Appello dei detenuti a Mattarella, al Governo e al Papa: “Non dimenticateci” La Repubblica, 23 marzo 2020 Sono preoccupati per il coronavirus e per l’emergenza del sovraffollamento nelle carceri italiane. Per questo chiedono aiuto al Papa, al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella e al premier, Giuseppe Conte. Con una lunga lettera i detenuti della Casa di reclusione Due Palazzi di Padova e le detenute della Casa di Reclusione della Giudecca di Venezia, spiegano le loro ragioni e lanciano un appello. Una richiesta a nome delle migliaia di persone che come loro scontano una pena in un istituto penitenziario in Italia. “Anche noi - scrivono - siamo molto preoccupati da questo coronavirus. Anche noi tra gli ‘ultimi’ della società siamo angosciati per i nostri cari che sono al di fuori di queste mura, come loro lo sono per noi. Le condizioni in cui ci troviamo a vivere sono difficili, in alcuni casi impossibili. Qualcuno potrebbe dire che nel Veneto tutto sommato la situazione non è delle peggiori (ma vi assicuriamo che è la guerra dei poveri), come pure qualcuno potrebbe dire che il carcere ce lo siamo meritato. Per la stragrande maggioranza è vero, ma ci siamo meritati una pena non una tortura. Ci dovrebbe essere tolta la libertà, non la dignità, il diritto alla salute, il diritto a vivere. Le restrizioni imposte le rispettiamo ma non le condividiamo del tutto. Ad esempio alcune misure attuate in virtù dell’emergenza, atte al contenimento del virus, come la sospensione dei colloqui con i famigliari, le attività dei volontari e delle associazioni, i permessi premio e le attività degli uffici di sorveglianza. Facciamo fatica, signor Presidente e sua Santità, a capire la bontà di queste scelte. Vorremmo si capisse la drammaticità di questa scelta per noi”. I detenuti della Casa di reclusione Due Palazzi di Padova ricordano l’importanza del lavoro per quei pochi, il 2% del totale, che lavorano e lo fanno ancora oggi. E, rivolgendosi al personale penitenziario chiedono unità. “Qui non vale più il gioco di guardie e ladri! Qui in gioco c’è la vita di ciascuno di noi. Il ‘merito’ che può avere questo ‘maledetto virus’ è da una parte quello, volenti o nolenti, di metterci tutti sullo stesso piano”, spiegano. “Ecco perché serviva da subito, ma non è mai troppo tardi, un’attenzione più umana tanto nei confronti di noi 61.000 detenuti e delle nostre famiglie, quanto per le circa 45.000 persone, e relative famiglie, impegnate nella gestione delle 189 carceri. Una più larga, completa, umana e professionale misura sarebbe stata certamente più efficace ma soprattutto compresa e ben accetta. Inutile ricordare che le condizioni carcerarie, il sovraffollamento e tutto ciò che ne concerne non permettono di rispettare anche le regole più basilari che ci vengono indicate dai mezzi di informazione a tutte le ore”. I detenuti si dicono inoltre preoccupati per la circolare che ha emesso il capo del Dap (il personale della Polizia Penitenziaria) in cui si chiede di “continuare a prestare servizio anche nel caso in cui abbia avuto contatti con persone contagiate o che si sospetti siano state contagiate”, in quanto “operatori pubblici essenziali”, e nell’ottica di “garantire nell’ambito del contesto emergenziale, l’operatività delle attività degli istituti penitenziari” e quindi di “salvaguardare l’ordine e la sicurezza pubblica collettiva”. La risposta del Presidente della Repubblica di Sergio Mattarella Il Gazzettino, 23 marzo 2020 La vostra lettera mi ha molto colpito perché è il segno di una sincera preoccupazione per la gravissima epidemia che sta interessando il nostro Paese ed esprime la vostra partecipazione e il vostro coinvolgimento anche nelle vicende più drammatiche di tutta la collettività, di cui voi tutti siete parte. Ho ben presente la difficile situazione delle nostre carceri, sovraffollate e non sempre adeguate a garantire appieno i livelli di dignità umana e mi adopero, per quanto è nelle mie possibilità, per sollecitare il massimo impegno al fine di migliorare la condizione di tutti i detenuti e del personale della Polizia penitenziaria che lavora con impegno e sacrificio. Sono fiducioso che i tanti esempi di solidarietà umana che in questo periodo si stanno moltiplicando nel nostro Paese avranno anche l’effetto di far porre la giusta attenzione ai problemi che sottolineate. Il vostro gesto di grande generosità e vicinanza per il servizio ospedaliero veneto manifesta il senso di grande solidarietà che avete maturato in questo drammatico momento per l’umanità. Dimostra, inoltre, che, pur nella vostra condizione di privazione della libertà, avete trovato la sensibilità e la forza per aiutare chi soffre negli ospedali e chi si prodiga generosamente per la loro guarigione. Vi ringrazio per questa iniziativa e vi invio un saluto cordiale. Appello ai detenuti del Garante nazionale Mauro Palma garantenazionaleprivatiliberta.it, 23 marzo 2020 “Le misure restrittive adottate per contenere il dilagare dell’epidemia pongono, tra le altre, anche una grande difficoltà ai detenuti perché non potranno ricevere le visite dei propri congiunti”. Lo dichiara Mauro Palma che rivolge un appello alla popolazione detenuta: “Mi rivolgo proprio a voi detenuti per dirvi che capisco la vostra contrarietà, ma vi assicuro che si stanno ampliando tutte le possibilità di comunicazione con i vostri cari, anche dotando gli istituti di telefoni cellulari disponibili, oltre che di mezzi per la comunicazione video. Tutti noi garanti, nazionale e locali, controlleremo che queste possibilità siano effettive. E siamo disponibili a spiegare negli Istituti che questa situazione è una necessità per difendere la salute di tutti: la vostra, quella dei vostri cari e di chi in carcere lavora e anche di tutti noi”. Link del video della dichiarazione di Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà: https://www.youtube.com/watch?v=jPjY6V2kf2M Corsa per decongestionare le carceri di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2020 Il Dl “cura Italia” ha previsto una forma speciale di detenzione domiciliare, ma l’impasse del braccialetto elettronico e l’incertezza delle procedure rischiano di ridurne l’impatto. Il rischio che il coronavirus dilaghi nelle carceri, dopo i casi di detenuti positivi registrati nei giorni scorsi, ha riportato in primo piano la necessità di ridurre il sovraffollamento per allentare le tensioni che hanno scatenato rivolte in vari istituti di pena, con morti ed evasioni. Per agevolare le uscite, da quando l’epidemia è iniziata, sono state sfruttate al massimo le strade offerte dall’ordinamento: la liberazione anticipata, che prevede sconti di pena per chi partecipa ai programmi di rieducazione, e la detenzione domiciliare per chi ha una pena da scontare (anche residua) sotto i 18 mesi. Nella stessa direzione si è mosso il decreto legge “cura Italia” (18/2020) che ha introdotto una forma speciale di detenzione domiciliare, valida fino al 30 giugno. Sull’impatto dell’intervento pesa però l’impasse dei braccialetti elettronici e l’incertezza delle procedure. Le uscite - I primi ad attivarsi sono stati i magistrati di sorveglianza, che devono vigilare sull’esecuzione della pena nel rispetto dei diritti dei detenuti. “Da febbraio abbiamo iniziato a fare un ricorso più ampio alle misure alternative alla detenzione, estendendo l’interpretazione delle norme nel rispetto della Costituzione”, spiega Antonietta Fiorillo, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna e coordinatore nazionale del Conams, l’associazione dei magistrati di sorveglianza. Si tratta soprattutto della detenzione domiciliare introdotta dalla legge 199/2010, e della liberazione anticipata. Un impegno che sta dando i primi risultati: se al 29 febbraio scorso, secondo il ministero della Giustizia, le persone in carcere erano 61.230, al 20 marzo erano scese a 59.132, duemila in meno, come ha rilevato il Garante nazionale dei detenuti. Ancora troppi, comunque, rispetto alla capienza regolamentare dei penitenziari, che non arriva a 51mila posti. Il decreto “cura Italia” ha introdotto una nuova possibilità: una forma speciale di detenzione domiciliare, utilizzabile fino al 30 giugno che prevede una procedura semplificata, ma anche motivi ostativi nuovi. E a chi sconta pene sotto i 18 mesi ma sopra i sei deve essere applicato un braccialetto elettronico. Le criticità - I tempi con cui si diffonde il virus potrebbero essere incompatibili con quelli necessari a reperire i braccialetti elettronici e con la durata delle procedure, semplificate, ma non automatiche (serve un’istruttoria). E la misura avrà comunque un impatto ridotto: a lasciare le celle potrebbero essere 3mila o 4mila detenuti, un numero non sufficiente a raggiungere la capienza regolamentare e a disinnescare la “bomba” carceri. Numeri contenuti, sia perché la norma prevede motivi ostativi nuovi rispetto alla “normale” detenzione domiciliare, sia perché sono molti i detenuti che non hanno una casa presso cui scontare la pena, a partire dagli stranieri; e le comunità a cui di solito vengono inviati stanno sospendendo l’accoglienza per l’emergenza sanitaria. C’è poi il rebus dei braccialetti elettronici. Il decreto prevede che il numero di quelli “da rendere disponibili” venga individuato entro venerdì 27 marzo. Si terrà conto degli indici di sovraffollamento e delle situazioni di emergenza sanitaria e, in caso di “disponibilità parziale”, si