Carcere: briciole di libertà, briciole di salute di Ornella Favero Vita, 20 marzo 2020 La presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia commenta le misure del Decreto #CuraItalia relative al carcere: “Soluzioni deboli e inadeguate, in luoghi in cui c’è fame di tutto, di spazi più accettabili, di cure, di informazioni attendibili”. Briciole di libertà, briciole di salute: questa ci sembra la sostanza dei nuovi provvedimenti per fronteggiare il rischio di coronavirus nelle carceri. Soluzioni deboli e inadeguate, in luoghi in cui c’è fame di tutto, di spazi più accettabili, di cure, di informazioni attendibili. Gentili cittadini liberi anche se reclusi in casa, gentile ministro della Giustizia, gentile ministro della Salute, la prima cosa che vorremmo ricordarvi riguarda i rischi che state/stiamo correndo: se il virus si diffonderà nelle carceri, si riverseranno sul sistema sanitario già così pesantemente provato migliaia di malati, tra persone detenute e operatori. Perché nessuna “distanza sociale” si può rispettare in carceri sovraffollate, dove vivono persone spesso fragili per un passato di tossicodipendenza e tante patologie. Ancora una volta assistiamo invece, rispetto alle carceri, all’emanazione di provvedimenti nati dall’urgenza del momento e che però prevedono molteplici fattori che rischiano di limitare gli effetti a un numero ridotto di casi a livello nazionale. In accordo ai primi Dpcm con i quali il Governo imponeva, per prevenire il rischio di contagio da coronavirus nella società, l’utilizzo dei dispositivi individuali di protezione, anche il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria avrebbe dovuto provvedere ad applicare nelle carceri le stesse misure, in realtà per circa tre settimane questo si è tradotto in quasi nulla di fatto con la Polizia Penitenziaria e in generale gli Istituti di pena spesso privi di gel disinfettanti, guanti, mascherine, e adesso c’è un ritardo desolante nell’affrontare l’emergenza sanitaria. Ora si prevedono nuove misure per fronteggiare il sovraffollamento e per contenere il pericolo del contagio all’interno degli Istituti penitenziari, ma è davvero troppo, troppo poco. E crescono la disperazione, la paura, la rabbia. L’emergenza sovraffollamento già in passato era stata fronteggiata, con strumenti però ben più efficaci e celeri, da un lato facendo ricorso alla liberazione anticipata speciale pari a 75 giorni anziché 45 a semestre, dall’altro con la detenzione domiciliare speciale. Oggi, che l’emergenza è doppia, sovraffollamento e coronavirus, le misure sono davvero debolissime: lasciamo ai giuristi il compito di cercare disperatamente di proporre, in sede di conversione del decreto, modifiche significative all’ultimo Dpcm, ma bisogna che per lo meno la detenzione domiciliare speciale sia concessa a chi ha un residuo pena fino ad almeno due anni, senza la previsione del braccialetto elettronico e soprattutto senza tutte le altre limitazioni, in particolare relative all’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario. Un’ultima osservazione: certamente, tra gli ammalati nel mondo “libero”, ci saranno anche chissà quante persone che hanno massicciamente evaso le tasse o contribuito a inquinare l’ambiente, creando danni a tutti noi, e ora vengono curate dalla sanità pubblica. Allora, forse dobbiamo cominciare a riflettere sul fatto che i “cattivi” non sono solo quelli rinchiusi, e che il sistema sanitario non deve guardare alle colpe, ma alle persone. E se le persone si ammaleranno in carcere, non potrete far finta di nulla. Cominciate tutti a riflettere sul fatto, che persone che hanno da scontare ancora fino a un massimo di 18 mesi (ma noi speriamo che si arrivi almeno a 24 mesi) usciranno comunque presto, e mandarle oggi in detenzione domiciliare invece che lasciarle a intasare le galere significa agire per la sicurezza di tutti, la sicurezza sanitaria ma anche la sicurezza sociale. Carceri, braccialetto elettronico e detenzione domiciliare di Marta Rizzo La Repubblica, 20 marzo 2020 “Aspettiamo che il decreto “Cura Italia” dia i primi risultati”. Mauro Palma, Garante Nazionale delle persone Private delle Libertà Personali, fornisce dati e ragiona sulla delicatissima situazione del Paese e dei sui detenuti nel tempo del Covid-19. Dopo le insurrezioni, i morti e il primo caso di Covid-19 nell’Istituto penitenziario di Voghera, in attesa che si torni all’ordine in seguito ai decessi nei giorni scorsi, Mauro Palma - Garante Nazionale delle persone Private delle Libertà Personali - riflette sullo scollamento tra carcere e società, preesistente al Covid-19. Restando vigili, affinché i provvedimenti del Decreto Cura Italia si rivelino efficaci, oppure vadano rivisti. Il punto sulle carceri italiani ai tempi del Covid-19. Secondo i numeri costantemente aggiornati dagli Uffici dei Garanti Regionali e da quello Centrale, sono stati 49 gli Istituti Penitenziari coinvolti nelle insurrezioni dei detenuti per l’emergenza Covid-19. Dopo le rivolte e i morti dei giorni scorsi, si è istituito un gruppo di lavoro che ha partecipato alla costruzione del decreto Cura Italia, nella parte specifica per regolamentare il sistema penitenziario in questa emergenza pandemica. Il gruppo è composto dal Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, dal Capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (Dap), Francesco Basentini, dal Capo del Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità del Ministero di Giustizia Gemma Tuccillo e dal Garante Nazionale delle Persone Private delle Libertà Personali Mauro Palma. Le risoluzioni contenute nel Decreto Cura Italia. - Arresti domiciliari e braccialetti elettronici per chi deve scontare una pena inferiore a 18 mesi; - Chi ha una pena residua inferiore a 6 mesi e i minori direttamente ai domiciliari, senza braccialetto. Ma è polemica: da associazioni e iniziative in difesa della tutela della salute e dei diritti dei detenuti, giungono allarmi e proteste per le inadeguatezze del provvedimento. Mauro Palma, chiede di aspettare i 10 giorni previsti dal decreto governativo del 16 marzo scorso, per verificare l’efficacia di un provvedimento in fieri, in un momento così delicato e grave. Il Decreto Salva Italia per le carceri. I limiti posti all’ autorizzazione dei domiciliari sono molti, per evitare che la necessità di alleggerire le carceri dal sovraffollamento determini il ritorno a casa di detenuti particolarmente pericolosi che stanno per finire di scontare la condanna. E, tuttavia, da più parti si obietta che le restrizioni siano talmente numerose che si rischia, in realtà, di vanificare l’obiettivo che il decreto stesso si pone di centrare. Braccialetto elettronico. Ai beneficiari della detenzione domiciliare dovrà essere applicato il braccialetto elettronico, o dovranno essere sottoposti a controllo mediante “altri strumenti tecnici”, non meglio specificati, “resi disponibili per i singoli istituti penitenziari”. Il decreto riserva dieci giorni di tempo al Dap per fare il conto dei braccialetti elettronici a disposizione e per individuare “altri strumenti tecnici da rendere disponibili, nei limiti delle risorse finanziarie disponibili”. Beneficerà, invece, senza problemi della misura solo chi deve espiare un residuo pena inferiore ai sei mesi e i minorenni (i quali dovranno poi sostenere un