tra coloro che ricoprono incarichi lavorativi di rilievo. Oggi la dirigenza del carcere è messa di fronte a un’accettazione di responsabilità enormi, si ha difatti certezza che qualora il virus si manifestasse nella struttura carceraria si trasformerebbe in un lazzaretto e in una bomba pronta a esplodere. È possibile che da quasi due mesi ancora non sono state adottate procedure specifiche relative all’arrivo dei cosiddetti nuovi giunti considerata che continuano a giungere nelle carceri potenziali portatori di virus. Detti soggetti non dovrebbero essere inseriti nei circuiti carcerari, ma nelle celle di sicurezza delle singole Forze di Polizia o delle strutture militari e sottoposti a controlli sanitari, almeno per 14 giorni, così come sta avvenendo per tutti i cittadini. Anche la Polizia Penitenziaria, congiuntamente al personale infermieristico e i pochi ammessi dell’area educativa devono essere sottoposti a misure di segregazione nelle caserme a loro dedicate al fine di tutelare la popolazione carceraria. Ai detenuti sono stati interrotti i colloqui, e alla stessa stregua si dovrebbe evitare nel modo più assoluto la diffusione del virus all’interno della struttura. Sarebbe ipotizzabile munire di almeno quattro cinque macchine ventilanti al fine di prestare i primi soccorsi qualora fosse necessario e come misura preventiva sottoporre a tampone i detenuti. Dette misure preventive servono a salvaguardare la salute in primis della popolazione carceraria e degli operatori, nonché sono a garanzia della stessa dirigenza della struttura che è messa in condizione di fronteggiare concretamente l’emergenza con mezzi adeguati qualora la prevenzione passiva lasciasse filtrare il virus all’interno. Il sovraffollamento delle carceri è la prova che manette e reclusioni non sono un valido deterrente che induce un comportamento di rettitudine bisognerebbe indicare politiche adeguate a breve e lungo termine, non basta esibire le manette come deterrente all’illegalità, iniziamo adesso a risvegliare il senso di umanità, cogliamo il virus come una opportunità per muovere il primo passo per elevare il senso e la percezione della vita, abbiamo tutti compreso che non né abbiamo il pieno controllo e può essere persa all’improvviso con un febbre più accentuata. Oltre il virus e la rivolta, è necessario ascoltare di Lucio Boldrin Avvenire, 26 marzo 2020 Il 9 marzo in molte carceri d’Italia si sono avute rivolte violente che in alcuni casi hanno causato morti tra i detenuti e numerosi feriti tra gli agenti della Polizia penitenziaria. La rivolta qui a Rebibbia è scoppiata all’improvviso come un temporale d’estate (molti detenuti si sono dissociati preferendo il dialogo alla violenza) ed è stata sedata dopo un confronto con le autorità competenti, alle quali una rappresentanza di detenuti ha comunicato le proprie richieste. La paura del contagio da coronavirus è stata la miccia che ha fatto esplodere il malcontento, che tuttavia già cova da tempo dentro le carceri. In primis per il sovraffollamento. A causa del Covid-19, per la loro sicurezza, sono stati bloccati i colloqui con i familiari, con i volontari e con gli “articoli 17” (intermediari tra la comunità carceraria e la “società libera” per la risocializzazione dei detenuti) e quindi suore, seminaristi, sacerdoti volontari e rappresentanti di altre religioni. A ciò si aggiunge l’attività a scartamento ridottissimo dei tribunali: processi rinviati, avvocati invitati a non entrare in carcere per l’incolumità stessa dei loro assistiti. Il carcere, per altro, ha preso tutte le precauzioni possibili: isolamento per i detenuti con la febbre e visite mediche all’ospedale per i casi più sospetti. Nel momento in cui scrivo, nessun caso di coronavirus qui a Rebibbia. Tanto che, personalmente, mi sento più sicuro dentro che fuori. In carcere ci si è dotati di mascherine (poche, come è all’esterno), guanti e flaconi per l’igiene delle mani. Settimanalmente viene fatta la sanificazione di tutti gli spazi interni. Ai detenuti, ovviamente, viene richiesta collaborazione nel mantenere pulite le celle. Sono state anche aumentate le possibilità per i reclusi di telefonate e videochiamate via Skype. Il limite è che non tutti, soprattutto gli stranieri, hanno soldi per potervi accedere e, nel limite delle possibilità, ci pensiamo noi sacerdoti anche con soli 5/10 euro di ricarica. Ma la paura del contagio è molta e la preoccupazione aumenta con i nuovi arrivi, ai quali viene fatto un pre-triage medico con la speranza che basti. Ora siamo di fronte a una calma apparente e il rischio che possa finire da un momento all’altro si respira ogni giorno. Va detto chiaramente, però, che se a Rebibbia le cose finora non sono degenerate è anche grazie all’incredibile lavoro silenzioso e al tentativo costante di dialogo che stanno portando avanti la direttrice Rosella Santoro, il comandante Luigi Ardini, l’ispettore superiore Luigi Giannelli e tutti gli agenti della Polizia penitenziaria. Encomiabili. È importante che lo Stato non li lasci soli e dia le risposte che servono. Prima fra tutte la diminuzione rapida e certa del numero dei detenuti nelle celle, mandando a casa chi ne ha diritto nel rispetto delle ultime direttive emanate. *Cappellano Casa circondariale maschile “Nuovo Complesso” di Rebibbia Tutto è sospeso: le vite, il tempo, il fiato, la legge di Rosaria Manconi* La Nuova Sardegna, 26 marzo 2020 Si vive una inquietudine sino ad ora sconosciuta, in attesa che qualcosa segni il punto, qualcuno metta fine alla incertezza e ripristini la normalità, soprattutto quella dei diritti, sacrificati in nome della emergenza. Sempre meno reattivi e più rassegnati, pur consapevoli del mancato rispetto delle prassi istituzionali e di una insufficiente trasparenza comunicativa, si sottostà a disposizioni ogni giorno più restrittive. Come figli ubbidienti, per di più storditi da uno schiaffo sonoro ed inaspettato e da messaggi tardivi, si china la testa, consegnando la propria sicurezza, la salute, il futuro. Questo reso ogni giorno più evanescente dal numero impressionante dei contagiati e dalle immagini strazianti di quei camion che trasportano le salme di donne e uomini, morti nella più completa solitudine e anonimato, e da quelle, altrettanto impietose, delle sale di rianimazione che rimandano, senza filtri, la sofferenza dei pazienti e la fatica immane di chi presta assistenza e cura. Esistenze stravolte, le nostre, da una emergenza sanitaria nuova che fino a ieri sembrava riguardare altri ed ora è vicina a noi, alle persone che amiamo. Un virus apparentemente “democratico” che sembra non fare distinzioni di razza, età o ceto sociale, ma che, invece, ha un impatto ben più devastante verso i più deboli: senzatetto, disabili, anziani soli, indigenti, detenuti, per i trattenuti nei centri di permanenza per l’espatrio. Per gli ultimi della terra, per chi non ha voce, ammesso che basti gridare per essere ascoltato. Per questa umanità fragile neppure la dotazione minima necessaria al contenimento del contagio, men che meno sostegno materiale e psicologico. Le mense e le strutture di accoglienza chiudono mentre i detenuti attendono provvedimenti che, in una condizione di acclarato sovraffollamento e drammatica emergenza sanitaria, consentano l’anticipata liberazione o quantomeno l’espiazione della pena in sicurezza. La malattia non livella, dunque, se non nella sofferenza, nella perdita, nel timore per la propria vita o per quella dei propri cari. Tutti, ora, concordi nel dire che “niente sarà come prima”. E certamente così sarà. Ma solo per la nostra dimensione esistenziale, per una rivisitazione della scala dei valori e delle priorità. Per gli interessi e diritti soggettivi, invece, si dovrà fare un passo indietro. Ripristinare le libertà fondamentali oggi sospese. A chi, opportunamente, si preoccupa della possibile deriva autoritaria che dai recenti provvedimenti può derivare, della tentazione, per alcuni Stati, di utilizzare l’emergenza sanitaria per restringere ancora le libertà personali, della possibile violazione dei diritti fondamentali, va detto che il timore è condivisibile ed è concreto. Ma è un rischio che ora si deve correre. Le emergenze mettono sempre a dura prova le istituzioni democratiche, anche quelle più “mature”, e la loro capacità di minimizzare i