darà priorità ai detenuti con residui di pena più bassi. Secondo la relazione tecnica i braccialetti disponibili “fino al 15 maggio” sono 2.600. Ma quanti sono quelli utilizzabili subito? La loro carenza è un problema cronico. Nel 2017 Fastweb si è aggiudicata la gara bandita dal ministero dell’Interno per fornire e attivare 1.000-1.200 braccialetti al mese per 36 mesi. L’azienda sottolinea che “sta ponendo in essere tutte le azioni necessarie per rispondere alle richieste” e che “i braccialetti elettronici richiesti sono stati attivati”. Ma “oggi i dispositivi non bastano neanche per la custodia cautelare - dice Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione camere penali. Il Governo deve chiarire quanti sono i braccialetti disponibili ora, altrimenti la misura è ineseguibile. Oltre al fatto che per gestire un’eventuale diffusione del virus devono uscire almeno 10mila persone”. Nulla è previsto invece per i detenuti in carcere in custodia cautelare, che sono ancora in attesa del primo grado di giudizio: si tratta di 9.408 persone, per cui la sospensione delle udienze e dei termini massimi di custodia fino al 15 aprile, prevista sempre dal decreto “cura Italia”, avrà il probabile effetto di allungare i tempi di reclusione. Carceri, i numeri dell’allarme Negli istituti ottomila detenuti in più rispetto alla capienza. Prima delle rivolte dei giorni scorsi, in cella, secondo i dati aggiornati a febbraio dal ministero della Giustizia c’erano 61.230 detenuti reclusi contro 50.931 posti regolamentari. Di questi, 19.899 erano stranieri. Nei giorni scorsi le presenze sono scese a 59.132 (come segnala il Garante nazionale dei detenuti) perché i Tribunali di sorveglianza stanno cercando di applicare il più speditamente possibile le misure già previste dall’ordinamento penitenziario. Di questi, 9.408 sono detenuti in carcere in custodia cautelare, in attesa del primo grado di giudizio. Per tremila reclusi domiciliari e braccialetto elettronico - La detenzione domiciliare speciale introdotta dal decreto legge 18/2020 avrà un impatto limitato. Saranno infatti poche migliaia i detenuti che usciranno dal carcere con questo beneficio. In particolare, la relazione tecnica al decreto legge afferma che saranno installati circa 3mila braccialetti elettronici fino al 30 giugno 2020 e che al momento e fino al 15 maggio ne risultano disponibili 2.600. A questi occorre aggiungere chi ha una pena residua sotto i sei mesi che potrà essere rilasciato senza braccialetto elettronico. I detenuti con pene da scontare sotto i 24 mesi sono circa 17mila. Rischio di nuove sommosse nelle carceri, l’allarme dei sindacati di Polizia penitenziaria ansa.it, 23 marzo 2020 Dopo proroga sospensione colloqui, agenti in stato di agitazione. Torna il rischio di sommosse nelle carceri. A lanciare l’allarme sono alcuni sindacati della polizia penitenziaria. Scatta infatti da domani la proroga della sospensione dei colloqui tra i detenuti e i loro familiari, provvedimento preso dal Dap - che ha distribuito nelle carceri 1.600 cellulari Tim e altrettanti ne ha ordinati - per contenere il contagio del Coronavirus. Una misura, quella dello stop alle visite, che ha fatto da “innesco” alla rivolta scoppiata due settimane fa in quasi 30 penitenziari distruggendo interi reparti con danni per milioni di euro, come accaduto a Modena, e provocando 13 morti da overdose tra i detenuti che hanno fatto incetta di metadone, oltre al ferimento di tanti agenti, alla presa di ostaggi, e all’evasione di decine di condannati dal carcere di Foggia. In vista di una settimana che si annuncia calda, l’Unione dei sindacati di polizia penitenziaria (Uspp), protestando anche per la mancanza di misure di protezione dal virus e di tamponi, ha indetto lo stato di agitazione sotto forma di sciopero bianco, richiamando tutti gli agenti a fare solo quello che è previsto dal mansionario. Il personale è particolarmente provato da turni massacranti di 24 ore protratti anche per tre giorni di fila e da una situazione ancora più pesante per la chiusura degli spacci interni. Non c’è più nemmeno il conforto di un caffè. Settanta finora, secondo fonti sindacali, gli agenti contagiati da Covid19 che avrebbe colpito anche quindici detenuti. Con una nota diramata il 20 marzo, il Capo della Polizia Franco Gabrielli, ha chiesto a questori e prefetti di stare attenti ai segnali di “iniziative esterne” da parte dei familiari dei detenuti o da parte degli anarchici per poter predisporre misure di ordine pubblico. “Il Ministro dell’Interno Lamorgese ha raccolto il nostro allarme, lo prova la nota del Capo della Polizia Gabrielli - sottolinea Aldo Di Giacomo, segretario del Spp. Il banco di prova sarà domani con la proroga della sospensione dei colloqui”. “La miscela esplosiva è da una parte la campagna ‘umanitaria’ che vorrebbe ‘svuotare le carceri’ e dall’altra i provvedimenti decisi dal Governo che consentirebbero le misure alternative con gli arresti domiciliari e il braccialetto elettronico per un numero di detenuti decisamente esiguo, circa 1600. Se alla delusione, specie tra chi ha sulle spalle molti anni di detenzione e quindi appartiene a gruppi di criminalità organizzata, si aggiunge un possibile appoggio esterno da parte delle famiglie dei detenuti e di gruppi anarchici, la situazione diventa ancor più preoccupante”, sottolinea il sindacalista. “Dobbiamo purtroppo constatare - afferma ancora Di Giacomo - che nessun provvedimento è sinora previsto da parte dell’Amministrazione Penitenziaria che, come è già accaduto nella prima ondata di rivolte che ha palesato la presenza espressa da magistrati di una “regia occulta”, continua a non saper gestire la situazione”. Secondo il sindacalista, occorre inviare l’esercito per garantire l’ordine all’esterno ed organizzare gruppi di agenti della penitenziaria dotati di taser per affrontare eventuali violenze all’interno dei reparti. Per quanto riguarda l’utilizzo dei cellulari che dovrebbero diventare 3.200, “si potrà fare ricorso a questi mezzi, in aggiunta a quelli già presenti negli istituti (Skype e telefoni fissi), oltre i limiti di tempo consentito”, informa il Dap. Tra le altre iniziative per tenere quanto più calma una popolazione carceraria di oltre 60mila persone che vivono stipate, c’è anche l’utilizzo senza costi del servizio di lavanderia, la possibilità di ricevere bonifici online, l’aumento dei limiti di spesa per ciascun detenuto. In arrivo anche 200mila mascherine per gli agenti della penitenziaria. Sì, l’avvocato non chiude. Ma non deve neppure rischiare la salute di Stefano Bigolaro Il Dubbio, 23 marzo 2020 Il decreto appena firmato da Conte e Speranza esclude, certo, gli studi legali dalla sospensione delle attività produttive. Il Dl “Cura Italia”, però, ha opportunamente sospeso non solo tutti i termini processuali e sostanziali, ma anche i termini dei procedimenti amministrativi. Vuol dire che anche noi difensori attivi in tale settore non dovremo mettere a repentaglio l’incolumità di alcuno pur di rispettare scadenze non urgenti. È una tempesta perfetta, è stato detto. In alcune Regioni è cominciata prima e ha colpito più duramente, ma i confini amministrativi non tengono. Gli effetti sono quelli di una guerra. Quel che è peggio, al momento non se ne vede la fine: anche per l’estensione, diventata ormai globale. Dal (minuscolo) punto di vista del singolo avvocato, è sì importante poter continuare l’attività di studio: ciò che al momento è consentito dalle disposizioni del Dpcm 22.3.2020 (che espressamente escludono le attività legali dalla sospensione delle attività produttive e commerciali). Ma è anche importante non dover fronteggiare compiti divenuti impossibili. Non vedersi cioè costretti - in un momento del genere - a compiere adempimenti processuali che possono essere rinviati e che non si è ora in grado di compiere. Le scadenze processuali impongono infatti un’attività che non è incorporea: produrre atti, memorie e documenti presuppone rapporti con i clienti, con gli uffici pubblici, con i colleghi e i collaboratori, con le segretarie di studio, con altri professionisti. Una tale attività è divenuta praticamente impossibile per il necessario “coprifuoco” di queste settimane. E il suo svolgimento implica comunque una grave responsabilità sociale (pur se - come detto - non si pone di per sé in contrasto con il Dpcm 22.3.2020). Né il “telelavoro”, divenuto improvvisamente l’unico strumento possibile, sembra consentire ora all’avvocato di svolgere pienamente la sua funzione e di fornire una difesa effettiva, in una realtà che non è quella virtuale. A parte poi il rischio che tutto venga vanificato da un banale errore di connessione… (come spesso succede). Restano dunque da presidiare le urgenze: su quelle, nei modi possibili, va assicurata la tutela. Ma, tolte quelle, è fondamentale - anche nella giustizia amministrativa - sospendere i termini e poter rinviare adempimenti e udienze. Garantire la funzione della giustizia, ma per quanto sia indispensabile e compatibile con la situazione emergenziale in atto. E, naturalmente, è necessario che si tenga conto di quali drammatiche conseguenze economiche tutto ciò sta producendo. In un momento del genere, poi, tutto dovrebbe essere reso il più semplice e chiaro possibile per le poche attività processuali che davvero devono essere compiute ora. Ma così non è, ad esempio, a leggere la disciplina posta in tema di giustizia amministrativa