percorso rieducativo che sarà attivato, entro 30 giorni dal ritorno a casa, dai servizi sociali): per questa categoria è prevista una detenzione domiciliare immediatamente applicabile. Categorie di detenuti escluse dai domiciliari. Non potranno accedere ai domiciliari i colpevoli di: terrorismo, eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza, peculato, corruzione, associazione di stampo mafioso, scambio elettorale politico mafioso, riduzione o mantenimento in schiavitù, prostituzione e pornografia minorile, chi è colpevole di atti di violenza sessuale, sequestro di persona, maltrattamenti contro familiari e conviventi, stalking e per tutti i reati aggravati dalla matrice di stampo mafioso; i delinquenti abituali, professionali o per tendenza; i sottoposti al regime di sorveglianza particolare; chi abbia avuto sanzione disciplinare per gravi infrazioni; i detenuti privi di domicilio effettivo e idoneo, anche per tutelare le persone offese. I numeri di morti, feriti, evasi. I morti in carcere in Italia, in seguito alle sommosse dei giorni scorsi, provocate dalle legittime preoccupazioni per il virus, sono stati 13 morti; tra le persone detenute e alcune tuttora in ospedale in condizioni precarie, la maggior parte sono stranieri; 59 i feriti, nessuno grave, tra i poliziotti penitenziari. Cinque operatori sanitari e due poliziotti sono stati trattenuti in ostaggio per otto ore a Melfi. A ciò si aggiunge la situazione, documentata anche in un video, del facile allontanarsi di 72 persone dall’Istituto di Foggia: ma dopo alcuni giorni di latitanza sono stati quasi tutti ripresi. Tutte le morti sembrano riconducibili a ingestione di farmaci e/o metadone, o comunque a cause non riferibili a violenza diretta. Molte sezioni sono andate distrutte e il Dap valuta una riduzione di circa 2000 posti per lavori da eseguire con urgenza. Reparti di isolamento e trasferimenti. “Gli Istituti stanno attrezzando dei reparti di isolamento sanitario per il monitoraggio soprattutto delle condizioni di salute dei nuovi giunti e dei trasferiti - informa subito Mauro Palma - Attualmente, sono operative 16 sezioni di questo tipo, lungo tutta la penisola. La gran parte di queste sono tuttora vuote. Continuano le richieste del personale penitenziario per una maggiore e più strutturata attenzione alla difficoltà del proprio ruolo in questi momenti, con la predisposizione di presidi sanitari adeguati. Riguardo gli incidenti della settimana scorsa, ho chiesto al DAP sia un chiarimento sull’effettiva informazione data alle famiglie delle persone decedute, trattandosi, peraltro, di ben 11 persone straniere su 13, sia sull’effettiva possibilità data alle persone trasferite negli altri Istituti di informare i loro riferimenti affettivi circa la nuova assegnazione detentiva”. Il Covid-19 dentro: 1 caso certo a Voghera, 10 i positivi. Più inquietante ancora si rivela la notizia del primo caso ufficiale di Coronavirus dentro, segnalato il 17 marzo a Voghera: i detenuti entrati in contatto con il recluso contagiato sono ora in isolamento. Il Dap ha comunicato che 10 persone risultano positive dal 22 febbraio scorso: comunque, una maggioranza di essa non era ancora entrata in contatto con altri reclusi, in quanto nuovi giunti. Un giorno prima del primo contagio, il 16 marzo, il Governo diffonde il decreto ‘Cura Italia’, che pone nuovi vincoli e nuove normative anche sul sistema penitenziario, con la concessione della detenzione domiciliare a chi deve espiare un residuo pena inferiore ai 18 mesi. Sin qui, i fatti. “Carcere: luogo della complessità culturale”. Se è vero che il mondo dall’inizio della pandemia non sarà più lo stesso, o che riprenderà a girare, ma scosso irrimediabilmente e pieno di buchi nuovi, è anche vero che molti dei vecchi buchi sociali non potranno che acuirsi. Uno tra i problemi più scomodi della società, è quello carcerario, come insegna Foucault. Da ora, lo sarà di più. Mauro Palma nasce come matematico e, da Garante Nazionale delle Persone Private delle Libertà Personali, aiuta a capire la complessità di questo grande rimosso sociale tramite precisissimi calcoli estremamente efficaci: “I condannati in Italia sono, a oggi, 60.077 - spiega il Garante - calcolati con precisione assoluta e aggiornati quasi ogni minuto. Il sovraffollamento c’è, ed è preoccupante perché non è uguale in tutte le sezioni e in tutte le regioni: la Puglia, per esempio, è, con Campania e Lombardia, la regione in cui il sovraffollamento è in assoluto più elevato. Ma questo non è “il” problema delle carceri italiane. Ci sono altri numeri e altre questioni che riguardano in parte il carcere e, ripeto, solo in parte il carcere”. “Il sistema carcerario non guarda al domani e al fuori”. “Il carcere attuale non ha un progetto complessivo - continua Palma - C’è un’innegabile tensione del Dap a far star meglio sia il detenuto, sia chi opera negli Istituti. Ma è un carcere che rivolge il proprio sguardo sul dentro e sull’oggi. Non si pone il problema sul domani e sul fuori. Gli ingressi, nell’ultimo anno, rispetto all’anno precedente, sono diminuiti. Ma, ancor di più, sono diminuite le uscite: a diminuzione degli ingressi, cioè, sono aumentati i detenuti. Quindi, aumentano le persone detenute: il tasso di diminuzione degli ingressi, è un tasso di diminuzione più lento del tasso di diminuzione delle uscite: ci sono meno ingressi, ma più gente in carcere. Questo perché, a mio avviso, c’è anche un clima culturale che investe meno sulle misure alternative”. “Bisogna investire tecnicamente e culturalmente sulle misure alternative”. “Perché sono diminuite le uscite e le misure alternative? - si chiede Mauro Palma - il fulcro del problema, a mio avviso, è l’impostazione culturale. E veniamo al punto che non riguarda propriamente il carcere. Oggi, 22.881 persone potrebbero avere la misura alternativa. Perché hanno una pena che va al di sotto dei tre anni. Come mai non stanno fuori? Perché c’è la tensione, che investe anche la Magistratura, di ricorrere meno alle misure alternative. L’ elemento del consenso, la paura delle ripercussioni mediatiche, fanno sì che si faccia sempre meno ricorso a esse, che sarebbero invece molto efficaci. Inoltre, è peggiorata la consistenza sociale delle persone: non tutti i detenuti hanno una casa, anzi, questo problema è crescente”. Il nodo della detenzione domiciliare per chi non ha casa. “Il magistrato, dunque - conclude il garante - di fronte a una situazione incerta e a una carenza di strutture territoriali che diano la possibilità di un’accoglienza controllata e sicura, preferisce non dare la misura. La detenzione domiciliare, e veniamo alle polemiche di questi giorni, come la si dà, se il detenuto non ha una casa?”