danni senza limitare le libertà individuali e così l’equilibrio fra diritti dell’individuo e quelli della collettività. A noi soccorre la Corte Costituzionale esplicitando il carattere non assoluto dei diritti fondamentali e la possibilità, di fronte ad interessi confliggenti, di procedere ad un bilanciamento attraverso criteri di ragionevolezza e proporzionalità. Pure senza richiamare, come taluno vorrebbe, le suggestioni di una condizione bellica, si dovrà, in forza dei principi richiamati e per effetto di quelle immagini di dolore di cui si è detto, tollerare i divieti e le limitazioni imposte. Nel rispetto della preminente tutela del diritto alla vita. L’accettazione temporanea del rischio non deve e non può assopire gli animi, né abbassare la soglia di attenzione verso il rispetto delle garanzie. Nessuna delega in bianco, nessuna deroga alla emergenza. È troppo presto per prevedere quando ed in che modo usciremo da questa crisi, ma certamente la storia, insieme a tutti noi, sta voltando pagina. L’imperativo è quello per cui, appena il virus verrà sconfitto o quantomeno avrà rallentato la sua diffusione, si debba, assolutamente, ritornare ad una condizione di pienezza dei diritti. *Avvocato Sardegna. “Carceri troppo affollate, chiediamo una mini amnistia” castedduonline.it, 26 marzo 2020 La lettera aperta delle associazioni: “Lo Stato ancora una volta non rispetta le norme e lo fa impunemente nei confronti di chi sta scontando una pena perché condannato o privato della libertà in attesa di giudizio. Davanti a questo quadro sensibile, che coinvolge Agenti Penitenziari, Funzionari Giuridico Pedagogici, Amministrativi, Comandanti e Direttori chiediamo una mini amnistia. Il limite deve essere quello dei 3 o 4 anni, pur escludendo i reati più gravi” Al Presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte, al Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, al Presidente della Regione Christian Solinas, ai Parlamentari sardi. Mentre tutto cambia, c’è un luogo, il carcere, dove il covid-19 ancora non ha fatto aprire gli occhi. Negli Istituti Penitenziari dell’isola niente è cambiato, anzi. Mentre si attendono serie iniziative in grado di ridurre i rischi, assistiamo a scelte del Ministero della Giustizia che non possono essere condivise. Non è tempo di norme restrittive. Non è accettabile, e risulta oltre i limiti umani, negare la detenzione domiciliare a chi, con conclamati problemi psichici, si è allontanato alcuni mesi fa da una Comunità terapeutica perché era scompensato. Sono troppi oggi i detenuti che non hanno una casa, perché senza famiglia, così è per tantissimi stranieri, e quindi non possono fruire della misura alternativa. L’uso del braccialetto elettronico suona come una presa in giro perché i dispositivi non sono disponibili. Lo Stato ancora una volta non rispetta le norme e lo fa impunemente nei confronti di chi sta scontando una pena perché condannato o privato della libertà in attesa di giudizio. Davanti a questo quadro sensibile, che coinvolge Agenti Penitenziari, Funzionari Giuridico Pedagogici, Amministrativi, Comandanti e Direttori chiediamo una mini amnistia. Il limite deve essere quello dei 3 o 4 anni, pur escludendo i reati più gravi. Occorre un atto di coraggio decisivo sapendo che un’emergenza sanitaria in un Istituto Penitenziario dell’isola potrebbe portare al collasso l’intero sistema sanitario regionale. Lo Stato sia coerente con sé stesso. È evidente che per chi vive la perdita della libertà la limitazione dei colloqui con i familiari, la sospensione delle lezioni scolastiche e la possibilità di fruire le iniziative di volontariato sono un aggravio di pena a cui nessuno sembra voler dare importanza. Stare in cella non è come stare a casa, soprattutto perché gli spazi contenuti come sono quelli di una stanza condivisa da due o forse tre se non quattro persone estranee l’una a l’altra, non permettono nessun momento di privacy. La vicinanza non sempre favorisce i rapporti umani, specialmente quando avvengono tra persone fragili con disturbi comportamentali, con l’ansia, con tendenze antisociali. Quando la tossicodipendenza si unisce a tendenze autolesioniste, quando il pensiero dei propri parenti lontani o assenti rende più facile cadere in depressione. Quando anche per fare una doccia è necessario fare una lunga fila e l’acqua che sgorga dai rubinetti non è sempre “chiara e fresca”. C’è poi il problema che aprire la finestra non è sempre possibile e l’aria ristagna. Le presenze di detenuti nelle case Circondariali di Cagliari-Uta, Sassari-Bancali e nella Casa di Reclusione di Oristano sono oltre il limite regolamentare. La situazione è al limite a Nuoro, Alghero e Tempio Pausania. Non c’è tempo da perdere. I rappresentanti istituzionali e il Governo si attivino. Il Capo dello Stato si è espresso con chiarezza. Così hanno fatto i Magistrati e gli Avvocati. Il Ministro Bonafede ascolti e agisca. Non deve prevalere un giustizialismo immobilista che genera tensioni e accresce le ansie di tutti. Liberi e ristretti. Maria Grazia Caligaris, Socialismo Diritti Riforme Paolo Mocci, coordinamento regionale Garanti locali delle persone private della libertà Emilia Romagna: Coronavirus e carceri, volontariato in apprensione teleromagna24.it, 26 marzo 2020 Sono una ventina i casi di persone detenute ufficialmente positive al Coronavirus nelle carceri italiane, non considerando quindi i casi di positività tra personale sanitario, amministrativo e penitenziario. Al momento non ci sarebbero infettati nelle strutture della nostra Regione, ma questo dato non fa certo abbassare la guardia a chi si preoccupa di esecuzione della pena, come il volontariato. Che però è bloccato come i colloqui con i familiari, uno dei motivi per cui a inizio marzo sono esplose rivolte devastanti, alcune con esiti drammatici, come a Bologna dove è morto un detenuto, o a Modena dove ne sono morti addirittura nove. Paola Cigarini, che è volontaria proprio in quest’ultimo istituto, è anche la Presidente della Conferenza regionale volontariato e giustizia, un ente che riunisce le associazioni attive dentro e fuori gli istituti penitenziari della regione per sensibilizzare, intervenire e partecipare al processo trattamentale, laddove possibile. Proprio il Terzo Settore ora è stato interpellato per contribuire alla lotta intramuraria al coronavirus, aprendo però una contraddizione in termini, evidenziata proprio da Cigarini. Voghera (Pv). I familiari: “I nostri cari hanno paura e sono preoccupati” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 marzo 2020 Ufficialmente sono cinque i reclusi risultati positivi, mentre 40 sarebbero isolati. “Mio figlio mi ha detto che sono molto preoccupati e spaventati per quello che sta succedendo a causa dell’epidemia, perché hanno il terrore di essere contagiati e che gli interventi avvengano con molto ritardo e soprattutto perché le cure all’interno sono davvero scarse!”, è una lettera accorata giunta a Rita Bernardini del Partito Radicale da parte di un famigliare di un recluso al carcere di Voghera. La preoccupazione è grande, ed è dovuta dal fatto che si sono registrati diversi casi di contagio tra detenuti. Il Dubbio ha potuto verificare che con certezza sono 5 i casi, tra i quali uno dei detenuti infetti è ricoverato in ospedale. Ma dal racconto emergono altri particolari che testimoniano la situazione particolarmente delicata. “Molte celle - si legge nella lettera rivolta alla Bernardini- sono state chiuse per la presenza di più casi di detenuti che manifestano sintomi di febbre alta. Mi ha anche detto che l’unica precauzione che viene adotta è la misurazione della temperatura corporea, ma non sono stati forniti dispositivi di protezione individuale”. Emergono altri particolari. “Hanno fornito un flacone piccolo di disinfettante tipo amuchina prodotto da un’azienda di Pavia, al costo di euro 9,90 per ciascun flaconcino, nonché un flacone di candeggina da 1 lt ed uno di Lysoform sempre da un litro per ciascuna cella, questi al costo di euro 22,00 addebitato pro quota a ciascun detenuto occupante le singole celle (dove allo stato ci sono tre persone)”, denuncia sempre il padre di un detenuto nel carcere di Voghera. Sempre secondo tale testimonianza attualmente ci sarebbero 40 detenuti in isolamento e in attesa di un