dall’art. 84 del decreto legge 18. Disciplina quanto mai complessa (tant’è che ha reso subito necessaria una direttiva esplicativa del presidente del Consiglio di Stato). Si è creato quasi un rito nuovo, pur se provvisorio, che in altri momenti sarebbe stato interessante approfondire. Non ora. Ora importa che - al di fuori delle vere urgenze - nessuno sia costretto al rispetto di termini rinviabili e che non sia nelle condizioni di rispettare; e ciò fino al 15 aprile prossimo (o meglio, fino a quando la situazione non cambierà). Anche perché c’è una realtà corrispondente che intanto frena e si ferma: quella delle pubbliche amministrazioni. Vanno di pari passo, l’attività amministrativa e il processo amministrativo. La sospensione feriale dei termini processuali è cosa ben nota (anche se, disposta ora, del tutto eccezionale). Ma la novità è che vengono sospesi, fino (almeno) al prossimo 15 aprile, anche i termini dei procedimenti amministrativi. È l’art. 103 del decreto legge 18. Una novità assoluta, che riguarda sia le amministrazioni che i privati: in questo periodo, e fino al 15 aprile, i termini non scadono (“a latere”, c’è nel d.l. una sorta di invito alle amministrazioni a fare del proprio meglio per svolgere comunque le loro funzioni). È una disciplina - beninteso - che non esclude il potere di provvedere. Ma che si salda alle difficoltà concrete che incontrano oggi le amministrazioni: costrette a far fronte a una calamità, fatte di persone la cui incolumità va protetta, e non sempre in condizione di riconvertirsi al “telelavoro” in tempi immediati. Forse, in alcuni casi, potrebbero essere i privati ad attivarsi, ad esempio con il meccanismo della Scia; ma comunque a proprio rischio, potendo ora non esserci, dall’altra parte, un soggetto pubblico in grado di esercitare quei poteri di verifica e di intervento che sono alla base del sistema. La situazione generale, inoltre, è in continua evoluzione; e quindi è opportuna una disciplina derogatoria assai ampia e in grado di adattarsi agli sviluppi dell’emergenza sanitaria. La sospensione, e in certi casi la paralisi, dell’attività amministrativa rende infine inutile preoccuparsi che si crei un accumulo nella giustizia amministrativa tra ciò che oggi viene rinviato e ciò che ci sarà domani: domani, probabilmente, l’attività amministrativa sarà così scarsa da non generare un contenzioso significativo. La situazione è totalmente nuova, e mutevole essa stessa. E, come diceva Montale, la storia non è maestra di niente che ci riguardi. La realtà non va interpretata con schemi mentali che sono stati improvvisamente superati. Serve la capacità di vederla per com’è ora e per come cambia di giorno in giorno. *Consigliere Unione nazionale avvocati amministrativisti Coronavirus, i processi penali urgenti sbarcano su Skype di Marisa Marraffino Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2020 Avvocati in toga davanti a uno schermo e scambio di atti via chat nella “stanza virtuale” di udienza. È l’effetto del coronavirus sui processi penali urgenti che da martedì scorso a Milano si celebrano in videoconferenza. Il “test” a Milano - Il protocollo, siglato lo scorso 14 marzo, dall’Ordine degli Avvocati di Milano, la Camera penale, la Procura e il Tribunale ha rivoluzionato anche la giustizia penale, ancora in affanno sul fronte della digitalizzazione. Succede per le direttissime e le convalide degli arresti che si sono spostate su Skype for business o sulla piattaforma Microsoft Teams per limitare al minimo gli accessi alle aule di udienza. Tutti si spostano sul digitale: forze dell’ordine, avvocati, eventuali interpreti. Anche i colloqui col proprio assistito in vista dell’udienza possono avvenire in videoconferenza. Chi non ha una connessione può recarsi in tribunale, ma resta l’opzione meno auspicata. Come si svolge il processo in videoconferenza - La polizia giudiziaria che ha proceduto all’arresto trasmette via mail al pubblico ministero di turno tutti gli atti che poi vengono inviati a mezzo pec o mail anche al difensore. Tutto viene poi caricato in formato Pdf su un portale dedicato, riservato agli atti urgenti. La cancelleria del pubblico ministero forma un fascicolo digitale, comprensivo del verbale di arresto e degli atti scansionati. Il giudice si collega con le parti e concede un termine di un’ora - prorogabile - all’avvocato per leggersi tutto. Dopodiché può iniziare la convalida o la direttissima. Accertata la regolare costituzione delle parti, il giudice, con decreto motivato, dà atto che si procede con la partecipazione a distanza “per ragioni di sicurezza”, da individuarsi nell’attuale emergenza sanitaria determinata dal Covid-19. Le postazioni sono allestite anche in carcere o, se l’indagato è agli arresti domiciliari, al Comando più vicino dove viene predisposta un’apposita postazione per celebrare l’udienza di convalida da remoto. Per rendere più stabile la connessione il giudice può autorizzare le parti a disattivare il video o il microfono. Si evitano rumori di sottofondo e l’audio sarà migliore. Il collegamento da casa o dall’ufficio non esonera però l’avvocato dall’indossare la toga. Cosa potrà cambiare in futuro? - Una svolta, dettata dalla necessità, ma che potrebbe segnare il punto di partenza per una riprogettazione interna della celebrazione dei processi penali anche per il futuro. La digitalizzazione della giustizia penale, ancora in fase embrionale, potrebbe avere finalmente un’accelerata, consentendo ad esempio anche l’escussione di alcuni testi a distanza, con notevole risparmio di risorse. L’emergenza potrebbe essere l’occasione per rivedere la procedura dei depositi degli atti in formato digitale, come avviene già per il processo civile telematico. Non c’è più tempo di aspettare, neppure per la giustizia. Figli con handicap, carcere ko. Spetta alla madre la detenzione domiciliare speciale di Ilaria Li Vigni Italia Oggi, 23 marzo 2020 La Consulta ha dichiarato illegittimo l’art. 47-quinquies dell’ordinamento penitenziario. È illegittimo l’art. 47-quinquies dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui nega il beneficio alla condannata, madre di figlio affetto da grave handicap: lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 18/2020. La Consulta ha, così, finalmente posto fine ad una importante limitazione dell’ordinamento penitenziario, foriera di ingiuste conseguenze nei confronti dei figli di condannate detenute per reati ostativi, affetti da patologie invalidanti. Ha, infatti, con essa dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione normativa che disciplina la detenzione domiciliare speciale, nella parte in cui non prevede che questa possa essere concessa anche alle madri di figli affetti da handicap grave legalmente accertato. La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata dalla Corte di cassazione, in relazione al ricorso proposto da una detenuta - condannata per reati di associazione mafiosa, estorsione continuata e ricettazione, con fine pena novembre 2024 - avverso il rigetto dell’istanza di detenzione domiciliare speciale, proposta in funzione della cura e dell’assistenza a una figlia di età superiore ai 10 anni affetta da grave disabilità (paralisi cerebrale compromettente la deambulazione). L’art. 47-quinquies, comma 1, o.p. impedisce l’accesso delle madri detenute alla misura alternativa della detenzione domiciliare speciale quando il figlio, alla data dell’istanza, abbia superato il decimo anno di età. Tale disposizione non considera la condizione del figlio gravemente invalido, la cui salute psico-fisica, indipendentemente dall’età, è suscettibile di essere pregiudicata dall’assenza del genitore, detenuto in carcere, non essendo indifferente, per il disabile grave, che le cure e l’assistenza siano prestate da persone diverse dal genitore stesso. La Corte di Cassazione ha, pertanto, censurato la normativa, ritenuta in contrasto con gli articoli 3 (principio di uguaglianza formale e sostanziale) e 31 (tutela della famiglia) della Costituzione. La Consulta ha, di fatto, concordato con tali doglianze. Preliminarmente, ha evidenziato come la finalità della detenzione domiciliare speciale sia quella di ampliare la possibilità, per le madri condannate, di scontare la pena detentiva con modalità esecutive extracarcerarie, oltre i casi di concessione della detenzione ordinaria (pena non superiore a 4 anni) per meglio tutelare il rapporto con i figli di età inferiore ai dieci anni. Ciò premesso, ha evidenziato come il limite dell’età dei figli sussistesse in origine anche per la detenzione domiciliare ordinaria, di cui all’art. 47-ter o.p. e come la Corte avesse, con sentenza n. 350/2003, inciso su tale disposizione, estendendo la possibilità di concedere la detenzione domiciliare ordinaria nei confronti della madre condannata, convivente con un figlio portatore di disabilità totalmente invalidante, anche se di età superiore ai dieci anni. Poiché entrambe le misure (detenzione domiciliare ordinaria e speciale) oltre che alla rieducazione del condannato, sono primariamente indirizzate a consentire la tutela di un soggetto debole, peraltro estraneo alle vicende che hanno portato alla condanna, la Corte ha dedotto, in conseguenza, l’illegittimità costituzionale della preclusione della detenzione domiciliare speciale per le madri con figli di età superiore ai dieci anni, ma affetti da disabilità totalmente invalidante e come tali aventi un perdurante