Come si fa oggi ad approntare un’accoglienza di persone che escono dal carcere? di Alessandro Pedrotti* Ristretti Orizzonti, 25 marzo 2020 In questi giorni così difficili per tutti, più volte il volontariato ed il terzo settore hanno segnalato le difficoltà di chi, privato della libertà personale, vive all’interno di carceri sovraffollate e deve affrontare la paura del virus, la solitudine per la lontananza dei famigliari, l’impossibilità di rispettare regole minime come la “distanza sociale”. Le misure prese per riportare le carceri a numeri più civili, come la detenzione domiciliare, prevista dal Decreto Cura Italia, non tengono conto di una questione fondamentale: che molte delle persone, che potrebbero accedervi, e ridurre così il sovraffollamento, non hanno un luogo dove andare. E allora, come sempre, al volontariato e al terzo settore oggi viene chiesto dalle istituzioni di accogliere le persone che usciranno dal carcere, in detenzione domiciliare o per differimento pena. E di farlo a costo zero. Chi si occupa di accoglienza, e io sono uno di loro, sono operatore di una comunità, vive una situazione drammatica. Le case di accoglienza devono attivare delle misure igienico - sanitarie di igienizzazione e di uso di DPI (dispositivi di protezione individuale), che hanno costi molto elevati. A queste case, che nella maggior parte stanno già operando a pieno regime, viene chiesto di accogliere in detenzione domiciliare persone che non hanno visto, con cui non potranno fare un colloquio preliminare, spesso con patologie o con problemi di dipendenza e nel contempo senza adeguato supporto sanitario. Sì, è vero, chi sta scontando una pena ha diritto di accesso alla sanità, ma in questi giorni chi è in grado di attivare procedure per dare un medico di base alle persone che eventualmente accedano a misure alternative, quando già si fa fatica a telefonare e reperire il medico nelle ore di apertura ambulatoriale per chi é già in carico alle nostre strutture? Chi fa le norme dovrebbe sapere sempre che queste hanno un costo, è da anni che in Italia invece molte leggi sono a costo zero e che si chiede alle organizzazioni di volontariato e di terzo settore di sopperire alla mancanza di risorse dello Stato. Le direzioni degli Istituti di pena e le aree pedagogiche, la magistratura di Sorveglianza, i responsabili dell’area penale esterna stanno cercando di fare la loro parte, per attuare le disposizioni relative alla detenzione domiciliare delle persone con pene o residui pena sotto i 18 mesi, ma è fuori, sul territorio, che rischiano di naufragare queste misure. Ci chiediamo, come si fa ad approntare un’accoglienza in queste condizioni? Come si fa a dare una risposta efficace a persone che saranno prevalentemente in detenzione domiciliare, scaricate semplicemente sulle spalle del volontariato senza prevedere forme di rimborso dei costi? Da anni il volontariato chiede trasparenza e maggior accesso ai fondi di Cassa Ammende, per poter implementare progetti di accoglienza che garantiscano serietà e capacità progettuale. Fin qui siamo stati inascoltati, oggi le carceri sarebbero certamente meno sovraffollate se ci avessero dato ascolto. Fare accoglienza, seguire un detenuto domiciliare, significa accompagnare queste persone con personale volontario e personale retribuito. Significa che durante quelle 24 ore devi garantire a quelle persone un’accoglienza degna: Dostoevskij scriveva “Io mi sento responsabile appena un uomo posa il suo sguardo su di me”, ecco, noi sappiamo che la nostra responsabilità non finirà con l’emergenza ma che a quelle persone dovremo dare una risposta, offrire una vera opportunità. Oggi invece le istituzioni sono a chiedere, a chiedere senza dare. Non possiamo più accettare questa delega a costo zero, non possiamo farci scaricare un problema, perché l’accoglienza fatta in questo modo si rivela problematica. Gestire una struttura di accoglienza oggi significa avere tutti detenuti domiciliari, anche chi è libero o affidato deve stare rinchiuso, significa dover mediare continuamente, anche rispetto alle paure, e alle contraddittorie informazioni che arrivano. Significa dare spazi, non fisici che in questo momento sono negati, ma di ascolto e tutela, offrire un senso di protezione. Come si fa tutto questo, quanto costa? Nei prossimi giorni qui a Bolzano, la città da dove scrivo, la struttura che dirigo verrà “sanificata”, perché così impongono le norme provinciali. La sanificazione di questo tipo viene fatta da ditte specializzate che costano molto. Sanificazione che dovrà essere ripetuta se dovessero esserci casi positivi al Covid 19. Come si fa a pensare oggi di aprire nuove strutture se non si è coperti economicamente? In alcuni casi, alcune associazioni o delle diocesi, hanno aperto oggi nuove strutture coprendone integralmente i costi, di questo siamo testimoni in prima persona, ma questo non ci deve far dimenticare che questo modo di operare dello Stato non va bene. Non siamo in grado di accogliere richieste fatte senza mettere le risorse adeguate, se vogliamo fare un’accoglienza rispettosa delle persone private della libertà non possiamo, oggi più che mai, non avere questo senso di responsabilità. La responsabilità è anche saper dire no quando le condizioni non ci sono. Cosa si può fare? Si può fare un piano straordinario di accoglienza che può essere finanziato con Cassa ammende e con fondi straordinari - gli stessi da cui si attingerà per i vari capitoli di spesa previsti in questa emergenza. Un piano che preveda uno stanziamento significativo per sostenere tutte quelle iniziative che sgraveranno il sistema carcerario di quei 5/10.000 detenuti che potrebbero usufruire delle misure straordinarie approvate e anche di quei detenuti che hanno un fine pena sotto i 4 anni e potrebbero tranquillamente accedere all’affidamento in prova. Se lo Stato non fa questo passo, non può chiedere agli altri di sostituirsi alla sua responsabilità. La figura dell’eroe la lasciamo alla mitologia, però oggi chi opera nelle strutture sociali è in prima linea, spesso con formazione e protezioni inadeguate rispetto al rischio reale di contagio a cui è esposto, anche a loro tutela ci sentiamo di chiedere che le Istituzioni, che hanno la responsabilità delle persone che stanno scontando una pena, ci mettano in condizione di accogliere chi potrebbe usufruire di misure alternative in modo adeguato e responsabile. *Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Spero di non sentir più dire “facciamoli marcire in galera fino all’ultimo giorno” di Giuliano Napoli* Ristretti Orizzonti, 25 marzo 2020 Credo che sia davvero molto difficile questo periodo per la maggior parte delle persone che sono costrette a vivere in una sorta di detenzione domiciliare senza aver commesso alcun crimine, “isolamento sanitario” lo chiamano, ed io che prima di finire in carcere non ho mai accettato qualsiasi forma di restrizione della libertà posso solamente immaginare le difficoltà che tanti giovani sono, loro malgrado, costretti a sopportare, dalla continua convivenza forzata alle possibili discussioni e conflitti che si possono creare per la mancanza di spazio e di quella riservatezza che ogni persona cerca, chi più chi meno. Io mi ricordo che molto tempo addietro, quando ero libero, fui costretto a vivere una sorta di situazione del genere, e le persone più grandi di me, all’epoca avevo solo 19 anni, mi dicevano: “Guarda sempre a chi sta peggio di te”. Ma in quel periodo io mi sentivo al centro del mondo, non c’era nessuno che poteva stare peggio di me, secondo il mio pensiero, quello che più era importante per me ero io e la mia libertà, i problemi degli altri non mi riguardavano, non mi sfioravano affatto. E così passai quei pochi mesi cercando di divertirmi, di giocare a qualsiasi cosa, calcio, carte, calcio balilla, pingpong e qualsiasi altro passatempo che trovavo, sono riuscito così a resistere a qualunque forma di esasperazione e quei tre mesi alla fine sono passati molto velocemente, dopodiché ho riconquistato la mia piena libertà dimenticando anche quel breve momento di angoscia e paura nel quale inizialmente ero sprofondato senza riuscire a trovare un appiglio per risollevarmi, se non quell’istinto infantile di cercare un gioco, un passatempo per non impazzire. Certo oggi l’isolamento a cui siamo sottoposti un po’ tutti è diverso da quello che ho vissuto io oltre dieci anni fa, questo isolamento serve a proteggere noi e gli altri da un nemico invisibile che nessuno si aspettava, nessuno aveva previsto e quindi si deve trovare la forza per resistere, la forza per rispettare le regole che ci impongono per il bene di tutti. Se sentite il bisogno irrefrenabile di uscire lo potete contenere pensando a chi sta peggio di voi, vi riporto quel consiglio che era stato dato a me tanti anni fa, a cui però io non diedi tanta importanza. Ma oggi c’è un estremo bisogno di guardare e pensare a chi sta peggio di noi, perché sono anche loro quelli da proteggere, penso agli anziani, a medici e infermieri, anche alle forze dell’ordine, e a chi magari, anche se per colpa sua, si trova a scontare una pena in carcere e non ha la percezione di quello che accade fuori, ma sa più di chiunque altro quanto sia difficile accettare il “distacco sociale” del quale siamo un po’ tutti più consapevoli, oggi che lo viviamo sulla nostra pelle. Dopo tutto questo nulla sarà più come prima, lo ripetono in tanti ed io spero che nei nostri confronti non sarà più così diffuso il pensiero del “facciamoli marcire in galera fino all’ultimo giorno”, una frase che dicono ancora oggi molti nostri rappresentati politici. Se “il grado di civiltà di un paese si valuta dalle condizioni delle sue carceri”, credetemi che quello che oggi quasi tutti voi state vivendo è uguale a 1 su una scala di mille in base a quello che tutti i detenuti vivono quotidianamente, fatevi forza su questo, per tutti voi si tratta di un periodo limitatamente circoscritto all’emergenza, mentre in alcuni casi c’è chi questo dramma lo vive fino alla fine della vita… parola di ergastolano. *Ergastolano Carceri, i braccialetti elettronici non bastano per l’emergenza coronavirus di Liana Milella La Repubblica, 25 marzo 2020 I dispositivi previsti anche dal decreto Bonafede sono solo 2.500. E non possono entrare in funzione tutti insieme, ma solo 200-300 a settimana. Il braccialetto elettronico. Un altro dei paradossi italiani. Anche in tempi di Coronavirus. Perché tutti ne parlano. A destra come a sinistra. Soprattutto dopo le rivolte in 27 penitenziari italiani che, due settimane fa, hanno prodotto danni materiali per 35 milioni di euro. Nonché, purtroppo, 13 morti per overdose da farmaci rubati nelle infermerie e il carcere di Modena del tutto inagibile. Ma dalle cronache ecco spuntare, come sempre negli ultimi vent’anni, la soluzione del braccialetto elettronico per consentire comunque il controllo di un detenuto posto ai domiciliari. Anche il decreto del Guardasigilli Alfonso Bonafede ne parla e li propone come una soluzione per far uscire, ma solo fino al 30 giugno, chi deve scontare ancora 18 mesi. Ma i numeri bloccano i sogni. Perché, dal Viminale, le prime indiscrezioni inviate in via Arenula parlano di soli 2.500 braccialetti disponibili. Che però non possono entrare in funzione tutti assieme, ma solo tra i 200 e i 300 alla settimana. E con questa cifra devono fare i conti tutti, anche chi chiede misure drastiche per far calare la popolazione carceraria. Dopo le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella - inviate dalle pagine del Gazzettino ai detenuti di Venezia, Padova e Vicenza - “serve il massimo impegno in questa situazione difficile” - è ripartita la querelle sulle misure più idonee per alleggerire la popolazione carceraria che, come dice a Repubblica il Garante dei detenuti Mauro Palma, in questo momento è di 58.810 detenuti. Di cui finora solo 17 sono risultati positivi al Coronavirus, mentre 200 si trovano in isolamento sanitario. Il Pd, con il vice segretario Andrea Orlando e il responsabile Giustizia Walter Verini, sollecita misure di alleggerimento della popolazione carceraria. La Lega, con l’ex sottosegretario Jacopo Morrone, già si dichiara contraria. Il ministro della Giustizia Bonafede insiste sulle misure per garantire la sicurezza sanitaria nelle carceri - dalle mascherine alle tende per il triage - che sono state già prese e vengono via via potenziate. I Radicali chiedono a Mattarella di pensare alle possibili grazie da concedere. I magistrati, come la presidente del tribunale di tribunale di sorveglianza di Milano Giovanna Di Rosa, insiste sulla necessità di “tirare fuori un domicilio per i detenuti che non ce l’hanno, ma meritano questa opportunità, senza pensare ai braccialetti elettronici che non servono”. Mentre un magistrato in pensione come Francesco Maisto, per anni giudice di sorveglianza e oggi Garante dei detenuti di Milano, preannuncia il rischio che 200 detenuti di Bollate ammessi al lavoro esterno possano iniziare uno sciopero della fame dopo il blocco dei permessi. Ma proprio il basso numero dei braccialetti rende la situazione complicata. Bonafede sta lavorando al question time che domani lo vedrà impegnato alla Camera sull’emergenza carcere. Mentre Renzi continua a chiedere le dimissioni del capo del Dap Francesco Basentini. Che in questo momento però non sono in agenda. Resta il problema delle scarcerazioni possibili. Che potrebbero essere inserite nel decreto durante la sua conversione. Una strada, quella di alleggerire la popolazione carceraria di 5-6mila persone che garantirebbe non solo i detenuti (più spazi fisici per ciascuno), ma anche tutto il personale che lavora nelle prigioni, nonché i parenti quando potranno ricominciare i colloqui. Che oggi sono sostituiti da contatti telefonici molto più numerosi grazie ai circa 3mila cellulari in arrivo. Restano le strade per agire sul sovraffollamento di cui ormai si discute da due settimane. In primis la cosiddetta “liberazione anticipata speciale”, una sorta di riduzione della pena, e non di esecuzione della stessa presso il domicilio. Oggi, se non hai commesso reati gravi e se ti comporti bene in carcere, ottieni 45 giorni di sconto ogni sei mesi di pena effettiva scontata. I giorni di abbuono potrebbero aumentare, passando ad esempio da 45 a 60. Poi i domiciliari per chi ha un residuo pena minimo. Infine la misura già in atto, ma solo fino al 30 giugno, che potrebbe essere prorogata nel tempo, per cui chi è in semilibertà non torna a dormire in carcere. Ovviamente si tratterebbe per ora di misure “a tempo” che però potrebbero rendere le carceri più vivibili. Coronavirus, più di 100 i contagiati tra agenti e operatori penitenziari di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 marzo 2020 Qualcosa non sta andando nel verso giusto nella gestione dell’emergenza pandemia per quanto riguarda il mondo penitenziario. La questione riguarda da vicino proprio il personale: agenti e operatori sanitari. In alcuni istituti - denuncia il sindacato della Uil polizia penitenziaria - diversi agenti sono risultati positivi al coronavirus, mentre i loro colleghi - con i quali sono venuti in contatto - sono costretti a ritornare in servizio. L’emergenza, potenzialmente, potrebbe quindi sfuggire di mano. Secondo quanto Il Dubbio ha potuto apprendere, da alcune fonti sindacali, risulta che in tutta Italia sono circa 100 le persone contagiate: ci riferiamo esclusivamente al personale delle carceri, in maggioranza appartenente alla polizia penitenziaria. “Appare paradossale quanto sta avvenendo in alcuni istituti penitenziari - spiega a Il Dubbio Gennarino De Fazio, il leader della Uil-Pa Pol. Pen. - laddove appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria che hanno avuto contatti ravvicinati con altri colleghi, di cui è stata accertata la positività al Covid-19, sono stati dapprima messi in isolamento e sottoposti a tampone, ma successivamente, dopo svariati giorni, e in attesa di conoscere l’esito dell’esame molecolare, vengono fatti rientrare in servizio”. Il rappresentante del sindacato penitenziario si riferisce soprattutto a un carcere specifico che per giuste ragioni di privacy preferisce non riferire. “Ci si chiede, allora, - prosegue il capo della Uil-Pa - se le direttive del Capo del Dap servano solo come orpelli, magari per qualche comunicato stampa o per il sito web istituzionale, o se le articolazioni territoriali debbano attenervisi”. E conclude: “In quest’ultimo caso, ci si chiede allora perché non avvenga e se nell’Amministrazione Penitenziaria esista ancora, sempre che ci sia mai stata, una linea di comando”. Nel frattempo, come già riportato da Il Dubbio, monta l’insofferenza degli agenti penitenziari che operano al carcere “La Dozza” di Bologna. Anche lì parliamo di personale contagiato e, dopo un lungo e inspiegabile ritardo, finalmente gli agenti penitenziari cominciano ad essere sottoposti ai tamponi. Cominciano anche ad arrivare il materiale di protezione. Il Sinappe ha diramato un duro comunicato dal titolo “Le omissioni del Dap”. “È vero che non conosciamo ciò che abbiamo prima di perderlo, ma è anche vero che non sappiamo ciò che ci è mancato prima che arrivi”, è l’incipit parafrasando Paulo Coelho per provare a capire cosa stia realmente accadendo nelle carceri italiane. “Abbiamo chiesto più attenzione per il personale in prima linea - prosegue il comunicato - perché temiamo l’imminente onda di piena del virus. E quando noi chiediamo più attenzione sul materiale di protezione non stiamo facendo polemica, stiamo solo pensando ai nostri poliziotti penitenziari che contrastano il contagio all’interno delle prigioni italiane. Ed i tamponi? La sanificazione degli ambienti e la disinfezione generale dei reparti detentivi e delle caserme agenti? Noi vorremmo, semplicemente, che si superasse la retorica dell’eroismo per garantire alle donne ed agli uomini del Corpo (a delle mamme ed a dei papà) in prima linea in questa complessa fase d’emergenza la salute e la cura”. C’ è ancora ansia tra gli operatori in diversi Istituti. Garantire sicurezza e dignità nelle carceri, è oggi più che mai necessario. L’auspicio arriva anche dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. “Ho ben presente la difficile situazione delle nostre carceri, sovraffollate e non sempre adeguate a garantire appieno i livelli di dignità umana e mi adopero, per quanto è nelle mie possibilità, per sollecitare il massimo impegno al fine di migliorare la condizione di tutti i detenuti e del personale della Polizia penitenziaria che lavora con impegno e sacrificio”. Così ha scritto Mattarella, in una lettera su “Il Gazzettino”, rispondendo ad un appello rivolto a lui, al presidente del Consiglio e al Papa da parte delle detenute del carcere di Venezia e dei detenuti degli istituti di Padova e Vicenza. Detenuti, sì: ma prima di tutto esseri umani: ora salviamoli Il Dubbio, 25 marzo 2020 L’appello dell’Unione Camere Penali. Nelle carceri va evitata un’apocalisse da Covid-19. Prima che sia troppo tardi. Quando un’emergenza incrocia un’altra emergenza il rischio di una tragedia diventa concreto. E con un sovraffollamento carcerario che supera le 13.000 unità, se il Covid-19 attecchisse nei luoghi di detenzione, il rischio sarebbe reale. Il governo non ne sembra avvertito. Per fronteggiare la diffusione del Covid-19 l’esecutivo ha varato numerosi decreti che disciplinano gli aspetti ordinari del vivere civile: non saranno perfetti, ma testimoniano la volontà di affrontare la crisi anche interloquendo con le categorie interessate. I detenuti invece sono ancora una volta gli ultimi, quelli di cui ci si occupa alla fine, poco e male. Il primo provvedimento governativo in materia aveva previsto il potenziale stop ai permessi premio e alla semilibertà e il divieto di colloqui visivi coi familiari, surrogati ove possibile da videochiamate. Fallimento prevedibile: le carceri italiane hanno strumentazioni tecnologiche obsolete e privare i detenuti del contatto con i congiunti o di un’ora di libertà senza avergliene spiegate le ragioni non poteva che causare tafferugli. L’Unione delle Camere penali italiane ha proposto una serie di interventi specifici, ragionevoli e urgenti, tra i quali, chissà perché, l’esecutivo ha selezionato la sola detenzione domiciliare, limitandola alle pene residue o totali fino a 18 mesi (anziché i 24 richiesti), escludendola per alcune categorie e subordinandola all’utilizzo del braccialetto elettronico, “ove disponibile”. Anche così “depurata”, la norma avrebbe comunque consentito a quasi diecimila persone di lasciare i penitenziari e, quindi, agevolato una migliore gestione dell’emergenza. In fase di approvazione del decreto Cura Italia però, il ricorso al braccialetto elettronico da facoltativo diventa obbligatorio. E siccome i braccialetti non bastano nemmeno per l’utilizzo in tempi ordinari, il provvedimento risulta di fatto applicabile soltanto in un numero di casi assai inferiore rispetto all’emergenza del momento. Perché il governo abbia sabotato il suo stesso precetto o che ne sia dei braccialetti appaltati a Fastweb (12.000), già pagati dal 2018 e non ancora collaudati, già lo domanda con autorevolezza il presidente dell’Ucpi Caiazza (e solitamente non si acquieta di fronte al silenzio); inutile chiederlo ancora. Ingenuo sarebbe peraltro auspicare provvedimenti di clemenza, dovuti a prescindere dal virus, per il solo fatto che le condizioni di vita dei detenuti sono talvolta di vera tortura. Provvedimenti così, necessari e intelligenti, cozzano troppo con la visione miope e sgrammaticata della pena tanto in voga dalle parti dell’esecutivo. Posticipiamo dunque alla fine dell’emergenza coronavirus ogni riflessione sulle responsabilità politiche quand’anche gravi. Però, in questi giorni in cui si analizzano numeri, tabelle e curve, è dovere inderogabile di ciascuno provare a illuminare il cono d’ombra delle nostre prigioni e insistere con fronte metallica perché la stessa attenzione sia dedicata a tutti i consociati, fuori o dentro la gabbia. Si metta da parte, nel tempo della peggiore calamità del dopoguerra, ogni divergenza concettuale sul tema del reato e della pena, demandando al prosieguo il dibattito sulla fondatezza filosofica delle rispettive posizioni; si rimetta, insomma, al centro la tutela dell’essere umano, specie del più debole, affidato alla cura dello Stato, smettendo di suonare quel dannato pianoforte mentre la nave affonda. Se mancassero idee su come fare, dalle parti di via del Banco di Santo Spirito, sede dell’Unione Camere penali, regalano suggerimenti. A quasi nessuno importa se i detenuti possono mantenere le distanze di David Allegranti Il Foglio, 25 marzo 2020 L’Oms ha stilato le regole per controllare la diffusione del contagio in carcere, ma il sovraffollamento impedisce di osservarle. