Lettera aperta a Marco Travaglio: Un pensiero infame da una “garantista alle vongole” di Ornella Favero Ristretti Orizzonti, 22 marzo 2020 Quando è scoppiato il caso della nave Aquarius e dei naufraghi respinti dall’Italia, lo scrittore Edoardo Albinati ha scioccato l’opinione pubblica affermando di aver “desiderato” che su quella nave morisse qualcuno, morisse un bambino, così sarebbe cessato il gioco cinico di scommettere sulla vita degli altri per propaganda elettorale. Un pensiero infame, lo ha definito lo scrittore stesso, uno di quei pensieri che ognuno di noi ha, ma di solito non dice. Ha scritto Marco Travaglio in questi giorni, a proposito di carceri e coronavirus, che già sente “gli strilli dei “garantisti” alle vongole, dei penalisti organizzati e dei radicali liberi” che chiedono di svuotare le carceri”. Io, da volontaria in carcere, immagino di appartenere alla categoria dei “garantisti alle vongole”, anche se francamente mi sembra da miserabili tentare di ridicolizzare le persone che hanno un’opinione diversa dalla propria. Travaglio, a proposito di un possibile ritorno a casa di un qualsiasi detenuto in detenzione domiciliare, parla tra l’altro di “effetto collaterale di far scontare la pena a moglie e figli che si erano finalmente liberati di lui”. C’è in queste parole disprezzo per i detenuti, e pazienza, ma anche per i famigliari, immaginando che il loro unico pensiero sia di liberarsi del loro caro recluso. Ecco allora il mio “pensiero infame”: Travaglio ha due figli, e se uno di loro finisse in carcere come il figlio di una madre che mi ha scritto in questi giorni?: “Mio figlio, 19 anni, è affetto da Disturbo Borderline di Personalità, è stato condannato per reati connessi al suo disturbo, è stato oltre un anno in carcere, all’Istituto Penale Minorile, in questi giorni mi ha fatto un quadro impressionante di come si sentono i detenuti ribelli: è gente che si è forzatamente abituata a pensare solo al momento presente (ADESSO mi tolgono il colloquio, non DOMANI posso ammalarmi), perché credono di non avere un futuro, alcuni per un fine pena lontanissimo, altri per non aver nulla di buono ad aspettarli fuori”. Che cosa gli direbbe, Travaglio, a un figlio in galera, gli racconterebbe la gioia di essersi finalmente liberato di lui e l’auspicio che se ne stesse in galera il più a lungo possibile? Ecco, io posso capire tutto, anche la tesi “In galera, in galera!” o l’illusione che in galera ci stiano solo i delinquenti per vocazione, ma l’irridere alle persone che hanno vissuto o stanno vivendo l’esperienza della detenzione, no. Persone, tra l’altro, che forniscono un’analisi dei disperati che hanno partecipato alle rivolte in carcere infinitamente più lucida e intelligente, a mio parere, della sua, che si limita a dire: “Chi le ha promosse ha preso a pretesto proprio una misura sanitario-profilattica del Guardasigilli e del Dap: la sospensione dei colloqui de visu per evitare che parenti infetti portino il virus fra le mura del carcere”. Per finire, non credo che chiunque conosca la realtà del carcere, rispetto alle misure prese in questi giorni nei confronti di chi viola le regole di “distanziamento sociale”, pensi che, come insinua Travaglio, l’ideona sia “mettere fuori mafiosi, assassini, stupratori, pedofili, trafficanti di droga e terroristi per metter dentro i passeggiatori abusivi”. No, non è questa l’ideona, ma per chi non rispetta le regole, e mette a rischio anche la nostra salute, forse sarebbe il caso di ricordare a tutti che non esiste solo la pena del carcere, e che prevedere e applicare pene alternative per reati meno gravi, invece di invocare sempre la galera, oltre a essere una politica più efficace, ci avrebbe quanto meno evitato il sovraffollamento attuale. Ma non siamo certo noi “garantisti alle vongole” a invocare sempre tanta galera, forse i “manettari” Travaglio li può più agevolmente trovare tra i suoi amici. Io personalmente per chi scherza con la salute degli altri proporrei di fare un giro nei Pronto Soccorso, o magari anche solo di parlare con qualcuno come quel ragazzo, Mattia, che di sé ha detto: “Giovane e sano, mi sentivo invincibile. Invece sto male”. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti Coronavirus, prorogato lo stop ai colloqui dei detenuti con i propri familiari Il Riformista, 22 marzo 2020 Il Garante nazionale: “Vigileremo su comunicazioni alternative”. “Mi rivolgo proprio a voi detenuti per dirvi che capisco la vostra contrarietà, ma vi assicuro che si stanno ampliando tutte le possibilità di comunicazione con i vostri cari, anche dotando gli istituti di telefoni cellulari disponibili, oltre che di mezzi per la comunicazione video”. Mauro Palma, Garante Nazionale dei detenuti, ha lanciato un appello alla popolazione carceraria che a causa dell’emergenza Covid-19 non potrà ricevere le visite dei propri familiari. Palma, commentando la proroga dello stop alle visite, assicura che i garanti nazionali e locali vigileranno sulle possibilità di comunicazione alternative, utili a contrastare la diffusione del contagio. Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Regione Campania, spiega che “si tratta, in questo momento, di una ragionevole decisione, senza alternative, al fine di garantire dignità e tutela della salute per tutti i cittadini e per coloro che sono dentro il carcere. Importante è raddoppiare tutti gli strumenti di prevenzione all’interno delle carceri e accelerare le procedure per quelli che possono uscire in detenzione domiciliare”. Ciambriello, nella nota, aggiunge “nello stesso provvedimento, concernente l’estensione del divieto di movimento generale, valido per tutti i cittadini e applicabile anche allo spostamento dei familiari dei detenuti” è prevista l’implementazione delle possibilità attraverso l’acquisizione di oltre 1.600 telefoni mobili ed il prossimo acquisito di ulteriori 1.600 cellulari da parte del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Tale acquisizione - spiega Ciambriello - incrementerà considerevolmente i colloqui a distanza che saranno possibili, oltre che con l’utilizzo di Skype, anche con le videochiamate da effettuarsi tramite le utenze mobili; la possibilità di effettuare i video-colloqui senza alcuna spesa per tutti i detenuti, anche se appartenenti al circuito alta sicurezza; l’incremento della corrispondenza telefonica, anche oltre il limite stabiliti dall’art 39 co. 2 del D.P.R. 230/2000, che sarà effettuata gratuitamente per i detenuti; la corrispondenza telefonica anche verso utenze mobili, che avverrà attraverso gli apparati mobili messi a disposizione dei detenuti; l’utilizzo senza costi del servizio di lavanderia; la possibilità di ricevere bonifici online; l’aumento dei limiti di spesa per ciascun detenuto”. A causa delle restrizioni imposte alle visite dei familiari, nelle carceri italiane, da Nord a Sud, si sono verificati tra domenica 9 e lunedì 10 marzo manifestazioni e rivolte. Nelle proteste sono morti 12 detenuti. Da TIM 1.600 cellulari e SIM alle carceri di tutta Italia per avvicinare i detenuti ai familiari La Stampa, 22 marzo 2020 Potranno parlare ed effettuare videochiamate con i propri cari, che non possono incontrare di persona per le restrizioni dettate dall’emergenza coronavirus. TIM, in collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - Ministero di Grazia e Giustizia, ha donato 1.600 cellulari e altrettante SIM agli Istituti Penitenziari italiani per sostenere e avvicinare i detenuti ai propri familiari in questo periodo di emergenza dovuto al Coronavirus. L’iniziativa consentirà ai detenuti di poter parlare ed effettuare videochiamate con i propri cari, considerate le restrizioni introdotte nei confronti della cittadinanza per ragioni sanitarie legate all’emergenza Covid 19. Gli apparecchi telefonici e le relative SIM sono state consegnate al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ai Provveditorati regionali che provvederanno a distribuirli al più presto agli Istituti Penitenziari del territorio di competenza. La collaborazione con il Ministero di Grazia e Giustizia annunciata oggi rientra nel più ampio progetto di TIM, Operazione Risorgimento Digitale. L’operatore telefonico ha di recente sottoscritto un protocollo d’intesa che ha il duplice obiettivo di creare competenze utili al reinserimento nella società dei detenuti e introdotto un piano di formazione rivolto non solo ai detenuti ma anche a tutti i dipendenti del Ministero. Trenta agenti e dieci detenuti positivi al Covid-19 rainews.it, 22 marzo 2020 “Purtroppo sono una trentina in tutta Italia gli agenti penitenziari e oltre una decina i detenuti positivi - sottolinea il segretario del Sindacato di Polizia Penitenziaria, Aldo Di Giacomo. Il lavoro del personale continua a svolgersi senza mascherina perché i direttori lo impongono per evitare - dicono - di creare ulteriore allarmismo nella popolazione carceraria”. E aggiunge - che dopo i disordini delle scorse settimane dovuti allo stop di visite ai detenuti da parte di parenti e amici come da nuove disposizioni: “Siamo di fronte ad una situazione di calma apparente e tanto meno sarà sufficiente l’arrivo del migliaio di nuovi agenti che dovrebbero essere formati e non mandati allo sbaraglio”. Screening per gli agenti penitenziari. È la richiesta avanzata dal Sappe “per la valutazione e l’individuazione della possibile contaminazione da coronavirus da parte degli operatori della polizia penitenziaria, esposti quotidianamente al rischio contagio nelle proprie attività di controllo della popolazione detenuta - sottolinea il sindacato della Polizia Penitenziaria in una nota - in violazione di quanto previsto dall’Oms: impossibile, ad esempio, rispettare la distanza di sicurezza tra persone e grave è la carenza di dispositivi di protezione”. Da qui, dunque, la richiesta di “valutare la possibilità di effettuare tampone nasofaringeo orofaringeo a tutti gli operatori della Polizia penitenziaria e a tutti gli operatori (sanitari e civili) che abbiano contatto giornaliero con la popolazione detenuta; test rapidi come l’antibody determination kit o comunque altri test rapidi autorizzati per lo screening del coronavirus, al fine di campagne di massa”. “Il problema dell’epidemia nel carcere non riguarda e non riguarderà solo il carcere, ma tutti noi. Siamo di fronte al rischio di un’epidemia esplosiva, a un 130 per cento di sovrappopolazione carceraria di media. Significa che ci sono istituti penitenziari che hanno una sovrappopolazione del 150-160 per cento, e non ci sono strumenti sanitari adeguati interni alle carceri. E allora, rispetto ad un’epidemia