Mattarella: “Carceri non sempre adeguate” di Eleonora Martini Il Manifesto, 24 marzo 2020 Il capo dello Stato conforta i detenuti. Ma dal mondo penitenziario sale un coro: “Rischi gravissimi di contagio, subito altre misure”. “Carceri sovraffollate e non sempre adeguate a garantire appieno i livelli di dignità umana”. È la versione laica del “preghiamo per i carcerati” pronunciato da Papa Francesco, la lettera che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha inviato a Il Gazzettino in risposta al drammatico appello dei detenuti del Nordest lanciato nei giorni scorsi (“Ci meritiamo la pena, non questa tortura”, scrivevano). Nulla a che vedere con la gravità dei toni che il suo predecessore Giorgio Napolitano usò nel 2011 quando definì il sovraffollamento carcerario “un tema di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile”, o con il rigore con il quale, inascoltato, due anni dopo lo stesso inviò un messaggio alle Camere suggerendo le misure da adottare, comprese l’amnistia e l’indulto. “Mi adopero - si limita a dire Mattarella - per sollecitare il massimo impegno al fine di migliorare la condizione di tutti i detenuti e del personale della Polizia penitenziaria che lavora con impegno e sacrificio”. Allora i detenuti erano quasi 67 mila a fronte dei 59 mila attuali, i posti regolamentari erano - sulla carta - circa 5 mila in meno di oggi, e c’era il pressing della Corte europea dei diritti umani. Ma le celle non erano certo l’”incubatore perfetto del contagio” da Coronavirus che sono diventate, come fanno notare gli avvocati penalisti la cui voce ieri si è unita al coro da più parti levatosi che chiede di correre ai ripari e farlo presto (ieri il numero dei contagiati nelle celle italiane è salito a 17). Il Capo dello Stato invece esprime comprensione, auspica “la giusta attenzione ai temi che sottolineate” in nome della “solidarietà umana” e si dice “colpito” dal “gesto di grande generosità e vicinanza” espresso dalle detenute della Giudecca che hanno raccolto soldi per l’ospedale di Venezia. Un gesto che dimostra, scrive, “il senso di grande solidarietà che avete maturato” e “la sensibilità e la forza” trovate “per aiutare chi soffre e chi si prodiga generosamente per la loro guarigione”. Parole forse un po’ troppo “prudenti” per descrivere la situazione attuale degli istituti penitenziari italiani, osa il presidente dell’Unione delle Camere penali Giandomenico Caiazza, ma che in ogni caso “rendono non più rinviabile una precisa assunzione di responsabilità da parte del Governo. Possiamo anzi dire - aggiunge - che il tempo è ampiamente scaduto”. Anche il Garante nazionale dei diritti delle persone private di libertà conferma che “in alcuni penitenziari la situazione è di estrema difficoltà” e invita a rispettare le misure raccomandante dall’Oms e i principi enunciati dal Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa al fine di preservare dal contagio detenuti e operatori penitenziari. Per il Garante Mauro Palma, le parole del Presidente cono “un autorevole e importante sostegno a far sì che il sistema detentivo del nostro Paese sia, per numeri e per risorse, in grado di affrontare l’impatto” del Covid19. La lettera del presidente Mattarella “rincuora” invece di sicuro i dirigenti della Polizia penitenziaria, che avvertono però: “Non bisogna frapporre indugi”. Daniela Caputo, segretaria nazionale del Sindacato dei dirigenti del Corpo di polizia penitenziaria, chiede infatti esplicitamente “scelte di deflazione” che “senza abdicare alla certezza della pena, consentano di limitare le conseguenze della diffusione del coronavirus all’interno delle mura”, anche se rivendica per il suo corpo una formazione adatta a predisporre azioni di contenimento e antisommossa. Perché, dice, “la tensione nelle carceri è ancora palpabile per il timore della diffusione del virus”. E infatti ancora “un episodio di forte protesta” si è avuto nella notte nel carcere romano di Rebibbia, riferisce il deputato Cosimo Ferri (Italia Viva), della Commissione Giustizia, che accusa il ministro Bonafede: “Sta sottovalutando la situazione carceraria, non è stato in grado di dare risposte concrete, ha solo bloccato la riforma Orlando e oggi introduce norme che non servono: il suo non è uno svuota carcere, ma una norma manifesto che non servirà a risolvere i problemi seri e quotidiani”. Talmente seri che perfino il responsabile Giustizia del Pd Walter Verini invita “ministro, governo e Parlamento ad andare oltre i primi passi compiuti e intervenire al più presto per abbattere davvero il grave sovraffollamento”. Perché l’ostacolo da superare, si sa, è il niet del Movimento 5 Stelle. Anche la presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, Giovanna Di Rosa, lancia un appello: “Le carceri hanno estremamente bisogno di posti liberi, perché devono costruire reparti per l’isolamento” da Covid19. E a questo scopo il decreto governativo “Cura Italia” è “inutile perché la detenzione domiciliare presuppone un domicilio - afferma - Cominciamo a tirare fuori un domicilio per i detenuti che non ce l’hanno ma meritano questa opportunità, e non pensiamo ai braccialetti elettronici che non servono, quando le case ci sono”. Perciò la magistrata chiede al comune di Milano di fornire alloggi per i domiciliari di chi non ha casa. Azioni ancora più drastiche sono invece richieste dalle organizzazioni di tutela dei diritti dei detenuti, da alcuni esponenti politici, Radicali in testa, e dall’Associazione italiana dei professori di diritto penale. “Nessuno tocchi Caino” indica come principale misura da adottare “una moratoria immediata dell’esecuzione penale e provvedimenti come amnistia ed indulto”. Mentre i Radicali italiani invitano a creare subito “delle task force di magistrati e di personale amministrativo per smaltire le istanze pendenti e concedere le misure alternative previste dalla legislazione vigente”, oltre ad ampliare le misure contenute nel decreto governativo. Ma il numero due del Pd, Andrea Orlando, è ancora contrario ad amnistia e indulto: “Non è necessario - afferma l’ex ministro di Giustizia - La procedura è complessa e prevede una maggioranza che non vedo oggi in Parlamento. Utilizziamo gli strumenti di flessibilità senza far venire meno l’esecuzione della pena”. Intende l’esecuzione della pena in carcere. Mattarella scrive ai detenuti veneti: sovraffollamento non garantisce dignità di Luca Liverani Avvenire, 24 marzo 2020 Lettera del Quirinale dopo l’appello dai penitenziari di Venezia, Padova, Vicenza - “Meritiamo pena, non tortura” - e la colletta per gli ospedali. Plaudono Pd, Antigone e Nessuno tocchi Caino. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha risposto oggi con una lettera al quotidiano Il Gazzettino ad un appello che i carcerati del Nordest gli avevano rivolto dalle colonne dello stesso quotidiano pochi giorni fa. Una lettera a tutte le massime cariche dello Stato inviata dai detenuti delle carceri di Venezia, Padova e Vicenza in cui dicevano di “meritarsi per la maggior parte una pena, ma non la tortura” derivante dall’ulteriore limitazione della libertà personale conseguente dalle misure di contenimento del coronavirus. Il dialogo col Quirinale arriva dopo le rivolte scoppiate all’inizio del mese in molti istituti di pena, per la chiusura dei colloqui con i familiari e il timore del diffondersi dell’epidemia tra i detenuti. “La vostra lettera mi ha molto colpito - scrive il Presidente - perché è il segno di una sincera preoccupazione per la gravissima epidemia che sta interessando il nostro Paese ed esprime la vostra partecipazione e il vostro coinvolgimento anche nelle vicende più drammatiche di tutta la collettività, di cui voi tutti siete parte” scrive il Capo dello Stato. Mattarella si dice consapevole della difficile situazione delle carceri “sovraffollate e non sempre adeguate a garantire appieno i livelli di dignità umana” e spiega di impegnarsi “per quanto è nelle mie possibilità, per sollecitare il massimo impegno al fine di migliorare le condizioni di tutti i detenuti e del personale della Polizia penitenziaria che lavora con impegno e sacrificio”. Quindi, in riferimento alla colletta promossa dai detenuti a favore degli ospedali veneti il Capo dello Stato sottolinea che “Il vostro gesto di grande generosità dimostra che pur nella vostra condizione di privazione della libertà avete trovato la sensibilità e la forza per aiutare chi soffre e chi si prodiga generosamente per la loro guarigione. Vi ringrazio per questa iniziativa e vi invio un saluto cordiale”. Plaude all’iniziativa il vicesegretario del Pd Andrea Orlando: “Dobbiamo raccogliere le parole del presidente della Repubblica - dice l’ex Guardasigilli - e dobbiamo grande attenzione alla condizione dei detenuti e delle persone che lavorano nelle carceri, per proteggere noi e loro. La situazione rischia di diventare pericolosa per loro e per noi, perché i penitenziari rischiano di divenire focolai” di diffusione del coronavirus. Orlando rivolge un appello all’opposizione: “Nella conversione parlamentare del decreto - ha proseguito - valuteremo tutti i passaggi per assicurare il massimo della sicurezza per detenuti, per la polizia e penitenziaria e per noi”. Per Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, “sentire le parole di Papa Francesco prima e del Capo dello Stato oggi, che esortano a non costruire un altro muro, ma un dialogo caratterizzato da vicinanza, solidarietà e conforto, costituisce un importante passo verso la comprensione. I detenuti stanno subendo un grosso arretramento delle proprie, residue, libertà - continua Gonnella - un atto necessario che deve essere spiegato ai detenuti e con le loro parole il Pontefice e Mattarella hanno creato anche un ponte di comunicazione molto importante”. Gonnella ricorda le decisioni prese a favore dei detenuti “come l’aumento dei colloqui telefonici con i propri cari, dato che non è possibile avere contatti con l’esterno. Direttori, medici, infermieri, poliziotti nelle carceri stanno facendo un lavoro eccezionale. Mentre le forze politiche dovrebbero dare risposte più incisive, come incrementare gli spazi per le detenzioni domiciliari”. “L’associazione Nessuno tocchi Caino-Spes contra spem apprezza le parole del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Lo ringrazia per aver sottolineato che i detenuti fanno parte delle collettività e per aver richiamato l’attenzione sul fatto che le carceri versano in una situazione difficile per il sovraffollamento e che va rispettata la loro dignità umana”. In una nota gli esponenti dell’associazione Rita Bernardini, Sergio d’Elia ed Elisabetta Zamparutti “si augurano che il Governo ora si faccia interprete di questo alto richiamo ed operi subito nel senso di un’adozione immediata di misure volte a ridurre in maniera significativa il sovraffollamento carcerario, causa primaria di violazioni dei diritti umani fondamentali”, e che rischia di essere anche “pericoloso focolaio di contagio anche per gli operatori penitenziari e l’intera collettività”. Nessuno tocchi Caino chiede una “moratoria dell’esecuzione penale e provvedimenti come amnistia e indulto” giudicate “le uniche misure idonee a riportare le carceri e la giustizia nell’alveo dello Stato di Diritto”. Coronavirus, colletta delle detenute di Venezia per l’ospedale di Giuseppe Pietrobelli Il Fatto Quotidiano, 24 marzo 2020 Mattarella: “Grande generosità, mio impegno a garantire dignità nelle carceri”. I detenuti del Veneto hanno scritto una lettera al presidente della Repubblica e a Papa Francesco per avere maggiori tutele: “Ci meritiamo la pena, non questa tortura”. Il Capo dello Stato risponde sul Gazzettino e ringrazia: “Avete trovato la sensibilità e la forza per aiutare chi soffre”. Due settimane fa il pianeta carcere rischiava di esplodere, dopo le prime limitazioni alle visite dei parenti. Adesso i detenuti del Veneto scrivono al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e a papa Francesco per dimostrare la loro preoccupazione per la situazione generale e raccontare le proprie angosce: “Ci meritiamo la pena, non questa tortura”. Il primo inquilino del Quirinale ha risposto. “La vostra lettera mi ha molto colpito perché è il segno di una sincera preoccupazione ed esprime il vostro coinvolgimento anche nelle vicende più drammatiche di tutta la collettività, di cui voi tutti siete parte”. E aggiunto: “Ho ben presente la difficile situazione delle nostre carceri, sovraffollate e non sempre adeguate a garantire appieno i livelli di dignità umana e mi adopero per sollecitare il massimo impegno al fine di migliorare la condizione di tutti i detenuti e del personale della Polizia penitenziaria che lavora con impegno e sacrificio”. Poi, riferendosi alla colletta delle detenute del carcere femminile della Giudecca, che hanno versato un euro a testa per l’ospedale di Venezia, Mattarella aggiunge: “Il vostro gesto di grande generosità e vicinanza per il servizio ospedaliero veneto manifesta il senso di grande solidarietà che avete maturato in questo drammatico momento per l’umanità. Pur nella vostra condizione di privazione della libertà, avete trovato la sensibilità e la forza per aiutare chi soffre negli ospedali e chi si prodiga generosamente per la loro guarigione”. La risposta del presidente Mattarella è stata pubblicata da Il Gazzettino due giorni dopo aver ospitato la lettera dei detenuti di Padova e Vicenza, delle detenute di Venezia e delle cooperative che operano a contatto con i reclusi. “Noi, tra gli ultimi della società, siamo angosciati per i nostri cari che sono al di fuori di queste mura, come loro lo sono per noi. Le condizioni in cui ci troviamo a vivere sono difficili, in alcuni casi impossibili. Qualcuno potrebbe dire che nel Veneto tutto sommato la situazione non è delle peggiori (ma vi assicuriamo che è la guerra dei poveri), come potrebbe dire che il carcere ce lo siamo meritato. Per la stragrande maggioranza è vero, ma ci siamo meritati una pena, non una tortura”. I detenuti avevano aggiunto: “Ci dovrebbe essere tolta la libertà, non la dignità, il diritto alla salute, il diritto a vivere. Le restrizioni imposte le rispettiamo, ma non le condividiamo del tutto, ad esempio alcune misure come la sospensione dei colloqui con i famigliari, le attività dei volontari e delle associazioni, i permessi premio e le attività degli uffici di sorveglianza”. Un appello accorato: “Una visita anche un’ora alla settimana, una parola di conforto di un volontario, un’attività anche se saltuaria, sono piccole cose che ci tengono in vita. Forse tanto malessere non si sarebbe manifestato con violenza se fossero state comunicate ai detenuti le disposizioni tenendo conto del dolore che avrebbero provocato e dando subito in contemporanea la possibilità di telefonare tutti i giorni e di avere colloqui Skype più frequenti”. Colpisce la sensibilità dei detenuti orientata all’interesse comune. “Noi oggi dobbiamo lottare tutti uniti contro la stessa cosa e non contro di noi. Qui non vale più il gioco di guardie e ladri! Qui in gioco c’è la vita di ciascuno di noi, anche del più derelitto”. A nome dei 61mila detenuti italiani e delle 45mila persone impegnate nella gestione delle carceri, chiedono “un’attenzione più umana” e ringraziano medici e sanitari, che chiamano “i nostri angeli della Sanità”. Poi ricordano la colletta delle detenute di Venezia (un euro a testa, 110 euro in 70 persone) per il reparto di terapia intensiva dell’ospedale dell’Angelo di Mestre, e il lavoro nella casa di reclusione di Padova che fornisce il servizio del centro unico prenotazioni sanitario. Riferendosi alla preoccupazione per l’eventuale diffusione del contagio nelle carceri sovraffollate, concludevano: “Vorremmo ricordarLe, Signor Presidente della Repubblica, che le istituzioni tutte hanno la responsabilità e il dovere di tutelare anche le fasce più deboli e indifese della società. Al nostro Papa Francesco diciamo grazie e non ti preoccupare se i potenti non ti ascoltano o ti ascoltano poco, noi ti vogliamo bene”. Sì alla vostra richiesta d’aiuto. Remiamo insieme di Giuseppe Conte* Il Gazzettino, 24 marzo 2020 Alle donne e uomini degli istituti penitenziari di Padova, Venezia e Vicenza Vi ringrazio per il senso civico con il quale avete espresso il vostro pensiero e per la solidarietà che avete mostrato con il vostro gesto di generosa partecipazione. La richiesta di aiuto, che accolgo e non sottovaluto, giunge da chi vuole scontare la propria pena rispettando le regole; è la manifestazione di un sentimento di vicinanza, di condivisione, di forte appartenenza alla nostra comunità che, in questo momento, sta lottando strenuamente. In particolare, constato il sincero sentimento di riconoscenza manifestato nei confronti della polizia penitenziaria, dei direttori e di tutti gli operatori del settore. Desidero rassicurare voi e tutti i