tampone. Questo accade nella sezione di alta sicurezza come già riportato da Il Dubbio nei giorni scorsi. Una situazione che desta molta preoccupazione e che forse, proprio per evitare ulteriori psicosi, si dovrebbe fare chiarezza. Sono tante, troppe, le segnalazioni che giungono dai familiari dei detenuti del carcere di Voghera. Compreso il fatto che ci siano problemi di comunicazione tramite Skype. Ma questo è un problema generale già riportato dal garante nazionale Mauro Palma tramite il bollettino scorso. Ovvero che permangono le difficoltà nell’utilizzo della piattaforma Skype per la pochezza delle linee e del loro cablaggio. S.M. Capua Vetere (Ce). Detenuti in sciopero della fame, sospesa anche consegna dei pacchi di Mary Liguori Il Mattino, 26 marzo 2020 È iniziato ieri lo sciopero della fame e la protesta dei mille detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere che, per tre volte al giorno, faranno la “battitura”, ovvero picchieranno con gli utensili contro le sbarre per manifestare pacificamente, ma con molesta decisione, tutto il loro disappunto per la gestione che in questo momento si sta facendo delle carceri a fronte di un rischio epidemiologico che ha già sfiorato, molto da vicino, i detenuti dell’”Uccella”. Un medico e due infermieri del servizio sanitario penitenziario sono infatti risultati positivi al covid-19 nell’ultima settimana. Nessuno di loro, secondo le fonti ufficiali, è entrato in contatto diretto con i detenuti nelle ultime due settimane. Gli infermieri, è stato reso noto ieri, hanno smesso di lavorare il 7 marzo. Dato che dovrebbe generare una certa rassicurazione ma che, come è ovvio, non placa gli animi dei detenuti e dei loro familiari che, nella giornata di ieri, hanno inviato una lettera dal contenuto durissimo al dipartimento del Ministero della Giustizia, al governatore De Luca, al provveditorato regionale per l’amministrazione penitenziaria, al garante dei detenuti, Samuele Ciambriello, e ai presidenti dei tribunali di Santa Maria Capua Vetere e della Sorveglianza. “Condanniamo le evasioni avvenute in altre carceri durante le proteste del 7 e dell’8 marzo e sottolineiamo che il comandante ha dimostrato grande sensibilità attivando, dopo lo stop ai colloqui, per noi dell’”Uccella” la comunicazione via Skype e le telefonate gratuite, ma in questa fase così difficile avvertiamo l’assenza degli operatori esterni come gli psicologi”, scrivono i detenuti. “Ma siamo preoccupati - si legge, ancora, nella missiva - perché nonostante si siano verificati casi di contagio in diverse carceri, inclusa la nostra, non sono stati adottati provvedimenti specifici. Non si tiene conto della presenza di detenuti ultrasessantenni e malati, non si tiene conto del sovraffollamento che non ci consente di mantenere le distanze che i decreti del presidente del Consiglio impongono per tutti i cittadini italiani, e non si considera che la prevista scarcerazione di coloro che possono ottenere i domiciliari non migliorerà le condizioni di vita nelle case circondariali perché solo in poche decine (60 ndr) posseggono i requisiti per ottenere i domiciliari. Chiediamo che ci sia un intervento sulla politica, perché si intervenga con un indulto. Per queste ragioni, iniziamo uno sciopero della fame e del sopravvitto a oltranza, effettuando una battitura tre volte al giorno (alle ore 11,15 e 18) senza danneggiare la struttura, al fine di non essere dimenticati dalle istituzioni”. La lettera è stata sottoscritta da decine di detenuti italiani e di numerose altre nazionalità. Mentre a Santa Maria monta la protesta, nuove limitazioni si abbattono inevitabili sulla popolazione carceraria dell’”Uccella” e di tutta Italia. Il Dap ha infatti interrotto la consegna dei pacchi da parte dei familiari, facendo proprie le indicazioni della Protezione civile che ha stabilito ulteriori limitazioni di movimento per le persone nell’ottica della stretta anti-contagio. In Italia si trovano in stato detentivo 60mila persone per cui altrettante, ogni settimana, si spostano per consegnare ai reclusi pacchi con alimenti e biancheria pulita. Lo stop alla consegna dei pacchi porta con sé una triplice problematica. Da un lato rappresenterà un costo finora non supportato perché le eventuali spedizioni a carico dei familiari saranno affidate solo alle Poste, e quindi a pagamento, con evidenti limitazioni sul peso e il volume dei pacchi, dall’altro creerà, nel penitenziario di Santa Maria come in altre case circondariali, un ingolfamento del servizio di lavanderia. E, nell’istituto di pena casertano, il servizio di igienizzazione degli abiti è insufficiente per tutti i detenuti che sono oltre mille a fronte di una capienza di 800 posti. Un aspetto beffardamente contraddittorio in un momento in cui l’igiene personale è una delle principali misure anti-virus adottate e sponsorizzate in tutto il Paese. S.M. Capua Vetere (Ce). “Pericoloso focolaio in carcere”, contagiati medico e due infermieri di Piero Rossano Corriere del Mezzogiorno, 26 marzo 2020 Gli amministratori: finora tenuti all’oscuro. I penalisti: dall’istituto non ci danno risposte. Non è più solo il dirigente medico dell’ambulatorio all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere ad essere rimasto contagiato dal Coronavirus. L’episodio era venuto alla luce la scorsa settimana. La notizia di ieri è che dai tamponi effettuati negli ultimi giorni sui sanitari del presidio medico sarebbero emersi altri due casi di positività. Si tratterebbe di due infermieri in servizio nei medesimi uffici e cresce, a questo punto, l’attesa per i risultati degli altri test. Si teme, e da più parti, che l’istituto di pena possa essere un altro focolaio di contagio in un contesto urbano che si segnala già come quello che ha i numeri più alti in provincia di Caserta. A ieri erano 22 i casi di contagio accertati dall’inizio dell’emergenza, tre persone affette non ce l’hanno fatta. “Ad oggi non ho ricevuto alcuna comunicazione né formale né ufficiosa da parte della direzione del carcere su quanto sta avvenendo al suo interno. Ricordo che sono sempre la massima autorità sanitaria sul territorio” ha commentato un infastidito sindaco Antonio Mirra a metà pomeriggio. “Mi ritrovo, pertanto, a commentare notizie riportate dagli organi di stampa in assenza di qualsivoglia comunicazione. Entro domani (oggi per chi legge, ndr) - ha proseguito - chiederò formalmente notizie dettagliate alla direzione del penitenziario”. La richiesta di chiarimenti alla direzione dell’istituto e all’amministrazione penitenziaria su cosa accade all’interno dell’”Uccella” si leva da più parti. È ancora senza risposta, ad esempio, quella avanzata con una pec nella giornata di martedì dalla Camera penale del tribunale di Santa Maria Capua Vetere (ne dava comunicazione agli avvocati iscritti martedì sera la segretaria Olimpia Rubino specificando che nella lettera si chiedeva “di prendere contezza della situazione in essere, di conoscere eventuali protocolli di sicurezza adottati e, di conseguenza, di apprestare misure idonee a tutela di coloro che avessero necessità di recarsi presso la struttura”) mentre a questa ieri si è aggiunta anche la presa di posizione dei Radicali per il Mezzogiorno Europeo. Attraverso Raffaele Minieri, membro della direzione nazionale dei Radicali italiani, il movimento ha lanciato l’allarme chiedendo alle istituzioni di evitare che “il carcere si trasformi in un focolaio del virus con enormi conseguenze sul sistema sanitario”. Perché il punto resta quello di porre al più presto in essere forme di prevenzione dal contagio nei confronti degli ospiti della struttura. Il carcere di Santa Maria Capua Vetere ospita attualmente 2.020 detenuti (fonte Antigone) a fronte di una capienza di 818. “È chiaro - ha ripreso il sindaco Mirra - che se si tratta di un fenomeno ristretto, la gestione dell’emergenza resta una questione interna all’amministrazione penitenziaria. Ma se dovesse allargarsi il contagio, la situazione diventerebbe più preoccupante e la comunità ha il diritto di sapere come stanno le cose”. Il primo cittadino, attraverso i social e i numeri di call center attivati all’alba dell’emergenza sanitaria, ha un rapporto diretto e quotidiano con i cittadini. “È vero che abbiamo il più alto numero di contagiati in provincia - spiega - ma sono focolai