bisogno di cura e di assistenza. Ha, quindi, concluso che il limite di età dei dieci anni previsto dall’art. 47-quinquies, comma 1, o.p., contrasta con i principi costituzionali di cui all’art. 3, primo e secondo comma, Cost., e all’art. 31, secondo comma, Cost., che prevede la tutela del legame tra madre e figlio, il quale legame non può considerarsi esaurito dopo le prime fasi di vita del bambino. Tali principi esigono che una misura alternativa alla detenzione, quale quella prevista dall’art. 47-quinquies, debba estendersi all’ipotesi del figlio portatore di disabilità grave accertata ai sensi dell’art. 3, comma 3, della legge n. 104 del 1992, poiché tale soggetto si trova sempre in condizioni di particolare vulnerabilità fisica e psichica, indipendentemente dall’età. Arresto non consentito, basta che la causa di giustificazione sia probabile di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2020 Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 20 febbraio 2020 n. 6626. Ai fini dell’applicazione dell’articolo 385 del codice di procedura penale, laddove si prevede che l’arresto non è consentito quando, tenuto conto delle circostanze del fatto, appare che questo è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima ovvero in presenza di una causa di non punibilità, non è richiesto che la sussistenza della causa di giustificazione dell’adempimento di un dovere o dell’esercizio di una facoltà legittima o della causa di non punibilità “appaia evidente”, ma che essa sia “verosimilmente esistente” sulla scorta delle circostanze di fatto conosciute o conoscibili con l’ordinaria diligenza. Così la sezione III penale della Cassazione con la sentenza 20 febbraio 2020 n. 6626. Tale interpretazione la Cassazione ha ritenuto di doverla desumere anche dalla circostanza che l’articolo 273 del codice di procedura penale impone al giudice delle indagini preliminari, che emette un’ordinanza cautelare, di valutare, in sede di adozione della misura cautelare, se “risulta” che il fatto sia stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, accertamento che non richiede che la ricorrenza dell’esimente sia stata positivamente comprovata in termini di certezza, essendo sufficiente, a tal fine, la sussistenza di un elevato o rilevante grado di probabilità che il fatto sia stato compiuto in presenza di tale causa di giustificazione. Per l’effetto, secondo la Corte di legittimità, se il giudice, nell’adottare una misura privativa della libertà personale, deve valutare la questione della eventuale ricorrenza della causa di giustificazione nei termini indicati, non potrebbe ritenersi che la polizia giudiziaria, nell’effettuare un arresto in flagranza, abbia più ampi poteri rispetto all’autorità giudiziaria che è competente in via generale alla restrizione della libertà personale. Nella fattispecie, trattavasi dell’arresto per i reati di cui agli articoli 1100 del codice della navigazione e 337 del codice penale nei confronti della comandante di una nave che risultava avere speronato una motovedetta della Guardia di finanza durante le manovre compiute all’atto dell’ingresso in un porto ove intendeva far sbarcare alcuni migranti recuperati in mare; la Corte ha rigettato il ricorso del pubblico ministero avverso la non convalida dell’arresto, sostenendo che risultava congruamente argomentata - dal giudice della convalida - la verosimile esistenza della causa di giustificazione di cui all’articolo 51 del codice penale, evocando, a supporto, le fonti pattizie internazionali in tema di soccorso in mare e l’obbligo consuetudinario di soccorso in mare, da cui doveva desumersi che l’attività di salvataggio dei naufraghi non si fosse esaurita con il loro recupero a bordo della nave, comportando l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (cosiddetto place of safety). Reati di deposito e smaltimento illecito di rifiuti. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2020 Reati ambientali - Rifiuti - Gestione dei rifiuti - Potature di alberi - Residui non costituenti rifiuto - Condizioni. Gli sfalci e le potature sono dei rifiuti per i quali vale la deroga stabilita all’art. 185, d.lgs. n. 152/2006, nei limiti in cui siano gestiti e riutilizzati a servizio dell’agricoltura, silvicoltura o per la produzione di energia da biomassa, anche al di fuori del luogo di produzione o a mezzo cessione a terzi e sempre a condizione che siano osservate delle procedure che tutelino l’ambiente e che non mettano in pericolo la salute umana. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 9 marzo 2020 n. 9348. Sanità pubblica - In genere - Residui di potatura e pulitura di alberi - Scarico in luogo non autorizzato - Dirigente dei servizi tecnici comunali - Reato di cui all’art. 6, comma 1, lett b), d.l. n. 172 del 2008, conv. in legge n. 210 del 2008 - Responsabilità - Sussistenza. Risponde del reato di deposito incontrollato di rifiuti, di cui all’art. 6, comma 1, lett. b), del d.l. 6 novembre 2008, n. 172, conv. in legge 30 dicembre 2008, n. 210, il dirigente dei servizi tecnici comunali che disponga il deposito dei residui di potatura degli alberi, unitamente a rifiuti provenienti da demolizione stradali e di rifiuti urbani di vario tipo, in modo incontrollato e in un sito non autorizzato. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 28 agosto 2019 n. 36480. Sanità pubblica - In genere - Qualificazione di un oggetto quale rifiuto - Natura di accertamento di fatto - Sindacabilità in cassazione - Limiti. In tema di gestione di rifiuti, l’accertamento della natura di un oggetto quale rifiuto ai sensi dell’art. 183, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 costituisce una “quaestio facti”, come tale demandata al giudice di merito e insindacabile in sede di legittimità, se sorretta da motivazione esente da vizi logici o giuridici. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 10 giugno 2019 n. 25548. Sanità pubblica - In genere gestione dei rifiuti - Deposito temporaneo - Condizioni di legge - Permanenza dei rifiuti per un periodo non superiore all’anno o al trimestre - Necessità - Sussistenza. In tema di gestione illecita dei rifiuti, ricorre la figura del deposito temporaneo solo nel caso di raggruppamento di rifiuti e del loro deposito preliminare alla raccolta ai fini dello smaltimento per un periodo non superiore all’anno o al trimestre (ove superino il volume di 30 mc), nel luogo in cui gli stessi sono materialmente prodotti o in altro luogo, al primo funzionalmente collegato, nella disponibilità del produttore e dotato dei necessari presidi di sicurezza. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 7 novembre 2018 n. 50129. Sanità pubblica - In genere - Gestione dei rifiuti - Incenerimento di residui vegetali - Inosservanza delle condizioni di cui all’art. 182, comma 6-bis, d.lgs. n.152 del 2006 - Reato di cui all’articolo 256, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 152 del 2006 - Sussistenza. In tema di gestione dei rifiuti, integra il reato di smaltimento non autorizzato di rifiuti speciali non pericolosi, di cui all’art. 256, comma, lett. a), d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152, la combustione di residui vegetali effettuata senza titolo abilitativo nel luogo di produzione oppure di materiale agricolo o forestale naturale, anche derivato da verde pubblico o privato, se commessa al di fuori delle condizioni previste dall’articolo 182, comma 6-bis, primo e secondo periodo; viceversa la combustione di rifiuti urbani vegetali, abbandonati o depositati in modo incontrollato, provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali, è punita esclusivamente in via amministrativa, ai sensi dell’art. 255 del citato d.lgs. n. 152. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 2 agosto 2017 n. 38658. Napoli. Il direttore di Poggioreale: “Le nuove misure speciali avranno effetti contenuti” di Flavia Landolfi Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2020 Carlo Berdini:?stiamo già lavorando alla raccolta delle domande e i numeri sono esigui. “Le misure del Governo avranno un impatto molto limitato sulle uscite anticipate dalle carceri: stiamo già lavorando alla raccolta delle domande e i numeri sono esigui”. Carlo Berdini, 52 anni, è direttore da pochi mesi a Poggioreale (Napoli), l’istituto penitenziario, dicono, più grande d’Europa. Di sicuro il primo in Italia con i suoi 2.090 detenuti contro i 1.644 posti regolamentari in base ai dati aggiornati al 4 marzo scorso. Dottor Berdini, che impatto avranno le misure cosiddette “svuota-carceri” previste dal decreto legge “cura Italia” su Poggioreale? Non siamo ancora in grado di dare dei numeri, stiamo verificando, ma direi che siamo nell’ordine di poche centinaia di posizioni. Ne sapremo di più nei prossimi giorni, al termine delle procedure di domanda e di verifica interna: poi ovviamente tutto andrà vagliato e deciso dai magistrati di sorveglianza, saranno loro ad avere l’ultima parola. Quali sono le ragioni di un effetto così blando in una mega-struttura come Poggioreale? Si è privilegiato il tema, legittimo, della sicurezza dei cittadini contemplando una serie di esclusioni dal raggio d’azione della detenzione domiciliare. Sotto un profilo strettamente procedurale però una di queste esclusioni potrebbe creare perplessità sul profilo delle garanzie. Quale? Mi riferisco alla previsione di escludere anche i detenuti che siano stati oggetto del