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stilato precise linee di comportamento per prevenire e controllare la diffusione del Covid-19 nelle carceri. Le mani devono essere lavate spesso con sapone e asciugate con asciugamani usa e getta; i detergenti per pulire le mani devono contenere almeno il 60 per cento di alcol; la distanza fisica dovrebbe essere osservata; se possibile, servono dispenser di sapone montati al muro. Queste e altre ottime linee guida per prevenire il contagio sono contenute in un documento dell’Oms del 15 marzo scorso. Guardandole da una prospettiva italiana però verrebbe da ridere, se non fosse tutto così maledettamente drammatico. A partire dalla distanza di sicurezza da rispettare nelle carceri italiane, che già in condizioni normali hanno problemi di sovraffollamento. Figuriamoci ora. “È assolutamente necessario che siano adottati interventi urgenti e realmente incisivi” per affrontare l’emergenza nelle carceri italiane, dice la Giunta Esecutiva Centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati. Interventi che “senza abdicare alla fondamentale funzione dello stato di garantire la sicurezza della collettività, tengano realmente conto del fatto che le carceri sono pericolosissimi luoghi di diffusione del contagio che espongono a rischio intere comunità, costituite dai detenuti e da tutti coloro che continuano a prestarvi servizio”. D’altronde nelle carceri italiane, osserva provocatoriamente Emilio Santoro, “il distanziamento è impossibile e due detenuti che dormono su un letto a castello sono in violazione della norma per cui Fontana vuole multare per 5.000 euro i cittadini”. Il punto è proprio questo: “Le linee guida dell’Oms se servono per limitare la libertà sono vangelo che non ci si può permettere di discutere, se comportano dare maggior libertà a qualcuno non ne parliamo neppure”, dice Santoro al Foglio. Meglio dimenticarsi dei detenuti insomma. Il problema naturalmente non riguarda solo l’Italia. Giorni fa, secondo uno schema simile a quello del ‘Giorno della marmotta’, in Francia ci sono state proteste analoghe fra i detenuti dopo la comunicazione di misure più stringenti per il contenimento del coronavirus in carcere. In Svizzera, a Zurigo, il cantone ha deciso di utilizzare la prigione di Horgen - chiusa lo scorso dicembre - per trasferirvi i detenuti positivi al coronavirus che necessitano di cure. In Italia dall’inizio di questa emergenza sanitaria in carcere i problemi non mancano (e anche la trasparenza si fa fatica a trovarla). Ogni giorno se ne pone uno. Per esempio c’è la questione dei bambini in carcere. Lo ricorda sull’edizione online del Foglio Sofia Ciuffoletti, direttrice dell’Altro diritto: “Non ce lo ricordiamo mai ma forse in questo strano tempo dilatato dell’emergenza sanitaria, alcune cose si ricordano: i bambini incolpevoli reclusi nelle patrie galere insieme alle madri. In Italia sono 59, secondo l’ultima rilevazione statistica del Ministero della Giustizia. 59 bambini che si trovano, per la maggior parte, all’interno dei reparti ‘nido’ (mai termine fu meno appropriato) di quegli istituti penitenziari sovraffollati a cui guardiamo, con molta indifferenza e con troppa ignavia in questi giorni, ma che rappresentano la sconfitta di uno stato che intenda tutelare la salute individuale come bene pubblico. La salute di tutte e di tutti, non dei meritevoli, non di chi paga le tasse, non dei cittadini, non di chi ha un valido permesso di soggiorno sul territorio italiano o la fedina ‘pulita’, ma di tutti. Indifendibili o indifesi che siano”. Tutte problematiche che il ministero della Giustizia dovrebbe affrontare quanto prima. A partire già oggi dal question time alla Camera, durante il quale il Pd chiederà al ministro Alfonso Bonafede “quali misure si intendano adottare per risolvere la drammatica situazione nelle carceri, sia a tutela della salute degli operatori che di quella dei detenuti”. Meglio tardi che mai. Noi “deficienti” che parliamo del carcere ai tempi del coronavirus di Luigi Amicone Tempi, 25 marzo 2020 Italia pluripregiudicata in Europa per le condizioni dei detenuti. Bonafede immobile. Davigo se la prende con chi “fornisce i dati”. Io vedo magistrati in lacrime. In questi giorni le commissioni del Consiglio comunale milanese si svolgono, come da decreto Conte, in modalità “da remoto”, attraverso collegamenti in via digitale, grazie all’encomiabile applicazione di impiegati e funzionari che presidiano fisicamente ciò che ai consiglieri è dato di frequentare virtualmente. Ieri mi ha impressionato la commissione Carceri. Dove dalle audizioni di Giovanna Di Rosa, già membro del Csm e ora presidente del tribunale di sorveglianza di Milano, del magistrato Francesco Maisto, già presidente del tribunale di sorveglianza di Bologna e ora garante dei detenuti, degli avvocati Vinicio Nardo, presidente dell’ordine degli avvocati di Milano, e Andrea Soliani, presidente del consiglio direttivo della Camera penale meneghina, abbiamo appreso che la condizione dei detenuti al tempo del coronavirus è appena un poco inferiore a quello degli scimpanzé dello zoo di Berlino. L’Iran, che è l’Iran, un paese in cui le condanne a morte vengono eseguite per tramite impiccagione in piazza - solitamente appendendo i malavitosi sulla cima delle gru usate per la costruzione degli edifici - ebbene l’Iran che è l’Iran, ha rimesso in libertà 70mila detenuti per evitare la contaminazione nelle carceri. Il nostro ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, invece, che non è neanche un mullah, dopo aver inchiodato per mesi il governo a sigillare manette e a tifare galera, abolizione della prescrizione e microspie fin sotto le lenzuola, si è fatto trovare totalmente impreparato - come l’intero governo d’altronde - a mettere non diciamo “in sicurezza”, ma in un minimo di contenimento sanitario, l’orrido circuito delle carceri italiane. Non esiste nell’Italia del giustizialismo un’idea, un tavolo, un piano, che affronti il tema dei reclusi al tempo di una feroce pandemia. Bonafede non ha messo ai domiciliari praticamente nessuno. Ha fatto trasferire i ribelli delle rivolte. Non ha messo in campo nessun intervento serio. È rimasto fedele alla linea (Davigo) secondo la quale non esiste nessun sovraffollamento carcerario. Sebbene la Corte dei diritti umani del Consiglio d’Europa (Cedu) ci abbia condannato per il sovraffollamento delle carceri e l’Italia resti l’unico paese europeo sanzionato dal diritto internazionale per il suo circuito giudiziario incivile. Ma secondo Piercamillo Davigo - per il quale mi sono permesso ieri di proporre alla commissione Carceri di farsi promotrice di un esposto all’autorità giudiziaria - “siamo l’unico paese europeo condannato per sovraffollamento penitenziario, perché abbiamo dei deficienti che forniscono questi dati”. Così ieri abbiamo dovuto vedere piangere un magistrato presidente del tribunale di sorveglianza. “Sono saltate tutte le regole, non c’è la facciamo più, è diventato impossibile dare risposte adeguate alle giuste richieste di tanti detenuti che non possono vedere i famigliari e temono il contagio”. Piangere dalla disperazione perché di fatto, nonostante il prodigarsi di tutti - magistrati, funzionari, guardie penitenziarie - dalla cima di un ministro importante, non ci sono idee, direttive, misure adeguate alla spaventosa tragedia in atto. Lo so che è impopolare parlare di carceri. Però non devo andare al governo, io. Non devo andare tutte le settimane a predicare a La7 le prediche di mastro Lindo. Non devo guadagnarmi da vivere insegnando come ci si masturba al tintinnar di manette. Dopo di che, sono persuaso che con la stessa misura con cui abbiamo giudicato saremo giudicati. Per tornare alla commissione, ieri il garante Maisto ha ribadito che “le misure del governo per le carceri al tempo del coronavirus sono largamente insufficienti”. Il magistrato Di Rosa ha implorato tra le lacrime di trovare il modo di ospitare in ambienti esterni al carcere almeno quei detenuti che possono usufruire dei benefici di legge. E visto che i detenuti non posso più avere colloqui con i familiari, è concepibile che seguitino a pagare le telefonate? Amico Sergio Scalpelli, pensateci voi di Fastweb, regalate ai galeotti un po’ di traffico telefonico, umiliate quei neanche all’altezza morale e politica dei mullah iraniani. Ancora. La dottoressa Di Rosa ci ha implorato: “Perché non requisire alcune strutture alberghiere per alleggerire per qualche mese gli istituti di detenzione?”. Toc toc, c’è qualche albergatore che si offre di sua sponte, visto che governo e parlamento si sono liquefatti in mano? Non è cambiato nulla dall’appello rivolto al ministro il 15 marzo scorso da magistrati e lavoratori dei penitenziari. “Le carceri versano in situazione di gravissimo collasso” ed “emergenziale mai vista prima”, nella quale un focolaio di infezione sarebbe “ingestibile” dal punto di vista sanitario, favorirebbe nuove rivolte dei detenuti che “potrebbero crescere senza possibilità di contenimento”, mentre il personale e gli agenti della polizia penitenziaria sono ormai allo “stremo”. I detenuti in Lombardia sono circa 8.500, per una capienza carceraria di 6.200. Complimenti al “social distancing”. Ps. Informazione di servizio per il dottor Piercamillo Davigo, illustrissimo presidente di Corte di cassazione nonché famosissimo opinionista televisivo. Gli ultimi dati forniti dai “deficienti” (fonte: Il Dubbio, quotidiano telematico delle Camere penali) rappresentano quanto segue del circuito penitenziario italiano: “Attualmente ci sono 60.971 detenuti, quando le carceri italiane ne possono ospitare 50.692. Quindi sono ben 10 mila e 279 i detenuti in più. In alcune carceri si arriva a un sovraffollamento del 214%. Altro dato che sfata il luogo comune che i condannati non vanno in carcere per condanne brevi è che al 13 gennaio risultano 23.024 detenuti che stanno scontando una pena inferiore ai tre anni. Altro dato che colpisce è la presenza di ben 1.572 persone condannate ad una pena inferiore ad un anno. Sono 3.206, invece, le persone che hanno una pena inflitta da uno a due anni. Resta il dato oggettivo che attualmente ci sono più di 23 mila persone candidate ad una misura alternativa, ma nonostante ciò rimangono dentro”. “Nelle carceri non è più tempo di rivolte, ma deve uscire subito chi ha poca pena da scontare” di Liana Milella La Repubblica, 25 marzo 2020 Intervista al Garante dei detenuti. L’appello ai Comuni: “Si diano da fare per dare un domicilio a chi non ce l’ha”. E sui braccialetti elettronici: “Non bastano”. Mauro Palma, il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà, entra nel suo ufficio dietro Regina Coeli e apre il suo computer: “In questo momento ci sono 58.810 detenuti nelle camere di pernottamento, cioè i detenuti realmente in carcere”. E questo dato cosa significa? “Vuol dire che c’è un calo rispetto ai dati che precedono l’esplosione del Coronavirus, quando i detenuti erano, al 29 febbraio, 61.230”. Che è successo? “L’emergenza, prima ancora dei decreti, ha già spinto a trovare tutte le soluzioni che, nella collaborazione tra tribunali di sorveglianza e istituti, erano possibili in termini di licenze per chi già si trovava in semilibertà e i permessi premio per chi ne usufruiva. Niente di nuovo, ma c’è stata solo un’accelerazione sotto il controllo della magistratura. Quindi anche un grande lavoro degli operatori del carcere nel preparare le carte. Poi, negli ultimissimi giorni, ci sono stati anche gli effetti del decreto...”. Quindi è andato a casa chi già era semilibero? “Sì, quei detenuti adesso si trovano a casa in detenzione domiciliare, e poi ci sono le scarcerazioni di chi già aveva dei permessi, e che hanno ottenuto un prolungamento”. Però tutto questo, soprattutto dopo le parole di Mattarella, non basta. “Sì, non basta. Perché c’è un problema di spazi, il carcere ne ha bisogno per affrontare un’epidemia dove è necessario isolare le persone. C’è estremo bisogno di tutelare il personale per avere relazioni non troppo vicine con i detenuti. Servono spazi non solo per fornire i presidi sanitari, ma proprio per non stare troppo vicino alle persone. Infine i detenuti stessi hanno il diritto di non essere costretti a stare a pochi centimetri l’uno dall’altro, perché la capienza regolamentare delle nostre prigioni è di 51.094 detenuti, ma ci sono quasi 4mila posti non disponibili per lavori in corso”. Lei sta dicendo che in concreto bisogna il più rapidamente possibile svuotare il carcere? “Svuotare è un’espressione che non userei mai. Io dico solo che bisogna alleggerire il carcere in modo drastico andando a incidere su tutte quelle situazioni in cui si può esercitare una sicurezza esterna senza mantenere la detenzione”. Realisticamente, con questa situazione politica, lei cosa vede possibile? “L’emergenza sanitaria deve superare la contrapposizione politica perché è interesse di tutti che questa parte di cittadini italiani non sia attaccata dal virus, anche per i riflessi sulla comunità esterna. I detenuti sono un pezzo della nostra società, è un pezzo vulnerabile. Oggi l’emergenza supera tutto. Tenga conto che abbiamo 22.374 persone condannate che hanno una pena residua inferiore a tre anni”. Ma lei si rende conto che il centrodestra, già in battaglia su questi temi, farebbe le barricate nell’ipotesi di scarcerare detenuti in numeri così alti? “Sono convinto che anche il centrodestra, come tutte le altre forze, pur avendo un’idea diversa della pena, ha a cuore la dignità delle persone. Detto questo, non è un problema di scarcerazioni, ma di graduale passaggio, a partire da chi ha un anno ancora da scontare, a forme diverse di esecuzione penale. Che ci deve essere, perché la pena deve essere certa, ma ciò non vuol dire rifiuto della flessibilità. Per questo bisogna passare a forme diverse di esecuzione che non affollino le carceri”. Visto che il decreto deve essere convertito nei prossimi giorni, lei cosa propone? “Il decreto incide solo su una posizione molto ridotta, perché riguarda chi deve scontare ancora 18 mesi. Bisogna non far dipendere, se non quando è proprio necessario, dal braccialetto elettronico l’effettiva detenzione domiciliare. Il braccialetto va potenziato, va sveltita la procedura, ma non può essere per tutti l’elemento preclusivo”. Ma lei sa che i numeri dei braccialetti disponibili sono molto esigui... “Proprio per questo credo che il braccialetto vada usato solo quando ce n’è un’effettiva necessità. Aggiungo che comunque già le sezioni unite della Cassazione, nel 2016, pure in un contesto diverso, hanno affermato il principio che la non disponibilità del braccialetto non può essere un criterio perché il giudice non possa decidere anche sulla misura da prendere”. Quindi lei realisticamente a che misure pensa? “A un’estensione della liberazione anticipata, al maggiore sostegno agli uffici dell’esecuzione penale esterna per dare l’affidamento in prova al servizio sociale. Comuni e territorio devono provvedere a dare un domicilio a tutte le persone detenute che ne sono prive... Scusi, ma non sta chiedendo l’impossibile? “No, perché nel nostro panorama c’è moltissimo volontariato, e tanti luoghi da utilizzare. Si tratta solo di mettere in rete queste energie che il territorio ha già”. Ma lei, proprio in questo momento, teme altre manifestazioni violente nelle carceri? “Non le temo. Invece temo soprattutto che non ci siano condizioni di tutela per tutte le persone che lavorano in carcere, che entrano materialmente ogni giorno, che fanno un lavoro che le espone e quindi, di conseguenza, può esporre avere conseguenze sugli altri. La loro protezione è un dovere per tutti noi e anche un fattore di protezione per chi è ristretto in carcere”. Coronavirus: Anm “gravissimo sovraffollamento carceri” italpress.it, 25 marzo 2020 Tra le tante cose che la drammatica emergenza di queste settimane ha fatto emergere, vi è la “gravissima condizione di sovraffollamento delle carceri italiane”. Lo sottolinea la Giunta Esecutiva Centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati. Quando finalmente, “speriamo presto, torneremo allo svolgimento ordinario delle nostre attività, avremo tutti il dovere di non dimenticare il carcere e le condizioni dei detenuti, predisponendo - dice l’Anm - ineludibili interventi strutturali che consentano di ripristinare condizioni dignitose all’interno degli Istituti Penitenziari e che rendano effettivo il precetto costituzionale della funzione rieducativa della pena”. Ma in questo momento è “assolutamente necessario che siano adottati interventi urgenti e realmente incisivi che, senza abdicare alla fondamentale funzione dello Stato di garantire la sicurezza della collettività, tengano realmente conto del fatto che le carceri sono pericolosissimi luoghi di diffusione del contagio che espongono a rischio intere comunità, costituite dai detenuti e da tutti coloro che continuano a prestarvi servizio”. Merita “apprezzamento il grande lavoro che stanno continuando a svolgere tutti gli operatori, istituzionali e non, che, anche in questi giorni, continuano ad operare nella complessa realtà del carcere. Questo sforzo, tuttavia, non basta. Il numero dei detenuti si è ridotto di circa mille unità, a fronte di un sovraffollamento stimato in oltre dodicimila persone rispetto ai posti effettivi”. I magistrati di sorveglianza hanno già evidenziato “l’inadeguatezza dell’intervento normativo del decreto legge 2020 n.18. La detenzione domiciliare prevista dall’art. 123, infatti, è istituto sovrapponibile - anche per limite di pena entro il quale è fruibile - all’esecuzione della pena presso il domicilio, stabilizzata nel nostro ordinamento già dal 2013”. L’ipotizzata utilizzazione dei braccialetti elettronici, “che potrebbero essere reperiti quando sarà ormai troppo tardi, si scontra con l’attuale disponibilità di numero del tutto insufficiente di dispositivi. Occorrono misure, che possano essere verificate agilmente dalla magistratura di sorveglianza - i cui uffici sono sottoposti a grande pressione lavorativa - e che allo stesso tempo garantiscano risultati effettivi in tempi brevi. Occorre pensare anche alla salute di tutti coloro che in carcere lavorano e che - conclude la nota dell’Associazione Nazionale Magistrati- stanno continuando a rendere il proprio servizio con eccezionale dedizione e professionalità”. Contro il virus misure insufficienti: serve una riforma delle carceri di Paola Balducci* Il Riformista, 25 marzo 2020 L’epidemia ha messo in luce le difficoltà degli istituti sovraffollati. Piuttosto che vincolare le “uscite” ai pochi braccialetti disponibili, pensiamo a un piano organico: custodia cautelare solo in casi di assoluta pericolosità e domiciliari per over 70 e chi deve scontare meno di due anni. La situazione emergenziale sanitaria che il nostro Paese si vede costretto ad affrontare in questo periodo storico ha reso più evidenti le gravi difficoltà del sistema penitenziario nazionale. Partiamo da una prima riflessione di carattere generale la profilassi imposta dalle autorità competenti al fine di evitare la diffusione del contagio mal si concilia con le modalità di esecuzione della pena in regime custodiale così come delineato dalla legge di ordinamento penitenziario del 1975. Il carcere, infatti, nella prospettiva del legislatore illuminato, pur essendo un luogo di reclusione, non si presenta come una monade ma come una finestra sul mondo esterno attraverso la quale si cerca di realizzare quel percorso di rieducazione riconosciuto dall’articolo 27 della Costituzione. Le misure cautelative che hanno coinvolto tutti i cittadini hanno pertanto investito anche il regime penitenziario ordinario con una serie di misure limitative, fra cui la sospensione dei colloqui dei detenuti con i familiari. In tale contesto, già di per sé difficile da gestire, si inseriscono le carenze organiche del sistema penitenziario, intese sia come carenze di dotazioni che di personale, nonché la piaga del sovraffollamento carcerario. Le rivolte dei detenuti cui abbiamo assistito nei giorni precedenti, infatti, sono solo il riflesso e l’inevitabile conseguenza di un problema endemico all’ordinamento italiano, al quale non si è ancora riusciti a dare definitiva soluzione. Sono trascorsi ormai dieci anni da quando il nostro Paese, con la sentenza Soulemanovjc, veniva condannato per la prima volta - e per fatti ancor più risalenti nel tempo - perché non aveva rispettato il divieto, sancito a livello sovranazionale, di “trattamenti inumani e degradanti”, per i più era solo una questione di “metri quadri”. La Corte europea dei diritti dell’uomo già in quella occasione (le affermazioni di principio saranno ben più incisive qualche anno più avanti nella decisione del caso Torreggiani vs Italia affermava che tale violazione non era frutto di una temporanea situazione emergenziale, quanto piuttosto sintomatica di un problema strutturale di cui si chiedeva, al più presto, una risoluzione. Nonostante le pronunce successive, identiche alla prima quanto al contenuto, l’ordinamento italiano riuscì, quantomeno in via normativa a dare attuazione alle richieste avanzate dai giudici di Strasburgo. In sostanza, solo parzialmente si diede seguito alle varie misure oggetto dei decreti, cosiddetti “svuota-carceri”, che si susseguirono nel corso degli anni: una piena concretizzazione degli stessi, unitamente a una serie di interventi di edilizia penitenziaria avrebbe, quasi certamente, ridotto il numero di coloro che - imputati in custodia cautelare, detenuti o internati - si trovano ristretti negli istituti penitenziari. Proprio oggi, allora, questa mancanza di attenzione verso il mondo delle carceri si fa più evidente che mai: a fronte di una capienza regolamentare di circa 51.000 posti si registra una popolazione detenuta pari a circa 61.000 unità, in alcuni casi, in cella si sta in 9, anziché