assai circoscritti e seguiti. Dieci casi sono all’interno di un unico nucleo familiare, tre casi in un altro e tre in un altro ancora. Poi abbiamo casi singoli tra ricoveri e quarantena. Confidiamo nella responsabilità dei cittadini perché si attengano scrupolosamente alle prescrizioni ma è chiaro che se dovesse degenerare la situazione nel carcere sarebbe tutto molto più difficile”. Da lunedì scorso, intanto, all’interno dei padiglioni del penitenziario sono state allestite salette in cui i detenuti possono fruire di linee telefoniche per restare in contatto con i loro difensori. Una richiesta avanzata proprio dagli avvocati penalisti. “È stato il frutto di una interlocuzione avviata una settimana prima con la direzione - ha commentato il presidente della Camera penale, Francesco Petrillo -. In questo modo, pur non varcando quei cancelli, riusciamo a tenerci in contatto con i reclusi e ad offrire una parola di conforto ai loro familiari che chiedono notizie dei congiunti non potendo più incontrarli”. Per Petrillo, inoltre, le disposizioni normative per svuotare parzialmente le carceri (fuori i detenuti che devono scontare solo gli ultimi 18 mesi) “avranno un impatto zero: si tratta di cifre irrisorie”. “La soluzione - ha concluso - sarebbe quella della concessione di un indulto ma non certo per killer e capiclan. Vanno ovviamente selezionati i reati di minore allarme sociale”. Salerno. Decreto “svuota-celle”, il tribunale accelera di Massimiliano Lanzotto La Città di Salerno, 26 marzo 2020 Applicata anche a Fuorni la liberazione dei detenuti prossimi al “fine pena” L’iter semplificato per evitare contagi tra i reclusi. Il nodo dei “braccialetti”. La corsa per decongestionare le carceri tocca pure Salerno. Nell’ultimo fine settimana sono state eseguite le prime scarcerazioni di detenuti per reati comuni. Alcuni avevano già le procedure pendenti ma il decreto “Cura Italia” ha dato loro un’accelerazione alla definizione. I giudici del tribunale di Sorveglianza di Salerno hanno liberato due ebolitani, di 68 e 60 anni, tra quelli vicini al cosiddetto “fine pena”, ma negli ultimi giorni sarebbero già cinque i casi approvati. La norma introdotta per arginare l’epidemia da Coronavirus nei penitenziari presenta delle criticità. Soprattutto non c’è un pieno automatismo: la decisione passa sempre prima al vaglio della magistratura che deve accertare l’assenza di motivi ostativi. Serve, per essere più chiari, sempre un’istruttoria. Negli istituti di pena italiani sono 8000 i detenuti in più rispetto alla capienza. A Salerno- Fuorni sono i 536, di cui 72 stranieri, rispetto ad una capienza di 394 (dati del ministero della Giustizia aggiornati al 29 febbraio scorso) Le norme applicate. Pe favorire le uscite dalle carceri e allentare il sovraffollamento si stanno sfruttando le norme previste già dall’ordinamento. E dunque la libertà anticipata, per chi ha assunto un comportamento impeccabile durante la detenzione ed ha seguito percorsi rieducativi, e la detenzione domiciliare (introdotta dalla legge 199/2010), per chi ha un residuo di pena sotto i 18 mesi di reclusione. Con il decreto “Cura Italia”, varato dal governo Conte, si è introdotta, poi, la nuova forma di detenzione domiciliare temporanea, valida fino al 30 giugno, anche per chi sta scontando pene superiori all’anno e mezzo, che prevede una procedura semplificata, ma anche motivi ostativi nuovi. La recente norma ha stabilito che oltre i sei mesi sia necessario il braccialetto elettronico. Ne sono esclusi solo i minori. Ed è questa l’incognita che blocca la procedura per alleggerire le carceri: i braccialetti disponibili non sono sufficienti per scarcerate il maggior numero di detenuti e raggiungere gli standard di sicurezza tra le mura carcerarie. Gli effetti del provvedimento. Un dato emerge già dai primi giorni di applicazione del nuovo decreto: c’è una maggiore speditezza nell’evadere le pratiche. Ciò deriva anche dalla procedura agevolata avviata direttamente nelle carceri. Ai detenuti che sono nelle condizioni di chiedere l’uscita anticipata o la detenzione a tempo fino alla fine di giugno, le direzioni - e tra queste quella di Salerno, guidata da Rita Romano - hanno fornito dei moduli da compilare. La procedura iniziale, dunque, parte proprio dalle celle. Al resto provvede l’amministrazione penitenziaria che relazionerà sul richiedente e verificherà l’autenticità del domicilio dichiarato. Ciò va a vantaggio delle cancellerie, già oberate di lavoro. Le criticità nel sistema. Su tutte c’è il rebus dei braccialetti che impediscono la piena applicazione della norma straordinaria introdotta dal Cura Italia. In questi giorni il governo dovrebbe rendere noto, e disponibili, il numero di quelli pronto uso. Poi si deciderà la spartizione tenendo conto di alcuni dati statistici: gli indici di sovraffollamento e le situazioni di emergenza sanitaria. Si darà priorità ai detenuti con residui di pena più bassi. Secondo il decreto legge saranno installati circa 3mila braccialetti fino al 30 giugno. C’è, poi, il problema delle cancellerie, dimezzate dall’applicazione del “lavoro agile”. Al tribunale di Sorveglianza di Salerno -fa sapere il presidente Monica Amirante - è stato attivato un presidio per smaltire le richieste in arrivo. La riduzione forzata di personale non è sempre colmabile con il telelavoro perché alcune procedure richiedono la presenza in sede. Se da un lato si chiede di accelerare per disinnescare la “bomba” carceri, dall’altra si deve fare i conti con le cancellerie semivuote per far fronte all’epidemia. Un lavoro duro che impone a tutti, anche gli stessi magistrati, di rimboccarsi le maniche e andare anche oltre il loro ruolo d’ufficio per facilitare il lavoro del personale. I detenuti esclusi. Non tutti i detenuti possono beneficiare della procedura semplificata. Sono esclusi, infatti, quanti risultano privi di un domicilio. In questa categoria si collocano molti stranieri. L’esclusione riguarda pure i condannati per reati collegati alla criminalità organizzata e per delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale. Esclusi anche i detenuti che scontano pene per corruzione e concussione. Fuori dal novero dei beneficiari anche i delinquenti abituali e quanti hanno preso parte a rivolte nelle carceri. Nulla è previsto, inoltre, per i reclusi in attesa del primo grado di giudizio. E sono quelli che rischiano di restare più tempo in cella per la sospensione dei termini. Verona. Coronavirus, “15 agenti penitenziari positivi ed altrettanti in quarantena” tgverona.it, 26 marzo 2020 “Nel carcere di Montorio la situazione del contagio da coronavirus è gravissima: ci risultano una quindicina di agenti penitenziari positivi ed altrettanti in quarantena. Siamo di fronte ad un autentico focolaio di contagio che come tale va affrontato con misure straordinarie, prima fra tutte la tamponizzazione a tutto il personale penitenziario”. È l’SOS lanciato dal Sindacato Polizia Penitenziaria in una nota a firma del segretario generale Aldo Di Giacomo per il quale: “non è più tempo solo di mascherine - che tra l’altro stanno arrivando negli istituti solo in questi giorni ed in troppi casi si tratta di mascherine di semplice carta - e né di prodotti igienizzanti. Continuiamo a sollecitare l’Amministrazione Penitenziaria, le Regioni, i Dipartimenti Regionali di Protezione Civile e le Aziende Sanitarie Locali ad intervenire con urgenza. Sono già 200 i casi tra il personale penitenziario ad aver contratto il Covid-19, specie nelle carceri del Nord. La situazione di Verona è sicuramente straordinaria rispetto alle altre situazioni e merita una particolare attenzione visto il propagarsi del virus tra il personale penitenziario, al momento non risultano casi tra i detenuti e bisogna fare l’impossibile per evitare che il virus si propaghi nel carcere”. Continua Di Giacomo: “Ho provveduto a comunicare la grave situazione al Prefetto ed al Presidente della Regione, mi aspetto interventi immediati per salvaguardare il personale penitenziario ed i detenuti reclusi. Questa mattina ho dovuto personalmente chiamare il numero di segnalazione per coronavirus, in quanto un nostro collega, da giorni con la febbre, non riusciva a fare la spesa in quanto impossibilitato a muoversi dal letto e come molti lavoratori del carcere che