occorre capire come prevenire l’esplosione di una bomba atomica sanitaria che ricadrebbe sull’intera comunità”. Lo ha detto il presidente dell’Unione camere penali, Gian Domenico Caiazza. “Occorre prevenire il disastro - ha aggiunto Caiazza - noi come Camere penali abbiamo proposto l’applicazione di una legge che già esiste, ossia far scontare in detenzione domiciliare chi ha un residuo pena inferiore ai 18 mesi, semplificando la procedura dei tribunali di sorveglianza. Il Governo ha seguito questo suggerimento ma poi lo ha sorprendentemente condizionato all’applicazione del braccialetto elettronico e tutti sanno che i braccialetti elettronici non ce ne sono disponibili nel numero, nemmeno lontanamente necessario”. Garante detenuti: “Stiamo ampliando possibilità di comunicazione” - “Le misure restrittive adottate per contenere il dilagare dell’epidemia pongono, tra le altre, anche una grande difficoltà ai detenuti perché non potranno ricevere le visite dei propri congiunti”. Lo dichiara Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà, il quale rivolge un appello alla popolazione detenuta: “Mi rivolgo proprio a voi detenuti per dirvi che capisco la vostra contrarietà, ma vi assicuro che si stanno ampliando tutte le possibilità di comunicazione con i vostri cari, anche dotando gli istituti di telefoni cellulari disponibili, oltre che di mezzi per la comunicazione video. Tutti noi garanti, nazionale e locali, controlleremo che queste possibilità siano effettive. E siamo disponibili a spiegare negli Istituti che questa situazione è una necessità per difendere la salute di tutti: la vostra, quella dei vostri cari e di chi in carcere lavora e anche di tutti noi”. Magistratura Indipendente: “Provvedimenti governo rischiano di risultare inadeguati” - I provvedimenti assunti dal Governo per fronteggiare l’emergenza da contagio Covid-19, e riguardanti la situazione delle carceri, “rischiano di risultare, alla prova dei fatti, del tutto inadeguati”. Lo sottolineano i vertici di Magistratura Indipendente. “La platea dei potenziali destinatari è costituita, in larga parte, da detenuti che, espiando brevi pene detentive residue, avrebbero già potuto accedere alle misure esistenti, sottolinea Magistratura Indipendente: se questo non è accaduto, è perché si tratta, in genere, di detenuti già ritenuti pericolosi, o senza risorsa alcuna in ambiente extra-murario, ai quali dunque neppure il nuovo rimedio sarà applicabile. La concessione della nuova misura dipende poi - escluse le sole pene minime - dall’effettiva messa a disposizione dei braccialetti elettronici, “già in passato rivelatasi una criticità insuperabile”, ricorda Magistratura Indipendente. Medici penitenziari: “Senza strumenti di protezione, temiamo per nostra incolumità” di Gabriele Laganà Il Giornale, 22 marzo 2020 L’allarme sulla mancanza di Dpi per affrontare l’emergenza coronavirus è stato lanciato da Franco Alberti, coordinatore nazionale Fimmg Settore medicina penitenziaria. Il lavoro nelle carceri italiane è già molto complicato a causa del clima di forte tensione provocato dal sovraffollamento delle strutture e da episodi di violenza compiuti dai detenuti. Questa situazione già complicata rischia ulteriormente di aggravarsi a causa dell’emergenza coronavirus. A lanciare l’allarme è il coordinatore nazionale Fimmg (Federazione italiana medici di famiglia) Settore medicina penitenziaria, Franco Alberti, che ha sottolineato come la realtà già critica negli istituti penitenziari dovuta ad “aggressioni fisiche e rischi biologici ai quali è esposto il personale sanitario che vi opera” ora sta peggiorando. “Le criticità - ha proseguito Alberti - si sono poi manifestate in maniera drammatica in questi ultimi tempi con i noti episodi di rivolta dei detenuti in vari istituti penitenziari italiani che hanno visto coinvolto in prima persona il personale sanitario che vi opera sfociato nel sequestro del personale medico e altro nel carcere di Melfi, passato inosservato o sminuito dagli organi di stampa”. Secondo lo stesso coordinatore nazionale Fimmg Settore medicina penitenziaria questo clima attualmente è esacerbato “dalla non gestione da parte del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dell’infezione da coronavirus”. Alberti ha anche dichiarato che in alcune carceri si è arrivati a vietare l’uso delle mascherine protettive “perché genererebbero un clima di pericolosità all’interno”. Ma, considerata la grave situazione sanitaria legata all’infezione, il coordinatore Fimmg ha chiesto agli origani competenti di tutelare il personale che ora “teme per la sua incolumità personale e per il clima che si respira all’interno degli istituti” Alberti ha spiegato che molti lavoratori operano con pochi, o addirittura nessuno, dei Dpi. Inoltre, di eseguire i tamponi non se ne parla e, non per ultimo, c’è difficoltà di isolamento per i casi sospetti di coronavirus o di soggetti provenienti “dalla libertà o da altri istituti a seguito di trasferimenti per i noti fatti di cronaca”. Il timore è che in queste condizioni non si riesca ad affrontare una eventuale emergenza sanitaria. “Tutto tace - ha continuato Alberti - non ci si rende conto che qualora in un istituto si verifichino positività per il coronavirus vista la promiscuità e gli spazi ristretti dove sono costretti a vivere si verificherebbe una situazione veramente tragica”. Una eventualità, questa, che sarebbe davvero drammatica e difficilmente gestibile. Per questo, il coordinatore Fimmg ha spiegato come sia necessario intervenire subito per evitare una situazione del genere: “Con forza chiediamo che ci vengano dati gli strumenti adatti anche per salvaguardare gli operatori sanitari, che cominciano a scarseggiare perché un lavoro non ambito in quanto precario dal 2008 momento del passaggio al SSN, ancora in attesa di un contratto nazionale, di un riconoscimento del lavoro di tipo particolare (sottolineato da numerose sentenze e dalla Corte Costituzionale), sottopagati e scarsamente tutelati”. Lo stesso Alberti ha concluso affermando che “in questo clima in cui vengono richiesti medici nelle strutture pubbliche è da temere una fuga all’esterno con conseguenze facilmente intuibili. Siamo consapevoli delle responsabilità che ci assumiamo durante il nostro lavoro e per questo ripetiamo con forza dateci gli strumenti per operare e nello stesso tempo e si arrivi a un inquadramento giuridico economico adeguato”. L’appello lanciato da Franco Alberti è stato raccolto da Farmindustria che ha aderito alla campagna di raccolta fondi lanciata da @FimmgNazionale e @Cittadinanzattiva per acquistare i “dispositivi di protezione collettiva”. Tanti medici di medicina generale impegnati a fronteggiare l’emergenza coronavirus operano ancora con pochi o del tutto privi di dispositivi di protezione individuale. Pertanto, Fimmg e CittadinanzAttiva, come si legge nella nota di lancio della campagna, “in attesa che le Aziende sanitarie si ricordino di loro, hanno deciso di lanciare questa raccolta fondi perché non si può attendere oltre: è fondamentale garantire protezione alle migliaia di sanitari che operano quotidianamente in prima linea”. A questo scopo è stato deciso di raccogliere fondi per l’acquisto di Dpi da distribuire a tutti i medici di famiglia impegnati sul territorio, partendo da quelli nelle zone attualmente più interessate dall’emergenza. Gli stessi dispositivi sono fondamentali, si legge ancora nel documento, “per continuare a garantire l’assistenza, per la protezione stessa dei pazienti che accedono agli studi medici e per quelli più fragili che necessitano di visita a domicilio”. Carceri, il Governo teme nuove rivolte con l’appoggio di gruppi anarchici di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 22 marzo 2020 Il capo della polizia Franco Gabrielli lancia l’allarme sul rischio di nuove rivolte nelle carceri italiane. Questa volta con l’aggravante di un possibile appoggio esterno da parte delle famiglie dei detenuti e di gruppi anarchici. Al Capo della Polizia Franco Gabrielli basta una nota stringata per lanciare l’allarme sul rischio di nuove rivolte nelle carceri italiane. Questa volta - rispetto a quelle scoppiate due settimane fa - con l’aggravante di un possibile appoggio esterno da parte delle famiglie dei detenuti e di gruppi anarchici. Divieto di colloqui - La missiva del Capo della Polizia, datata 20 marzo - e indirizzata ai prefetti, ai questori, all’Arma dei Carabinieri, della Gdf, Polizia di prevenzione e direzione centrale anticrimine ma non al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e ai direttori degli istituti di pena - fa seguito alla decisione del Governo di prolungare il divieto di colloqui tra detenuti e loro familiari. Il divieto sarebbe scaduto il 23 marzo. La nota della Polizia - Nella nota del Dipartimento per la pubblica sicurezza del Viminale si legge che “non si può escludere che la circostanza (divieto di colloqui, ndr) possa innescare nuove eclatanti contestazioni dei detenuti, cui potrebbero aggiungersi iniziative esterne da parte dei familiari, con il convergente interesse delle diverse anime del movimento anarchico, già protagonista di campagne anti carcerarie, culminate in manifestazioni estemporanee ed azioni improntate all’illegalità”. Il Dipartimento per la pubblica sicurezza invita prefetti e questori a dare impulso all’attività informativa al fine di acquisire notizie utili a calibrare l’attività di governo e di gestione dell’ordine pubblico. In particolare prefetti e questori sono invitati ad adottare da subito misure adeguate per prevenire assembramenti all’esterno degli istituti penitenziari (anche per rispettare le regole imposte dall’emergenza coronavirus). La voce del sindacato - Il timore del Viminale sembra essere condiviso da alcuni sindacati di categoria. “Anche nelle carceri del Sud la situazione è a limite della sopportazione e giorno per giorno diventa carica di tensioni. Qualcuno evidentemente si illude che nelle carceri è tornata la calma, ma purtroppo non è così” ha dichiarato, in una nota, il segretario generale del Spp (Sindacato di polizia penitenziaria), Aldo Di Giacomo. “Siamo di fronte - ha aggiunto - ad una situazione di calma apparente e tanto meno sarà sufficiente l’arrivo del migliaio di nuovi agenti che dovrebbero essere formati e non mandati allo sbaraglio”. Carceri e coronavirus. Antigone: per gestione ordinaria fuori 10 mila detenuti agi.it, 22 marzo 2020 Per arrivare a una “gestione ordinaria” nei penitenziari, servirebbe una diminuzione della popolazione carceraria pari almeno a 10 mila detenuti. Questa la previsione di Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio di Antigone, il quale fa notare che, in tal modo, si arriverebbe ai numeri “della capienza regolamentare”. In carcere, oggi, ci sono più di 59 mila detenuti - qualche giorno fa erano oltre 61 mila - a fronte di circa 50 mila posti disponibili. “Non possiamo stimare quale sia il numero per garantire la sicurezza in questa fase di emergenza sanitaria - afferma Scandurra interpellato dall’Agi - così come il governo al momento non sa quanto debbano restare chiuse le scuole. È chiaro però che in un ambiente sovraffollato, in condizioni igieniche precarie e con tante persone con patologie la situazione può essere molto grave”. Se non vi fossero braccialetti elettronici disponibili, il bacino di detenuti che potrebbero accedere alle misure sulla detenzione domiciliare previste dal decreto Cura Italia è di “circa due-tremila”, osserva Scandurra, “tenuto conto che sono 4 mila le persone in carcere per scontare pene inferiori ai 6 mesi. Sarebbe importante - sottolinea il coordinatore dell’osservatorio di Antigone - anche pensare in modo mirato a coloro che sono particolarmente a rischio per situazioni sanitarie: al momento abbiamo registrato una sensibilità dei magistrati di sorveglianza su questo punto”. Emergenza carceri: secondo giorno di silenzio di Conte e Bonafede camerepenali.it, 22 marzo 2020 Ancora nessuna risposta dal Presidente del Consiglio e dal Ministro della Giustizia alle domande poste dall’Unione delle Camere Penali Italiane sul pericolo pandemia nelle carceri. Eppure si tratta di quesiti semplici: 1. Quale numero di detenuti avete preventivato possa beneficiare, nei prossimi giorni, di una detenzione domiciliare con braccialetto elettronico? 2. Quanti dispositivi vi risultano disponibili effettivamente, cioè al netto delle misure cautelari domiciliari con braccialetto attualmente in atto? Dopo la presa di posizione del Consiglio d’Europa, che ancora ieri invitava i governi ad alleggerire le condizioni di sovraffollamento, oggi il governo francese dichiara che saranno sospesi gli ordini di carcerazione per le pene brevi e annuncia il ricorso automatico a modalità alternative di espiazione per i detenuti per i reati meno gravi. In Italia l’associazione Magistratura Indipendente ed il coordinamento dei magistrati di sorveglianza richiedono con forza misure che consentano l’espiazione in detenzione domiciliare di pene brevi. Nel frattempo, il direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nel comunicare che saranno incrementati gli apparecchi telefonici per i colloqui tra detenuti e familiari, informa che ancora non sono stati adottati piani sanitari per affrontare le emergenze nei singoli istituti penitenziari. Signor Presidente del Consiglio, signor Ministro della Giustizia continueremo ogni giorno a chiedervi conto del perché il governo non adotti i provvedimenti richiesti da tutti gli operatori e auspicati anche dalle istituzioni internazionali per affrontare il pericolo del contagio nel carcere. La Giunta dell’Unione Camere Penali Italiane “La mafia un cancro per la società che sconfiggeremo” di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 22 marzo 2020 Appello di Mattarella nella giornata per le vittime della criminalità. Iniziativa di Libera: un fiore sul web. Al 21 marzo, giorno di primavera, anche in questo difficile anno è un giorno di speranza che dobbiamo far valere contro chi la speranza vuole sottrarre”, ha scritto ieri il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione della Giornata della Memoria di tutte le vittime innocenti delle mafie. “Le mafie cambiano le forme, i campi di azione, le strategie criminali - parole durissime quelle del Capo dello Stato. Si insinuano nelle attività economiche e creano nuove zone grigie di corruzione e complicità. Sono un cancro per la società e un grave impedimento allo sviluppo”. Così, il presidente si rivolge al Paese: “Occorre vigilanza, e la consapevolezza deve farsi cultura. il ricordo si lega a un impegno civile: quelle testimonianze, quegli esempi indicano un percorso di civiltà. Occasioni come queste ci aiutano a riflettere insieme. Sconfiggeremo ed estirperemo le mafie. Con l’azione delle istituzioni, con la coesione delle comunità, con il protagonismo dei cittadini”. Una giornata speciale: “Oggi - sottolinea, Mattarella - ricordiamo le donne e gli uomini che hanno pagato con la vita l’impegno coerente, la fedeltà alle istituzioni repubblicane, la libertà di sottrarsi al ricatto criminale e al giogo violento della sopraffazione. Questa Giornata della Memoria è nata nella società civile, tra i giovani che vogliono costruire il loro futuro nella dignità e nella legalità che, sola, può garantire il rispetto e la parità dei diritti delle persone. Il Parlamento, opportunamente, ha poi deciso di dare a questo giorno la solennità di una ricorrenza”. Neppure il Coronavirus ferma il ricordo: “L’emergenza sanitaria che stiamo affrontando impone quest’anno di rimandare il momento in cui si leggeranno, nelle piazze d’Italia, i nomi delle vittime, dei martiri, dei servitori dello Stato che la disumanità mafiosa ha strappato ai loro cari e a tutta la società - conclude il capo dello Stato. Ma quei nomi, tutti i nomi, sono impressi nella nostra storia e nulla potrà cancellarli”. E dunque, rispettando l’invito a restare a casa per combattere il contagio, per la prima volta dopo 25 anni non si è tenuta la manifestazione nazionale programmata a Palermo così come gli altri incontri previsti nelle piazze di tutta Italia. Sulla pagina Facebook di Libera, però, don Luigi Ciotti ha espresso parole di gratitudine per la “piazza virtuale dei social” che si è comunque mobilitata per ricordare “i 1.023 nomi delle vittime innocenti”. I promotori (le associazioni Libera e Avviso Pubblico) hanno celebrato la ricorrenza attraverso il web con la campagna “Un nome, un fiore”. Caso Cucchi, il pm: no alle attenuanti generiche per i carabinieri condannati di Maria Elena Vincenzi La Repubblica, 22 marzo 2020 La procura di Roma ha deciso di impugnare la sentenza con la quale la corte d’assise ha condannato i due miliari dell’Arma a 12 anni per il pestaggio subito da Stefano Cucchi la sera tra il 15 e il 16 ottobre del 2009. Ilaria Cucchi: “Sono d’accordo”. No alle attenuanti generiche. Con questa richiesta la procura di Roma ha deciso di impugnare la sentenza del novembre scorso con la quale la Corte d’assise ha condannato i due carabinieri Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo a 12 anni di reclusione per omicidio preterintenzionale in relazione al pestaggio subito da Stefano Cucchi la sera tra il 15 e il 16 ottobre del 2009, quando venne arrestato per detenzione di stupefacenti e portato in caserma. Pestaggio da cui scaturirono lesioni così gravi che portarono alla morte, appena 6 giorni dopo, il geometra di 31 anni nel frattempo ricoverato nel reparto detenuti dell’ospedale Pertini. La procura contesta che ai condannati siano state concesse le attenuanti generiche, il cui riconoscimento ha contribuito a mantenere più basse le condanne. “Non posso non essere d’accordo” fa sapere Ilaria Cucchi che ha diffuso la notizia con un post su Facebook. La corte d’assise aveva concesso le attenuanti anche al maresciallo Roberto Mandolini (comandante della stazione Appia dove venne portato e picchiato Cucchi) condannato a 3 anni e otto mesi per falso per aver contribuito a manomettere le relazioni di servizio e nascondere che c’era stato un pestaggio. In sede di requisitoria, nell’udienza del 3 ottobre 2019, il pm Giovanni Musarò aveva sollecitato le condanne degli imputati definendo le loro pene “non esemplari ma giuste”. In particolare, il rappresentante della pubblica accusa aveva chiesto alla corte di assise di infliggere 18 anni di carcere a Di Bernardo e D’Alessandro, e 8 anni a Mandolini. Campania. Coronavirus: prosegue lo stop ai colloqui, 194 cellulari per i detenuti Il Mattino, 22 marzo 2020 “Sono 194 i cellulari che sono stati distribuiti negli istituti penitenziari della Campania e il provveditorato sta valutando alcune iniziative di potenziamento della dotazione che consentirà ai detenuti di potersi mettere in collegamento ancora più agevolmente con i propri familiari”. Lo rende noto il provveditore per le carceri della Campania Antonio Fullone. “Le normative nazionale e regionale tese a fronteggiare l’emergenza coronavirus - ha detto Fullone - hanno indotto il Ministero della Giustizia ad armonizzarsi”. La data di ripristino dei colloqui in carcere, fissata per lunedì prossimo, è stata procrastinata e il Dap ha distribuito 1600 cellulari donati dalla Tim in tutti gli istituti penitenziari italiani. Fu proprio la sospensione dei colloqui a determinare le violente rivolte nelle carceri di mezza Italia nelle scorse settimane. “Stiamo valutando l’adozione di una interessante piattaforma di collegamento in videoconferenza - spiega Fullone - che dovrebbe consentirci già dalla prossima settimana l’implementazione del sistema ed agevolare ulteriormente i colloqui a distanza che finora sono stati sostenuti attraverso skype, un sistema non strutturato per sostenere i carichi attuali”. Modena. Detenuti morti, il Garante nazionale si costituisce come persona offesa Il Resto del Carlino, 22 marzo 2020 Intanto la Camera penale promuove un progetto alternativo al carcere insieme a Porta Aperta. Sono ancora in corso gli accertamenti volti a far luce sui nove detenuti deceduti all’interno del carcere Sant’Anna o durante il trasferimento in altri penitenziari a seguito della maxi rivolta. Nei giorni scorsi sono state effettuate le autopsie e nel caso delle cinque salme recuperate all’interno dello stesso penitenziario pare sia confermata l’ipotesi iniziale: ovvero decesso a seguito di overdose da farmaci. Alle indagini però partecipa come persona offesa il garante delle persone private della libertà personale, Mauro Palma che sta procedendo alla nomina del proprio difensore, oltre che di un proprio consulente medico legale per l’analisi degli esiti autoptici. Venerdì il garante si è recato nell’altro carcere dove ci sono stati tre morti, quello di Rieti, e dove si sarebbero verificate dopo la rivolta presunte violenze contro le persone detenute secondo una lettera di denuncia che gli è pervenuta. Qui Palma ha avuto l’opportunità di esaminare i dati delle tre persone decedute, sulla cui morte è stata avviata l’indagine dalla competente procura della Repubblica. “Resta aperto il tema, per ora per nulla toccato - ha dichiarato - di ridurre il ricorso alla custodia cautelare in carcere e di rivalutare rispetto a quelle già