. Con una domanda di fronte alla quale nessuno è in grado di dare risposte concrete, prima e durante il virus, il gruppo di lavoro sull’amministrazione penitenziaria sta provando a dare una regola a quest’oggetto invisibile e anarchico che è il virus. Il Pd: Bonafede modifichi il provvedimento carceri per un maggior numero di domiciliari di Amedeo La Mattina La Stampa, 20 marzo 2020 I Dem Verini e Mirabelli: si rischia una bomba sanitaria negli istituti penitenziari. Decongestionare le carceri, evitare la bomba sanitaria innescata nelle celle, neutralizzare la tensione che ha messo a ferro e fuoco molte istituti di pena, diminuire lo stress della polizia penitenziaria: il Pd vuole convincere il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede a rendere più facile la concessione dei domiciliari, snellendo le procedure. I Dem voglio cambiare il provvedimento, contenuto nel decreto Cura Italia, che verrà conversione in legge al Senato la prossima settimana. Ma devono convincere Bonafede e i 5 Stelle che si trovano in difficoltà, essendo stati sempre contrari allo svuota-carceri, ad accettare un ulteriore allargamento delle maglie. Il Pd ci proverà e sono già in corso le manovre dentro la maggioranza, nonostante Matteo Salvini continui ad agitare il pericolo dei 5 mila detenuti messi in libertà. “Sono più protetti in carcere - dice il leader della Lega - che a spasso. Se denunciamo quegli italiani che mettono a rischio la salute degli altri andando in giro e li mettiamo in carcere, perché contemporaneamente facciamo uscire spacciatori, rapinatori o truffatori?”. E poi aggiunge il leader della Lega, “cosa c’entra col decreto emergenza economica lo sconto di pena di 6 mesi per i detenuti che possono tornare agli arresti domiciliari con reati come spaccio di droga, truffa, furto e rapina?”. Il ministro Bonafede vuole evitare altre critiche e polemiche leghiste che hanno una certa presa in una parte dell’opinione pubblica. “Ma sono polemiche irresponsabili - dice Walter Verini, responsabile Giustizia del Pd - che fanno leva come al solito sulla paura ma che non possono influenzare la parte più responsabile dell’elettorato: i domiciliari non vengono riconosciuti a chi si è macchiato di reati gravi, socialmente pericolosi. E in ogni caso la decisione passa sempre dal vaglio che viene fatto da un magistrato di sorveglianza”. Verini parla di “bomba sanitaria” nelle carceri affollate: “Se dovesse scoppiare il coronavirus negli istituti penitenziari dove e come verranno posti in isolamento i contagiati visto che già ci sono gravi problemi di spazio?”. Per l’esponente del Pd “i mercanti della paura non hanno più quella presa che avevano prima”. Il problema è che il provvedimento prevede l’uso dei braccialetti elettronici per ogni persona che va ai domiciliari e che deve scontare una pena tra i sei e i 18 mesi. E non ci sono braccialetti a sufficienza, cosa che ha sottolineato Salvini e che potrebbe rendere il provvedimento inefficace. Per questo il Pd in sede di conversione al Senato tenterà di convincere i 5 Stelle e il ministro Bonafede a fare un “passo coraggioso”. Sostiene Franco Mirabelli, capogruppo in Commissione giustizia, in Antimafia e vicepresidente dei senatori del Pd: “Questo provvedimento è primo passo. Se i braccialetti non sono sufficienti, coloro che possono andare ai domiciliari non potrebbero uscire. Per questo pensiamo a un emendamento. Il ministro e i 5 Stelle finora non sono d’accordo, ma c’è una realtà superiore a alle paure che agita Salvini e all’eccesso di prudenza di Bonafede: o riduciamo il numero nelle carceri o rischiamo di andare incontro a una tragedia sanitaria”. Per Mirabelli in un questo momento come questo bisogna parlare al Paese con ; legalità, a quanto pare, a senso unico dato che le carceri sono da tempo fuori legge e non vi è alcun interesse ad intervenire. Le carceri sono all’ultimo posto nei pensieri del governo, ce lo diceva la settimana scorsa su Rita Bernardini del Partito radicale intervistata da Valentina Stella e il ministro con questa affermazione non ha fatto che confermarlo. Consapevoli della gravità della situazione, le Camere penali italiane hanno proposto al governo una soluzione che garantisce comunque di scontare la pena adottando però ove possibile la detenzione domiciliare per tutti i casi di pena inferiore a due anni. La legge già prevede questa possibilità per pene residue fino a 18 mesi, gli avvocati propongono di innalzare il limite a 24 mesi e di applicare il principio con decreto legge, lasciando quindi ai tribunali di sorveglianza solo il compito di verificare l’esistenza del domicilio familiare disponibile. Considerando che i detenuti che si trovano a dover scontare meno di due anni sono circa 16mila, si capisce bene che il problema del sovraffollamento verrebbe presto ridimensionato e i detenuti che dovrebbero rimanere in carcere potrebbero vivere in condizioni più umane. Questo governo è chiamato ad intervenire in fretta ma va detto che questa situazione è un risultato imputabile anche alla politica poco coraggiosa di chi lo ha preceduto. L’ex ministro Orlando aveva avviato una riforma che avrebbe potuto migliorare la situazione ma il suo lavoro non è stato portato a compimento ed è stato poi spazzato via dall’esecutivo Lega M5s e, purtroppo, anche l’attuale esecutivo non sembra fare di meglio. L’indulto e l’amnistia sono provvedimenti necessari ma il governo non ci pensa proprio e fatica anche a recepire le soluzioni più snelle che gli vengono offerte per disinnescare la miccia accesa dal coronavirus. A questo punto viene da chiedersi perché succede tutto questo, perché non si è ancora corsi ai ripari? Il problema parrebbe essere sia politico che culturale. La sinistra non ha trovato il coraggio di fare le scelte giuste, ha rinunciato da tempo alla sua componente garantisca lasciandosi spesso superare, per quanto riguarda la giustizia, perfino da una certa destra di matrice liberale. La sinistra dovrebbe rivedere le sue priorità e ritrovare un’adeguata collocazione all’interno dello Stato di diritto tutelando gli esseri umani, senza distinzioni perché uguali per nascita, ed i loro diritti. Se la sinistra si ritrova con gli occhi annebbiati in tema di diritti e non riesce ad affrontare situazioni gravissime come quella del sistema carcerario, a loro volta le persone, e quindi l’elettorato, si lasciano confondere, perdendosi nella spasmodica e continua ricerca di un capro espiatorio. Bisognerebbe riappropriarsi dell’idea di recupero sociale, tornare a recepire quanto indicato dalla nostra Costituzione che è molto chiara: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (art. 27) e, soprattutto, bisognerebbe recuperare un’idea più profonda di essere umano. Occorre una rivoluzione culturale in cui tutti dobbiamo fare la nostra parte, con tutta la sensibilità e l’onestà intellettuale di cui siamo capaci. *Avvocato La giustizia ai tempi del ministro dj, 15 carcerati morti da soli senza nessun fiato di Gioacchino Criaco Il Riformista , 20 marzo 2020 San Leonardo ebbe il privilegio di liberare i carcerati: ciò che la sua anima riconosceva puro, sciolte aveva le mani dalle catene, liberi i piedi dai pesanti ceppi. Santo diventò Leonardo, santo dei carcerati, la Gallia aveva per re Clodoveo, mica si occupava di giustizia un ministro dj. E la Chiesa aveva Rocco che partiva dalla Francia per abbracciarsi gli appestati Lombardi. Quando il Vangelo era vivo, un folle, votato a una qualunque fede, che si abbracciasse un prigioniero o un infettato, lo si sarebbe trovato. Ora che il Vangelo è morto, giacciono in fila e muti quindici carcerati, periti fra Modena, Rieti e Bologna, che nemmeno un santo potrebbe più liberarli. Quindici vite entrate mosse e uscite stese dalle dita dello Stato. Ora che il Vangelo è morto gli infettati spariscono lungo i corridoi di linoleum, sbiancati dai neon: si spengono senza abbracci, senza vedere le lacrime nascoste nei volti mascherati. La