provengono dal sud assolutamente solo a casa; per lo stesso ho provveduto a richiedere il tampone a casa perché con chiari sintomi del Covid-19 come confermato per altro dal suo medico curante. Il personale è estremamente preoccupato per il propagarsi del virus soprattutto perché al momento attuale sembrerebbe che l’amministrazione non abbia attivato sistemi di protezione per evitare che il contagio si espanda. Ci siamo attivati con ASL e Amministrazione Penitenziaria per cercare di far fare i tamponi veloci all’interno della tendostruttura adiacente al carcere per evitare al minimo lo spostamento di poliziotti penitenziari”. Napoli. Coronavirus, termo-scanner installato a Poggioreale, primo in Italia ansa.it, 26 marzo 2020 È la Casa circondariale di Napoli Poggioreale il primo carcere italiano in cui è stato installato il termo-scanner grazie al quale sarà possibile analizzare la temperatura di chiunque entri o esca dall’istituto penale. Lo rende noto l’Uspp. “Diamo atto all’impegno del direttore del carcere, Carlo Berdini, e a quello del provveditore Antonio Fullone - affermano in una nota il presidente dell’Unione Sindacati di Polizia Penitenziaria Giuseppe Moretti e il segretario regionale della Campania Ciro Auricchio - che hanno fatto installare all’ingresso della casa circondariale di Napoli Poggioreale il primo termo-scanner. Sarà in uso per tutte le persone che accederanno nel penitenziario e va ad aggiungersi alla tensostruttura, già istallata, destinata al triage dei detenuti che fanno ingresso nel carcere”. Piacenza. In carcere mancano prodotti per l’igiene e tessere telefoniche per chiamare i parenti piacenzasera.it, 26 marzo 2020 Dallo Svep una raccolta fondi in favore del carcere di Piacenza. “L’emergenza Coronavirus - spiega il Centro di Servizio per il Volontariato presentando l’iniziativa - che ha coinvolto tutta la nostra comunità e le misure adottate per la tutela della salute pubblica, hanno radicalmente cambiato il nostro stile di vita. Tuttavia, restare al proprio domicilio per la maggior parte dei cittadini, significa comunque poter contare su strumenti, tecnologie e servizi che consentono una qualità di vita accettabile. La stessa cosa non può accadere all’interno dei nostri istituti penitenziari”. “Dal 23 febbraio - continua - data di pubblicazione del primo decreto con indicate le misure restrittive, è ormai passato quasi un mese durante il quale le persone recluse in carcere hanno smesso di ricevere le visite dei propri famigliari e non possono nemmeno contare su modalità alternative di comunicazione come, ad esempio, la videochiamata che oggi aiuta la maggior parte di noi a tamponare l’impossibilità di vedersi di persona. Ma questo non è che un aspetto del problema di essere detenuti al tempo del Coronavirus”. “Il Garante dei detenuti del Comune di Piacenza - informa lo Svep - nella sua funzione di organismo indipendente con potere di controllo sui luoghi di privazione della libertà personale, insieme con le associazioni che si occupano di questa tematica, annuncia l’apertura del Fondo Emergenza Carcere istituito presso MUNUS Fondazione di Comunità e l’avvio della campagna di raccolta fondi per l’acquisto di prodotti per l’igiene personale, la sanificazione degli ambienti di vita, l’acquisto di tessere telefoniche per mantenersi in contatto con i famigliari, per il sostegno ai detenuti più poveri e per il supporto ai detenuti interessati dal Decreto Cura Italia recentemente approvato dal Governo”. Per donare: IBAN IT25S 06230 12700 000041824762 intestato a MUNUS - Fondo Emergenza Carcere. I contributi versati godono dei benefici fiscali riservati alle onlus. Con il supporto di CSV Emilia, le medesime iniziative vengono promosse anche nei territori di Parma e di Reggio Emilia. Parma. Nasce un fondo per l’emergenza in carcere parmatoday.it, 26 marzo 2020 L’iniziativa è promossa dal Garante dei detenuti del Comune di Parma, insieme con le associazioni Rete Carcere, Per Ricominciare, San Cristoforo e Svoltare Coop. Sociale. L’emergenza Coronavirus che ha coinvolto tutta la nostra Comunità e le misure adottate per la tutela della salute pubblica, hanno radicalmente cambiato il nostro stile di vita. Tuttavia, restare al proprio domicilio per la maggior parte dei cittadini, significa comunque poter contare su strumenti, tecnologie e servizi che consentono una qualità di vita accettabile. La stessa cosa non può accadere all’interno dei nostri istituti penitenziari. Dal 23 febbraio, data di pubblicazione del primo decreto con indicate le misure restrittive, è passato quasi un mese durante il quale le persone recluse in carcere hanno smesso di ricevere le visite dei propri famigliari e non possono nemmeno contare su modalità alternative di comunicazione come, ad esempio, la videochiamata che oggi aiuta la maggior parte di noi a tamponare l’impossibilità di vedersi di persona. Ma questo non è che un aspetto del problema di essere detenuti al tempo del Coronavirus. Il Garante dei detenuti del Comune di Parma, nella sua funzione di organismo indipendente con potere di controllo sui luoghi di privazione della libertà personale, insieme con le associazioni Rete Carcere, Per Ricominciare, San Cristoforo e Svoltare Coop. Sociale annuncia l’apertura del Fondo Emergenza Carcere istituito presso MUNUS Fondazione di Comunità e l’avvio della campagna di raccolta fondi per l’acquisto di prodotti per l’igiene personale, la sanificazione degli ambienti di vita, l’acquisto di tessere telefoniche per mantenersi in contatto con i famigliari, per il sostegno ai detenuti più poveri e per il supporto ai detenuti interessati dal Decreto Cura Italia recentemente approvato dal Governo. Per donare IBAN IT25S 06230 12700 000041824762 intestato a MUNUS - Fondo Emergenza Carcere. I contributi versati godono dei benefici fiscali riservati alle onlus Con il supporto di CSV Emilia-Forum Solidarietà, le medesime iniziative saranno promosse anche a favore delle associazioni che operano sui territori di Piacenza e di Reggio Emilia. Il virus, un buon motivo per riconvertire le produzioni di armi di Gian Giacomo Migone Il Manifesto, 26 marzo 2020 La priorità produttiva non dovrebbe essere quella delle armi, ma delle attrezzature mediche, in particolare quelle necessarie a combattere la pandemia. “I metalmeccanici hanno buone ragioni per iniziare scioperi mirati, in mancanza di una riforma del decreto che esenta dalla sospensione le industrie delle armi. La tutela della salute viene sacrificata a ragioni politiche che dovrebbero essere rimesse in discussione da un parlamento che può e deve continuare a funzionare. Un esempio? Cameri, una cittadina in provincia di Novara di appena 11 mila abitanti, ha subito tre decessi a causa di Coronavirus, mentre conta 14 persone contagiate, con altre 20 sottoposte a quarantena da due settimane, stando alle dichiarazioni del suo sindaco, Giuliano Pacileo (“La Stampa”, 21 marzo). Cameri fa parte di un’area del Novarese in cui il contagio si sta estendendo a macchia d’olio. Due o tre casi di contagio si sono verificati nello stabilimento Leonardo situato nello stesso comune” (“Sbilanciamoci”, 20 marzo). Esso è ritenuto strategico dall’Aeronautica militare, in quanto assicura l’assemblaggio e la futura manutenzione in terra europea del velivolo statunitense di combattimento F 35, in particolare per gli ordini destinati all’Italia e all’Olanda, oltre che la costruzione in atto delle sue ali per un numero imprecisato di velivoli. Per tali ragioni c.d. strategiche risulta che lo stabilimento resterà operativo anche dopo due giornate di chiusura e, a quanto dichiarano alcuni responsabili non identificati (“Il Fatto”, 22 marzo), con una riduzione del personale a 90 presenze effettive. Negli anni passati l’F 35 - in una prima fase denominato Joint Strike Fighter, ora Lightning II - è stato sottoposto a severe critiche negli Stati Uniti, ulteriormente alimentate da alcuni incidenti di collaudo, in particolare la caduta di un aereo in Giappone, al punto da essere soprannominato Fiasco 35, in gergo corrente negli stessi ambienti del Pentagono. Le critiche, succedutesi nel tempo, sono originate dalla Rand Corporation, un “think tank” tradizionalmente vicino al Pentagono, e dal rapporto più recente al Congresso sull’argomento, datato aprile 2019, da parte del