applicate la permanenza della necessità della misura detentiva in carcere piuttosto che nel proprio domicilio”. A tal proposito arriva una proposta degli avvocati della camera penale a fronte della maxi rivolta dello scorso otto marzo: trovare una collocazione esterna al carcere. L’ipotesi è quella di alloggiare i detenuti nella struttura di via delle Costellazioni. Come noto, infatti, l’inagibilità del sant’Anna sta costringendo l’amministrazione penitenziaria a trasferire la popolazione carceraria in altre strutture d’Italia. La camera penale fa presente come, al momento, il penitenziario sia popolato da un numero esiguo di carcerati che hanno già in corso o sono in procinto di ottenere misure finalizzate a dare piena attuazione all’articolo 27 Costituzione, con percorsi rieducativi e risocializzanti quali il lavoro esterno, la semilibertà e le altre misure alternative. Da qui il progetto dell’associazione di volontariato Porta Aperta e della Camera penale che propone di consentire ad altri detenuti di intraprendere percorsi esterni al carcere, attualmente preclusi a causa della emergenza in cui versa l’istituto e dell’emergenza coronavirus. Il progetto nuova Dimora, come spiega l’avvocato Francesco Muzzioli, è finalizzato a creare opportunità alloggiative per le persone private della libertà che si trovano in regime di lavoro all’esterno o in regime di semilibertà o già ammesse ad altre misure alternative. Porta Aperta è riuscita a ricavare circa 30 posti letto. Modena. Paura virus e controlli per 80 detenuti rimasti Gazzetta di Modena, 22 marzo 2020 A Sant’Anna restano ancora circa ottanta detenuti. Sono rinchiusi nell’ultima ala rimasta indenne dalla devastante rivolta dell8 marzo che come un uragano ha distrutto la casa circondariale. I familiari e difensori dei detenuti spiegano all’unisono che il timore dei carcerati è di non avere alcuna notizia sulla situazione sanitaria per l’emergenza coronavirus. Nessuno li ha informati né si sa se vengono svolti controlli prima che vengano trasferiti. In quella fase, infatti (come conferma anche le fonti della polizia penitenziaria), i detenuti vengono fatti passare nel tendone azzurro del triage all’ingresso del carcere (lo stesso trattamento vale anche per chi entra), dove si trova anche un presidio mobile della Croce Rossa. I trasferimenti continuano senza sosta ogni volta che si trovano celle disponibili in tutta Italia. Bologna. Quattro positivi al Covid-19 nel carcere della Dozza di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 22 marzo 2020 La voce insistente non è stata ancora confermata dalle istituzioni: si tratterebbe di un medico, due infermieri e una guardia. Solo uno sarebbe stato ricoverato. Tre sanitari e almeno una guardia penitenziaria in servizio al carcere della Dozza sarebbero risultati contagiati dal coronavirus. La notizia circola da almeno 36 ore in ambienti penitenziari e sta creando non poco allarme tra agenti e detenuti. Il contagio da “Covid 19” non è stato smentito (anche se neppure confermato) né dall’Ausl di Bologna né dalla direzione del carcere che stanno tenendo tutte le cautele del caso, anche alla luce della rivolta dei detenuti del 9 e 10 marzo scorso. La notizia circola da almeno 36 ore in ambienti penitenziari e sta creando non poco allarme tra agenti e detenuti. Il contagio da “Covid 19” non è stato smentito (anche se neppure confermato) né dall’Ausl di Bologna né dalla direzione del carcere che stanno tenendo tutte le cautele del caso, anche alla luce della rivolta dei detenuti del 9 e 10 marzo scorso. Dopo le devastazioni della sezione giudiziaria, si temono insomma nuove tensioni. Secondo quanto affiora da fonti sindacali (anche loro ancora a secco di conferme ufficiali) i sanitari impegnati negli ambulatori della Dozza e risultati positivi sarebbero tre. E più esattamente un medico e due infermieri. In un caso è stato necessario il ricovero in ospedale, in un altro si è registrata soltanto una febbre, mentre la terza persona sarebbe completamente asintomatica. Asintomatico anche l’agente della penitenziaria. Nei casi in cui non è stata necessaria l’ospedalizzazione si è ricorso comunque alla quarantena. Bologna. La denuncia di un agente: “Contagi e sicurezza, situazione drammatica” La Repubblica, 22 marzo 2020 Il coronavirus è entrato anche nel carcere di Bologna, secondo una guardia penitenziaria sarebbero 4 le persone risultate positive all’interno della struttura: “Due medici, un dottore e una guardia penitenziaria che durante le rivolte dei giorni scorsi hanno avuto contatti diretti sia con il personale che con i detenuti, rischiamo di essere tutti contagiati”. Preoccupazioni condivise dal Sinappe: “Vogliono fare 40 tamponi a campione tra il personale, mentre gli agenti chiedono sia fatto un screening di massa all’interno dell’istituto”. La situazione all’interno della struttura penitenziaria, messa in subbuglio dopo le rivolte della scorsa settimana “è drammatica, i detenuti non sanno dei casi di contagio, è una bomba ad orologeria pronta ad esplodere, perché da tempo chiedevano un piano di sicurezza sanitaria che qui non esiste - rivela l’agente penitenziario- non ci sono i Dpi (dispositivi di protezione individuale) ci hanno dato delle mascherine di carta che come rivela il foglietto illustrativo, non proteggono le vie respiratorie ed è stata montata una tenda della Protezione civile per il pre-triage, dovrebbero misurare la febbre a chiunque entri in carcere, invece è vuota”. Foggia. Detenuti trasferiti dopo l’evasione di massa. I familiari disperati: “Dove sono?” foggiatoday.it, 22 marzo 2020 Le famiglie dei detenuti si rivolgono alle associazioni e denunciano: “Ci stanno arrivando testimonianze da brividi, attraverso lettere, da parte dei nostri cari, si segnalano violenze di ogni genere. Cosa sta succedendo?”. L’eclatante protesta del 9 marzo al carcere di Foggia, l’evasione di massa, la paura in città. Poi le prime catture degli evasi, la caccia all’uomo (non ancora terminata) e i trasferimenti dei detenuti presso altre strutture penitenziarie. In attesa della cattura degli ultimi tre fuggitivi, sembrava essersi chiuso il cerchio sulla vicenda che visto protagonista la struttura di via delle Casermette. Invece, a riaccendere i riflettori sulla gestione dell’emergenza sono i familiari dei detenuti che si rivolgono all’associazione Yairaiha, che difende i diritti dei carcerati, per chiedere ascolto e denunciare alcune anomalie. “Siamo un gruppo numeroso di familiari di persone recluse, fino ad una settimana fa, nel carcere di Foggia. Quello che chiediamo è solo ascolto, proveremo ogni tentativo per dare voce alle nostre paure, alle nostre preoccupazioni ma soprattutto ai nostri diritti. Come ben sapete, il giorno 9 marzo c’è stata una rivolta all’interno del penitenziario di Foggia, cominciata già in maniera pacifica la sera precedente; la rivolta è degenerata con danni all’interno ed evasioni, e su questo potremmo soffermarci a lungo poiché le anomalie sono tante, non ci spieghiamo come sia stato possibile non riuscire a contenere una rivolta cominciata la sera prima arrivando a conseguenze di questo tipo”, si legge nella lettera denuncia. “Premettiamo che chi sbaglia paga e non giustifichiamo quello che i nostri parenti detenuti abbiano fatto! Ora la cosa che più ci sta facendo soffrire, e di cui vogliamo fare chiarezza, è la questione dei trasferimenti fatto il giorno 12 marzo. A distanza di una settimana molti di noi non hanno notizie dei propri familiari, molti non hanno ricevuto gli indumenti e addirittura molti sono messi in isolamento senza la possibilità di comunicare con la propria famiglia. Ci stanno arrivando testimonianze da brividi, attraverso lettere, da parte dei nostri cari, si segnalano violenze di ogni genere, abbiamo tra l’altro saputo che la mattina dei trasferimenti sono stati trasportati con pigiami e scalzi senza l’opportunità di potersi mettere una tuta e un paio di scarpe”. Palermo. “Ditemi come sta mio padre”, lettera del figlio di un detenuto al Pagliarelli palermotoday.it, 22 marzo 2020 Così Angelo Testa, di San Severo, in provincia di Foggia: “Da giorni non ho notizie di mio padre, so soltanto che è stato trasferito a 780 chilometri da casa sua, al Pagliarelli”. Una lunga lettera per “lanciare un messaggio rivolto a tutti, alla polizia penitenziaria, alla procura, ai magistrati, a quanti più mi possano sentire”. Lui si chiama Angelo Testa ed è di San Severo, un comune di 50 mila abitanti in provincia di Foggia. Attraverso una lettera ha voluto raccontare “una storia vera, di cui nessun giornale ha parlato”. Quella di suo padre, detenuto adesso nel carcere di Palermo. L’uomo si trovava recluso a Foggia durante la guerriglia dello scorso 9 marzo, poi è stato trasferito al carcere di Melfi. Quindi è finito a Palermo. “Mi chiamo Angelo Testa, vengo da San Severo in provincia di Foggia e sono figlio di un uomo detenuto nel carcere di Melfi. A quanto ne dicano i giornali e la procura è ritenuto noto elemento di spicco della criminalità locale, per me è semplicemente mio padre, il nonno di mio figlio, un marito amorevole e un cittadino italiano. Oggi, attraverso questa lettera, voglio lanciare un messaggio rivolto a tutti, alla polizia penitenziaria, alla procura, ai magistrati, a quanti più mi possano sentire. Voglio parlarvi di una storia vera, di cui nessun giornale ha parlato. Una storia di uomini che sono stati massacrati, presi a sprangate nella casa circondariale di Melfi. Torniamo ai giorni della rivolta, quando i detenuti di tutta Italia si sono ribellati a causa della sospensione dei colloqui per l’emergenza sanitaria, e per le scarse condizioni igieniche delle strutture. Parte di loro non aveva partecipato alla rivolta, così come mio padre, essendo in età avanzata e per nulla amante degli scontri e della violenza. Eppure lui, insieme ad altri 71 uomini, sono stati portati via con pigiama e ciabatte senza neanche avere la possibilità di portare i propri vestiti. Attualmente sono stati trasferiti presso altre strutture. Oggi sono arrabbiato, mi chiedo come sia possibile che tutto questo avvenga nel silenzio più assordante, nessun servizio al telegiornale, nessun articolo, nessuno che ne stia parlando. Da due giorni non ho notizie di mio padre, so soltanto che è stato trasferito a 780 chilometri da casa sua, a Palermo nell’istituto penitenziario Pagliarelli; so che è arrivato la sera del 17 marzo, ma non conosco le sue condizioni di salute, non so se sta bene, non ho possibilità di telefonargli e neanche il nostro legale riesce a mettersi in contatto con lui. Condanno fortemente i