solo rapporto disciplinare in occasione dei disordini del 7 e 8 marzo. Allo stato, questa circostanza non implica ancora l’accertamento di responsabilità, che avviene alla fine della procedura amministrativa interna. C’è un tema di garanzie che ha dovuto cedere il passo all’emergenza sanitaria. Le altre esclusioni previste dal provvedimento sono congrue? Non sta a me dare giudizi sull’operato di chi ci governa, ma certamente, prevedendo comunque l’intervento della magistratura, le altre esclusioni hanno un’investitura giuridica che le rende più forti sotto il profilo delle garanzie: parlo, per esempio, delle esclusioni per chi delinque abitualmente e per chi si è macchiato di reati gravi indicati dall’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario. Qual è la densità di popolazione all’interno del carcere? Poggioreale ospita 2.090 detenuti con situazioni diverse a seconda della dimensione delle celle. Voglio subito dire però che i limiti della sentenza Torreggiani qui sono rispettati. Chiaramente ci sono degli ambienti in cui però le condizioni non sono ottimali. Poche uscite anticipate, duemila detenuti a stretto contatto. Come pensate di arginare possibili contagi? Noi stiamo facendo di tutto. Anche grazie al lavoro della polizia penitenziaria che si è messa a disposizione e sta facendo un lavoro straordinario e che desidero ringraziare pubblicamente. Venendo alle misure che stiamo mettendo in campo, abbiamo distribuito mascherine e disinfettanti, aumentato i controlli e siamo dotati di una tensostruttura esterna di triage che controlla tutti i nuovi ingressi. Basterà? Cosa state facendo per tenere bassa la tensione? Dopo i fatti dell’8 marzo scorso con la rivolta di 700 detenuti, la situazione è normalizzata ma da monitorare costantemente. Per ovviare alla sospensione dei colloqui abbiamo attivato, dove possibile, postazioni Skype e comunque abbiamo intensificato le telefonate con le famiglie. Certo, però, i detenuti sono preoccupati. Veniamo ai disordini dell’8 marzo, che cosa è successo? La notizia della sospensione delle visite esterne ha scatenato la rivolta, anche se ci tengo a sottolineare che la gran parte dei detenuti ha assunto un atteggiamento responsabile con prese di posizione anche ufficiali di condanna dei disordini. Abbiamo avuto parecchi danni che si sono sommati alle carenze di una struttura vetusta e che avrebbe urgente bisogno di essere rimodernata. Anche in questo senso il rapporto del garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, che ha visitato Poggioreale nel maggio scorso rilevando una serie di criticità è per me a tutti gli effetti un vero e proprio piano di lavoro. I fondi stanziati dal governo nell’ultimo provvedimento (20 milioni in tutto, ndr) rappresentano un primo passo nella direzione giusta. Napoli. Carceri e virus, durissima invettiva del cappellano di Poggioreale di Luigi Nicolosi stylo24.it, 23 marzo 2020 “Le sbarre non fermeranno i contagi, bisogna sfollare i penitenziari. Ma cosa state aspettando? Non c’è più tempo”. Inizia così la durissima invettiva di don Franco Esposito, cappellano della Casa circondariale di Poggioreale, affidata ai propri canali social e diretta alle autorità preposte alla gestione dell’emergenza epidemiologica che ormai da settimane sta tenendo sotto scacco l’intero Paese. Il rischio, neanche a dirlo, è che le carceri italiani e, ovviamente anche quelle napoletana, si trasformino in una vera e propria bomba a orologeria. Nel tratteggiare il quadro don Franco ricorre a parole infuocate, dalle quali tracima un forte senso di frustrazione per il modo in cui è stata gestita questa fase: “Come è possibile - si interroga il religioso - che nella situazione drammatica che stiamo vivendo ancora non si prende coscienza del pericolo grave che i detenuti stanno correndo nelle carceri? E del pericolo che un contagio nelle carceri può diventare per l’intera collettività? Ci impegniamo a stare a casa, a mantenere la distanza di sicurezza e si lasciano ancora ammassate le persone nelle celle, nei corridoi, nei passeggi”. Sul punto, don Franco Esposito non sembra avere alcun dubbio e, del resto, come dargli torto: “I carcerati - avverte - non sono immuni dal virus perché stanno rinchiusi. Sono mille i modi attraverso i quali il virus può entrare nelle carceri e certo non lo fermeranno le sbarre o la polizia. Si crede che quando ci sarà il contagiato, come già avvenuto in qualche carcere, o il morto, gli altri detenuti staranno tutti buoni ad aspettare il loro turno? Di chi sarà la colpa? Di qualche poliziotto imprudente? Di qualche medico o infermiere che non ha preso le precauzioni dovute? Oppure di un cappellano che ha confessato qualche detenuto troppo vicino? Si perché dovrà esserci qualcuno a cui addossare la colpa”. Un quadro a dir poco allarmante, dal quale non sfugge certo il penitenziario di Poggioreale e la casa di reclusione di Secondigliano, con la prima in particolare ancora pesantemente gravata dal nodo del sovraffollamento. Ancora oggi, infatti, sono circa 2mila i ristretti nell’istituto “Giuseppe Salvia”, a fronte di una capacità regolamentare di circa 1.600 unità: “Garanti dei detenuti svegliatevi, politici non siate ciechi. Si è capito che questo virus può essere sconfitto prevenendo più che curando. Bisogna sfollare le carceri, trovate il modo ma fatelo e presto, non c’è più tempo”, è l’amarissima conclusione di don Franco Esposito. Bologna. Coronavirus, protesta alla Dozza: “Dopo 2 settimane nulla è cambiato” bolognatoday.it, 23 marzo 2020 A due settimane dalla violenta protesta dei detenuti del Reparto Giudiziario al carcere della Dozza “a parte il trasferimento di una minima parte di detenuti, avvenuto subito dopo le tragiche giornate del 9 e 10 c.m., nulla più è cambiato se non le condizioni di lavoro, sempre peggiori e sempre più pesanti”. A scriverlo in una lettera indirizzata alle istituzioni di riferimento i sindacati di polizia penitenziaria Sappe, Uil-Pa, Sinappe, Fns-Cisl, Fsa Cnpp e Fp-Cgil. “Tutto il personale di Polizia Penitenziaria, compresi i propri vertici e lo stesso Direttore, stanno contribuendo incessantemente a mantenere, una situazione ormai invivibile, ad una certa normalità, ma riteniamo che tutti questi sforzi purtroppo, non potranno essere sufficienti per ripristinare la situazione ormai seriamente compromessa”. I sindacati riferiscono che “il personale tutto è stremato e, giorno dopo giorno, avverte sempre più la sensazione di abbandono, da parte dei propri Vertici Istituzionali. Il personale appare sempre più sconfortato a causa delle promesse che si sono ripetute giorno dopo giorno, di un ulteriore e significativo trasferimento di altri detenuti, operazione per la quale, nonostante le numerose ore di straordinario già effettuate, lo stesso personale si era reso disponibile, ma che purtroppo è rimasta inevasa come tante altre”, quindi “non passa giorno in cui non si continuano a vivere emergenze, dovute alle naturali tensioni che continueranno a susseguirsi, se la situazione non cambierà in fretta. Considerato infine che la situazione sopra descritta è fortemente a rischio di sfociare in altri e ben peggiori disordini, le scriventi OO.SS. esprimono la loro protesta contro l’assenteismo dei vertici del Dap e si dichiarano pronte a tutte le azioni di protesta consentite dalla Legge, a tal proposito vogliono chiarire che riterranno l’Amministrazione responsabile di eventuali ulteriori disordini, e si dichiarano fin da subito pronte a ricorrere ad azioni legali, se la situazione sopra descritta, provocherà conseguenze ai danni dell’incolumità del personale, in servizio presso la Casa Circondariale in oggetto. Avellino. Allarme carceri, agenti in sciopero: siamo a rischio di Simonetta Ieppariello ottopagine.it, 23 marzo 2020 Da domani in Irpinia in tutti le carceri astensione dalla Mensa Obbligatoria di Servizio. La Segreteria Provinciale Osapp di Avellino annuncia che, a partire da domani, inizierà l’astensione facoltativa dalla Mensa obbligatoria di Servizi per motivi Sanitari coronavirus, visto che l’Amministrazione Centrale ha disposto solo la chiusura degli spacci e non delle Mos (mensa obbligatoria di servizio). “Inoltre ad oggi non sono stati dotati i Poliziotti Penitenziari di idonei strumenti di protezione dal rischio contagio in particolar modo presso la Casa Circondariale di Ariano Irpino, che si trova ad operare in un contesto difficile e in piena zona rossa e ad alto rischio contagio così come decretato dal Presidente della Regione Campania e di tutti gli strumenti Dpi e inoltre chiediamo il tampone a tutti gli operatori Penitenziari per tutelare e ridurre il rischio contagio da Covid-19. Pertanto dalla giornata di domani stato di Agitazione con astensione dalla MOS facoltativa da parte del personale di Polizia Penitenziaria in tutta la provincia di Avellino (Ariano Irpino, Sant’Angelo dei Lombardi, Bellizzi Irpino e Lauro)”. S.M. Capua Vetere (Ce). Coronavirus nel carcere, le mogli dei detenuti: “Alto rischio sanitario” di Mary Liguori Il Mattino, 23 marzo 2020 Il direttore sanitario dell’Asl di Caserta, Pasquale Di Girolamo, è la prima voce autoritaria che entra ufficialmente nel caso “Uccella” e che si esprime rispetto alla situazione sanitaria del penitenziario di Santa Maria Capua Vetere. “Al momento non ho notizie di casi di contagio nella casa circondariale”: la dichiarazione, resa a Il Mattino ieri pomeriggio, dovrebbe tranquillizzare