in 5, e ciò lascia ben immaginare il tragico risvolto che si avrebbe nel caso in cui, anche solo uno di loro. sviluppasse una malattia contagiosa. Ancora una volta si torna a parlare di “metri quadri”. Oltre a questo, però, si cela un dato ancor più importante, che certo non è temporaneo come la situazione emergenziale sanitaria che stiamo vivendo: il carcere non può essere trasformato in una polveriera di rabbia perché è luogo destinato al recupero sociale di un soggetto che ha sbagliato. E affinché ciò non avvenga, è necessario ed essenziale che siano garantite condizioni di vita dignitose, idonee alla rieducazione del condannato. Come, allora, si potrebbe agire a tal fine? Se volgiamo lo sguardo alla storia penitenziaria del nostro Paese le soluzioni attuate in passato spaziano da quelle più radicali, consistenti in provvedimenti di clemenza (a seguito dell’indulto del 2006 la popolazione carceraria diminuì da 6L264 unità a 39.005) a quelle di riforma del sistema, come il pacchetto svuota-carceri a seguito del rimprovero dell’Europa. L’efficacia delle due differenti strategie si rivela nel lungo periodo: gli effetti del provvedimento straordinario si sono esauriti nell’arco di pochi anni, i decreti svuota-carceri, seppur parziali e migliorabili hanno apportato modifiche vantaggiose nell’ordinamento penitenziario soprattutto per quanto concerne l’esecuzione penale esterna. La chiave di volta, dunque, dovrebbe essere rintracciata nella necessità di avviare un percorso organico di riforma: l’unico in grado di conseguire, a trecentosessanta gradi, una “razionalizzazione” del sistema carcerario. Quanto al piano normativo, ad esempio, si potrebbe prevedere la prosecuzione dell’espiazione della pena in detenzione domiciliare per soggetti con pena residua non superiore a 24 mesi e per detenuti ultrasettantenni, fatti salvi i divieti di cui all’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario - introducendo in questo caso una presunzione assoluta e non relativa, qual è oggi, di inadeguatezza dell’istituto penitenziario; si potrebbe poi prevedere un alimento del tetto di pena, residua e non, per la concessione delle misure alternative. Ancora, al fine di deflazionare la popolazione carceraria non definitiva, si potrebbe prevedere un utilizzo della misura della custodia cautelare in carcere entro limiti più stringenti: solo nei casi di effettiva ed estrema pericolosità procedendo, nei casi esorbitanti da questi, con misure quali gli arresti domiciliari o l’obbligo di dimora. La risposta del legislatore dell’emergenza arrivata solo di recente con il decreto legge n. 18 pare, a una prima lettura, aderire alla seconda strategia quantomeno limitatamente alle modalità di intervento con il quale sono state previste misure di carattere economico per far fronte ai danni conseguenti ai disordini verificatisi negli istituti penitenziari nei giorni scorsi e misure deflattive della popolazione carceraria. Nello specifico, all’articolo 123, ai fini dell’esecuzione della pena presso il domicilio per tutte le pene, anche residue, non superiori a 18 mesi, (misura introdotta nel nostro ordinamento nel 2010 proprio con uno dei primi provvedimenti svuota-carceri) è stata prevista una semplificazione della procedura applicativa, che nella ratio del legislatore dovrebbe contribuire rapidamente a diminuire i numeri della popolazione detenuta. Tale provvedimento tuttavia, già di per sé privo di concreta vis deflattiva, risulta ulteriormente mitigato dalla previsione di cui al terzo comma che aggiunge, per le pene superiori a sei mesi l’obbligo di sottoporre il condannato a una “procedura di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici”. A ben guardare, dunque, la concreta efficacia del provvedimento è subordinata alla disponibilità, di cui più volte è stata segnalata l’inadeguatezza, degli strumenti di controllo, comunemente noti come braccialetti elettronici. Si poteva fare dunque meglio e si poteva fare sicuramente di più e ciò sia per superare il momento dell’emergenza che per migliorare le condizioni delle carceri. Un’ultima riflessione di segno positivo: l’esperienza insegna che anche da situazioni di emergenza possono venire fuori buone prassi e forse, anche quella che stiamo vivendo può essere l’occasione giusta per porre rimedio a una situazione da molto tempo trascurata. Nell’ambito dei provvedimenti d’urgenza di questi ultimi giorni va senz’altro segnalata con favore l’implementazione dei sistemi di comunicazione a distanza mediante l’utilizzo per i detenuti del sistema di videochiamata Skype, facoltà già introdotta in via amministrativa con la circolare 30 gennaio 2019 e scarsamente attuata nelle carceri italiane. Facciamo in modo che le buone soluzioni diventino buone prassi. *Avvocato - Docente di Diritto dell’Esecuzione penale Luisa Guido Carli Carceri: il premier che non esiste di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 25 marzo 2020 L’intera comunità dei giuristi denuncia la grave insufficienza delle misure per prevenire l’epidemia e quando finalmente lui si decide a parlare, cosa dice? Nulla. Quello del nostro Presidente del Consiglio è un caso tra i più misteriosi della storia contemporanea. Pensavamo che il mistero più inestricabile, ed in effetti ancora oggi privo di risposte, fosse già quello relativo alle ragioni per le quali un pressoché sconosciuto docente di diritto privato potesse essere diventato Presidente del Consiglio dei Ministri di uno dei primi dieci Paesi più industrializzati del mondo. Ma oggi occorre cimentarsi su un quesito ancora più complesso: che dice? Intendo dire: quando parla, quando risponde (raramente) a qualche domanda, quando si produce in drammatici soliloqui su Facebook spacciati per conferenze stampa, cosa dice - esattamente - il nostro Professore? Prendete la storia delle carceri al tempo del coronavirus. Da alcuni giorni l’intera comunità dei giuristi italiani denuncia la eclatante, irresponsabile insufficienza delle pseudo misure adottate nell’ultimo decreto per prevenire il rischio di epidemia nelle carceri (prevenire, non intervenire dopo che è esplosa). Abbiamo iniziato noi penalisti, proprio insieme al Riformista. Dopo pochi giorni, ci hanno seguito il Coordinamento dei Magistrati di Sorveglianza italiani, Magistratura Indipendente, Magistratura Democratica e - finalmente ieri - A.N.M; l’Associazione degli Studiosi del Diritto Penale (centinaia di colleghi del Nostro), gli esponenti più autorevoli della maggioranza non grillina (Pd, Leu, Italia Viva); le associazioni di categoria della Polizia Penitenziaria; tutto il mondo del volontariato carcerario, e molti altri ancora. I Presidenti dei Tribunali di Sorveglianza di Milano e Brescia, in particolare, hanno pronunciato parole di fuoco in un appello al Governo che solo degli irresponsabili potrebbero ostinarsi ad ignorare. Da cinque giorni, ogni giorno, mentre piovono notizie di contagiati nelle varie carceri, noi penalisti gli chiediamo di dire pubblicamente almeno quante scarcerazioni il Governo ha calcolato di ottenere con le misure adottate, e dove diavolo sarebbero quei braccialetti elettronici che si pretenderebbe di imporre per la concessione della detenzione domiciliare. Niente. Lui, nemmeno un plissè. Poi il Presidente Mattarella, con toni paludati ma inequivoci, gli tira la giacchetta di media sartoria, e finalmente il Nostro si decide a dire qualcosa, prendendo spunto, secondo l’accurata regia granfratellesca della sua comunicazione, da una colletta di alcuni detenuti. Va beh, meglio di niente. Ma che ha detto? Ecco il punto. Nulla. Ma nulla non per modo di dire, proprio nulla. È un non dire dicendo, un parlare senza articolare pensiero che ha un solo, leggendario esempio degnamente paragonabile. Egli è la versione istruita di “Chauncey il Giardiniere” - come ha raccontato su questo giornale Paolo Guzzanti - formidabile (ed oggi dobbiamo dire: profetica) metafora antropologica consacrata nella leggendaria interpretazione di Peter Sellers in “Oltre il Giardino”. Un uomo che non sapendo nulla delle cose che gli venivano chieste, e rispondendo senza dire nulla, affascinava a tal punto i suoi stupefatti interlocutori da arrivare ad un passo dalla Presidenza degli Stati Uniti d’America. Leggo: “Vi ringrazio per il senso civico con il quale avete espresso il vostro pensiero” “Accolgo e non sottovaluto” la vostra richiesta di aiuto (capito? “accolgo e non sottovaluto”); “il Governo e le istituzioni del Paese stanno profondendo gli sforzi necessari per tutelare, in piena emergenza Coronavirus, la salute di chi lavora e di chi vive” nel carcere; “abbiamo fatto distribuire e continueremo a far distribuire dispositivi di protezione individuale. Il più possibile” “abbiamo fatto montare, davanti agli istituti, le tende per il triage per poter svolgere accertamenti sui detenuti in ingresso e tenere così il virus fuori”. Roba da non credere ai propri occhi. In Iran sono stati scarcerati con provvedimento di indulto 40mila detenuti; la Turchia ne vuole scarcerare centomila; Trump forse ancora di più. Lui, imperturbabile, “accoglie e non sottovaluta” la richiesta di aiuto, distribuendo (forse) mascherine in carceri dove stanno in nove in celle da quattro e montando tende “per tenere il virus fuori”. Esilarante, se non stessimo parlando di tragedie. Io, questo è certo, preferisco Peter Sellers. *Presidente dell’Unione Camere Penali Italiane “Perlopiù” morti. Persone non cose di Sergio Segio Il Manifesto, 25 marzo 2020 Mai come al tempo del Coronavirus è divenuto a tutti facile capire quanto siano fondamentali la sanità pubblica e la prevenzione: da un quarto di secolo viene invece falcidiata la prima e trascurata la seconda. Altrettanto determinante è l’informazione corretta e tempestiva sulla pandemia; tanto più in quel luogo scuro e separato che continua a essere il carcere. In queste settimane anche lì si è visto come errori, ritardi e sottovalutazioni producono disastri e perdita di vite. Si è tornati indietro di decenni, con detenuti sui tetti e celle bruciate. Ma con la non piccola differenza, rispetto ad allora, che ben pochi si sono premurati di approfondire l’accaduto, ragionare sulle sue cause, chiedere spiegazioni ai poteri competenti (si fa per dire). Rese tanto più necessarie dalla morte di ben 13 persone detenute. La storia italiana (e non solo) della seconda metà del Novecento ci aveva insegnato come silenzi e bugie di Stato siano spesso la regola. Ma è forse la prima volta che, di fronte a fatti tanto gravi, opacità e reticenze di ministri e governi in carica non trovano significativa attenzione e opposizione. Il ministro della Giustizia, informando il Parlamento, sul punto si è limitato a un inquietante inciso, sostenendo che i decessi “sembrano perlopiù riconducibili ad abuso di sostanze sottratte alle infermerie durante i disordini”. Poche parole, all’incirca una per ogni morto, che non spiegano nulla e omettono tutto. Neppure un vago accenno alle altre cause, oltre a quella dichiarata principale. Non un dettaglio, nessun chiarimento. Neppure lo sforzo di indicare i nomi: l’identità dei 13 solo dopo parecchi giorni sarà resa nota da un giornalista. Undici nordafricani, slavi, latinoamericani, due soli italiani. In qualche caso pene scontate quasi per intero, in altri ancora in attesa di giudizio. Chi sia morto per cosa, non è dato però sapere. Il ministro non dice e nessuno domanda. Le obiezioni più accese in Senato hanno piuttosto invocato maggior repressione, giungendo ad accusare il governo di voler “legalizzare la droga”. Come non fossero pubblici i dichiarati propositi del ministro dell’Interno attuale di mandarne ancora di più in galera per fatti di droga, in perfetta continuità di intenti con il suo predecessore. Quello dei tossicodipendenti in carcere, principale causa del sovraffollamento assieme al piccolo spaccio - come ben documenta il Libro Bianco sulle droghe, curato dalla Società della Ragione e altre associazioni -, continua a essere tema falsato e dolosamente omesso dal confronto politico. Nessuna riflessione o interrogativo ha suscitato il fatto che così tanti detenuti siano morti perlopiù per l’assunzione smodata di metadone, un potente analgesico, sostituto di sintesi dell’eroina, usato a scopo terapeutico. Un farmaco che aiuta a superare le astinenze e attutisce dolore e sofferenze, che sono la condizione usuale e perenne del prigioniero, tossicodipendente o meno. Pur in tempi assai difficili e luttuosi per la società libera, ci si sarebbe aspettati che la reazione, politica e amministrativa, di fronte all’inedita strage fosse appunto e semmai di provare a ridurre quella sofferenza, amplificata dai timori per l’epidemia e dalle misure di ulteriore isolamento imposte ai reclusi. Un isolamento ben diverso, integrale e spossessante, da quello cui siamo tutti costretti dal coronavirus: lì si è non solo reclusi ma ridotti a cose, distrattamente ammucchiate in una stanza. Se il ministro omette, parla d’altro e guarda altrove, dal capo del Dap nulla è pervenuto. Assente non giustificato. Di nuovo e sempre, tocca allora provare a costruire verità e giustizia dal basso. È quello che si propone il Comitato nato a questo scopo, che ha raggiunto 500 adesioni in due soli giorni (www.dirittiglobali.it/coronavirus-morti-carceri-appello/). Non sarà facile, ma occorre provarci. Lo stigma del “tossico” e la verità sospesa sulle morti di tredici detenuti di Stefano Vecchio fuoriluogo.it, 25 marzo 2020 La rivolta nelle carceri italiane e i tredici detenuti morti in condizioni ancora tutte da chiarire, sembra che sia stata riposta nel dimenticatoio approfittando dell’emergenza e dello stato di eccezione nel quale siamo immersi. Non è facile trovare spiegazioni chiare sulle circostanze reali che hanno determinato le morti dolorose di quei 13 detenuti che si stavano ribellando, insieme alla moltitudine disperata dei detenuti, a causa dell’editto del Ministero della Giustizia che interrompeva senza alcuna mediazione per un lungo periodo gli incontri con i familiari e cioè l’unico contatto con gli affetti e con l’esterno che consente di reggere la situazione sofferta della detenzione. E naturalmente senza nessun tentativo di coinvolgere attivamente i detenuti nell’ informazione sui rischi per la salute e condividere l’esigenza di adottare le misure ulteriormente restrittive, informando da subito che ci sarebbe stata l’attivazione di vie di contatto alternative, con il telefono cellulare e in video, intensificandone la frequenza. Penso che se si fosse adottato questo semplice comportamento incentrato a una sicurezza “dolce” si sarebbero con molta probabilità evitate o fortemente limitate le rivolte e la strage collegata. In altri tempi come minimo si sarebbero invocate le dimissioni dei responsabili istituzionali… Invece al contrario le goffe risposte ufficiali hanno spostato tutta l’attenzione sullo stigma del detenuto violento e pericoloso e non è un caso che per le morti si utilizza il “rinforzo” dello stigma del tossicodipendente in modo ancora più goffo. Provo a ragionare. Si dice che i detenuti hanno “svaligiato” l’infermeria e hanno fatto incetta di psicofarmaci e metadone. Ora è vero che l’abuso di psicofarmaci è diffusissimo nelle carceri italiane e si configura come un tentativo estremo di autocura che i servizi di salute mentale stentano a governare. È probabile che la custodia degli psicofarmaci non sia particolarmente soggetta a protezioni se non quelle tipiche per i farmaci tutti, per cui i detenuti hanno potuto prelevarli senza grandi difficoltà. Ma il metadone è un farmaco stupefacente e quindi viene custodito in cassaforte e mi sembra quanto meno difficile, in un momento di casino come una rivolta, che tredici persone abbiano avuto il tempo e trovato gli strumenti per aprire una cassaforte. O il metadone non era custodito in cassaforte? Sarebbe una grave mancanza! E poi perché forzare una cassaforte per il metadone? Se, come si dice, i detenuti non erano tossicodipendenti, perché avrebbero dovuto compiere una operazione così impegnativa se avevano già a disposizione i più appetibili psicofarmaci? Il metadone non è un farmaco ricercato per sentirne l’effetto, in genere, almeno nella preparazione per via orale, unica permessa in Italia. Il metadone, ad esempio, in diversi casi viene acquistato nel mercato “grigio” da persone che per motivi diversi non si rivolgono ai servizi, ma prevalentemente per gestire l’astinenza, in mancanza dell’eroina. Inoltre, nei servizi per le dipendenze rivolti ai cittadini cosiddetti liberi il metadone funziona all’opposto, e cioè per evitare le overdosi da eroina, e come componente importante del recupero di funzionalità sociale. Certo si potrebbe obiettare che proprio perché i detenuti non erano tossicodipendenti e quindi non avevano sviluppato una tolleranza al metadone sia bastato un quantitativo anche basso per procurare una overdose. Possibile. Ma ripropongo la domanda. Che attrattiva avrebbe avuto il metadone per detenuti non tossicodipendenti? E pensiamo che i detenuti siano, in generale, così sprovveduti da usare un farmaco che si sa che è pericoloso avendo la possibilità di usare in alternativa psicofarmaci magari meglio conosciuti e gestibili? Gli interrogativi sono molti e l’eventuale rilievo di metaboliti del metadone dovrà essere ben documentato e in particolare riportando i dosaggi ritrovati, perché di per sé dice poco, se non si risponde a tutti gli interrogativi esposti. Certo è possibile anche l’ipotesi della intossicazione da combinazione da farmaci. Ma allora si dovrà spiegare come mai non si aveva a disposizione il narcan e l’anexate che evitano l’uno le morti da overdose da oppioidi e l’altro da intossicazione acuta da benzodiazepine! Non sono ancora disponibili i risultati delle autopsie e fidiamo sul ruolo del Garante Nazionale dei Detenuti per fare chiarezza. L’idea che mi sto facendo è che l’uso di categorie stigmatizzanti come “detenuto” e “tossicodipendente” sia stato rozzamente utilizzato per nascondere una realtà particolarmente grave di violenze attualmente non ancora emersa e che forse non conosceremo mai. Noi faremo tutto il possibile perché venga alla luce la verità e si faccia giustizia. Ma nonostante l’emergenza, questo evento doloroso ci darà un nuovo impulso a promuovere un nuovo dibattito pubblico sulla esigenza non più rinviabile per un cambio di rotta radicale nelle politiche sulle droghe e sul carcere. Tu che parli delle rivolte in carcere, ma in realtà non sai nulla di Lorenzo Palmisciano radiocittaperta.it, 25 marzo 2020 Quattordici morti in tre giorni. Questo il bilancio, pesantissimo, delle rivolte scoppiate in molti istituti penitenziari del nostro paese nei giorni compresi tra l’8 ed il 10 marzo scorsi. Le persone recluse nelle carceri italiane protestavano contro alcune delle misure restrittive adottate dal governo al fine di ridurre il contagio di coronavirus. La notizia ha scalato velocemente le cronache nazionali, salvo poi scomparire con la stessa rapidità dalla gran parte dei media, anche in seguito alla sempre più preoccupante evoluzione dell’emergenza che sta colpendo il nostro paese. Abbiamo cercato, anche grazie all’aiuto di Alessio Scandurra (Osservatorio Adulti sulle condizioni di detenzione - Associazione Antigone), di fare il punto della situazione. Le proteste - Le proteste scoppiano in alcuni istituti (Modena, Milano, Foggia, Rieti, Roma…) l’8 marzo, quando le amministrazioni rendono noto ai detenuti che le visite e i colloqui con i parenti saranno interrotte per prevenire il contagio di coronavirus all’interno delle carceri. La situazione degenera rapidamente, con scontri e tentativi di evasione. “Tutto è avvenuto in tempi abbastanza brevi, nei giorni tra l’8 ed il 10 marzo. Ad eccezione di qualche piccolo strascico, tutto si è fermato molto presto”, spiega Scandurra. L’Associazione Antigone aveva previsto e segnalato più volte, nei giorni precedenti, il rischio di un’escalation di tensione all’interno degli istituti. Gli appelli, tuttavia, sono caduti nel vuoto e la rabbia è esplosa in modo incontrollato, con un bilancio finale di 14 morti. Ricostruire i fatti dall’esterno, tuttavia, è particolarmente complicato: “Noi, normalmente, valutiamo la situazione esistente visitando i luoghi di detenzione, a cui in questo momento non abbiamo accesso; la facciamo anche parlando con operatori e volontari, ma per ora neanche loro possono entrare”, afferma Scandurra. Diventa quindi difficile riuscire a fare chiarezza su cosa sia realmente accaduto e, soprattutto, su quali siano state le cause dei decessi. La versione ufficiale arrivata dagli istituti penitenziari parla di overdose da metadone: i detenuti in rivolta avrebbero assaltato, tra le altre cose, le infermerie, riuscendo così a procurarsi medicinali che normalmente vengono somministrati con dosaggi controllati. Una versione che non riesce a convincerci del tutto: proprio mentre sono in corso proteste violente dentro le nostre carceri, con risposte che immaginiamo tutt’altro che tenere da parte delle forze dell’ordine arrivate a sostegno della polizia penitenziaria, muoiono 14 detenuti, tutti per overdose. Strano, come minimo. Eppure non abbiamo, e probabilmente non avremo mai, elementi per sostenere tesi alternative, come sottolinea ancora Scandurra: “Le notizie che cominciano a uscire sono sorprendenti: le uniche persone di cui si ha notizia degli esiti preliminari delle autopsie confermano la tesi dell’intossicazione acuta da metadone, che è stata la tesi ufficiale sin dall’inizio. Nella mia esperienza non avevo mai sentito una cosa simile. Sappiamo che spesso i detenuti tossicodipendenti cercano di rubare farmaci, sappiamo che per un tossicodipendente in astinenza quella è l’assoluta priorità, però al tempo stesso non avevamo mai visto, né mai pensato, che potesse accadere una cosa del genere”. Le misure di prevenzione contro il coronavirus - Come detto, all’origine delle proteste c’è stata la decisione di interrompere le visite che i detenuti ricevono dall’esterno. Una scelta che è per molti versi comprensibile: è infatti indiscutibile che in un ambiente chiuso come il carcere, il rischio di contagio possa arrivare esclusivamente da chi accede agli istituti dall’esterno. Sospendere gli incontri tra i detenuti ed i loro cari, quindi, contribuisce senz’altro a ridurre le probabilità