gesti di rivolta che ho visto in televisione. Volevano farsi sentire, ma ho disprezzato la piega violenta della situazione. I detenuti non sono tutti dei mostri, mio padre è in attesa di processo, se ha delle colpe pagherà, ma tutto quello che ho letto riguardo i disordini so che non gli appartiene. Ma perché, mi chiedo, perché ancora una volta non si fa più distinzione, i detenuti hanno delle colpe ma sono esseri umani, qui fuori ci sono delle famiglie che soffrono lentamente aspettando il loro ritorno. Perché a causa dei soggetti che hanno causato la rivolta devono pagare tutti? Perché i giornali non parlano di quello che hanno fatto la notte del 16 marzo nel carcere di Melfi? Perché nessuno ne sta parlando? Perché state vietando di far chiamare il detenuto a casa dopo due giorni dal trasferimento? Sono arrabbiato, mia madre è una paziente oncologica, sta affrontando una situazione altrettanto drammatica e non è nelle condizioni per poter affrontare il viaggio per arrivare a Palermo, complice anche il momento delicato che in Italia stiamo affrontando per via del coronavirus. In questo momento si accontenterebbe anche di una semplice telefonata che la possa rassicurare, ha chiamato ripetutamente la casa circondariale di Palermo, implorando la sua preoccupazione, nessuno dice niente. Per quanto un uomo abbia potuto sbagliare, in uno Stato di diritto questa situazione non è ammissibile! La pena dovrebbe avere una funzione rieducativa e non vissuta come una punizione fisica e morale! Lo ricorda anche la Corte Costituzionale in una storica sentenza (n. 313 del 1990) dove vi è sancito che la pena non può avere caratteri afflittivi. È incostituzionale quello che sta accadendo, qui parliamo di un vero e proprio abuso di potere. Massa Carrara. I detenuti produrranno 5 mila mascherine al giorno Redattore Sociale, 22 marzo 2020 I lavoratori detenuti nel penitenziario di Massa, saranno impegnati nella produzione di mascherine in tessuto non tessuto, per una quantità complessiva che presumibilmente arriverà a 5mila pezzi al giorno. Per garantire tutte le misure igieniche del processo produttivo, i laboratori sono stati ispezionati ed i materiali sono stati selezionati in accordo con il dipartimento del farmaco della ASL Toscana nord ovest, diretto dal dott. Giuseppe Taurino. Le mascherine saranno prodotte secondo gli indirizzi redatti dalla Regione Toscana che, con l’ordinanza 17 del 19 marzo, ha stabilito le caratteristiche tecniche e le prove di sicurezza effettuate dall’Università di Firenze. Questi presidi hanno le stesse caratteristiche di quelli testati dall’Ateneo fiorentino e possono essere utilizzati esclusivamente, nei checkpoint, dai cittadini e da eventuali accompagnatori che devono recarsi in strutture sanitarie territoriali e ospedaliere. La direzione aziendale ringrazia l’amministrazione carceraria per la disponibilità. “La collaborazione tra istituzioni è sempre importante e determinante per una buona gestione del bene comune - sottolinea il direttore generale, Maria Letizia Casani - ma lo è ancor di più in momenti di difficoltà e di emergenza, come quelli che stiamo attraversando”. Napoli. Coronavirus, un termo-scanner per chi entra nel carcere di Poggioreale napoli.fanpage.it, 22 marzo 2020 Un termo-scanner all’interno del carcere di Poggioreale, per contrastare ulteriormente la diffusione del coronavirus. Lo ha annunciato l’Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria. Nel carcere partenopeo, anche dispenser di gel disinfettanti, dispositivi di protezione individuale e rispetto della distanza di sicurezza. Un termo-scanner all’interno del carcere di Poggioreale, per controllare la temperatura di chi entra nella struttura detentiva napoletana, come ulteriori misura di contenimento verso il coronavirus. Lo ha reso noto l’Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria (Osapp): l’installazione avverrà a breve, e sarà subito operativo. Oltre al termo-scanner, tra le altre misure ci sono i dispenser di gel disinfettanti, a disposizione per il personale e per i detenuti, mentre è già iniziata la distribuzione dei dispositivi di protezione individuale (Dpi), con un’altra prevista a stretto giro. Soppresso invece il servizio bar interno al carcere di Poggioreale, mentre il rispetto delle distanze minime individuali, altra misura necessaria per arginare la diffusione del coronavirus, viene fatto rispettare sotto stretto controllo del personale interno. “Confidiamo anche nel buonsenso dei familiari dei detenuti”, ha spiegato Luigi Castaldo, vice segretario regionale dell’Osapp in Campania. Lo stesso Castaldo ha poi auspicato anche “maggior celerità negli investimenti per la tutela della sicurezza e della salute e maggiore gratitudine per il delicato e rischioso compito etico-sociale della Polizia Penitenziaria”. Nei giorni scorsi, la situazione nel carcere di Poggioreale (così come in altri carceri d’Italia) si era fatta incandescente, sfociando in vere e proprie rivolte tra i detenuti all’interno e manifestazioni dei parenti all’esterno, dopo la notizia che i colloqui tra i primi e i secondi sarebbero stati interrotti per arginare, ulteriormente, la diffusione del coronavirus all’interno delle carceri italiani. Teramo. D’Alfonso (Pd): carceri sovraffollate, va evitato un contagio di massa Il Centro, 22 marzo 2020 La situazione dei penitenziari in questi tempi di coronavirus è al centro di una lettera che il senatore Luciano D’Alfonso (Pd) ha inviato al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, al capo della Protezione Civile, Angelo Borrelli, e al provveditore regionale Lazio-Abruzzo-Molise per il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Carmelo Cantone. Ai tre D’Alfonso propone una soluzione possibile per gli istituti penitenziari della regione Abruzzo per l’emergenza sanitaria da Coronavirus. “La straordinarietà della condizione sanitaria che ci troviamo quotidianamente a combattere”, spiega, “mi spinge a sottoporre alla vostra attenzione le preoccupazioni legate all’emergenza che, presto, gli istituti penitenziari della regione Abruzzo potrebbero trovarsi concretamente a dover affrontare. La maggior parte di essi risulta, attualmente, impossibilitata a rispondere adeguatamente al pericolo in quanto, a causa del sovraffollamento, non appare rinvenibile, se non in numeri irrisori, la disponibilità di spazi idonei a garantire eventuali casi da trattare in isolamento sanitario. La preoccupazione, dunque, è che laddove si verificasse la presenza di più casi sospetti, dovendosi procedere allo spostamento in celle singole dei detenuti infettati, in ragione degli attuali pochissimi posti disponibili, si conduca gli istituti in questione a dover affrontare un contagio di massa”. Il senatore del Pd aggiunge che “criticità si potrebbero verificare anche con riferimento agli operatori dello stesso istituto penitenziario, che in ragione degli ingressi dall’esterno, potrebbero risultare portatori dell’infezione da Covid-19”. “In particolare”, precisa, “l’istituto penitenziario di Chieti che conta, allo stato attuale, 117 detenuti di cui 85 uomini e 32 donne ristretti in due padiglioni detentivi separati e 73 agenti di polizia penitenziaria in forza ha individuato una possibile, utile iniziativa che, in caso di diffusione del virus, dovrebbe servire a mantenere separati, in spazi fisici differenti, coloro i quali devono essere conservati nella custodia, da coloro i quali necessitano di essere sottoposti ad un regime di ulteriore vigilanza. Tale iniziativa “salva-carceri” potrebbe realizzarsi, specificatamente, attraverso la riconversione dello spazio attualmente destinato a funzioni culturali e teatrali in singoli moduli abitativi, che assolvano a funzioni di separatezza in grado di evitare il contagio da parte di coloro i quali risulteranno positivi al virus”. Brindisi. Gli agenti di Polizia penitenziaria: “Troppi rischi, si faccia il tampone a tutti” brindisioggi.it, 22 marzo 2020 La segreteria regionale del Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria maggior associazione di categoria, chiede di intraprendere tutte le iniziative necessarie per la valutazione ed individuazione della possibile contaminazione da coronavirus da parte degli operatori della polizia penitenziaria, i quali sono esposti quotidianamente in violazione di quanto previsto dall’Oms (ad esempio l’impossibilità di rispettare la distanza di sicurezza tra persone nonché la grave carenza di dispositivi di protezione), nell’espletamento delle proprie attività di controllo della popolazione detenuta. Il sindacato chiede di valutare la possibilità di effettuare: 1. Tampone nasofaringeo orofaringeo a tutti gli operatori della polizia penitenziaria ed a tutti gli operatori (sanitari e civili) che abbiano contatto giornaliero con la popolazione detenuta; 2. Tampone nasofaringeo orofaringeo a tutti gli operatori della polizia penitenziaria e da tutti gli operatori (sanitari e civili) che abbiano contatto giornaliero i detenuti e test rapidi come l’Antibody Determination kit o comunque altri test rapidi autorizzati per lo screening del coronavirus, al fine di campagne di massa. “L’importanza di tale richiesta - dicono - è proprio nell’ evitare che nelle carceri pugliesi possano spuntare focolai che diventerebbero poi impossibile da gestire, da un punto di vista sanitario, di sicurezza per gli operatori penitenziari tutti e per le città che ospitano un carcere, nonché per i detenuti stessi”. Bollate (Mi). Un carcere modello, anche nell’emergenza di Susanna Ripamonti huffingtonpost.it, 22 marzo 2020 Da quasi un mese noi volontari non possiamo entrare nelle carceri italiane, e l’istituto di Milano-Bollate non fa eccezione. Tutte le attività che svolgevamo all’interno si sono interrotte il 23 febbraio, ed è giusto così, non c’erano alternative. Quando sono arrivate le notizie drammatiche delle rivolte, abbiamo tremato pensando a tutti coloro con i quali, per anni, abbiamo lavorato e di cui non avevamo più nessuna notizia, ma subito ci hanno rassicurato: a Bollate la situazione è tranquilla, difficile, ma sotto controllo e non perché si sia usato il pugno di ferro, ma perché si è andati nella direzione opposta, usando gli strumenti del dialogo, del confronto e della responsabilizzazione, ovvero la filosofia su cui si regge il carcere migliore d’Italia. Bollate non è esplosa neppure quando si è tolta ai detenuti la possibilità di incontrare i propri familiari, che è la cosa a cui tengono di più, il loro nervo scoperto. Il guardasigilli Alfonso Bonafede non lo sapeva? Non lo sapeva il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini? La