GOA (U.S. Government Accountability Office) che ha il compito di offire una valutazione indipendente delle spese federali. Significativamente il rapporto è intitolato: “Action Needed to improve Reliability and Prepare for Modernization Efforts” (Azione richiesta per migliorare affidabilità e predisporre sforzi di modernizzazione). Seguono 51 pagine di osservazioni critiche di ordine tecnico, economico e militare, reperibili via internet. Ripeto, da parte di una struttura federale del paese produttore; non di pacificisti ragionanti quali cerchiamo di essere, seguaci di Bernie Sanders o indiani metropolitani, come si diceva in epoca ormai lontana. Va, inoltre, tenuto presente, che il progetto divide l’Europa. Francia e Germania hanno preferito privilegiare produzioni europee, mentre hanno aderito, oltre che Italia, Regno Unito, Norvegia, Olanda, con qualche esitazione Danimarca, più recentemente Polonia, per una varietà di ragioni più ligi a Washington che a Bruxelles. In Italia la musica non cambia, anzi si alza di tono, a giustificazione di provvedimenti che, in presenza di pandemia, mettono a repentaglio la salute dei dipendenti. Il primo impegno ancora politico risale al governo Prodi, Andreatta ministro della difesa, nel 1996, mentre il successivo governo D’Alema aderisce formalmente al programma quale “partner informato” con un primo, limitato versamento, dopo l’approvazione delle commissioni difesa di Camera e Senato (nella colpevole, anche se iniziale, distrazione della commissione esteri del Senato, presieduta dal sottoscritto). Di governo in governo, sia pure di diverso conio politico, si arriva a versamenti per circa 5 miliardi di euro con una prenotazione di 131 aerei, con costi continuamente crescenti (cfr. a questo proposito il rapporto del GOA e i segnali di allarme della Corte dei conti). Unico elemento positivo, non è mai stata prevista né firmata alcuna penale, per alcuna riduzione di impegni, tuttora possibili. La sola riduzione effettiva è stata realizzata dal governo Monti, da 131 a 90 velivoli, mentre l’ulteriore dimezzamento dell’ordine, votato dalla Camera dei Deputati è stato vanificato dalle iniziative del presidente Napolitano (Amicus Plato sed magis amica veritas!) e della ministra Pinotti. Quel voto, che aveva lo scopo di ridurre un impegno che tuttora supera i 15 miliardi, o non si sa quanto, nei prossimi anni, ha sortito il solo effetto di impedire, quanto meno ostacolare, la ricandidatura di Gian Piero Scanu - principale protagonista della battaglia alla Camera - al parlamento in carica. Afferma un proverbio svedese: una buona azione resta raramente impunita! Ne consegue che la dichiarazione del ministro della difesa in carica, Lorenzo Guerini, di un avvio di una fase 2 del programma di acquisti, senza ulteriori riduzioni, non ha incontrato critiche di fronte alle commissioni difesa, se non da parte di Erasmo Palazzotto di Leu che, in totale isolamento, ha invocato un dibattito parlamentare sull’argomento. In conclusione, esistono ragioni ovvie per estendere al massimo la tutela della salute, a cominciare dalle zone particolarmente colpite dalla pandemia di cui il comune di Cameri costituisce una delle punte. Esso non può essere ulteriormente esposto a causa di un esoso programma di spesa che, non a caso, costituisce occasione di elogio da parte del presidente Trump e del segretario di stato, Pompeo, oltre che godere dell’appoggio compatto dell’opposizione. Quanto a quello del governo, andrebbe sottoposto alla valutazione del Parlamento il comma h) del Dpcm 22 marzo 2020, secondo cui “sono consentite le attività dell’aerospazio e della difesa”. Le uniche invasioni da parte di nemici un poco troppo storici quali Russia e Cuba sono quelle di loro aiuti per fronteggiare la pandemia, mentre la Nato, in continua carenza di una propria ragion d’essere successiva alla caduta del Muro (con qualche aiuto del solo Putin), si limita a ridimensionare manovre transatlantiche con ovvi rischi di diffusione del virus. La priorità produttiva non dovrebbe essere quella delle armi, ma delle attrezzature mediche, in particolare quelle necessarie a combattere la pandemia. Negli Stati Uniti Bernie Sanders, invocando una legislazione esistente, ha recentemente proposto la conversione di alcune industrie militari alla produzione di respiratori ed altre attrezzature di cui le molte cliniche private, altrimenti avanzate, non sono dotate in misura sufficiente per farvi fronte. Potrebbe costituire l’inizio di un processo di riconversione di un settore militare sempre più cospicuo anche nel nostro paese. Rendendo persino auspicabile un futuro aiuto da parte nostra nei confronti degli Stati Uniti, ancora scarsamente attrezzati a difendersi da una pandemia in crescita esponenziale sul loro territorio. Rinvii, chiusure e udienze da remoto: il coronavirus blocca la giustizia in tutto il mondo di Giulia Merlo Il Dubbio, 26 marzo 2020 Dagli Stati Uniti alla Francia, con l’eccezione Germania: ecco come hanno reagito i sistemi giudiziari stranieri alla pandemia. Il sistema giudiziario italiano sta lentamente ingranando la marcia, dopo le prime settimane di dubbi sulla gestione dell’emergenza coronavirus nei tribunali. Gran parte degli uffici si sono attrezzati - grazie ai protocolli siglati tra magistratura, consigli degli ordini e forze dell’ordine - per lo svolgimento di udienze da remoto o in teleconferenza. Per quanto riguarda i termini, invece, l’ultimo decreto ha definitivamente confermato il rinvio d’ufficio delle udienze non urgenti e la sospensione di tutti i termini processuali fino al 15 aprile. Anche l’accesso ai palazzi di giustizia e alle cancellerie è strettamente regolato per rispettare le norme di sicurezza sanitaria. Dubbi, invece, rimangono solo nella gestione degli studi legali: l’ultimo Dpcm li considera servizi essenziali e dunque non ne impone la chiusura (anche se il decreto Lockdown Italia prevede che sia possibile disporla in futuro, sia da parte dello Stato che delle regioni), ma le ordinanze di Lombardia e Piemonte li hanno inclusi tra le attività da sospendere, salvo che per il compimento di atti necessari e non soggetti alle sospensioni di legge. All’estero, dove l’emergenza sanitaria è arrivata con qualche settimana di ritardo rispetto all’Italia, si sta affacciando ora il tema della gestione della giustizia e di come coniugare i servizi essenziali con la necessità di ridurre la diffusione del virus. GRAN BRETAGNA - Da lunedì 23 marzo, tutti i processi con giuria di Inghilterra e Galles sono stati sospesi temporaneamente, ma senza indicare un termine preciso. L’annuncio è stato dato dal Lord Chief Justice Burnett of Maldon (il vertice del sistema giudiziario di Inghilterra e Galles e presidente delle Corti), dopo le numerose proteste degli addetti ai lavori riguardo la sicurezza di continuare le udienze d’aula mentre tutto il Paese è in quarantena. “Mettiamo in pausa i processi per un breve periodo di tempo, in modo da poter mettere in atto le precauzioni necessarie”, è stata la sua dichiarazione, specificando che queste precauzioni consisteranno nello svolgimento di più udienze possibile attraverso il telefono, la videoconferenza e altre tecnologie. “Le corti superiori e i tribunali stanno lavorando ventiquattro ore su ventiquattro per predisporre i nuovi strumenti”. Però, è stato specificato, “i processi con la giuria non potranno venire svolti da remoto: dunque dal 23 marzo non inizierà nessun nuovo processo e quelli in corso dovranno essere aggiornati”. I giurati sono dunque stati congedati ma verranno chiamati di nuovo quando saranno stati predisposti idonei accorgimenti per garantire la loro presenza. La discrezionalità sulla sicurezza è demandata ai giudici: “I giudici e il loro staff decideranno se il processo può essere svolto in condizioni di sicurezza”, ma i magistrati dovranno continuare a svolgere tutte le pratiche urgenti oltre a favorire lo svolgimento delle udienze da remoto. Già la settimana scorsa, in materia civile e di famiglia, si sono svolte udienze via Skype. Gli avvocati, tuttavia, hanno protestato, contestando il fatto che continuano a svolgersi udienze con anche trenta persone nella stessa stanza, “contro il loro volere”. Il tema, sollevato dall’associazione degli avvocati penalisti, è diventato centrale anche