Disinnescare in modo sano la bomba-virus nelle carceri di Glauco Giostra Avvenire, 21 marzo 2020 Gli effetti della pandemia di Covid-19 sulla realtà dei penitenziari e le soluzioni possibili. Non sarebbe intellettualmente onesto addebitare l’emergenza carceraria al rifiuto di recepire le parti qualificanti della riforma penitenziaria, che era stata parto culturale di quel grande concorso di esperienze e di professionalità rappresentato dal laboratorio degli Stati generali dell’esecuzione penale. Vi è, infatti, nell’attuale, gravissima crisi, un imponderabile e inedito elemento scatenante: la pandemia Covid-19. Ma neppure sarebbe intellettualmente onesto negare che, ove quella riforma fosse stata integralmente approvata, la situazione risulterebbe oggi molto più gestibile: è stata un’operazione sciaguratamente miope sacrificarne la parte qualificante sull’altare della ‘certezza della pena’, locuzione che in una stagione culturalmente lontana esprimeva una garanzia ed oggi suona come la minaccia di una inalterabile pena detentiva. Non è questo il tempo delle recriminazioni; passata l’emergenza, però, vi dovrà essere quello della riflessione critica. Ora occorre intervenire, e subito: delle recentissime novità in materia contenute nel cosiddetto Decreto Cura Italia si deve apprezzare la direzione, ma non si può non sottolinearne l’assoluta inadeguatezza. Bisogna, infatti, almeno riportare la popolazione detenuta nei limiti della capienza ordinaria dei nostri penitenziari per ridurre il rischio che migliaia di persone vivano, impotenti, in quella sorta di stabulario che è divenuto il nostro carcere, soffocate dalla paura di non poter mettere in atto quelle che, come sentono ossessivamente ripetere, costituiscono le uniche vere contromisure per arginare il contagio: distanze, igiene personale, sanificazione dell’ambiente. Si tratta di un’ingiusta afflittività aggiuntiva. E se non si vuole farlo per un atto di giustizia, lo si faccia a tutela della sicurezza sociale, poiché se il virus comincia a circolare nelle vene penitenziarie sarà impossibile fermarlo alle mura del carcere. Non si dica, come pure si dice, che in tal modo si premierebbero le violenze delle scorse settimane. I provvedimenti sono da prendere per necessità, non certo perché ci sono state le violenze; semmai queste - da condannare senza ambiguità alcuna e giustamente represse - ci sono state soprattutto perché non veniva preso alcun provvedimento. E prima ancora, perché non si era stabilito nessun canale comunicativo con le persone ristrette. Sarebbe stato importante spiegare (far comprendere ai detenuti le ragioni delle restrizioni); ascoltare (le loro esigenze e le loro paure); dimostrare che si stava facendo tutto il possibile per attenuare l’isolamento imposto, agevolando ogni contatto virtuale con i loro cari; assicurare che si sarebbero presto adottati provvedimenti per decongestionare l’ambiente carcerario e per cercare di consentire anche al suo interno le cautele necessarie per contrastare il contagio. Adesso, comunque, si deve intervenire con urgenza: la situazione, infatti, già inaccettabile prima di questo tremendo virus, rischia ora di diventare drammatica. Non vi è un’unica soluzione, come pure in questo tempo di banalizzazioni e di visioni manichee molti sarebbero portati a pensare. Vi sono accorgimenti che, anche agendo sinergicamente, possono ridimensionare il rischio che la situazione diventi del tutto ingovernabile o addirittura esplosiva. Bisogna aver ben chiari quali siano gli effetti e quali le eventuali controindicazioni delle diverse opzioni. Si potrebbe innanzitutto intervenire sul flusso in entrata differendo (ad esempio, di sei mesi) l’emissione dell’ordine di esecuzione delle condanne non molto gravi; quanto meno di quelle sino a quattro anni, rispetto alle quali, di norma, già ora i condannati hanno diritto di attendere in libertà l’esito della loro richiesta di fruire di una misura alternativa al carcere. Si alleggerirebbe nell’immediato il carico della magistratura di sorveglianza e si eviterebbe il rischio che i cosiddetti ‘nuovi giunti’ introducano il contagio negli istituti. Per agevolare il flusso in uscita, invece, si pensa normalmente a due tipologie di rimedi. Anzitutto a quelli che anticipano indiscriminatamente la dimissione di tutti i soggetti che hanno un ridotto residuo pena (ad esempio, ancora un anno da espiare). Si tratterebbe di ricorrere, in ragione della gravissima emergenza, a strumenti giuridici volti a conseguire - per esprimerci con ruvida franchezza - i risultati che deriverebbero da un indulto, per il quale non ci sono né i tempi, né i presupposti politici. Questa tipologia di rimedi ha il vantaggio di produrre un effetto immediato, ma la controindicazione di non selezionare sulla base della meritevolezza e soprattutto della affidabilità del singolo detenuto rimesso in libertà. Una dimissione selettiva dei condannati si può ottenere con la seconda tipologia di intervento, cioè mediante l’ampliamento della possibilità di accesso alle misure alternative al carcere, affidando alla magistratura di sorveglianza l’accertamento della sussistenza dei presupposti. Ove si scegliesse una simile linea di intervento, fruirebbero delle nuove opportunità soltanto i soggetti protagonisti di un credibile percorso rieducativo, ma si andrebbe incontro ad un sicuro intasamento dei ruoli della sorveglianza, con dilatazione dei tempi decisionali e valutazioni fatalmente meno ponderate. Per fare in modo che i provvedimenti diano risultati compatibili in termini di efficacia con la gravità della situazione (cioè: automatismo e tempestività) e non abbiano carattere indiscriminato (selettività) ci si potrebbe allora basare sulle valutazioni che la magistratura di sorveglianza ha già espresso nel periodo che ha preceduto l’attuale tsunami socio-sanitario. Si potrebbe, ad esempio, prevedere una sostanziosa, ulteriore riduzione di pena per chi nell’ultimo periodo (due anni? tre anni?) ne è già stato riconosciuto meritevole di liberazione anticipata ai sensi dell’art. 54 della Legge sull’ordinamento penitenziario. Si potrebbe anche immaginare di consentire a coloro che versano in tale condizione e che sono relativamente prossimi alla dimissione di ‘monetizzarè immediatamente, ad esempio, i tre mesi di riduzione meritati nell’ultimo anno, godendo subito di questa sorta di parentesi di libertà, anziché di una anticipazione del fine pena. Si potrebbe consentire ai semiliberi (e agli ammessi al lavoro all’esterno), che da congruo tempo non hanno mai dato problemi nel loro andirivieni penitenziario, di non rientrare in carcere la sera, ma di trascorrere la notte, con obbligo penalmente sanzionato, nel proprio domicilio o in una struttura adeguata. Ed altro sarebbe possibile prevedere ancora sulla base dello stesso criterio: automatismo, per già accertata e consolidata meritevolezza. La disponibilità dei cosiddetti ‘braccialetti elettronici’ potrebbe consentire, inoltre, di ampliare ulteriormente la platea dei beneficiari a soggetti che non hanno ancora potuto dare prove di riabilitazione compiutamente rassicuranti. L’importante è agire subito, con la consapevolezza che ancora una volta i provvedimenti che fanno bene alla popolazione penitenziaria fanno bene alla società tutta. A cominciare da chi con la realtà carceraria deve avere quotidiano contatto. Pensiamo soprattutto alle donne e agli uomini della polizia penitenziaria, che nella stragrande maggioranza svolgono la loro indispensabile funzione, con rispetto delle persone ristrette e consapevolezza della delicatezza del proprio ruolo; un compito assolto spesso in condizioni quasi impossibili per il degrado e l’affollamento dei nostri penitenziari; un servizio civile reso nell’ombra fisica del carcere e nell’ombra sociale del disinteresse collettivo. Coronavirus in carcere, dal Dap nuove misure per prevenire contagio adnkronos.com, 21 marzo 2020 “I detenuti già presenti in istituto, in caso di sintomatologia compatibile con il Covid-19, saranno temporaneamente sistemati in appositi spazi di isolamento: qui saranno visitati dal medico e, se necessario, sarà eseguito il tampone. Inoltre, in caso di prescrizione del tampone da parte del medico su un detenuto che debba essere trasferito verso un altro istituto, si dovrà aspettare necessariamente l’esito negativo dell’accertamento prima di procedere alla traduzione”. Sono alcune delle nuove misure di carattere sanitario per prevenire il diffondersi del coronavirus in carcere, contenute nella nuova circolare che il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, ha inviato oggi ai Provveditori regionali, ai Direttori di istituto e ai Comandanti di reparto. Un provvedimento, spiega una nota, che integra la precedente nota del 13 marzo scorso con le misure contenute nel decreto-legge Cura Italia. La circolare prevede per il personale di Polizia penitenziaria, alla luce delle nuove norme introdotte nel decreto, la temporanea dispensa dal servizio, anche a fini precauzionali, in caso di contatto diretto o indiretto con un contagiato da Covid-19. Saranno le competenti autorità sanitarie a fornire al direttore dell’istituto un’adeguata valutazione del rischio di esposizione. Ai fini degli effetti economici e previdenziali, tali assenze saranno equiparate al servizio prestato e, nel caso dovessero compromettere attività irrinunciabili per l’ordine e la sicurezza dell’istituto, sarà compito dei Provveditorati adottare interventi di supporto, concordandoli con il Dap. Sui dispositivi di protezione individuali (Dpi), la circolare chiarisce che il Dipartimento intende agevolare al massimo la produzione di mascherine chirurgiche negli istituti penitenziari, riconvertendo le lavorazioni dei laboratori sartoriali esistenti che utilizzano il lavoro retribuito dei detenuti. Una volta in regola con i necessari requisiti richiesti dalla legge, la produzione sarà attivata e sarà stabilito un programma di distribuzione delle mascherine. Il giallo dei braccialetti disponibili è arrivato in Parlamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 marzo 2020 Interrogazione di Roberto Giachetti di Italia Viva per i ritardi sui collaudi. Arriva in Parlamento il giallo della produzione dei braccialetti elettronici denunciato da Il Dubbio. Con una interrogazione parlamentare a firma del deputato Roberto Giachetti di Italia Viva, si chiede conto al governo se sia a conoscenza delle ragioni per le quali la procedura di collaudo risulti essere in così estremo ritardo. Ma soprattutto se sia in grado di fornire chiarimenti e indicazioni precise in merito alle modalità e ai tempi con cui i nuovi braccialetti elettronici saranno messi a disposizione, in modo da consentire l’esecuzione delle misure di detenzione domiciliare già disposte e quelle altresì previste con l’entrata in vigore del decreto. Come mai questa richiesta? Giachetti, nell’interrogazione, parte dai dati del ministero della Giustizia relativi al 29 febbraio: i detenuti erano 61.230, a fronte di una capienza regolamentare delle carceri pari a 50.931 posti, di cui effettivamente disponibili circa 47.000. L’articolo 123 del D. L. 17 marzo 2020 n. 18 prevede che, fino al 30 giugno 2020, “la pena detentiva è eseguita, su istanza, presso l’abitazione del condannato o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza, ove non sia superiore a diciotto mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena” salvo che riguardi alcune specifiche tipologie di detenuti, e che, “salvo si tratti di condannati minorenni o di condannati la cui pena da eseguire non è a superiore a sei mesi, è applicata la procedura di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici resi disponibili per i singoli istituti penitenziari”. Sempre nell’interrogazione parlamentare si sottolinea che - secondo il decreto emergenziale - risulta evidente che la detenzione domiciliare sia subordinata alla effettiva disponibilità del braccialetto elettronico. Il deputato di Italia Viva evidenza che negli ultimi anni l’utilizzo di tali dispositivi ha subito un forte incremento determinando una scarsa disponibilità degli apparecchi da parte dell’Amministrazione, tanto da determinare l’impossibilita nei confronti di numerosi detenuti di accedere ai domiciliari. L’interrogante poi va al cuore del problema dove il governo dovrebbe fare chiarezza. L’Amministrazione dell’Interno, nel dicembre 2016, ha avviato una procedura ad evidenza pubblica per la fornitura di braccialetti elettronici conclusasi nell’agosto del 2018 con l’aggiudicazione definitiva dell’appalto a Rti Fastweb: il servizio prevede, per un periodo minimo di 27 mesi, la fornitura di 1.000-1.200 braccialetti mensili per l’intera durata triennale fino al 31 dicembre del 2021. L’erogazione del servizio sarebbe dovuta partire già da ottobre del 2018, previa nomina da parte del ministero dell’Interno di una commissione di collaudo, ma tale organo è stata nominato dal ministero solo a fine novembre 2018 e ad oggi, dal sito della Polizia di Stato, risulta che la procedura di collaudo sia ancora aperta. Infatti è stato pubblicato esclusivamente il decreto di approvazione del verbale di collaudo positivo relativo alla fase uno e non risulta invece il “piano di collaudo della fase 2” che rappresenta la base di tutte le attività di verifica di conformità della fornitura e che deve essere sottoposto a valutazione e approvazione da parte dall’Amministrazione. “Secondo quanto riportato da un articolo de Il Dubbio pubblicato il 18 marzo 2020 - si legge nell’interrogazione -, dalla relazione tecnica allegata al decreto “Cura Italia” emerge che al momento e fino al 15 maggio siano disponibili solo 2600 braccialetti, sebbene il contratto con Fastweb (che decorre dal 31 dicembre 2018) preveda la fornitura di 1.000-1.200 braccialetti mensili per un totale di 15 mila braccialetti che invece in teoria sarebbero dovuti essere già disponibili alla data odierna”. È per questo motivo che il deputato Roberto Giachetti chiede al governo dei chiarimenti sulla procedura del collaudo dei braccialetti. La detenzione degradante, un problema di civiltà di Fabio Canavesi L’Eco di Bergamo, 21 marzo 2020 In queste tragiche giornate in tanti non avrebbero voluto sentir parlare di carcere. Cosa è avvenuto nei giorni scorsi? In un momento difficilissimo in cui il coronavirus Covid-19 uccide migliaia di persone e costringe le altre a tenersi a distanza e a chiudersi nelle proprie case, nelle galere le voci si sono trasformate in urla di rabbia e di disperazione, in violenza contro sé stessi (il conto dei morti di metadone, overdose di farmaci e chissà cos’altro è lì a dimostrarlo) e contro le cose, provocando il panico negli operatori penitenziari e nei familiari. Una voce piena di coraggio giunta dal reparto Terapia intensiva dell’ospedale di Bergamo mi ha detto che avrebbe voluto poter descrivere ai prigionieri in rivolta quanto pesante è la situazione dentro e fuori i nosocomi; quanto è angosciante guardare persone immobilizzate in un letto e tenute distanti, per la loro e l’altrui tutela, dai parenti ai quali non può esser concesso nemmeno uno sguardo e dai quali non possono ricevere nemmeno uno sguardo; quanto è doloroso accompagnarle verso la morte; quanto è triste pensare a loro, rinchiusi dentro le carceri. Questo desiderio di comunicare con chi è privato della libertà è pieno di rispetto, nasce dall’osservazione della sofferenza e vuole sottoporre all’altrui attenzione un pensiero, la descrizione della quotidianità, il dolore osservato e conosciuto. Altre giovani educatrici mi hanno raccontato delle enormi difficoltà che si stanno affrontando negli “appartamenti residenziali per persone con disabilità” e di quelle affrontate dai senzatetto. Altre voci, impegnate in favore di una giustizia giusta ed equa, mi hanno detto, che è necessario chiedere a ogni individuo di aderire a un “senso di responsabilità collettivo”, di fondare il