Chiesa non fabbrica più mistici e folli, sbarra le porte delle cattedrali e lascia fuori il dolore. I soldati di Francesco hanno dato le spalle al fratello, lo consolano con lo streaming, quasi lo interrogassero, pure se non ha le colpe degli imputati collegati in videoconferenza. Nemmeno la società fabbrica più mistici e folli, ci sono pochi pazzi a chiedere conto di quindici morti, ci sono quattro illusi a vestirsi da Leonardo e a implorare che si aprano le porte delle carceri. Ora che il Vangelo è morto, i cuori e gli intelletti hanno preso il diploma da ragioniere: fanno di conto. Gli piace ciò che piace, aspirano ai like più che alla santità o al martirio. Il Vangelo è morto e non c’è un Pasolini a pagarlo oro perché lo racconti, tacciono quelli che il sistema ha elevato a grandi. Ora che il morbo impazza corrono genti all’impazzata, levano dalle camerette le immagini del Che, le sostituiscono con quelle di Pinochet e non vogliono saperne dei morti carcerati, invocano solo eserciti perché tengano di mira gli appestati. Il coronavirus è arrivato nelle carceri. Occorre trovare subito vie liberatorie di Elisabetta Costa* Il Dubbio, 20 marzo 2020 Gherardo Colombo, in un’intervista sul Corriere della Sera del 18 marzo, oltre a citare l’articolo 27 della Costituzione - le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità - in un inciso dice che “non sarebbe disdicevole” usa una formula diplomatica “avere notizie precise” - non dice “indagare”, troppo diretto e presterebbe il fianco a obiezioni e critiche - sui 13 morti nelle carceri italiane a seguito delle proteste dei giorni scorsi. Nei giorni delle proteste Daria Bignardi era davanti a San Vittore mentre persone sul tetto con lo striscione “indulto” gridavano: “Non siamo bestie”. Colombo non crede alla versione del furto di metadone nelle infermerie del carcere e di morti per overdose. Non ci credo neppure io. Non solo perché è davvero fantasioso che 13 (ho sentito anche 14) persone siano morte tutte per lo stesso motivo, ma perché l’overdose potrebbe esser stata di calmante iniettato dal personale carcerario per sedare gli animi, e non solo. È prassi nelle carceri (milanesi per quanto io sappia ma forse non solo) utilizzare punture di sedativi per calmare i detenuti. Le testimonianze sono tante, così come l’invito molto forte, spesso accompagnato da minaccia di non accesso a benefici, di assumere psicofarmaci durante la detenzione. Sono ipotesi molto gravi a cui non si può opporre indifferenza. Il coronavirus è arrivato nelle carceri. Il sovraffollamento non aiuta. Occorre immediatamente trovare vie liberatorie, misure differenti, offrire occasioni di riscatto sociale. Il cpv dell’art. 27, “tendere alla rieducazione dei condannati” come va inteso, se non come opportunità di riscatto. La civiltà non può erigere un muro alla speranza senza sparire. Lo sperimentiamo in questi giorni di permanenza domiciliare per ragioni sanitarie, in cui sopportiamo la compressione massima di vari diritti di rango costituzionale: l’art. 2, i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle forme sociali ove si svolge la sua personalità, l’art. 4, il diritto al lavoro, l’art. 13, la libertà personale è inviolabile, l’art. 16, libera circolazione nel territorio nazionale, l’art. 17, il diritto di riunione, per il valore della salute espresso nell’art. 32 della Costituzione. L’art. 32, al cpv, prevede che “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Siamo solidali con i medici, con il personale sanitario, con il personale carcerario e dobbiamo trovare la via della salute in ciascun settore della società. Anche le case per gli anziani stanno vivendo giorni difficili, con il personale che li assiste e con i parenti che non possono avvicinarsi. Desidero portare loro un grazie e il messaggio che l’immunità esige l’accoglienza, esige l’ascolto, esige la sospensione di ogni giudizio sull’Altro (che non è altro se non il contraltare del giudizio di sé, posto che l’Altro resta inconoscibile, irrappresentabile, insopprimibile, come ci dice all’estremo l’esperienza di questi giorni) e rimanere aperti al miracolo, a ciò che va oltre il nostro sguardo, il nostro calcolo. Il miracolo: ciò che va oltre la nostra mira. *Avvocato “La distanza sociale è di difficile attuazione nelle carceri” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 marzo 2020 Denuncia del Partito Radicale contro il Ministro della Giustizia e il Capo del Dap. Il reato ipotizzato è quello di procurata epidemia colposa mediante omissione. Il Partito Radicale, impegnato nell’iniziativa “messaggio alle istituzioni” in relazione alla situazione delle carceri in tempo di coronavirus e all’organizzazione della Marcia di Pasqua-Amnistia per la Repubblica, ha ieri inviato a tutte le Procure della Repubblica una denuncia nei confronti del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede e del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Francesco Basentini. Il reato ipotizzato è quello di procurata epidemia colposa mediante omissione. La denuncia è stata presentata dai dirigenti del Partito Maurizio Turco, segretario; Irene Testa, tesoriera; Rita Bernardini e l’avvocato Giuseppe Rossodivita, membri del Consiglio generale. La denuncia parte dal presupposto che il governo ha adottato misure “draconiane” volte a garantire l’unico presidio al momento esistente per evitare il diffondersi dell’epidemia: la distanza tra le persone fisiche. In caso di violazione dei divieti posti con una serie di Dpcm vi sono infatti varie sanzioni penali. Ma i dirigenti radicali sottolineano che ciò è valido per tutte le categorie di persone, tranne le persone detenute e per coloro che con i detenuti sono a stretto contatto come gli agenti penitenziari. Tutto questo, si legge sempre nella denuncia, mentre persino in uno Stato caratterizzato dal dispotismo teocratico, qual è l’Iran, si sono liberati oltre 50.000 detenuti per contenere il contagio, i malati, i morti, sia tra la popolazione detenuta, sia tra la popolazione non detenuta. I membri del Partito Radicale denunciano che è in atto un sovraffollamento carcerario che riporta ai numeri precedenti la nota sentenza pilota della Cedu, cd. Torreggiani (da ricordare che l’esponente radicale Rossodivita è stato l’avvocato che ha difeso davanti alla Corte Europea, due dei detenuti che con i loro ricorsi hanno prodotto la nota sentenza), dove i giudici di Strasburgo evidenziarono come il sovraffollamento delle carceri italiane porti ad una strutturale violazione dei diritti umani fondamentali. Ma nonostante ciò, si legge nella denuncia, nulla è cambiato. Quindi la distanza sociale, secondo la denuncia mandata a tutte le procure d’Italia, è di difficile attuazione. Infatti viene ricordato che, ad oggi, i contagiati con il Covid sono 10. Un sovraffollamento che rende l’assenza degli spazi fisici per consentire un eventuale isolamento per i detenuti contagiati. Secondo i membri del Partito Radicale i provvedimenti sinora assunti dal Ministro Competente e dal Capo del Dap “sono stati e sono del tutto insufficienti ad evitare la propagazione dell’epidemia in carcere ed anzi hanno provocato delle inammissibili rivolte violente in 27 carceri su tutto il territorio nazionale, con un bilancio di guerra: 15 morti tra i detenuti, oltre 50 agenti feriti, fughe di massa”. Viene evidenziato