detenuti che il Governo e le istituzioni del Paese stanno profondendo gli sforzi necessari per tutelare, in piena emergenza Coronavirus, la salute di chi lavora e vive dentro gli istituti penitenziari. Insieme al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, abbiamo previsto risorse per dotare il personale che opera nelle carceri degli strumenti di protezione che consentano di svolgere il proprio lavoro senza mettere a repentaglio la propria salute e quella di chi sta scontando la propria pena; abbiamo fatto distribuire e continueremo a far distribuire dispositivi di protezione individuale cercando di soddisfare il più possibile il vostro fabbisogno; abbiamo fatto montare, davanti agli Istituti, le tende per il triage per poter svolgere accertamenti sui detenuti in ingresso e tenere così il virus fuori. Sono consapevole del peso e dell’impatto che le ulteriori restrizioni imposte a tutti i cittadini hanno anche su di voi e sulla vostra quotidianità. Per questo, sono state aumentate le possibilità di svolgere colloqui a distanza, attraverso gli strumenti messi a disposizione dalla tecnologia: oltre alle normali telefonate, di cui sono stati elevati i limiti di durata, sono state previste anche videochiamate gratuite mediante l’uso di Skype o di apparecchi di telefonia mobile. Il Governo e tutte le istituzioni, da quelle centrali a quelle più periferiche, sono mobilitate per arginare l’epidemia, affrontarla con tutte le forze e le risorse a nostra disposizione e arrivare a sconfiggerla definitivamente. Solo così, lavorando tutti assieme e remando tutti nella stessa direzione, possiamo pensare di uscire da questa situazione così critica. *Presidente del Consiglio dei ministri Basta alti proclami, il Colle conceda la grazia a chi soffre di Franco Corleone Il Riformista, 24 marzo 2020 Per ricostruire un clima di nonviolenza e di comprensione, di responsabilità e di autonomia nell’universo carcerario bisogna imporre la discussione in questo momento, nel fuoco della crisi, non rimandandola al futuro. Nell’immediato bisogna immaginare non i pannicelli caldi ma misure serie per rispondere alla possibile se non probabile emergenza e per impedire solo l’ipotesi dell’ecatombe. Sarebbe bello che il presidente Mattarella usasse il suo potere esclusivo e concedesse un numero sensibile di provvedimenti di clemenza. Una grazia umanitaria. Non servono frasi consolatorie ma atti che incidano nella carne e nel cuore. Proprio un mese fa sono stato invitato a presentare un libro scritto da un detenuto americano che commenta la Regola di San Benedetto, come via per la meditazione e la riconciliazione, nella Abbazia di San Miniato al Monte a Firenze, una chiesa bellissima da cui si guarda stupefatti Firenze. L’incontro si svolgeva nella cripta come fossimo clandestini o resistenti e ho conosciuto Padre Bernardo con cui ho intrecciato un dialogo ricco di suggestioni. Sembra passato un secolo per la nostra vita e per il carcere. Viviamo in uno stato di eccezione, in cui le libertà e i diritti costituzionali sono messi da parte in nome del solo diritto sopravvissuto, quello alla vita e alla salute, certo fondamentale. Per il carcere la situazione è precipitata ancora di più, nell’isolamento assoluto e nella tragedia. Padre Bernardo segnalava una importante analogia tra il monastero e il carcere in quanto entrambi i luoghi sono segnati da un perimetro non facilmente valicabile, una clausura scelta o imposta. Sono paragonabili gli spazi angusti di una cella del monastero con quella del carcere? La grande differenza è tra il silenzio di un luogo che favorisce la riflessione rispetto al rumore assordante della galera e il fatto che la cella in carcere non è riservata per una persona ma è occupata da varia promiscuità e i servizi igienici non assicurano alcuna decenza. Soprattutto le notti in carcere sono segnate dalle tre T, terapia, taglio e televisione. Il sangue scorre sulle braccia e sul torace di chi senza voce parla con il proprio corpo, le urla di chi invoca il farmaco che anestetizzi il dolore, la babele di lingue dei programmi televisivi a tutto volume: questo è lo spettacolo che si ripete quotidianamente nell’indifferenza e nella assuefazione. Questa condizione di una umanità senza speranza fa capire il paradosso delle rivolte che hanno dato l’assalto all’infermeria invece che all’armeria. I vertici del ministero della Giustizia e dell’Amministrazione Penitenziaria sono riusciti in una impresa incredibile, a farci tornare indietro di quaranta o cinquanta anni fa con i detenuti sui tetti, padroni di una ventina di Istituti e con tredici morti che con grave ritardo hanno avuto un nome, ma ancora nessuna pietà, forse perché considerati “scarti”, non persone. Quasi tutti stranieri, comunque “tossicodipendenti”. Si è fatto risentire Carlo Giovanardi, autore della nefasta legge a cui diede il nome insieme a Gianfranco Fini che rese più crudele la legge antidroga del 1990 ed enfatizzò l’ideologia del proibizionismo, sostenendo ipocritamente che i tossicodipendenti non devono stare in carcere. Questa litania l’ho sentita fino alla nausea. Ogni anno il Libro Bianco curato dalla Società della Ragione denuncia che il sovraffollamento nelle carceri ha una causa precisa. Sono presenti nelle carceri italiane oltre 61.000 detenuti, di questi circa il 30%, pari a 17.000 persone sono classificati come tossicodipendenti e il 35%, pari a più di 21.000 persone sono ristrette per violazione dell’art. 73 del Dpr 309/90 cioè per detenzione o piccolo spaccio di sostanze stupefacenti vietate. Altro che provvedimenti “svuota-carcere” come lamentano i fautori del carcere per tutti, anche per gli accusati di fatti di lieve entità, partito a cui è iscritta la ministra dell’Interno Lamorgese; occorre mettere al primo posto dell’agenda politica la riforma della politica sulle droghe scegliendo la strada della decriminalizzazione, della legalizzazione e della riduzione del danno. Le proposte sono depositate da più legislature e sono state elaborate da grandi giuristi fra i quali va ricordato il nome di Alessandro Margara. Il carcere, dimezzato nelle presenze, diverrebbe più aderente all’articolo 27 della Costituzione e sarebbe riservato ai delitti più gravi contro la persona e ai reati caratteristici del nostro tempo, quelli ambientali, finanziari, informatici. Papa Francesco qualche giorno fa si è rivolto con umanità ai prigionieri (non ai detenuti) in questo tempo di estrema difficoltà e di abbandono invocando la misericordia che secondo Padre Bernardo “fa sentire ogni recluso non più condannato all’espulsione dalla vita, ma colui che, amato contro ogni logica retributiva, fa viaggiare, volare, sognare”. Qualche mese fa sempre Papa Francesco, facendo rivivere l’insegnamento di Aldo Moro e di Cesare Beccaria, si rivolse al personale penitenziario affermando con nettezza che “l’ergastolo è il problema, non la soluzione”. Quando il Parlamento italiano sarà capace di riprendere il disegno di legge per l’abolizione della pena dell’ergastolo approvato dal Senato il 30 aprile 1998 con 107 voti favorevoli, 51 contrari, 8 astenuti? Mi piace ricordare che la Relazione fu illustrata da Salvatore Senese, fondatore di Magistratura Democratica, recentemente scomparso. La crisi del coronavirus ha colto l’Italia in una crisi politica, economica e sociale assai profonda. Molti sostengono a ragione che quando l’incubo finirà, nulla potrà essere come prima. E un proposito condivisibile, ma richiederà l’impegno di energie nuove che riprendano il filo del più nobile e intransigente pensiero politico. Non sarà facile perché al dominio dell’individualismo più sfrenato in questi giorni si accompagna la solitudine più terribile che arriva alla cancellazione perfino dei funerali. Anche e soprattutto per il carcere, il cimitero dei vivi come lo definiva Filippo Turati, occorre riprendere la bandiera di una grande riforma, dalla architettura degli spazi della pena ai progetti di reinserimento sociale, perché la vita in carcere non sia un continuo fare senza. Sappiamo tutto ciò che si deve fare. Obiettivi alti e garanzia della dignità nella quotidianità. Per cominciare si dovrebbero eliminare le misure di sicurezza, emblema della archeologia criminale e affermare il diritto alla affettività e alla sessualità in carcere e cancellare dopo novanta anni il Codice Rocco. Modificare subito l’art. 79 della Costituzione che rende impossibile per il quorum vertiginoso l’approvazione di provvedimenti di amnistia e indulto. Per ricostruire un clima di nonviolenza e di comprensione, di responsabilità e di autonomia nell’universo carcerario bisogna imporre la discussione in questo momento, nel fuoco della crisi, non rimandandola al futuro. Nell’immediato bisogna immaginare non i pannicelli caldi ma misure serie per rispondere alla possibile se non probabile emergenza e per impedire solo l’ipotesi dell’ecatombe. Sarebbe bello che il presidente Mattarella usasse il suo potere esclusivo e concedesse un numero sensibile di provvedimenti di clemenza. Una grazia umanitaria. Non servono frasi consolatorie ma atti che incidano nella carne e nel cuore. Sovraffollamento carceri, Mattarella conceda grazia di massa come fecero Einaudi e Gronchi di Daniele Priori Il Riformista, 24 marzo 2020 Sono 13mila i detenuti in sovrannumero nelle carceri italiane e, in quanto oggettivamente fascia più debole a livello sociale, maggiormente a rischio in questo momento di pandemia da Covid-19. Il Partito Radicale non molla di un centimetro e torna oggi, per bocca del segretario Maurizio Turco e della tesoriera Irene Testa, a rivolgersi al Capo dello Stato chiedendo una inedita (ma non del tutto) grazia di massa. La richiesta arriva con una lettera al presidente Mattarella che segue di pochissimi giorni gli appelli della scorsa settimana di Rita Bernardini e dell’associazione Nessuno Tocchi Caino per gli arresti domiciliari, l’indulto e l’amnistia, sostanzialmente ad oggi disattesi, tanto da necessitare una denuncia a carico del Guardasigilli, Alfonso Bonafede per procurata epidemia colposa. “Abbiamo scritto al Presidente della Repubblica a seguito del suo intervento per garantire dignità nelle carceri e, visto il silenzio del Governo, prospettargli una iniziativa che possa raggiungere almeno l’obiettivo di liberare i 13mila detenuti in sovrannumero rispetto alla capienza prevista dalla legge”. “Al Presidente Mattarella chiediamo di operare al più presto un massiccio esercizio del potere di grazia a partire dal valutare con disponibilità, attenzione e celerità le istanze di grazia che Le sono state sin qui avanzate e che lo saranno nei prossimi giorni. E agli avvocati di avanzare con la massima urgenza le richieste” dichiarano i due portavoce radicali. “Nei giorni scorsi il gip distrettuale di Catanzaro ha posto agli arresti domiciliari un detenuto in attesa di giudizio con l’accusa di associazione mafiosa perché, in caso di coronavirus, la struttura penitenziaria di Lanciano, dove era ristretto, non sarebbe in grado di curarlo e, essendo stato in passato operato per altre gravi patologie, alto sarebbe il rischio di decesso e “si imporrebbe un immediato ricovero in una struttura specializzata in terapia intensiva” si legge nella lettera. “L’articolo 123 del decreto-legge n. 123 del 2020 poco o nulla fa per alleviare tale carico, che richiederebbe misure di assai più incisiva portata, in una situazione tanto straordinaria come l’attuale, nella quale ci sono stati già dieci contagi, un agente di polizia penitenziaria ed un medico carcerario” prosegue la missiva. “Per questi motivi occorre dare corso a tutti gli strumenti di deflazione carceraria esistenti nel nostro ordinamento: gli atti di clemenza di competenza parlamentare (amnistia e indulto) restano la prima richiesta del Partito radicale, ma non ci nascondiamo che nelle Sue dirette competenze vi è il potere di grazia e che esso può contribuire alla risoluzione delle criticità sopra denunciate”. “In una situazione di emergenza nazionale come il secondo dopoguerra, due Suoi predecessori - Einaudi e Gronchi - adottarono varie centinaia di decreti cumulativi di grazia, riferibili complessivamente a 20mila persone. Sappiamo che la prassi successiva del Quirinale è mutata e che i principi costituzionali sono meglio serviti dall’istruttoria individuale e dall’atto di clemenza rivolto alla singola persona. Purtuttavia - aggiungono Turco e Testa - il Ministro della Giustizia non si fa carico di questa emergenza come dovrebbe, anche in questo campo: siamo perciò a rammentarle che la Corte Costituzionale (con sentenza n. 200 del 3 maggio 2006) riconfermò al Capo dello Stato il potere esclusivo ed incondizionato di grazia; pur assegnando al ministro guardasigilli il diritto di ‘rendere note al Capo dello Stato le ragioni di legittimità o di merito che, a suo parere, si oppongono alla concessione del provvedimento’. la Corte negò al Guardasigilli la possibilità di “rifiutarsi di dare corso all’istruttoria e di concluderla”. Al presidente della Repubblica, dunque, l’ultima parola in una vicenda delicata che - come tutte di questi tempi - incrocia emergenza sanitaria, diritto e diritti dei cittadini, in questo caso dei più deboli in assoluto che tuttavia, come proprio Mattarella ha ricordato rivolgendosi alle detenute e ai detenuti delle carceri del Nord Est, fanno parte delle collettività. Una pietra su cui fondare la speranza di un positivo ancorché tardivo ritorno a una “epidemia di diritto”, doppiamente necessaria a limitare l’aumento del contagio. Firma l’appello: https://www.change.org/p/tutti-dramma-carceri-e-coronavirus-firma-l-appello-al-governo-di-camere-penali-e-riformista Coronavirus e carcere, per il diritto alla salute di Grazia Zuffa studiquestionecriminale.wordpress.com, 24 marzo 2020 Ci sono già stati due decreti della presidenza del Consiglio per “governare” (si fa per dire) l’emergenza coronavirus in carcere. Di mezzo, una rivolta sanguinosa che ha fatto tredici morti fra i detenuti. Il ministro della Giustizia ha dichiarato in Parlamento che “quasi tutti sono morti per assunzione di farmaci”. Di quali farmaci siano rimasti vittime, in che modo gli intossicati siano stati soccorsi in quella situazione, perché siano morti i pochi che non hanno assunto i farmaci, sono questioni che il ministro non ha affrontato senza peraltro rimandare a ulteriori indagini. Possiamo accettare che la consueta nebbia (di indifferenza e di disattenzione) che avvolge il carcere si faccia oggi più spessa, complice l’emergenza, fino a rinunciare alla verità su quelle morti? Non si può, e infatti molti cittadini e cittadine si sono mossi firmando l’appello per un Comitato di Verità e Giustizia. È dovere civile non dimenticare i morti, lo è altrettanto preoccuparsi dei vivi che rimangono dietro le sbarre. Con questo spirito, cerco di esaminare le misure governative alla luce di principi etici generalmente riconosciuti nell’affrontare la questione carcere e opportunamente riassunti nel parere del Comitato Nazionale di Bioetica del 2013 (La salute dentro le mura): ai carcerati va riconosciuto il diritto a essere tutelati nella salute psicofisica alla pari degli altri cittadini; avendo chiaro che questo diritto “entra in contraddizione con la condizione stessa di privazione della libertà”. Da qui il forte richiamo alla “responsabilità etica nei confronti dei detenuti, in quanto gruppo ad alta vulnerabilità bio-psico-sociale”. Questa attenzione specifica va tenuta presente, guardando alla cornice generale di legittimità delle misure eccezionali, che in questi giorni vengono adottate dai governi. Come nota il Nuffield Council on Bioethics, i provvedimenti che in nome della salute pubblica comportino limitazioni o sospensione della libertà personale e dei diritti devono rispettare criteri di proporzionalità, in rapporto all’efficacia prevista; e all’onere che queste comportano sulla vita delle persone, specie le più deboli e vulnerabili. Detto in termini semplici: sospendere i diritti individuali non è cosa da prendere alla leggera, può essere decisa in nome della salute pubblica a fronte di aspettative di risultati significativi e valutando con attenzione il peso di tale sospensione sulla quotidianità delle persone. E questa valutazione deve tenere conto delle differenze, in primis delle disparità, economiche e sociali fra le persone. Tanto per fare un esempio: può essere ammissibile confinare le persone a casa, a patto che nel contempo ci si preoccupi di offrire un riparo il più possibile sicuro a chi la casa non ce l’ha. Nella valutazione delle misure eccezionali da prendere, va inclusa l’aspettativa circa il livello di aderenza delle persone alle nuove regole. Come dire: trattandosi di sospensione di diritti e libertà che scandiscono l’ordinarietà della vita quotidiana, l’onere del rispetto delle nuove regole non può essere tutto sulle spalle