proprio agire sul rispetto delle dignità e dei diritti altrui in un tempo che è comunque, come scrive Daniele Rocchetti, un tempo sospeso, inedito e imprevisto. Qualcuno mi ha poi ricordato che in questo quadro generale di grandissima emergenza si inserisce allo stesso modo la condizione nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio ove un numero elevato di persone vive in condizioni di promiscuità, spesso in condizioni sanitarie precarie. Anche lì non sarebbe certo ipotizzabile, per i limiti strutturali propri dei Centri, immaginare l’applicazione delle misure (distanze, misure igieniche, uso di mascherine) previste dalle disposizioni nazionali di tutela sanitaria. Le osservazioni propostemi sono a tutti gli effetti sollecitazioni tra loro vicine, maturate in luoghi diversi e strade che si svuotano, fatte da donne e uomini che stanno sfidando le parole contagio, esclusione, paura e ci parlano di un nuovo senso della comunità. Mentre riguardo le immagini delle rivolte e riascolto il rumore delle battiture, mi pongo delle domande: sarebbe stato “opportuno” informare bene le persone private della libertà di come e quanto il Covid-19 stava modificando e mettendo in pericolo la vita, la condizione di salute, le abitudini dei cittadini liberi, comprese quelle dei loro familiari, e di cosa quello stesso virus avrebbe potuto provocare all’interno delle carceri? Le donne e gli uomini detenuti avrebbero accolto le voci di fuori? Era possibile “preparare” prima alle restrizioni, non da poco, che si sono attuate per ragioni sanitarie, quali sono state la sospensione dei colloqui con i familiari, il blocco dell’ingresso degli insegnanti, dei ministri di culto, degli operatori sportivi, dei volontari? E come è stato possibile non parlare prima della situazione delle carceri? “Una distrazione eloquente di come si intende che sia fuori dalla società e dalla città la prigione!”, l’ha definita Franco Corleone, mentre Massimo De Pascalis, ex vice capo del Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria, ha scritto “Quanto è accaduto non può esser presentato come qualcosa d’imprevedibile. Da quando è iniziata l’emergenza si è parlato di tutto tranne che di carcere, come se fosse una zona franca”. Sì, sarebbe stato non solo opportuno ma assolutamente giusto e loro avrebbero ascoltato. Se non si ricevono strumenti di comprensione è difficile accettare una doppia reclusione, questo hanno pensato gli uomini saliti sui tetti di carceri sovraffollate, uomini le cui intelligenze non sono state interpellate e sollecitate, uomini di tutte le nazionalità, presumibilmente e soprattutto giovani con pene non lunghissime. Dove le condizioni di vita sono inumane, dove non è possibile mantenere un metro di distanza dalle altre persone, dove cucina e cesso sono lo stesso piccolo spazio e i presidi sanitari non sono attrezzati per il contrasto di una simile emergenza né sono distribuite mascherine, il senso di impotenza e la paura aumentano, esplodono, bruciano. Il costituzionalista Andrea Pugiotto scriveva: “La negazione del diritto del detenuto a uno spazio vitale incomprimibile stravolge la pena, trasformandola in autentica punizione corporale: il sovraffollamento carcerario, infatti, non è tanto mancanza di spazio, quanto piuttosto costrizione fisica all’interno di ambienti già saturi”. Stiamo parlando di detenzione inumana e degradante - la Corte europea dei diritti umani al riguardo ci ha già condannato nel 2013 - perciò è innegabile si tratti di un problema di civiltà, ora ancor più pressante, che può essere affrontato solo se saranno utilizzati provvedimenti urgenti, lungimiranti che sappiano decongestionare le carceri in tempi brevi, e che garantiscano quanto la nostra Costituzione all’art. 27 dichiara (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”). L’epidemia Covid 19 è stata riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Salute quale pandemia. Nessuno poteva affermare che le carceri fossero esentate dal rischio. Infatti, purtroppo, decine di casi di positività sono stati riscontrati fra i detenuti sull’intero territorio nazionale. Tutti avrebbero dovuto, tutti devono riconoscere che le donne e gli uomini che ci vivono sono soggetti attivi ai quali è doveroso destinare la verità e l’umanità. Nelle carceri sovraffollamento e morti, ma il governo ascolta Travaglio e se ne frega di Piero Sansonetti Il Riformista, 21 marzo 2020 Magari qualcuno penserà che siamo stati colti da un’ossessione. Che parliamo di carceri troppo spesso. Può darsi. Può anche darsi, invece, che siano gli altri ad avere una idea molto vaga di cosa siano una civiltà e uno stato di diritto. Io son certo che se in Francia, o in Germania, o in Spagna, o in Olanda fosse successo quello che è successo due settimane fa nelle carceri italiane, i giornali e le Tv, e i partiti, e i parlamentari, si sarebbero scatenati, e il governo sarebbe stato costretto a difendersi, e molte teste sarebbero saltate. In qualcuno di questi Paesi, o forse in tutti, un ministro della Giustizia che si presentasse in Parlamento pochi giorni dopo la morte di 13 prigionieri, e non avesse niente da dire, e balbettasse senza neanche conoscere il nome delle vittime, e dimostrasse di non rendersi per niente conto delle dimensioni della tragedia, sarebbe mandato a casa in quattro e quattr’otto. Da noi invece un ministro magari salta se si scopre che vent’anni fa ha copiato una frase della tesi di laurea, o se gli intercettano una telefonata nella quale il fidanzato lo tratta male: se deve rispondere di tredici vite umane che erano state affidate allo Stato e che lo Stato ha lasciato morire, allora non è niente di grave. Anzi: il ministro, o chi per lui, ordina al direttore del suo giornale di scrivere un articolo su come si sta bene nelle carceri italiane a riparo dal coronavirus, e quello glielo scrive pure. Bello spiattellato in prima pagina. Non si capisce più se è Marco Travaglio il capo dei 5 Stelle o se è Bonafede il direttore del Fatto. E tutto questo avviene mentre le celle sono sempre più sovraffollate e il governo non muove un dito. Ieri ho parlato al telefono con Renzi. Che è l’unico leader di partito che sembra interessato a questo problema. Mi ha detto che Italia Viva non mollerà. Che vuole comunque, subito, la rimozione del direttore del Dap. Gli ho detto che forse è anche di Bonafede che vanno chieste le dimissioni. Quanti morti ci vogliono perché un ministro della Giustizia passi la mano? “Cari Conte e Bonafede se esplode la bomba carcere sarete i responsabili” Vita, 21 marzo 2020 Lettera della Giunta dell’Unione Camere Penali. “Basta menzogne, silenzi e mistificazioni sulla emergenza sanitaria in carcere. Procurare allarme nella pubblica opinione con la falsa notizia che rapinatori stupratori e assassini riempiranno le nostre città, è un atto di irresponsabilità gravissimo il provvedimento riguarda reati di modesto allarme sociale. Se esplode la bomba carcere, dentro ma anche fuori dai penitenziari, sapremo a chi imputarne la responsabilità”. La lettera della Giunta Ucpi al Presidente del Consiglio Conte, al Ministro di Giustizia Bonafede, all’Onorevole Salvini, all’Onorevole Meloni. Signor Presidente del Consiglio Conte, Signor Ministro di Giustizia Bonafede, Onorevole Salvini, Onorevole Meloni, l’altissimo rischio che l’epidemia coronavirus esploda nelle carceri, con le conseguenze catastrofiche che tutti dovremmo essere in grado di comprendere, non consente né silenzi, né mistificazioni circa le misure da adottare con assoluta urgenza. I penalisti italiani hanno da subito indicato la strada di una drastica semplificazione procedurale della concessione, già prevista dalla legge, della detenzione domiciliare per un numero di detenuti tale da permettere l’immediata soluzione del vergognoso ed oggi esplosivo sovraffollamento delle nostre carceri, tutto da imputarsi alla ottusa, pervicace idea carcerocentrica della pena che vi anima senza sosta, vuoi per convinzione, vuoi per mero calcolo politico. Procurare allarme nella pubblica opinione con la falsa notizia che rapinatori stupratori e assassini riempiranno le nostre città, è un atto di irresponsabilità gravissimo, visto che la norma esclude il già troppo ampio catalogo dei reati di maggiore allarme sociale, e tutti i detenuti qualificati di particolare pericolosità, ivi compresi gli autori delle recenti sommosse. D’altro canto, che addirittura Iran e Stati Uniti si muovono in questa direzione, non Vi induce a qualche riflessione più seria? Al tempo stesso, aver subordinato la detenzione domiciliare - per le pene comprese tra sei e diciotto mesi - alla disponibilità dei braccialetti, rappresenta una mistificazione letteralmente truffaldina, indegna della etica pubblica di governo che abbiamo il diritto di pretendere in un Paese civile. Signor Ministro, Signor Presidente del Consiglio, loro sanno perfettamente che quei dispositivi elettronici: a) sono da anni disponibili in numero limitatissimo, per la incredibile Vostra inerzia nel portarne a termine la pratica dell’ulteriore approvvigionamento; b) quelli disponibili sono tutti impegnati per fare fronte -in modo per di più gravemente deficitario- alle misure cautelari degli arresti domiciliari disposte con quella modalità di controllo. Dunque: o siamo noi penalisti che diciamo falsità, o Voi avete adottato una misura di intervento sulla emergenza sanitaria in carcere nella piena consapevolezza della sua materiale ineseguibilità, come per fortuna sembrerebbero aver compreso anche autorevoli partner della maggioranza di governo. Vi chiediamo dunque di comunicare immediatamente alla pubblica opinione: 1. Quale numero di detenuti avete preventivato possa beneficiare, nei prossimi giorni, di una detenzione domiciliare con braccialetto elettronico; 2. Quanti dispositivi vi risultano disponibili effettivamente, cioè al netto delle misure cautelari domiciliari con braccialetto attualmente in atto. Due domande semplici, due risposte semplicissime. Noi non smetteremo di rivolgervele pubblicamente ogni giorno. L’unica cosa seria da fare subito è: detenzioni domiciliari con braccialetto elettronico “ove disponibile”, come nella originaria formulazione della bozza di decreto. Basta menzogne, basta mistificazioni, basta procurati allarmi: se esplode il coronavirus nel carcere, le necessità di ricovero non potranno fare distinzioni, come è ovvio e giusto che sia, tra cittadini liberi e detenuti. Cpt del Consiglio d’Europa: emergenza coronavirus, rispettare i diritti dei detenuti ansa.it, 21 marzo 2020 “Qualsiasi misura restrittiva presa nei confronti dei detenuti per prevenire il diffondersi del coronavirus deve essere basata sulla legge, essere necessaria, proporzionata, limitata nel tempo, e deve rispettare la dignità umana”. Lo afferma il Cpt, comitato anti-tortura del Consiglio d’Europa, nell’elencare i principi che gli Stati devono seguire durante la pandemia nelle carceri, ma anche nelle stazioni di polizia, nei centri di detenzione per migranti, ospedali psichiatrici, case di cura e nelle zone create per isolare chi è in quarantena. “Visto che i contatti personali facilitano il contagio”, il Cpt domanda agli Stati “di fare tutti gli sforzi necessari per ricorrere a misure alternative alla privazione della libertà”. Per quanto riguarda in particolare le carceri, il Cpt afferma che, “mentre è legittimo e ragionevole sospendere le attività non essenziali, ai detenuti deve essere garantito di poter mantenere un adeguato livello di igiene personale, e il diritto ad accedere quotidianamente agli spazi esterni”. Inoltre “qualsiasi restrizione dei contatti col mondo esterno, incluse le visite, deve essere compensata con un maggiore accesso a telefonate e comunicazioni via internet”. Infine il Cpt chiede alle autorità penitenziarie di prestare particolare attenzione “ai bisogni dei detenuti più vulnerabili - anziani e persone con problemi di salute - e di fornire a tutti in questo periodo maggiore sostegno psicologico”. Rappresaglie sui detenuti? Il Dap indaghi di Alessio Scandurra* Il Riformista, 21 marzo 2020 Violenze su chi ha partecipato alle proteste, anche contro anziani e malati. Braccia, mascelle, nasi rotti. Sono le segnalazioni su cui Antigone ha presentato esposti alle procure. Pm e amministrazione penitenziaria facciano piena luce su quanto avvenuto nelle carceri, oggi sbarrate al mondo esterno. Come tutto il paese anche le nostre carceri vivono una stagione di emergenza straordinaria. C’è l’isolamento dal mondo esterno, c’è la paura del contagio, c’è la consapevolezza di vivere in condizioni di affollamento ed igiene decisamente precarie. In questo contesto, e per queste ragioni, sono esplose l’8 marzo e nei giorni immediatamente successivi numerose proteste in tutta Italia, alcune delle quali sfociate in vere e proprie rivolte, che alla fine hanno coinvolto 49 istituti penitenziari, causando la morte di 12 detenuti, numerosi ferimenti e la distruzione di intere sezioni detentive. Fatti di una gravità senza precedenti, dai contorni non ancora del tutto chiari, e le cui conseguenze sono ancora in corso. Molti detenuti infatti sono stati trasferiti a seguito delle proteste e come è normale sono stati avviati molti procedimenti disciplinari ed anche penali, quando le condotte poste in essere erano da considerarsi reati. Perché questo è quello che avviene in uno stato di diritto quando vengono violate delle leggi. Eppure in questi giorni ci sono arrivate notizie di fatti che con lo stato di diritto non hanno purtroppo nulla a che fare. Siamo stati infatti raggiunti da numerose segnalazioni di violenze ed abusi avvenuti non durante le rivolte, ma nelle ore e nei giorni successivi, delle vere e proprie rappresaglie contro alcune persone che avevano partecipato alle proteste. Se così fosse si tratterebbe di “punizioni” certamente non previste dalla legge. Si tratterebbe al contrario di abusi dalla legge severamente vietati, oggi più che mai dopo l’introduzione nel codice penale italiano del reato di tortura, che punisce “chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia”. Le segnalazioni hanno riguardato alcune carceri italiane, tra le quali quella di Milano-Opera. In particolare per Opera ben otto diverse persone (madri, sorelle, compagne di detenuti) si sono rivolte ad Antigone raccontando quanto sarebbe stato loro comunicato dai congiunti o da altri contatti interni. Le versioni riportate, che parlano di brutali pestaggi di massa che avrebbero coinvolto anche persone anziane e malati oncologici e che avrebbero portato a mascelle, setti nasali e braccia rotte, risultano tutte concordanti. Noi non abbiamo ovviamente modo di verificare la veridicità di queste notizie, in particolare in questo momento in cui l’accesso al carcere per osservatori esterni è praticamente impossibile. Vista però la gravità e la concordanza delle segnalazioni ricevute, queste sono state inviate alla procura competente presentando un esposto al riguardo e la stessa cosa ci apprestiamo a fare per altre notizie che ci hanno raggiunto in questi giorni. A chi di dovere il compito di svolgere le indagini. Oggi più che mai è fondamentale che si proceda ad un’indagine rapida e capace di fare chiarezza su quanto avvenuto e che, parallelamente all’azione penale, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria avvii subito un’indagine interna urgente che sappia dare un segnale chiaro e mai ambiguo di condanna assoluta del possibile utilizzo della violenza ai danni delle persone detenute. Perché lo stato di diritto non può contemplare angoli bui ed il carcere, per garantire il rispetto delle regole, non può e non deve diventare il luogo della sospensione di quelle stesse regole. *Associazione Antigone Misure più ampie sono necessarie per proteggere la salute dei detenuti in Italia di Fatima Burhan Human Rights Watch, 21 marzo 2020 La risposta del governo al Coronavirus nelle carceri lascia migliaia di persone a rischio. Ora che è emersa la notizia che quattro detenuti in Italia sono risultati positivi al Covid-19, la malattia causata dal nuovo coronavirus, diventa ancor più urgente che il governo prenda misure più incisive per proteggere la salute dei detenuti e degli agenti penitenziari e per alleviare il sovraffollamento del sistema penitenziario. Il 16 marzo il governo ha adottato un decreto che, tra le altre misure, consentirà la detenzione domiciliare per i detenuti con meno di 18 mesi di reclusione da scontare. Sebbene sia una misura importante, non è sufficiente a risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri. Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, la principale organizzazione italiana per i diritti dei detenuti, stima che il provvedimento potrebbe portare al rilascio di un massimo di 3.000 detenuti. Eppure, il sistema penitenziario italiano ha un’eccedenza di capacità, secondo le stime più prudenti, del 120 per cento, con 61.230 detenuti rispetto ai 50.931 posti letto disponibili. Nel 2013 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha ordinato all’Italia di adottare misure per mitigare il sovraffollamento, anche tramite la riduzione al minimo della detenzione preventiva e attraverso un maggiore ricorso a misure alternative alla pena detentiva. All’inizio di marzo ci sono stati scontri in quasi 50 carceri in tutta Italia, legati all’ansia per Covid-19 e alla rabbia per le misure restrittive imposte dalle autorità carcerarie. I disordini hanno causato 13 morti tra i detenuti e 59 guardie ferite. Le morti dei detenuti, che le autorità attribuiscono a overdose, dopo che i detenuti hanno fatto irruzione nelle farmacie carcerarie, sono sotto inchiesta. L’epidemia rischia di aumentare l’isolamento dei detenuti. L’8 marzo, mentre imponeva restrizioni alla libertà di circolazione della popolazione del Nord Italia (che sarebbero state poi estese a tutto il Paese), il governo italiano aveva ordinato la sospensione delle visite esterne, incluse quelle di avvocati e familiari, e limitato la possibilità per i detenuti di ottenere la libertà vigilata e permessi speciali per uscire dalle strutture. Il Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private dalle libertà personale, Mauro Palma, ha sottolineato che le autorità carcerarie dovrebbero garantire a tutti i detenuti l’accesso alle videochiamate in sostituzione delle visite. Oltre a prendere tutte le misure per prevenire o limitare lo scoppio di Covid-19 nelle carceri - come controllare la temperatura di tutti coloro che entrano e assicurarsi che il personale e i detenuti abbiano maschere e guanti - e per garantire assistenza medica a chi si ammala, le autorità dovrebbero prendere in considerazione ulteriori misure per ridurre la popolazione carceraria. Ciò potrebbe includere il rilascio di coloro che si trovano in custodia cautelare per reati non violenti e di minore entità, nonché dei detenuti più anziani e di quelli con patologie pregresse che non rappresentano un rischio per la popolazione in generale. La salute dei detenuti è salute pubblica e necessita di protezione. Il carcere al tempo del virus di Maurizio De Zordo* perunaltracitta.org, 21 marzo 2020 Era solo questione di tempo. Il virus è entrato nelle carceri, quattro detenuti positivi in Lombardia. E sarà un disastro, ma in realtà a ben pochi interessa. Ricapitoliamo alcuni dati: popolazione carceraria di oltre 60.000 detenuti, contro una capienza degli istituti “nominalmente” di 50.000 (in realtà meno, perché si contano anche i reparti chiusi per inagibilità). Situazioni di promiscuità e condizioni igieniche e sanitarie al limite, e spesso sotto il limite. Un terzo delle carceri senza acqua calda, il 67% dei reclusi ha almeno una patologia pregressa. In presenza di una pandemia sembra un panorama scritto apposta per arrivare velocemente ad una catastrofe sanitaria e umanitaria. Ma quando si è cominciato a prendere provvedimenti per fronteggiare il virus, l’unica misura relativa alle carceri è stata la sospensione dei colloqui con i familiari, degli ingressi in carcere dei volontari, lo stop a tutte le attività di istruzione educazione e animazione. Inutile ricordare l’importanza dei contatti fra detenuti e familiari, aggiungete alla mancanza in sé la mancanza di informazioni sullo stato di salute delle famiglie fuori, e non avere niente da fare dentro se non aspettare di essere contagiato. Fra il 9 e il 10 marzo scoppiano rivolte in molte carceri, si esauriranno in breve con un bilancio pesantissimo: 14 detenuti morti, per 10 giorni non se ne conoscerà nemmeno l’identità. Overdose per i saccheggi nelle infermerie, dice l’ineffabile Bonafede, ministro della vendetta più che della giustizia. Può darsi, di certo una amministrazione penitenziaria che per 10 giorni non rivela i nomi delle vittime non può vantare una credibilità tale da permettersi di non portare uno straccio di risultato di indagini, accertamenti, verifiche medico legali, e pretendere che la sua versione sia presaper buona. I nomi intanto li facciamo noi: “Tre di loro erano in attesa di giudizio. Ora non sono più dei numeri, finalmente conosciamo i loro nomi: Slim Agrebi, 40 anni, dal 2017 lavorava all’esterno del carcere in regime di articolo 21. Un suo connazionale sarebbe tornato libero fra 2 settimane, fine pena di 2 anni. Il moldavo Artur Isuzu aveva il processo il giorno dopo il decesso. Nel carcere di Rieti è morto Marco Boattini, 35 anni, ad Ascoli Salvatore Cuono Piscitelli, 40 anni. Poi ci sono Hafedh Chouchane, 36 anni, Lofti Ben Masmia, 40 anni, e Alì Bakili, 52 anni, tutti tunisini morti a Modena insieme al marocchino Erial Ahmadi. A Rieti sono deceduti anche Ante Culic, croato, 41 anni, e Carlo Samir Perez Alvarez, 28 anni, equadoregno. A Bologna Haitem Kedri, tunisino di 29 anni, a Verona Ghazi Hadidi, 36 anni, ad Alessandria Abdellah Rouan, 34 anni” (grazie a Paolo Persichetti). Con i nuovi decreti il governo ha fatto timide aperture nei confronti del mondo carcerario, spesso inconcludenti, come per il caso della detenzione domiciliare soggetta a controllo elettronico: i braccialetti non ci sono, e i detenuti non escono. Invece la necessità assoluta sarebbe di diminuire drasticamente la popolazione carceraria (coronavirus-sulle carceri insufficienti le norme previste nel decreto del governo). Un terzo dei detenuti è in attesa di giudizio (quindi ancora non condannati in via definitiva, mentre la custodia cautelare in carcere dovrebbe essere una extrema ratio); più del 30% sono ristretti per violazione della legislazione sulle droghe, legislazione criminogena che sull’altare della punizione ad ogni costo, del fascino delle manette in salsa M5S (che non distingue i padroni della Thyssen Krupp da chi fuma 4 spinelli) o leghista (cui basta trovare un nemico verso cui indirizzare l’orda rabbiosa con la bava alla bocca, salvo poi, come ci raccontano le cronache, avere a che fare con la ‘ndrangheta o intascare i famosi 49 milioni) sacrifica ogni ragionamento sul contenimento del danno e sulla necessità di depenalizzare a fronte (anche, non certo solo) del fallimento di ogni politica proibizionista. Intanto le Associazioni Yairaiha Onlus, Bianca Guidetti Serra, Osservatorio Repressione, Legal Team Italia, attive nella difesa dei diritti dei detenuti alla salute e all’incolumità - così come previsti dalla Costituzione italiana e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo - mettono a disposizione un indirizzo unico per ricevere segnalazioni in merito all’attuale situazione igienico sanitaria nelle carceri, ed in particolare alle reali misure di prevenzione adottate a fronte dell’estendersi dell’epidemia di Covid-19. A tale indirizzo mail si possono segnalare abusi e trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei detenuti, in particolare a seguito delle rivolte carcerarie dei giorni scorsi, e richiedere la relativa assistenza legale: emergenzacarcere@gmail.com Mentre il solito Salvini sputa veleno (i detenuti sono più sicuri in carcere, 5.000 delinquenti per le strade, ecc.), Bonafede vede come il fumo agli occhi qualunque ipotesi di revisione dell’attuale ordinamento, che non sia in senso restrittivo, per non parlare di misure quali indulto o amnistia di fronte al palese fallimento nella gestione delle carceri, è una necessità mantenere viva l’attenzione su questo universo, che è parte del nostro, non dimentichiamolo mai. *Architetto, ha fatto parte del Laboratorio per la Democrazia di Firenze Coronavirus, la psicologa: “Ansia tra i detenuti, carceri non attrezzate” di Carlotta Di Santo dire.it, 21 marzo 2020 “Tra i detenuti c’è preoccupazione. Se dovesse scoppiare un’epidemia in carcere sarebbe difficile da contenere, anche da un punto di vista delle infrastrutture. Gli stessi ospedali a volte non sono attrezzati, paradossalmente, figuriamoci un carcere. Sappiamo che questo virus ha una virulenza importante e, nonostante l’amministrazione sanitaria e quella penitenziaria abbiano disposto tutte le misure di sicurezza, questo non basta a tranquillizzare la popolazione carceraria. Poi ognuno chiaramente ha il suo carattere, c’è chi è più ansioso e chi lo è di meno, ma c’è anche chi è più a rischio perché ha patologie pregresse”. Così la psicologa esperta in tematiche carcerarie, Francesca Andronico, dell’Ordine degli psicologi del Lazio, intervistata dall’agenzia Dire in merito allo stato d’animo dei detenuti in questo periodo di emergenza sanitaria per il Coronavirus. “Le disposizioni sanitarie sono state quelle di ridurre i contatti, come è accaduto tra la popolazione fuori - ha proseguito Andronico. Non si può far entrare molto personale sanitario, le attività di gruppo sono state sospese, come tutte quelle riabilitative e rieducative, tra cui il teatro o i gruppi psicoterapeutici. E questo per i detenuti è un grosso handicap, perché la riabilitazione e la cura sono fondamentali per l’aspetto umano in carcere”. Nelle carceri si sono quindi ridotte tutta una serie di attività che vedeva impegnati i detenuti, così “anche per questo è aumentato il loro livello di ansia. Il discorso della privazione riguarda in generale tutta la popolazione - ha detto la psicologa - ma ovviamente la problematica aumenta in un’istituzione chiusa e totale come il carcere”. La diminuzione dei colloqui con i familiari è stato poi “un problema enorme per i detenuti- ha sottolineato Andronico - perché il carcere già ti ‘stacca’ totalmente dalle tue appartenenze. I detenuti vivono in funzione del colloquio, per loro parlare con i propri familiari è fondamentale perché è un aggancio alla realtà esterna”. In merito ai colloqui con gli psicologi, invece, quali sono le principali richieste di aiuto che provengono dai detenuti in questo momento? “Chiedono misure di rassicurazione, ma noi operatori sanitari più di “contenerli psicologicamente” non possiamo fare - ha risposto Andronico alla Dire - d’altra parte siamo tutti esposti. Noi abbiamo strumenti per contenere le loro angosce, ansie e paure, ma ci sono dei rischi oggettivi che non possono essere trascurati”. Allora quello che bisogna fare, secondo l’esperta, è distinguere tra il rischio di contagio e la percezione del rischio. “Noi psicologi possiamo lavorare sulla percezione del rischio e sul contenimento - ha spiegato - cercando di far avere ai detenuti una visione il più possibile realistica e concreta di quella che è la situazione. Cerchiamo insomma di ridimensionare tutti gli aspetti che la paura può attivare”. Su cosa sia cambiato in carcere, nello specifico dall’inizio dell’epidemia da Coronavirus, la psicologa Andronico ha così risposto: “Dobbiamo partire dal pregresso: in Italia ci sono penitenziari virtuosi, ma gestire un carcere è sempre molto complesso da vari punti di vista. C’è il problema del sovraffollamento, i presidi sanitari sono presenti ma gli operatori sono in difficoltà perché sotto organico, così come lo è la polizia penitenziaria. Quindi la risposta non è mai così efficiente rispetto alla domanda di cura. La situazione a volte è esplosiva. Questa emergenza allora non ha fatto altro che far emergere ed aggravare tutta una serie di difficoltà che già c’erano”. Il mandato degli operatori sanitari resta però quello di garantire la continuità dell’assistenza. Oggi questo viene fatto ovviamente con tutte le misure di sicurezza - ha aggiunto la psicologa - con mascherine, guanti e distanza di sicurezza, perché in un momento così difficile i detenuti non si possono abbandonare, altrimenti si perde anche tutto il lavoro svolto in precedenza. Il carcere è un’istituzione totale e come tale comporta tutta una serie di difficoltà, non solo per i detenuti ma anche per la polizia penitenziaria. Il discorso vale in generale, ma soprattutto ora in questa situazione, dove noi sanitari, insieme agli agenti di polizia penitenziaria, non possiamo rimanere a casa, ma dobbiamo mandare avanti il lavoro”, ha concluso Andronico. Detenuti morti a Modena, i tossici in carcere proprio non ci devono stare di Carlo Giovanardi loccidentale.it, 21 marzo 2020 La rivolta nelle carceri italiane, in particolare nel carcere di Modena, e le sue tragiche conseguenze pongono una serie di interrogativi ai quali sino ad ora non sono state date risposte adeguate. Premetto di considerarmi un garantista e un convinto sostenitore dei principi costituzionali di non colpevolezza dell’imputato sino a sentenza passata in giudicato e della funzione rieducatrice della pena, negli ultimi anni in minoranza in un paese dove si fa il pieno di voti con slogan del tipo “buttiamo la chiave” e “quello deve marcire in carcere” e dove imperversa il “Davigo pensiero”, di cui è devoto sostenitore il Guardasigilli in carica. Detto questo vorrei intervenire sul punto specifico dei nove detenuti deceduti per overdose di metadone, ad alcuni dei quali mancavano pochi mesi per uscire dal carcere, un fatto gravissimo determinato da varie concause, che come cittadino modenese ho avuto modo di approfondire conoscendo personalmente gli operatori di quella struttura, a cominciare dal segretario regionale del Sappe Francesco Campobasso. La prima osservazione è che nelle sovraffollate carceri italiane, la sicurezza non è più garantita dalla Polizia Penitenziaria ma degli stessi detenuti che possono, se lo vogliono, magari costretti da pochi facinorosi, impadronirsi dei locali con conseguenti vandalismi o peggio comportamenti autolesionistici una volta occupata la farmacia del carcere. La seconda osservazione, con l’esperienza maturata come Ministro prima e Sottosegretario poi con delega alle politiche antidroga in tre diversi governi, è la riconfermata convinzione che i tossici in carcere proprio non ci debbano stare. Tutti quelli infatti che hanno demonizzato la legge Fini Giovanardi per ragioni ideologiche, facendo finta di non sapere che è stata il frutto di un serrato confronto con i Sert, le Comunità di Recupero e operatori del diritto come l’attuale Procuratore della Repubblica di Bologna Jimmi Amato, non si sono mai preoccupati della sua attuazione. La legge, con le successive integrazioni (Testo Unico), dispone la sospensione della pena detentiva per reati commessi in relazione al proprio stato di tossicodipendenza “qualora sia accertato che tale soggetto si è sottoposto con esito positivo ad un programma terapeutico e socio-riabilitativo eseguito presso una struttura sanitaria pubblica od una struttura del privato sociale idonea alla cura ed al trattamento della tossicodipendenza (art 90 e seg.). La misura alternativa è rivolta ai soggetti tossicodipendenti e alcoldipendenti che debbano espiare una pena detentiva, anche residua e congiunta a pena pecuniaria, non superiore a sei anni o a quattro anni se comminata per reati di particolare gravità o allarme sociale. L’art 94 prevede l’istituto dell’affidamento in prova, una misura alternativa alla detenzione in carcere, appositamente rivolta ai tossici che abbiano commesso reati a causa della