che qualcuno, inconsapevolmente, veicoli il virus all’interno degli istituti penitenziari. Tuttavia, ci sembra che il ragionamento da fare sia più ampio. È infatti altrettanto certo che ad accedere ogni giorno negli istituti italiani non siano soltanto i parenti delle persone detenute all’interno. Anzi, questi rappresentano probabilmente una percentuale ridotta del totale. Quotidianamente, come è logico, nelle carceri italiane entrano tutti quegli individui che fanno parte dell’amministrazione degli istituti, insieme agli agenti di polizia penitenziaria e ad operatori e volontari. Le fonti di possibile contagio, quindi, sono molteplici. Vietare le visite contribuisce senz’altro a ridurre i rischi, ma probabilmente questa misura, presa da sola, potrebbe non essere sufficiente a scongiurare che anche nelle carceri si registrino casi di COVID-19, oltre ad acuire ulteriormente lo stato di isolamento ed il senso di solitudine dei detenuti stessi, privati anche di quei pochi momenti di contatto con i propri affetti. Ma come salvaguardare il diritto dei detenuti a interagire con i propri cari, riuscendo allo stesso tempo a tutelare la salute di tutti? L’associazione Antigone ha proposto di favorire le videochiamate, chiaramente sotto la supervisione del personale di controllo interno agli istituti. Allo stesso tempo, sarebbe necessario predisporre delle aree di controllo dello stato di salute di tutto il personale che entra negli istituti ogni giorno. Scelta che è stata adottata già da qualche tempo in Lombardia, vero cuore dell’emergenza, ma che tarda a trovare applicazione in altri istituti del nostro paese, nonostante il virus sia ormai diffuso su tutto il territorio nazionale. Purtroppo anche questa misura, per quanto utile, potrebbe non riuscire ad essere risolutiva. Basti pensare, ad esempio, ai possibili casi di personale asintomatico affetto da Covid-19. Ci sembra allora evidente che gli interventi necessari non riguardino solo la prevenzione, ma anche le modalità per affrontare, nel modo più sicuro possibile, il rischio di un’eventuale diffusione del virus all’interno di uno o più luoghi di detenzione. Secondo Scandurra “la questione che angoscia i detenuti è, oltre al rischio di contagio, la consapevolezza che se si contrae il virus gli istituti non sono luoghi dove sia possibile mettere in quarantena i contagiati. Come si fa? Si può fare per uno, due, tre casi, ma cosa succede quando si supera quella soglia? La paura è anche, forse soprattutto, questa: se il virus entra non hai scelte. Sei lì e lì resti, e non parliamo di posti notori per alti standard igienici e sanitari e se stai sempre lì pensi anche alla puntata successiva. Noi, a casa, pensiamo soprattutto alla puntata precedente, pensiamo a evitare il contagio e a non dare un contributo alla diffusione della malattia, pensiamo molto meno a cosa ci succede se la contraiamo. Loro invece, secondo me, ci pensano di più”. D’altra parte i dati di cui disponiamo parlano chiaro. Le nostre carceri sono abbondantemente sovraffollate, con tutte le conseguenze che questo può comportare in una situazione emergenziale come quella in corso: “parliamo di 13-14 mila persone in più rispetto alla capienza regolamentare”, dice Scandurra: “Questo chiaramente ha un impatto sulle celle, sulle infermerie, sulla struttura nel suo complesso, che è tarata su una certa soglia. C’è di più: quello che penso è che in questo momento ci sia bisogno di celle vuote. Non di una presenza ottimale, ma più bassa. Prendiamo il caso di una persona che potrebbe essere stata contagiata ma non sta male (in quel caso sarebbe trasportata in ospedale), magari un asintomatico. Ecco, questa persona deve rimanere in carcere, ma va isolata dagli altri detenuti. Come si può fare se non ci sono celle disponibili? Diciamo che in un istituto che funzioni a regime normale questi spazi ci sono (quelli destinati all’isolamento dei detenuti per ragioni sanitarie, di sicurezza, etc.), ma sono tarati su un’esigenza ordinaria e su presenze standard. È chiaro che la situazione attuale non è né ordinaria, né standard e quindi c’è bisogno, e ci sarà bisogno, di far scendere i numeri molto di più”. Non solo debellare il sovraffollamento, quindi, ma portare gli istituti ben al di sotto della capienza standard, per trovarsi pronti nel caso in cui vi fosse la necessità di fronteggiare il contagio interno. Rispetto a tutto questo, però, l’intervento del governo è stato decisamente debole. Il decreto approvato (e già da più parti ribattezzato impropriamente “svuota carceri”), secondo la stima di Antigone, permetterà la detenzione domiciliare a circa un migliaio di detenuti: nessun indulto, nessuno sconto di pena, quindi. Solo una modifica della modalità di detenzione (dal carcere alla propria abitazione) per di più riguardante un numero di casi sfacciatamente inferiore alle reali necessità. Il tutto adottando una misura che, a tutti gli effetti, fa già parte del nostro ordinamento, come ci spiega ancora Alessio Scandurra: “Si tratta di qualcosa che già esiste, cui si aggiunge un dispositivo tecnico - amministrativo per velocizzarne l’esecuzione. La detenzione domiciliare per chi ha meno di 18 mesi di pena già esiste, è contenuta nella legge 199 ed è in funzione da diversi anni. Ad esempio, a febbraio 2020, grazie alla legge 199, sono uscite 152 persone. Quindi abbiamo un quadro molto chiaro, di questa misura. Ora ne è stata introdotta un’altra che mantiene per la detenzione domiciliare sempre il limite dei 18 mesi di pena, con qualche esclusione in più rispetto al passato (ad esempio non potrà rientrarvi chi ha ricevuto sanzioni disciplinari durante le proteste), ma senza più la necessità della relazione degli operatori. Diventa quindi un accertamento più rapido e più oggettivo. Il giudice non dovrà più leggere e valutare le relazioni ricevute dall’istituto. L’impatto della misura, dunque, riguarda principalmente questo. Sicuramente non sarà sufficiente neanche a raggiungere la capienza regolamentare”. Conclusioni - Insomma, davanti al rischio che l’epidemia si propaghi anche all’interno delle carceri, l’unica soluzione ci sembra quella di svuotare, davvero e quanto più possibile, gli istituti. Favorendo la concessione della detenzione domiciliare, a tutela della salute di tutti: detenuti, forze dell’ordine (e familiari), operatori, volontari. Perché quella che ci troviamo di fronte è a tutti gli effetti un’emergenza nell’emergenza. È difficile, infatti, trovare altri termini per definire le condizioni di molti (la maggior parte, purtroppo) dei nostri istituti penitenziari: un sovraffollamento che si attesta attorno al 120%, condizioni igienico-sanitarie carenti, celle in cui l’acqua calda non è che un lontano ricordo o, addirittura, prive di docce. Eppure forse la vera battaglia più difficile da vincere è un’altra. Quella contro un’opinione pubblica sempre più feroce, sempre più pronta a isolare e punire chi ha sbagliato, a puntare il dito nel nome di un “cattivismo” che non contempla mai, per chi si trova dalla parte “sbagliata” della società, il diritto a una seconda opportunità. La detenzione al tempo del coronavirus: possibili vie d’uscita di Antonio Russo* acli.it, 25 marzo 2020 Sovraffollamento e solitudine, due termini in contraddizione che caratterizzano però la maggior parte delle nostre carceri. In altre parole, i detenuti sono sempre a contatto fra loro, ma in realtà sono persone molto sole. Secondo l’ultimo Rapporto di Antigone, i reclusi in Italia sono 60.439, quasi 10.000 in più rispetto ai 50.511 posti letto ufficialmente disponibili - se non si considerano gli spazi in ristrutturazione/manutenzione - per un tasso di affollamento di circa il 120%. Insomma, mentre gli istituti di pena italiani sembrano esplodere, la solitudine implode negli animi dei detenuti, tant’è che la depressione è molto diffusa. Secondo Ristretti Orizzonti nel 2018 si è rilevato l’elevato numero di 67 suicidi. Ciò che preoccupa è che il numero di suicidi negli anni aumenta, e al di là dei motivi che portano i detenuti a compiere un gesto così estremo, è il chiaro sintomo di una sofferenza a volte inascoltata o semplicemente non capita. In questo senso il suicidio rappresenta da una parte la totale solitudine del detenuto, dall’altra, l’ultimo gesto di richiesta di comunicazione e attenzione. Proviamo ora ad immaginare cosa significano questi due termini in tempi di Corona Virus. Dall’indice di affollamento evidenziato possiamo immaginare che vi sia un alto tasso di promiscuità fra le persone, che vi siano cattive condizioni igieniche e ambienti insalubri, dove il rischio di contagio da Covid 19 diventa elevatissimo e dove è impossibile rispettare le misure di distanziamento sociale, di igiene e di prevenzione previste dai moniti e dai vari decreti profusi dal nostro Governo. Dall’altra parte, la richiesta di interruzione improvvisa, immediata e sine die degli incontri fra detenuti e familiari, avvocati e volontari, la sospensione delle poche attività svolte in quei luoghi, la soppressione dei permessi premio per evitare che il detenuto, rientrando possa portare il virus nei luoghi di detenzione, ha praticamente tagliato i fili degli unici contatti che il detenuto ha con l’esterno. Insomma, una situazione che rischia di aumentare il disagio e i tentativi di suicidio. A tal proposito è utile ricordare che il 40% della popolazione che vive nei circa 200 istituti penitenziari è ancora presunto innocente in quanto non ha ancora una condanna definitiva e che nel 2018 si sono contati circa un migliaio di risarcimenti per ingiusta detenzione. Per le Acli è di dirimente importanza che in questo delicato momento di pandemia, nessuno venga lasciato indietro. Ecco perché, rispetto ai detenuti, l’Associazione chiede al Governo di stanziare ogni possibile mezzo economico, e non, per portare a termine nel più breve tempo possibile quattro azioni. La prima azione che le Acli chiedono è l’immediata sanificazione di tutte le strutture carcerarie onde evitare il diffondersi del virus e il rafforzamento dei loro presidi sanitari. La seconda azione dovrebbe prevedere l’alleggerimento dei luoghi di detenzione mediante norme e strumenti giuridici di esecuzione penali alternativi alla detenzione, già previsti dall’ordinamento italiano. Sono circa 16.000 i detenuti a cui resta da scontare meno di due anni di reclusione che potrebbero estinguere la rimanenza della loro pena fuori dal carcere. Sarebbe una bella occasione per sperimentare la diffusione di pene alternative, molto utilizzate in alcuni Paesi europei (Svezia, per esempio), dove diminuiscono luoghi di detenzione e detenuti. La terza azione dovrebbe rappresentare un antidoto alla solitudine dei carcerati, contro cui si chiede di mettere in campo mezzi di comunicazione alternativi, per esempio, l’uso dell’email o di cellulari comuni per non interrompere il flusso di relazione fra detenuti e familiari. La quarta azione è quella di incentivare una stretta collaborazione fra cooperative interne alle carceri, Ministero della Sanità e Ministero di Grazia e Giustizia per produrre le mascherine adatte non solo alla comunità interna ai luoghi di detenzione, ma anche alla comunità esterna. Ciò avrebbe il doppio vantaggio di produrre qualcosa di utile in un momento di tale bisogno e di dare un messaggio di solidarietà e speranza ai detenuti, dando loro un compito importante per il paese. Sarebbe un modo molto semplice per riabilitare la loro immagine a quella parte di popolazione che vede la detenzione come mera punizione. Le Acli pensano che ai detenuti può essere tolta la libertà, ma mai si potranno loro togliere la dignità e i diritti di cui noi tutti godiamo, in primis quello alla salute fisica e mentale. Stiamo attraversando una crisi poderosa che avrà uno strascico molto lungo e che, a partire dalla sanità, toccherà tutte le altre sfere della vita umana, da quella economica a quella sociale a quella psicologica. Il termine crisi deriva dalla lingua greca krino che vuol dire separare e in senso più ampio, giudicare, discernere, valutare. In realtà, contrariamente al significato corrente negativo, crisi ha dunque un’accezione positiva, rappresentando un momento di riflessione, valutazione, scelta in una direzione piuttosto che in un’altra. Bene, è proprio in questo momento di crisi, che bisogna avere il coraggio di trovare soluzioni che consentano di tutelare la salute come diritto di tutti. *Consigliere di Presidenza nazionale Acli con delega alla legalità Video e audio hd: in 35 carceri i detenuti “vedono” i familiari di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 25 marzo 2020 Testato a Bollate un sistema che permette ai reclusi colloqui virtuali coi propri cari. Il sistema si chiama “Webex”: ideato dalla multinazionale Cisco, è stato adattato da un agente penitenziario esperto di computer. In funzione da metà marzo, ora è usato da mille detenuti al giorno. Seduto su una sediolina e con un computer portatile davanti, un detenuto guarda lo schermo e saluta moglie e figli, che stanno a centinaia di km di distanza. Dopo l’impaccio iniziale, grazie all’alta qualità dell’immagine e dell’audio la conversazione in videoconferenza prende vita: attimi di serenità, nell’angoscia generale indotta dalla paura del coronavirus, detonatore delle rivolte che hanno infiammato gli istituti di pena nei giorni scorsi. Siamo nel carcere milanese di Bollate, dove anche oggi una quarantina di reclusi riuscirà a parlare coi propri cari, attraverso una piattaforma virtuale chiamata “Webex”, ideata dalla multinazionale Cisco Systems. Il sistema, sperimentato a Bollate da metà marzo grazie alla lungimiranza della direttrice del carcere Cosima Buccoliero, funziona così bene che in dieci giorni lo hanno adottato 35 fra istituti di pena e case circondariali in tutta Italia. Fra queste - oltre a Bollate, San Vittore e Opera nel Milanese, Varese e altri penitenziari lombardi - si contano ad esempio quelli di Rebibbia e Regina Coeli a Roma e altri ad Aosta, Mantova, Ferrara, Sulmona, Ascoli, Fossombrone, Viterbo, Altamura, Melfi, fino a Gela e Favignana. Per ogni carcere si riescono a fare 30- 40 colloqui al giorno. Ed è una stima per difetto: vuol dire che quotidianamente oltre un migliaio di detenuti (su un totale di 60mila presenti negli istituti di pena) sta già riuscendo a virtualmente i familiari grazie alla piattaforma tecnologica. Un fatto importante, se si pensa che nei giorni scorsi rabbia e frustrazione sono montate anche per via della sospensione delle visite dei familiari, prevista nei nuovi protocolli di sicurezza fissati dal Guardasigilli Alfonso Bonafede per contrastare l’epidemia da Coronavirus. Uno stop al quale ora il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sta cercando di rimediare attraverso una maggior possibilità di telefonate e video colloqui. Lo ha ricordato anche, nei giorni scorsi, il Garante nazionale dei diritti dei detenuti Mauro Palma, in un appello rivolto ai reclusi: “Vi assicuro che si stanno ampliando tutte le possibilità di comunicazione con i vostri cari, anche dotando gli istituti di telefoni cellulari disponibili, oltre che di mezzi per la comunicazione video. Noi garanti controlleremo che queste possibilità siano effettive”. Fornita gratuitamente dalla Cisco Systems, per essere utilizzata nelle carceri la piattaforma “Webex” è stata “implementata”, per dirla in gergo tecnico, da Costantino M., agente di Polizia penitenziaria col pallino dell’informatico. Al lavoro di squadra hanno contribuito Angelo Fienga, specialista della Cisco, e Lorenzo Lento, presidente della cooperativa “Universo”. Lento insegna nella Cisco Academy interna al penitenziario milanese e in vent’ anni ha formato oltre un migliaio di studenti-detenuti, fornendo ai più volenterosi strumenti per cercare lavoro, una volta tornati in libertà. Fra le tante, spicca la storia di Luigi Celeste, che dopo aver scontato 9 anni per l’omicidio del padre violento, oggi è libero e lavora come responsabile della sicurezza informatica per diverse aziende. “Siamo felici di collaborare con dirigenti e agenti della Polizia penitenziaria che operano nelle carceri italiane”, spiega ad Avvenire Agostino Santoni, Ceo di Cisco Italia, “abbiamo iniziato 20 anni fa con il carcere di Bollate, facendo partire la prima Cisco Academy in un carcere a livello mondiale, iniziativa estesa ad altre carceri in Italia con una partecipazione annua ai corsi in aula di oltre 150 detenuti, alcuni dei quali sono riusciti a conseguire importanti certificazioni Cisco e hanno trovato lavori molto qualificati”. E ora, proprio nel momento in cui era più necessario, “grazie alla partnership consolidata nel tempo”, prosegue Santoni, “abbiamo fatto partire in pochissimo tempo il progetto dei video colloqui, facendo usare a detenuti e loro familiari la piattaforma Webex, la stessa che usano aziende e istituzioni”. Ad oggi, conclude il manager, “siamo in 35 carceri e il numero aumenta di giorno in giorno, grazie all’impegno dei dirigenti e degli agenti della Polizia penitenziaria, supportati da noi”. Gli agenti penitenziari: “Siamo senza tutele e protezioni individuali” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 marzo 2020 Le lettere preoccupate degli agenti penitenziari che arrivano al nostro giornale si moltiplicano. Mentre è giunta la buona notizia della guarigione del primo agente penitenziario colpito dal coronavirus e che prestava servizio presso il carcere di Vicenza, continuano ad arrivare notizie - trapelate da fonti sindacali - di alcuni contagi nei confronti del personale penitenziario. Non solo agenti, ma anche medici e infermieri. Nel momento in cui c’è il responso positivo del tampone, subito si attivano i regolamenti sanitari predisposti dal decreto emergenziale. Ad esempio - come ha appurato Il Dubbio - qualche giorno fa è risultato positivo un medico che operava nel carcere di Favignana. Subito la direzione ha effettuato il tampone a tutti i detenuti e agenti che hanno avuto contatti con lui: il responso è atteso tra qualche giorno. Qualche giorno fa è risultato positivo il dirigente sanitario del carcere di Santa Maria Capua Vetere, il quale fortunatamente non avrebbe avuto contatti con nessun detenuto. Come accade in questi casi i familiari dei detenuti vengono raggiunto da voci su eventuali contagi. Ma la cosa non risulta. Purtroppo l’angoscia sale quando non ricevono risposte. La direzione, anche per riassicurare gli animi, dovrebbe rispondere alle richieste comprensibili di chi è preoccupato. Su Il Dubbio, nei giorni scorsi, abbiamo invitato all’indomani del caso di contagio di un detenuto - la direzione del carcere di Voghera a rispondere alle richieste degli avvocati sullo stato di salute dei loro assistiti. Finalmente ad alcuni hanno risposto, riassicurando i famigliari in comprensibile agitazione. Da precisare, però, che Il Dubbio riceve tuttora diverse lettere nelle quali i cari esprimono ancora forte preoccupazione. La magistratura di sorveglianza ha respinto l’istanza dei domiciliari ad alcuni detenuti che soffrono di talune patologie. Gli avvocati hanno fatto tale richiesta in ragione del pericolo di contagio. La preoccupazione però serpeggia anche tra gli agenti penitenziari. Ad esempio, da oggi, il sindacato Osapp ha indetto lo stato di agitazione con astensione dalla mensa obbligatoria di servizio da parte del personale di Polizia Penitenziaria in tutta la provincia di Avellino (carceri di Ariano Irpino, Sant’Angelo dei Lombardi, Bellizzi Irpino e Lauro). Il motivo? “Ad oggi non sono stati dotati i poliziotti penitenziari di idonei strumenti di protezione dal rischio contagio in particolar modo presso la Casa Circondariale di Ariano Irpino, che si trova ad operare in un contesto difficile e in piena zona rossa e ad alto rischio contagio così come decretato dal presidente della regione Campania e di tutti gli strumenti Dpi e inoltre chiediamo il tampone a tutti gli operatori penitenziari per tutelare e ridurre il rischio contagio da Covid- 19”, dichiara sempre l’Osapp. Nel frattempo, però, al carcere La Dozza di Bologna si stanno verificando dei problemi. C’è molta preoccupazione da parte del personale penitenziario. A Il Dubbio risultano tre contagi, mentre in realtà - secondo La Repubblica, - sarebbero addirittura 17, tra medici e infermieri. Da tempo i sindacati hanno chiesto la possibilità di sottoporre tutti gli agenti penitenziari al tampone e la possibilità di avere i dispositivi per la protezione. Ma tuttora, secondo il Sinappe, la loro richiesta è rimasta lettera morta. Hanno paura, per loro e per tutta la popolazione carceraria. Ora sembra che i vertici della Ausl e la direzione carceraria stiano correndo ai ripari, sia a tutela del personale che dei detenuti. Si spera al più presto, anche per evitare possibili ulteriori contagi e tensioni interne. D’altronde l’aria è ancora irrespirabile nella sezione devastata dalla scorsa rivolta. Ciao don Fausto Resmini, prete degli indesiderati, non dimenticherò mai la tua lezione di Agnese Pellegrini Famiglia Cristiana, 25 marzo 2020 Se n’è andato in silenzio, a 67 anni, il cappellano del carcere di Bergamo, anch’egli ucciso dalla bestia del Coronavirus. Una vita spesa al fianco dei detenuti, degli emarginati, dei senta tetto, dei ragazzi difficili. Quando a proposito di Bossetti mi disse: “Chi ha sbagliato rimane persona, sempre”. Era schivo, timido, gentile. Quando gli chiesi di poterlo intervistare, non rispose subito. Ci pensò, mi telefonò, mi ritelefonò, mi telefonò ancora, perché attorno a sé non voleva clamore, né pubblicità: desiderava continuare a svolgere il suo servizio tra gli ultimi, come aveva sempre fatto. Sporcarsi le mani nelle miserie dei più poveri tra i poveri: carcerati, ragazzi difficili, prostitute, senza fissa dimora, per cui aveva avviato il servizio Esodo, un camper con pasti caldi. Don Fausto Resmini è morto l’altra notte, a 67 anni. Aveva il CoVid19 ed era ricoverato all’ospedale di Como in terapia intensiva. Uno dei 20 sacerdoti della bergamasca colpiti dal coronavirus e caduti durante la loro testimonianza (sono oltre 50 a oggi in tutta Italia). Perché don Fausto andava fino in fondo. Senza paura. Senza tirarsi indietro. Rischiando in prima persona. Era nato a Lurano, nella Bassa bergamasca: di quella terra aveva ereditato il carattere, forte e duro, coraggioso e sincero. Poi aveva scelto il Patronato San Vincenzo di Bergamo, un pilastro dell’impegno per il sociale, accanto a don Bepo Vavassori, una delle figure più conosciute e amate della Chiesa di Bergamo, fondatore del Patronato, che accoglieva i bambini sullo stile di don Bosco. Dal 1992 Resmini era cappellano del carcere di via Gleno; viveva a Sorisole, nella Comunità don Milani, dedicata al recupero di minori “difficili”, da lui fondata. Ed è lì che mi diede appuntamento, in quell’oasi circondata dalle montagne, in un’afosa giornata di agosto. Metteva quasi soggezione don Fausto, all’inizio. Perché sembrava leggerti dentro. Ma senza giudicarti. Del resto, la condanna era quanto di più lontano potesse concepire. Lo volli intervistare per una curiosità giornalistica; ottenni da lui un dono inaspettato: mi regalò un pezzo della sua anima. Dal cappellano del carcere di Bergamo volevo sapere qualcosa di Massimo Bossetti, il muratore condannato per l’omicidio della piccola Yara, una storia che a quel tempo aveva commosso l’Italia. E io desideravo capire. Come potesse un sacerdote dare la comunione a un uomo che era stato accusato di aver lasciato morire un’adolescente, prima di tutto. Ma anche come riuscisse a convivere con il Male, ogni giorno. E don Fausto iniziò parlandomi di Bossetti. Ma poi mi diede una lezione di fede. Di speranza. Di umanità. Parlando di carcere e, nello stesso tempo, parlando di tutti noi. Don Fausto era l’unico a poter vedere tutti i giorni Massimo Bossetti. Insieme pregavano, leggevano il Vangelo, meditavano. Gli chiesi: “Don Fausto, come riesce a stare accanto a una persona accusata di aver ammazzato una bambina?”