del cittadino obbediente, ma anche del decisore politico che deve con sapienza bilanciare fra i due beni, l’individuo e i suoi diritti da una parte, la salute pubblica dall’altro. Di nuovo, tenendo conto delle differenze e delle disparità: se il livello di sopportabilità delle misure varia a seconda delle persone e dei gruppi, anche la compliance seguirà di conseguenza, a differenti livelli. Sulla base di questa cornice generale, possiamo valutare le prime misure governative sul carcere (soppressione dei permessi e della semilibertà, soppressione dei colloqui). Cominciamo dall’onere sulla vita dei detenuti e delle detenute. Non c’è dubbio che queste misure incidono in profondità sulla loro condizione, in misura più rilevante di quelle, assai pesanti, che riguardano i cittadini “fuori”. La reclusione domestica dei cittadini “fuori” non è assoluta, ed è comunque mitigata dai contatti telematici, alla portata di quasi-tutti. La sospensione di colloqui e permessi preclude al detenuto le poche possibilità di contatto con l’esterno. In più, per chi vive una condizione di ordinario e assoluto “non- controllo” della quotidianità, tale sospensione si inserisce - aggravandola- in questa ordinarietà di incertezza totale circa il proprio orizzonte di vita: a differenza del cittadino “fuori”, che, pur costretto in casa, ha tuttavia coscienza della straordinarietà della sua condizione attuale, contribuendo ad alleviarla. È questo un aspetto della particolare “vulnerabilità” psicosociale del detenuto e della detenuta, già citata dal parere del CNB. Non sembra che se ne sia tenuto conto nel predisporre le misure. Non solo non si è fatta opera di informazione capillare per spiegare la ratio degli interventi; si è rimandato ad un tempo successivo (il secondo decreto della Presidenza del Consiglio) la previsione di adeguamento telematico degli istituti e di incremento della detenzione domiciliare, che avrebbe potuto alleggerire l’impatto delle prime misure. In altri termini, si è proceduto ripercorrendo la via della “ordinaria incertezza” del carcere. Tanto per fare alcuni esempi: la detenzione domiciliare è subordinata all’uso dei braccialetti elettronici. Che però mancano, sebbene le procedure per attivarli siano partite anni fa. Ancora: ho notizia che nel penitenziario di Sollicciano il collegamento via skype funziona parzialmente per gli uomini, mentre per le donne non funziona affatto. Come si vede, l’ordinaria incertezza si snoda attraverso le ordinarie gerarchie di priorità. C’è da supporre che in molti altri istituti la situazione sia la stessa. Se poca attenzione è stata concessa all’impatto delle nuove regole sulla vita dei detenuti, tanto meno si è considerato come queste sarebbero state accolte. Ancora meno si è pensato che questa delicata valutazione fosse in carico all’istituzione: e infatti il biasimo si è totalmente riversato sui detenuti che si sono ribellati, senza una parola sulla natura improvvida delle misure, o quanto meno sulle modalità discutibili con cui sono state messe in campo. Biasimo che si è tradotto in punizioni esemplari, compresa l’esclusione dalla detenzione domiciliare. Il che è tanto più grave perché la detenzione domiciliare è in questo caso direttamente collegata alla tutela della salute. Trattarla come un privilegio per meritevoli può configurarsi come un vulnus alla parità nell’accesso alla tutela della salute, fra chi sta “dentro” e chi sta “fuori”. Governare l’emergenza coronavirus non è facile, tanto meno lo è in carcere. Tuttavia, aggrapparsi ai “ganci etici” di cui si è detto permette di intravedere il sentiero. Per prima cosa: il coronavirus è emergenza sanitaria, dunque la prima parola è al Servizio Sanitario Nazionale. Il governo non perde occasione per ricordare che le decisioni prese hanno alle spalle i suggerimenti della scienza epidemiologica. Ebbene, si è pensato a un comitato ad hoc di esperti sanitari, in grado di approfondire la particolare situazione del carcere, per tutelare detenuti e operatori? Le domande da porre sono tante. Quali possono essere le misure di screening più opportune in un luogo chiuso come quello? Qual è il piano per fronteggiare le ahimè probabili emergenze cliniche? Come attuare le misure di prevenzione basilari prescritte a chi sta “fuori”, ossia la “distanza di sicurezza”, il “non assembramento”, le precauzioni di igiene personale? In presenza di uno sforzo serio per tutelare diritti e salute, l’adesione ai doveri sarà più convinta perché anche i detenuti si sentiranno parte della “comunità Italia”, di cui tanto si parla. All’assunzione di responsabilità collettiva, farà seguito una più convinta risposta di responsabilità individuale. Altrimenti, vinceranno l’incomprensione e il risentimento. Un carcere umano conviene a tutti di Francesco Lo Piccolo* huffingtonpost.it, 24 marzo 2020 La cronaca della protesta e le paure raccontate direttamente dai detenuti delle redazioni di Voci di dentro di Chieti e Pescara, le preoccupazioni dei loro parenti, la prima chiamata Skype “tesoro prezioso, unico momento di umanità” come lo definisce Ludovica. Questo e tanto altro nel numero speciale della rivista dell’associazione Voci di dentro, 40 a pagine (per ora solo on line), realizzato in questi giorni di emergenza utilizzando Skype e telefono. Dal carcere gli scritti ci sono arrivati per posta ordinaria o sono stati dettati ai familiari durante i colloqui telefonici. Tutto il lavoro è frutto dell’impegno di volontari e di esperti che conoscono a fondo gli istituti penitenziari. La rivista ha per titolo “Metamorfosi”, ovvero cambiamento di un essere o di un oggetto in un altro di natura diversa, ma anche modificazione funzionale o strutturale di un animale. Trasformazione dunque, parola più che mai appropriata per descrivere questi nostri giorni al tempo del Covid-19. Giorni che d’ora in poi saranno giorni del prima e del dopo Coronavirus e che stanno trasformando il nostro mondo e le nostre vite. In copertina in uno sfondo verde brillante si affaccia il “nostro mostro-virus” che in poche settimane, prima in Cina, poi in Italia e ora anche nel resto del mondo, ha infettato migliaia di persone. Altro che invincibili e padroni della natura: eccoci invece fragili, indifesi, in uno stato di panico collettivo, terrorizzati, mortali. E trasformati: non più gruppi, comunità, società, incontro. Tutti soli, isolati, rinchiusi nelle nostre case, obbedienti alla regola, “prigionieri” in uno mondo militarizzato per “stato d’eccezione per gravi motivi di salute e sicurezza pubblica”. Irrazionali e istintivi (come sempre) dopo il sogno di poter governare la natura con la tecnica. Convinti che il male fosse portato dall’esterno, dal diverso, dallo straniero, è così che ora scopriamo (non tutti perché tanti sono fortemente distratti e accecati da un perfetto e funzionale sistema mediatico e penale) che il male viene da noi, è dentro di noi. Le foto dai satelliti ce lo mostrano bene: strade vuote, niente traffico, pochi aerei nei cieli, niente più nubi grigie di particolati e ossido di carbonio che ci avvelenano ed uccidono molto più del Covid-19. Disciplinati e comandati (non sappiamo fino a quando) stiamo a casa, anche noi ora prigionieri, quasi agli arresti domiciliari “in una strana affinità di animali in gabbia” come scrive Silvia Civitarese. Senza nessuna via di fuga come non ce l’hanno gli oltre 60 mila detenuti nelle carceri italiane, ignorati come persone e inascoltati: 13 di loro hanno trovato la morte nella loro folle rivolta tra il 9 e il 10 marzo. Tempo e inchieste ci diranno il come e il perché di questa strage di vite umane. Vite ai margini, esplose per il Coronavirus, ma soprattutto per “cause trascurate, sottovalutate, o volutamente ignorate da chi istituzionalmente ha il dovere morale e giuridico di scandagliare e indagare, nella consapevolezza che tutto ciò che accade lì dentro non è altro che lo specchio del loro fare o non fare”, scrive Internal Observer. Senza voler comprendere, rammenta Domenico Silvagni, che un carcere umano conviene a tutti. C’è una parola che usa dire Ennio: questa parola è riappacificazione. Chissà che la metamorfosi in atto ci porti a questo, “a una primavera senza inferriate” come auspica lo scrittore Giovanni D’Alessandro. È una speranza, un grido contro l’isolamento che Christian Bardeglinu lancia con queste parole: “Mi voglio unire a voi che lì fuori state combattendo una grande battaglia e voglio combattere con l’unica mia arma a disposizione, unendomi a voi in un solo grido: “andrà tutto bene, ce la faremo”. *Giornalista, direttore di “Voci di dentro” Tra chi si sente in gabbia due volte. “La distanza? Qui è di un centimetro” di Lucia Capuzzi Avvenire, 24 marzo 2020 Preghiamo “per i fratelli e le sorelle che sono in carcere”. Più volte nelle ultime settimane, Papa Francesco ha rivolto un pensiero speciale ai detenuti che vivono l’ansia perla pandemia separati dal mondo esterno. Una bolla in cui paura e rabbia si amplificano come dimostra la fibrillazione due settimane fa con tumulti in 49 istituti penitenziari. Ai disordini ha partecipato il 10 per cento della popolazione reclusa. Una minoranza, dunque. L’estensione del fenomeno, però, ha squarciato il velo, mostrando alla società il dramma di chi deve affrontare il virus dietro le sbarre. “Che cosa vuoi dire? Il detenuto sente dai media che si deve stare a un metro di distanza dagli altri e che è necessario lavarsi le mani di continuo. Lui, però, riesce a ritagliarsi appena un centimetro di spazio, ha il rubinetto spesso rotto e il familiare non viene più al colloquio a portargli il sapone. Può comprarlo, certo ma il malessere aumenta. Si sente due volte ingabbiato. Alla prigionia fisica si somma quella mentale. Da questo deriva il corto circuito”. Mauro Palma, Garante nazionale peri detenuti, non intende giustificare le violenze degli ultimi giorni. “Vorrei solo aiutare a decodificarle. Già di norma i detenuti si sentono ininfluenti, marginali rispetto alle discussioni sui problemi che riguardano tutti, anche loro. Hanno la sensazione di subire le decisioni, senza aver alcuna voce in capitolo. Se interviene un fattore esterno a fare da amplificatore - in questo caso il coronavirus - la paura si trasforma in angoscia e in panico”, sottolinea. Il Garante ha definito un passo avanti l’iter semplificato per i domiciliari per quanti, hanno una pena, anche residua, fino a diciotto mesi, disposto dal decreto legge del 18 marzo scorso. Ma chiede “ampia possibilità” di accedervi a quanti hanno i requisiti. “Non si tratta solamente di andare incontro alle istanze dei carcerati. Si risponde a una necessità sanitaria, con grande beneficio della comunità esterna. Quest’ultima, per il suo stesso bene, non può consentire che i penitenziari diventino bubboni infetti, pronti ad esplodere”. Oltretutto, i reclusi sano un settore particolarmente vulnerabile al Covid-19. “La gran parte ha il sistema immunitario compromesso. Molti hanno l’epatite C, altri sono sieropositivi, altri ancora dipendenti. L’impatto del coronavirus su di loro rischia di essere davvero forte. La mortalità potrebbe essere il triplo di quella di fuori”, afferma Andrea Maria Scarpa, medico penitenziario in servizio al carcere di Pontedecinio di Genova. Una struttura riservata alle donne e ai cosiddetti “protetti”, ovvero i detenuti per crimini sessuali, con una popolazione di meno di un centinaio di persone. “Oggi termina l’isolamento del primo gruppo di cinque nuovi giunti. Non è stato facile trovare uno spazio idoneo. Abbiamo riservato il piano terra alla quarantena, spostando i detenuti negli altri due piani. Ma sei numeri dovessero aumentare si porrebbe un problema enorme. Ripeto: il contesto è già difficile, la popolazione penitenziaria è fragile di fronte al virus”, ribadisce il medico. I dati lo confermano. Un quarto dei quasi 6Omila detenuti ha problemi di abuso di sostanze legali - come alcol e psicofarmaci - e illegali, ovvero droghe, secondo l’ultimo rapporto di Antigone. “In Liguria, dove lavoro, la percentuale è più alta. Nell’istituto di Marassi, al 31 dicembre scorso, 411 dei 680 prigionieri erano in carico al Sert, racconta Ratnon Presta, operatore del Ceis di Genova, impegnato nella Conferenza volontariato e giustizia della Liguria e in quella nazionale. Le tredici vittime delle scorse settimane erano dipendenti. Questi ultimi, in genere, hanno un ruolo defilato nell’organizzazione dei disordini. La loro fragilità li porta a divenirne, però, le prime vittime. “Nel marasma, il loro malessere autodistruttivo li ha spinti a saccheggiare la farmacia alla ricerca di sostanze e ad assumerle senza freni - conclude l’operatore del Ceis. Già nel 2017-2018, gli Stati generali del ministero di giustizia avevano sottolineato l’importanza di puntare sulle pene alternative per questa fascia di popolazione. Purtroppo, però, il loro appello è rimasto inascoltato”. Cosa direbbe Turati delle nostre prigioni? di Domenico Ciruzzi Il Riformista, 24 marzo 2020 Il bluff del governo non deve farci smettere di chiedere che si cambi rotta e che si mettano al sicuro migliaia di detenuti. Le carceri già sovraffollate, ora a rischio virus. Fuggono anche i detenuti qualche volta, ma troppo di rado, e io vorrei che le evasioni fossero ben più numerose: me lo augurerei di cuore” (E. Turati, “Il cimitero dei vivi”, da un discorso alla Camera dei Deputati sulle condizioni del sistema carcerario del 1904). A fronte delle grida di dolore che si levano dalle carceri e dal personale penitenziario, il Governo ha tecnicamente risposto con una presa in giro - un “cinico bluff” come definito, con parole vere e chiare, dal presidente dell’Unione camere penali, Gian Domenico Caiazza - che, nella migliore delle ipotesi, consentirà a poche centinaia di detenuti di scontare il residuo di pena all’interno delle proprie abitazioni. La presa in giro si annida nella parte finale del provvedimento: la concessione della detenzione domiciliare è subordinata (salvo che per i detenuti con un residuo di pena inferiore a sei mesi) alla disponibilità dei braccialetti elettronici. Sì, proprio quegli introvabili braccialetti elettronici la cui cronica e colpevole indisponibilità è la causa di quasi la totalità delle custodie cautelari in carcere: è irridente; è disumano. Pochissimi dunque usciranno dal carcere e a turno - come in una sorta di tragica riffa - via via che i braccialetti si liberanno Quella moderazione, quell’evitare fughe in avanti, quella sana logica del miglior compromesso possibile a cui ci si è sottoposti per tentare di raggiungere un risultato intermedio in grado di salvare numerose vite umane sembrerebbe essere risultata vana. Il confronto sembra essere impossibile con gli integralisti delle manette, veicolo sicuro per attrarre il consenso. Ma non vogliamo e non possiamo arrenderci. Continuiamo ad invitare ed esortare il Governo e il Parlamento a cambiare rotta e ad assumere provvedimenti che realmente mettano al sicuro la salute delle decine di migliaia di detenuti, guardie penitenziarie ed operatori del carcere in questo momento sottoposti ad inaccettabili rischi. Aggiungiamo, inoltre - anche attraverso un appello al Presidente della Repubblica perché svolga quel compito di moral suasion che costituisce l’essenza fondamentale del suo ruolo all’interno degli equilibri costituzionali - la necessità di emanare provvedimenti di amnistia e indulto che possano consentire al nostro paese di rientrare nei confini della civiltà e dell’etica. Mantenere lo status quo significa rappresentarsi ed accettare non già il possibile rischio bensì il più che probabile evento che moltissimi detenuti e guardie penitenziarie possano contrarre il virus ed in alcuni casi morire. Agire (o non agire) pur sapendo che necessariamente una simile condotta produrrà certi risultati significa assumere su di sé la responsabilità politica e giuridica delle eventuali morti. Si è davvero disponibili a tutto questo pur di restare coerenti alla brutale e demagogica propaganda? Quattordici detenuti sono già morti nei giorni delle rivolte, “perlopiù” - come improvvidamente riferito in Parlamento dal Ministro di Grazia e Giustizia - per intossicazione da abuso di farmaci e metadone. Evitiamo tra qualche mese di contare decine di decessi tra i detenuti, perlopiù a causa del coronavirus. Nel 2020, cosa direbbe Filippo Turati sul carcere al tempo del coronavirus? Coronavirus, misure alternative ai detenuti? “Il privato sociale può dare una grossa mano” Redattore Sociale, 24 marzo 2020 Intervista a Stefano Anastasìa, portavoce dei Garanti territoriali e Garante dei detenuti di Lazio e Umbria. Carcere ed emergenza coronavirus: l’orientamento pressoché unanime di giuristi, garanti e volontariato è la scarcerazione di tutti i detenuti con fine pena minimo. I dati forniti dai garanti dicono che se non escono almeno 10 mila persone non è possibile