decisione di chiudere i colloqui con le famiglie, senza offrire subito e contestualmente delle alternative, ha provocato più vittime del coronavirus, 12 morti su cui nessuno indaga, archiviate come casi di overdose, senza che la magistratura si sia preoccupata di aprire un’inchiesta. Se calcoliamo il tempo che i detenuti passano con le loro famiglie in un anno, abbiamo un totale di 72 ore, che equivalgono a tre giorni all’anno. Le telefonate sono concesse per 10 minuti a settimana: era facile capire che questo tempo così limitato, riservato all’affettività, non poteva essere soppresso per decreto, come se improvvisamente, per tutti i detenuti italiani, si fosse deciso di applicare un regime di alta sicurezza, ma chi doveva decidere non ne ha tenuto conto ed è ancora al suo posto, malgrado in Parlamento siano arrivate richieste di dimissioni da tutti gli schieramenti. Ecco, a Bollate si è andati subito in un’altra direzione, concedendo ai detenuti e alle detenute una telefonata al giorno (decisione poi estesa alle altre carceri) e adottando misure deflattive, scarcerando, in accordo con la magistratura di sorveglianza milanese, tutti coloro che avevano i requisiti per ottenere misure alternative. Soprattutto si è continuato a dialogare: i detenuti di Bollate hanno da parecchi anni una sorta di organismo sindacale, le commissioni di reparto, che si confrontano regolarmente con la direzione dell’Istituto su tutti i problemi relativi alla vita detentiva e anche in questa circostanza le decisioni si sono prese in modo condiviso. Le aziende che svolgono attività lavorative all’interno hanno continuato a funzionare, si sono attivati sistemi di e-learning per gli studenti universitari, che sono una quarantina, per non interrompere le attività didattiche. Grazie a Cisco, la multinazionale delle telecomunicazioni che ha aperto svariate Academy nelle carceri Italiane tra cui Bollate, è partita la sperimentazione di video-colloqui che sono stati possibili grazie a una piattaforma apposita che consente quattro colloqui simultanei. Non si è mai interrotta la possibilità di inviare e-mail all’esterno attraverso una cooperativa, Zerografica, che raccoglie le lettere dei detenuti, le scannerizza e le inoltra, riconsegnando le risposte nell’arco di 24 ore. E così, con queste mail indirette, anche noi della redazione di Carte Bollate, il periodico che da vent’anni viene fatto all’interno dell’istituto da una redazione di 25 detenuti e detenute, con il supporto di un gruppo di volontari, abbiamo saputo che l’attività del giornale non si era fermata. La redazione si è riunita autonomamente, ha lavorato, scritto pezzi sull’emergenza coronavirus, che un po’ alla volta ci stanno arrivando. Sarà dura, ma anche in questa situazione così drammatica riuscirà ad andare in stampa e a raccontare il carcere ai tempi della pandemia. Il primo caso di smart working senza internet. È con questo senso di responsabilità che le persone detenute a Bollate stanno fronteggiando l’emergenza, dando anche prova di una grande solidarietà. Le donne per esempio, stanno confezionando mascherine di stoffa per tutti coloro che entrano maggiormente in contatto con altre persone: poliziotti, educatori, coloro che lavorano e che devono girare tra i reparti. E sono solidali con tutti noi che siamo all’esterno e che per la prima volta stiamo sperimentando gli arresti domiciliari, spiazzati da questa improvvisa limitazione della libertà, a cui un po’ alla volta ci stiamo abituando. Scrive Blanca, dolcissima signora colombiana: “Essere carcerati pur avendo le chiavi della porta di casa per uscire, deve essere terribile. Bisogna avere la forza di accettarlo, come quando si entra in carcere e non si hanno alternative, se non accettare la situazione. Bisogna staccare la spina, dedicarsi a letture, attività creative, pensare a cose belle, far emergere i ricordi e guardare avanti nell’attesa che finisca quest’incubo”. Elena ci parla delle difficoltà: “possiamo fare una telefonata al giorno, ma il lavoro manca e non abbiamo i soldi per farle”. Il Garante Francesco Maisto si è attivato per raccogliere fondi allo scopo di sopperire a questa difficoltà e in un giorno sono arrivati i soldi necessari. Da un’educatrice, Catia Bianchi, è partita la richiesta di aiuto per una ventina di detenute e detenuti di Modena che sono stati trasferiti a Bollate, lasciando nel vecchio carcere tutti i loro averi. “Non hanno niente, siamo riusciti a dotarli di vestiti e di generi di prima necessità grazie all’associazione Sesta Opera, ma non hanno soldi e non possono comprarsi nulla”. Anche in questo caso è scattata una colletta che ha immediatamente risolto l’emergenza. Altre associazioni si sono attivate per dare supporto alle famiglie dei detenuti e questa solidarietà tra il dentro e il fuori, questo legame costruito negli anni tra la società esterna e il carcere non si è interrotto. Per questo Bollate non è esplosa, per tutto ciò che si è fatto in questi anni, utilizzando semplicemente ciò che la legge prevede e che rende possibile un modo diverso di scontare la pena. Viterbo. Al carcere Mammagialla attività collaborativa con i detenuti di Daniele Nicastrini* tusciaweb.eu, 22 marzo 2020 A distanza di due settimane circa dalle rivolte negli istituti penitenziari di Frosinone, Velletri, Rieti, Regina Coeli e Rebibbia Nuovo Complesso, possiamo per adesso prendere atto che nelle difficoltà locali le situazioni sembrano svolgersi in una modalità apparentemente tranquilla, soprattutto grazie all’attività espressa dal personale di polizia penitenziaria e dei loro comandi di reparto dove effettivamente sono presenti e le Direzioni che si stanno adoperando a rendere tutto funzionale supportati anche da altri operatori penitenziari e sanitari. Prendiamo atto anche come alcune direzioni penitenziarie come Viterbo, supportata da una linea di comando della polizia penitenziaria degli educatori e operatori vari contando anche da una sanità attenta ed efficace, stiano mantenendo un’attività collaborativa anche con la popolazione detenuta. Le stesse cose stanno accadendo presso gli istituti Penitenziari di Civitavecchia nonché presso gli istituti minorili di Roma (Casal del Marmo e Centro Prima Accoglienza di via Virginia Agnelli). Non possiamo non evidenziare la vergognosa mancanza di una linea di Comando titolare al carcere di Latina lasciando il direttore da solo a dover fronteggiare un momento così delicato. Senza contare che nel Lazio la prima località “bloccata” è Fondi in provincia di Latina per disposizioni della Regione Lazio alla stessa stregua di quanto e successo a Codogno e molti colleghi vivono nei pressi o nella stessa località. Dobbiamo purtroppo ribadire l’esigenza urgentissima di inviare materiale Dpi ovvero mascherine, disinfettanti, guanti e materiale per svolgere le funzioni di controllo per la triage prevista dalle disposizioni molto chiare del Dap e degli organismi istituzionali competenti. In queste ore abbiamo apprezzato la volontà dell’amministrazione regionale di voler tentare la possibilità di realizzare le mascherine utilizzando le sartorie delle carceri con la stoffa che però dovrà essere autorizzata dagli organismi istituzionali competenti. Questo attesa però potrebbe provocare gravissimi ripercussioni come sta avvenendo in tutti i settori lavorativi e non. Pertanto chiediamo urgentemente che siano forniti i Dpi necessari. Non possiamo non evidenziare che la chiusura degli spacci-bar sia stata una scelta inspiegabile considerando che il personale di polizia penitenziaria svolge turnazioni anche di 12 ore per garantire la copertura dei posti di servizio preso atto che si sta andando in deroga dell’accordo quadro ed altre norme a tutela dei diritti organizzativi. Non è sufficiente porre i distributori automatici perché non tutti gli istituti per la poca consistenza del personale presente non garantisce ai gestori sufficienti guadagni e quindi declinano tale possibilità ma viene anche meno quella possibilità di garantire un minimo di benessere destinato ad un personale che sta svolgendo oltre ogni sforzo a garantire quanto disposto dalle Vostre disposizioni rispetto all’emergenza Covid-19. Se questa possibilità dove era esistente verrà meno saremo costretti ad avviare azioni di contestazione anche virtuale esponendo questa amministrazione ad una gogna mediatica senza precedenti (la polizia penitenziaria tiene il Dap e non si vede). Infatti non è accettabile prevedere turni anche superiori per garantire l’ordine e la sicurezza oltre che la salvaguardia della loro salute oltre che di quello del personale e poi pur preso le giuste precauzioni si azzera l’unico benefit che il personale può avere in queste condizioni operative difficilissime. In attesa di urgente riscontro, stiamo per assumere iniziative pubbliche per denunciare con più forza quanto sta accadendo a chi in prima linea sta mettendo tutto quello che può mentre l’amministrazione sembra disattenta anche al cospetto dei suoi stessi dirigenti. *Commissario straordinario Uspp Lazio Civitavecchia (Rm). “Niente rivolte, collaboriamo per battere il coronavirus” civonline.it, 22 marzo 2020 L’esempio dei detenuti del carcere di Borgata Aurelia. In molti si sono resi disponibili a donare il sangue per la città. Un gesto di solidarietà, un messaggio di speranza, un invito a non mollare. Esortazioni che arrivano dal carcere di Aurelia, dove i detenuti pare abbiano recepito perfettamente il pericolo coronavirus, abbandonando le intenzioni rivoltose che, se a Civitavecchia sono state di lieve entità, nel resto d’Italia nei giorni scorsi hanno fatto vivere momenti di paura. Il timore di non rivedere i propri cari, le concessioni straordinarie da parte del direttore Patrizia Bravetti (foto), la disponibilità del personale di Polizia Penitenziaria, hanno portato i detenuti non solo ad ammorbidirsi, ma a dare addirittura un esempio di come si reagisce di fronte al pericolo reale, anche stando dietro le sbarre. Toccante la lettera trasmessa dalla popolazione carceraria dell’alta sicurezza alla direzione della struttura, nella quale viene chiesto a gran voce di “rispettare le regole imposte dal Ministero, affinché insieme e con l’impegno di tutti si riesca a fermare la diffusione del virus. Lo dobbiamo a tutti i medici, agli infermieri, a tutti gli operatori sanitari che in questo momento così drammatico si stanno sacrificando per il bene di tutti”. L’invito, anche da parte dei detenuti, è quello di rimanere a casa: “Fatelo per i vostri figli, per i vostri genitori, per i vostri nonni, per voi stessi e anche per noi”. “Noi - si