. Lui allargò le braccia, sorrise come fa un padre, quando il figlio si ostina a non capire, e mi rispose: “Che sia innocente o colpevole, a me è affidato un uomo. E in nome del Vangelo, io mi incontro con un uomo. Indipendentemente da come è dipinto dalla stampa, da come è visto dal magistrato, da come è trattato dall’amministrazione carceraria... E in quest’uomo, ora il più indesiderato e scomodo, io devo dare ascolto alla sua richiesta d’aiuto, camminare insieme a lui anche sfidando il pregiudizio... Chi ha sbagliato rimane persona, sempre”. In una mattinata intera, don Fausto mi ha raccontato i suoi 30 anni di carcere: la stagione del terrorismo, quella di Mani pulite, i tanti volti incontrati, i tossicodipendenti riscattati e adesso gli stranieri, un’emergenza nell’emergenza, nelle carceri italiane. “Se dovessi dare oggi una definizione del carcere”, mi disse, “non esiterei a definirlo il carcere dei poveri, dove il 50% sono stranieri, figli di nessuno... Oggi la maggioranza non professa la fede cristiana. È per questo che il prete diventa uomo tra gli uomini non sul piano della stessa fede, ma del riconoscimento che la via della riconciliazione passa attraverso l’uomo”. I “suoi” detenuti lo amavano, perché lui sapeva incontrarli, abbracciarli: “La via per incontrare l’altro è il Vangelo, altrimenti se non c’è il riconoscimento che oltre l’errore un detenuto resta sempre una persona, come si fa a stringere la mano a chi ha compiuto reati, anche abominevoli? Noi preti dobbiamo convertirci all’accoglienza dell’altro, è nostro compito dare rilevanza, spazio e consistenza al bene. In ogni persona. Anche la più rifiutata. E dare rilevanza vuol dire fare in modo che questo bene esca e riduca i danni che il male ha fatto”. Ci credeva don Fausto, e lo testimoniava con la vita. A Sorisole, raccoglieva ragazzi difficili, appunto, ma anche coloro che gli venivano dati in affidamento, come alternativa al carcere. E sapeva essere critico: contro i buonisti cristiani (“Sono disponibili all’inserimento degli ex detenuti, ma li vorrebbero a 100 km da casa: questo è un cristianesimo di facciata”), ma anche contro una piccola parte del clero (“La Chiesa ha finito per legare la morale sessuale al consenso. Venendo a mancare il consenso, non è più stato difeso il valore che la sessualità rappresenta”). Gli chiesi se provasse imbarazzo a dare i sacramenti a un assassino, e la sua risposta fu disarmante: “Il prete è l’espressione massima dell’incontro libero con l’Altro. Quando avviene questo incontro, bisogna riconoscere innanzitutto che solo Dio sa leggere il cuore dell’uomo. In questi momenti, so che posso aver contro tutta la società, ma che ho davanti un uomo, solo un uomo che soffre. Quell’uomo chiede a me conto di Dio e io non glielo posso negare”. Prima di lasciarmi, don Fausto mi fece fare il giro della sua comunità e mi fece conoscere i ragazzi in affidamento. “Don”, gli chiesi, “ma non ci sono sbarre qui: non hai paura che i ragazzi scappino?”. E lui, con il solito sorriso, paziente e disarmante: “E perché dovrebbero farlo? Qui hanno una casa”. Già, Resmini era “casa” per tanti. A servizio di tutti: non solo detenuti e le loro famiglie, ma anche gli agenti della Polizia Penitenziaria. Quelli di Bergamo, oggi hanno voluto ricordarlo così: “Caro Don Fausto… non poteva finire così! Quante giornate passate insieme nel carcere di Bergamo (tu da cappellano e lo scrivente da Ispettore e dirigente sindacale della Polizia Penitenziaria), a parlare e confrontarci dei problemi dei detenuti e dei nostri agenti. Avevi a cuore le problematiche di tutti e ti facevi in quattro per cercare di risolverle e di portare un po’ di sostegno morale e materiale, in particolar modo ai poveri e tanti detenuti extracomunitari indigenti e privi di ogni legame familiare. Sei stato un grande cappellano ed un grande amico e, nonostante le nostre strade si sono divise nel lontano 2015, la stima che ci legava è rimasta indelebile sulle nostre pelli. Ti ricorderemo sempre con affetto! Riposa in pace fra le braccia del nostro amato Gesù e di sua madre Maria”. Mi telefonò, don Fausto, qualche giorno dopo l’uscita dell’intervista. Non per ringraziarmi. Ma per richiamarmi: “Mi hai messo in un bel guaio”, mi disse, “ora tutti mi cercano, vogliono intervistarmi, ho le troupe televisive alle calcagna, devo farmi negare...”. Ma sorrideva, con la sua voce dolce. Non rilasciò mai altre interviste su Bossetti. Aveva già detto tutto a noi. Scelse, ancora una volta, l’umiltà e il silenzio. Quello stesso silenzio che lo ha accompagnato, fino alla fine e che lo ha fatto amare a molti. Cura Italia e carcere: Bonafede Ministro dell’ingiustizia di Giusy Santella mardeisargassi.it, 25 marzo 2020 Da oramai due settimane il Covid-19 ha sconvolto le esistenze di tutti, ha modificato la nostra quotidianità e ci ha relegato nel nostro spazio domestico, limitando gli spostamenti alle sole necessità più essenziali. Ma se c’è un luogo in cui l’impatto del coronavirus è stato ancora più tragico è il carcere, dove le conseguenze rischiano di essere quelle di un vero e proprio sterminio di massa, se urgenti misure per affrontare la situazione non vengono adottate immediatamente. L’emergenza ha messo in luce criticità che bisognava affrontare già da tempo, fin da quando nel 2013 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con la sentenza Torreggiani condannò l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione per i trattamenti inumani e degradanti cui erano sottoposti molti detenuti a causa del sovraffollamento. Da allora, la situazione non è cambiata e i nostri istituti penitenziari “ospitano” 10.300 persone in più rispetto ai posti letto ufficiali, senza contare quelli non realmente disponibili, sfiorando un tasso di sovraffollamento del 120%. Dunque, la paura del contagio, insieme alla mancanza di informazioni chiare e alle limitazioni di tutti i contatti con l’esterno - che per i reclusi rappresentano l’unica forma di libertà - hanno esasperato le condizioni di vita già di per sé difficili, provocando proteste in quasi cinquanta carceri durante le quali hanno perso la vita ben 14 persone di cui fino a poco fa non si conoscevano neppure i nomi. Negli ultimi giorni, anche in altri Paesi colpiti dal coronavirus, si sono verificate sommosse nelle case di detenzione: in Francia proteste sono state messe in atto nel carcere di Grasse e nella prigione di Metz, mentre in Spagna i prigionieri hanno deciso di portare avanti uno sciopero della fame in due blocchi carcerari in Catalogna, in seguito alla notizia di un detenuto risultato positivo. Le prime notizie di contagi negli istituti penitenziari, però, stanno arrivando anche in Italia: dieci in tutto, pare, dal carcere di Pavia, Modena, Lecce, Voghera e San Vittore. Tutte notizie frammentate e non chiare. La domanda che sorge spontanea è, quindi, come possa un recluso in un luogo sovraffollato portare avanti il cosiddetto isolamento domiciliare o rispettare il distanziamento sociale. Le uniche indicazioni che si hanno a riguardo provengono da circolari del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria che ha stabilito che nel caso in cui l’isolamento non possa compiersi in strutture apposite o in camere singole che impediscono contatti con l’esterno, esso sarà portato avanti nella propria cella, costringendo allo stesso i propri “coinquilini”, che in alcuni casi sono addirittura dieci o dodici. Intanto, nel decreto Cura Italia varato il 17 marzo, il governo ha inserito due articoli (il 123 e il 124) che predispongono misure per diminuire il sovraffollamento e prevenire i rischi di contagio. Si tratta di un intervento nei confronti del quale si era creata nei giorni scorsi una grande aspettativa, dopo che da più parti e da più autorevoli voci si era chiesto di riportare gli istituti almeno alla loro capienza regolamentare poiché solo in questo modo sarebbe stato possibile attrezzarsi per affrontare il diffondersi del virus, liberando quanti più letti e camere di pernottamento possibile. E invece, anche stavolta, le misure adottate risultano insufficienti e prive di qualsiasi valore reale. Innanzitutto, l’art. 123 - che riguarda la detenzione domiciliare - non fa altro che ribadire una possibilità che era già stata inserita nel nostro ordinamento dalla Legge 199 del 2010, poi denominata Svuota-carceri, che, inizialmente pensata come provvedimento deflattivo temporaneo, è poi diventata parte integrante del nostro sistema sanzionatorio in via definitiva nel 2014. Si attribuisce con questa norma la possibilità di scontare la pena presso la propria abitazione, o presso altro luogo pubblico o privato che li accolga, a coloro i quali hanno una pena o un residuo di pena non superiore a 18 mesi. Il Cura Italia non fa altro che ribadire tale opportunità fino al 30 giugno prossimo, aggiungendo però una preclusione di carattere disciplinare e dal chiaro intento moralizzatore: non potranno accedervi coloro che nell’ultimo anno hanno ricevuto un rapporto disciplinare, compresi quelli hanno partecipato alle proteste delle scorse settimane. Oltretutto, è sufficiente il solo rapporto disciplinare, dunque un atto unilaterale di solito redatto dalla polizia penitenziaria, rispetto al quale non c’è alcun contraddittorio né accertamento. È chiaro l’intento punitivo nei confronti di quanti hanno protestato per ottenere la salvaguardia e il rispetto della loro salute, con una palese violazione del fine rieducativo che l’istituzione dovrebbe perseguire. Ma questo altro non è che lo specchio del nostro governo: le uniche parole spese dal Ministro della Giustizia Bonafede a seguito delle sommosse sono state non un passo indietro rispetto all’illegalità. Non una parola sulle vittime, nulla sulla necessità di chiarezza e di indagini rispetto alle dinamiche dei fatti, nulla sulle condizioni disumane cui i detenuti sono costretti né sulla presenza di reclusi anziani e con patologie pregresse che in questo momento rischiano ancora di più. Solo due articoli, in un decreto che si occupa di misure economiche e finanziarie, contenenti inoltre misure inefficaci. Infatti, oltre a questa preclusione, persistono le altre previste dalla Legge 199, in base alla quale sono esclusi da tale beneficio taluni tipi di reati per la loro gravità - stalking, maltrattamenti familiari, illeciti per i quali è previsto il regime dell’ostatività - i delinquenti dichiarati abituali, professionali o per tendenza e, infine, coloro che non hanno un domicilio effettivo e idoneo. Quest’ultima previsione, in particolare, rischia di tagliare fuori un grande numero di reclusi, le cui famiglie spesso non abitano in luoghi che sarebbero definiti idonei in tal senso: basti pensare ai tanti migranti che affollano le nostre carceri e a cui sarebbe preclusa qualsiasi possibilità di uscire. L’art. 124 si occupa invece dei semiliberi, ossia coloro che escono dal carcere per svolgere lavoro all’esterno e rientrarvi la sera: per loro è prevista la concessione di permessi premio senza limiti fino al 30 giugno in modo da diminuire il rischio di contagio che il rientro comporterebbe. A diminuire ancora di più l’impatto delle misure in questione due ulteriori elementi: esse si rivolgono ai condannati in via definitiva, escludendo invece i detenuti in attesa del passaggio in giudicato della sentenza e i detenuti in custodia cautelare. Infine, la misura della detenzione domiciliare per le pene superiori a sei mesi è subordinata alla possibilità di ottenere il famoso braccialetto elettronico. Famoso perché è un argomento che torna spesso al centro del dibattito sulle misure penali e penitenziarie: il numero di braccialetti utilizzati negli ultimi anni è irrisorio e numerosi reclusi sono in attesa della loro disponibilità. Dunque, chi accederà realmente alla misura? Il bacino di potenziali destinatari si riduce sempre di più e così, senza considerare la necessità di un domicilio effettivo e l’assenza di rapporti disciplinari, potrebbero raggiungersi al massimo 3-4.000 persone. Dunque, tanta attesa per nulla e probabilmente quando queste persone potranno raggiungere la loro abitazione l’emergenza sarà bella che passata e migliaia saranno le vittime del sistema penitenziario. Già, non del coronavirus, ma dell’ingiustizia di un sistema che mette la propaganda politica davanti alla salute, millantando una sicurezza che non esiste e conquistando voti sulla pelle di esseri umani. Infatti, nonostante l’insufficienza e l’irrisorietà delle misure adottate, il leader della Lega Matteo Salvini ha parlato di un indulto mascherato e ha accusato Bonafede di mandare a passeggio i carcerati in un momento di così grave emergenza, subordinando all’abrogazione dei due articoli interessati il suo voto favorevole per la conversione in legge del decreto. Si tratta della vergognosa demagogia di chi definisce il carcere luogo protetto e del vergognoso silenzio di un governo che non solo ha varato misure insufficienti che non saranno in grado di salvare la popolazione penitenziaria e chi quotidianamente negli istituti lavora, ma che dimostra di essere inconsapevole e inumano. Inconsapevole poiché le decisioni sono prese solo da chi non sa minimamente cosa sia il carcere e quali siano le sofferenze che vi si annidano, inumano perché si dimentica che si tratta di uomini che hanno il diritto di vivere come tali. Sanzioni da Covid-19, multe fino a 3.000 euro di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 25 marzo 2020 Con il decreto legge approvato ieri pomeriggio il Governo rivede in maniera un po’ più sistematica le sanzioni a presidio dei più significativi obblighi di condotta imposti dall’emergenza sanitaria. E lo fa abbandonando un controverso binario penale per puntare in maniera più decisa su quello amministrativo. Così, la bozza di decreto legge introduce una sanzione amministrativa compresa tra un minimo di 400 euro e un massimo di 3.000 euro che andrà a colpire, non appena il testo sarà entrata in vigore una pluralità di comportamenti. Tra questi, come ovvio, cruciale la limitazione della circolazione delle persone, con l’ormai canonica eccezione rappresentata dagli spostamenti individuali per ragioni di necessità o lavoro. Esclusa espressamente l’applicazione di quello che sinora era stato il perno penale dei divieti, l’articolo 650 del Codice. In caso di violazione del divieto di circolazione commessa con un veicolo, la multa non sarà accompagnata dal fermo del mezzo, ma sarà aumentata di un terzo. La bozza di decreto, che abroga quello precedente del 23 febbraio, il n. 6, poi convertito in legge, e l’articolo 35 del decreto legge n. 9, prende atto delle difficoltà applicative dell’articolo 650 sull’inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità. Quest’ultimo prevede infatti di punire i trasgressori, a titolo di contravvenzione, con l’arresto fino a 3 mesi o l’ammenda fino a 206 euro. Importo quest’ultimo dimezzato in caso di pagamento per oblazione con cancellazione della rilevanza penale della condotta. Troppo poco e troppo complesso per il Governo. E non solo, visto che in questi giorni alcune Procure, la prima Milano, ma poi anche Genova, avevano pensato di fare ricorso ad altre disposizioni come l’articolo 260 del testo unico delle leggi sanitarie per escludere almeno la possibilità dell’oblazione, conservando invece il profilo penale della violazione. Ora, invece, la svolta è tutta sull’amministrativo, considerato forse più gestibile, anche per la possibilità di pagamento immediato. Il penale contravvenzionale è espressamente escluso. Resta invece la possibilità di punire a titolo di delitto le condotte più gravi, e il decreto ne evidenza una, quella di circola, malgrado la positività al virus, infrangendo l’obbligo di quarantena. In questo caso, la pena può andare da un minimo di 1 ano a un massimo di 5 anni. Campagna del governo contro la violenza domestica: “Fermiamo l’emergenza nell’emergenza” di Giovanna Vitale La Repubblica, 25 marzo 2020 L’iniziativa nasce da un appello al premier Conte da parte di alcune attiviste per i diritti delle donne per evitare che, come accaduto in Cina, dilaghino violenze e femminicidi. Ora arriva una batteria di spot in tv e sulla rete. Parte oggi la campagna promossa dal governo per combattere quella che rischia di diventare un’emergenza nell’emergenza: la violenza sulle donne ai tempi del Covid-19, della coabitazione forzata e delle restrizioni alla circolazione. Una batteria di spot programmati fino al 3 aprile per promuovere il numero 1522, centro anti-stalking attivato dalla presidenza del consiglio e gestito dal Telefono Rosa, per offrire aiuto a chi in questo periodo potrebbe averne più bisogno. L’appello pubblico al premier Conte ha dunque colto nel segno: lanciato da due storiche attiviste - Fabrizia Giuliani ed Andrea Catizone - nel giro di poche ore ha fatto il giro della Rete e mietuto consensi. Fino a essere sottoscritto da 500 donne: docenti universitarie, avvocate, politiche, sindacaliste, professioniste nei campi più vari. Da Laura Boldrini ad Anna Finocchiaro e Livia Turco, da Cristina Comencini a Francesca Izzo passando per Anna Maria Bernardini de Pace. Mondi diversi uniti in un’unica battaglia: quella contro la violenza fra le mura domestiche che, in tempo di pandemia, rischia di produrre una strage silenziosa. Lo dimostrano i numeri: negli ultimi 15 giorni le chiamate al 1522 si sono dimezzate rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. E di circa il 50 per cento sono diminuite anche le denunce alle forze dell’ordine. “La prescrizione di evitare il più possibile gli spostamenti e rimanere presso le proprie abitazioni se non per esigenze primarie - recita l’appello - se risponde a legittime e indiscutibili ragioni di esigenza di Salute pubblica” rischia però di creare “l’emergenza nell’emergenza: ossia le conseguenze che tali restrizioni possono avere nei contesti familiari segnati dalla presenza di maltrattamenti e violenze, fenomeni che nel nostro Paese sono purtroppo diffusi e sommersi”. In sostanza, argomentano le autrici della lettera a Conte, “occorre evitare che il principio della tutela della vita umana, alla base delle ordinanze di restrizione, venga meno o si rovesci, al contrario, in una maggiore esposizione alla violenza per le donne e i loro figli, spesso minorenni, condannati a subire o ad assistere alla violenza”. Da qui l’appello alle Istituzioni Pubbliche perché facciano “ogni sforzo per dare il senso che lo Stato non si ritira dalla battaglia contro la violenza domestica, ma invece rafforza il suo presidio, promuovendo la diffusione del numero verde 1522 in ogni comunicazione pubblica che inviti a restare a casa anche nella forma di app scaricabile sullo smartphone”. Appello che la ministra alla Famiglia Elena Bonetti e il Sottosegretario all’Editoria Andrea Martella hanno deciso di accogliere e di trasformare in una campagna tv e online. Per evitare ciò che in Cina è già accaduto: l’impennata di violenze sulle donne e femminicidi. Caso Palamara, per il Gip non ci sono prove. L’ex Pm vittima di congiura di Giovanni Altoprati Il Riformista, 25 marzo 2020 Tre soggiorni a San Casciano dei Bagni (SI), uno a Favignana (TP), uno a Madonna di Campiglio (TN), uno a Dubai e uno a Madrid. Sette viaggi per un totale di 7.619,75 euro. L’indagine di Perugia che ha travolto le toghe italiane e ha “consegnato” la maggioranza nel Consiglio superiore della magistratura al gruppo di Piercamillo Davigo ruota intorno a questi sette soggiorni effettuati da Luca Palamara fra il 2014 ed il 2017 e pagati dall’imprenditore e lobbista Fabrizio Centofanti. È quanto emerge dal provvedimento di sequestro preventivo nei confronti di Palamara disposto lo scorso 4 marzo dal Tribunale umbro. L’emergenza Covid-19 deve aver risvegliato dopo mesi di silenzio gli inquirenti: in circa duecento pagine, con dovizia di particolari, il gip di Perugia Lidia Brutti ricostruisce la genesi dell’intera indagine, iniziata nel 2016 dalla Procura di Roma nei confronti di Centofanti, svelando gran parte delle carte in mano all’accusa. Il tema su cui si concentra l’attenzione degli investigatori è il rapporto, iniziato nel 2008, fra Centofanti e l’ex consigliere del Csm ed ex presidente dell’Anm. Una relazione, afferma il gip, “inquinata da interessi non confessabili”. “Centofanti - scrive il gip - da tempo operava come ‘lobbista’, aveva svolto attività di lobbying per conto di importanti gruppi imprenditoriali, nelle sedi politico/istituzionali. In tale ambito operativo aveva mirato ad accrescere la propria capacità di influenza intessendo una rete di relazioni con rappresentanti di varie istituzioni e con soggetti a loro volta portatori di interessi di importanti gruppi di pressione, alcuni