gli animi dopo giorni turbolenti per i detenuti e i loro familiari, in cerca di conferme o smentite su due presunti casi di Covid-19 tra le mura del carcere. Al momento, dunque, l’unico caso di coronavirus rapportato all’“Uccella” è quello del dirigente sanitario risultato positivo in settimana. L’uomo non sarebbe mai entrato in contatto con i detenuti, svolgendo un lavoro d’ufficio, tuttavia negli ultimi tre giorni sono stati già 35 i tamponi eseguiti sul personale medico-infermieristico del penitenziario e sugli agenti di polizia. Nessun detenuto sarebbe stato sottoposto al test in questi giorni. La mancanza di informazioni ha generato grandi paure nei familiari dei detenuti. Maria, Michelina, Nunzia sono solo alcune delle parenti di detenuti che ieri si sono rivolte a Il Mattino per conoscere il reale stato sanitario che vive il carcere in questo momento. “Mi ha chiamato mio padre - scrive una di loro - si è diffusa la voce di due contagi da coronavirus, ma nessuno conferma o smentisce queste notizie”. “Mio fratello è terrorizzato, lui e gli altri chiedono da giorni di sapere se ci sono detenuti contagiati, ma nessuno dà loro risposte”, dice un’altra donna. Mirela dice di aver saputo dal suo convivente della tensione e dei dubbi che gravano da giorni sugli oltre 900 detenuti. “Alle loro domande e alle nostre non ci sono riscontri”. Uguali le richieste di Maria Antonietta, Carmela e Flora. “Da giorni circolano voci impazzite da un padiglione all’altro che riportano di casi di Covid-19 tra i detenuti, siamo in grande allarme: se questo dovesse essere vero i nostri congiunti sarebbero esposti a un rischio altissimo. Chiediamo solo che ci dicano come stanno realmente le cose”. Valentina Vinci è la moglie di un detenuto dell’Alta sicurezza. Ci ha inviato una lettera per denunciare quelle che, a suo dire, sono le precarie condizioni igieniche del carcere. “Le condizioni di detenzione violano i decreti del Governo, che prevedono denunce penali per chi non le rispetta, mentre in carcere vengono violate continuamente senza che nessuno intervenga: distanze di sicurezza, igienizzazione delle superfici e degli ambienti, controlli e tamponi sui sospetti malati e così via. Che ognuno dei detenuti debba pagare il proprio debito con la giustizia non è in discussione, è in discussione invece il diritto alla salute che ognuno ha insieme al diritto di vedere la propria famiglia ed i propri cari. Per sicurezza, sono state interrotte le visite, mentre sia guardie che medici entrano ed escono dalle carceri con il grande rischio di contagio: tant’è vero che in alcuni carceri il contagio è entrato, con previsioni disastrose che facilmente si possono capire. È entrato in Lombardia, e veniamo a sapere anche nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, e questo è quello che trapela sulla stampa. La polemica non è lo scopo della lettera, già ce ne sono tantissime sui media, sulla stampa e così via, ma quello di chiedere che si intervenga con provvedimenti concreti in salvaguardia della salute dei detenuti: è vero che devono pagare il loro debito verso la giustizia e la società, ma questo lo stanno facendo con la privazione della loro libertà e non deve accadere che vengano privati anche della loro salute. Riguardo alla salute non ci sono cittadini di serie A e serie B, di fronte alla salute, come di fronte alla giustizia, siamo tutti uguali e dobbiamo essere trattati allo stesso modo. Non abbiamo notizie, non sappiamo cosa succede tra le mura delle carceri, dove regnano sovraffollamento, mancanza di presidi sanitari, e le persone sono abbandonate in celle di 3 metri per 2 in due persone per 22 ore al giorno. I detenuti vanno messi tutti in sicurezza e una volta passato il pericolo ognuno di loro continuerà a scontare la propria pena, ma in salute come sono entrati. Chiedo allo Stato a nome di tutte le persone che stanno vivendo la mia stessa situazione di intervenire prima che la situazione degeneri in maniera irreparabile”. Cagliari. Le detenute di Uta fanno una colletta per l’Ospedale “Santissima Trinità” vistanet.it, 23 marzo 2020 Volevano dimostrare la loro vicinanza al personale sanitario impegnato nella battaglia contro il Covid-19 e hanno organizzato una raccolta fondi per l’ospedale. “L’iniziativa - ha spiegato Elisa Montanari, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” - è nata dalla volontà di M.S. e R.S., due giovani donne di un paese dell’Oristanese, che volendo rappresentare la vicinanza di chi sta scontando una pena a chi è impegnato sul fronte della salute per sconfiggere un nemico invisibile ma assai pericoloso, ha ottenuto l’adesione dell’intera sezione femminile della Casa Circondariale di Cagliari-Uta”. Alcuni giorni fa la cronaca ci ha raccontato delle violente proteste all’interno di alcune carceri della Penisola, proprio legate all’emergenza sanitaria in atto, risulta dunque ancora più significativo il gesto delle detenute di Uta. “È un gesto - sottolinea Montanari - che peraltro denota l’attenzione delle donne detenute verso chi lavora per l’intera comunità locale e regionale dovendo affrontare condizioni di difficoltà umane e professionali, esprimendo al contempo la consapevolezza delle oggettive priorità delle problematiche”. L’iniziativa è stata accolta con soddisfazione dal Direttore del carcere Marco Porcu che ha dato disposizioni affinché il contributo venga immediatamente corrisposto all’Ospedale cagliaritano. “Il gesto - ha sottolineato il Direttore - è un segnale importante di condivisione e comprensione delle difficoltà in cui versa l’intera società sarda e nazionale”. Biella. Raccolti 1.500 euro dal Tavolo Carcere per le telefonate dei detenuti primabiella.it, 23 marzo 2020 Tavolo Carcere di Biella, in risposta ad una richiesta di aiuto economico a supporto delle telefonate sostitutive dei colloqui con i familiari proveniente dalla direzione del carcere di Biella, ha raccolto 1.500 euro che sono stati consegnati venerdì dalla Garante dei diritti delle persone ristrette, Sonia Caronni, alla direttrice del carcere Tullia Ardito. Sono stati inoltre raccolti beni alimentari attraverso l’operato de Il Banco Alimentare di Biella, l’associazione Zaccheo, la Comunità Papa Giovanni XXIII e Caritas Diocesana Biella. Sono quindi stati consegnati: caffè solubile, the, latte a lunga conservazione, biscotti, brioches, vari tipi di cioccolato. Fanno parte del Tavolo Carcere di Biella le associazioni Ricominciare, Zaccheo, Better Places, Papa Giovanni XXIII, Hope Club, Vocididonne, Incontromano, Naso in Tasca, Acli Service, Caritas Diocesana Biella, UISP, Liceo G.Q. Sella. La bomba sociale di chi non ha più il lavoro nero di Raffaele Cantone Il Mattino, 23 marzo 2020 Guardare al futuro (e a volte anche al passato) è un ottimo sistema per esorcizzare gli incubi del presente. A me sta capitando spesso in questi giorni di pensare al momento in cui, ad esempio, la parola “curva” riprenderà ad indicare un tratto di strada non rettilineo, piuttosto che un’unità di misura di contagi e decessi. O a quando accenderemo la tv non per ascoltare il bollettino di guerra della protezione civile ma per attendere le partite di calcio e i riflessi sul fanta-calcio o, ancora, a quando le star della medicina torneranno ad essere dietologi e chirurghi estetici ed i virologi continueranno, invece, ad esporre le loro teorie, non sempre coincidenti, nelle più felpate riunioni delle società scientifiche. Ma guardare al futuro è anche una cosa molto più seria, dovrebbe essere l’occupazione principale di chi guida la cosa pubblica, di chi si occupa, cioè, di politica, con la P maiuscola. E dovrebbe significare soprattutto programmare, una parola nel nostro Paese ripetuta con lo stesso ritmo con cui viene in concreto ignorata, mi verrebbe da dire come altre due parola mantra, legalità e semplificazione. Programmare non è scienza da maghi, ma è disegnare scenari probabili, in relazione alle esperienze del passato e alla conoscenza dei fenomeni sociali e di conseguenza individuare strategie. E questa attività andrebbe fatta, prudentemente e diligentemente, prima, non certo attendendo il verificarsi delle ipotesi e gestendole, poi, sull’onda di una nuova emergenza. Gli scenari cui penso riguardano, per mia deformazione mentale, la criminalità e l’ordine pubblico, variabili notoriamente dipendenti dall’andamento dell’economia. Nel futuro, che tutti ci auguriamo essere il più prossimo possibile, tutti gli analisti preconizzano un sicuro impoverimento sociale ed una crisi (si spera passeggera) delle attività imprenditoriali, soprattutto piccole. La crisi inevitabilmente morderà ancor di più in realtà socialmente difficili, in cui i pur costosi ammortizzatori sociali, meritoriamente messi in cantiere, incideranno poco. Mi riferisco a quelle realtà che vivono border line, con attività al nero, o di indotti più o meno criminali, che tutti conosciamo (interi quartieri, ad esempio, di Napoli e provincia e di altre città soprattutto meridionali) e che facciamo finta di non vedere. Cosa accadrà quando tutto quel mondo avrà ancora più difficoltà di prima a mettere un piatto a tavola, a volte per famiglie anche numerose? Il rischio è una bomba sociale che si inserirà in un contesto che, per quanto attiene l’ordine pubblico, è per altri aspetti già in una fase critica. La magistratura sarà ancor di più in affanno; dovrà recuperare arretrati significativi (l’emissione di quante misure cautelari