che secondo il quadro disegnato dall’ordinamento penitenziario, in estrema sintesi, la persona detenuta è presa ‘ in cura’ dallo Stato il quale, almeno per ciò che concerne l’esecuzione di pene definitive, lo priva della propria libertà e lo coinvolge, (“almeno in teoria”, si evidenzia nella denuncia) in percorsi trattamentali rieducativi per poi riconsegnarlo alla società, dopo l’espiazione della pena, quale persona migliore di quella che è entrata. Così lo Stato avrebbe vinto, ma secondo il Partito Radicale così non è e “che esiste una distanza siderale tra ciò che è scritto nelle norme, pur esse precettive, e la disastrosa situazione reale e ciò già di per sé segna la distanza con uno Stato di diritto”. Nella denuncia si cita un’analisi del magistrato e presidente di Md Riccardo De Vito apparso su Questione Giustizia e un articolo de Il Dubbio sull’emergenza sanitaria che ha scoperchiato una pentola in ebollizione, “lasciando in superficie tutta la drammaticità di una situazione carceraria, ormai al collasso”. Meglio dentro di Marco Travaglio Il Fatto Quotidiano, 20 marzo 2020 Prim’ancora di scrivere quello che sto per scrivere, già sento gli strilli dei “garantisti” alle vongole, dei penalisti organizzati e dei radicali liberi che, da quando è partita l’epidemia, passano il tempo a invocare amnistie, indulti, leggi, norme e cavilli per “svuotare” e “aprire le carceri” allo scopo di non farvi entrare il coronavirus. Ora, a parte il fatto che il coronavirus è entrato dappertutto, persino nei luoghi che dovrebbero salvarci la vita, una premessa s’impone: la vita di un detenuto vale tanto quanto quella di un cittadino a piede libero, dunque non va escluso in via di principio nessun atto di clemenza che garantisca l’incolumità dei nostri 61mila e rotti carcerati. Ma, in base ai dati al momento disponibili, non è questo il caso. I numeri degli “infetti” dicono che si è più sicuri in carcere che fuori. Ieri gli italiani positivi al Covid-19 erano 33.190, di cui 33.182 liberi e 8 detenuti (l’altro ieri erano 10, poi 2 sono guariti). Cioè abbiamo 1 contagiato ogni 1.800 italiani liberi e 1 contagiato su 7.600 detenuti. Quindi, a oggi, chi sta in casa rischia l’infezione quattro volte più di chi sta in cella. Può darsi che nei prossimi giorni i numeri mutino o addirittura si ribaltino. Nel qual caso bisognerà intervenire, ma con misure che riducano i pericoli di contagio. E non che li moltiplichino, come quella di mandare il maggior numero possibile di detenuti a casa (cioè ai domiciliari). Tanto più che a casa sono già reclusi quasi tutti gli italiani, a cui si ordina di non uscire per evitare contagi attivi e passivi. Anche dal punto di vista logico, è contraddittorio chiudere in casa chi sta fuori e mandare fuori chi è già chiuso dentro, col rischio che fuori si becchi quel virus che non si era beccato dentro. O con l’effetto collaterale di far scontare la pena a moglie e figli che si erano finalmente liberati di lui. Con l’aggiunta di un altro paradosso: quello degli ex “garantisti” passati in un paio d’ore al giustizialismo manettaro, che insultano come untore chi fa due passi o la corsetta, invocano pene esemplari e sorveglianza Gsm per chi si macchia del delitto di passeggio (“3 mesi non bastano, carcere vero!”, cioè 4 anni di pena minima), addirittura esecuzioni capitali in piazza (il feldmaresciallo De Luca reclama l’esercito e rimpiange le “fucilazioni terapeutiche” cinesi). E poi non spiegano in quali carceri recluderebbero i nuovi detenuti (negli stadi, come Pinochet?) e come pensano, con migliaia di nuovi arrivi, di ovviare al sovraffollamento. A meno che l’ideona non sia mettere fuori mafiosi, assassini, stupratori, pedofili, trafficanti di droga e terroristi per metter dentro i passeggiatori abusivi. Le rivolte di 6mila detenuti in 27 carceri, usate dai fautori della decarcerazione alla Sofri e Manconi (ex leader ed ex capo del servizio d’ordine di Lotta Continua), col contorno di renziani, pidini, ultrasinistri e radicali, non c’entrano nulla col coronavirus. Infatti chi le ha promosse ha preso a pretesto proprio una misura sanitario-profilattica del Guardasigilli e del Dap: la sospensione dei colloqui de visu per evitare che parenti infetti portino il virus fra le mura del carcere, dove galopperebbe più rapidamente che fuori per gli spazi esigui, le carenze igieniche e la promiscuità. Ora, che i detenuti approfittino del Covid-19 per forzare la mano ai politici nella speranza di uscire prima, possibilmente subito, è comprensibile, per quanto esecrabili siano le evasioni e le violenze con 13 morti (non per il virus, per le rivolte): i disagi causati dal sovraffollamento sono un problema reale e drammatico, anche se non dipendono dai troppi detenuti, ma dai pochi posti-cella in rapporto al fabbisogno. Ma è disgustosa e criminogena la legittimazione politica dei rivoltosi da partiti e parlamentari irresponsabili, che chiedono la testa del capo del Dap perché non piace ai detenuti sfascia-tutto armati di bastoni. E così l’attacco concentrico al ministro Bonafede che non libera subito “6mila detenuti” (il Pd Mirabelli), “almeno 10 mila” (Gonnella di Antigone), “15mila” (Manconi), “25mila con una pena residua inferiore ai 3 anni” (Sofri), ma solo “poche centinaia” (con lo snellimento delle procedure per la svuota-carceri Alfano del 2010, votata da Salvini e da tutta la Lega che ora strillano ai “criminali a spasso”, come se non fosse roba loro). Tutto questo non c’entra nulla col sacrosanto dovere di “salvare la pelle ai detenuti” (Manconi) o con le fesserie che han portato il Partito radicale a denunciare Bonafede ai pm nientemeno che per “procurata epidemia colposa” (e perché non dolosa?). Infatti le misure del governo in via di attuazione, bocciate sia dai sedicenti garantisti sia da Salvini, quindi ragionevoli, riducono al minimo il rischio che chi viene da fuori porti il coronavirus dentro: parenti e avvocati hanno i colloqui personali sospesi e sostituiti con collegamenti Skype; i nuovi giunti sono sottoposti a pre-triage e, prima di andare nelle celle con gli altri, trascorrono una quarantena in aree isolate; gli agenti penitenziari e gli amministrativi vengono anch’essi visitati in pre-triage e dotati progressivamente di mascherine; i detenuti semiliberi non rientrano più la sera, ma dormono a casa; e chi deve scontare un residuo di 18 mesi può farlo a domicilio se ne ha uno (come previsto dalla legge Alfano-Lega), purché non abbia una storia criminale che lo renda molto pericoloso, non abbia in casa le vittime dei suoi reati, indossi il braccialetto elettronico già disponibile in un migliaio di esemplari (restrizioni inserite da Bonafede). E, naturalmente, non abbia partecipato alle rivolte: limitazione che Sofri giudica “ottusa” perché “chi aderisce a una ribellione in carcere non è particolarmente delinquente”. Anzi, merita un premio. Così la prossima volta, anziché 6 mila, si rivoltano tutti e 61 mila. “Pestaggi di massa anche su persone anziane e malati oncologici” La Repubblica, 20 marzo 2020 Le denunce raccolte dall’Associazione Antigone. Molte segnalazioni di violenze negli istituti di pena finora tutte concordanti. Coinvolte alcune carceri italiane, Milano-Opera compresa. “Esprimiamo grande preoccupazione per le numerose segnalazioni di violenze e abusi che sarebbero stati perpetrati