loro dipendenza, sempre nel limite dei 6 e dei 4 anni. L’art. 73 comma 5bis consente per i reati di “lieve entità” connessi alla tossicodipendenza di sostituire la pena (non superiore ad un anno) con “lavori di pubblica utilità” e l’art 89 stabilisce il divieto di disporre la custodia cautelare in carcere per il tossicodipendente con la previsione della obbligatoria sottoposizione agli arresti domiciliari, da scontare anche presso strutture private di cura ed accoglienza. Nel 2011 avevamo anche in corso progetti per strutture specializzate (vedi carcere di Castelfranco Emilia) per la cura dei tossici con pene da scontare superiori ai 6 anni. Da 9 anni purtroppo, dopo lo smantellamento di fatto del Dipartimento Antidroga della Presidenza del Consiglio, né Governi nazionali né Regioni, salvo poche lodevoli eccezioni, hanno investito risorse per applicare quello che la legge prevede. Il Ministro della Giustizia e la Conferenza Stato-Regioni non hanno nulla da dire al riguardo? Per ultimo, ma non per ordine di importanza, il dato di fatto che tutti i nove deceduti erano extracomunitari, di alcuni dei quali non si conosceva né nazionalità né identità, con automatica perdita dei benefici di cui sopra in un perverso circuito carcere, centri di identificazione, rilascio, di nuovo carcere che nessuno sino ad ora è riuscito ad interrompere. Al via le udienze via Skype grazie ai protocolli tra magistrati e avvocati di Giulia Merlo Il Dubbio, 21 marzo 2020 Al via in tutta Italia i processi in videoconferenza. I primi esperimenti sono stati fatti già nelle scorse settimane e piano piano tutti i tribunali italiani si stanno adattando alla nuova situazione. “La Giustizia sta reagendo all’emergenza cercando, tra difficoltà e ostacoli, di garantire lo svolgimento dei processi urgenti e i diritti dei cittadini”, ha confermato il Guardasigilli Alfonso Bonafede, ringraziando magistrati, avvocati e forze dell’ordine per l’impegno. Il decreto “Cura Italia” emesso dal governo ha posticipato al 15 aprile il rinvio d’ufficio delle udienze non urgenti e la sospensione di tutti i termini, ma già il precedente decreto legge dell’8 marzo forniva le prime indicazioni per attrezzarsi all’udienza online. Il testo indica espressamente l’utilizzo dei programmi Skype Business e Teams (di Microsoft) e autorizza i collegamenti sia su dispositivi dell’ufficio che su quelli personali, ma con infrastrutture e aree di data center riservate in via esclusiva al Ministero della Giustizia. Per quanto riguarda le udienze penali, esse si svolgono con gli strumenti di videoconferenza a disposizione degli uffici e degli istituti penitenziari. Se invece non serve la fonia riservata tra il detenuto e il suo difensore, si possono utilizzare Skype Business e Teams. Per quanto riguarda le forniture di strumenti idonei, nella relazione sull’amministrazione della giustizia del 2020, risultano completate con il passaggio da tecnologia analogica a digitale 32 aule presso gli Uffici giudiziari e 123 sale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (su un totale di 276 aule e 425 sale del Dap). L’emergenza sanitaria, tuttavia, ha imposto a tutti i tribunali una netta accelerazione nell’aggiornamento dei propri sistemi telematici per far fronte alle necessità. In molti uffici è avvenuto con successo, soprattutto grazie alla sottoscrizione di protocolli tra avvocati, magistrati e forze dell’ordine che hanno permesso di individuare strutture, allestire aule e omologare i sistemi di videoconferenza. Nord - A Milano, grazie a un protocollo siglato il 14 marzo dall’Ordine degli Avvocati di Milano, la Camera penale, la Procura e il Tribunale, si sono iniziati a a celebrare i processi per direttissima via web, con cinque udienze svolte con Teams. Nelle Aule del Palazzo di Giustizia, invece, sono state celebrate ieri le prime direttissime in teleconferenza. Inoltre, è stata resa funzionante la videoconferenza tra il tribunale e il carcere di San Vittore, per provvedere a convalide di arresti e fermi e agli interrogatori di garanzia. Lo stesso sta avvenendo anche a Brescia, una delle città più drammaticamente colpite dal virus. Anche a Bologna hanno iniziato a svolgersi le prime udienze penali in video-collegamento, con sistemi e computer messi a disposizione dagli uffici. Dal 10 di marzo, il sistema è invalso anche presso la Corte d’Appello di Venezia. Nel tribunale di Cremona, invece, un giudice, con l’aiuto dei suoi studenti del corso di “sistemi digitali per il processo” dell’Università Cattolica facoltà di Giurisprudenza della sede di Piacenza, ha predisposto via Skype un sistema per svolgere le udienze anche con molte parti collegate (se ne è svolta una con 22 avvocati collegati) e con la possibilità per il cancelliere di verbalizzare in diretta schermo. Anche a Bolzano, il 13 marzo scorso, si è svolta via Skype la convalida dell’arresto di un uomo accusato di femminicidio. Per quanto riguarda Veneto, invece, già dall’11 marzo a Treviso è stato possibile concludere via Skype un processo di primo grado con rito abbreviato per estorsione. Anche a Ivrea, in Piemonte, il presidente del tribunale ha emanato una circolare in cui chiede agli avvocati di dotarsi del sistema per poter così svolgere le udienze penali urgenti. Centro - Ieri il Tribunale di Roma ha siglato un protocollo con la Procura, il Consiglio dell’ordine degli avvocati, la Camera penale, la questura, i carabinieri, la guardia di finanza e tutti le carceri cittadini proprio in materia di udienze mediante videoconferenza. Il sistema è stato predisposto e testato, gli strumenti tecnici per consentire le udienze da remoto sono stati o organizzati e dunque anche la Capitale è pronta per la celebrazione delle udienze penali via Skype o teams. A Chieti, in Abruzzo, sono iniziate le convalide di arresto per via telematica, grazie al protocollo d’intesa firmato dal presidente del Tribunale, dal procuratore della Repubblica e dal presidente dell’Ordine degli avvocati Goffredo Tatozzi, e che prevede l’utilizzo della piattaforma Teams per lo svolgimento delle udienze. Sud - Anche il Tribunale di Napoli, come quello di Roma, ha siglato un protocollo di intesa con Procura, Ordine forense e Camera penale e il processo a distanza inizierà a funzionare lunedì, con anche la possibilità di condivisione degli atti giudiziari in una apposita chat. Fino al prossimo 30 giugno, inoltre, saranno raccolti in videoconferenza gli interrogatori di persone detenute e i verbali dei collaboratori di giustizia. Al Tribunale di Agrigento (primo tribunale in Italia ad aver introdotto l’uso della piattaforma telematica per comunicazioni on line per lo svolgimento delle udienze civili) si sono già svolti i primi esperimenti di udienza via Skype, in particolare nel settore civile per un procedimento di affidamento tutelare di un minore. Il giudice ha incontrato virtualmente avvocati e parti e lo ha fatto da casa sul proprio pc personale, dopo che i tecnici hanno attivato i programmi necessari. Così è stato redatto anche il verbale d’udienza. Anche la giustizia pugliese sta adottando il processo online. Dopo la sanificazione degli uffici del palazzo di Giustizia di Bari, dal 23 marzo hanno iniziato a svolgersi in videoconferenza i processi per direttissima, che avvengono un l’attivazione di una videochiamata Skype per pm, giudice e avvocato presenti in aula con dispositivi anti-contagio e per il detenuto in collegamento dal carcere. “Ci meritiamo la pena ma non questa tortura” Il Gazzettino, 21 marzo 2020 La lettera dei detenuti di Venezia, Vicenza e Padova al Capo dello Stato e a Papa Francesco. I detenuti delle carceri di Padova, Venezia e Vicenza, attraverso Il Gazzettino, hanno scritto una lettera al Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella, a Sua Santità Papa Francesco e al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Come tutto il mondo esterno, anche noi detenuti siamo molto preoccupati da questo Coronavirus ora classificato come pandemia, che coinvolge tutti senza distinzione alcuna e che sta cambiando inevitabilmente la vita di tutti. Come è naturale che sia, anche noi tra gli ultimi della società siamo angosciati per i nostri cari che sono al di fuori di queste mura, come loro lo sono per noi. Le condizioni in cui ci troviamo a vivere sono difficili, in alcuni casi impossibili. Qualcuno potrebbe dire che nel Veneto tutto sommato la situazione non è delle peggiori (ma vi assicuriamo che è la guerra dei poveri), come pure qualcuno potrebbe dire che il carcere ce lo siamo meritato. Il diritto a vivere - Per la stragrande maggioranza è vero, ma ci siamo meritati una pena, non una tortura. Ci dovrebbe essere tolta la libertà, non la dignità, il diritto alla salute, il diritto a vivere. Le restrizioni imposte le rispettiamo, ma non le condividiamo del tutto. Ad esempio alcune misure attuate in virtù dell’emergenza, atte al contenimento del virus, come la sospensione dei colloqui con i famigliari, le attività dei volontari e delle associazioni, i permessi premio e le attività degli uffici di sorveglianza. Facciamo fatica, signor Presidente e Sua Santità, a capire la bontà di queste scelte. Vorremmo si capisse la drammaticità di questa scelta per noi. Una visita anche un’ora alla settimana, una parola di conforto di un volontario, un’attività anche se saltuaria, sono piccole cose che ci tengono in vita. Forse tanto malessere non si sarebbe manifestato con violenza se fossero state comunicate ai detenuti le disposizioni tenendo conto del dolore che avrebbero provocato e dando subito in contemporanea la possibilità di telefonare tutti i giorni e di avere colloqui Skype più frequenti. I fortunati - Molti di noi, che hanno avuto la fortuna di avere un lavoro grazie a molte cooperative e aziende, ancor oggi (anche se non tutti) continuano a scendere al lavoro, ma il 98% dei detenuti in Italia non hanno questa fortuna. Noi del 2% ci permettiamo di rivolgere questo accorato appello. Appello che rivolgiamo per tutti noi persone detenute in Italia (presto questo problema lo vivranno anche negli altri Paesi Europei e nel Mondo), ma ci permettiamo di rivolgerlo anche per tutto il personale dell’Amministrazione penitenziaria, agenti in primis. Noi oggi dobbiamo lottare tutti uniti contro la stessa cosa e non contro di noi. Qui non vale più il gioco di guardie e ladri! Qui in gioco c’è la vita di ciascuno di noi. Il merito che può avere questo maledetto virus è da una parte quello, volenti o nolenti, di metterci tutti sullo stesso piano, perché tutti abbiamo bisogno l’uno dell’altro e della collaborazione vicendevole, dall’altra di imporci una seria riflessione, una vera domanda sul senso della vita, della Vita di ciascuno di noi, anche del più derelitto. Ecco perché serviva da subito, ma non è mai troppo tardi, un’attenzione più umana tanto nei confronti di noi 61.000 detenuti e delle nostre famiglie, quanto per le circa 45.000 persone, e relative famiglie, impegnate nella gestione delle 189 carceri. Misura umana - Una più larga, completa, umana e professionale misura sarebbe stata certamente più efficace ma soprattutto compresa e ben accetta. Inutile ricordare che le condizioni carcerarie, il sovraffollamento e tutto ciò che ne concerne non permettono di rispettare anche le regole più basilari che ci vengono indicate dai mezzi di informazione a tutte le ore. Con questa nostra missiva, altresì, vogliamo esprimere la nostra vicinanza, a tutte quelle categorie che nonostante tutto e con tutte le difficoltà del caso continuano a garantire assistenza, cure, sicurezza e controllo. Vogliamo ringraziare tutti i volontari, la loro assenza ci ha fatto capire quanto preziosi sono e a volte quanto male li trattiamo. Vogliamo ringraziare in modo particolare i nostri angeli della Sanità: ai medici e agli infermieri va un simbolico ma sincero grande abbraccio e un elogio rivolto alla professionalità ed umanità che li contraddistinguono. Guardiamo alla loro testimonianza con grande commozione. Sentiamo inoltre il bisogno di sentirci vicini a tutte quelle famiglie che hanno perso delle persone care, noi qui in carcere sappiamo benissimo che cosa voglia dire perdere una persona cara (madre, padre, moglie, figli, fratelli...) senza potergli essere accanto e per molti di noi anche senza potersi recare al funerale. Lasciateci aiutare - In tutte le carceri in modo diverso tutti cerchiamo di aiutare come possiamo. Due esempi per tutti. Dal carcere di Venezia le detenute dopo un’assemblea hanno scritto una lettera per far sentire la loro voce in segno di solidarietà, comunicando che hanno raccolto 1 euro a detenuta per il Reparto di terapia intensiva dell’ospedale dell’Angelo di Mestre (in 70 hanno raccolto 110,00 euro). Alla Casa di reclusione di Padova tra le tante attività una in particolare riguarda proprio il mondo della sanità. Il gruppo di lavoro, nonostante le difficoltà, la paura e la preoccupazione, continua nel suo piccolo a fornire il servizio Cup, centro unico prenotazioni per l’ospedale di Padova (Asl 6/7/5) ed un servizio per l’Ospedale di Mestre. Non potete immaginare che cosa voglia dire poter dare il nostro contributo in un momento come questo, ci fa sentire vivi! Non cerchiamo lodi o ringraziamenti, ma siamo fieri e orgogliosi del piccolo contributo che proviamo con pazienza e dedizione a offrire a persone bisognose e vulnerabili come mai in questo momento. Il pericolo - Le nostre famiglie sono molte preoccupate per noi, cosi come noi per loro. Gli Istituti di pena non sono immuni dal pericolo, anzi sono particolarmente vulnerabili considerate le condizioni in cui versano. Ci chiediamo a questo proposito come verrebbe affrontata una diffusione dello stesso negli Istituti in caso di contagio, considerati il sovraffollamento e le stesse strutture che non permettono le essenziali norme di sicurezza. Ci preoccupa non poco la circolare che ha emesso il capo del Dap: il personale della Polizia Penitenziaria che svolge le sue funzioni presso le carceri deve continuare a prestare servizio anche nel caso in cui abbia avuto contatti con persone contagiate o che si sospetti siano state contagiate, in quanto operatori pubblici essenziali, e nell’ottica di garantire nell’ambito del contesto emergenziale, l’operatività delle attività degli istituti penitenziari e quindi di salvaguardare l’ordine e la sicurezza pubblica collettiva. Ci sembra una provocazione di cattivo gusto! Tra di noi ci sono tantissimi soggetti con gravi patologie come diabetici, cardiopatici, invalidi, persone con problemi respiratori specialmente anziani, nonché tantissimi tossicodipendenti, persone con serie depressioni e patologie psichiatriche, permetteteci di dirlo, una discarica umana. Fiducia - Noi tutti con molta responsabilità vogliamo lanciare allo stesso tempo un grido di aiuto ma anche un invito a provvedimenti atti al contenimento del virus all’interno delle carceri e al problema del sovraffollamento, perché connessi fra loro. Pur essendo fiduciosi nelle istituzioni che stanno affrontando un’emergenza unica nel suo genere, vorremmo richiamare l’attenzione anche su di noi e vorremmo ricordare che esistono gli strumenti e le norme già contemplate dal nostro sistema giuridico. Malgrado l’esigua applicazione, basterebbero da sole a risolvere gran parte dei problemi. Vorremmo ricordarLe, Signor Presidente della Repubblica, che le istituzioni tutte hanno la responsabilità e il dovere di tutelare anche le fasce più deboli e indifese della società. Al nostro Papa Francesco diciamo grazie e non ti preoccupare se i potenti non ti ascoltano o ti ascoltano poco, noi ti vogliamo bene. In questo momento particolare, in cui siamo un po’ tutti più uguali, siamo molto fiduciosi che questo nostro grido di aiuto non cadrà nel vuoto. Ci dispiacerebbe se fosse l’ennesima occasione persa. I detenuti della Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova Cooperativa sociale Giotto. Cooperativa sociale Altra Città Le