isolare gli altri per scongiurare i contagi. Ma la situazione precaria di molte famiglie sotto pressione, alle prese con una criticità senza precedenti, si scontra con l’esigenza di ampliare l’accesso alle misure alternative. Rilasciando, come viene chiesto da più parti, i detenuti in nuclei familiari che in questo momento sono in grave difficoltà (quarantena, niente lavoro, pochi metri quadrati a disposizione, spesso anche con bambini piccoli, assistenza sanitaria e sociale in affanno, bilanci allo stremo, nessuna possibilità, per il “nuovo giunto”, di trovare una occupazione seppur temporanea per contribuire alle spese quotidiane) non si rischia di scaricare su mogli e genitori, spesso anziani, un problema di sicurezza sanitaria che dovrebbe risolvere lo Stato? “Il problema esiste, e so di alcuni familiari che hanno già espresso il loro diniego al rientro in casa di mariti, figli, padri - spiega Stefano Anastasìa, portavoce dei garanti territoriali e garante di Lazio e Umbria -. L’estrazione sociale di gran parte della popolazione detenuta non è di quelle che si può permettere spazio e cibo a sufficienza per tutti nelle condizioni in cui tutti siamo costretti a vivere in questi giorni”. Davanti a situazioni e famiglie che non sono in grado di accogliere in questo momento critico i loro congiunti detenuti, quale altra soluzione è percorribile, in attesa che l’emergenza rientri? “L’appello è rivolto al volontariato, al privato sociale e al terzo settore che certamente possono dare una mano nell’accoglienza dei detenuti senza casa. Complesso da realizzare, in queste condizioni, ma non impossibile. E costituisce un aiuto indispensabile per tutta la comunità, penitenziaria e non, nella prevenzione della diffusione del virus. È una necessità di salute pubblica”. Con l’assistenza sanitaria e sociale concentrata sull’attuale emergenza, come si crede potrebbero affrontare le famiglie che pure sono in grado di accogliere i detenuti, i problemi psichici o di tossicodipendenza propri di un alto numero di persone ristrette? Sono previsti aiuti? “Purtroppo no, ma ci sono le risorse ordinarie, quelle dei servizi pubblici e delle comunità, che non chiudono per coronavirus e che, pur tra mille nuove difficoltà, garantiscono continuità di cure e di accoglienza”. Quando si parla di ‘domicilio idoneo’, a quali numeri ci si riferisce? Quante sono le persone che potrebbero usufruire in questa situazione di misure alternative? “Non si può sapere, purtroppo. Nei giorni scorsi, prima ancora dell’entrata in vigore del decreto, la Presidente del Tribunale di sorveglianza e la direttrice di un istituto romano mi hanno già segnalato i primi casi di persone che potrebbero uscire già domani, ma che non hanno un domicilio idoneo dove recarsi. Sono difficoltà reali, ma non possiamo limitarci a contemplarle: serve uno sforzo straordinario da parte di tutti per affrontarle e, nella misura del possibile, risolverle”. Cosa prevede il nuovo decreto? “Il decreto ha riconosciuto le migliori prassi acquisite nei tribunali di Sorveglianza, stabilendo che i semiliberi, invece di vedersi sospesa la misura, come un po’ scioccamente era stato previsto in quello di dieci giorni fa, possano godere di una licenza straordinaria, pernottando fuori dal carcere fino al 30 giugno. E poi ha previsto qualche semplificazione nell’esecuzione della pena al domicilio, già prevista dalla legge Alfano, la 199 del 2010. Non sarà più necessario valutare il pericolo di fuga o di commissione di un nuovo reato e l’istruttoria potrà svolgersi anche avvalendosi dell’ausilio della polizia penitenziaria nell’accertamento dell’idoneità del domicilio indicato dal richiedente. Questo dovrebbe semplificare e sveltire le procedure. Queste procedure semplificate non si potranno applicare agli autori di gravi reati, ai cosiddetti delinquenti abituali, professionali o per tendenza, ai protagonisti delle rivolte della scorsa settimana e a quelli che hanno avuto sanzioni disciplinari per sommosse, evasioni o reati commessi in carcere”. “I detenuti con un residuo pena tra i sei e i 18 mesi - prosegue Anastasìa - dovranno andare a casa con il cosiddetto braccialetto elettronico, se, come si promette, le Amministrazioni competenti riusciranno a metterne a disposizione un numero sufficiente. Il Governo valuta in circa 3 mila unità i detenuti che potranno beneficiare di questa misura. Sembra una valutazione ottimistica. Certo è un segnale di attenzione e una prima risposta. Tutto sta a vedere come sarà applicata alla luce dei molti paletti che porta con sé”. Da più parti si chiede l’amnistia, provvedimento che secondo alcuni magistrati di Sorveglianza non avrebbe nemmeno i tempi tecnici per essere attuato. Non si rischia, con richieste che già in partenza hanno poche probabilità di essere accolte, vuoi per problemi tecnici che per scelte politiche, di fomentare la rabbia e la frustrazione delle persone detenute, in una situazione già esplosiva per mille altri fattori? “Tecnicamente, un provvedimento generalizzato di clemenza (amnistia e/o indulto) è il più rapido ed efficace per una riduzione consistente della popolazione detenuta, ma finora non è mai stato neanche in discussione, tali sono le avversità nell’opinione pubblica e nel ceto politico. Dunque, come dico sempre ai detenuti che incontro, anche in questi giorni, evitate di coltivare illusioni destinate fatalmente a essere deluse”. Un messaggio alla popolazione reclusa “Continuate a manifestare la vostra preoccupazione e anche il vostro dissenso dalle scelte del Governo, continuate a segnalare tutto quello che non va, soprattutto nelle condizioni igieniche degli istituti e nell’assistenza sanitaria alle persone, ma fatelo in maniera pacifica e non violenta, come hanno fatto le detenute di Venezia o quelli di Civitavecchia, evitando di mettere a rischio la salute e l’incolumità di tante persone, a partire da quelli tra voi più fragili o malati. Delle vostre ragioni terremo conto e cercheremo di portare la vostra voce all’opinione pubblica e ai responsabili dei servizi e delle scelte politiche e istituzionali, nell’interesse vostro e nell’interesse di tutti”. Più telefonate per i detenuti, ma il 41 bis è sempre più isolato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 marzo 2020 Non ci sarebbero divieti per i colloqui al carcere duro, perché c’è il vetro divisorio, ma i parenti non possono lasciare le residenze per raggiungere gli istituti. Tutti l’Italia sta vivendo un periodo difficile, l’epidemia ancora incombe e le restrizioni per fronteggiarla coinvolgono tutti. Ognuno è costretto a rimanere in una specie di quarantena, limitare le uscite e chiudere numerose attività. Il carcere è un luogo non impermeabile al contagio da coronavirus e bisogna limitare il più possibile le entrate. Per questo motivo è stato prorogato il divieto dei colloqui a vista con i familiari. Questo per il bene dei detenuti stessi. Il garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma, per questo motivo, ha lanciato un appello ai detenuti. “Mi rivolgo proprio a voi detenuti - spiega il Garante in un video - per dirvi che capisco la vostra contrarietà, ma vi assicuro che si stanno ampliando tutte le possibilità di comunicazione con i vostri cari, anche dotando gli istituti di telefoni cellulari disponibili, oltre che di mezzi per la comunicazione video”. Palma fa anche una promessa: “Tutti noi garanti, nazionale e locali, controlleremo che queste possibilità siano effettive. E siamo disponibili a spiegare negli Istituti che questa situazione è una necessità per difendere la salute di tutti: la vostra, quella dei vostri cari e di chi in carcere lavora e anche di tutti noi”. Qualcosa si sta muovendo per garantire la possibilità di ampliare le telefonate esterne. Stanno per essere mesi a disposizione degli istituti penitenziari un totale di 3.200 apparati mobili per telefonare e videochiamare. Dopo la fornitura gratuita di 1.600 telefoni cellulari da parte di Tim, il ministero della Giustizia - Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, sta provvedendo all’acquisto di altri 1.600 telefoni mobili che i detenuti potranno utilizzare per restare in contatto con i propri cari. Si potrà fare ricorso a questi mezzi, in aggiunta a quelli già presenti negli istituti (Skype e telefoni fissi), oltre i limiti di tempo consentito. Si tratta di iniziative adottate per far fronte all’emergenza sanitaria e alle conseguenti limitazioni previste per contenere il rischio di contagi. Fra queste anche l’utilizzo senza costi del servizio di lavanderia, la possibilità di ricevere bonifici online, l’aumento dei limiti di spesa per ciascun detenuto. Ma le difficoltà non mancano. Rimane il discorso annoso dei colloqui al 41 bis. Essendoci il vetro divisorio, i detenuti al regime speciale sono esenti dal divieto e quindi il Dap ha autorizzato la possibilità, solo per loro, di poter ricevere le visite dai familiari. Proprio per questo motivo, sempre esclusivamente per loro, le telefonate non sono ampliate e, tanto meno, hanno diritto alle videochiamate tramite Skype. Un problema però c’è. Tutta Italia ha le restrizioni: i familiari, di fatto, non possono muoversi dal loro luogo di residenza. C’è l’avvocato del foro di Milano Eugenio Rogliano, il quale ha come assistito un detenuto recluso al 41bis nel carcere di Opera, che ha spiegato a Il Dubbio come in realtà teoricamente si potrebbe benissimo estendere l’utilizzo di Skype anche per i reclusi al regime differenziato. “Non vi è dubbio - spiega l’avvocato - che le esigenze sottese alla ratio di imposizione del 41bis possano essere effettivamente soddisfatte attraverso le garanzie di sicurezza e supervisione (controllo auditivo e visivo, registrazione ed intervento immediato del Personale di Polizia Penitenziaria incaricato del controllo in caso di contingenti necessità di prevenzione) assicurate dalla legge, dalla normativa secondaria e limitatamente all’impiego della piattaforma Skype for business”. L’avvocato Rogliani sottolinea che l’operatività dell’utilizzo delle tecnologie non è incompatibile con i meccanismi di controllo prescritti dalla circolare del 2017 in merito all’uniformità delle regole del 41bis, specificamente in relazione ai colloqui visivi. “Di conseguenza - prosegue l’avvocato - nessun concreto ostacolo si individua nell’equiparare i colloqui visivi medesimi ai video collegamenti tra il detenuto ed i familiari anche nel caso di ristretti sottoposti al 41bis”. In un momento emergenziale come questo, forse l’utilizzo di Skype - attualmente esteso anche per chi è in alta sorveglianza e quindi per chi è macchiato di reati legati alla mafia - potrebbe benissimo essere usufruito dai reclusi al 41 bis. D’altronde, recentemente, già ci sono state alcune autorizzazioni. Basti pensare il caso della possibilità di collegarsi via Skype tra detenuti (marito e moglie) reclusi entrambi al 41 bis e in carceri differenti. Coronavirus, al via nelle sartorie delle carceri l’autoproduzione di mascherine di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 marzo 2020 Intanto penalisti e Comitato anti-tortura dell’Unione europea chiedono il rispetto dei diritti umani nel momento dell’emergenza sanitaria. Nel giorno in cui si teme che si possano riaccendere le rivolte nelle carceri, per la proroga dello stop ai colloqui con i familiari, il ministero della Giustizia annuncia l’avvio dell’autoproduzione di mascherine all’interno degli istituti penitenziari. L’autoproduzione - Via Arenula, nell’informare dell’invio di altre 20 mila mascherine destinate al personale penitenziario, comunica il via libera al confezionamento nelle carceri in cui c’è un laboratorio di sartoria, riconvertito per creare questi dispositivi in tessuto non tessuto, come previsto dall’ultimo decreto legge. Solo per il periodo di emergenza sanitaria, nelle prigioni si faranno mascherine, in un numero che il Dap stima attorno alle 10 mila al giorno, inviando prima un’autocertificazione all’istituto superiore di sanità. Individuate le strutture subito operative in quasi tutte le regioni d’Italia, dal Piemonte alla Sicilia. L’allarme dei penalisti - Negli istituti di detenzione resta comunque alta la tensione a causa della proroga delle restrizioni imposte sui contatti per i parenti per limitare il rischio contagio, ma anche per l’assenza di risposte da parte del Governo sui problemi relativi all’emergenza coronavirus. A puntare il dito sul silenzio dell’Esecutivo la Giunta dell’Unione camere penali, che sottolinea l’interesse per tutti “dagli idraulici ai servizi veterinari”, mentre Conte e Bonafede dimenticano le persone private della libertà che in carcere lavorano. La Giunta, visto il sovraffollamento, torna a chiedere quale sarà il numero dei detenuti che, nei prossimi giorni, potrà godere di misure alternative, compresi i domiciliari con il braccialetto elettronico. Il Comitato anti-tortura dell’Unione europea - Una luce sui detenuti la accende anche il Comitato anti-tortura dell’Unione europea che chiede di rispettare la dignità umana nell’adottare le misure restrittive anti Covid-19. Azioni che devono essere necessarie, proporzionate e limitate nel tempo. Il virus può rivoluzionare le carceri Il Foglio, 24 marzo 2020 Buone ragioni per seguire alla lettera i suggerimenti dei prof. di Diritto penale. Anche l’Associazione italiana dei professori di Diritto penale (Aipdp) richiama l’attenzione del governo sull’emergenza carceraria causata dal coronavirus. Per evitare che l’epidemia si diffonda nelle carceri sovraffollate, innescando una “bomba epidemiologica” tra i detenuti, il Consiglio direttivo dell’Aipdp, che riunisce oltre 150 docenti di diritto penale, ha proposto diverse misure di deflazione penitenziaria, aggiuntive a quelle già adottate dal governo e ritenute largamente “insufficienti”. I professori di Diritto penale propongono di innalzare a 24 mesi (dai 18 previsti dall’ultimo decreto) il limite di pena, anche residua, per la quale è possibile richiedere la detenzione domiciliare, e di rendere facoltativo (e non più obbligatorio) il controllo mediante dispositivi elettronici per chi deve espiare una pena superiore a sei mesi, “data la ben nota scarsa disponibilità di braccialetti elettronici”, che “rischia di limitare eccessivamente l’applicabilità della misura” e che “si espone a censure di illegittimità costituzionale per violazione del principio di eguaglianza-ragionevolezza (art. 3 Cost.)”