è stata di fatto rinviata?) e anche gestire il carico di una marea di denunce, più o meno fondate, per le violazioni di questi giorni. La situazione carceraria che erediteremo sarà (a essere buoni) problematica ed è il simbolo per eccellenza della mancata programmazione; se si fanno politiche securitarie non ci si deve preoccupare prima di dove sistemare le persone incarcerate? E se la sicurezza delle case circondariali è quella che abbiamo visto nei giorni passati, quando all’unisono, senza accordi, in poche ore i detenuti si sono appropriati dei penitenziari, c’è da stare non molto tranquilli. Le forze dell’ordine, d’altro canto, pagheranno le conseguenze inevitabili del sovraccarico di impegni di questi giorni e della necessità di considerare prioritario il controllo minuto delle strade, piuttosto che monitorare i movimenti criminali. In questo scenario è purtroppo possibile un aumento della criminalità comune, di tipo predatorio; un pericolo non solo italiano, tipico delle fasi di emergenza, che gli americani, abituati culturalmente all’auto - programmazione e soprattutto all’autodifesa hanno pensato di risolvere facendo la fila oltre che ai supermercati alle armerie. E a questo rischio si accompagna un altro non meno grave e cioè che questa eventuale massa di disperati possa diventare nuova manovalanza delle mafie. A proposito di queste ultime, in questo periodo certamente i loro affari si sono contratti; spaccio di droga, estorsioni, rapine, prostituzione sono in calo. Ma le mafie restano un deposito di liquidità, pronto ad essere immesso in un mercato che avrà fame di denaro per ripartire, con il pericolo di un inquinamento (ulteriore) dell’economia legale. Un possibile futuro, quello descritto, che preoccupa, anche se mi tranquillizza un pensiero da ottimista per natura; se a queste conclusioni sono arrivato io, che sono chiuso in casa a lavorare in smart working, è evidente che ad esse ed in molto più raffinato siano giunti analisti e programmatori più competenti e soprattutto con la possibilità di individuare da subito le contromisure adatte. La mafia del virus. Dalla droga alla sanità, la pandemia aiuta l’economia criminale di Roberto Saviano La Repubblica, 23 marzo 2020 Le emergenze sono un’opportunità di guadagno per molte imprese, non solo quelle illecite. Ma queste ultime ne hanno un doppio vantaggio: affari e silenzio. Le organizzazioni criminali sono come la Borsa, anticipano sempre le direzioni. La natura dei mercati azionari non è fotografare la crisi, ma prevederla; così, le mafie sentono gli affari prima che le esigenze di mercato si definiscano. Cosa fanno i clan, le strutture meglio organizzate del capitalismo contemporaneo, al tempo del coronavirus? È quasi impossibile capirlo ora, ma possiamo cogliere già dei segnali. Dall’osservazione di questi giorni sembra emergere che le mafie non fossero in possesso di informazioni maggiori rispetto agli altri. Le mafie beffate anche loro, come tutti, dal regime comunista cinese che prima ha sottovalutato, poi nascosto e, quando era ormai impossibile occultare, ha comunicato ufficialmente la diffusione del virus. Nemmeno la mafia di Hong Kong (le potenti Triadi) aveva anticipato i tempi orientando i suoi affari in vista della pandemia. Ora quello che sta accadendo dal Messico al Kosovo, dall’Italia all’Iran è che le mafie si stanno muovendo verso la grande speculazione. Le emergenze pubbliche aumentano la possibilità di guadagno per molte imprese, non solo per le organizzazioni criminali, ma queste ultime in particolar modo ne hanno un doppio vantaggio: affari e silenzio. Qualsiasi emergenza monopolizza l’attenzione mediatica: i meccanismi criminali non occupano più il loro spazio (già esiguo) nelle cronache, l’imperativo della sopravvivenza domina su tutto. Inoltre, in Paesi come l’Italia rallenta in forma finale la già compromessa macchina giudiziaria. La pandemia è il luogo ideale per le mafie e il motivo è semplice: se hai fame, cerchi pane, non ti importa da quale forno abbia origine e chi lo stia distribuendo; se hai necessità di un farmaco, paghi, non ti domandi chi te lo stia vendendo, lo vuoi e basta. È solo nei tempi di pace e benessere che la scelta è possibile. Basta guardare il portfolio delle mafie, per capire quanto potranno guadagnare da questa pandemia. Dove hanno investito negli ultimi decenni? Imprese multiservizi (mense, pulizie, disinfezione), ciclo dei rifiuti, trasporti, pompe funebri, distribuzione petroli e generi alimentari. Ecco, quindi, come guadagneranno. Le mafie sanno ciò di cui si ha e si avrà bisogno, e lo danno e lo daranno alle loro condizioni. È sempre stato così. Le mafie negli anni sono riuscite ad infiltrarsi ai vertici del settore sanitario, come ha dimostrato la condanna per mafia di Carlo Chiriaco, che poteva essere al contempo direttore della Asl di Pavia e referente della ‘ndrangheta nella sanità lombarda. Il business criminale vero non è quello dei furti di mascherine destinate alla rivendita. Turchia, India, Russia, Kazakistan, Ucraina, Romania hanno fermato o ridotto le esportazioni di mascherine; 19 milioni di esemplari (tra Fpp2, Fpp3 e chirurgiche) sono bloccati all’estero, nei Paesi di produzione o in quelli di transito verso l’Italia. Chi negozierà gli sblocchi e i transiti, secondo voi? E cosa succederà quando il cibo o la benzina inizieranno ad avere una distribuzione più lenta? Chi riuscirà ad aggirare divieti ed elargire beni senza soluzione di continuità? Le mafie. Ecco perché - se ne discute in queste ore - non bisogna creare allarme sulla possibilità di reperire cibo. Bisogna mettere in sicurezza gli esercizi commerciali che vendono al dettaglio i beni di prima necessità facendo nuove assunzioni, aumentando la turnazione e gli stipendi; ogni chiusura favorisce solo le organizzazioni criminali. Oggi più che mai la politica è chiamata a prendere decisioni che determineranno la vita del nostro Paese nei decenni che verranno. È nella stagnazione dell’emergenza che vedremo il potere delle organizzazioni criminali, non in queste prime fasi, in cui si è portati a vedere solo l’eroismo e l’abnegazione dei singoli e l’intervento di uno Stato che si muove perentorio per rispondere alla crisi assumendo il volto del salvatore (sarà solo dopo che ci troveremo ad analizzare le mancanze, i tagli alla sanità, lo stato di degrado in cui versano molti ospedali pubblici, gli stipendi da fame riservati ai ricercatori). Ma non bisogna solo pensare alla dimensione italiana del fenomeno criminale: gli aeroporti e le compagnie navali dell’Est Europa e del Sud America che spesso vengono utilizzati per il traffico di droga ora si stanno preparando ad accogliere le nuove merci richieste dal mercato dell’emergenza. Come lo sappiamo? L’abilità delle mafie è sempre stata quella di riuscire ad applicare schemi commerciali vincenti a prodotti di volta in volta più convenienti. E il mercato della droga al tempo dell’epidemia? L’emergenza ha favorito cartelli e cosche sull’ingrosso: in questo momento i controlli nei porti internazionali sono diminuiti, i carichi passano con più facilità. Al dettaglio, c’è stata una iniziale impennata poco prima del lockdown, quando la gente ha fatto scorte di droga esattamente come ha fatto con gli alimentari. Fuori dai coffee shop di Amsterdam c’erano file lunghissime (a volte più lunghe che nei supermercati); a New York la marijuana gestita dagli spacciatori ha avuto un aumento esponenziale nella distribuzione nelle ore in cui le misure di chiusura sono state annunciate. I pusher hanno riempito i propri magazzini, pronti a tirarla fuori nel momento in cui i prezzi saranno saliti alle stelle; nel frattempo si sono liberati della merce più scadente che avevano in giacenza, riuscendo a piazzarla a un prezzo molto più alto rispetto a quello che il mercato normalmente avrebbe consentito. In Italia, i clan hanno perso le piazze di spaccio e mantenuto un residuale mercato mettendosi in fila davanti ai supermercati e alle farmacie, che hanno sostituito scuole e parchi, ora chiusi. Hanno cercato di incrementare le consegne a domicilio, confondendosi nella schiera di runner che girano per le città, ma i controlli aumentati nelle strade e l’imposizione di viaggiare da soli hanno reso questo metodo difficile e rischioso. C’è, infatti, un elemento nuovo in questa situazione. Sino ad ora le mafie hanno sempre potuto contare su affari che coinvolgevano, anche in circostanze di emergenza, movimenti di materiali, di mezzi, di persone: dai terremoti, alle alluvioni, alle inondazioni. Per la prima volta si devono relazionare con l’isolamento, con il non-movimento delle persone, con l’immobilità. La domanda non è se di questo sapranno approfittare, ma come. Come riusciranno a trarre vantaggio dalle code infinite per entrare al supermercato, dalla difficoltà (per non dire impossibilità) di fare la spesa online, dalle mascherine e dai disinfettanti introvabili, dalla perdita di lavoro che sta interessando il settore della ristorazione e del commercio in un Paese già segnato dalla disoccupazione? Per osservare l’ultima epidemia che ha visto il crimine organizzato arricchirsi, bisogna andare indietro al 1884, quando Napoli fu devastata dal colera. Più del 50% dei decessi si registrò a Napoli. Affinché una simile strage non accadesse più, il Parlamento italiano approvò una legge per il risanamento della città di Napoli e stanziò 100 milioni di lire per le opere