ai danni di persone detenute a noi arrivate negli ultimi giorni”. A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “Le segnalazioni - sottolinea Simona Filippi, avvocato dell’associazione - hanno riguardato alcune carceri italiane, tra le quali quella di Milano-Opera. In relazione a quest’ultimo istituto di pena, ben otto diverse persone (madri, sorelle, compagne di detenuti ivi reclusi) si sono rivolte ad Antigone raccontando quanto sarebbe stato loro comunicato dai congiunti o da altri contatti interni. Le versioni riportate, le quali parlano di brutali pestaggi di massa che avrebbero coinvolto anche persone anziane e malati oncologici e che avrebbero portato a mascelle, setti nasali e braccia rotte, risultano tutte concordanti”. Necessarie indagini rapide per accertare la veridicità. Tali azioni violente sarebbero avvenute, in tutte le carceri interessate, in momenti successivi a quelli in cui sono stati attuati gli interventi per far fronte alle rivolte che hanno coinvolto 49 istituti penitenziari. “Antigone - spiega l’avvocato Filippi - ha inviato alla procura competente le segnalazioni su Opera, presentando un esposto al riguardo. La stessa cosa si appresta a fare per gli altri istituti”. “Non abbiamo naturalmente alcuno strumento per poterci accertare della veridicità o meno delle segnalazioni che ci sono pervenute, ma oggi, in cui gli istituti sono chiusi a qualsiasi occhio esterno a causa dell’emergenza sanitaria e alle politiche messe in atto per tentare di limitare il diffondersi del coronavirus, è ancor più di fondamentale importanza che si proceda a un’indagine rapida e capace di fare chiarezza sugli eventi” dichiara Patrizio Gonnella. Occorre eventualmente un segnale chiaro di condanna. “Parallelamente all’azione penale, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria deve avviare subito un’indagine interna urgente che sappia dare un segnale chiaro e mai ambiguo di condanna assoluta del possibile utilizzo della violenza ai danni delle persone detenute” afferma ancora il presidente di Antigone che ricorda, infine, come l’associazione abbia presentato un proprio esposto relativo a quanto accaduto nel carcere di Modena nella giornata dell’8 marzo, “ritenendo - conclude Patrizio Gonnella - che sia un valore per l’intera collettività che si chiariscano con la massima trasparenza i fatti che hanno portato alla morte di nove detenuti”. Scarcerazioni per virus: “Basta ipocrisie” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 20 marzo 2020 La modesta deflazione del sovraffollamento delle carceri, abbozzata nell’ultimo decreto sul Covid-19, trascura chi sia detenuto non per condanna definitiva ma per custodia cautelare, e allora alcuni giudici di merito fanno da soli. “Senza ipocrisie”: scrive proprio così la I sezione del Tribunale di Milano nel motivare perché con un obbligo di dimora sostituisca la custodia cautelare in carcere a un arrestato nel dicembre 2019 per istigazione alla corruzione. “Senza ipocrisie va marcato - scrivono i giudici Fazio-Donadeo-Burza - come l’attenuazione sia giustificata anche dall’inevitabile allungamento dei tempi del processo implicato” dal rinvio dei processi ordinari, “e risponda in questo momento di emergenza nazionale pure all’esigenza di alleggerire le condizioni delle carceri e il conseguente crescente disagio psicologico dei detenuti”. Un metro poi usato - qui già su richiesta del pm Stefano Civardi - per sostituire la custodia cautelare in carcere con un divieto di espatrio anche nel caso dell’imprenditore arrestato nel maggio 2019 per bancarotta di una società di intercettazioni consulente della Procura di Brescia. Mentre il sindacato Spp segnala la morte di un primo agente penitenziario, che si sarebbe contagiato in missione a Bergamo, dovunque i giudici di sorveglianza cercano di applicare tutto l’applicabile: ieri i 61mila detenuti in 47.200 posti disponibili erano scesi a 59.419. Sempre 12mila in più. Una situazione per la quale il Partito Radicale (con il segretario Maurizio Turco, la tesoriere Irene Testa, quindi Rita Bernardini e Giuseppe Rossodivita) denuncia a tutte le Procure il ministro Bonafede e il capo del Dap Basentini per l’ipotesi di “procurata epidemia colposa mediante omissione”. La disposizione: “C’è il Covid-19, scarcero il detenuto per motivi di salute” di Fulvio Fiano Corriere della Sera, 20 marzo 2020 Ordinanza del giudice per un uomo già affetto da patologie. Nel Lazio potrebbero uscire in 300 dai penitenziari ma mancano i braccialetti elettronici. “Avuto riguardo, da un lato, alla maggiore flessibilità della misura nell’affrontare il complesso percorso terapeutico e, dall’altro lato, alle attuali restrizioni agli spostamenti dei detenuti dal carcere verso strutture sanitarie esterne, a motivo della diffusione del Covid-19”, il giudice monocratico della settima sezione penale ordina il trasferimento del detenuto in una struttura della Caritas. È la prima ordinanza di scarcerazione ai tempi del coronavirus. L’ha emessa il giudice Angelo Giannetti per un sudamericano arrestato a dicembre per spaccio e da allora in custodia cautelare a Regina Coeli. Incensurato e affetto da una grave patologia fisica, l’uomo aveva presentato istanza tramite l’avvocato Simona Filippi. I presupposti per la scarcerazione c’erano già ma l’emergenza sanitaria, la rivolta nelle carceri e il conseguente decreto della Presidenza del consiglio per alleggerire l’affollamento negli istituti di pena hanno rafforzato queste ragioni: “La decisione tutela sia il diritto del mio assistito a curarsi adeguatamente fuori dal carcere, dato che gli spostamenti sarebbero altrimenti vietati, sia la sua stessa salute come soggetto già debilitato e quindi maggiormente esposto ai rischi del Covid-19”, dice il legale. Una linea alla quale sono improntate decine di istanze analoghe presentate in queste ore. Anche perché la situazione nei penitenziari resta tesissima. In quello di Civitavecchia, ad esempio, è in corso da sabato uno sciopero della fame. Secondo una stima del garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasìa, la platea di detenuti che potrebbero beneficare del decreto sono 1400 nelle carceri della regione. Ma la cifra effettiva va scremata di molto, fino a trecento o poco più. Dalla possibilità di uscire se si hanno pene residue inferiori ai 18 mesi sono infatti esclusi i detenuti per reati violenti, quelli per reati associativi (Mondo di mezzo, ad esempio), chi ha altre misure cautelari in corso o ha partecipato alle rivolte. Senza contare poi altri impedimenti per andare ai domiciliari. La mancanza di una fissa dimora, ad esempio, o l’incompatibilità con il proprio nucleo familiare. Ma, su tutti, il problema principale è la mancanza di braccialetti elettronici che impediscano eventuali evasioni. Al momento la carenza di questi strumenti è pressoché totale ed acquistarli richiede tempi lunghi: “Il provvedimento del governo è molto al di sotto delle nostre aspettative - dice Anastasia - e ci sono difficoltà oggettive ad applicarlo anche per chi ne avrebbe diritto. La Cassazione però ha già chiarito che la mancanza di braccialetti non può essere un ostacolo e spetterà agli attori del sistema applicare il decreto nel miglior modo possibile”. Mae, alla Consulta i dubbi sulla consegna del cittadino straniero di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 