detenute della Casa di Reclusione della Giudecca di Venezia Cooperativa sociale Rio Terà dei Pensieri. Cooperativa sociale Il Cerchio I detenuti della Casa Circondariale di Vicenza Cooperativa sociale M25. Cooperativa sociale Elica Il volontariato nelle carceri per facilitare l’inclusione sociale dei detenuti di Ivana d’Amore* inliberauscita.it, 21 marzo 2020 In questi giorni d’isolamento collettivo, costretti a stare in casa per le disposizioni urgenti approvate dal Governo atte a contenere il contagio del Covid-19, tutte le attività si sono fermate, siamo come immersi in una quotidianità irreale nell’attesa di autorizzazioni per tornare alla libertà di sempre. E nel silenzio della mia stanza distesa sul letto con lo sguardo fisso al soffitto, penso ai detenuti e mai come adesso li sento ancora più vicini, sarà per la situazione che sto vivendo in questi giorni ma quel mondo carcerario così lontano e sconosciuto per lo più da molti mi manca. Penso ai detenuti, alle ansie per le loro famiglie, ai figli che non potranno riabbracciare, alla polizia penitenziaria costretta a turni massacranti per mancanza di personale, ai direttori, ai medici, agli infermieri, agli educatori, psicologi e ai volontari, chi sa quando potremo ritornare in carcere a svolgere i nostri servizi! Mi tornano in mente le immagini trasmesse nei giorni scorsi dai dai tg nazionali: le urla di rabbia e di dolore delle donne fuori dalle mura delle carceri di Modena, Firenze, Napoli, Bologna, Bollate, Foggia; i poliziotti in tenuta antisommossa; l’agitare dei manganelli degli agenti della polizia penitenziaria, il correre dei detenuti sui tetti degli Istituti di Pena. La protesta è nata per le decisioni prese dal Ministro della Giustizia Bonafede: sospendere i colloqui con le famiglie e con i volontari. Si stima che siano stati coinvolti circa 6 mila detenuti rivoltosi, 13 detenuti morti per overdose, 40 agenti feriti, 16 evasi ancora latitanti a Foggia. E nel silenzio della mia stanza, penso a ciò che non è stato o che poteva essere e penso a ciò che potremmo sperare di poter fare noi volontari con concretezza accanto all’Istituzione Penitenziaria. Il ruolo efficace del volontario in carcere è ormai da molti anni approvato dall’Ordinamento Penitenziario. L’azione del volontariato è decisiva già dal momento dell’ascolto, della condivisione e del sostegno che si realizza durante i colloqui con i detenuti o dando sostegno alle loro famiglie. Incidendo su questi legami affettivi, si riesce non solo a ridurre gli effetti negativi della detenzione ma ad avvicinare il detenuto alla vita esterna, alla vita sociale. Addirittura, con la riforma dell’Ordinamento Penitenziario del 2 ottobre 2018, si riserva al Volontariato un ruolo inedito quale “facilitatore dell’inclusione sociale” attraverso un percorso formativo dal titolo “Volontari per le misure di comunità”. Con tale progetto - in conformità alle direttive europee - s’intende sensibilizzare l’opinione pubblica verso l’accoglienza di detenuti in esecuzione penale esterna. Il principale obiettivo è infondere nel tessuto sociale la fiducia nelle pene non detentive, come l’affidamento in prova ai servizi sociali. Il senso di queste misure sta nel comprendere che la sicurezza, non è: “buttare le chiavi”, “chi sbaglia paga”, “ammazziamoli tutti”, “la certezza della pena”! Al contrario, essa passa attraverso la possibilità del recupero del detenuto come dettato dall’art. 27 della Costituzione Italiana, che mira alla rieducazione del reo durante il periodo in cui la pena viene scontata. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Avviene così nella realtà? Ossia le pene tendono al recupero del soggetto ed al suo inserimento nel tessuto sociale? La pena non deve essere contraria al senso di umanità. Ma cos’è il senso di umanità? Gli avvenimenti di questi giorni non possono scorrere via come acqua, che almeno ci aiutino a riflettere ancora su queste domande. *Volontaria dell’Associazione Vol.A.Re. Carcere e rieducazione ai tempi del Covid-19 di Evelina Cataldo* articolo21.org, 21 marzo 2020 Pochi i colloqui con i detenuti, non ne chiedono. Hanno, probabilmente, paura. La paura è collettiva ma silente: Di contrarre la malattia, di averla contratta senza saperlo, di svilupparla in futuro. La contraddizione della certezza del tempo della pena si misura con l’incertezza dettata dal tempo dell’emergenza sanitaria, della pandemia che non presenta data di scadenza. E così, siamo tutti invischiati nel carcere “desolato” che diventa comunità liquida e comunità del rischio, e, come teorizza Z. Bauman, liquidità imperativa che è sinonimo di incertezza. Il carcere diventa silenzioso, fa sentire con maggiore pervasività il dramma dell’umanità perché gli esseri umani che sono in carcere, lavoratori o detenuti, sono l’estensione o la rappresentazione di relazioni affettive non sempre visibili. I responsabili del governo delle carceri dovrebbero guardare oltre quell’umanità in presenza, perché il rischio non riguarda il solo lavoratore o il ristretto “sospeso” ma si estende a quella rete invisibile delle relazioni familiari e personali, interrotta momentaneamente ai detenuti ma sussistente per gli operatori. I funzionari pedagogici vivono la desertificazione obbligatoria delle attività istruttive e socio ricreative, vivendo l’inutilità della loro funzione in solitaria, perché l’équipe, il lavoro di squadra, è l’unico che riesce a generare coerenza di intenzione pedagogico-risocializzativa nei ristretti. Solitudine e lentezza si impongono, caratterizzazioni che per una volta diventano specchio della società, azzerando le distinzioni tra dentro e fuori. Il tempo congelato della vita esterna è identico a quello del penitenziario, un aspetto che dovrebbe far riflettere la politica, gli esperti, i sociologi e parte degli operatori nel proporre modifiche sostanziali nell’organizzazione della vita della pena del pianeta carcere. *Funzionaria giuridico pedagogica Amministrazione penitenziaria Voghera (Pv). Coronavirus in carcere, i familiari dei detenuti sono preoccupati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 marzo 2020 Continuano a ricevere telefonate dei reclusi in quarantena. I parenti del contagiato, ricoverato a Milano, non sono stati ancora autorizzati a parlare con i medici. I familiari dei detenuti reclusi alla Sezione di Alta sorveglianza del carcere di Voghera continuano ricevere telefonate dei loro cari in quarantena, i preoccupati di una eventuale diffusione del contagio. Come già riportato da Il Dubbio, alla notizia del contagio i detenuti reclusi nel reparto As3 del settimo piano hanno protestato pacificamente, tanto poi da ottenere la possibilità di telefonare giornalmente ai familiari. Sicuramente per ora c’è un black-out: diversi avvocati hanno mandato una Pec per chiedere spiegazioni, ma finora non hanno ottenuto alcuna risposta. Dare delle comunicazioni sarebbe opportuno per rasserenare gli animi che sono, comprensibilmente, agitati. Intanto il detenuto affetto da coronavirus è ricoverato al San Paolo di Milano. Sono passati giorni e ancora i familiari non hanno avuto l’autorizzazione di poter comunicare con i medici per conoscere le sue condizioni. I legali hanno anche fatto istanza al Gip di Catanzaro per avere la possibilità di effettuare colloqui via Skype, sottolineando la disponibilità dei familiari nel donare un Pc o un tablet da mettere a disposizione per i pazienti del reparto ospedaliero. Ad oggi ancora nessuna risposta. Il detenuto è entrato in carcere - in custodia cautelare - a dicembre scorso. L’uomo aveva parlato con i familiari lamentando di stare male, poi il ricovero presso l’ospedale civile cittadino. All’esito del tampone, poi trasferito all’ospedale milanese per la sua positività al Covid-19. Il suo legale spiega a Il Dubbio che hanno chiesto una relazione dalla direzione, ma finora ancora nulla. “Le carceri sono sovraffollate - spiega l’avvocato Giuseppe Alfi del foro di Perugia e uno dei legali del recluso affetto da coronavirus - e la probabilità che possano verificarsi casi di contagio all’interno degli istituti penitenziari è elevata ed è da evitare in tutti i modi, anche perché si rischia di farli diventare dei lazzaretti. La cosa però più vergognosa da denunciare è che, questo mio cliente è stato male per due giorni con febbre altra e problemi respiratori senza essere preso in cura dal personale medico del carcere”. Prosegue ancora il legale: “Gli agenti penitenziari, non sapendo cosa fare e soprattutto non per colpa loro, avrebbero fornito al cliente della semplice tachipirina e dopo 4 giorni in queste condizioni sarebbe stato ricoverato presso l’ospedale San Paolo di Milano. A questo punto - si chiede l’avvocato Alfi - mi domando come è possibile che in un carcere dove i detenuti sono tenuti lontano dalla società sia stato possibile un contagio, soprattutto considerando che il detenuto non vedeva i propri parenti dal 15 di febbraio”. L’avvocato lamenta il fatto che l’uomo “è stato ricoverato senza avvertire familiari e gli avvocati. I familiari hanno avuto notizia del ricovero solo perché, preoccupati di non aver ricevuto la telefonata programmata del proprio parente hanno chiamato il carcere e dopo aver insistito per avere informazioni sono stati notiziati del ricovero”. Infine il legale fa un appello al ministro della Giustizia e al presidente del Consiglio l’appello “affinché nell’ottica di evitare possibili contagi si evitino gli affollamenti negli istituti penitenziari concedendo gli arresti domiciliari ed assicurando una forte presenza di cure ed assistenza medica ai detenuti”. Intanto in altre carceri ci stanno pensando i magistrati di sorveglianza in sinergia con i direttori degli istituti. C’è l’esempio del carcere di Brescia dove hanno giocato di anticipo rispetto al governo. La direttrice Francesca Lucrezi si è mossa in autonomia già da qualche settimana fa, facendo istruire - in accordo con la magistratura di sorveglianza - già le pratiche per chi ha i requisiti per la detenzione domiciliare. Alcune difficoltà però le ha incontrate. Quali? La mancanza dei braccialetti elettronici. A pensare che, secondo la relazione tecnica del governo, i braccialetti già c’erano. O forse no? Bologna. Tre sanitari positivi alla Dozza: in bilico la riapertura dei colloqui per i detenuti Il Resto del Carlino, 21 marzo 2020 L’attacco del Sinappe: “Previsti 40 tamponi al personale di servizio, ma solo a campione anziché in modo mirato”. La Camera Penale: “Si valutino misure alternative”. Ancora tensione alla Casa circondariale Rocco d’Amato. A quanto pare infatti tre operatori sanitari che lavorano nel carcere sono risultati positivi al Covid-19. Una situazione ora al vaglio tra gli altri della direzione della Dozza, dove si dovrà valutare il da farsi anche in vista della riapertura dei colloqui visivi per i detenuti, fissata per questo lunedì. Intanto, fa sapere Nicola D’Amore del Sinappe “stanno valutando di fare quaranta tamponi a campione a membri del personale”, anziché mirati a chi potrebbe essere entrato in contatto con gli operatori positivi. Il sindacato peraltro da giorni chiede a gran voce “di attivare tutte le misure di prevenzione e tutela previste, dotare degli appositi dispositivi di protezione il personale, di sospendere gli ingressi non necessari e di sottoporre tutti i poliziotti al tampone del Coronavirus per scongiurare la presenza di asintomatici”. Così, la situazione rischia di diventare scottante, dopo la rivolta dei piani del reparto giudiziario di poco più di una decina di giorni fa. Elemento su cui punta anche la Camera penale, che sottolinea come “ai detenuti vada chiesta responsabilità, condivisione per le limitazioni che stanno sopportando ed è giusto si incrementino i contatti via Skype anche con i difensori, ma al contempo bisogna che le istituzioni preposte, l’amministrazione penitenziaria e la sanità pubblica, dicano con chiarezza come intendono affrontare l’emergenza nei luoghi di reclusione. È quindi opportuno che venga incrementato il ricorso alle misure alternative”. Ora 55 detenuti del piano giudiziario sono stati trasferiti, ma gli altri stanno in cella tutto il giorno a causa dei danni riportati dall’istituto nella rivolta. Trieste. Carceri, l’inadeguatezza ai tempi del Coronavirus di Elisabetta Burla* triesteallnews.it, 21 marzo 2020 “Le incredibili proteste verificatesi in alcuni istituti penitenziari non devono certo essere prese come esempio o come occasione per affrontare l’emergenza epidemiologica in atto, certamente possono evidenziare, in una forma non certo condivisibile, il disagio e la preoccupazione che viene vissuta nelle carceri. Preoccupazioni che, in altre forme incredibili e per certi versi irresponsabili, si sono viste nella società libera come ad esempio l’assalto ai supermercati e l’assalto al treno al trapelare della notizia dell’imminente blocco dei confini della Lombardia. Scrive così nel suo comunicato di ieri al Comune di Trieste, in merito alla situazione nelle carceri, il garante comunale dei diritti dei detenuti del capoluogo giuliano, l’avvocato Elisabetta Burla. A Trieste, in carcere, non ci sono in questo momento casi di Covid-19; la situazione rimane comunque critica, sotto il profilo dei numeri, essendo alta la percentuale delle persone attualmente in misura cautelare. “Nella casa circondariale di Trieste”, continua Burla, “pur essendoci state delle proteste, sono prevalse la ragione, la responsabilità e la riflessione; è prevalsa la preoccupazione di tutelare sé stessi e i propri familiari, e la comunicazione così come i provvedimenti e le determinazioni della direzione carceraria sono state forse più efficaci. Sono stati sospesi i colloqui coi familiari - così come disposto dal Dpcm dell’8 marzo 2020 - ma sono state immediatamente ampliate le telefonate (solitamente concesse nel numero di 1 alla settimana, di 10 minuti) e la postazione Skype è stata raddoppiata per permettere i colloqui visivi tanto importanti, specie laddove vi sono figli minori. Alla limitazione - necessaria per la tutela del diritto alla salute - di un diritto si è cercato di compensare con altri strumenti che permettessero, comunque, l’esercizio di quel diritto. La sospensione dei colloqui e degli accessi anche dei volontari e degli insegnanti ha comportato un vuoto incolmabile del tempo dedicato al fine rieducativo della pena nel tentativo di ridurre il rischio del contagio. Ridurre il rischio. Perché molte sono le persone che ancora devono fare accesso all’istituto: il personale della Polizia Penitenziaria - al quale i dispositivi di protezione individuale come gel disinfettante, guanti e mascherine sono giunti con gravissimo ritardo - il personale medico e infermieristico, il personale amministrativo, i fornitori di generi alimentari e non. In questo quadro particolare ci si aspettava un intervento dello Stato se non coraggioso, quantomeno tutelante sotto il profilo della sanità. E se vogliamo neppure si confidava in una particolare attenzione alla vita detentiva (che pare non interessare più) ma alla salvaguardia - per quanto possibile - del sistema sanitario perché le carceri italiane, certamente l’Istituto locale, non sono in grado di prevedere spazi dedicati all’isolamento sanitario e alle cure conseguenti: il metro di distanza, continuamente promosso dagli spot, nel carcere non può essere osservato. Pensiamo alla capienza regolamentare della Casa Circondariale di Trieste: 143 persone. Detenuti presenti al 29 febbraio: 185. La pandemia in corso e il sovraffollamento carcerario sono condizioni che avrebbero dovuto consigliare una scelta diversa, adottando provvedimenti deflattivi d’immediata applicazione e non misure che, se applicabili, lo potranno essere tra mesi. Prevedere la detenzione domiciliare per le pene superiori a 6 mesi con il controllo mediante mezzi elettronici (il cosiddetto braccialetto elettronico) significa non voler concedere alcuna misura