. L’Aipdp propone inoltre: il differimento fino al 30 giugno dell’emissione dell’ordine di esecuzione delle condanne fino a quattro anni; la reintroduzione della liberazione anticipata speciale; la previsione fino al 30 giugno della possibilità per tutti i semiliberi e gli ammessi al lavoro all’esterno, che abbiano già dato prova di buona condotta, di permanere presso il proprio domicilio o altro luogo di assistenza; l’introduzione di una disciplina temporanea che imponga al giudice di tener conto, al momento della scelta della misura cautelare, anche dell’emergenza sanitaria legata al coronavirus; l’istituzione, presso ogni istituto di pena, di unità di crisi che coinvolgano rappresentanti di tutti gli operatori, compresi i volontari; l’adozione di misure straordinarie per l’adeguamento delle strutture sanitarie e l’assunzione urgente di personale medico, socio-sanitario e penitenziario, nonché per l’agevolazione della comunicazione a distanza tra detenuti e famigliari; provvedimenti mirati per i detenuti particolarmente vulnerabili al contagio. Coronavirus. Rischio ingolfamento penale per chi viola i divieti di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 24 marzo 2020 Sanzioni più pesanti, non passando necessariamente per il penale. Potrebbe essere questo uno degli elementi di (ulteriore) novità nel testo del provvedimento questo pomeriggio all’esame del Consiglio dei ministri. Il testo, quasi sicuramente un nuovo decreto legge, dovrebbe servire da una parte a fornire un punto di riferimento sistematico e uniforme a misure oggi frammentate fra Dpcm e ordinanze regionali e, dall’altro, dovrebbe mettere in campo un inasprimento delle sanzioni per chi trasgredisce alle norme anti-contagio. La strada sulla quale si sta riflettendo in queste ore non è tanto quella di stressare il sistema penale che comunque già dovrà fare fronte alle migliaia di contestazioni di infrazioni riscontrate in questi giorni, quanto di puntare su una misura di natura pecuniaria più pesante. In discussione c’è allora una multa che potrebbe arrivare sino a 2.000 euro. Nel mirino soprattutto le condotte di chi viene sorpreso in strada senza essere in grado di fornire una giustificazione fondata. Del resto la fragilità della sola risposta penale è uno dei numerosi aspetti problematici di questa fase di assoluta emergenza. A presidiare infatti l’effettività dei divieti di circolazione istituiti su scala nazionale e inaspriti su quella locale c’è stato sinora l’ormai proverbiale articolo 650 del Codice penale che colpisce l’inosservanza di un provvedimento delle pubbliche autorità emanato per ragioni, tra l’altro, di ordine pubblico o d’igiene. Un reato di natura contravvenzionale utilizzato adesso per colpire la mancata osservanza dei provvedimenti che impediscono gli spostamenti e che prevede l’arresto fino a 3 mesi o, in alternativa, un’ammenda di 206 euro. Con la particolarità, trattandosi di contravvenzione, di essere soggetto a oblazione. Ovvero, pagando la metà di quanto previsto, 103 euro quindi, il reato si estingue. Altrimenti il rischio è quello di vedersi infliggere un decreto penale di condanna che a tutti gli effetti costituirà un precedente a carico della persona sanzionata. La limitata portata deterrente della misura, accompagnata alla sua difficile gestione da parte degli uffici giudiziari già normalmente sotto pressione e ora alle prese anch’essi con disposizioni emergenziali, ha già portato le Procure ad aggiustamenti, per alcuni, a fughe in avanti, per altri. Ne è esempio la Procura del capoluogo della Regione più colpita dal Coronavirus, Milano, dove prima ci si è interrogati sulla possibile configurazione di una nuova fattispecie di reato per effetto delle disposizioni introdotte sulla scia dell’emergenza e poi si scelto di fare ricorso a una altra norma, sempre penale, ritenuta più dura, l’articolo 260 del Testo unico delle leggi sulla sanità. La norma colpisce chi non osserva un ordine, legalmente dato, per impedire l’invasione o la diffusione di una malattia infettiva. Si tratta di un reato che prevede la sanzione dell’arresto fino a 6 mesi e l’ammenda fino a 400 euro. Reato però non contravvenzionale e non soggetto quindi a oblazione, al pagamento cioè che lo cancella a tutti gli effetti. La condanna resterebbe cioè sempre evidente nella fedina penale del trasgressore. Una fattispecie che non risulta certo di larga applicazione in questi anni, tanto che si ricordano soprattutto sporadiche condanne inflitte ai tempi dell’epidemia di colera a Napoli nel 1973. In altre procure, come quelle siciliane di Agrigento e Catania, si è preferito accelerare il più possibile i decreti penali di condanna per violazione dell’articolo 650 procedendo alla riscossione dell’ammenda prevista, salvo procedere in maniera ancora più severa nel caso di concorso con altri reati come quello di falsa autocertificazione o di delitto colposo contro la salute pubblica. Dove però la falsa attestazione, per altre Procure, come quella di Genova, non sarebbe contestabile, visto che non riguarderebbe nel caso specifico l’identità, lo stato o altre qualità della persona fermata. Coronavirus. Fino a 12 anni di carcere per chi viola la quarantena di Giulia Mentasti e Stefano Loconte Italia Oggi, 24 marzo 2020 Cittadini a rischio processo per reato di epidemia: violare le prescrizioni per il contenimento del contagio da Covid-1 potrebbe trasformare il comune cittadino in un efferato criminale. Cittadini a rischio processo per reato di epidemia. Carcere fino 12 anni se diffondi il virus: violare le prescrizioni per il contenimento del contagio da Covid-1 potrebbe trasformare il comune cittadino in un efferato criminale. Dal non rispetto degli obblighi di quarantena al rilascio di dichiarazioni mendaci, il rischio che scattino denunce e che ci si trovi nei prossimi mesi ad affrontare procedimenti penali non è remoto anche per chi non ha mai visto un’aula di tribunale. Certo, le misure adottate dai provvedimenti delle ultime settimane, già inasprite dai Dpcm dell’8 e 9 marzo ma ancor più dall’ultimissimo del 22 marzo, hanno imposto un radicale cambiamento degli stili di vita: si è cominciato dall’obbligo di evitare assembramenti e la frequenza di luoghi affollati, al perentorio monito di non uscire di casa. E se le reazioni di paura all’inizio manifestate, quali gli assalti ai supermercati e ai treni, sono parsi comportamenti umanamente comprensibili, dinanzi ai dati che attestano una crescita esponenziale del contagio tale da imporre misure ancor più rigide va ricordato che tali condotte sono tuttavia giuridicamente sanzionabili, anche sul piano penale. I reati in caso di violazione degli obblighi previsti dal Dpcm. Innanzitutto, il mancato rispetto degli obblighi di cui al citato provvedimento ministeriale è assistito dalla sanzione prevista dall’art. 650 c.p., che, sotto la rubrica “Inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità”, punisce con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a euro 206 chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica o d’ordine pubblico o d’igiene. Ma questa meno grave pena vale solo “se il fatto non costituisce un più grave reato”: infatti, pur essendo autorizzati gli spostamenti “per comprovate esigenze lavorative, di assoluta urgenza o per motivi di salute” (mentre da ieri non è più consentito il rientro nel proprio comune di residenza o di domicilio), ci si è richiamati alla responsabilizzazione dei singoli cittadini, così che l’onere di dimostrare la sussistenza delle predette circostanze incombe sull’interessato, e può essere assolto producendo alle Forze dell’Ordine un’autodichiarazione ai sensi degli artt. 46 e 47 del Dpr 445/ 2000. Dunque, considerato che la veridicità delle autodichiarazioni potrà essere verificata ex post, attenzione a quello che si dice: chi dichiarerà il falso nell’autocertificazione, risponderà del reato di cui all’art. 483 c.p., che punisce con la reclusione fino a due anni la “Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico”, ovvero la condotta di chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità. Reato di epidemia? Ma non è tutto. A sottolinearlo è la direttiva ai prefetti per l’attuazione dei controlli nelle “aree a contenimento rafforzato” adottata dal Ministro dell’interno Lamorgese e che, al fine di fornire al pubblico un’informazione non solo corretta ma quanto più esaustiva possibile, ha sollecitato il personale operante “a rendere edotti gli interessati circa il fatto che le più gravi conseguenze sul piano penale di un comportamento, anche solo colposo, non conforme alle previsioni del Dpcm, possono portare a configurare ipotesi di reato, quali quelle di cui all’art. 452 c.p.”. Si tratta del reato che sotto la rubrica “Delitti colposi contro la salute pubblica”, punisce “chiunque” commette, per colpa, per quanto qui rileva, il reato di cui all’art. 438, c.p., ossia il reato di Epidemia mediante la diffusione di germi patogeni. La pena, asprissima, la seguente: la reclusione da uno a cinque anni per il solo fatto di aver colposamente diffuso l’epidemia; ma se dal fatto deriva la morte di più persone, il carcere sale da un minimo di tre fino a un massimo di dodici anni. I pm ripescano il regio decreto del 1934 contro gli “untori” di Giovanni M. Jacaobazzi Il Dubbio, 24 marzo 2020 Linea “dura” della Procura di Milano per chi, imperterrito, continua ad uscire senza giustificato motivo dalla propria abitazione, contravvenendo così al divieto previsto nel decreto sull’emergenza Covid-19 dello scorso 8 marzo. Per sanzionare adeguatamente gli irriducibili della passeggiata, la Procura del capoluogo lombardo ha deciso di “archiviare” l’originale sanzione prevista dall’articolo 650 del codice penale e rispolverare il Testo unico delle leggi sanitarie del 1934. Ad affermalo è stato questo fine settimana direttamente il procuratore di Milano Francesco Greco. Da ora in avanti, ai passeggiatori “abusivi” verrà dunque contestata la violazione dell’articolo 260 delle norme sanitarie che punisce “chiunque non osserva un ordine legalmente dato per impedire l’invasione o la diffusione di una malattia infettiva dell’uomo”. La sanzione prevista è quella “dell’arresto fino a sei mesi e l’ammenda da lire duecento a quattromila”. La violazione dell’art. 650 del codice penale, “inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità”, prevedeva invece l’arresto fino a tre mesi o l’ammenda fino a duecento sei euro. La differenza sostanziale, e su questo aspetto punta tutto la Procura per l’aspetto “deterrente”, riguarda le successive conseguenze sulla fedina penale del passeggiatore illegale. A differenza dell’articolo 650 codice penale, l’articolo 260 delle norme sanitarie non prevede l’oblazione, cioè la possibilità che, al termine del procedimento, il denunciato pagando una somma ottenga l’estinzione del reato. In assenza di questa “scappatoia” legale, l’effetto per l’irriducibile passeggiatore sarà quello di vedersi macchiata la propria fedina penale. Con tutte le conseguenze del caso in caso voglia poi ottenere una licenza, partecipare ad un concorso, ecc. La scorsa settimana in un articolo apparso sul quotidiano francese “Le Figaro” le pene previste dall’Italia per chi fosse stato sorpreso a violare le disposizioni sull’emergenza Covid-19 erano state definite “azzez burlesques”. Si era quindi aperto un confronto fra le Procure su quale reato fosse più opportuno contestare. Alcuni uffici giudiziari si erano anche spinti ad ipotizzare quello di epidemia, previsto dall’articolo 438 del codice penale e punito con l’ergastolo. Altri, invece, quello di lesioni, sulla falsa riga di quanto avviene per le persone che, consapevoli di essere affette dall’Hiv, hanno comunque rapporti non protetti con il partner. Tornado a Milano, nella giornata di sabato erano state controllate 12.056 tra persone ed attività commerciali. 431 i denunciati. Legittimo impedimento anche nel procedimento camerale di sorveglianza di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 marzo 2020 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 23 marzo 2020 n. 10565. La norma sul legittimo impedimento del difensore, che fa scattare il diritto al rinvio dei termini, si applica anche nel procedimento camerale, compreso dunque quello di sorveglianza. E vale anche nel caso in cui il difensore non possa essere presente per un concomitante impegno professionale. La Corte di cassazione, con la sentenza 10565, accoglie il ricorso contro l’ordinanza con la quale il tribunale del riesame aveva respinto la richiesta per misure alternative alla detenzione. Per il ricorrente la decisione era nulla perché adottata nel corso di un’udienza che si era celebrata malgrado il difensore avesse chiesto lo slittamento perché impegnato in un coincidente processo per criminalità organizzata nel quale erano alla sbarra 44 imputati. Il Pg aveva chiesto di respingere il ricorso, sostenendo che l’articolo 420-ter, comma 5 del Codice di rito penale, che riconosce alla parte il diritto ad ottenere il rinvio, non si applica ai procedimenti, diversi dall’udienza preliminare, che si svolgono con il rito camerale. La Suprema corte nega che sia così e annulla con rinvio. I giudici di legittimità valorizzano il diritto di difesa, che non può dirsi pienamente garantito con la presenza in udienza di un sostituto, il quale non ha diritto ad un termine per preparare la difesa. Per questo l’obbligo di provvedere alla nomina di un sostituto del difensore assente assicura solo l’assistenza tecnica nell’udienza. I giudici chiariscono quindi che difensore della parte e sostituto non sono equiparabili: né questa era la ratio del legislatore nel prevedere l’obbligo di nomina del sostituto. La Cassazione ricorda che le stesse Sezioni unite con la sentenza Caramia avevano dato il via libera ai nuovi termini anche nel caso, come quello allora esaminato, di assenza del difensore per lo sciopero degli arerei. Lo stesso non può non valere quando un altro impegno professionale si sovrapponga. Mae, il Gip non ha poteri sulla misura cautelare di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 24 marzo 2020 Corte di cassazione - Sentenza 23 marzo 2020 n. 10473. A seguito di richiesta di mandato di arresto europeo, il giudice per le indagini preliminari non ha il potere di mutare la misura cautelare in corso. Lo ha stabilito la Cassazione, sentenza n. 10473 di oggi, segnalata per il “Massimario”. Inammissibile dunque il ricorso di un uomo agli arresti domiciliari per reati collegati alla droga contro l’ordinanza del Tribunale del riesame che, accogliendo il ricorso del Pm, aveva annullato la più favorevole misura dell’obbligo di dimora disposta dal Gip del tribunale di Brindisi in sede di rigetto del Mae. La Terza Sezione penale ricorda che il mandato d’arresto europeo “è una decisione giudiziaria emessa da uno Stato membro dell’Unione europea, in vista dell’arresto e della consegna da parte di un altro Stato membro, di una persona, al fine dell’esercizio di azioni giudiziarie in materia penale o dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale”. E che, ai sensi dell’articolo 29, comma 1, della legge 69/2005, “l’autorità giudiziaria competente emette il mandato d’arresto europeo quando risulta che l’imputato o il condannato è residente, domiciliato o dimorante ne territorio di uno Stato membro dell’Unione europea”. Dunque, prosegue la sentenza, “all’atto della richiesta di emissione del mandato d’arresto europeo il giudice per le indagini preliminari è tenuto solo a verificare l’esistenza di tale presupposto”. Gli articolo 28 e seguenti della legge 69/2005, del resto, “non prevedono il potere del giudice adito per remissione del mandato di arresto europeo di procedere di ufficio alla revoca o alla sostituzione della misura cautelare genetica”. Il Tribunale del riesame, conclude la decisione, “ha pertanto correttamente applicato l’art. 299 cpp ritenendo che il giudice per le indagini preliminari non avesse il potere di ufficio di sostituire la misura cautelare in atto a seguito della richiesta di emissione del mandato d’ arresto europeo”. Bergamo. Addio a don Resmini, prete dalla parte degli ultimi di Luca Bonzanni Avvenire, 24 marzo 2020 Impegnato da sempre con carcerati, giovani fragili e donne vittime di tratta. Carcerati, giovani fragili, donne vittime della tratta. Per loro don Fausto Resmini c’era sempre: col calore della parola, con la concretezza dell’aiuto. Il “prete degli ultimi” di Bergamo s’è nella notte tra domenica e lunedì, a 67 anni, all’ospedale di Como dove era ricoverato in terapia intensiva, aggredito dal coronavirus. Originario di Lurano nella Bassa bergamasca, si era formato al Patronato San Vincenzo di Bergamo, storica testimonianza dell’impegno diocesano per il sociale, accanto a don Bepo Vavassori. Passo dopo passo è diventato l’anima di mille iniziative, sempre in sostegno delle tante persone lasciate indietro dalla società. Dal 1992 era cappellano del carcere di Bergamo; a Sorisole, hinterland del capoluogo orobico, ha fondato la Comunità don Milani, dedicata al recupero di minori “difficili”. Col servizio Esodo - un camper con pasti caldi - del Patronato San Vincenzo ha solcato per anni le notti di Bergamo per prestare sostegno a chi si trovava nelle condizioni più disperate. “Don Fausto è tornato alla casa del Padre - queste le parole con cui la Comunità don Milano ha annunciato il lutto -. Ha combattuto fino alla fine contro questo virus così tremendo. Se ne è andato nel silenzio e nella solitudine della notte, proprio come molti uomini vissuti in strada di cui lui si è preso cura nel suo ministero. Ora preghiamo Dio perché lo accolga nel suo Regno. Sarà accolto dai santi, da don Bepo e dagli ultimi della terra che lui ha amato e servito, li potrà trovare pace e gioia eterna”. Bergamo. Detenuti e poliziotti penitenziari ricordano don Resmini di Gianni Parlatore gnewsonline.it, 24 marzo 2020 “Il sabato sera andavo con lui alla stazione per dare un pasto caldo ai senza tetto. Cercavo di aiutare altre persone in difficoltà così come lui aveva aiutato me. Quando è arrivata la brutta notizia questa mattina non riuscivo a credere che fosse vero. Sapevo del suo ricovero e ho pregato tanto per lui così come lui aveva fatto tante volte per me. Fatico ancora a credere all’idea di non incontrarlo più qui in sezione, nei corridoi, ma spero di aver appreso da lui il fatto di apprezzare le cose semplici, le piccole cose della vita”. È la testimonianza di uno dei tanti detenuti del carcere di Bergamo che oggi hanno voluto ricordare la figura di don Fausto Resmini, storico cappellano della struttura di reclusione lombarda. L’uomo si è spento stamane all’età di 67 anni dopo che era stato ricoverato all’ospedale di Como a causa delle complicanze causate dal Coronavirus. Non un semplice cappellano, ma una vera guida spirituale e morale, un riferimento costante per i detenuti. “Mi spiace oggi di non aver mai avuto la possibilità di ringraziarti - ha scandito un altro detenuto a Bergamo - per tutto quello che hai fatto per me e anche per tanti altri come i ragazzi della tua comunità. Pensavo che ci sarebbe sempre stato il tempo per farlo. Questo è l’errore che facciamo sempre: pensiamo di avere sempre tempo. Invece a un certo punto non ce n’è più. E con te è accaduto