di bonifica. Da quel risanamento guadagnarono tutti: appaltatori corrotti e senza scrupoli, ditte che vincevano le gare al ribasso per poi eseguire lavori incompleti o di cattiva fattura, politici alleati delle famiglie di camorra. Tutti, tranne la città di Napoli. La relazione della Commissione d’inchiesta di Giuseppe Saredo del 1900 parlava già allora di un’opera di “alta camorra”. Fu una speculazione così evidente che lo storico Pasquale Villari arrivò a dire: “Meglio il colera che il Risanamento”. Ogni emergenza ha visto la criminalità organizzata sempre in prima linea. Durante la peste del ‘600 - raccontata da Salvatore De Renzi - l’aristocrazia, che non riusciva più a gestire l’emergenza in città, dovette fare accordi con le bande criminali, una sorta di proto-camorra che prese in carico vari servizi, dal controllo delle strade alla gestione dei cadaveri. Anche il settore agricolo, se non protetto dalla speculazione, rischia il collasso e la totale invasione criminale. Esiste un precedente. Come scrive Piero Grima raccontando il colera in Sicilia nel 1867, i prodotti agricoli scarseggiavano perché la manodopera malata o terrorizzata non lavorava più nei campi. La mafia rurale decise di intervenire proponendo un patto ai proprietari terrieri: fornire lavoratori (che venivano costretti con minacce e ricatti, o scelti tra quelli più affamati e disposti a tutto) in cambio di pezzi di latifondo. Questo accadeva 150 anni fa. Ma cosa potrebbe accadere oggi a una filiera in cui i clan sono già presenti dai mercati ortofrutticoli al trasporto sino al controllo della manodopera? Il rischio è che finiscano per decidere loro prezzi e modalità. E cosa accadrà dopo, quando l’emergenza sanitaria sarà finalmente passata? Come i migliori manager, le mafie stanno pensando anche a questo. Per ogni imprenditore sano che sta rischiando di chiudere il proprio ristorante o il proprio negozio, c’è un clan che è pronto a intervenire per strozzare o rilevare. Se lo Stato non agisce sin d’ora sulle aziende in crisi, se attenderà una fase di minore allarme, sarà tardi, tardissimo. Dove il coronavirus non arriverà, arriveranno le mafie. Uno Stato che nel giro di un paio di settimane ha invitato prima a chiudere, poi a sdrammatizzare e far girare l’economia, e poi di nuovo a barricarsi in casa è uno Stato debole, facilmente preda di qualsiasi forma organizzata il cui principio di autorità è ottenuto tramite violenza e danaro pagato subito. Anche l’Europa si è dimostrata totalmente impreparata. Le mafie non rispettano i confini, non sono spaventate dalla sospensione di Schengen, anzi, dalla chiusura ermetica dei confini traggono vantaggio perché hanno i mezzi per arrivare ovunque e fare della chiusura un’opportunità. Questa Europa ha tradito completamente le aspettative e i sogni dei padri fondatori. Alla prima occasione di emergenza ci troviamo in una situazione in cui le gelosie nazionali impediscono la possibilità di avere una piattaforma comune per valutare la pandemia. L’Europa oggi sembra anche voltare le spalle al buonsenso e all’unico modo che abbiamo per salvarci la vita: condividere tutto. Questa Europa, così com’è, finirà probabilmente con il coronavirus, perché dopo tanta sofferenza, dopo la paura, dopo l’impossibilità che l’essere umano sta avendo di esserlo pienamente, forse nascerà qualcosa di diverso. Ora è il tempo dell’emergenza, l’imperativo è sopravvivere. Esattamente in contemporanea con l’epidemia, si stanno muovendo profitti e interessi criminali: conoscerli è parte della sopravvivenza. Migranti. Il governo non aspetti il contagio nei Centri per occuparsene di Filippo Miraglia Il Manifesto, 23 marzo 2020 Immigrazione e coronavirus. La logica di contenimento, separazione e controllo che ha caratterizzato le politiche dell’accoglienza basate sull’emergenza, accentuatasi negli ultimi anni per ragioni politico-elettorali, rischia di ritorcersi pesantemente anche contro le comunità locali e di appesantire il nostro sistema sanitario già fortemente stressato. È quindi necessario intervenire con assoluta urgenza C’è bisogno di aspettare un focolaio di contagio in uno dei tanti centri per stranieri in Italia affinché il governo se ne occupi davvero? Abbiamo letto che al Viminale stanno studiando questa questione, che potrebbe diventare esplosiva se non s’interviene con urgenza e con efficacia. Non c’è tanto tempo. Anzi ci sembra di poter dire che è già tardi. I centri d’accoglienza straordinaria (Cas) per richiedenti asilo, così come tutti i grandi centri gestiti dal Viminale (Hub, Hotspot, Cara, Cpr), hanno ricevuto fino ad oggi raccomandazioni generiche per affrontare l’emergenza sanitaria. Ma le condizioni in cui si vive in questi centri non sono per nulla uguali a quelle delle normali abitazioni. Solo l’accoglienza diffusa, quella dell’ex Sprar, ora Siproimi, gestita dai comuni, in collaborazione con il terzo settore, si realizza in appartamenti inseriti nei contesti urbani e solo in questi casi l’emergenza può essere affrontata con le regole generali di sicurezza sanitaria definite dal governo, pur con la dovuta attenzione. Le scelte politiche sbagliate e strumentali, fatte dal Conte1 a trazione leghista, e ancora non modificate sostanzialmente dal Conte2, stanno drasticamente riducendo il ruolo e il numero dei posti in accoglienza diffusa (al 29 febbraio sono 23 mila su 86.600 posti), a favore dei Cas, che fanno capo alle Prefetture e che oggi rappresentano ancora la maggioranza dei posti che ospitano richiedenti asilo e rifugiati, pari a 63 mila (73%). La maggior parte di questi centri, ospita centinaia di persone, alle quali sono offerti servizi comuni e dove la distanza di sicurezza è impraticabile. Per queste persone, sia per quelle ospitate nelle strutture che per gli operatori e le operatrici, non sono sufficienti le indicazioni generali, ma servirebbero procedure specifiche e dispositivi individuali di sicurezza, come in altri luoghi analoghi. La logica di contenimento, separazione e controllo che ha caratterizzato le politiche dell’accoglienza basate sull’emergenza, accentuatasi negli ultimi anni per ragioni politico-elettorali, rischia di ritorcersi pesantemente anche contro le comunità locali e di appesantire il nostro sistema sanitario già fortemente stressato. È quindi necessario intervenire con assoluta urgenza. Una prospettiva, quella del contagio nei centri d’accoglienza, che fra l’altro verrebbe sicuramente usata per ridare fiato al razzismo di matrice leghista, sopito in questa fase, nella quale il Paese è obbligato a occuparsi di problemi drammaticamente reali, e quindi meno disponibile a dare ascolto alle sirene della destra razzista. Le istituzioni nazionali, governo e Parlamento, più volte avevano espresso la volontà di andare verso un sistema unico, che fosse basato sulla rete pubblica gestita dai Comuni, dove, pur con limiti e contraddizioni, la dignità delle persone è rispettata e ci si prende cura anche della relazione tra i beneficiari dell’accoglienza e le comunità che li ospitano. È il momento di rilanciare quell’obiettivo, come hanno chiesto già molti comuni, e avviare un processo inverso a quello favorito dagli interventi di Salvini, ripristinando lo Sprar (quindi consentendo ai richiedenti asilo di essere accolti nel sistema dei comuni), avviando un progressivo e urgente trasferimento da Cas a Sprar e quindi promuovendo l’istituzione di un sistema unico, che andrà certamente rivisto per superarne alcuni limiti e problematiche. Oltre alle criticità del sistema d’accoglienza, l’emergenza sanitaria e i provvedimenti assunti hanno determinato difficoltà e contraddizioni nelle procedure, che in questa fase sono sospese, salvo i provvedimenti di espulsione e di rinvio in altri Paesi Ue a seguito del Regolamento Dublino, peraltro impraticabili, dato il blocco della mobilità verso l’estero. L’accesso alla procedura asilo, che secondo le disposizioni del Viminale è ancora possibile, è al momento impedito in gran parte d’Italia, nonostante le raccomandazioni dell’Unhcr e si rischia così di lasciare per strada centinaia di persone che hanno diritto all’accoglienza. La crisi che ci troviamo ad affrontare evidenzia gli effetti drammatici che potrebbero avere le scelte sbagliate fatte nel recente passato e non solo. Sarebbe davvero imperdonabile non intervenire con urgenza ed efficacia per invertire questo stato di cose, sia con modifiche legislative possibili nella fase della conversione in legge del decreto sull’emergenza coronavirus, che con provvedimenti amministrativi che riparino i danni provocati dall’egemonia dell’ideologia razzista. *Responsabile Immigrazione Arci Nazionale Colombia. Almeno 23 detenuti morti in proteste legate al diffondersi del coronavirus ilpost.it, 23 marzo 2020 Almeno 23 persone sono morte in una delle più grandi prigioni di Bogotà, in Colombia, in quello che secondo le autorità del paese è stato un tentativo di evasione di massa causato dalle preoccupazioni dei detenuti per il coronavirus. La ministra della Giustizia Margarita Cabello ha detto che negli scontri legati alla tentata evasione sono rimasti feriti 83 detenuti nel carcere di La Modelo, ma altre proteste si sono svolte in diverse altre prigioni del paese. In Colombia ci sono 132 carceri che, scrive Bbc, potrebbero ospitare un massimo di 81mila detenuti ma ne ospitano invece almeno 120mila. Nel paese, i casi per ora individuati di contagio da coronavirus sono 231.