per il governo: “La politica non ha mostrato alcuna preoccupazione per i ritardi endemici e i problemi della giustizia penale e ora è inaccettabile che eserciti pressione perché i processi continuino. È sbagliato, pericoloso e non permette di rispondere alla richiesta di giustizia dei cittadini”. STATI UNITI - Anche negli Stati Uniti è in corso un dibattito tra magistrati e avvocati su come bilanciare la necessità di giustizia con i rischi dovuti alla pandemia. Per ora, la situazione si presenta diversa da stato a stato, ma in moltissime delle 94 corti federali si stanno verificando ritardi nella gestione dei casi, corti semideserte e una corsa per trovare soluzioni tecnologiche che permettano di svolgere le udienze da remoto. Il sistema delle corti federali ha costituito una task force che permetta di condividere informazioni e linee guida tra distretti, ma non sono ancora state emanate direttive omogenee. Nel distretto della Columbia, per esempio, le 30 corti statali hanno ridotto gli orari e sospeso tutti i procedimenti con presenza fisica delle parti. In Ohio, invece, i giudizi continuano come sempre senza alcun rinvio. La Corte Suprema, pur confermando che rimarrà aperta, il 16 marzo ha deciso il rinvio d’ufficio “a tempo indeterminato” di tutte le arringhe orali dei procedimenti programmati per le due settimane successive (ora sta estendendo la decisione anche al mese di Aprile). Alcuni giudici già hanno iniziato a svolgere i loro giudizi da casa, ma - come del resto nel Regno Unito - il problema principale riguarda i processi con giuria. Il fatto di avere 12 giurati crea problemi logistici e di rispetto delle norme di sicurezza sanitarie (la Casa Bianca ha emanato la raccomandazione che vieta gruppi di più di 10 persone). Il Ministero della Giustizia ha avanzato alcune proposte che hanno sollevato polemiche nella comunità giuridica: in particolare, l’ipotesi di permettere la detenzione indeterminata per gli indagati ha sollevato dubbi di costituzionalità e anche di sovraccarico di un sistema carcerario già molto provato. Per ora, i tribunali ordinari stanno seguendo le linee guida del ministero della sanità, limitando i procedimenti che vedono coinvolte più di 10 persone. Gli uffici, però, stanno chiedendo ai giudici di primo grado e di corte d’appello di organizzarsi per il lavoro da casa attraverso sistemi di videoconferenza e di limitare i procedimenti da svolgersi in aula solo ai “casi eccezionali”. GERMANIA - La macchina giudiziaria tedesca sta rispondendo in modo contrario rispetto al resto d’Europa. Se il coronavirus ha fatto ovunque rallentare la risposta della giustizia, in Germania i giudici hanno accelerato il deposito delle sentenze: in tutte le corti regionali, infatti, i giudici hanno iniziato a depositare le loro decisioni prima dei termini, con l’obiettivo di chiudere quanti più giudizi possibili prima chela crisi del coronavirus blocchi la giustizia. La magistratura tedesca ha deciso di adottare il principio di accelerazione perché, in Germania, i processi penali possono essere interrotti per un massimo di tre settimane. Passato questo termine, il processo deve ricominciare e l’intera assunzione di prove deve essere ripetuta. Una previsione di questo tipo, in periodo di pandemia, rischia di mandare in tilt la giustizia e dunque il ministero della Giustizia Federale è corso ai ripari, annunciando un regolamento che consente ai tribubnali di estendere l’interruzione del processo penale a tre mesi e dieci giorni, nel caso in cui esso non possa procedere a a causa delle misure di protezione dalle infezioni. Il Ministro federale della Giustizia Christine Lambrecht ha chiarito: “Il diritto processuale offre già alle autorità giudiziarie una varietà di modi per rispondere in modo adeguato alla situazione, mantenendo al contempo la capacità giudiziaria di funzionare come necessario. Tuttavia, dobbiamo evitare che i procedimenti penali scoppino e ricomincino se i procedimenti vengono interrotti per lungo tempo è inevitabile. Ora stiamo creando una soluzione temporanea”. La programmazione delle udienze è in mano ai giudici, che hanno libertà di scelta nell’organizzazione e possono decidere di svolgere le udienze a porte chiuse. Sono inoltre state presentate delle linee guida, che però differiscono da Land a Land, per cui ogni tribunale decide per sé stesso. In tutti, di fatto, si prevede il divieto di accesso al tribunale di persone provenienti da aree a rischio e uso preferenziale di telefono e mail per tutte le comunicazioni. In Baviera, il ministero della Giustizia del Land ha emanato una raccomandazione ai pm di convertire le accuse esistenti in decreti penali di condanna quando possibile, in modo da evitare controversie. Inoltre, in materia civile, sono vietate le trattative orali per un valore di controversia inferiore ai 600 euro. Ad Amburgo, invece, gli interrogatori di garanzie si svolgono in videoconferenza. Allo stesso tempo, tutti i tribunali hanno messo in atto misure per ridurre drasticamente il numero di attività per cui è necessaria la presenza fisica in tribunale: annullati tutti gli incontri per la negoziazione; preferenza per le comunicazioni via posta elettronica o per telefono; rinvio a discrezione dei giudici. Tuttavia, rimangono garantite tutte le decisioni in materie urgenti. SPAGNA - Il governo spagnolo ha emanato un Regio decreto che ha sospeso i termini processuali e le udienze su tutto il territorio nazionale, a partire dal 15 marzo. Pertanto, il cosiddetto scenario previsto per una situazione estrema - Scenario 3-, è esteso a tutto il territorio spagnolo, in cui vengono mantenuti solo i servizi essenziali dell’amministrazione della giustizia (gli ordini di protezione dei minori e di violenza di genere, matrimoni, licenze di sepoltura, internamenti urgenti e custodia dei detenuti hanno la precedenza, così come “qualsiasi procedura giudiziaria che, se non praticata, potrebbe causare danni irreparabile “). Ai magistrati è stato chiesto di svolgere le udienze avvalendosi della videoconferenza e degli strumenti elettronici. Inoltre, gli avvocati possono presentare solo documenti procedurali collegati a procedimenti giudiziari urgenti, sempre elettronicamente. Fino a che questa situazione persiste, “l’archiviazione di documenti procedurali che non sono urgenti o che non possono essere rinviati non è applicabile in nessun caso”. Ovviamente, ciò non impedisce l’adozione di quelle azioni giudiziarie “che sono necessarie per evitare danni irreparabili ai legittimi diritti e interessi delle parti nel processo”. A Madrid, la città spagnola più colpita dal coronavirus (e la prima dove era stata disposta la sospensione dei processi), il Consiglio dell’ordine degli avvocati ha messo in campo un massiccio pacchetto di misure a tutela degli iscritti: è stato sospeso il pagamento della seconda rata delle quote di iscrizione per chiunque lo chieda espressamente e l’Ordine ha stanziato 1 milione di euro per il sostegno al reddito degli avvocati in difficoltà. FRANCIA - La Francia, paese colpito quasi quanto l’Italia dal virus, ha scelto di adottare misure simili alle nostre: dal 16 marzo i tribunali francesi sono stati chiusi, salvo che per la gestione dei procedimenti urgenti come le udienze che decidono sulla detenzione, i processi per direttissima e il riesame e tutti i procedimenti che riguardano minori. Sono state rinviate tutte le udienze non essenziali e con alto rischio di contagio, ad esempio perché con la presenza di giurati. Anche le cancellerie hanno ridotto gli orari, riducendo gli accessi allo stretto necessario. Il ministro della Giustizia, Nicole Belloubet, il 15 marzo ha spiegato: “I processi possono essere rinviati, entro i limiti del tempo ragionevole e rispettando i termini per la detenzione preventiva”. Dunque, “a parte i contenziosi essenziali, le audizioni saranno rinviate”. Tuttavia, ha indicato che “i servizi di emergenza penale e civile dei tribunali, l’incarcerazione in condizioni degne di detenuti o l’accoglienza di minori affidati alla protezione la giustizia giovanile deve poter essere mantenuta in un quadro che impedisce la diffusione del virus”. Anche in Francia si è favorito il ricorso alle videoconferenze, sia per le udienze che per gli incontri tra indagati in carcere e difensori. Inoltre, i giudici possono