davvero troppo in fretta”. Don Resmini, per più di 30 anni cappellano del carcere della città, si trovava in quarantena dal 5 marzo, dopo essere risultato positivo al Covid-19. Le sue condizioni si erano aggravate e si era reso necessario il ricovero all’ospedale Gavazzeni di Bergamo. Dopo qualche giorno di ricovero il suo fisico sembrava essersi ripreso ma, invece, successivamente si è aggravato nuovamente tanto da essere trasferito nel reparto di terapia intensiva del nosocomio Sant’Anna di Como. Un saluto carico di emozione e riconoscenza è arrivato anche dagli agenti del Corpo della Polizia Penitenziaria in servizio nell’istituto di pena di Bergamo: “Caro Don Fausto, per gli anni che hai dedicato a questo istituto penitenziario, per noi sei sempre stato un punto di riferimento: nel quotidiano, nell’emergenza, nei momenti di lutto e di buio, nei momenti di festa e di gioia. Con queste poche righe vogliamo salutarti stringendoti nei nostri cuori, con la consapevolezza che da lassù saprai guidare i nostri passi e continuerai a pregare per noi e le nostre famiglie”. Bergamo perde così un parroco da sempre vicino ai più deboli e bisognosi. “Oggi è più difficile andare avanti ma lotteremo anche per lui”, ha dichiarato Teresa Mazzotta, direttrice dell’istituto penitenziario bergamasco. Milano. A San Vittore isolato secondo detenuto positivo al coronavirus agenpress.it, 24 marzo 2020 Rientrava in carcere dopo essere stato ricoverato dal 2 marzo scorso in una struttura ospedaliera cittadina: al momento dell’ingresso, come previsto dai protocolli sanitari del Ministero della Salute e dalle circolari del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, è stato subito messo in isolamento precauzionale. Sottoposto a tampone, due giorni fa è risultato positivo. È avvenuto al carcere di San Vittore, a Milano. Si tratta del diciassettesimo caso di positività al Covid-19 riscontrato fra i detenuti sull’intero territorio nazionale nell’ultimo mese, da quando, il 22 febbraio scorso, il Dap ha varato i primi provvedimenti per fronteggiare il rischio contagio. Di questi, poco meno di un terzo sono ricoverati in strutture ospedaliere, mentre la rimanente parte, quasi tutti asintomatici, si trova in isolamento all’interno di apposite camere di pernottamento, singole e dotate di bagno autonomo, poste in sezioni separate dal resto della popolazione detenuta. In alcuni casi, come ad esempio i due che si registrano a San Vittore, si tratta di detenuti che hanno contratto il virus all’esterno degli istituti penitenziari, mentre si trovavano ricoverati, per altri motivi, presso strutture sanitarie. Milano. Coronavirus, “Comune Milano trovi alberghi anche per detenuti” askanews.it, 24 marzo 2020 L’appello della Presidente del Tribunale di Sorveglianza Di Rosa. Il Comune di Milano individui degli alberghi da mettere a disposizione di quei detenuti che possono beneficiare della detenzione domiciliare ma che non dispongono di un domicilio dove poter scontare la pena alternativa al carcere. È l’appello lanciato dalla presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, Giovanna Di Rosa, durante la sua audizione davanti ai componenti della commissione carceri di Palazzo Marino. Le sommosse dei detenuti scoppiate a Milano e in altre città italiane nelle scorse settimane hanno portato alla ribalta il “vecchio problema” del sovraffollamento delle carceri. “Come Tribunale di Sorveglianza - ha spiegato il magistrato - stiamo cercando di gestirlo disponendo misure alternative nel modo più rapido e tempestivo possibile”, ad esempio concedendo la detenzione domiciliare a tutti i condannati a pene inferiore ai 18 mesi di carcere. Ma lo scoglio maggiore è rappresentato da quei detenuti che non dispongono di un proprio domicilio: “Il problema - ha argomentato Giovanna di Rosa - è che l’applicazione delle misure alternative presuppone un domicilio. Cominciamo a tirare fuori un domicilio per chi non ce l’ha e non pensiamo ai braccialetti elettronici”. Da qui la richiesta della presidente del Tribunale di Sorveglianza ai vertici di Palazzo Marino “di riuscire a trovare soluzioni abitative per queste persone. Ci sono richieste di domiciliari di detenuti a cui mancano 3 mesi di fine pena ma che non possono essere accolte. La gente fa la quarantena negli alberghi, perché non mettere a disposizione hotel anche per detenuti”. Per il momento, ha precisato ancora il magistrato, è arrivata l’adesione da parte della Diocesi di Milano, “ma si tratta di poche disponibilità di posti”. Immediata la risposta della presidente della Commissione carceri di Palazzo Marino Anita Pirovano: “Mi faccio carico della richiesta e ne parlerò al più presto con l’assessore Gabriele Rabaiotti, sapendo che c’è un problema in più rispetto alle persone libere”. Milano. I carcerati di Bollate minacciano lo sciopero della fame Il Giornale, 24 marzo 2020 Duecento detenuti del carcere di Bollate ammessi al lavoro esterno potrebbero iniziare da oggi uno sciopero della fame, dopo il blocco dei permessi dovuti all’emergenza Coronavirus. Lo ha annunciato ieri Francesco Maisto, garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Milano, nel suo intervento in videoconferenza alla commissione consiliare Carceri dedicata alle rivolte e all’emergenza sanitaria. “Siamo in una situazione in cui è improbabile che ci siano altre rivolte - ha premesso - ma io temo forme di protesta autolesive. Ho avuto notizia che 200 detenuti a Bollate sono in una situazione in cui potrebbero iniziare uno sciopero della fame, detenuti che sono ammessi al lavoro esterno ex articolo 21 e che fino a prima dell’epidemia ogni giorno andavano a lavorare. Da loro mi e un arrivato un appello: se i magistrati di sorveglianza emettessero in tempo i provvedimenti, potrebbero uscire a svolgere delle attività oppure lavorare da remoto nelle proprie case”. E durante la commissione il presidente dell’Ordine degli avvocati Vinicio Nardo ha sollevato polemicamente un’altra questione: “Come è possibile - ha domandato - che si facciano pagare le telefonate ai detenuti in questo momento? So quanto sia difficile muovere un sasso nell’amministrazione penitenziaria, ma è stato fatto un provvedimento da 20 milioni di euro per le carceri devastate dalle rivolte e non si possono stanziare 100mila euro per pagare le telefonate? E come mai non si riesce a mettere a disposizione mezzo albergo anche per le persone che sono già fuori dal carcere? Chi ha un impegno e un ruolo politico intervenga. Il direttore del carcere di San Vittore Giacinto Siciliano ha riferito che dopo le rivolte del 9 marzo ci sono stati un centinaio di trasferimenti in altri istituti e nessun ingresso in custodia cautelare mentre sono in arrivo 28 smartphone e 10 postazioni Skype sono già attive per le comunicazioni dei detenuti con l’esterno. E a San Vittore proprio ieri è stato isolato un detenuto positivo al Covid-19. Udine. In carcere le videochiamate sostituiscono i colloqui di Elena Viotto Il Gazzettino, 24 marzo 2020 Al 4 marzo in Via Spalato c’erano 155 detenuti e a Tolmezzo altri 224 ma i numeri sono variabili. È tranquilla e sotto controllo la situazione nelle carceri di Udine e Tolmezzo, immuni, allo stato, da casi di coronavirus. Le visite dei detenuti con i propri familiari sono sospese, come del resto nei penitenziari di tutta la Penisola. Ma per compensare lo stop temporaneo dei colloqui con le famiglie, deciso nelle misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 emanate nelle scorse settimane dal Governo, i due istituti carcerari si sono già attrezzati aumentando il numero di telefonate a disposizione di ogni singolo detenuto. Questione di giorni e in entrambe le carceri friulane dovrebbero diventare operative anche le videochiamate per consentire i colloqui a distanza con i familiari. “Le postazioni sono già state allestite. Ci stiamo attrezzando per le videochiamate. Dovrebbero essere attive in settimana”, spiega la dirigente del carcere di massima sicurezza di Tolmezzo, la dottoressa Irene Iannucci. Analoga la situazione anche a Udine. “Abbiamo ricevuto l’attrezzatura per le videochiamate. Siamo in attesa per le loro attivazioni”, aggiunge la direttrice reggente della casa circondariale di via Spalato a Udine, la dottoressa Tiziana Paolini, che al pari della collega di Tolmezzo ha già aumentato, come previsto dal decreto, il numero di telefonate a favore dei detenuti. Era stata proprio la stretta alle visite con i familiari una delle ragioni che, nelle scorse settimane, unita ai timori di contagi, avevano innescato la scintilla delle proteste tra i detenuti delle carceri italiane. Proteste che avevano lambito anche il carcere di Udine dove, la sera del 9 marzo, si erano sentiti alcuni detenuti urlare e sbattere violentemente con alcuni oggetti lungo le grate delle celle. La situazione era ben presto tornata alla normalità e all’ordine. A Tolmezzo non si è invece registrata finora nessuna protesta, neanche in forma blanda. L’attenzione nelle due case circondariali è massima anche per scongiurare il rischio che il virus varchi la soglia dei penitenziari. Per questo motivo entrambe le strutture sono state dotate di una tensostruttura fornita dalla protezione civile, per allestire un’area di pre-triage prima dell’ingresso, in cui il personale sanitario verifica le condizioni di salute dei nuovi detenuti che fanno ingresso in carcere. Controlli sono previsti allo stesso modo per le poche persone esterne ancora autorizzate a entrare nelle strutture carcerarie. È così nella casa circondariale di via Spalato dove, stando ai dati pubblicati sulla pagina relativa al penitenziario sul sito del ministero della Giustizia, aggiornati al 4 marzo, si contano 155 detenuti. Nella struttura anche in questi giorni di emergenza coronavirus non sono mancati ingressi di nuovi detenuti, ad esempio per gli arresti in flagranza eseguiti dalle forze dell’ordine. È stata allestita anche un’apposita sala dove, in accordo con i magistrati, è possibile celebrare le udienze di convalida degli arresti in videoconferenza. Stesso discorso vale anche nel carcere di massima sicurezza di Tolmezzo dove, sebbene in virtù della natura del penitenziario ci sia un minor ingresso di nuovi detenuti dall’esterno, si contano 224 detenuti (dati sempre riferiti al 4 marzo e pubblicati sul sito della Giustizia). Controlli, seppur non sistematici, sono stati previsti inoltre in favore del personale che presta il proprio servizio all’interno dei due carceri friulani. Personale dell’azienda sanitaria ha così eseguito delle visite in favore di alcune unità di personale in servizio a Tolmezzo e in arrivo da fuori regione e si è reso disponibile a effettuare i controlli sanitari anche al personale di Udine che lo chieda volontariamente. In entrambi i penitenziari sono arrivate pure le forniture di mascherine e presidi di protezione individuale utilizzati attenendosi alle disposizioni dei sanitari. Palermo. Pagliarelli, mascherine per il personale e igienizzante per le mani per i detenuti di Antonia Macaluso* palermotoday.it, 24 marzo 2020 Appello ai governatori inviata via PEC: in un momento così drammatico di un’emergenza epocale, che cambierà per sempre le nostre vite non posso non pensare ai nostri utenti detenuti (attualmente1380) e a tutti gli operatori (circa 1.200) del Pagliarelli-Lorusso. La nostra Associazione “Un Nuovo Giorno” fin dalla sua costituzione, assiste e si occupa di favorire l’inserimento socio-lavorativo delle persone fragili, vulnerabili ed emarginate, ad alto rischio di discriminazione e di esclusione sociale. In particolare l’associazione si occupa: dei detenuti reclusi al carcere Pagliarelli e delle loro famiglie, prestando assistenza carceraria e post carceraria con dei programmi di trattamento in un’ottica di riduzione del rischio di reiterazione del reato e di reinserimento socio/lavorativo attraverso le attività laboratoriali, stage presso aziende partner, sartoria teatrale, teatro, musica, etc., con un’équipe di soci volontari oggi continua costantemente la sua opera fuori e dentro il sistema penitenziario. Il Governo ha emanato diversi provvedimenti nati dall’urgenza coronavirus, e le carceri? Tali provvedimenti non tengono conto, o per meglio dire, sono soluzioni inadeguate, poiché se scoppia un’epidemia, in carcere non sarà possibile gestire gli eventuali contagi: la diminuzione dei detenuti consentirebbe di poter gestire meglio una contaminazione. Oggi più che mai, rivolgo una richiesta dettata dal cuore di chi opera tutti i giorni nel mondo carcerario, per lo meno attivatevi per la C.C. Pagliarelli-Lorusso (il 2° carcere per complessità gestionale) con: mascherine per il personale (agenti, assistenti, educatori etc. attualmente 1200 circa); igienizzante per le mani per i detenuti; farVi portavoce con il governo per permettere di scontare la rimanente pena in detenzione domiciliare speciale e che sia concessa a chi ha un residuo di pena fino ad almeno due anni, e soprattutto senza tutte le altre limitazioni, in particolare relative all’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario. fare il tampone a tutti i detenuti e a tutto il personale nel caso di contagio anche di un solo caso. *Presidente Associazione “Un Nuovo Giorno” La biechezza che cova dietro gli arresti domiciliari di Mariangela Mianiti Il Manifesto, 24 marzo 2020 “Ma non l’hai capito che bisogna restare a casa? Stai a caaasa, cretino”, e giù a filmare, fotografare e segnalare ai carabinieri il presunto disobbediente. Come in ogni sottrazione delle libertà, anche questi arresti domiciliari collettivi stanno producendo effetti non benefici, ma svelanti. Prima fase: si è ottimisti e si vede il lato positivo delle cose dicendosi “Resisterò, andrà tutto bene, ne usciremo”. Seconda fase: si avvertono le prime mancanze. Terza fase: si va in depressione. Quarta fase: si sbrocca. Se l’attuale stato di cose che prevede si possa uscire di casa solo per lavorare, andare in farmacia, fare la spesa mettendo in conto ore di fila, o fare il giro dell’isolato dovesse protrarsi a lungo, fra non molto si arriverà alla guerra civile, con la differenza che, invece di battersi per le strade per cambiare il mondo, si darà battaglia da un balcone all’altro per smania di controllo del vicino, altro che “Vogliamoci tutti bene”. I primi segnali di violenza serpeggiante li hanno già sperimentati quei malcapitati che, tornando a casa dopo un turno massacrante all’ospedale o da un lavoro considerato essenziale, si sono sentiti urlare dalle finestre: “Ma non l’hai capito che bisogna restare a casa? Stai a caaasa, cretino”, e giù a filmare, fotografare e segnalare ai carabinieri il presunto disobbediente. Così come succede con il vino, questa costrizione sta tirando fuori il vero carattere delle persone, e non sempre è il migliore: biechezza anziché empatia, animus fascistoide piuttosto che spirito collaborativo, tendenza al rancore contro capacità di essere umani, godimento a farsi delatori invece che trasparenti. Mia nonna, che in famiglia chiamiamo Highlander perché sta per compiere 106 anni e sta bene anche se negli ultimi tre non è più tanto lucida, al tempo in cui gestiva la sua osteria emarginava gli ubriachi cattivi rifiutandosi di servir loro da bere. Era una riduzione del danno che non risolveva il problema alla radice, però lo teneva a bada. Al prossimo che per sfogare le proprie frustrazioni vi grida addosso “Stai a casa cretino”, invece di giustificarvi rispondetegli: “Ti mando su mia nonna e poi te la vedi con lei”. Ve la do in prestito virtualmente, tanto quello mica può saper se l’ava Highlander è davvero vostra o no. Per la cronaca, la nonna si chiama Angiolina. I militari per strada: il vero rischio è che poi ci restino di Lucia Capuzzi Avvenire, 24 marzo 2020 A preoccupare è l’impiego disinvolto della narrativa bellica da parte dei governi per descrivere l’attuale emergenza. “Siamo in guerra contro un nemico invisibile”. Istèresi. I fisici chiamano così il fenomeno per cui un corpo, sottoposto a una pressione, mantiene una deformazione anche quando la tensione si allenta o termina. Per analogia, numerosi analisti hanno prospettato il rischio di una “isteresi sociale e politica” alla fine della pandemia di coronavirus. A preoccupare è l’impiego disinvolto della narrativa bellica da parte dei governi per descrivere l’attuale emergenza. “Siamo in guerra contro un nemico invisibile”, hanno detto due leader di temperamento e visione opposti come Donald Trump e Emmanuel Macron. La questione non è meramente linguistica. Di fronte all’estendersi rapido dei contagi, i vari esecutivi del mondo stanno adottando misure proprie di una situazione di conflitto, dalla chiusura allo schieramento dell’esercito. Il coronavirus, oltretutto, arriva in un momento di infatuazione collettiva verso l’autoritarismo populista, considerato più efficiente nella risoluzione