dei quali avevano svolto tale ruolo in modo disinvolto e talora illecito”. Il rapporto fra i due, sottolinea il gip, è “opaco” e “anomalo”. Il motivo? Gli incontri avvenivano “soltanto con modalità semi/clandestine”, con numerose accortezze da parte di Centofanti, come ad esempio “lasciare il telefono in auto” prima di incontrare Palamara. Tale rapporto, che espone a pericolo di “pregiudizio l’imparzialità e il buon andamento della funzione pubblica esercitata da Palamara”, manca però della pistola fumante. “Non vi è prova che Palamara abbia compiuto in conseguenza delle utilità ricevute atti contrari ai doveri d’ufficio” e “non vi sono elementi sufficienti per affermare che un effetto dannoso sia stato concretamente prodotto”, puntualizza il magistrato umbro. Sui fascicoli rinvenuti nell’ufficio del pm romano e sottoposti a sequestro, “non vi è prova che Palamara abbia effettivamente dato seguito alle segnalazioni ricevute”. “Io ho scontato il fatto - si difende Palamara - che con tutto quello che ho fatto nella carriera ho ricevuto segnalazioni e richieste da parte di tanti”, in primis “magistrati e forze dell’ordine”. Per i magistrati le segnalazioni non riguardavano solo gli incarichi direttivi ma anche per “la legge 104”. “Non dico mai no, ma cerco di rallentare, di non esaudire nella speranza che le persone desistano. Quando è possibile, nei limiti del consentito, cerco di esaudire le richieste come ho fatto con tantissime persone”, aggiunge Palamara. Nella tesi investigativa gli inquirenti contestano a Palamara l’articolo 318 del codice penale nella formulazione introdotta dalla legge Severino del 2012, “corruzione per esercizio della funzione”. Il reato svincola la punibilità dalla individuazione di uno specifico atto ricollegandola al generico “mercimonio della funzione”. Insomma, Palamara sarebbe stato a libro paga di Centofanti, anche se non è chiaro a quale scopo, dato che, è lo stesso gip a ricordarlo, “il contributo del singolo consigliere non può assumente rilievo determinante nell’ambito dei processi deliberativi di un organo collegiale e non sono stati individuati specifici comportamenti anti/doverosi attribuibili a Palamara”. Il sospetto, allora, è che qualcuno fra le toghe abbia voluto preparare il classico “piattino” a Palamara nel momento in cui la magistratura italiana aveva cambiato rotta. Con Unicost, la corrente di centro di cui Palarmara era stato per anni ras indiscusso, che aveva rotto lo storico rapporto con le toghe di Magistratura democratica per allearsi con la destra giudiziaria di Magistratura indipendente. Alleanza che aveva determinato, ad esempio, l’elezione nel 2018 del vice presidente del Csm David Ermini (Pd). Il 16 maggio scorso, avvisato dal collega Luigi Spina che la Procura di Perugia ha trasmesso l’informativa al Csm, Palamara capisce di essere finito nel mirino. In una concitata telefonata con la sorella Emanuela, avvenuta il successivo 29 maggio, Palamara si sfoga: “Me la vogliono far pagare”. Il pm romano, dalla scorsa estate sospeso dal servizio, è assistito dagli avvocati Roberto Rampioni e Benedetto Marzocchi Buratti. Nel procedimento disciplinare sarà invece assistito da Stefano Guizzi, consigliere della Corte di Cassazione. La bussola della Cassazione sullo stop alle udienze penali di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 25 marzo 2020 Sospensione della prescrizione ma nessuno stop per i procedimenti in cui sono state adottate misure cautelari con termini in scadenza. Dalla Corte di cassazione arrivano le prime indicazioni operative alla luce delle ricadute sui giudizi penali del Dl 18/2020, che ha esteso al 15 aprile il rinvio delle udienze e la sospensione dei termini, ferma la possibilità per i capi degli uffici giudiziari di prolungare la sospensione. Chiarimenti quanto mai opportuni visto che la norma non è “tarata” in particolare sul giudizio di legittimità. La Suprema Corte precisa che le udienze di rinvio dovranno essere fissate in una data che assicuri che il termine con “computo a ritroso possa essere interamente sfruttato, tenendo conto a tal fine della porzione di esso eventualmente trascorsa al di fuori del periodo di sospensione”. La prima importante eccezione alla sospensione riguarda i procedimenti in cui solo state adottate misure cautelari con termini massimi in scadenza. Inoltre, la sospensione dei termini e il rinvio d’ufficio delle udienze non è applicabile nel caso in cui i detenuti o i difensori chiedano di procedere. Ancora una precisazione è per la nozione di misure cautelari, nella quale rientrerebbero le personali, detentive, non detentive, e interdittive, nonché le misure cautelari reali, mentre sarebbero fuori i sequestri probatori e i Daspo. Chiarimenti anche sui procedimenti cumulativi in cui solo uno o alcuni detenuti chiedano la trattazione. In tal caso l’esigenza di tutelare la salute pubblica impedirebbe di far partecipare al giudizio persone, anche detenute, che non abbiano richiesto di evitare il differimento. La Cassazione precisa che, ferma restando la verifica della possibilità o meno di rinviare i procedimenti con detenuti a data successiva al 30 giugno 2020, pare corretto affermare che la sospensione della prescrizione e dei termini non possa in ogni caso sforare la data del 30 giugno 2020. Per l’ufficio del massimario dalla lettura congiunta degli articoli 83, commi 4, 7 lettera g), e 9, scaturirebbe il seguente regime: fino al 15 aprile 2020 opererebbe la sospensione della prescrizione e dei termini previsti per la custodia cautelare e per le misure coercitive diverse (articoli 303 e 308, del Codice di rito penale); mentre non è sospeso il solo termine massimo (articolo 304, comma 6). Nel periodo tra il 15 aprile ed il 30 giugno 2020 permarrebbe la sospensione della prescrizione e dei termini sempre con l’eccezione di quelli previsti dall’articolo all’articolo 304. Dopo il 30 giugno 2020 dovrebbe riprenderebbe l’ordinaria decorrenza sia della prescrizione che dei termini di fase per le misure cautelari e dei termini processuali per le decisioni ad essere relative. Proprio ieri la settima sezione penale della Cassazione ha deciso da remoto ricorsi relativi a detenuti per i quali i termini massimi di custodia cautelare erano in scadenza. Coronavirus: Cassazione, prima adunanza da remoto per ricorso con detenuti Il Sole 24 Ore, 25 marzo 2020 La Settima sezione penale della Corte di cassazione ha deciso oggi alcuni ricorsi relativi ad imputati detenuti con termini massimi di custodia cautelare prossimi a scadere, con la partecipazione alla camera di consiglio di alcuni consiglieri “da remoto”. Lo comunica la Corte. La possibilità di svolgere le camere di consiglio delle adunanze che non prevedono la partecipazione dei difensori con l’utilizzazione di strumenti di collegamento sicuro da remoto, prosegue la nota, è stata recentemente stabilita con decreto n. 44 del 23 marzo 2020 del Primo Presidente. Il provvedimento ha la finalità di limitare il contatto e gli spostamenti dei giudici e del personale coinvolto per la celebrazione dell’udienza - in ossequio a quanto stabilito dalla vigente normativa per contrastare l’emergenza epidemiologica da Covid-19 - senza pregiudicare la funzionalità dell’Ufficio. La celebrazione dell’adunanza non ha registrato alcun inconveniente dal punto di vista tecnico, essendosi svolta anche con l’assistenza del personale informatico in base al sistema da remoto validato dal Ministro della Giustizia. Lavoro di pubblica utilità non revocabile sulla base della presunta inerzia di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 25 marzo 2020 Corte di cassazione - Sentenza 10562/2020. La presunta inerzia nell’attivazione della pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità da parte del condannato per guida in stato di ebbrezza, non è sufficiente affinché il Gip revochi la misura meno afflittiva, ripristinando l’arresto e l’ammenda. Egli ha infatti prima il dovere di verificare se il Pm ha dato corso alla notifica del provvedimento all’ente di destinazione. Non essendovi alcun obbligo del condannato di dare avvio al procedimento. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 10562/2020, annullando, con rinvio, l’ordinanza del Gip. Il ricorrente ha dedotto la mancata notifica della sentenza di condanna all’ente benefico, per cui pur essendosi recato più volte presso la sede dell’ente, non aveva mai ottenuto una risposta sull’inizio dei lavori di pubblica utilità. Per la Prima sezione penale dalla “mera lettura della decisione” e “del foglio allegato con traccia delle notifiche” risulta “evidente che non vi era stata la rituale comunicazione alla ‘Confraternita di Misericordia’ presso la quale avrebbe dovuto svolgersi il lavoro di pubblica utilità”. “Ciò - prosegue la decisione - giustificava la mancata conoscenza della decisione da parte dell’Ente e quindi la mancanza di un piano organizzativo del lavoro, senza che ciò potesse essere addebitato al ricorrente”. Infatti, “l’attivazione del procedimento finalizzato all’esecuzione dell’attività di pubblica utilità, cosi come le scelte discrezionali legate alla sua imposizione ed alle modalità di prestazione, sono rimesse all’iniziativa, non dell’obbligato, ma dell’autorità penale”. Spetta al giudice, prosegue la Corte, il potere di comminare la sanzione sostitutiva e di individuarne modalità attuative senza imporre oneri in capo al condannato, “il quale può soltanto sollecitare il potere del giudice, ma non è tenuto ad attivarsi per indicare l’ente o la struttura presso la quale svolgere il lavoro di pubblica utilità”. Deve dunque ritenersi che sull’obbligato “non gravi l’onere di avviare il procedimento per lo svolgimento in fase esecutiva dell’attività”. In definitiva, conclude la Corte, è compito della Procura avviare la fase di esecuzione della sanzione sostitutiva “mediante comunicazione della sentenza di condanna all’Ente individuato nella sentenza”. “Ne consegue che non risponde alla disciplina specifica dell’istituto e nemmeno ai principi generali in materia di esecuzione del giudicato penale sanzionare il ricorrente con la revoca della misura sostitutiva per la mancata prestazione del lavoro di pubblica utilità a fronte della sua presunta inerzia”. Milano. Così si combatte il virus in prima linea: in carcere di Annalisa Chirico Il Foglio, 25 marzo 2020 La presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano, Giovanna Di Rosa: “La presenza e la disponibilità all’ascolto sono fattori importanti per chi è recluso dietro le sbarre. Bisogna uscire dall’idea che l’unica pena sia quella carceraria”. “Non ho mai interrotto la mia attività: vado in ufficio e in carcere, con ogni cautela del caso”, spiega al Foglio la presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano Giovanna Di Rosa. “Mi sembra che anche medici e infermieri continuino a lavorare, noi magistrati abbiamo adottato la formula del presidio per le urgenze, nei casi ordinari ci rechiamo in ufficio a orari differenziati per evitare la concentrazione. Ma io, per il mio ruolo istituzionale, ho il dovere di stare in ufficio dalla mattina alla sera, pure nei giorni di festa”. Il direttore del Dap Basentini è stato criticato per non essersi recato in carceri dopo le rivolte. “La presenza e la disponibilità all’ascolto sono fattori importanti per chi è recluso dietro le sbarre”. Le rivolte dell’8 e 9 marzo hanno coinvolto 6mila detenuti, circa il 10 per cento del totale. “L’8 marzo mi trovavo a San Vittore quando sono partite le proteste con la distruzione degli spazi comuni. Eravamo andati lì con i rappresentanti di diversi reparti per spiegare le cautele sanitarie da adottare contro il rischio di contagio. Milano, com’è noto, si è mossa con due settimane d’anticipo rispetto al resto d’Italia: dal 21 febbraio abbiamo trasmesso le nuove misure stringenti da applicare, inclusa l’interruzione delle visite esterne. Abbiamo sensibilizzato operatori e detenuti per far comprendere loro i motivi e la portata del provvedimento”. Ciò è accaduto in Lombardia ma non nel resto del paese dove il ministero della Giustizia, e il Dap, non avevano predisposto un piano preventivo. “Io conosco il contesto territoriale in cui opero: nel distretto milanese insistono 13 istituti penitenziari ma le proteste si sono registrate soltanto in tre carceri. L’8 marzo, in serata, ho visitato anche Opera dove ho assistito alla stessa scena: un nugolo di rivoltosi con punte di follia e poi tutti gli altri detenuti che osservavano silenti, anzi si dissociavano. Nel caso milanese, si sono ribellati soprattutto i cosiddetti ‘nuovi giunti’, cioè le persone appena arrestate e perciò prive di un trattamento già avviato”. Si è levata l’ipotesi di una regia esterna. “Non mi stupirei: la tempistica della rivolta nelle diverse carceri, a livello nazionale, è quantomeno sospetta. Sul piano delle richieste però è emersa l’assenza di una coesione collettiva”. Il ministero di via Arenula ha varato un provvedimento che estende gli arresti domiciliari ai detenuti con un residuo pena fino a diciotto mesi. “In realtà, il testo richiama la legge 199 che fu varata nel 2010 nel pieno dell’emergenza del sovraffollamento. Per chi ha da scontare fino a un massimo di sei mesi tale estensione è consentita anche in assenza del braccialetto elettronico, e a prescindere dal pericolo di fuga e di reiterazione del reato. Sono esclusi i detenuti condannati per mafia, terrorismo, corruzione, e a queste categorie il provvedimento aggiunge i maltrattamenti in famiglia e lo stalking. Esclusi anche i capi della rivolta e, in generale, quanti hanno ricevuto rapporti disciplinari in seguito alle sommosse”. I giudici di sorveglianza potranno aprire le porte degli istituti penitenziari senza aspettare la relazione delle direzioni carcerarie. “Esatto, si stima che le nuove misure riguarderanno circa tremila unità in modo da ridurre la popolazione carceraria e attenuare il sovraffollamento. Ad oggi il coronavirus non circola nelle prigioni italiane ma, se malauguratamente non fosse più così, il contagio sarebbe presto fuori controllo”. Dieci detenuti risultano positivi al coronavirus. “Allo stato attuale, la situazione non desta allarme. Di fronte al pericolo di un virus con bassa letalità ma altamente contagioso, la capienza regolamentare delle carceri deve tener conto dell’effettiva capacità di isolamento, e oggi non disponiamo di un numero sufficiente di reparti a ciò finalizzati”. Secondo il leader della Lega Matteo Salvini, l’automatismo mal si concilia con il principio della certezza della pena. “Bisogna uscire dall’idea che l’unica pena sia quella carceraria. Con l’estensione dei domiciliari la pena resta certa ma viene eseguita secondo modalità differenti. Lo stato non fa sconti, anzi l’esecuzione funziona come il gioco dell’oca: se violi le prescrizioni e ti comporti male, riparti dalla casella uno e ti viene revocato il tempo che hai scontato in misura alternativa. L’esecuzione della pena non può prescindere dalla tutela della salute della persona ristretta, un valore costituzionale che i magistrati di sorveglianza hanno il dovere istituzionale di preservare. La miscela di sovraffollamento e virus sarebbe letale”. Imperia. I detenuti scrivono a Mattarella e a Bonafede Imperianews.it, 25 marzo 2020 Anche i detenuti di Imperia chiedono un intervento delle istituzioni per risolvere la già emergenziale situazione carceraria, aggravatasi dopo l’esplosione dei casi di coronavirus. Uno di loro ha scritto una lunga lettera, sottoscritta dall’intera popolazione carceraria imperiese, indirizzata al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al ministro della giustizia Alfonso Bonafede, al garante per i detenuti nazionale e regionale, al ministro della salute Roberto Speranza e al ministro dei rapporti con il parlamento Federico D’Incà. Cinque pagine scritte a mano per ricordare, nonostante la solidarietà con le azioni mosse nelle carceri delle altre città, come i detenuti della casa circondariale imperiese non abbiano voluto mettere in piedi azioni di protesta che avrebbero potuto far collassare il già fragile sistema. “Pur essendo solidali per la causa, ci asterremo da ogni forma di violenza verso il personale della polizia penitenziaria che nulla può in merito alla decisione espressa inerente alla chiusura temporanea dei colloqui visivi”, scrivono. Dopo il diffondersi dei contagi, il ministero ha infatti disposto la sospensione dei colloqui tra i detenuti e i familiari, scatenando le feroci proteste delle scorse settimane che hanno provocato la morte di alcuni carcerati. Questo all’interno del carcere di Imperia è riconosciuto, e nella lettera, i detenuti ricordano la scelta di tenere un comportamento collaborativo, “scegliendo di indirizzare gli sforzi con e non contro la polizia penitenziaria poiché vogliamo ricordare, quando è in discussione il diritto alla vita, non vi è colore della pelle né religione, né divisa a ostacolare il senso comune di solidarietà reciproca che porti a costruire ponti di comunicazione e non muri ostativi con la consapevolezza che tali muri risultano, in ogni contesto, controproducenti, e in alcuni casi lesivi e denigratori della dignità umana, soprattutto di fronte a uno stato emergenziale che oggi l’umanità intera si trova ad affrontare”. A Imperia, come più volte denunciato dagli stessi sindacati, il carcere è numericamente sovraffollato, e lo ricordano i detenuti nella lettera, chiedendo la valutazione di misure alternative, come l’indulto, per chi ha già scontato un periodo ragionevole della pena: “Non bisogna avere un dottorato in psicologia rieducativa - si legge ancora - per comprendere che la punizione, se non supportata da un monito, e seguita, dopo ragionevole periodo di detenzione, da una sorta di perdono anche attraverso la concessione di misure alternative, concedendo un atto di clemenza rivolto ai detenuti attraverso questo atto, che esso sia l’incremento della concessione di misure alternative alla detenzione o di un indulto/indultino sarà certamente una ragionevole presa di posizione da parte delle istituzioni che porterà respiro ai detenuti che versano in condizioni proibitive, per le condizioni strutturali delle metrature, per le condizioni igienico-sanitarie, per la sospensione dei colloqui che impedisce ai detenuti il contatto con i propri cari, per l’impossibilità di proteggere con libero arbitrio la propria persona, perché privati della libertà affidando il difficilissimo compito di impedire il contagio del covid-19 all’interno delle carceri, lasciando la responsabilità di un incarico così importante ad agenti di polizia penitenziaria, che si ricorda non appartengono al sistema sanitario nazionale”. “Siamo fiduciosi nella nostra corrente di pensiero - concludono i detenuti - e sicuri che le istituzioni lavoreranno coese per sanare le problematiche di interesse collettivo, apportando nuove iniziative volte al recupero delle carenze che gravano sulla comunità carceraria e tutto il personale a essa legato”. Reggio Calabria. Finito il calvario di Rosa Zagari: potrà andare agli arresti domiciliari di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 marzo 2020 Un anno fa si era fratturata e ha bisogno di terapie specifiche. Dopo oltre un anno di calvario, il tribunale di Reggio Calabria ha accolto l’istanza presentata dall’avvocato Antonino Napoli per ragioni di salute. Finalmente Rosa Zagari, sottoposta in custodia cautelare e che ha subito un gravissimo trauma, potrà andare ai domiciliari. Lei, fino a ieri, è stata sottoposta in custodia cautelare per una condanna in primo grado a otto anni al processo denominato “Terramara Closed”. La vicenda è stata seguita fin dall’inizio dall’associazione Yairaiha Onlus che ha denunciato la sua incompatibilità con il carcere. Il nove febbraio dell’anno scorso, quando era al carcere di Reggio Calabria, Rosa è caduta nella doccia. Subito è stata trasportata all’ospedale, nel reparto di neurologia, e dalla tac è emersa una “duplice rima di frattura lineare in corrispondenza del processo trasverso di destra di L3 e rima di frattura a livello del processo trasverso di L2”. Il primario ha consigliato delle cure adeguate per evitare peggioramenti. “Riposare su letto rigido idoneo - si legge nella cartella clinica - praticare terapia medica con antalgici al bisogno e proseguire con la terapia antitrombotica come da prescrizione neurochirurgica. Si consiglia inoltre di iniziare fin da subito a sottoporsi a prestazioni di Magnetoterapia alla colonna, a massaggio leggero decontratturante dei muscoli paravertebrali, alla rieducazione motoria degli arti inferiori, per cicli di 20 gg. al mese per almeno 5 mesi”. E infine: “Utile, ma solo dopo il terzo mese e dopo controllo radiografico e specialistico, oltre alle prestazioni di fisioterapia, la rieducazione dei muscoli paravertebrali e della colonna dorsolombare in piscina, in assenza di carico sul rachide”. Cure che sono state attuate nel carcere di Messina, trasferita dopo la denuncia dell’associazione Yairaiha che ha messo in luce le mancate cure nel penitenziario precedente. Ma purtroppo non hanno avuto efficacia. Infatti, nell’ordinanza della giudice Giovanna Sergi, si legge che il consulente di parte ha diagnosticato “dolore cronico in sede L- S in esito a pregressa frattura dei processi trasversi di L2 ed L3, con sospette rizopatie multiple e deficit funzionale secondario del rachide D- L- S ed agli arti inferiori in paziente con iniziali segni di coxartrosi a sx ed esiti di frattura diastasata dell’angolo esterno del tetto aceta bolare di sx, fibromi algia in corso di accertamenti immunitari e depressione ansiosa reattiva cronica di moderata entità”. La giudice, alla luce di tali circostanze, ha disposto la perizia medico- legale che ha confermato il dolore cronico lombosacrale con sindrome fibromialgica e contrattura antalgica della muscolatura lombare con conseguente limitazione alla normale deambulazione, con protusioni discali, la lesione nodulare epatica meritevole di approfondimenti, la magrezza patologica, il dolore pelvico in presenza di evidenza ecografica di polinodularità, l’utero ingrossato di volume per sospetta fibromatosi e la sindrome depressiva reattiva. Quest’ultima ha contribuito alla perdita di peso, tanto da poter parlare di magrezza patologica. Il perito, pur riconoscendo una sostanziale compatibilità