legge nella lettera - a differenza di quanto successo in diversi carceri italiani, abbiamo deciso di non effettuare nessun tipo di rivolta: solo rimanendo uniti e collaborando riusciremo venire fuori da questa tempesta”. La consapevolezza dei detenuti dell’alta sicurezza diventa un incoraggiamento, non solo per chi opera all’interno del carcere di Aurelia: “Noi siamo qui per pagare il nostro debito con la giustizia, voi, invece, restate a casa per un dovere morale verso l’intera nazione. Uniti ce la faremo. #andràtuttobene”. Ma se i detenuti dell’alta sicurezza dimostrano di aver compreso la gravità del momento, quelli delle altre sezioni non sono da meno. Molti di loro, infatti, hanno chiesto alla direzione del carcere di poter donare il sangue, vista la mancanza momentanea di sacche negli ospedali. Un gesto fatto affinché si prenda conoscenza che solo seguendo alla lettera i consigli dei medici e degli esperti si riuscirà a venire fuori da questo dramma che sta tenendo il mondo in apprensione. Voghera (Pv). Chiede i domiciliari per problemi di salute, il giudice dice “no” di Maria Fiore La Provincia Pavese, 22 marzo 2020 L’avvocato: “Diabete e obesità, con il virus è a rischio”. Il magistrato: “Il contagio c’è anche fuori dal carcere”. Niente detenzione domiciliare a un detenuto del carcere di Voghera con problemi di salute. L’avvocato Nicolò Meazza aveva chiesto che al suo assistito, che sta scontando una condanna definitiva a otto anni di carcere, fosse data la possibilità della detenzione al suo domicilio, almeno fino alla fine dell’emergenza sanitaria da Covid-19. “Per le patologie di cui soffre il mio assistito in carcere rischia la vita”, spiega l’avvocato. Il detenuto, 57enne, ha diverse patologie, tra cui obesità, diabete e problemi cardiovascolari. “Proprio quelle che fanno aumentare il rischio di morte in caso di contagio”, dice il legale, che nella sua istanza ha anche sottolineato come proprio nel carcere di Voghera si siano già verificati alcuni casi di detenuti positivi al test per la ricerca del Covid-19. Ma per il magistrato di sorveglianza i presupposti per la detenzione domiciliare non ci sono. Nel provvedimento si precisa che “il pericolo rispetto al possibile contagio da Covid non costituisce un elemento di incompatibilità con la detenzione in carcere, non essendoci indicazione di un rischio “maggiore in carcere che all’esterno”. Tanto più, aggiunge il magistrato, che il detenuto, che sta scontando una pena per associazione a delinquere di stampo mafioso, è residente a Garbagnate Milanese, “in piena zona rossa”. Infine, dice il magistrato, una richiesta per la detenzione domiciliare era stata già respinta nel 2018: l’emergenza sanitaria, in sostanza, non modifica i requisiti. Il legale nella sua istanza ha sottolineato come il suo assistito in carcere abbia già trascorso cinque anni, dal marzo 2014, e che, calcolando i giorni di liberazione anticipata, gli resterebbero da scontare poco più di sei mesi. Un termine che scadrebbe a ottobre. “L’attuale condizione sanitaria portata dall’emergenza Coronavirus rende lo stato di salute del mio assistito incompatibile con il carcere - ribadisce l’avvocato -. Le condizioni del carcere non permettono di applicare alcuna misura di prevenzione di contagio”. Una norma per alleggerire le carceri in questa situazione di emergenza è prevista nel decreto “cura Italia”. Fino al 30 giugno 2020 potranno ottenere la detenzione domiciliare i detenuti che devono scontare una pena o residuo di pena fino a 18 mesi, come già previsto dalla normativa vigente, ma con una procedura semplificata. Per coloro che devono scontare una pena da 7 a 18 mesi è previsto il ricorso ai braccialetti elettronici o ad altri strumenti tecnici. Sono esclusi i detenuti che hanno commesso reati particolarmente gravi, chi ha partecipato alle rivolte e chi è privo di domicilio effettivo e idoneo. Padova. Chiuso lo “spaccio” interno al carcere Due Palazzi, protesta degli agenti di Serena De Salvador Il Gazzettino, 22 marzo 2020 Con la morte del primo agente di Polizia penitenziaria positivo al Coronavirus e le nuove disposizioni ministeriali che impongono la chiusura dei market e delle sale convegni nelle carceri ma non delle mense e delle attività appaltate a cooperative e ditte esterne, al Due Palazzi torna a montare la protesta. Il penitenziario si attiene alle direttive del ministero della Giustizia, ma per gli agenti che vi prestano servizio le tutele per evitare il rischio di contagio sono ritenute inesistenti e ora al danno si aggiunge la beffa. “Da giovedì una circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha imposto la chiusura di tutti i bar e mini market interni alle carceri come misura di sicurezza anti contagio spiega Mattia Loforese, responsabile regionale di Sinappe Ben venga, anzi è una disposizione tardiva. Eppure è anche anacronistica: al Due Palazzi vi è un unico locale che funge da bar e negozio per i beni di prima necessità fruito esclusivamente dagli agenti. In particolare è l’unico luogo in cui i 57 poliziotti che vivono nella caserma del penitenziario possono fare colazione e acquistare i prodotti. Ora dovranno uscire e percorrere diversi chilometri nonostante l’obbligo di limitare al massimo gli spostamenti. Ciò non bastasse, hanno voluto chiudere il bar mentre la mensa dove due volte al giorno si riuniscono oltre cento persone continua a funzionare. Perché dunque non chiudere anche quella e dotare gli agenti dei buoni pasto?”. Il problema è stato segnalato anche dalla segreteria nazionale del sindacato che ha chiesto una deroga al presidente del Consiglio per tenere aperti i punti ristoro delle carceri di periferia o l’accesso gratuito alle mense anche per i pasti fuori dal turno di lavoro. Il pericolo di contagio è già stato segnalato più volte, così come è stata lamentata la mancata consegna delle mascherine filtranti e dei dispositivi di sicurezza personale: “Le mascherine chirurgiche già poco utili sono ormai finite e a peggiorare la situazione è il fatto che da lunedì i colloqui di persona per i detenuti potrebbero riprendere spiegano da Sinappe. Il provvedimento ministeriale che ne imponeva la sospensione scade il 22 e ad oggi non sono giunte proroghe. Dunque come è ammissibile che i civili escano di casa e vadano in carcere? Peraltro dal 7 marzo la tenda esterna montata da Alpini e Protezione civile che servirebbe per sottoporre a triage tutte le persone in ingresso è di fatto inutilizzata. Eppure ogni giorno entrano circa 40 fra addetti delle cooperative e della Asl penitenziaria senza alcun controllo”. Giovedì all’ospedale Sacco di Milano è deceduto il 51enne Gian Claudio Nova, agente penitenziario calabrese che non prestava servizio da dicembre e domenica era risultato positivo al Covid-19 che avrebbe contratto nel Bergamasco: “Non si è contagiato in carcere, ma questa tragedia deve essere di monito per ricordare che i nostri uomini sono in prima linea, ma meritano di essere tutelati dallo Stato che servono” ha commentato il segretario generale Sinappe, Roberto Santini. L’esercito per le strade non ferma il Coronavirus, no allo Stato di Polizia di Angela Azzaro Il Riformista, 22 marzo 2020 In Sicilia l’esercito è già arrivato. A Milano sta per arrivare. Altre Regioni lo chiedono e il governatore della Campania De Luca non ha timore a dire che “bisogna militarizzare tutto”. Non si riferiscono al supporto da dare ai medici e agli operatori sanitari nel gestire l’emergenza, né all’assistenza alle persone anziane o malate, o all’aiuto da dare, e che finora non è stato dato, a coloro che sono senza fissa dimora, italiani e soprattutto migranti, oggi i più esposti di tutti. No. Si riferiscono ai controlli, ai divieti, alle multe. Anche quando la situazione è tragica, la molla che scatta è sempre quella di chiedere non più autorità, ma più autoritarismo, non più democrazia, che è invece quella che ci sta salvando, ma meno democrazia. L’esercito che a Bergamo ha trasportato le bare, facendo un servizio e un gesto di grande valore, ora viene chiamato a dettar legge. E a me fa paura. Molta paura. E penso che al di là delle ideologie, una popolazione già stremata dai fatti e da come vengono raccontati da molti media, di tutto abbia necessità fuorché di venire ulteriormente spaventata. Eppure è quello che accadrà. Ci sentiremo assediati. Oggi più che mai abbiamo bisogno di pensarci come una comunità libera e non come dei sudditi di un potere militare. Il rischio è grosso. Viene in mente la serie tv Il racconto dell’Ancella tratto dal romanzo della scrittrice canadese Margaret Atwood: con la scusa dei problemi ambientali, un piccolo gruppo di potere usa l’esercito per annientare le libertà e sottomettere le donne, ridotte in schiavitù. Sono le ancelle, le schiave, il cui unico valore è la possibilità di procreare. Un mondo senza amore, senza speranza, senza colori. Lì non si vedono persone correre - quelli che oggi sono diventati i nemici pubblici numero uno - né si creano assembramenti. Nella serie, come nel romanzo, la scintilla che porta alla dittatura è reale: la questione ambientale. Nessuno del resto può negare che su questo fronte ci siano grossi problemi, basta chiedere a Greta Thunberg. Ma niente giustifica l’affermarsi di un sistema feroce e dittatoriale. Certo non siamo arrivati a quel punto. Ma dobbiamo stare attenti, vigilare. Se infatti un problema serio, serissimo, come il Covid-19, invece di essere affrontato con gli strumenti della democrazia viene affrontato con le misure usate anche dalle dittature, provoca sicuramente una ricaduta negativa. Molto negativa. Stiamo attraversando un crinale assai delicato. Dobbiamo capire se, travolti dall’emergenza, davvero vogliamo affidarci a un potere assoluto, non più democratico, o se invece oggi più che mai vogliamo scommettere sulla carta della condivisione e della partecipazione. Tanti film e romanzi che abbiamo letto in questi anni ci hanno avvertito del rischio che correvamo. Paura del virus e potere dispotico si sono spesso legati nel costruire il nostro immaginario catastrofista. Ma erano film, erano libri. Qui stiamo parlando della nostra realtà. E non ci deve essere emergenza che possa valere, non c’è pericolo che ci debba fare cambiare strada. In questi giorni stiamo giocando una doppia partita. Salvare quante più vite possibili. Fare di tutto perché il virus si fermi. Ma anche salvare il bene più prezioso: la libertà e la democrazia. Militarizzare le nostre città, va dalla parte opposta. Nei lager della Libia fine pena mai di Roberto Saviano L’Espresso, 22 marzo 2020 Nessuno attraversa più il