deflattiva urgente stante l’indisponibilità dei mezzi. Non escludere i reati di cui all’art. 4bis dell’Ordinamento Penitenziario significa precludere l’accesso alla misura a un numero considerevole di persone così come prevedere una preclusione automatica, senza permettere l’opportuna valutazione al magistrato, della concessione della misura - ad esempio - per i detenuti che nell’ultimo anno siano stati sanzionati per le infrazioni disciplinari di cui all’art. 77 comma 1 numeri 18, 19, 20 e 21 del Dpr 230/2000. Ci si aspettava qualcosa di più, che potesse meglio ed efficacemente far fronte all’emergenza attuale; anche il ricorso alla liberazione anticipata speciale, 75 giorni anziché 45, avrebbe potuto permettere un effetto deflattivo. Misure che dovrebbero essere comunque il preludio a un intervento strutturato sull’esecuzione penale”. *Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste Napoli. Il Governo non ha percezione di ciò che accade nei tribunali e nelle carceri di Sabina Coppola* giustizianews24.it, 21 marzo 2020 Come Camera penale di Napoli avevamo chiesto un intervento a tutela della popolazione detenuta attraverso misure che consentissero di sfollare, nel più breve tempo possibile, gli istituti penitenziari. La rivisitazione della L. 199 del 2010 (prevista dal D.L. 18/2020, all’art. 121), contemplando l’adozione di misure ancora più stringenti, dimostra, purtroppo ancora una volta, che il Governo non ha la reale percezione di ciò che accade nei Tribunali e nelle carceri. Alcuni Tribunali di Sorveglianza, tra i quali quelli di Napoli e Salerno, fortunatamente si sono subito attivati per limitare il più possibile il sovraffollamento carcerario (luogo di inevitabili assembramenti) ma eravamo tutti in attesa che il nuovo D.L. (arrivato, per i detenuti con 9 lunghissimi giorni di ritardo rispetto al 9 marzo) consentisse alla Magistratura di Sorveglianza di applicare una sorta di automatismo nella scarcerazione di quei soggetti che, per il residuo pena da scontare, per l’età o per le condizioni di salute, fossero più fragili o, comunque, più meritevoli di un regime alternativo alla detenzione. La scelta del Governo rende la procedura ancora più difficile, finendo in concreto, per limitare la scarcerazione anziché favorirla! Il detenuto che abbia un residuo pena da scontare tra i sei ed i diciotto mesi dovrà presentare una richiesta di detenzione domiciliare, la Polizia Penitenziaria - in piena pandemia - dovrà verificare la idoneità del domicilio, a quel punto bisognerà fare richiesta di un braccialetto elettronico e forse, quando l’emergenza sarà terminata, il Magistrato di Sorveglianza potrà concedere la misura alternativa. Non c’è polemica nella mia ricostruzione ma solo forte rabbia e dispiacere nel constatare che chi avrebbe il potere di intervenire a tutela degli ultimi della società, che al momento sono in pericolo di vita stando uno addosso all’altro, non perde occasione per non farlo. Ed intanto inizia a circolare la notizia dei primi detenuti contagiati: cosa accadrà quando il virus si sarà esteso all’interno degli istituti penitenziari? Vieteremo le scarcerazioni e li lasceremo morire tutti nelle carceri per evitare che ci contagino? *Avvocato e Consigliere della Camera Penale di Napoli Trieste. Il pm Mastelloni chiede un’amnistia per decongestionare le carceri triesteprima.it, 21 marzo 2020 Il Procuratore capo propone anche una sanzione di almeno 500 euro per chi viola il Dpcm: “Attualmente le denunce arrivano a centinaia al giorno, si rischia di ingolfare la giustizia”. Il procuratore capo Carlo Mastelloni ha proposto un’amnistia o un provvedimento analogo che “decongestioni” le carceri per ridurre il rischio di contagi da Coronavirus. Inoltre, per i cittadini che si muovono contravvenendo al Dpcm, la proposta è quella di comminare “una costosa sanzione amministrativa”, che risulterebbe più efficace della denuncia penale che fa riferimento all’art. 650 del Codice penale. Quest’ultima, secondo Mastelloni, rischierebbe di ingolfare l’attività giudiziaria ed ha tempi lunghi con istruzione e celebrazione dei processi. Le due proposte sono state lanciate oggi dal Procuratore capo, che ha risposto alla Rai Fvg a proposito della situazione nelle carceri. Mastelloni ha spiegato, a proposito del Dpcm, che “Quotidianamente pervengono in Procura centinaia di verbali contravvenzionali relativi all’art.650. Visti anche i tempi lunghi per questo tipo di procedimento, credo che un deterrente maggiormente incisivo sarebbe una sanzione amministrativa di importo elevato, penso ad almeno 500 euro”. Aosta. L’educatore: “Intensificati i colloqui via Skype. Detenuti civili e comprensivi” di Sandra Lucchini voxpublica.it, 21 marzo 2020 “L’abolizione dei colloqui con i famigliari, decretata dal governo Conte, non ha esasperato la quotidianità dei detenuti. La sostituzione via Skype li ha rasserenati”. Giuseppe Porta, funzionario giuridico-pedagogico della Casa Circondariale, di Brissogne, riferisce la situazione di assoluta normalità all’interno dell’istituto penitenziario regionale. “La vita degli ospiti scorre come sempre - assicura. Abbiamo previsto un aumento dei colloqui con l’obiettivo di rasserenarli dopo l’annuncio della sospensione degli incontri con le famiglie”. L’educatore puntualizza una realtà penalizzante, di non facile soluzione: “Si è creata una spaccatura fra detenuti italiani ed europei con famiglia in Italia e detenuti extracomunitari a cui è preclusa ogni forma di contatto con i parenti. Situazione angosciante per molte di queste persone”. Sottolinea: “Già in precedenza l’impossibilità di colloquiare con la famiglia era determinata dall’assenza di documenti per molti validi. Nessun clandestino ha accesso al carcere”. Questo scoglio può essere superato nei casi in cui le famiglie hanno la possibilità di produrre alla direzione del carcere un contratto di telefonia fissa corredato delle generalità del detenuto per permettergli la comunicazione. L’impegno della Polizia Penitenziaria, degli operatori sociali e del direttore ha scongiurato le insurrezioni accadute in molti altri penitenziari italiani. Il sovraffollamento di 240 detenuti a fronte di una capienza massima di 180, non ha scatenato ribellioni. I numeri, tuttavia, sono molto variabili. L’applicazione della normativa di ‘svuotamento carceri’ “penalizzerebbe gli stranieri - fa notare Giuseppe Porta -. I detenuti di Stati africani non avrebbero alcuna detenzione alternativa”. Quali sono le domande più frequenti della popolazione carceraria? “L’applicazione dei benefici di legge, con liberazione anticipata, in primis - risponde l’educatore. È possibile ottenerla se il detenuto dimostra un comportamento ineccepibile per almeno sei mesi. Se, poi, qualcuno, ha già un lavoro esterno, può sperare nella semilibertà”. La seconda richiesta, altrettanto frequente, è riferita all’articolo 21. Ovvero, l’opportunità di lavorare al di là delle mura. “È indispensabile, in questo caso, la compiacenza di un datore di lavoro. Il detenuto rientra in carcere dopo la giornata lavorativa”. Il lavoro, vera àncora di salvezza per chi vive le giornate senza tempo dei penitenziari. Per tutti coloro che ambiscono al riscatto sociale, famigliare, lavorativo, affettivo. E, quindi, un’occupazione, anche all’interno del carcere, rappresenta uno spazio vitale di notevole spessore per un dignitoso recupero esistenziale. “È possibile, ma non nei settori dove sono richieste presenze fisse, con competenza consolidata. In altri ambiti, al contrario, vige la rotazione trimestrale”, specifica Giuseppe Porta, con 34 anni di attività nell’istituto penitenziario, di Brissogne. Tre decenni di esperienza lavorativa scandita da realtà emblematiche: “Ho vissuto il passaggio storico dell’agente di custodia, i famosi secondini, alla Polizia Penitenziaria. Ho accolto la nuova classe dirigente e, soprattutto, ho assistito al progressivo e notevole cambiamento del mondo dietro le sbarre, con l’arrivo, negli Anni Ottanta, di un numero consistente di detenuti stranieri ed extracomunitari”, i ricordi di Giuseppe Porta. Sulmona (Aq). Mascherine in produzione al carcere. I detenuti: “Noi in cella, voi a casa” ilgerme.it, 21 marzo 2020 “Noi restiamo in cella ma voi restate a casa. Tutto andrà bene”. E se lo dicono loro che alla reclusione sono allenati, c’è da credergli. Così, con l’esposizione di diversi cartelli, i detenuti del carcere di Sulmona oggi hanno voluto improvvisare un flash mob nelle stanze della socialità: un modo per far sentire la loro vicinanza e il loro coinvolgimento alla battaglia che tutti in questo momento stanno combattendo contro il Coronavirus. E un messaggio, anche, a chi fino a ieri ha continuato a camminare davanti al carcere di via Lamaccio per una passeggiata che ora il Comune è stato costretto a vietare per evitare il diffondersi del virus. L’impegno degli ospiti di via Lamaccio, però, non si limita ai cartelli, ma da qualche giorno ventidue di loro, sotto la direzione del tecnico di sartoria Maria Impedovo, stanno realizzando mascherine protettive. Non si tratta di prodotti certificati, ma di mascherine di cotone con intercapedine nelle quali è possibile poi inserire un ulteriore filtro di protezione (che sia carta forno o assorbenti). Se i controlli necessari dovessero passare l’esame, per quanto privi di filtri, i detenuti del carcere saranno in grado di produrne duecento esemplari al giorno che, spiegano dalla direzione della casa di reclusione, saranno utilizzati per il consumo interno, ma anche al servizio della comunità. “Abbiamo avviato anche un progetto per la produzione di mascherine certificate - spiega il direttore Sergio Romice - e ci auguriamo che in futuro la nostra sartoria possa essere riconvertita a questa utile produzione”. Como. Carcere del Bassone: la quotidianità ai tempi del Covid-19 settimanalediocesidicomo.it, 21 marzo 2020 Un giorno fa, nella solennità di San Giuseppe, il Papa ha ricordato nella preghiera tutti i detenuti, la cui condizione di reclusione è ulteriormente appesantita dalle restrizioni imposte dall’emergenza Covid-19. Ma come procede la vita carceraria all’interno della Casa Circondariale del Bassone di Como? Anche il carcere di Albate una decina di giorni fa, sulla scorta delle gravi proteste messe in atto in altri istituti anche il Bassone ha registrato qualche intemperanza: dallo sbattere rumoroso di pentolame sulle sbarre, al lancio di oggetti, all’incendio di qualche lenzuolo. Nulla di paragonabile a quanto accaduto a Modena, e velocemente rientrato in poche ore, ma che testimonia il disagio e la fatica con cui i detenuti si stanno adattando alle novità imposte da virus. Le proteste al Bassone sono rientrate anche grazie all’impegno messo in campo dalla struttura nel mantenere sempre aperti i canali di dialogo con i detenuti. Dialogo che si è concretizzato anche in un incontro in videoconferenza di una rappresentanza dei detenuti con alcuni magistrati. Nell’ambito del quale i detenuti hanno manifestato il loro disagio rispetto alla situazione ed avanzato alcune richieste, in particolare sulla velocizzazione di pratiche pendenti come la detenzione domiciliare, piuttosto che valutazioni più rapide sulla concessione della libertà anticipata. Positiva la risposta dei magistrati, dichiaratisi disponibili a valutare ancor più rapidamente le problematiche sollevate, anche in considerazione dell’emergenza sanitaria in atto e dei rischi potenzialmente generati dalle condizioni di affollamento in cui i detenuti vivono. Ricordiamo che presso il Bassone sono oggi detenute circa 450 persone, a fronte di una capienza regolamentare di circa 230. Ma che cosa è cambiato, effettivamente, per “ospiti” e personale della Casa Circondariale di Como nelle ultime settimane? Va innanzitutto detto che il Bassone sta gestendo la fase di emergenza in collaborazione con l’ASST Lariana, in attuazione delle linee d’indirizzo diramate dalla direzione generale del welfare di Regione Lombardia. Uno dei primi interventi è consistito nella limitazione degli accessi dall’esterno: in particolare, la sospensione dei colloqui dei detenuti con i familiari. Ed è stato soprattutto questo provvedimento ad accendere la miccia della protesta. Anche se, in realtà, non si è trattato di una vera e propria sospensione, piuttosto della loro sostituzione con conversazioni telefoniche. Fino a prima dell’emergenza la prassi prevedeva per ogni detenuto il diritto a sei colloqui al mese e una telefonata a settimana. Oggi, eliminate le visite, sono consentite tre chiamate la settimana. Inoltre, per i familiari che hanno la possibilità di attrezzarsi adeguatamente, il Bassone permette anche colloqui a distanza attraverso la piattaforma Skype. Oltre a sospendere l’accesso ai familiari si è, ovviamente, reso necessario, alle prime avvisaglie dell’emergenza, attivare un sistema di controllo degli ingressi dei nuovi detenuti e del personale che quotidianamente opera all’interno della struttura. A questo proposito la Protezione Civile ha provveduto al montaggio di una tensostruttura destinata al triage. In base alle linee di indirizzo della direzione generale del welfare regionale i controlli consistono della somministrazione di un questionario da parte di operatori sanitari, nella misura della temperatura corporea e in una visita che rilevi eventuali sintomi evidenti di malessere. Sulla base dell’esito della visita si autorizza o meno l’accesso al carcere da parte di personale esterno. Come detto stessa procedura viene messa in atto nei confronti del personale: dopo un primo controllo, come da procedura indicata, ogni operatore viene invitato a far presenti eventuali successive condizioni di malessere. Il personale non viene pertanto sottoposto a triage tutti i giorni, però ogni giorno è rilevata la temperatura. Detto ciò la vita continua con regolarità all’interno del Bassone, pur con l’inevitabile riduzione di alcune tradizionali attività quotidiane. Lo stop degli ingressi non ha riguardato infatti soltanto i familiari, ma anche i volontari. Ciò ha imposto, obbligatoriamente, una frenata a tutti quei servizi che richiedevano una guida dall’esterno. Fanno eccezione le attività rivolte a detenuti ex tossicodipendenti, portate avanti dagli operatori del Sert, che continuano ad accedere alla struttura. Sospese invece tutte le attività didattiche, come del resto è avvenuto in tutto il Paese. Alcuni servizi, come il centro stampa, proseguono in gestione autonoma da parte dei detenuti. Ovvie limitazioni sono state imposte anche alle attività sportive, che si svolgono regolarmente laddove non sia necessaria la presenza di insegnanti o guide esterne, mentre i detenuti continuano a frequentare la palestra così come a gestire in autonomia alcuni eventi. Milano. Coronavirus, il Comune trasferisce cento senzatetto da viale Ortles al Saini di Andrea Senesi Corriere della Sera, 21 marzo 2020 Misure anti-sovraffollamento nel “Piano clochard”. La palestra del centro sportivo diventa dormitorio. L’obiettivo è alleggerire Casa Jannacci e altre strutture. Troppo elevato il rischio contagio nei dormitori pubblici: servono spazi per accogliere i senzatetto e per evitare affollamenti nei centri che normalmente li ospitano. La prima risposta arriva da Milano Sport, per la precisione dal Saini di via Corelli. Tra oggi e domani nella “palestra 2”, una gigantesca tensostruttura in fondo al centro sportivo, arriveranno i primi clochard solitamente ospiti di Casa Jannacci, il dormitorio comunale di viale Ortles. Alla fine dovrebbero essere almeno cento i senza fissa dimora che dormiranno dalle prossime notti sotto il tendone del centro sportivo. Il tutto fa parte di un piano che ha l’obiettivo di alleggerire Casa Jannacci e le altre strutture “tradizionali”, per evitare che troppe persone convivano sotto lo stesso tetto e consentire un’accoglienza più adeguata al momento. L’obiettivo è arrivare a ospitare non più di 200 persone all’interno