carceraria delle condizioni di salute della periziata, ha sottolineato la necessità di effettuazione, in termini rapidi, degli esami strumentali atti ad accertare la natura delle problematiche ginecologiche ed epatiche della detenuta ed evidenzia, quanto alla questione scheletrica, l’insuccesso della terapia riabilitativa messa finora in pratica presso l’istituto di detenzione. La giudice ha ritenuto di condividere le argomentazioni e le raccomandazioni del perito, che trovano conferma nella documentazione medica. Quindi, alla luce del complessivo quadro di salute della detenuta e dell’insuccesso delle terapie mediche e riabilitative seppur praticate con costanza presso il carcere, “al fine di salvaguardare le sue condizioni di salute - scrive -, ormai peggiorate e non efficacemente fronteggiabili presso l’istituto di detenzione, risulta necessario disporre la sostituzione della misura carceraria con gli arresti domiciliari”. Brescia. Con due donazioni “i detenuti vicini a tutta la comunità” Giornale di Brescia, 25 marzo 2020 Una donazione da oltre 2mila e 200 euro che vale dieci cento volte tanto perché arriva da due luoghi spesso considerati al margine della nostra comunità. E che hanno dimostrato invece di sentirsi parte di Brescia e della battaglia che il nostro territorio sta combattendo. Parliamo dei detenuti della Casa circondariale Nerio Fischione e dalla Casa di reclusione di Verziano, che hanno voluto contribuire alla raccolta fondi AiutiAMObrescia. Sin dall’inizio di questa emergenza - scrive il direttore Francesca Paola Lucrezi - la popolazione detenuta negli istituti cittadini ha dimostrato grande senso di responsabilità e compartecipazione al difficile momento che condividono con tutta la cittadinanza”. Sin dall’inizio - prosegue il direttore - hanno preso le distanze da quanto stava accadendo in altri istituti penitenziari della nazione, scegliendo la strada del dialogo con le istituzioni per far giungere lo loro voce, le loro preoccupazioni, le ansie di chi si trova a vivere questo drammatico momento lontano dai propri cari, impotenti dinnanzi agli eventi”. Un atteggiamento di responsabilità che pub fungere da esempio per molti. “Mai come in questo momento - spiega Francesca Paola Lucrezi - le restrizioni a cui tutti noi cittadini siamo giustamente sottoposti, ci possono far comprendere cosa significa essere privati della libertà personale, ed anche da questi drammatici momenti, ne sono convinto, dobbiamo trarre insegnamento sul valore di quei diritti che forse diamo troppo spesso per scontati”. “A noi tutti operatori penitenziari, al personale sanitario e, non ultimi ai volontari piace pensare che il senso di consapevolezza e partecipazione che i ristretti stanno dimostrando, sia il fruito di un processo di revisione delle proprie azione posto in essere grazie all’instancabile lavoro che si sta portando avanti da anni Mai come in questo momento mi senti di dire: il grado di civiltà di una comunità si misura dallo stato in cui versano i suoi penitenziari”. Santa Maria C.V. (Ce). Due infermieri positivi “ma non hanno avuto contatti con i detenuti” di Mary Liguori Il Mattino, 25 marzo 2020 Ci sono altri due casi di contagio connessi al carcere di Santa Maria Capua Vetere. Sono positivi i tamponi eseguiti su due infermieri entrati in contatto con il dirigente medico del servizio sanitario penitenziario risultato infetto da covid-19 una settimana fa. Dopo il test sul medico, che non sarebbe mai entrato in contatto con i detenuti in quanto impiegato in ufficio, all’“Uccella” sono stati eseguiti 35 tamponi su sanitari e su agenti penitenziari. Al momento non si conoscono i risultati di tutti i tamponi. Non sono invece stati eseguiti test sui detenuti che non sarebbero entrati in contatto con il personale contagiato. Lo conferma il garante, Samuele Ciambriello, che però ha chiesto che dopo Poggioreale anche le altre carceri campane siano dotate di termo-scanner, così da poter individuare eventuali sintomatici e sottoporli al test. E, nel quadro dei decreti, spinge per la concessione dei domiciliari ai detenuti per reati non ostativi che devono espiare pene dai 18 mesi in giù. “La politica non sia cinica: escludendo il discrimine dell’ostativo, ma considerando solo i brevi periodi da espiare, si alleggerirebbe la popolazione carceraria, a giovamento di detenuti e del personale”. Emergenza Coronavirus, anche chi lavora in nero va aiutato di Severino Nappi Il Riformista, 25 marzo 2020 Persino il sindaco di Roma, Virginia Raggi, l’altro giorno ha scoperto che in Italia esiste il lavoro nero! Un esercito di persone che, fra le sue truppe, arruola tanti che certo non hanno scelto loro di lavorare fuori dalle regole, ma lo accettano soltanto perché è l’unico modo che hanno per mantenere la propria famiglia. Un fenomeno che attraversa l’intero Paese, ma che al Sud tocca tra il 20 e il 30 per cento della popolazione. Dunque una questione enorme che però sfugge del tutto ai radar del Governo. Certo, la pandemia già mette a durissima prova la tenuta della stessa economia regolare: le grandi aziende barcollano sotto i colpi di una borsa altalenante; quelle piccole e medie - l’ossatura del nostro tessuto produttivo - rischiano il tracollo; la filiera agroalimentare soffre per l’abbandono dei braccianti stranieri; i commercianti che hanno abbassato le saracinesche si domandano se avranno la possibilità di rialzarle quando l’emergenza sarà rientrata. Al netto della loro evidente insufficienza, le prime misure adottate sono servite a certificare la consapevolezza del Governo di doversi far carico di offrire delle risposte. Proprio per questo vi chiedo però di immaginare cosa ha potuto provare invece il popolo degli invisibili nello scorrere l’elenco degli interventi e scoprire di non ritrovarsi neppure citato. Di fronte a tutto questo non c’è retorica del balcone che tenga, anzi l’unità nazionale scricchiola quando sono in tanti a non poter mettere il piatto a tavola. Ecco, questo è il vero tema che il lavoro nero pone nei giorni del Coronavirus. Chi vive di mance che diventano stipendio, di fine settimana a fare il cameriere in pizzeria, di pulizie ad ore, di fabbrichette che non possono regolarizzarti, di lavori edili saltuari e di altre mille forme di precarietà deve avere un segnale, subito. Il mio non è buonismo, ma è consapevolezza di quello che può accadere nella mente di chi è chiuso in una casa di cui probabilmente sa di non poter pagare l’affitto tra pochi giorni. La spinta all’illegalità e alla criminalità è forte in queste condizioni, non prendiamoci in giro. E se il senso di dignità che caratterizza l’esistenza di quasi tutti i lavoratori in nero può fare da deterrente alla deriva illecita, lo scoramento di sentirsi soli, per giunta in un momento come questo, rappresenta una lacerazione profonda nella nostra società. Non possiamo permettercela guardando avanti, guardando alla grande fatica che tutti saremo chiamati a compiere quando, speriamo al più presto, dovremo iniziare il percorso della ricostruzione. Per poterlo fare tra qualche mese, dunque servono oggi misure straordinarie e coraggiose, che diano un segnale ai milioni di lavoratori sommersi di questo Paese. In America, Donald Trump sta valutando l’ipotesi di inviare un assegno di mille dollari ad ogni americano. In Italia - incrociando le banche dati - si possono rapidamente censire tutti i nuclei familiari in cui non c’è nessuno che percepisce redditi, pensioni o altre altre forme di sostegno. A questi nuclei si deve assegnare un sussidio straordinario per questi 2/3 mesi di blocco totale delle attività, vincolato alla spesa e al fitto di casa. Un sostegno - da cui escludere i nuclei familiari senza reddito dichiarato ma coinvolti in vicende di criminalità organizzata, traffico di droga o reati gravi contro la persona - da erogare su domanda, da accompagnare con l’indicazione e le modalità dell’attività svolta in modo irregolare. Questo non con finalità delatorie o sanzionatorie, ma soltanto per iniziare anche a costruire quella “banca dati” del mondo del lavoro nero che in Italia non è mai esistita. Insomma, l’emergenza può rappresentare anche l’occasione per avviare una risposta strutturale al tema del lavoro nero. Oro, fuoco e forca. Quel che la storia delle pestilenze ha da insegnare di Marco Geddes e Antonio Floridia Il Manifesto, 25 marzo 2020 Pandemie. Solidarietà, responsabilità, legalità, nella scelta tra bene pubblico e privato. È la scommessa per uscire da questa radicale emergenza. “Oro, fuoco e forca!”, fu la risposta che Giovanni Filippo Ingrassia diede, nel 1575, a chi gli chiedeva quale fosse stata la sua strategia contro l’epidemia di peste che si diffuse in quell’anno a Palermo e che egli riuscì a “contenere” con buoni risultati. Nato a Regalbuto (il paese di Leonardo Sciascia) nel 1510, riuscì a studiare e laurearsi in medicina a Padova, o forse a Bologna; medico personale di molti regnanti, sull’onda della fama conseguita il vicerè Pedro de Toledo gli assegnò nel 1544 la cattedra di Anatomia e Medicina teorica a Napoli. Rientrato a Palermo nel 1563, fu nominato da Filippo II “protomedico” di Sicilia, e poi capo di una Deputazione generale di salute pubblica che affrontò lo scoppio di quella pestilenza. Il senso di quella formula è evidente e possiamo tradurla in termini “moderni”: risorse economiche, risanamento sanitario, stringenti normative che obblighino all’osservanza delle regole. Sono ricette a cui possiamo appellarci ancor oggi, di fronte alla frattura epocale che sta provocando il Coronavirus? Sulle prime (l’oro), non ci sono molte parole da spendere: la pandemia cui stiamo assistendo attoniti richiede e richiederà una radicale riconversione delle logiche economiche del mondo contemporaneo. Quanto al “fuoco”, appare evidente come non si tratti solo di approntare risposte cliniche e farmacologiche, ma di combattere seriamente quel gravissimo deterioramento ambientale, alle origini dei devastanti effetti di questo virus, e forse della sua stessa genesi. Naturalmente, il grande tema dell’oggi, è quello della “forca”, che non pochi tendono a invocare come “estremo rimedio” all’indisciplina sociale; e che, per altro verso, molti temono come l’esito autoritario di un governo dello stato di eccezione. Anche qui conviene dare uno sguardo al passato. L’epidemia di peste di Marsiglia, nel 1720, fu circoscritta in quell’area, ma schierando il 40% dell’esercito francese in un assedio crudele; l’ultima epidemia sul suolo italiano, a Noja (Bari) nel 1815-16, fu “curata” con un assedio e con la fucilazione di alcuni poveretti che non avevano rispettato le norme. La cittadina ne uscì ferita e profondamente mutata. Cambiò perfino nome: oggi è Noicàttaro. Anche la peste manzoniana (1630) fu affrontata in modi diversi. A Milano le norme furono applicate con cieca rigidità; i presunti untori, furono torturati e giustiziati alla Colonna Infame, ma nel contempo affollate e ripetute processioni indette dal Cardinale - contro il parere di molti medici - esacerbarono il contagio. In quella stessa epidemia, a Firenze i provvedimenti di sanità furono oggetto di controllo, non applicando tuttavia pene quando si riconosceva che l’infrazione era motivata da reali necessità di lavoro e di assistenza. I presunti untori furono solo due, poi scagionati e anche risarciti per l’ingiusta detenzione. Le Confraternite svolsero un ruolo prezioso e quando l’Arcivescovo decise di indire una processione, con l’immagine della Madonna dell’Impruneta, lo fece con l’autorizzazione dell’Ufficio di Sanità, concordando che il pubblico avrebbe assistito al passaggio dell’immagine a 100 metri di distanza. Due approcci diversi con risultati diversi, espressione non solo di sistemi giuridici e di governo differenti, ma anche - si direbbe oggi - di una diversa robustezza della società civile e della sua partecipazione al governo cittadino. A Firenze l’epidemia fu molto più contenuta. Il modo con cui l’Italia sta affrontando questa emergenza potrà forse affermarsi come un positivo modello di gestione democratica di una gravissima crisi sanitaria. Certo, è ancora presto per dirlo, molto dipende dagli esiti di questa vicenda, e forse questo giudizio potrà essere rivisto, rovesciato o magari rafforzato; ma intanto possiamo affermare che stiamo assistendo ad una strategia che cerca di conciliare l’uso di strumenti legali (norme e regole, dotate di possibili sanzioni) e l’appello alla responsabilità individuale e alla solidarietà sociale. Difficilissimo equilibrio, in un paese come l’Italia, dove la dotazione di “spirito civico” scarseggia storicamente in molte parti del paese e, in altre, si è venuta pericolosamente depauperando. Eppure, è l’unico possibile equilibrio che possiamo oggi ricercare: restare dentro i confini di uno stato di diritto (ricordiamo l’art. 16 della Costituzione), ma non illudersi, nemmeno per un momento, che si possa ottenere il rispetto delle regole (in una società dove la potenziale mobilità individuale raggiunge vette impensabili anche solo 50 anni fa), senza la compartecipazione attiva e consapevole dei destinatari di quelle regole. La mera “legalità” non regge se non vi è “legittimazione”, ossia la convinta adesione. Una vicenda come quella che stiamo vivendo non può essere governata solo con una verticalizzazione del comando. La campagna ossessiva di denuncia degli “irresponsabili” non rende giustizia alla compostezza della grandissima maggioranza degli italiani; ma ciò non toglie legittimità alle possibili sanzioni, in difesa della più radicale delle libertà: la libertà dai rischi della malattia e della morte. E soprattutto, ha poco senso preoccuparsi oggi del restringimento degli spazi di libertà privata, quando l’esercizio incontrollato di questa libertà - e questo è un dato certo - produce danni collettivi. Forse torna d’attualità un antico insegnamento del pensiero socialista: la libertà dell’individuo può vivere solo insieme alla libertà degli altri. Paese chiuso, fabbriche d’armi aperte di Mauro Valpiana* e Francesco Vignarca** Il Manifesto, 25 marzo 2020 È evidente a tutti (tranne che a certi manager e a certi politici): abbiamo bisogno di caschi per la respirazione ventilata, non di caschi per i piloti degli F-35. Abbiamo bisogno di posti letto di terapia intensiva, non di posti di comando nelle caserme. La pubblicazione del Decreto della Presidenza del Consiglio relativo alle più recenti (e dure) limitazioni a causa del coronavirus, in particolare per le attività produttive, ha riservato una sorpresa non gradita a chi si occupa di disarmo. Tra le pieghe delle norme approvate viene infatti prevista la possibilità per l’industria della difesa di rimanere operativa, mentre invece la grande maggioranza delle aziende deve rimanere chiusa. Sembra davvero che l’industria militare sia intoccabile, e che il governo Conte consideri la produzione di sistemi d’arma tra le attività strategiche e necessarie. Immediata la risposta di chi (come Sbilanciamoci, Rete Disarmo e Rete Pace) ha sottolineato l’insensatezza di mettere a rischio la salute di migliaia di lavoratori con pericolo di ulteriore diffusione del contagio solo per non intaccare i profitti dell’industria delle armi. È incomprensibile come il governo non abbia il coraggio di ordinare questo stop, se addirittura il presidente della Regione Veneto, il leghista Luca Zaia, ha dichiarato: “Fino a poco tempo fa era considerata strategica l’industria bellica, adesso abbiamo capito che non ce ne frega niente, meglio avere una provetta, un respiratore”. Positive sono state le immediate reazioni dei sindacati, che hanno condotto a diversi scioperi spontanei anche in aziende a produzione militare, a testimonianza del fatto che sempre più spesso sono lavoratori e lavoratrici i primi a vedere chiaramente quali dovrebbero essere le scelte più utili per il Paese. Perché da questa tragica emergenza dobbiamo uscire con prospettive e scelte che si allontanino dalle logiche che hanno determinato la riduzione degli investimenti sanitari (passati dal 7% del Pil al 6,5%) mentre lievitava una spesa militare ormai stabilmente oltre l’1,4%. Abbiamo bisogno di una reale alternativa, che non può essere che nonviolenta (e quindi di disarmo). Ma cosa c’entra la nonviolenza con l’emergenza sanitaria da Covid-19? C’entra, eccome, perché è scelta non solo etica e morale. La politica della nonviolenza ha senso pieno proprio oggi; “altrimenti non so che farmene”, diceva Gandhi, che la pensava come strumento per trovare il pane per gli affamati, come oggi dobbiamo trovare posti letto per i malati. È una nonviolenza che ha radici antiche. Pensiamo a Raoul Follerau che chiedeva a gran voce “il costo di un giorno di guerra per la pace” o ad Albert Schweitzer che già all’inizio del Novecento comprese il legame stretto tra spese militari e investimenti in salute. Fino a ieri sembravano due sognatori utili solo per farne santini da parrocchia, ma hanno invece anticipato di un secolo quel che oggi, messi al muro dall’evidenza, anche governanti europei sovranisti sono costretti ad ammettere: meglio avere un respiratore automatico in più, e una bomba o un missile in meno. È evidente a tutti (tranne che a certi manager e a certi politici): abbiamo bisogno di caschi per la respirazione ventilata, non di caschi per i piloti degli F-35. Abbiamo bisogno di posti letto di terapia intensiva, non di posti di comando nelle caserme. L’industria bellica non è un settore essenziale e strategico: questa può essere l’occasione per un ripensamento e una riconversione necessaria (in primo luogo verso produzioni sanitarie). Per la prima volta, forse, con il nuovo mondo nato dopo il conflitto mondiale che ha sconfitto il nazismo, e fatto nascere l’Onu, ci si rende conto che persino l’economia mondiale, viene dopo la salute individuale. È una rivoluzione impensabile fino a qualche settimana fa. E tutti capiscono che per tutelare la salute propria e delle persone care, figli, nipoti, amici, è assolutamente indispensabile avere un sistema sanitario pubblico che funzioni. In Europa, nel bene e nel male, ce l’abbiamo, con pregi e difetti; là dove, invece, la sanità è considerata una merce come altre l’impatto della pandemia sarà ancora più devastante. Per questo l’impegno delle reti e movimenti italiani per la Pace e il Disarmo si basa da tempo sulla richiesta di una drastica riduzione delle spese militari, a favore di quelle sociali. Si tratta dell’obiettivo politico principale della Campagna per la “Difesa civile, non armata e nonviolenta”. Quando diciamo: “Un’altra difesa è possibile”, significa che è necessario e ormai inderogabile invertire la rotta. Finché non sarà a disposizione delle nostre istituzioni anche una scelta possibile di azione non armata e nonviolenta sarà facile il ricatto di chi chiede soldi per le strutture militari e per le armi. *Presidente del Movimento Nonviolento **Coordinatore Rete Italiana per il Disarmo Dal carcere a casa. Gli Usa liberano migliaia di detenuti di Angelica Ratti Italia Oggi, 25 marzo 2020 Da due settimane negli Stati americani più colpiti dal coronavirus le amministrazioni degli istituti penitenziari hanno deciso di liberare alcuni detenuti, confinandoli ai domiciliari, per ridurre l’affollamento delle prigioni (2,2 milioni di persone sono dietro le sbarre) e tentare, in questo modo, di limitare la diffusione del virus all’interno delle carceri a protezione anche del personale che vi lavora. Già centinaia di detenuti sono stati messi in quarantena e tra loro la pandemia di Covid-19 sta seminando il panico, mentre le visite dei famigliari sono state sospese in 37 Stati (in 15 Stati anche quelle degli avvocati). Dalla prigione di Rickers Island di New York è partito l’allarme diretto al ministero della giustizia. A Los Angeles la popolazione carceraria è stata ridotta di oltre 800 persone (su un totale di 17.076) e gli arresti sono diminuiti da 300 al giorno a 60. Nell’Ohio, Kentucky, Texas, migliaia di detenuti anziani o in attesa di giudizio sono stati mandati ai domiciliari. In California, il carcere di Santa Rita, uno dei più grandi dello Stato americano con 2.600 detenuti, ha deciso di liberare 314 prigionieri, secondo quanto ha riportato Le Monde. Per i detenuti è stato un regalo inaspettato del coronovirus anche se sono consapevoli di passare da un confinamento ad un altro dal momento che il governatore della California, Gavin Newson ha detto ai 40 milioni di abitanti del suo Stato di stare chiusi a casa. L’amministrazione del penitenziario di Santa Rita ha scelto di liberare chi aveva pene brevi da scontare, inferiori a 45 giorni, ma anche quelli che normalmente non avrebbe voluto rilasciare come alcuni carcerati che scontano pene per omicidio che hanno beneficiato di questa opportunità perché affetti da patologie croniche che aumentano i rischi in caso di contagio. La pandemia di Covid-19 accelera la riforma penale avviata dall’ex presidente Barack Obama e proseguita da Donald Trump per riconsiderare il modello repressivo della guerra contro la droga degli anni 1980-90. Un gruppo di procuratori ha chiesto alla polizia di evitare di incarcerare i sospettati che non sono accusati di minacce fisiche e che non possono pagare la cauzione per la libertà provvisoria. Inoltre, hanno suggerito anche di liberare i detenuti di età superiore ai 55 anni che sono i più esposti al rischio di contagio. Stati Uniti. La pena di morte ai tempi del Coronavirus mondoemissione.it, 25 marzo 2020 Il boia si è fermato in Texas, ma in Pennsylvania - nonostante un’ingiunzione del giudice - le autorità carcerarie non vogliono sottoporre a un test un detenuto nel braccio della morte che presenta sintomi di possibile coronavirus. Intanto proprio in queste ore il Colorado è diventato il ventiduesimo Stato ad abolire la pena capitale. L’emergenza Coronavirus è ormai esplosa in tutta la sua drammaticità anche negli Stati Uniti, con oltre 40mila casi e un numero di morti che aumenta in maniera molto rapida (siamo già abbondantemente sopra i 500). L’allarme è particolarmente grave a New York ma coinvolge anche tutti gli altri Stati. ma c’è un punto di osservazione del tutto particolare da cui osservarlo: quello dei detenuti che si trovano nel braccio della morte. Proprio mentre in tutto il mondo si lotta per salvare delle vite, che cosa sta succedendo a queste persone? A fare da punto