decidere di svolgere le udienze a porte chiuse. Le misure di gestione dell’emergenza carceri sono state invece significative: il 23 marzo il ministro della Giustizia, infatti, ha autorizzato la messa in libertà di 5000 detenuti con buona condotta che stanno per finire di scontare la pena per reati minori o malati con patologie precedenti. I magistrati emetteranno le ordinanze di scarcerazione nei prossimi giorni, anche nei casi in cui il braccialetto elettronico non sia disponibile. In Francia, la situazione delle carceri è fonte di grande preoccupazione: il virus ha già contagiato i detenuti e la densità raggiunge il 138% della capacità operativa. Gran Bretagna. Coronavirus, primo morto nelle carceri britanniche askanews.it, 26 marzo 2020 Un uomo di 84 anni - riferisce il Guardian - è diventato il primo detenuto britannico a morire dopo aver contratto il coronavirus. L’uomo era detenuto nel carcere di Littlehey, una prigione per colpevoli di reati sessuali nel Cambridgeshire, ed è morto in ospedale domenica. Secondo quanto riferito, aveva problemi di salute pregressi. Un portavoce del Servizio penitenziario ha dichiarato: “Un prigioniero di 84 anni dell’HMP Littlehey è morto in ospedale il 22 marzo. I nostri pensieri sono con la sua famiglia in questo momento. “Come per tutti i decessi in custodia, ci sarà un’indagine indipendente da parte delle prigioni e del difensore civico”. Etiopia. Coronavirus, procuratore generale annuncia rilascio di oltre 4mila detenuti agenzianova.com, 26 marzo 2020 Più di 4 mila detenuti saranno rilasciati in Etiopia nell’ambito delle misure adottate dal governo per arginare la diffusione del coronavirus. È quanto annunciato oggi in conferenza stampa dal procuratore generale Adanech Abiebie, secondo cui il provvedimento riguarderà i prigionieri condannati per reati minori e le donne con bambini, oltre agli stranieri accusati di essere coinvolti nel traffico di stupefacenti e nel traffico di droga che saranno rimpatriati nei loro paesi di origine. Il Consiglio dei ministri ha nel frattempo approvato ieri il provvedimento che prevede il telelavoro per i dipendenti statali, tranne il personale strettamente necessario. Nei giorni scorsi il primo ministro Abiy Ahmed ha annunciato la chiusura di tutti i confini dell’Etiopia per prevenire la diffusione del nuovo coronavirus nel paese. Secondo quanto riferisce l’emittente “Fana”, alle forze di difesa nazionali è stato ordinato di bloccare il movimento delle persone lungo tutti i confini, ad eccezione che per i beni essenziali in arrivo nel paese. Il premier ha inoltre affermato che saranno rafforzate le misure adottate dal governo per interrompere gli assembramenti di un grosso numero di persone e mantenere le distanze sociali. Ahmed ha anche invitato le istituzioni governative, compresi i partiti politici, ad aderire al distanziamento sociale e alle misure preventive durante le riunioni e ha invitato le istituzioni governative a facilitare le misure per evitare il sovraffollamento. Il governo, ha poi annunciato il premier, ha anche stanziato 5 miliardi di birr (circa 142 milioni di euro) per combattere la diffusione del virus. La scorsa settimana la compagnia Ethiopian Airlines ha sospeso tutti i voli da e verso 30 paesi nell’ambito delle misure per arginare la pandemia di Covid-19). Il governo ha inoltre deciso di rilasciare i detenuti con figli, la cui pena sta per scadere e tutti i detenuti arrestati per reati minori. Annunciata anche la chiusura dei locali notturni mentre le istituzioni religiose decideranno autonomamente le misure da prendere per prevenire la diffusione del virus. In Etiopia sono finora 12 i casi confermati di contagio da Covid-19. Gran Bretagna. Assange resta in carcere, i giudici rifiutano la libertà su cauzione La Stampa, 26 marzo 2020 Gli avvocati del fondatore di WikiLeaks avevano chiesto che fosse rilasciato in quanto a rischio coronavirus. Il fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, resta in carcere a Londra. I giudici inglesi gli hanno negato la libertà su cauzione dopo che i suoi avvocati hanno dichiarato che avrebbe dovuto essere rilasciato perché era altamente vulnerabile al coronavirus. Il 48enne, che si trova nella prigione di Belmarsh a Londra, è ricercato dagli Stati Uniti con l’accusa di 18 episodi relativi all’hackeraggio di computer governativi e per violazione di una legge di spionaggio. Assange potrebbe passare decenni in prigione se condannato. Il suo avvocato, Edward Fitzgerald, ha dichiarato alla Corte di Westminster che Assange aveva sofferto di quattro infezioni del tratto respiratorio durante gli anni trascorsi a vivere nell’ambasciata ecuadoregna a Londra. Fitzgerald ha anche affermato che Assange ha avuto problemi cardiaci che lo hanno messo a rischio maggiore. “Abbiamo puntato non tanto sui rischi di un volo verso gli Stati Uniti (dove lo attende un processo) ma sulla sopravvivenza”, aggiungendo che non vi era alcun rischio serio di fuga. L’avvocato ha spiegato che se il fondatore di WikiLeaks si ammalasse del virus in prigione, “il rischio potrebbe essere fatale”. Ma il giudice Vanessa Baraitser ha respinto le argomentazioni, rilevando che lo stesso Assange era in regola dicendo che avrebbe preferito suicidarsi piuttosto che affrontare l’estradizione negli Stati Uniti. “Allo stato attuale delle cose, questa pandemia globale non fornisce di per sé motivi per la liberazione di Assange”. “La condotta passata di Assange ha mostrato fino a che punto era disposto ad andare per evitare i procedimenti di estradizione - ha concluso il giudice - e c’erano fondati motivi per credere che se fosse stato rilasciato sarebbe fuggito di nuovo”. Iran. L’agente Fbi scomparso, la famiglia annuncia: “È morto in detenzione” La Repubblica, 26 marzo 2020 L’uomo era sparito nel 2007 nell’isola di Kish, era l’ostaggio più a lungo trattenuto della storia americana. Trump: “Inaccettabile”. L’ex agente dell’Fbi Robert Levinson, l’ostaggio più a lungo detenuto della storia americana dopo essere scomparso in circostanze misteriose in Iran nel 2007, è “morto mentre era in detenzione” in quel Paese. Lo ha annunciato la sua famiglia. “Recentemente abbiamo ricevuto informazioni da dirigenti americani che hanno indotto sia loro che noi a concludere che il nostro meraviglioso marito e padre sia morto. Non sappiamo quando o come sia morto, ma solo che è successo prima della pandemia da coronavirus”, hanno scritto i familiari in un comunicato. Ma poco dopo il presidente Donald Trump è sembrato contraddire le rivelazioni provenienti da membri della sua amministrazione. “Le cose non sembravano andare bene, era malato, ma non accetto che sia morto”, ha detto durante una conferenza stampa alla Casa Bianca sul coronavirus. “Non ci hanno detto che è morto, anche se un sacco di persone pensa che lo sia”, ha aggiunto. Per anni Teheran ha continuato a negare pubblicamente di essere a conoscenza del destino di Levinson, nonostante i media statali avessero riportato che era stato arrestato al momento della sua scomparsa, il 9 marzo 2007 nell’isola iraniana di Kish. Gli Usa sostennero a lungo che l’uomo - un agente Fbi che si era distinto in operazioni contro la mafia italiana e russa - stava lavorando in quell’occasione per un’azienda privata. Ma nel 2013 l’Associated Press rivelò che in realtà era in missione per analisti della Cia. Cosa che l’agenzia di intelligence e altri dirigenti governativi non hanno mai ammesso, nonostante le conferme di familiari e amici. La sua famiglia ha ricevuto 2,5 milioni di dollari l’anno dalla Cia per bloccare una causa che avrebbe rivelato i dettagli del suo lavoro, mentre tre analisti sono stati cacciati ed altri sono stati sottoposti a procedimenti disciplinari. Nelle uniche immagini emerse dopo la scomparsa, risalenti al 2010 e 2011, Levinson - che oggi avrebbe 72 anni - indossa una tuta arancione simile a quella dei prigionieri nel carcere Usa di Guantánamo e appare dimagrito, con la barba e i capelli lunghi. In un video, con una popolare canzone nuziale pashtun in sottofondo, l’uomo si lamenta delle sue cattive condizioni di salute. Soffriva di diabete, gotta e ipertensione. Lo scorso novembre Teheran aveva riconosciuto di avere ancora un caso aperto presso la sua Corte Rivoluzionaria ma ora anche quel raggio di luce si è spento.