del centro di viale Ortles (ora sono 550). La palestra del Saini trasformata in ricovero provvisorio: è uno degli effetti dell’emergenza coronavirus sulla vita di chi non ha una casa dove poter passare il periodo di coprifuoco sanitario. Con rischi sanitari altissimi. “Per questo stiamo ragionando con Milano Sport per individuare altri possibili luoghi per ulteriori trasferimenti”, raccontano dall’assessorato al welfare di largo Treves. I centri di Milano Sport costituiscono l’opzione migliore, perché sono tutti dotati di docce e servizi igienici ed è fondamentale, in questo momento, garantire l’igiene massima per tutti”. A gestire la nuova struttura al Saini sarà Spazio Aperto Servizi. Il Comune ha deciso poi di estendere fino al 3 aprile il “piano freddo”, che durante i mesi invernali ha messo a disposizione 2.700 posti letto, e di mantenere aperti anche di giorno i centri che prima erano solo notturni, in modo da permettere a chi non ha una casa di adeguarsi ai decreti del governo tutelando la propria e l’altrui salute. Le strutture considerate invece non idonee ad accogliere le persone anche di giorno sono state via via chiuse e gli utenti spostati altrove. L’assessorato alle politiche sociali ha per questo allestito due nuovi centri in città, in via Satta e in via Cenisio, mentre Milano Ristorazione sta garantendo, dall’inizio ell’emergenza, tutti i pranzi nelle strutture che rimangono aperte di giorno. È invece grazie alla collaborazione con Emergency che i centri sono stati adeguatamente attrezzati al rispetto delle misure di sicurezza (le distanze, le protezioni sanitarie per gli operatori, la distribuzione del gel igienizzante prodotto dal Politecnico e distribuito dal Comune). I medici di Emergency si occuperanno anche del primo screening sanitario degli ospiti. Palazzo Marino ha infine messo a disposizione lo stabile di via Carbonia per chi è costretto alla quarantena sanitaria ma non ha un alloggio dove passarla. “In questa situazione di emergenza - commenta l’assessore alle Politiche sociali Gabriele Rabaiotti - stiamo lavorando per prevenire eventuali situazioni di pericolo per le persone più fragili di cui ci prendiamo cura. Ecco perché, per ridurre il rischio, abbiamo scelto di alleggerire i centri più grossi come Casa Jannacci e continueremo a farlo per far sì che chi non ha una casa possa trovare l’aiuto necessario nella massima sicurezza”. “Sono grata a Milano Sport per il pronto sostegno - aggiunge Roberta Guaineri, assessore allo Sport -. Gli impianti della città sono una risorsa preziosa e, oltre al Saini, come assessorato stiamo individuando quelli più idonei da mettere a disposizione della comunità per affrontare questa emergenza”. L’antirazzismo oltre la retorica di Andrea Caroselli Il Manifesto, 21 marzo 2020 Tempi presenti. Seconda ristampa per Derive Approdi di “Governare la crisi dei rifugiati” di Miguel Mellino. La storia negata del colonialismo europeo non smette di strutturare e produrre i suoi effetti nel presente. Un fantasma che, come spiega l’autore, prende forma ogni giorno a Lesbo, Calais, Macerata, Rosarno. Presentati come antitetici, il “neo-ordo-liberalismo” di Maastricht/Schengen e il sovranismo xenofobo dell’estrema destra condividerebbero in realtà una matrice comune. Esce in questi giorni la seconda ristampa del libro di Miguel Mellino Governare la crisi dei rifugiati. Sovranismo, neoliberalismo, razzismo e accoglienza in Europa (DeriveApprodi, pp.180, euro 18). È un’ottima notizia per tutti coloro che sentono la necessità di un ritorno riflessivo sulle proprie pratiche antirazziste nel momento in cui, proprio ora, le notizie dalla frontiera greco-turca ci ripropongono la questione della barbarie istituzionale del management europeo delle migrazioni. Le immagini spietate di Lesbo si vanno infatti ad aggiungere ai “punti nodali” di quella geografia di un’Europa postcoloniale che il volume si propone di percorrere per restituirla a un senso che vada oltre la narrazione emergenziale e la (pur condivisibile) ripetizione di reazioni di sdegno. Una geografia anche visiva che, materializzatasi in maniera sempre più evidente a partire della cosiddetta “crisi dei rifugiati” del 2015, l’autore segue come una traccia, un buco nel linguaggio della “civiltà” europea, lo spettro nel presente di una storia negata che non smette di strutturare e di produrre i suoi effetti. Calais, Lesbo, Macerata, Rosarno, il parco Maximilien a Bruxelles, per nominare solo alcuni di questi nodi. Ora, per l’appunto, ancora una volta Lesbo. Sarebbe un errore, sostiene Mellino, considerare il governo della “crisi” come una deviazione, una smorfia eccezionale nel volto di un’Europa altrimenti plasmata dai diritti umani: la sua figura dell’umano è sin da subito sfigurata, deformata da quella frattura razziale che, come un medesimo che cambia, attraversa la storia del capitalismo. Facendo proprio il metodo genealogico, il libro si propone di condurci al cuore della costituzione materiale dell’Ue, alle origini storico-politiche dell’attuale congiuntura e delle sue “pulsioni sovraniste”, per dissotterrare i suoi “scheletri storici”, le sue aporie e i suoi rovesci più inquietanti. Rileggendo Mbembe, l’autore ci invita infatti a scorgere come la biopolitica moderna si sia costituita nell’intreccio sotterraneo con una dimensione necropolitica di gestione del vivente. Guardandola da questa angolazione, la messa al lavoro della vita attraverso la produzione di laissez-faire, di flessibilità e di auto-imprenditorialità presso una parte della popolazione non è che una delle due facce di una stessa medaglia: dall’altra vi è la produzione di terrore, violenza e morte (fisica e/o sociale). Si tratta di un nocciolo di sragione ragionata, per parafrasare le parole di Gordon citate nel testo, le cui ragioni (materiali) sono però tutte da collocare all’interno dei meccanismi di valorizzazione dell’economia politica. E che evidentemente orienta nel profondo anche il “neo-ordo-liberalismo” europeo: più che una crisi dell’Europa ci troviamo allora alle prese con l’Europa nella crisi. Per queste ragioni, Mellino non può non confrontarsi con quella che definisce come una complementare crisi dell’antirazzismo europeo. Lo fa attraverso la teoria politica perché, riprendendo qui Althusser, “ogni problema teorico è un problema politico”: dalla problematica metafisica eurocentrica di Agamben all’apolitica economia morale di Fassin, passando per il tic riduzionista della tradizione marxista europea, spesso troppo preoccupata dal ricucire gli effetti divisivi della razza per prenderne sul serio gli effetti materiali ed esistenziali. Sono dei capitoli complessi ma che sbaglieremmo a considerare “semplici” gesti di erudizione: non è necessario infatti essere degli accademici o aver letto direttamente gli autori citati per beneficiare della loro critica, perché qui a essere problematizzato è, per così dire, l’inconscio politico che permea gran parte del mondo dell’attivismo in Europa. Non è una perorazione acritica per una politica delle identità che, soprattutto attraverso l’accademia, non finisce di rischiare di tradursi in mere “enunciazioni di principio”, slegate dalle dinamiche materiali di lotta al capitalismo come modo di produzione, e di ridursi a operazioni di “pulizia linguistica” e di apertura retorica (vittimizzante) verso l’altro. Il libro ci dice un’altra cosa, e cioè che una volta rimesso il razzismo al centro dei processi di produzione, riproduzione e valorizzazione capitalistici, una volta considerato nei suoi effetti di realtà, non si può che andare al concreto dell’esperienza di subordinazione e resistenza di alcuni gruppi. E poco importano (qui, se possiamo, la cifra produttivamente anti-accademica del testo) inutili dispute sul primato ontologico tra classe/razza/genere, perché le lotte antirazziste di determinati gruppi razzializzati, i riot delle banlieue parigine del 2005 così come il movimento statunitense BlackLivesMatter (per fare solo qualche esempio) sono già di per sé lotte di classe. O meglio, sono il solo luogo dal quale ripartire per costruire una reale, decoloniale, trasversalità insorgente. Senza inutili proiezioni automatiche della propria causa sulle cause dell’altro, per riprendere il Rancière citato da Mellino. Per quanto si presentino ciascuno come “l’Altro dell’altro”, dunque, il “neo-ordo-liberalismo” di Maastricht/Schengen e il sovranismo apertamente xenofobo dei partiti d’estrema destra europea affonderebbero i loro piedi in un’unica storia e condividerebbero una matrice comune. L’uno si specchia nell’altro e, nelle loro pur esistenti differenze, non finiscono di alimentarsi a vicenda: nessuna “eccezione” neo-fascista allora, ma effetto di retroazione” e tentativo di “ristrutturazione interna” dello stesso neoliberalismo. Secondo le tesi del libro, la proposta sovranista in Europa, a differenza del progetto di Trump, si risolverebbe infatti principalmente nell’inasprimento di una gestione escludente della cittadinanza, le cui condizioni sarebbero tuttavia da rintracciare nelle disuguaglianze e gerarchizzazioni coloniali su cui si è fondata ab initio l’Unione Europea. Perché se si guarda oltre alla rivendicazione di un lessico e di alcune pratiche precedentemente ritenute da tenere ipocritamente nascoste (e questi giorni ce lo ricordano), non vi è alcun reale segno di rottura politica con la precedente gestione del fenomeno migratorio. Una gestione che aveva trovato nell’imbricazione governamentale tra delirio securitario e discorso umanitario la chiave per mantenersi apparentemente innocente e nutrire quella che, con Bouteldja, Mellino chiama la “buona coscienza bianca”. L’autore ci mette allora in guardia da qualsiasi tentazione di ripiegare il conflitto politico su un discorso umanitario (perverso e coloniale) che si mostra come completamente interno a un unico dispositivo di produzione differenziata di popolazioni e territori, capace di tenere insieme in un’unica filiera, militarizzazione e gestione caritatevole (semi-servile) delle eccedenze: repressione, terrore e morte da un lato, accoglienza e incorporazione differenziale dall’altro. Un libro con cui riflettere per costruire un “antirazzismo di rottura”. all’altezza della sfida presente. Il virus di Troia. Arriva la sorveglianza elettronica per tutti di Arturo Di Corinto Il Manifesto, 21 marzo 2020 Si moltiplicano le richieste di geolocalizzare i cittadini per limitare l’infezione. Ma si può fare solo nel rispetto della privacy e in un quadro di garanzie costituzionali. La gestione delle misure per arginare il Coronavirus ha rivelato la totale, marchiana e colpevole incapacità dei leader europei ed occidentali di preservare la salute pubblica. Macron lo sapeva dai primi di gennaio, Johnson ha temporeggiato, Trump ha sottovalutato e la Merkel tentennato. L’Italia ha fatto meglio. Tuttavia ritardi, errori nella comunicazione, notizie trapelate a giornalisti amici, impreparazione e indecisioni, hanno favorito la pandemia. Come annunciare la zona rossa in Lombardia senza chiudere le stazioni. Adesso si pensa di correre ai ripari utilizzando strumenti tecnologici di sorveglianza per tracciare gli spostamenti della popolazione. L’unico leader “occidentale” capace di dirlo a chiare lettere è stato il capo ad interim del governo israeliano, Benjamin Netanyahu. Nel suo discorso alla nazione ha citato l’uso efficace dei dati telefonici a Taiwan per garantire la quarantena. Come pure è successo nell’autoritaria Singapore e nella Cina che prima aveva negato e poi censurato la notizia dell’epidemia. Nethanyahu è stato molto criticato perché alludeva all’uso di sistemi di sorveglianza di tipo militare usati dall’antiterrorismo del suo paese e, pare, ai tool di una start up di nome Rayzone che usa Big Data, intercettazioni telefoniche, geolocalizzazione e fonti aperte - social network, social media e blog - per effettuare la sorveglianza elettronica del target. Ora un approccio populista al problema chiede di decidere tra la salute e la privacy anche da noi. È una falsa dicotomia. I paesi democratici devono trovare un giusto equilibrio fra i due diritti fondamentali e preservarli entrambi. Si potrà fare in Italia? Sappiamo che in caso di eventi eccezionali è possibile derogare dalla Gdpr, il regolamento europeo per la protezione dei dati personali. Ma a patto di capirne l’utilità. Secondo il professore Michael Birnhack dell’università di Tel Aviv è possibile applicare un criterio proporzionale di sorveglianza per garantire privacy e salute pubblica. A cominciare dai target del Big Brother elettronico. Per primi, i pazienti. Hanno bisogno delle migliori cure, la loro privacy è ridotta dall’ospedalizzazione ma protetta. La loro anamnesi dice tutto. Secondo, le persone isolate in casa. Chi esce viola la legge. Dovrebbe essere un deterrente sufficiente per chi non ha motivi impellenti. Geolocalizzare quelli che consapevolmente violano le restrizioni potrebbe non servire perché lascerebbero il telefono a casa. Terzo, i malati di cui si vuole ricostruire il percorso dell’infezione. Non tutti ricordano dove sono stati prima di essere infettati. I dati del cellulare possono aiutare. Secondo il professor Birnhack la maggior parte delle persone è pronta a cedere quei dati e consentirne l’utilizzo. Rimarrebbero quelli che devono nascondere la frequentazione con pusher, amanti e prostitute. Infine la localizzazione di chi è stato esposto a un paziente conclamato. Qui ogni informazione serve. Per avvisare quelli potenzialmente contagiati la sorveglianza telefonica può aiutare. Si può fare con i dati delle compagnie telefoniche ma è una misura probabilmente sproporzionata. Secondo Birnhack si può fare il contrario: chiedere alle compagnie di contattare chi era nel posto sbagliato al momento sbagliato, offrendo una serie di garanzie legali. Le possiamo immaginare: l’adeguata protezione cibernetica di quei dati; l’uso temporaneo e la distruzione degli stessi una volta utilizzati; il divieto di usarli per altri fini; un comitato di vigilanza sull’intero processo e il coinvolgimento del Garante della Privacy. In cerca di droga ai tempi del virus di Eleonora Martini Il Manifesto, 21 marzo 2020 La dura vita dei tossicodipendenti (soprattutto senza fissa dimora) con i servizi ridotti e lo spaccio al minimo. L’Italia divisa in due anche per gli assuntori: Sert, drop in e dormitori si riorganizzano Roma, una donna senza fissa dimora al Pantheon nei giorni del Covid 19, con la sua gatta “Fortunella”. “Cerco droga, ne ho bisogno”. È finita sui titoli di cronaca la giustificazione di un giovane fiorentino annotata sull’autocertificazione presentata alla pattuglia che lo ha fermato per i controlli anti Coronavirus, ma c’è poco da sorridere. Fa parte della realtà di una fascia di popolazione che in queste settimane sta vivendo un dramma nel dramma: i tossicodipendenti. Alcuni dissimulano abbastanza bene la loro condizione, e hanno mezzi e soldi per fare rifornimento in tutta sicurezza. Altri non possono o non ce la fanno, e vagano alla ricerca di uno spacciatore su piazza che sfidi le misure di emergenza o si avvicinano per la prima volta a un Sert, oppure ancora spariscono. Qualcuno risucchiato dalla propria emarginazione o in strada, senza fissa dimora, cerca anche di sfuggire ai controlli delle forze dell’ordine e alle denunce. Ma a fare la differenza tra le condizioni di vita di consumatori di sostanze più o meno problematici e di barboni, nell’era del Covid 19, è anche la collocazione territoriale. Perché se è vero che nel Nord la paura del contagio ha diminuito notevolmente l’accesso ai servizi, è pur vero che in quella parte di Italia ci sono più centri di supporto e di riduzione del danno, drop in, strutture di prima accoglienza, dormitori. Anche se tutto procede a ranghi ridotti e i medici dei Sert spesso si sono trasferiti nelle corsie d’ospedale a dare una mano nell’emergenza. “Da noi a Torino i