di riferimento per le notizie su di loro è ancora una volta sister Helen Prejean la religiosa la cui storia di accompagnamento ai detenuti condannati a morte dai tribunali americani è stata raccontata dal celebre film Dead Man Walking. È stata lei a dare per prima la notizia che il Texas - lo Stato che da anni detiene il triste record delle esecuzioni capitali negli Stati Uniti - ha sospeso le due condanne a morte che avrebbero dovuto svolgersi proprio in questi giorni. Le autorità giudiziarie locali sono intervenute all’ultimo momento con una sospensiva di 60 giorni che ha per il momento risparmiato la vita a John Hummel e Tracy Beatty, due detenuti per cui l’iniezione letale era fissata rispettivamente per il 18 e il 25 marzo. Paradossalmente è stata proprio la macabra liturgia delle esecuzioni capitali a risparmiare loro la vita: il giudice ha motivato infatti il rinvio sostenendo che in tempo di Coronavirus può essere pericoloso per le guardie carcerarie, i familiari delle vittime, i cappellani e i giornalisti che assistono all’esecuzione. In Pennsylvania invece c’è grande preoccupazione per un altro detenuto - Walter Ogrod, 55 anni - che si trova nel braccio della morte e ella sua cella ha mostrato sintomi che fanno pensare possa aver contratto il Coronavirus. L’amministrazione penitenziaria non vuole però non vuole sottoporlo a un test. Per questo motivo un giudice di Philadelphia ha emesso un’ordinanza in cui chiede che il detenuto venga trasferito in una struttura sanitaria. Ma la direzione del carcere continua opporre resistenza e la questione resta aperta. “È una scelta che espone anche gli altri detenuti e il personale del penitenziario a gravi rischi”, protesta sister Prejean. In queste ore, però, indipendentemente dal Coronavirus, sempre dagli Stati Uniti è giunta la notizia di un altro Stato che ha scelto di abolire il ricorso alla pena capitale: il governatore del Colorado Jared Polis ha firmato una legge che abolisce le esecuzioni capitali e ha commutato in un ergastolo la pena per tre detenuti che si trovavano attualmente nel braccio della morte. Il Colorado diventa così il ventiduesimo dei cinquanta Stati americani ad aver abolito la pena di morte. Il gesto ha un valore soprattutto simbolico: dal 1976 a oggi il Colorado aveva eseguito una sola sentenza capitale. Resta però il segnale di un trend che vede da tempo la pena di morte in frenata negli Stati Uniti: secondo i dati del Pew Research Center anche tra gli Stati che tuttora la mantengono nel loro ordinamento un terzo non l’ha mai applicata negli ultimi dieci anni. Francia. Ministero Giustizia libererà 5.000 detenuti prossimi al fine pena sputniknews.com, 25 marzo 2020 In Francia il ministero della Giustizia autorizzerà il rilascio dei detenuti al termine della loro pena nei prossimi giorni. L’obiettivo è evitare un sovraffollamento delle prigioni durante il periodo di quarantena. Secondo Franceinfo, il Ministero della Giustizia acconsentirà all’uscita di prigione di circa 5.000 detenuti. Questa decisione è stata presa in una riunione di lunedì 23 marzo tra l’ufficio e i sindacati delle guardie carcerarie al fine di facilitare la quarantena nelle carceri durante l’epidemia del coronavirus. In particolare i giudici autorizzeranno la liberazione dei detenuti incarcerati per reati minori e hanno dimostrato una buona condotta durante la custodia. Le punizioni del tipo “braccialetto elettronico” non saranno possibili nel prossimo futuro, perché gli specialisti tecnici non lavoreranno durante la quarantena. Venerdì, il ministro della Giustizia Nicholas Belloube ha dichiarato a Franceinfo che “verrà fatto, da un lato, per i detenuti malati che hanno altre malattie oltre al coronavirus, e dall’altro, per le persone che devono scontare meno di un mese di pena possiamo procedere alla loro liberazione”. Inoltre il ministero della Giustizia francese ha anche dichiarato di “aver ordinato di non eseguire condanne penali brevi” al fine di ridurre il rischio di una crisi sanitaria se il coronavirus si diffondesse nelle carceri, riporta Franceinfo. Svizzera. Nelle prigioni ticinesi, ora più soli che mai di John Robbiani cdt.ch, 25 marzo 2020 Annullate buona parte delle attività lavorative e, soprattutto, le visite dei familiari - Il direttore: “È la misura che ho preso più a malincuore” - Detenuti e personale uniti per non fare entrare il virus: “Gli ospiti hanno dimostrato un senso di responsabilità che è andato oltre ogni mia aspettativa”. “La situazione è cambiata in modo drastico”. Sono parole di Stefano Laffranchini, direttore delle strutture carcerarie ticinesi. È a lui che ci siamo rivolti per capire come l’emergenza coronavirus ha cambiato le giornate all’interno delle prigioni. Il carcere infatti, nonostante sia per antonomasia un luogo di isolamento (dall’esterno), non è rimasto immune all’emergenza e in queste settimane ai detenuti (tra cui al momento non si registrano casi di positività al virus) sono stati imposti sacrifici. “La situazione - spiega Laffranchini - viene monitorata costantemente dal nostro servizio medico. Siamo in ogni caso pronti sia dal profilo logistico, sia da quello procedurale, a gestire l’epidemia nel caso in cui dovesse diffondersi. Per preservare il personale, abbiamo inoltre messo in atto anche da noi le misure varate dal governo, limitando le attività (e conseguentemente le risorse necessarie) all’indispensabile e prevedendo la possibilità, per parte del personale, di lavorare da casa tenendosi pronto a raggiungere il posto di lavoro entro sessanta minuti”. Niente visite, ma più ore d’aria - Ma come è mutata la vita dei detenuti? “La situazione è cambiata in modo drastico, e la necessità di preservare la popolazione carceraria dal contagio mi ha purtroppo costretto a sospenderne alcuni diritti. I congedi verso l’esterno e ogni tipo di visita sono stati sospesi, quando normalmente ogni detenuto beneficia, in regime normale, di 7 ore di colloquio mensili. Ammetto che questa è stata la misura che ho preso più a malincuore, in quanto la risocializzazione dei detenuti passa dal mantenimento delle relazioni e dei propri contatti sociali. Ogni detenuto vive inoltre la stessa situazione del resto della popolazione, con parenti, anche vulnerabili e anziani, che ora non può più vedere o incontrare, una situazione che ne accresce la preoccupazione”. Ma c’è di più. “Anche gran parte delle attività lavorative e tutte le formazioni sono state sospese, sia per l’impossibilità di garantire il concetto di distanza sociale, sia per mancanza di lavoro; riverbero del blocco di gran parte delle attività produttive deciso dal Governo. Non vi sono per contro state limitazioni alla libertà di movimento dei detenuti. Anzi, la stessa è stata ampliata. Questo per estendere la superficie di movimento e ridurre la densità delle persone, nel rispetto sempre del concetto di distanza sociale”. “Ho riscontrato maturità” - È dunque un periodo di detenzione più duro (anche solo dal punto di vista psicologico) del solito? “Per i motivi che ho accennato in precedenza, e per l’inattività forzata e l’impossibilità di intrattenere contatti di persona con i propri cari, la situazione per i detenuti non è affatto semplice. Eppure ho riscontrato una maturità, una presa di coscienza e un senso di responsabilità che è andato oltre ogni mia aspettativa. La crisi sta in qualche modo unendo popolazione carceraria e personale, che solidalmente si sentono unite nel tentativo di preservare le strutture dal contagio o, anche se questo dovesse avvenire, nel gestirlo nella calma e con responsabilità. Questo è stato possibile grazie a un dialogo continuo con l’insieme dei detenuti, ed è qualcosa che mi serve da insegnamento per il futuro. La gestione della quotidianità di un carcere non forzatamente deve essere comunicata tramite una circolare interna, ma può essere, nel limite del possibile, condivisa: anche in situazioni normali, le scelte gestionali più drastiche, se spiegate compiutamente e dovutamente, rispondendo immediatamente ai dubbi dei detenuti, potrebbero venir comprese e rispettate più responsabilmente”. Attaccamento al lavoro - E come stanno reagendo invece gli agenti di custodia? “Stanno dimostrando un attaccamento alla professione che non mi sorprende. Non è la prima volta che, in situazione di crisi, posso contare su collaboratori che danno tutto per il bene delle strutture carcerarie. Alcuni sollevano legittimi dubbi, perplessità e timori, ma grazie al rapporto di fiducia preesistente instauratosi con i superiori, con la direzione, con il servizio medico e con l’Ufficio dell’Assistenza Riabilitativa ne parlano apertamente, dando modo ai vari servizi di fornire loro le necessarie risposte in tempo reale”. E per la sezione aperta? Immaginiamo che i detenuti che aveva una possibilità di lavoro esterno oggi non possono più svolgerla. “I congedi verso l’esterno dalla sezione aperta - spiega Laffranchini - sono stati sospesi, mentre chi lavora per un datore di lavoro continua a farlo, sempre che l’attività non sia stata sospesa. Sei detenuti continuano a essere impiegati all’azienda agricola Orto, in quanto operativa in un’attività considerata essenziale. Occorre però immaginarsi le condizioni della sezione aperta quasi come quelle “domestiche”: a parte l’impossibilità di lasciare l’edificio e di rimanere con i propri cari, i mezzi di comunicazione, la libertà individuale, eccetera fanno sì che le condizioni dei detenuti non si discostino molto dal cittadino comune costretto a rimanere a casa”. Svizzera. Una prigione in disuso riaperta per isolare i detenuti infetti di Giorgio Doninelli tio.ch, 25 marzo 2020 L’ex carcere di Horgen sarà trasformato in una sorta d’infermeria. Il canton Zurigo ha deciso di utilizzare la prigione di Horgen - chiusa lo scorso dicembre - per trasferirvi i detenuti positivi al coronavirus che necessitano di cure. È prevista una collaborazione con altri cantoni. La prigione di Horgen sarà trasformata a titolo preventivo in una sorta di infermeria per i detenuti malati di Covid-19, ha fatto sapere l’ufficio cantonale per l’esecuzione delle pene, confermando una notizia della radio svizzero tedesca Srf1. Ancora non si sa quanti letti disporrà il nuovo reparto nella prigione di Horgen. Ci si trova ancora in fase di pianificazione, affermano le autorità zurighesi. In linea di principio, i detenuti infetti vengono curati nei penitenziari dove stanno scontando la loro pena. Ad Horgen saranno trasferiti i detenuti che necessitano di cure più intensive. Non sono ancora disponibili dati sui detenuti contagiati nel canton Zurigo o in Svizzera. Ci sono “casi isolati”, sia tra i detenuti che tra i dipendenti, ha risposto a precisa domanda la Conferenza dei direttori cantonali di giustizia e polizia (Cdcgp). Per non mettere in pericolo la sicurezza e l’ordine nelle prigioni, la Cdcgp non fornisce alcun dettaglio e si limita a dire che al momento non sono note “concentrazioni rilevanti”. In tutte le carceri colpite, la cura e il trattamento delle persone contagiate sono garantiti. Grecia, 21 Ong: garantire la salute dei migranti e dei richiedenti asilo bloccati sulle isole di Riccardo Noury Corriere della Sera, 25 marzo 2020 Ventuno organizzazioni umanitarie e per i diritti umani (l’elenco è in fondo a questo post) hanno chiesto al governo della Grecia di ridurre immediatamente la congestione di migranti e richiedenti asilo nei Centri di accoglienza e identificazione (Cai) nelle isole dell’Egeo, onde evitare una crisi della salute pubblica nel contesto dell’attuale pandemia da Covid-19. Migliaia di persone - anziani, malati cronici, bambini e minori non accompagnati, donne incinte, neo-mamme e disabili - sono intrappolate sulle isole greche in condizioni deplorevoli e di sovraffollamento estremamente pericolose. Costringere i richiedenti asilo a rimanere in una situazione che viola i loro diritti umani e che mette in pericolo la loro salute, il loro benessere e la loro dignità non può essere giustificato da alcuna ragione sanitaria. Il 17 marzo il governo greco ha annunciato l’adozione di misure per prevenire la diffusione del Covid-19 nei Cai delle isole dell’Egeo: in sintesi, la quarantena di questi centri, con migliaia di migranti e richiedenti asilo intrappolati al loro interno. Tali misure, secondo quanto dichiarato dal ministero per l’asilo e la migrazione, prevedono il fermo di tutte le attività e di tutte le strutture speciali allestite nei Cai, come l’educazione informale, e la sospensione per due settimane delle visite e della fornitura di servizi essenziali da parte delle organizzazioni e delle agenzie di aiuto umanitario. Sono stati predisposti rigidi controlli sia sui movimenti in uscita dai Cai, persino per reperire alimenti, sia sulla circolazione interna senza una valida ragione. Il 22 marzo il primo ministro greco ha annunciato il divieto di “tutti i movimenti non necessari” sul territorio nazionale. A quella data, la popolazione dei Cai sulle isole di Lesbo, Samo, Chio e Lero era di 37.427 persone, superiore di 31.400 unità rispetto alla capienza massima prevista di 6095. Le condizioni in questi centri non possono essere considerate idonee per vivere in modo dignitoso e umano. L’accesso all’acqua corrente, ai gabinetti e alle docce è limitato, l’attesa in fila per la distribuzione del cibo dura ore, non vi è numero sufficiente di medici e infermieri. Pertanto, è pressoché impossibile rispettare le linee-guida per la protezione dal Covid-19. In questo modo, le persone corrono un elevato rischio di essere esposte alla trasmissione del virus. Le 21 organizzazioni umanitarie e per i diritti umani chiedono al governo greco di adottare provvedimenti per prevenire la diffusione del Covid-19 e di preparare un piano d’emergenza a attuare non appena sia riscontrato il primo caso di positività nei Cai. Se e quando si verificasse, una quarantena che intrappolasse migliaia di persone sane in campi affollati accanto a persone positive, aggiunta all’assenza di un’adeguata e appropriata presenza di personale medico, provocherebbe quasi certamente la morte evitabile di numerose persone. Le 21 organizzazioni chiedono pertanto al governo greco di adottare una serie di misure per ridurre il rischio di contagio da Covid-19 nei Cai e per contribuire a proteggere la salute pubblica collettiva, tra cui: - trasferire le persone che si trovano attualmente nei Cai in strutture più piccole situate sulla terraferma, come appartamenti e alberghi, dando priorità agli anziani, ai malati cronici e a quelli che versano in condizioni di salute critiche, ai disabili, alle donne incinte, alle neo-mamme e ai loro bambini, ai bambini e ai minori non accompagnati; - adottare misure speciali per garantire accesso universale e libero ai servizi di salute pubblica per i migranti, i richiedenti asilo e i rifugiati, senza alcuna discriminazione e compresi i tamponi e le cure per i positivi al Covid-19; - informare tutti i residenti nei Cai, in tutte le lingue necessarie e in modo comprensibile anche dalle persone con disabilità, su come prevenire il contagio da Covid-19 e su cosa fare se avvertiranno sintomi del contagio; - assicurare che siano a disposizione misure quali l’isolamento volontario e la quarantena e la presenza di personale medico adeguatamente formato e dotato di maschere protettive; - venire incontro alle specifiche necessità delle persone che vivono in insediamenti informali nei pressi dei Cai, che possono avere problemi ancora più acuti in termini di mancanza di acqua, prodotti e servizi igienico-sanitari e raccolta dei rifiuti; - garantire che fino a quando i Cai non saranno decongestionati, siano disponibili e presenti medici e infermieri in numero adeguato così come personale specializzato nella salute mentale. Ove possibile, questi servizi potrebbero essere forniti da remoto. Le organizzazioni che hanno sottoscritto l’appello al governo greco sono le seguenti: Action Aid Hellas, Amnesty International, Arsis - Association for the Social Support of Youth, Defence for Children International Greece, Elix Ngo, Greek Forum of Refugees, Help Refugees / Choose Love, Hias Greece, HumanRights360, Human Rights Watch, International Rescue Committee, Jesuit Refugee Service Greece (JRS Greece), Legal Centre Lesvos, Médecins du Monde - Greece (MdM-Greece), Network for Children’s Rights, Praksis, Refugee Legal Support, Refugee Rights Europe, Refugee Support Aegean, Solidarity Now e Terre des hommes Hellas. Yemen, cinque anni di guerra. Colera, Covid-19 e bombe: un Paese sempre più fragile di Marta Serafini Corriere della Sera, 25 marzo 2020 Con la stagione delle piogge si temono nuovi contagi. L’allerta dell’inviato Onu: se arriva il coronavirus qui sarà una tempesta perfetta. Lo stallo delle trattative e l’attendismo saudita. Un’epidemia già in corso e una pandemia che rischia di indebolire ulteriormente il Paese più povero del mondo arabo mentre non si fermano i bombardamenti che da cinque anni colpiscono la popolazione e che hanno fatto fin qui 100 mila vittime. È la fotografia drammatica dello Yemen che entra oggi nel suo sesto anno di conflitto e che, sebbene non abbia ancora registrato alcun caso di Coronavirus, è più esposto di altri alla crisi sanitaria globale data la mancanza di strutture sanitarie. L’arrivo della stagione delle piogge rischia di provocare, nelle prossime settimane, un nuovo esponenziale picco di colera in Yemen. Da inizio anno sono più di 56 mila le persone contagiate, e oltre 2,2 milioni dal 2017. Nel 2019, si era già registrato il secondo più alto aumento di contagi dallo scoppio dell’epidemia: oltre 860 mila casi sospetti, con oltre mille vittime, poco meno del milione registrato nel 2017. “Mentre il sistema sanitario è ormai al collasso, con solo la metà delle strutture in funzione in tutto il paese a causa dei bombardamenti e degli scontri degli ultimi anni, il numero di contagi potrebbe aumentare con l’arrivo della stagione delle piogge in aprile”, spiega Paolo Pezzati, policy advisor per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia. Dopo aver registrato nel 2017 il più alto numero di casi di colera, il nord dello Yemen, rimane la zona a maggior rischio per la quasi totale mancanza di fonti d’acqua pulita, soprattutto nei cinque governatorati di Sana’a, Hajjah, Houdeida, Taiz e Dhamar. Un’epidemia che quindi dall’aprile del 2017 - quando sfuggì subito dal controllo contagiando 360 mila persone nei primi tre mesi - continua a dilagare nel Paese con il numero di casi che sono tornati a salire l’anno scorso, dopo una leggera flessione nel 2018. “La popolazione dello Yemen ancora una volta deve affrontare una prova durissima, nella quasi totale indifferenza del resto del mondo. - continua Pezzati - La mancanza di acqua e cibo espone la popolazione, soprattutto le comunità più povere e vulnerabili, ad epidemie come questa. 10 milioni di persone sono sull’orlo della carestia, più di 17 non hanno accesso ad acqua pulita e servizi igienico sanitari”. La proiezione di Oxfam è che potrebbero esserci poco più di 1 milione di casi nel 2020. Inoltre negli ultimi 5 anni si sono verificati, secondo i dati dell’Oms e dei suoi partner, oltre 142 attacchi su ospedali e strutture sanitarie. Secondo Save the Children il colera colpisce in particolare modo i bambini: la Ong ha reso noto che più di 190 bambini sono morti di colera dall’inizio dell’anno e che 9 milioni di minori sono senza accesso all’acqua potabile. Tra loro la storia del piccolo Khalid, un neonato di soli 70 giorni nato nel governatorato di Hadramawt, territorio isolato dal resto del paese a causa dell’assenza di collegamenti stradali, un accesso reso quasi impraticabile anche alle organizzazioni umanitarie. Khalid è malnutrito, il tempo è un orologio che batte sulla sua vita in pericolo. Con delle cliniche mobili, la Ong Intersos è riuscito a raggiungere Khalid, visitarlo, e avviare le cure necessarie per farlo tornare in salute. “Il conflitto in Yemen entra nel suo sesto anno e una soluzione in grado di alleviare le sofferenze della popolazione appare ancora lontana - sottolinea Kostas Moschochoritis, segretario Generale di Intersos - Milioni di yemeniti sono più affamati, più malati e versano in condizioni peggiori di un anno fa. Per molti, l’aiuto umanitario rappresenta l’unica ancora di salvezza. In questo momento circa 900 operatori di Intersos, yemeniti e internazionali, sono in prima linea per portare aiuto ai più vulnerabili. Quella per salvare vite umane è spesso una corsa contro il tempo. Per questo, nel quinto anniversario della guerra, vogliamo lanciare un appello chiaro: non abbassiamo l’attenzione su quanto sta avvenendo, la guerra non resta a casa, e l’azione umanitaria non si ferma, anzi, va sostenuta e intensificata”. Per quanto riguarda la pandemia di Coronavirus, fin qui lo Yemen non ha fatto registrare ufficialmente nessun caso. Tuttavia è chiaro come l’assenza di casi positivi possa ricondursi alla totale assenza di controlli e di strutture dove poter effettuare i tamponi. “Se questo virus dovesse arrivare in Yemen sarebbe una tempesta perfetta”, ha dichiarato il rappresentante dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), Altaf Musani. Musani ha anche spiegato come attualmente lo Yemen abbia una capacità di test pari a 200 tamponi. Per fare fronte all’emergenza lunedì scorso le autorità Houthi che controllano il nord del Paese hanno dichiarato di aver chiuso i confini terrestri con parti dello Yemen controllate dal governo per due settimane tranne che per il traffico merci. La scorsa settimana hanno poi fermato i voli delle Nazioni Unite dall’atterraggio all’aeroporto di Sana’a, gli unici aerei autorizzati dalla coalizione a guida saudita, che controlla lo spazio aereo. Sia gli Houthi che il governo sostenuto a livello internazionale hanno spinto i viaggiatori all’auto-quarantena. Il governo di Aden ha anche ordinato la chiusura delle scuole. Ma non basta. “In un momento in cui il mondo sta affrontando una pandemia, l’attenzione delle parti in conflitto deve cambiare” e spostarsi dal conflitto verso la tutela della sicurezza sanitaria, ha tuonato l’inviato speciale dell’Onu nel paese, Martin Griffiths. “I pericoli dovuti al #Covid19 rendono ancora più urgente il rilascio di tutti i prigionieri di guerra - ha aggiunto - Le parti devono consentire alle persone di tornare a casa in sicurezza”.