Mediterraneo. E i profughi rinchiusi nei campi di Tripoli, spariti dai radar, vedono le loro torture prolungarsi all’infinito. Voci dalla Libia, 16 marzo 2020. Inizio così, poi ci torno. Ancora qualche giorno fa, parlando degli incontri pubblici in programma per la primavera, c’era chi sperava non si dovessero cancellare. Ero scettico nel sentire quell’ottimismo, ma mi ero convinto che chi diceva che le cose sarebbero tornate presto alla normalità fosse, in realtà, il più scoraggiato di tutti. Sì perché continuare a progettare, nonostante gli ostacoli fisici, è un modo per mantenersi saldi, per non cedere. Per non lasciare spazio all’insofferenza, alla tristezza. La pandemia ha cambiato radicalmente le nostre vite al punto da non consentirci più di pensare ad altro che al cambiamento. Alzare la testa e respirare, vedere cosa accade a causa o nonostante il virus, però, è una necessità che abbiamo. Una necessità vitale. Come restare in casa, come essere prudenti. Ora sappiamo che restare in casa è l’unico modo che abbiamo per prenderci cura l’uno dell’altro, ma allo stesso modo, nella condizione in cui stiamo vivendo, abbiamo la responsabilità di non dimenticare cosa accade lontano da noi. Oggi dobbiamo stare in casa, ma guardare lontano. I limiti fisici non sono limiti nella possibilità che abbiamo di nutrire interesse e occuparci del mondo. La settimana scorsa ho raccontato cosa avviene al tempo del coronavirus nelle carceri italiane, che già scontano un colpevole sovraffollamento. Mi era sembrato un modo per dare voce a chi, in questo momento più che mai, non riesce ad averne. Allo stesso modo, oggi, mi trovo a scrivere sulla Libia. La Libia è scomparsa dai radar perché riteniamo di avere altro a cui pensare, eppure, quando aguzziamo la vista e sintonizziamo le antenne, capiamo quanto sia importante non recidere il filo del racconto e dell’ascolto. Anche per continuare, in qualche modo, la vita di prima. E insieme alla Libia, dai nostri radar sono scomparse anche tutte le persone che in Libia sono schiacciate e imprigionate da un sistema che continua a riguardarci. Ci riguarda, anche e soprattutto, per gli accordi che i governi italiani hanno stretto con la Libia per contenere i flussi migratori in qualunque modo, a qualunque costo e fingendo di ignorare il calibro criminale dei loro interlocutori. Ma ora dalla Libia non si parte quasi più, anche perché la Libia, che da noi sembra lontana anni luce, invece è proprio lì, a due passi, e gli effetti della pandemia non ci hanno messo molto a farsi vedere. Non ci resta allora che prestare attenzione per provare a capire, con ogni mezzo disponibile, cosa accade ora al di là del Mediterraneo, dove ancora si combatte una guerra a bassa intensità, dove ancora la società civile subisce scontri e dove ancora, nei centri di detenzione, sono rinchiusi migliaia di migranti prigionieri in Libia, con il Mediterraneo sbarrato dal virus e l’Unhcr che non riesce a gestire i numeri delle evacuazioni. E allora Voci dalla Libia ci offre la possibilità preziosa di ascoltare in prima persona, dalla viva voce di chi sta in Libia, cosa accade ora lì, mentre il nostro mondo si è fermato. Il 16 marzo, è intervenuto in collegamento telefonico un ragazzo di 28 anni, arrivato in Libia dal Darfur e ora nel centro di detenzione di Zawiya. Il ragazzo racconta di essere stato chiamato a Tripoli nell’attesa di poter essere evacuato in Niger, ha deciso di tonare nel centro di detenzione perché stare fuori, a Tripoli, per lui - per loro - è ancora più pericoloso che rientrare. E, badate bene, nei centri di detenzione le torture a scopo estorsivo continuano, le vessazioni continuano, ma fuori è peggio. E poi ancora, alla domanda: “Ti spaventa il coronavirus?”, la risposta è quasi scontata: “Sono prigioniero in Libia, non mi spaventa più niente”. Oggi questi ragazzi, quando sentono i loro interlocutori italiani, si preoccupano delle loro condizioni di salute, raccomandano prudenza; seguono ciò che sta accadendo, non temono il coronavirus più delle torture che subiscono nei centri, ma riescono a guardare oltre la loro condizione. No, non riescono, devono guardare oltre la loro condizione. Se non lo facessero, perderebbero ogni speranza. Se non si preoccupassero dei loro interlocutori in Italia, probabilmente smetterebbero di sperare di poter essere evacuati in Niger e poi magari in Canada o in uno stato europeo. Certo che è strano dover anche noi aguzzare la vista per poter scorgere la luce in fondo al tunnel. Ed è altrettanto strano che quella luce la raggiungeremo prima se non occuperemo il tempo a contemplarla. Libia. L’offensiva di Haftar, tre razzi su Tripoli, colpito il centro storico di Michela Allegri Il Messaggero, 22 marzo 2020 Mentre il mondo intero è in apprensione per l’emergenza coronavirus, il generale Khalifa Haftar infrange la tregua e torna a bombardare Tripoli: venerdì notte è stato sferrato un nuovo attacco nel centro della “città vecchia”. È stata presa di mira una zona popolata esclusivamente da civili, vicino alla Piazza della Rivoluzione. Una donna e una bambina sono rimaste ferite. Un agguato, messo a segno con razzi e missili, che è stato duramente condannato dall’Ambasciata d’Italia e dagli Stati Uniti. Nonostante l’appello alla prosecuzione della tregua umanitaria disposta per fronteggiare la minaccia Covid-19, negli ultimi giorni Haftar aveva già continuato a colpire la periferia di Tripoli con bombardamenti. Ma l’attacco di ieri è ancora più grave perché, per la prima volta, il bersaglio sono state aree nel centro della città e, appunto, abitazioni civili. Sono stati presi di mira anche quartieri più periferici ma molto popolosi, come Ain Zara. Il bombardamento è stato confermato dall’account Facebook di “Vulcano di collera”, l’operazione di difesa della capitale libica. L’esercito di Tripoli sottolinea che gli attacchi di Haftar sono una “nuova violazione” del cessate il fuoco e una prosecuzione “della presa di mira di civili, scuole e istituzioni”. La prima dura condanna è arrivata dall’ambasciata d’Italia, che sul suo account Twitter ha scritto di aver “accolto con favore la disponibilità del Governo di Accordo nazionale ad aderire a una tregua umanitaria per contrastare la minaccia posta dalla diffusione del coronavirus”. L’Italia ha poi condannato “con fermezza i continuati, inaccettabili bombardamenti che negli ultimi giorni hanno colpito i quartieri residenziali di Tripoli, causando numerose vittime civili”. Nel comunicato è stata poi rinnovata “al generale Haftar e alle sue forze la richiesta di accogliere in maniera costruttiva l’appello per una cessazione delle ostilità”. La nota si conclude con un auspicio: “Una tregua umanitaria che possa favorire il raggiungimento di un accordo per un cessate il fuoco definitivo nel quadro dei lavori della Commissione Militare Congiunta 5+5”. Sono poi intervenuti gli Usa, che si sono uniti “alla missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil) nell’accogliere con favore la decisione del primo ministro libico Fayez al-Sarraj di approvare un’immediata cessazione umanitaria delle ostilità per consentire alle autorità locali di unirsi in risposta alla sfida senza precedenti della salute pubblica posta da Covid- 19”, si legge in una nota del Dipartimento di Stato americano, nella quale si invitano i leader libici a “dare urgente priorità alla salute del popolo libico Ora è il momento per tutti, incluso il comandante dell’Lna Khalifa Haftar, di sospendere le operazioni militari, respingere le interferenze straniere dannose e consentire alle autorità sanitarie di combattere questa pandemia globale”. Gli Stati Uniti - prosegue la nota - “si sono costantemente opposti a qualsiasi escalation militare e al continuo trasferimento di materiale e personale militari stranieri in Libia; in questo spirito, sosteniamo il dialogo facilitato dall’Onu tra gli attori libici al fine di ottenere un cessate il fuoco duraturo e creare le condizioni affinché tutti gli attori possano interrompere le loro attività militari e tornare a negoziati significativi”. Giovedì scorso, durante un altro bombardamento nella periferia di Tripoli, c’erano stati quattro morti. Tra loro c’erano tre bambini, tutti della stessa famiglia. Iran. Scambio di prigionieri, ricercatore torna in Francia di Giordano Stabile La Stampa, 22 marzo 2020 Scambio di prigionieri tra Iran e Francia. Teheran ha rilasciato il ricercatore Roland Marchal. Ma il presidente Emmanuel Macron ha esortato le autorità iraniane a liberare anche Fariba Adelkhah, una studiosa franco-iraniana ancora detenuta. In cambio la Francia ha scarcerato Jalal Ruhollahnejad, un ingegnere ricercato dagli Stati Uniti con l’accusa di aver violato le sanzioni americane. Teheran ha precisato che Marchal, arrestato nel 2019, “era stato condannato a cinque anni di prigione per attività contro la sicurezza nazionale: la sua sentenza è stata ridotta ed è stato consegnato all’ambasciata francese”. Gli altri occidentali Lo scambio è arrivato in un momento particolare per la Repubblica islamica. L’epidemia di coronavirus ha spinto le autorità a rilasciare con permessi temporanei metà dei 189 mila detenuti. La guida suprema Ali Khamenei, in occasione del capodanno persiano, ha graziato altri diecimila prigionieri. In questo clima si sono moltiplicati i gesti di distensione nei confronti dei Paesi occidentali. Prima è stata posta agli arresti domiciliari l’operatrice britannico-iraniana Nazanin Zaghari-Ratcliffe, detenuta con l’accusa di essere una “spia” dall’aprile del 2016. Poi è stato scarcerato il veterano statunitense Michael White, condannato nel 2019 per “insulti” a Khamenei. White, ora malato di cancro, è stato portato all’ambasciata svizzera e la sua scarcerazione è subordinata alla permanenza in Iran. Si moltiplicano i gesti di distensione Gli Usa stanno facendo pressioni perché farlo tornare in patria e chiedono la liberazione di altri americani detenuti, come l’ex agente dell’Fbi Robert Levinson, o ancora Morad Tahbaz, Siamak Namazee e suo padre Baqer Namazee, tutti e due con doppio passaporto, e infine Xiyue Wang. Una trattativa complessa per il primo obiettivo della Repubblica islamica è un allentamento delle sanzioni, anche per ragioni umanitarie, vista la difficoltà di procurarsi medicinali e dispositivi di protezione per i medici. In questo senso lo scambio di prigionieri con la Francia segna un precedente. A maggio Parigi aveva approvato l’estradizione di Rouhollahnejad negli Stati Uniti, dove è accusato di aver favorito l’acquisizione di tecnologia militare da parte di una compagnia iraniana legata ai Pasdaran.