servizi a bassa soglia sono in gran parte chiusi e la distribuzione di siringhe e strumenti per la riduzione del danno avviene solo in alcuni punti e in alcuni giorni - racconta Lorenzo Camoletto, formatore del gruppo Abele - le unità mobili si sono ridotte da quattro a una e la disponibilità in strada di cocaina ed eroina è anche diminuita. Eppure invece di aumentare, si riducono gli accessi: delle centinaia di passaggi al giorno nei servizi che avevamo fino a due settimane fa è rimasto ben poco”. Forse molti hanno fatto scorta, altri non hanno il coraggio di muoversi e resistono, anche perché, come spiega Cristiano Bregano, coordinatore delle unità mobili della Cnca a Milano, “da tempo ormai la qualità delle sostanze si è abbassata molto, insieme ai prezzi, e ciò vuol dire che sono più tagliate, hanno meno principio attivo, danno meno dipendenza e più effetti collaterali imprevedibili”. A Milano, ma un po’ in tutto il Nord est, la repressione ha disperso lo spaccio: “Le piazze classiche utilizzate da fasce sociali più marginali si sono molto ridotte - riferisce Riccardo De Facci, presidente del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza: a Rogoredo e al Parco delle Groane non c’è il via vai delle persone che compravano e consumavano in loco. Ora vengono in macchina a ritirare, previo appuntamento telefonico con lo spacciatore”. Così, spiega ancora Bregano, “è più difficile per noi agganciarli ai servizi e fare riduzione del danno. I tossicodipendenti sono più abbandonati e tra poco saranno ancora più soli e più vulnerabili”. A Roma e Napoli i numeri dell’accesso ai Sert sono più stabili. Addirittura la sensazione degli operatori - ma i dati certi non ci sono ancora - è che l’utenza sia perfino leggermente in aumento. Forse per via della difficoltà di spostamento sul territorio, o per una marginalità maggiore, o perché, come riferiscono, le sostanze hanno subito un aumento dei prezzi insieme al “rischio d’impresa” e allo stesso tempo è più difficile procurarsi i soldi per l’acquisto (meno lavoro, meno possibilità di delinquere, meno prostituzione), fatto sta che le richieste di metadone in qualche Sert sono aumentate. In via Casilina 1368, il Sert romano che serve anche Tor Bella Monaca, con 1700 cartelle cliniche, come dappertutto, “il contatto con il paziente è diventato più veloce - racconta il medico Michele Pellegrino - stiamo allungando i tempi di consegna dei farmaci sostitutivi per evitare di farli uscire di casa troppo, perciò abbiamo meno contatti. Non si riesce a seguire la routine multidisciplinare, anche se abbiamo rafforzato il supporto telefonico, soprattutto psicologico”. Il problema più grande però - è l’opinione di tutti - sta nei tossicodipendenti (spesso poliassuntori e alcolisti) senza fissa dimora. In Italia le persone che vivono in strada, secondo i dati del Ministero delle politiche sociali, nel 2015 erano 50.724, 85,7% uomini, 4 su 10 italiani, l’80% vive nel Nord e centro. “A Roma, grazie al sindaco Alemanno, tutta la rete di residenzialità leggera dove vengono accolte le persone con dipendenza media è stata smantellata - ricorda De Facci - è rimasta solo Villa Maraini, con una decina di posti letto. Nella Lombardia ci sono otto strutture di prima accoglienza, 200 posti letto a Milano”. Poi ci sono i posti nei dormitori pubblici, ma il turn over lì è bloccato per prevenire il contagio, e si cerca il più possibile di non farli uscire di giorno. Gli operatori stanno riorganizzando, con difficoltà inaudite, i servizi. La Federserd, la federazione dei Sert, che ogni anno tratta 300 mila utenti, sta lavorando a ritmo serrato per questo. E, racconta lo psichiatra Alfio Lucchini, ex direttore del Dipartimento delle Dipendenze della Asl Milano 2, “abbiamo lanciato una campagna sui social e attraverso altri canali per invitare le persone tossicodipendenti a rivolgersi ai servizi in questo momento, per la loro salute e per quella degli altri”. Francia: Il coronavirus entra nelle carceri: 9 agenti positivi, 1 detenuto morto, 230 isolati Askanews, 21 marzo 2020 Nove membri del personale penitenziario francese sono risultati positivi al coronavirus in Francia e circa 230 detenuti sono stati messi in isolamento: lo ha annunciato oggi l’amministrazione penitenziaria di Parigi (Dap). Tra le nove persone risultate positive al coronavirus figurano due infermieri e il direttore delle risorse umane di Fresnes. “Circa 300” secondini in Francia, su un totale di circa 70.000, “sono nelle loro due settimane a casa”, ha detto il Dap, e altri 50 sono usciti dalla quarantena. Finora un solo detenuto, un uomo di 74 anni nella prigione di Fresnes (Val-de-Marne), è risultato positivo. È deceduto lunedì sera, senza essere stato in contatto con il resto della popolazione carceraria, secondo il ministero della Giustizia. Iraq. Le prove sull’uccisione intenzionale dei manifestanti di Riccardo Noury Corriere della Sera, 21 marzo 2020 Da una nuova, esclusiva indagine visuale di Amnesty International e Situ Research è emerso con tragica chiarezza come, durante le manifestazioni dello scorso ottobre, le forze di sicurezza irachene abbiano volutamente ucciso o ferito in modo grave decine di manifestanti lanciando granate di tipo militare direttamente contro la folla. Le due organizzazioni hanno realizzato un sito interattivo che contiene tra l’altro una ricostruzione in 3D di episodi mortali avvenuti nella capitale Bagdad, nei pressi di piazza Tahrir e del ponte Jimhouriya. La nuova indagine conferma quella precedente di Amnesty International, che per prima aveva identificato quelle granate come modelli per uso militare: la granata M99 prodotta dalla fabbrica serba Sloboda Cacak, la granata contenente gas lacrimogeno M651 e la granata fumogena M713, queste ultime prodotte dall’Organizzazione delle industrie della difesa in Iran. Del peso di circa 250 grammi, queste granate sono 10 volte più pesanti dei normali candelotti di gas lacrimogeno. Viaggiano alla stessa velocità di questi ultimi ma hanno un impatto assai maggiore, specialmente quando vengono lanciate da un’angolatura bassa. La forza prodotta ha colpito le vittime in maniera orribile: granate intere (come si vede nel dettaglio di una Rx in alto) o grandi schegge di metallo sono penetrate nel cranio e nei corpi dei manifestanti, dalle cui ferite aperte usciva ancora del fumo. Gli esperti di Amnesty International hanno detto che quelle immagini sono tra le peggiori mai viste. Situ Research ha utilizzato un modello digitale per simulare il lancio di una delle granate, attraverso l’uso di gelatina balistica: un’analisi fatta comunemente dagli esperti per determinare il tipo e la gravità delle ferite causate dalle pallottole e da altri proiettili. Sulla gelatina la granata ha avuto un impatto notevolmente simile a quello di un fucile calibro 12 usato per cacciare selvaggina. In altre parole, quando sono esplose direttamente contro un bersaglio da un’angolatura bassa, le granate cosiddette “meno che letali” sono letali tanto quanto armi pesanti che hanno lo scopo dichiarato di uccidere. Attraverso l’esame dei video e la raccolta di testimonianze di manifestanti e operatori sanitari, Amnesty International ha potuto documentare la morte di oltre 20 persone a causa di queste granate da quando, lo scorso ottobre, sono iniziate le proteste. Ma poiché le ricerche si basano solo su immagini validate e su testimonianze dal terreno, il numero reale delle vittime potrebbe essere assai più alto. Purtroppo, dopo una pausa tra la fine di novembre e dicembre, nuove immagini hanno di nuovo documentato l’uso delle granate, a gennaio e a febbraio del 2020. India. Impiccati i responsabili dello stupro che sconvolse il Paese di Raimondo Bultrini La Repubblica, 21 marzo 2020 Giustiziati gli uomini che nel dicembre 2012 aggredirono e violentarono una studentessa su un bus di Delhi. Decine di persone si sono radunate davanti al carcere di Nuova Delhi dove stamattina sono stati impiccati dopo vari rinvii i quattro uomini condannati a morte per lo stupro che sconvolse l’India la sera del 12 dicembre 2012. Una studentessa di fisioterapia di 23 anni, Jyoti Singh, ribattezzata dai media Nirbhaya venne aggredita e violentata mentre tornava in autobus dal cinema con un amico, a sua volta ferito nel tentativo di fermare gli assalitori. La ragazza morì 17 giorni dopo in un ospedale di Singapore dove fu portata per un estremo tentativo di salvarla mentre gli autori venivano rintracciati e arrestati sull’onda montante di un’opinione pubblica sempre più infuriata per l’ennesimo stupro in un Paese dove ben pochi responsabili finivano davanti alla giustizia. Tra loro l’autista stesso Ram Singh - trovato in cella senza vita in circostanze misteriose un anno dopo - quattro adulti e un minorenne che non poteva essere condannato a morte. L’impiccagione è stata eseguita come previsto alle 5,30, dopo che i giudici della Corte Suprema hanno respinto anche l’ultima richiesta di perdono e di grazia presentata dal più giovane del gruppo, Pawan Gupta, che sosteneva di essere minorenne all’epoca dei fatti. Allo stesso modo nell’ultimo anno erano state respinte tutte le altre istanze dei legali. Anche se la revisione dei singoli casi ha fatto slittare le esecuzioni di un mese e mezzo, i dirigenti della prigione di Tihar dove è avvenuta l’impiccagione avevano già ordinato da tempo le speciali corde necessarie al boia realizzate appositamente dai prigionieri di un altro carcere a Buxar, difficili da rompere e fabbricate in modo da non tagliare la gola dei condannati mentre sono appesi. “Questo calvario è durato 8 anni, ma Nirbhaya ha ottenuto giustizia - ha detto la madre della ragazza Asha Devi - tutte le donne e i bambini dell’India hanno ottenuto giustizia” e ora “l’anima di mia figlia riposerà in pace”. Un sentimento condiviso da molti indiani che aspettavano l’esecuzione come un monito per gli autori dei numerosi altri casi di violenza che continuano ad accadere in India. Ma la morte della studentessa di Delhi avvenne in circostanze tali da far inorridire un paese intero, e I medici che tentarono di salvarla hanno descritto le condizioni drammatiche in cui venne ricoverata Nirbhaya, con lesioni mortali agli organi vitali frutto di sevizie crudeli. Secondo le testimonianze del giovane amico della studentessa - ferito a sua volta non mortalmente a bordo dello stesso bus - il capo della banda di balordi era senza dubbio l’autista Ram Singh, 34 anni, che secondo alcune testimonianze potrebbe essere stato ucciso in cella un anno dopo camuffando la sua morte come suicidio. Ma non ci sono prove certe e resta per ora la certezza del suo ruolo durante quella notte di orrore, spalleggiato dal fratello Mukesh, 32 anni. Entrambi vennero arrestati nel Rajasthan pochi giorni dopo l’inizio delle indagini basate su immagini registrate e testimonianze di altri impiegati del deposito di autobus privati con licenza di trasporto pubblico. I fratelli provenivano da uno degli slum a sud della capitale, la baraccopoli di Ravidas, mentre Vinay Sharma, 26 anni, era un assistente istruttore di palestra, e Pawan Gupta vendeva frutta ai mercati. Tutti sono stati condannati a morte nel 2013, sentenza confermata dalla Corte suprema nel 2017. “Dedico questo giorno a tutte le donne e i bambini di questo paese - ha voluto aggiungere la madre di Nirbhaya. Ho iniziato questa battaglia per mia figlia, ma continuerò a combattere per tutte le donne e i bambini di questo Paese”. Arabia Saudita. La sorella dell’attivista chiede aiuto al mondo: “Liberate Loujain” di Viviana Mazza* Corriere della Sera, 21 marzo 2020 La ragazza ha passato due anni in cella. L’udienza rimandata ancora una volta, a causa dell’emergenza coronavirus. L’attivista saudita Loujain Al-Hathloul non è apparsa in tribunale l’altro ieri a Riad: la seduta è stata rinviata di nuovo, come già una settimana fa, a causa dell’emergenza coronavirus. “I nostri genitori hanno il divieto di lasciare l’Arabia Saudita ma potevano andare a trovarla una volta la settimana in carcere. Ora non possono più, anche le visite sono state sospese per timore dei contagi”, dice al Corriere la sorella Lina, che vive a Bruxelles. Preoccupata, chiede l’immediato rilascio di Loujain, una dei 17 attivisti per i diritti umani - quindici donne, due uomini - arrestati quasi due anni fa. Era il 17 maggio 2018. Un giornale pubblicò le loro foto sotto il titolo “Traditrici”. Le accuse: minare la stabilità del Regno con l’assistenza economica di “entità straniere” e sovvertire le tradizioni nazionali e religiose. Cinque di loro - Samar Badawi, Naseema al-Sada, Nouf Abdulaziz, Maya’a al-Zahrani e la stessa Loujain al-Hathloul - restano in prigione e dovevano apparire in tribunale. Gli altri sono stati provvisoriamente rilasciati, ma tenuti sotto stretta sorveglianza, con il divieto di usare i social e rilasciare interviste, in attesa di giudizio. Tra le prove presentate contro Loujain Al-Hathloul, ci sono un noto viaggio in macchina che intraprese nel 2014 dagli Emirati fino al confine saudita e i video condivisi sui social mentre era alla guida; inoltre, un’intervista con una tv americana e una sua domanda d’impiego presso gli uffici delle Nazioni Unite. Nel 2014, dopo aver annunciato le sue intenzioni a 228.000 follower su Twitter, la giovane, allora venticinquenne, con studi in Canada e laurea in letteratura francese, partì da Abu Dhabi con una regolare patente ottenuta negli Emirati. Quando cercò di entrare in Arabia Saudita fu arrestata. Non era la prima volta che attiviste come lei finivano in manette per aver chiesto di poter guidare. Ha colpito comunque che sia successo di nuovo nel 2018, un mese prima che quel diritto fosse finalmente concesso alle saudite. “Loujain è stata fermata mentre guidava da Dubai ad Abu Dhabi. È stata bendata, costretta a salire su un aereo e portata in Arabia Saudita”, dice Lina. “Un rapimento”. L’unico loro crimine - ha dichiarato Human Rights Watch - sembra essere l’aver voluto che le donne guidassero prima che lo volesse il principe Mohammad bin Salman, che mira a diventare il prossimo sovrano dell’Arabia Saudita. Le sue recenti riforme economiche e “sociali” - a partire dalla perdita di potere della polizia religiosa - sono state accompagnate dalla repressione del dissenso e di ogni minaccia percepita contro il suo potere. Nell’ottobre 2018, il principe ereditario dichiarò in un’intervista che quelle attiviste erano spie che volevano destabilizzare il Paese e c’erano prove; poi un anno dopo - forse anche a causa dello scandalo dell’omicidio di Jamal Khashoggi per mano dei servizi sauditi- Mohammad bin Salman si è limitato a dichiarare che il caso “è di competenza della magistratura”. Lina afferma che il messaggio è chiaro: le riforme sono concesse dall’alto ai sudditi, non sono diritti per cui si lotta. Giura che continuerà a parlare di sua sorella finché non sarà libera. Nel dicembre 2018 i familiari hanno denunciato che Loujain è stata sottoposta a torture con l’elettroshock, frustate, “waterboarding” e denudata da ufficiali della sicurezza che l’hanno aggredita sessualmente. La famiglia ha chiesto una perizia medica, il Regno ha negato tutto. Le torture fisiche sono cessate - dice Lina - ma non quelle psicologiche. In uno degli ultimi tweet prima dell’arresto del 2018, Loujain citava una frase del principe Mohammad: “Non abbiamo la situazione migliore al mondo per i diritti umani, ma stiamo facendo grandi passi avanti”. L’attivista commentava: “Dichiarazioni come questa sono rassicuranti, riflettono un chiaro interesse per le norme internazionali. Possiamo fare un salto avanti, migliorare la reputazione del Regno e provare la serietà di queste affermazioni rivedendo i casi dei prigionieri di coscienza”. Un appello che ora viene rilanciato da Lina: “Mia sorella e gli altri non sono criminali, ma prigionieri di coscienza. Lasciateli andare se volete provare che il Regno è cambiato”. *Ha collaborato Farid Adly