20 marzo 2020 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Ordinanza 19 marzo 2020 n. 10371. Dubbi di costituzionalità per la Cassazione sulla legge delega 117/2019 per il recepimento delle direttive europee, per la parte (articolo 18-bis) in cui non prevede il rifiuto facoltativo della consegna, nell’ambito del mandato d’arresto europeo, del cittadino extra Ue che dimori nel territorio italiano. Sempre che la Corte d’Appello disponga, come nel caso esaminato, dall’ordinanza 10371 del 19 marzo, che la pena o la misura di sicurezza si possano eseguire in Italia. La Corte di cassazione sulla possibilità di estendere anche al cittadino extracomunitario le possibilità previste dall’articolo 18-bis per i cittadini italiani ed europei cambia passo. I giudici di legittimità avevano, infatti, escluso che si potesse prospettare una questione di incostituzionalità, per il fatto di tagliare fuori i cittadini di uno Stato non membro dell’Unione europea dal raggio d’azione di una legge che prevede la possibilità di rifiutare la consegna quando esiste un radicamento sul territorio. Ora rinvia invece al giudice delle leggi ritenendo l’articolo in esame in contrasto sia con le norme comunitarie, e in particolare con la decisione quadro 2008/909/Gai, sul reciproco riconoscimento delle sentenze, da applicare nel rispetto dei principi di equità ed uguaglianza, sia con quelle sovranazionali, sul diritto alla vita privata e familiare. Nello specifico la persona per il quale c’era la richiesta di consegna, aveva un regolare permesso di soggiorno, era di nazionalità albanese ma aveva scelto l’Italia come luogo per espiare una pena per reati legati al traffico di stupefacenti. In Italia risiedeva da anni con la sua famiglia, sempre sul territorio lavorava, fino al momento dell’arresto, alle dipendenze di un’impresa. Per i giudici l’articolo 18-bis presenta profili di incostituzionalità nella parte in cui non prevede, in casi come questo, la possibilità di opporre il rifiuto facoltativo. Una discriminazione che si pone in contrasto con il principio di uguaglianza e che entra in rotta di collisione con la prospettiva di risocializzazione del condannato Il coronavirus svuoterà le carceri di Carmelo Musumeci agoravox.it, 20 marzo 2020 Penso che l’attuale Ministro della Giustizia rimarrà nella storia perché sarà ricordato come colui che senza proporre nessun provvedimento di amnistia o indulto riuscirà a svuotare le carceri, e a riempire i cimiteri. Spero ovviamente di sbagliarmi. Leggo: “Coronavirus, contagi a San Vittore, Pavia e Voghera. Il garante denuncia possibili maltrattamenti a Opera.” Credo, purtroppo, che siamo solo all’inizio. Il governo per l’emergenza coronavirus ha preso vari provvedimenti per tutte le fasce sociali, ma nulla per i detenuti e per gli operatori penitenziari e, come se non bastasse, alcune persone delle istituzioni si sono anche arrabbiate per le rivolte spontanee di migliaia di detenuti, che si sono sentiti in trappola come dei topi. Penso che per tornaconto e consenso politico questo governo abbia deciso di abbandonare al proprio destino sia i detenuti che le guardie carcerarie. Da quello che leggo in questi giorni, le uniche persone che stanno tentando di prendere provvedimenti sono i magistrati di sorveglianza, ma hanno le mani legate dalle leggi emergenziali. La cosa che non riesco a capire è perché le guardie non si ribellino, perché se scoppia una pandemia nelle carceri subiranno la stessa sorte dei detenuti. Se “fuori” devi stare ad un metro di distanza, “dentro” non è possibile, per questo le carceri devono essere subito svuotate, presto e il più possibile, come hanno fatto in Iran. Quello che sta avvenendo in questo periodo nelle carceri non è lontanamente paragonabile al passato della storia penitenziaria italiana. Ci sono detenuti che da moltissimi anni vivono con la proibizione di toccare un familiare, vedere oltre le sbarre il cielo, la luna e le stelle. Ci sono detenuti murati vivi che vengono puniti nello stesso tempo con tre regimi diversi, applicati in successione o contemporanea: l’isolamento diurno, lo stato di tortura del 41bis e il regime di sorveglianza particolare del 14 bis. Ci sono detenuti che sono entrati a diciotto, diciannove, venti anni, sono invecchiati in prigione e probabilmente molti di loro moriranno in carcere di vecchiaia. Nelle nostre “Patrie Galere”, avvallato dalla scusa che ciò faccia parte della lotta alla criminalità organizzata, i detenuti vengono ormai annientati con una sofferenza sterminata e incommensurabile, vengono torturati nell’animo, negli affetti e nella dignità. Adesso però è ancora peggio perché i detenuti hanno un problema in più: la paura del coronavirus. Se ricominceranno le rivolte sappiate che è perché se fuori hanno paura, dentro ne hanno di più. Ecco cosa mi ha scritto un detenuto del carcere di Voghera: “Carmelo, come è possibile che nessuno faccia niente per noi… sì, è vero, abbiamo fatto dei reati e siamo carne da macello, ma non ci sono mascherine neppure per le guardie: c’è qualcosa che non va. Che cazzo di paese cosiddetto “democratico”. Complimenti buonisti di cuore, e poi saremmo noi i cattivi, eh!” Coronavirus. Il prima e il dopo di Gemma Brandi* quotidianosanita.it, 20 marzo 2020 Gentile Direttore, tutti gli italiani sono ormai prigionieri e scoprono la sofferenza di limitazioni imposte alla routine e alla fuga dalla routine. Quando ti trovi a confrontarti con una diagnosi potenzialmente mortale di cosa provi immediatamente nostalgia? Delle imposizioni noiose che disegnano le nostre giornate, tenendole dentro confini obbligati, e della sfida quotidiana alla routine cui carpire attimi di presunta libertà. La malattia distrugge con un colpo di spugna l’insopportabile quotidianità e le sue ineffabili trasgressioni, spalancando una voragine buia. E d’improvviso potremmo trovarci ad invidiare i pensieri di un uomo che deve far quadrare il pranzo con la cena, i tormenti amorosi di una fanciulla che vede svanire l’interesse del partner, la fatica di una madre che rincorre i compiti domestici e la cura dei figli, dovendo conciliarli con un lavoro fuori casa. Oggi, anche coloro che malati non sono, si sentono minacciati da un potenziale contagio e solo la rinuncia alla routine permette alla collettività di ridurre il danno che, una entità vivente che ha preso ad interessarsi alle nostre cellule, potrebbe causare a molti o a moltissimi, specie ai più fragili. La scoperta della prigionia, inoltre, apre alla eventualità di assaporare il vissuto della detenzione. Questa rende impossibile, ad esempio, procurarsi le piccole cose che consolidano la routine; spostarsi per entrare in contatto con altri esseri, per catturare delle viste, per collezionare esperienze note o nuove; lasciare che il nostro corpo si muova e che l’energia circoli in noi e tra di noi. La detenzione priva non solo di tali libertà modeste in apparenza, ma sostanziali per vivere. Essere reclusi rischia di assottigliare la dignità stessa della vita. Come ovviare a questo pericolo esistenziale? Intanto esaminando cosa davvero valga la pena ritrovare e cosa potremmo mandare in discarica, pianificando un nuovo presente e un nuovo futuro. Dobbiamo vedere il momento attuale come una guerra per disegnare il nostro dopoguerra. Cosa di quanto c’era una volta