dei problemi. In questo senso, l’epidemia finirebbe con il diventare un ulteriore fattore di crisi della democrazia. Certo, impatto e conseguente istèresi variano enormemente da contesto a contesto. In Paesi dalla solida tradizione democratica, i provvedimenti eccezionali sono previsti dalle Costituzioni in caso di situazioni gravi come quella attuale. Gli anticorpi sociali e politici dovrebbero, dunque, essere in grado di superare senza troppi traumi la parentesi. “Nessuno discute sulla forza maggiore. Il punto è che quando un governo sviluppa nuove forme di controllo sociale, non gli è sempre facile tornare indietro”, afferma Scott Radnitz, politologo della Washington University. Il Covid-19 rappresenta, dunque, uno snodo anche in termini di riflessione, una sorta di nuovo 11 settembre. L’ultima dimostrazione è arrivata da Israele, dove l’opposizione è insorta contro la decisione del premier, Benjamin Netanyahu, di tracciare i cellulari per verificare violazioni alla quarantena. Una commissione parlamentare di pronuncerà entro martedì al riguardo e, in caso, la Corte suprema bloccherà la misura. Il problema maggiore restano, comunque, quegli esecutivi che già prima tendevano a stiracchiare a proprio piacimento istituzioni e garanzie individuali. “Il coronavirus è un’ottima scusa per i leader autoritari ansiosi di comprimere le libertà dei cittadini”, afferma efficacemente Barzou Daraghi, analista anglo- iraniano di The Independent. Dalla Manila isolata da domenica e presidiata dall’esercito, arrivano dunque denunce di abusi dei militari, già responsabili di 27mila uccisioni nel corso della “guerra alla droga” dichiarata dal presidente-sceriffo Rodrigo Duterte. Lo stesso accade nell’Iran degli ayatollah. In America Latina, dati i trascorsi, i cittadini osservano con preoccupazione il dispiegamento delle forze armate, dal Perù a El Salvador. Nella Bolivia del dopo-Morales, in particolare, coprifuoco e militari rischiano di far il precario equilibrio raggiunto tra sostenitori e oppositori dell’ex leader. La situazione potrebbe surriscaldarsi ulteriormente se, come è probabile, il governo rinvierà le elezioni a causa dell’epidemia. Una istèresi dagli effetti imprevedibili. Gli sciacalli informatici al tempo del coronavirus di Paola Severino Corriere della Sera, 24 marzo 2020 Proprio oggi che tutti abbiamo scoperto quanto insostituibile sia internet, rileviamo anche quanto la Rete sia pericolosamente fragile e penetrabile da malintenzionati. Da qualche giorno molti di coloro che utilizzano canali informatici ricevono avvisi molto preoccupanti, anche da parte della Polizia Postale, in cui si segnala la presenza di alcuni malware diffusi via e-mail attraverso campagne massive di spam. Naturalmente, in un periodo in cui la nostra vita è condizionata dal dilagare dell’epidemia, la prima domanda che sorge spontanea è: chi in un momento così tragico può pensare di sabotare un mezzo di comunicazione rivelatosi oggi indispensabile per aiutarci ad affrontare l’emergenza coronavirus? Un mezzo che ci consente di non far perdere l’anno scolastico agli studenti, di organizzare lezioni universitarie e sedute di laurea da remoto, di tenerci in contatto costante con parenti e amici più o meno lontani, di tenere consigli di amministrazione, di organizzare il lavoro giudiziario e quello produttivo. Un mezzo che consente alle Autorità e alle Istituzioni di trasmettere messaggi, indicazioni di medicina preventiva, statistiche, Decreti che richiedono una immediata attuazione, prescrizioni di regole e comportamenti. Certo, esistono anche altri mezzi di comunicazione efficacissimi e tempestivi, come la radio e la televisione, ma chi di noi non ha selezionato le comunicazioni in rete che più gli interessavano per conservarle, studiarle, analizzarle, approfondirle? Proprio oggi che tutti, indistintamente, abbiamo scoperto quanto insostituibile sia questo sistema di comunicazione, ci siamo applicati per trarne le massime risorse e per accelerare al massimo processi di e-learning, di notifiche in via telematica, di riconoscimento di valore legale alle attività realizzate via internet, rileviamo quanto esso sia pericolosamente fragile e penetrabile da malintenzionati. Lo sciacallaggio è sempre stato un fenomeno legato a periodi di crisi e a momenti tragici della storia delle nazioni. Ma questo sciacallaggio informatico è particolarmente invasivo e preoccupante, perché non ha confini, non è delimitabile con l’isolamento, è molto difficile da combattere. In altri termini è un cyber-virus che si può diffondere in tutto il mondo, in tempi brevissimi, molto più aggressivo del coronavirus con il quale stiamo combattendo da settimane, impiegando tutta la scienza medica di cui siamo capaci. Ma torniamo alla domanda che abbiamo posto in apertura e ai suoi corollari: chi trae vantaggio da questa infestazione telematica? Abbiamo una scienza informatica sufficientemente sviluppata per combattere questa nuova peste che si affianca e moltiplica gli effetti di quella che sta mietendo tante vittime? Alla prima domanda è più facile rispondere: senza voler pensare a implicazioni fantascientifiche, di interferenze volte a fornire false informazioni al complesso apparato istituzionale che sta governando la crisi, la motivazione più probabile e più ovvia è quella di un interesse economico. A chiunque si occupi anche superficialmente di web, appare chiaro che la captazione di dati può rappresentare una forma di arricchimento illecito e veloce, facilmente monetizzabile con la rivendita degli stessi a chi li userà nel mercato. Una forma di corsa all’oro, che ci ricorda la trama di vecchi film western, in cui tutto era consentito pur di trovare un filone del prezioso metallo da sfruttare. Certo, il paragone diventa più inadeguato, quando si consideri che l’immaterialità del bene e la localizzazione delle piattaforme rendono molto difficile, se non impossibile, intervenire per individuare e punire i responsabili. Qualche giorno fa, ad esempio, era stato suggerito ad alcuni di noi di collegarsi a un sito che trasmetteva programmi radiofonici in diretta da tutto il mondo. Poco dopo, un alert ci avvertiva che la piattaforma aveva sede a Panama e che non era possibile risalire ai gestori effettivi. Questo esempio ci introduce alla seconda domanda: abbiamo una scienza informatica adeguata per combattere un fenomeno così invasivo? La risposta non è certamente semplice, anche considerando le dimensioni crescenti di esso. Gli ultimi dati disponibili sono contenuti in un report del 2019 che evidenzia un aumento di cyber-attacks del +77,8% nel quinquennio 2014-2018 e del 37,7% nel solo biennio 2017-2018, precisando poi che l’aumento più rilevante, sempre in tale biennio, ha riguardato il mondo sanitario ed è stato orientato prevalentemente al furto di dati personali. Se vogliamo suggerire una prima indicazione, destinata a quelli che non sono specificamente esperti della materia, e che rappresentano la maggior parte della popolazione, dovremmo sollecitarli a cercare di attivare al massimo mezzi di autotutela: ad esempio, eliminare subito e-mail spam o con indirizzi del tutto sconosciuti o simili a quelli ufficiali e, in ogni caso, non aprire l’allegato quando il contenuto della e-mail rafforzi o susciti sospetti sulla provenienza. Se vogliamo poi passare ai rimedi strutturali, riservati agli addetti ai lavori, dovremmo incentivare percorsi professionali destinati a costruire esperti della cyber-security che sappiano fare della multidisciplinarità il segreto del loro innovativo sapere. Le migliori Università si sono già attrezzate su questi percorsi, che includono insegnamenti integrati di matematica, ingegneria, diritto, economia, scienze sociali, ovviamente tutti caratterizzati dall’aggettivo “informatica”. Essi consentiranno di strutturare professionalità volte a prevenire, scoprire e sanzionare la crescente moltitudine di accessi informatici abusivi e di frodi informatiche. Per concludere: se è vero che, purtroppo, anche eventi drammatici come una pandemia possono fornire l’occasione per il diffondersi di comportamenti di sciacallaggio informatico, è altrettanto vero che essi rappresentano l’occasione per diffondere tra il maggior numero di persone la consapevolezza della gravità del fenomeno e per accrescere l’impegno a tenere il passo rispetto alla velocità e alle capacità tecniche della delinquenza informatica. “Hanno dimenticato il Terzo settore, ma non si riparte senza il sociale” di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 24 marzo 2020 Stefano Zamagni, economista e presidente della Pontificia Accademia delle scienze sociali: “Il governo ha sbagliato a non coinvolgere il non profit sin dall’inizio. Servono fondi nel prossimo decreto”. Scandisce bene le parole: “In questa crisi il Terzo settore avrebbe potuto e dovuto avere un ruolo di rilievo, invece non è stato minimamente coinvolto. Ed è stato un grave erro-re”. Stefano Zamagni, economista e teorico dell’economia civile, primo presidente dell’agenzia del Volontariato e riferimento di tutti questi mondi, dalla sua Bologna analizza la situazione. “Durante l’emergenza fino a qui non si è voluto fare uso del principio di sussidiarietà da tutti acclamato come necessario. Se c’era un’occasione in cui il coinvolgimento degli Enti di Terzo settore era doveroso era proprio questo perché è in questi momenti che i corpi della società civile esprimono la loro massima potenzia di fuoco, come mi piace definirla”. Come, ad esempio? “Penso, e ne ho già parlato, a realtà come Ant o come Vidas che seguono malati terminali, hanno una grandissima esperienza e personale altamente qualificato. Ant ha 500 tra medici e infermieri e loro stessi mi hanno detto che se li avessero chiamati si sarebbero messi a disposizione. Penso a tutta la rete di Ail, l’associazione per le leucemie e a tutto il volontariato ospedaliero. Fatte salve le misure di sicurezza, ma quanto sostegno avrebbero potuto dare a medici e infermieri già massacrati da turni e emergenza?”. Come si spiega questa “emarginazione” di tutto il comparto del Terzo settore? “La sensazione è che sia stato considerato ruota di scorta perché in fondo continua a essere visto e vissuto in posizione subordinata”. Che messaggi raccoglie da enti, cooperative e imprese sociali? “Anzitutto il rammarico per questa mancata chiamata in causa. E poi c’è una grande preoccupazione per il futuro. Pensi al problema delle donazioni: la stragrande maggioranza di queste realtà si regge sul fundraising, completamente fermo, e sulle donazioni che in questo momento si rivolgono ovviamente agli ospedali e alla Protezione civile. Come faranno con tutti i progetti già avviati e con il lavoro a sostegno di bambini, Neet, anziani, disabili, disoccupati, cooperazione internazionale?”. Proposte? “Spiace dire che anche in questo caso il Governo ha perso un’occasione. Nel decreto da 25 miliardi a sostegno di imprese e famiglie e partite Iva, tutte iniziative sacrosante, andava inserito anche il Terzo settore. Mi auguro che si faccia con il prossimo decreto perché questi non sono figli di un Dio minore e il Paese sta correndo un enorme rischio”. Quale? “Rischiamo di trovarci con un’Italia più povera dal punto di vista sociale e civile. E sarebbe davvero ironia della storia. Invece va affrontato fin da ora il tema di come si riparte: l’Italia è stata chiusa, ed è stato giusto farlo. Ma chiudere è più semplice che riaprire: allora chiediamoci da ora come si può garantire un tessuto sociale e come il Terzo settore può far fruttare in una fase così decisiva le proprie competenze, le reti, l’esperienza accumulata. In questo senso anche chi fa informazione, e quindi il Corriere con Buone Notizie, può avere un ruolo cruciale”. Professore, lei in questi giorni ha contatti con volontari e operatori sociali? “Di continuo. Molti sono delusi per il mancato coinvolgimento, tutti sono preoccupati per il futuro ma c’è una grande tensione al futuro, una grande energia che mi auguro non vada dispersa”. Ricorda altri momenti di crisi come questo? “Dal Dopoguerra il nostro Paese non ha mai attraversato una crisi così grave. Questa emergenza ha messo a nudo il fatto che le persone non soffrono solo per le malattie ma anche per la solitudine e l’incertezza. E per questo non si può chiedere l’intervento di ospedali e sanitari, che già stanno facendo miracoli. Per rispondere a questo enorme e diffuso senso di abbandono e di solitudine esistenziale sarà basilare attivare il Terzo settore che già ora si sta dando da fare sfruttando le potenzialità delle tecnologie e l’esperienza delle associazioni. Solo così supereremo insieme questa crisi socio-relazionale e potremo ripartire con un rinnovato tessuto sociale”. Polonia. Coronavirus, al vaglio il rilascio di 20.000 detenuti di Jasmine Ceremigna sicurezzainternazionale.luiss.it, 24 marzo 2020 La Polonia sta valutando di dare la possibilità a un massimo di 20.000 detenuti di scontare la pena nella propria dimora, a causa dell’emergenza da coronavirus nel Paese. È quanto rivelato, lunedì 23 marzo, da Reuters, il quale ha specificato che la proposta è giunta dal Ministero della Giustizia, il quale mira a contenere la diffusione del coronavirus, attualmente diagnosticato in 684 cittadini della Polonia. In totale, i detenuti nelle carceri del paese sono oltre 75.000, suddivisi in 172 carceri e centri di detenzione. Precedentemente, la possibilità di scontare la pena all’interno della propria dimora, sotto sorveglianza elettronica, era possibile per condanne di massimo un anno. Tuttavia, la proposta del Ministero della Giustizia prevede l’estensione anche alle sentenze con condanne fino a un massimo di 18 mesi. In caso di conversione in legge, la misura beneficerebbe circa 20.000 detenuti. Attualmente, in via preventiva, le carceri del Paese hanno già interrotto le visite e le attività lavorative all’aperto dei detenuti. In alcune strutture, inoltre, i carcerati stanno seguendo corsi di cucito, per produrre mascherine e tute protettive utili al contenimento del contagio, data la carenza di dispositivi protettivi nel Paese. Per trovare un rimedio alla scarsità di mascherine e dispositivi medico-sanitari, la Polonia ha annunciato, il 18 marzo, di essersi rivolta alla Cina, la quale si è detta disposta a inviare oltre 10.000 test diagnostici per il coronavirus e decine di centinaia di dotazioni, tra cui mascherine, occhiali protettivi e protezioni per le calzature. Nello specifico, da un comunicato ufficiale del Ministero degli Esteri della Polonia si apprende che la Cina invierà 20.000 mascherine, 5.000 tute protettive, 5.000 visiere, 10.000 guanti medici monouso e 10.000 protezioni per le calzature. Come la Polonia, anche la Bulgaria e la Serbia avevano chiesto aiuto a Pechino. Nello specifico, l’emergenza da coronavirus nel Paese balcanico è ancora contenuta, ma la Serbia si è sentita abbandonata dai leader dell’Unione Europea, di cui il Paese balcanico non è ancora membro, impegnati con Paesi più colpiti dal virus. Ciò ha lasciato spazio alla Cina per dimostrare la sua solidarietà nei confronti dei Paesi dell’Europa centrale e orientale, consentendo a Pechino di estendere il suo mezzo diplomatico correlato al coronavirus a una regione che negli ultimi anni è divenuta un campo da battaglia geopolitico per la definizione delle sfere di influenza di UE e Cina. Nello specifico, secondo il South China Morning Post, dopo aver raggiunto livelli controllabili di diffusione del virus all’interno del proprio territorio, la Cina sta ora attuando la sua strategia diplomatica correlata al coronavirus nell’Europa centrale e orientale. Nello specifico, tale strategia si articola in modo binario. Da un lato vi è la fornitura di strumenti e dotazioni mediche, al prezzo di mercato o in via gratuita, ai Paesi maggiormente colpiti, come l’Italia e la Spagna. all’altro lato, la Cina sta tenendo sessioni di condivisione di esperienze con Paesi meno sviluppati dell’Europa centrale e orientale, di cui 17 si sono uniti al formato “17+1”. In tale contesto, un funzionario europeo, che ha rilasciato dichiarazioni in condizioni di anonimato, ha commentato che la Cina non potrà ospitare il formato 17+1 per via dell’emergenza legata al coronavirus. Eppure, la diffusione del virus stesso è diventata una opportunità per la Cina, la quale può puntare a costruire relazioni più forti con gli stessi Paesi. Albania. Coronavirus, detenzione domiciliare per over 60 e per chi ha residuo pena di 3 anni albanianews.it, 24 marzo 2020 Il Consiglio dei Ministri ha approvato un nuovo decreto per fare fronte alla situazione dell’emergenza coronavirus anche nelle carceri albanesi. L’atto normativo prevede delle misure temporanee al fine di contrastare la diffusione delle infezioni dei coronavirus tra la popolazione carceraria, garantendo le condizioni per la difesa della vita e della salute dei condannati. “L’isolamento temporaneo in casa” è un permesso speciale che si dà al condannato a causa dell’epidemia da Covid-19. Il condannato potrà restare temporaneamente in casa sua, in un’altra abitazione o presso altre strutture abilitate per l’accoglienza. Questa misura è prevista solamente per coloro che adempiano ai criteri previsti nel decreto. “Malattia cronica che mette a rischio la vita” - I condannati che hanno malattie croniche che in concomitanza con Covid-19 possono mettere a rischio la vita del prigioniero possono ottenere questo permesso speciale. I condannati possono ottenere un permesso speciale di tre mesi se in questo momento soddisfano i seguenti requisiti: è stato condannato in via definitiva e gli rimangono da scontare solamente tre anni di prigione; deve scontare una condanna non superiore a 5 anni; ha un’età pari o superiore di 60 anni; soffre di una malattia cronica, certificata dalla commissione medica secondo la legislazione vigente. Il periodo in cui il condannato rimarrà in isolamento fuori dal carcere sarà calcolato come espiazione della pena. Non ne beneficiano le persone che sono state condannate per omicidio, crimini gravi, reati sessuali, rapimenti, crimini contro le autorità dello stato, e le persone che presentano alti rischi sociali o che mettono a rischio l’ordine pubblico e la sicurezza. Inoltre, anche i detenuti che non rientrano in queste categorie ma sono indagati per tali reati saranno esclusi da questi permessi. Sono esclusi anche coloro che hanno ricevuto misure disciplinari negli ultimi sei mesi. Regno Unito. Coronavirus, la marina militare pronta operare nelle carceri agenzianova.com, 24 marzo 2020 Sostituirà le guardie carcerarie nel caso fossero contagiate in massa. La marina militare del Regno Unito è pronta a correre in soccorso dell’amministrazione carceraria del paese se la situazione dell’epidemia di coronavirus dovesse farsi particolarmente difficile. Lo riferisce oggi il quotidiano “The Times”, pubblicando i piani elaborati dall’amministrazione carceraria britannica per fronteggiare l’emergenza coronavirus nelle prigioni del Regno Unito. In tale quadro, i marinai potrebbero essere chiamati a sostituire le guardie carcerarie se un’eventuale esplosione dei contagi dovesse provocare significativi vuoti nel loro ranghi. Nelle prigioni britanniche, ricorda il “Times”, sono attualmente rinchiuse 83.700 persone, 5.100 delle quali hanno oltre 60 anni e 1.800 superano i 70. L’amministrazione carceraria ha preparato piani dettagliati per far fronte alle necessità di tutti i detenuti in base ai diversi scenari che la pandemia potrebbe provocare. Stati Uniti. Coronavirus, fuori i detenuti che hanno commesso reati minori, anziani o malati ilpost.it, 24 marzo 2020 Sono persone che hanno commesso reati minori e non violenti, che sono anziane o già malate. Diversi stati americani hanno deciso il rilascio anticipato di alcune categorie di detenuti per contenere la diffusione del coronavirus (Sars-CoV-2). Sono persone che hanno commesso reati minori, che sono anziane o già malate. Gli stati coinvolti da queste misure sono, tra gli altri, California, New York, Ohio e Texas. Nelle altre carceri del paese, i funzionari stanno vietando l’ingresso ai visitatori, limitando il movimento dei detenuti stessi e controllando il personale. Negli Stati Uniti ci sono più di 2,2 milioni di persone in carcere: la preoccupazione è che corrano un altissimo rischio di contagio, a causa del sovraffollamento delle strutture, degli spazi ristretti in cui si ritrovano, della mancanza di igiene (manca il sapone e le soluzioni idroalcoliche sono vietate perché contengono, appunto, alcol) e di un sistema sanitario non eccezionale. “Avranno il personale, le attrezzature e i servizi adeguati per curare le persone?” si è ha chiesto per esempio Steve J. Martin, un consulente per il complesso carcerario di Rikers Island a New York: “E se non ce li hanno, manderanno quelle persone in ospedale o dove potranno ottenere un’adeguata assistenza sanitaria?”. Daniel Vasquez, ex guardia delle carceri statali di San Quentin e Soledad in California, ha detto al Wall Street Journal che i detenuti sono a strettissimo contatto tra loro, “alcuni in doppia e tripla cella. Penso che sarà impossibile impedire che il virus si diffonda”. Gli esperti sono poi preoccupati dal fatto che all’interno delle carceri si trovino persone ad alto rischio, cioè di età pari o superiore ai 55 anni. Dai dati del 2016 risulta che nelle carceri statali e federali americane ci siano 164 mila persone appartenenti a questa fascia di popolazione, un numero che è più che triplicato dal 1999. Per ora non sono stati segnalati focolai all’interno delle carceri, ma risultano già diversi casi di contagio, anche tra il personale delle prigioni di Pennsylvania, Michigan, New York e dello stato di Washington. Per prevenire la diffusione del virus, i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie hanno poi suggerito di isolare gli individui sintomatici. Nelle carceri, però, questo può essere davvero difficile, “praticamente impossibile”, secondo Homer Venters, ex dirigente medico dei servizi sanitari correzionali di New York. In molti centri di detenzione sono già previste aree separate per vari tipi di detenuti: uomini e donne, detenuti migranti e persone con malattie mentali. E lo spazio a disposizione è molto ridotto. Amy Fettig, vicedirettrice del National Prison Project dell’American Civil Liberties Union (ACLU), organizzazione per la difesa dei diritti e delle libertà individuali, ha affermato che in questa situazione si dovrebbero comunque equilibrare la sicurezza pubblica con i diritti civili, come l’accesso a biblioteche e alle attività ricreative, o le visite esterne. Alcuni funzionari della sanità pubblica e sostenitori dei diritti dei prigionieri hanno proposto liberazioni su larga scala dei detenuti. In diversi stati dove effettivamente si è ridotta la popolazione carceraria, giudici e pubblici ministeri hanno comunque cercato di dare rassicurazioni sul fatto che non si sta procedendo a una liberazione di massa: “Non stiamo aprendo le porte delle prigioni”, ha dichiarato ad esempio il giudice della contea di Cuyahoga (Ohio) Brendan Sheehan. “Stiamo esaminando i casi di criminali non violenti di livello inferiore, e quelli dei detenuti che hanno un rischio medico più elevato”. L’obiettivo è creare maggiore spazio per i detenuti e, se servirà, per le quarantene. Qualche giorno fa lo sceriffo della contea di Los Angeles, Alex Villanueva, ha dichiarato di aver ridotto la popolazione carceraria da 17.076 a 16.459 dalla fine di febbraio. Non solo: sono diminuiti anche gli arresti. Nella contea, che è la più popolosa degli Stati Uniti, sono scesi da circa 300 a 60 al giorno. Medio Oriente. I detenuti palestinesi nelle carceri israeliane temono per le loro vite di Akram al Waara* Internazionale, 24 marzo 2020 Dall’inizio di marzo, con l’aumento del numero dei casi di nuovo coronavirus, la paura e il panico si sono diffusi in Cisgiordania. Il 19 marzo il governo palestinese ha confermato 59 contagi nel territorio, la stragrande maggioranza a Betlemme. Le misure adottate dalle autorità per fermare la diffusione del virus hanno riportato un certo senso di calma tra la popolazione, ma per i palestinesi sono arrivate altre cattive notizie: il nuovo coronavirus ha raggiunto le carceri israeliane, dove sono rinchiusi cinquemila prigionieri politici palestinesi. Il Comitato per i prigionieri palestinesi ha riferito che un detenuto del carcere di Ashkelon, nel sud d’Israele, aveva avuto contatti con un medico israeliano risultato poi positivo al nuovo coronavirus. Qadri Abu Bakr, presidente del comitato, ha annunciato che il detenuto è stato messo in quarantena insieme ad altri 19. Intanto i mezzi d’informazione israeliani e palestinesi hanno parlato di casi sospetti in altre due carceri, quella di Ramla e il centro di detenzione Moscobiya a Gerusalemme. In entrambe le prigioni i detenuti sono stati messi in quarantena dopo aver avuto contatti con agenti israeliani sospettati di essere stati esposti al virus. I Servizi penitenziari israeliani hanno annunciato un piano per sgomberare un carcere vicino al confine egiziano e destinarlo ai detenuti contagiati, e hanno deciso di bloccare tutte le visite dei familiari. I palestinesi però temono che il governo e le autorità carcerarie israeliane non stiano facendo abbastanza per impedire la diffusione del virus e curare le persone che potrebbero ammalarsi. “È noto che le carceri israeliane sono vecchie, sporche e sovraffollate. Sono carenti di forniture igienico-sanitarie, anche le più basilari”, dichiara l’attivista palestinese ed ex detenuto Mohammed Abed Rabo, 48 anni. “Anche nel migliore dei casi nelle celle vivono tra i sei e i dieci detenuti, ma spesso sono di più”. All’ora dei pasti e durante le attività all’aria aperta più di 120 persone stanno insieme a distanza ravvicinata. Abed Rabo teme che il sovraffollamento sarà uno dei principali fattori della diffusione dell’epidemia tra i detenuti palestinesi. Inoltre, aggiunge, l’assenza di prodotti igienici come i disinfettanti per le mani e il sapone non farà che peggiorare le cose. “Già in condizioni normali i detenuti non hanno a disposizione i prodotti di base per lavarsi”, afferma Abed Rabo. Secondo gli avvocati di alcuni detenuti i servizi penitenziari israeliani non hanno fatto niente per affrontare il problema. “Dovrebbero dare ai detenuti mascherine, guanti, disinfettanti per le mani e una quantità maggiore di sapone, oltre a concedergli la possibilità di lavare più spesso vestiti e lenzuola. Si limitano a metterli in quarantena”. Una quarantena, osserva Abed Rabo, che consiste nel finire in isolamento. “Come possono ricevere le cure adeguate se finiscono in quelle terribili celle? È così che si trattano degli esseri umani malati?”. Per anni gli attivisti palestinesi per i diritti umani hanno documentato quella che hanno definito una politica di “negligenza medica deliberata” da parte delle autorità carcerarie d’Israele. Dalla seconda intifada (2000-2005) 17 detenuti palestinesi sono morti come risultato diretto della negligenza dei medici. In un rapporto del 2016 il gruppo in difesa dei diritti umani Addameer registrava la presenza di almeno duecento prigionieri con patologie croniche, tra cui una ventina di malati oncologici, altre decine affetti da disabilità fisiche e psicologiche e 25 ricoverati in modo permanente nella clinica del carcere di Ramla. “Molti di questi pazienti hanno problemi respiratori e cardiologici, e malattie autoimmuni”, dichiara Abed Rabo, sottolineando che una parte significativa della popolazione carceraria è formata da uomini di mezz’età o anziani. “Le caratteristiche demografiche dei detenuti sono le stesse di quella fascia della popolazione per cui il nuovo coronavirus potrebbe essere letale”, commenta. “E questo è terribile”. Già ora i detenuti ammalati non ricevono le cure di cui avrebbero bisogno. “I dottori vengono raramente, ai pazienti con disturbi gravi sono spesso prescritti antidolorifici generici, mentre chi ha bisogno di cure come la dialisi o la chemioterapia non le riceve con regolarità”, dice Abed Rabo. “Immaginate cosa potrebbe accadere se questi detenuti dovessero essere esposti all’epidemia”. Gli israeliani stanno affrontando la minaccia del nuovo coronavirus con grande serietà, ma Abed Rabo dubita che curare i detenuti palestinesi sarà una priorità. “Hanno dimostrato più volte di non avere considerazione per le vite dei palestinesi, in particolare dei detenuti. Perché ora dovrebbe essere diverso?”. *Traduzione di Giusy Muzzopappa Anche in Colombia il virus fa esplodere le carceri di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 24 marzo 2020 Rivolte in 13 istituti di pena: 25 morti e centinaia di feriti. Dopo neanche 24 ore dall’annuncio, da parte residente colombiano Ivan Duque, che a causa dell’epidemia di coronavirus anche il paese latinoamericano entrerà in regime di quarantena, domenica in numerose carceri sono scoppiate rivolte. La più cruenta è quella che è andata in scena nella prigione di La Modelo, vicino Bogotà (qui sono “ospitati” 5mila detenuti) dove 23 persone hanno perso la vita. Altri 83 hanno riportato ferite di varia natura che li hanno costretti a ricorrere alle cure degli ospedali. Tra questi 7 funzionari dell’Istituto Nazionale penitenziario e carcerario (Inpec). Le misure restrittive contro il contagio inizieranno oggi e dovrebbero durare almeno 19 giorni. Verranno limitati gli spostamenti delle persone ad eccezione del personale medico, delle forze di sicurezza e dei lavoratori di farmacie e supermercati. Fino ad ora in Colombia si sono registrati 231 casi di contagio e la morte di 2 persone. Chi ha più di 70 anni sarà in qualche modo costretto a rimanere in casa fino alla fine di maggio. Ma la rivolta non è stata solo dalla paura del contagio, le prigioni colombiane soffrono di gravi problemi di sovraffollamento e condizioni sanitarie insalubri. I 132 penitenziari del paese hanno una capacità di 81.000 detenuti ma ospitano oltre 121.000 prigionieri, secondo i dati del ministero della Giustizia. Ma proprio la titolare di questo dicastero ha negato criticità di questo tipo. Per la ministra Margherita Cabello infatti “non esiste alcun problema sanitario che avrebbe causato questi disordini. Non vi è alcuna infezione né alcun prigioniero o personale amministrativo o amministrativo che abbia il coronavirus”. Tutto quello che è successo dunque sarebbe il frutto di un piano di evasione di massa organizzato da condannati per omicidio ed altri gravi reati. Al di fuori di La Modelo si sono radunati numerosi parenti dei detenuti accorsi per avere notizie, diversi testimoni hanno riferito di aver udito numerosi colpi di arma da fuoco mentre i prigionieri bruciavano materassi ed altre suppellettili. Ora il ministero ha avviato un’indagine dalla quale sarà comunque difficile capire cosa è realmente accaduto. Intanto però la protesta carceraria si sta allargando a macchia d’olio, sono almeno altri 13 istituti di pena nei quali sono stati segnalati disordini. In particolare la situazione appare molto tesa a La Picota a Bogotà, Pedregal a Medellin e nell’Establecimiento Penitenciario e Carcelario di Jamundì nel dipartimento della Valle del Cauca. Una crisi che ha provocato la reazione di tutti coloro che operano nell’ambito giudiziario. Sia gli avvocati difensori che i procuratori hanno infatti chiesto che venga decretato lo stato di emergenza carceraria. In realtà il presidente Duque ha già ordinato provvedimenti stringenti già dal 12 marzo sospendendo tutte le visite in carcere, le prigioni sono di fatto isolate dal resto del Paese. È stata messa in campo una ricerca dei presunti contagiati, i detenuti non possono uscire neanche per visite mediche se non in casi eccezionali e le udienze si tengono in videoconferenza. Unica deroga è quella concessa agli avvocati che potranno continuare a visitare i loro assistiti. Congo. Covid-19: si teme un’ecatombe nelle carceri se non si interviene in tempo fides.org, 24 marzo 2020 Non si approfitti dell’emergenza legata al coronavirus per commettere arbitri e abusi nei confronti della popolazione. È quanto chiede l’Ong congolese per la difesa dei diritti umani Nouvelle Dynamique de la Societé Civile en RD Congo (Ndsci). In un comunicato giunto all’Agenzia Fides si invitano le autorità “a prendere le misure di carattere giuridico e amministrativo al fine di evitare arbitri e violazioni dei diritti umani, in particolare da parte dei servizi di sicurezza”. Si ricorda inoltre che il Covid-19 ha già colpito alcuni membri del governo, l’Ndsci, invita quindi i politici ad essere responsabili ed esemplari nell’accettare la quarantena, compreso eventualmente lo stesso Capo dello Stato, e a rendere pubblici i nomi di coloro che sono risultati positivi. Particolarmente preoccupante è la situazione delle sovraffollate carceri congolesi, definite “veri e propri luoghi di morte quotidiana per carestia e mancanza di cure mediche. I carcerati sopravvivono solo grazie ai volontari e alle provviste alimentari dalle loro famiglie; dato che ora, a causa di Covid-19, le visite non sono più consentite nelle carceri, l’Ndsci teme in un futuro molto vicino un’ecatombe di detenuti”. Si chiede inoltre al Parlamento di varare con urgenza un fondo nazionale “speciale Covid-19” per compensare i danni economici causati dalla pandemia nella Repubblica Democratica del Congo, nella quale la maggioranza della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Tale fondo deve essere gestito in modo da evitare malversazioni da parte di funzionari infedeli. L’Ndsci invita infine i politici congolesi “che si sono concessi enormi bonus e salari, a dimezzarli, al fine di contribuire al fondo nazionale speciale Covid-19”.