desideriamo ritrovare e di cosa vale la pena privarci? Presumibilmente non siamo disposti a perdere l’ironia e il sorriso, la qualità degli alimenti e le capacità culinarie, la inventiva e la vivacità, l’eleganza naturale e l’estro creativo, il sole, il mare, le montagne, una storia e una geografia bene assortite, i musei e le città d’arte, la varietà delle tradizioni e la quiete gentile e luminosa della provincia, le capacità diplomatiche e la raffinatezza artigianale, il clima e i colori, i pani e le paste, i tetti in coppo e tegola e le architetture di pregio, la pietas per chi soffre e una apertura al nuovo che avanza, la musica e la recitazione, l’esperienza di naviganti e la nostra dolce lingua, la socievolezza e gli abbracci che tutti conquistano. Ebbene tutto ciò è là ad attenderci, non scompare con il coronavirus. Dobbiamo solo non dimenticarlo e mantenerne viva la memoria in noi. E però c’erano una volta molte cose che vorremmo cancellare: il tenace complesso di inferiorità nei riguardi del potere; l’inclinazione a cercarci un padrone e delle appartenenze, con il dilagare della corruttela che ha danneggiato e impoverito le istituzioni pubbliche; la faciloneria con cui rinunciamo ai nostri prodotti sopraffini, specie tra i nutrienti, per dare spazio a sostanze dozzinali e difettose; lo sforzo di mettere a tacere la voce interiore che ci porterebbe a salvaguardare la nostra impareggiabile geografia; la disponibilità a cedere il passo a interessi impresentabili che inquinano la terra, incattiviscono gli allevamenti, peggiorano respirazione e vitto; l’attitudine a contrabbandare per buonsenso lo spazio dato agli yesmen di comodo e a mettere la malleabilità al posto della competenza. Ebbene, lavoriamo in queste settimane di sosta alla messa a punto del piano per il dopo-coronavirus, pretendendo da noi stessi per primi che le qualità da proteggere siano protette e che il marcio che corrode il bene della comunità sia infine scattivato. E soprattutto troviamo una determinazione condivisa nell’impedire a coloro che hanno dato pessima prova di sé, mentre erano al comando, di ritentare. Sono numerosi gli inviti che, persone della cui correttezza non dubito, rivolgono affinché si legga questo o quel saggio di questo e quel figuro transitato per decenni di prima e seconda repubblica e oggi pronto a prendere la parola per condannare atteggiamenti che ha contribuito a diffondere. Sarebbe sbagliato concedere a Lorsignori una seconda, terza, quarta occasione. Meglio non leggere quanto scrivono, anche se il contenuto sembrasse degno di nota, perché si tratta dei travestimenti del demonio, capace di criticare oggi i suoi cavalli di battaglia di ieri, ma pronto a imboccare domani quella stessa via. Pretendiamo che siano le qualità da tutelare il canovaccio del futuro piano di navigazione del Paese e che a tessere la trama del dopoguerra siano altri da quelli che ci portarono in guerra. *Psichiatra psicoanalista, esperta di Salute Mentale applicata al Diritto Lombardia. Coronavirus, pronto un piano per scarcerare i detenuti meno pericolosi varese7press.it, 20 marzo 2020 Si è svolta in video-collegamento la riunione del Tavolo tecnico regionale sulla situazione carceraria, con la partecipazione dei principali esponenti istituzionali del mondo carcerario tra i quali Garanti dei detenuti, direttori di istituti carcerari, rappresentanti dei Tribunali di sorveglianza, degli enti del Terzo settore e della Curia. Al centro del confronto le problematiche delle carceri in relazione all’emergenza Covid-19 e in particolare la proposta di alleggerire la pressione delle presenze non necessarie nel carcere che, viene detto nella nota conclusiva, “mai come in questo periodo costituisce l’extrema ratio nel sistema dell’esecuzione penale”. “Come evidenziato in modo anche drammatico dagli eventi recenti - ha commentato il Garante dei detenuti di Regione Lombardia, Carlo Lio - al mondo carcerario dobbiamo riservare un’attenzione massima. Sono perciò molto soddisfatto di questa nostra tempestiva iniziativa che costituisce la premessa per interventi concreti che sicuramente andranno nella giusta direzione. Oggi sentiamo ancora maggiore la responsabilità di fare cose che servono alla popolazione dei detenuti ma anche alle direzioni delle carceri e a tutta la polizia, non dimenticando quelle aree di sostegno necessarie a dare servizi utili a quella comunità”. Il Garante Carlo Lio ha voluto anche indirizzare un pensiero di apprezzamento particolare per la grande sensibilità istituzionale e morale dimostrata dalla dottoressa Giovanna Di Rosa, Presidente Tribunale di Sorveglianza di Milano, e dalla dottoressa Monica Lazzaroni, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Brescia. Nel merito, nel corso della riunione è stato condiviso che il Provveditorato e le Direzioni delle carceri avvieranno una “celere selezione” dei detenuti meritevoli e con posizioni giuridiche che ne consentano l’ammissione alla proposizione di istanze alla Magistratura di Sorveglianza in vista delle misure liberatorie previste. I singoli istituti penitenziari, gli Uepe (Uffici locali per l’esecuzione penale) e i Serd (Servizi per le dipendenze patologiche) effettueranno i programmi terapeutici ragionati, richiamando le linee guida elaborate di concerto con la magistratura di sorveglianza. Naturalmente le procedure prevedono tutta una serie di verifiche e approfondimenti che interessano anche le sfere della situazione familiare nonché le situazioni sanitarie all’interno dei nuclei familiari. Calabria. Coronavirus, il Garante chiede più tutele per i detenuti di Agostino Pantano ilreggino.it, 20 marzo 2020 Il garante regionale si appella al Presidente Santelli: “Nel piano di emergenza si pensi ad un capitolo dedicato all’assistenza sanitaria”. La governatrice Iole Santelli inserisca nel piano per l’emergenza coronavirus, un capitolo dedicato all’assistenza sanitaria in caso di contagio nelle carceri. È questa la richiesta forte che arriva da Agostino Siviglia, Garante regionale per i diritti dei detenuti, che offre un quadro della situazione nei 12 istituti penitenziari calabresi, a partire dall’unica emergenza per ora riscontrata nella struttura di Arghillà. “Qui manca il referente sanitario - spiega - e solo dopo un nostro sollecito l’Asp ha potenziato il personale infermieristico”. A parere del Garante per ora la situazione nei 12 istituti penitenziari sparsi nella regione è sotto controllo, “ma - afferma - visto che il Dap ha comunicato che sono già 10 i casi di contagio rilevati in tutto il territorio nazionale, la Regione tramite le Asp deve appontare misure idonee ad evitare che nel caso di espansione anche nelle nostre strutture dell’epidemia, la situazione possa precipitare”. E mentre è di un detenuto di Vibo Valentia il primo caso di passaggio ai domiciliari, per via di un quadro clinico che secondo il giudice lo renderebbe più vulnerabile se subisse un contagio, la condizione calabrese si inserisce in un quadro nazionale che continua a preoccupare dopo le proteste violente dei giorni scorsi, tenuto conto che anche in Calabria sono stati trasferiti i carcerati protagonisti delle varie sommosse. Un allarme che non riguarda solo i detenuti e gli agenti penitenziari, ma anche gli operatori volontari, come riferisce il cappellano del carcere di Palmi, don Silvio Mesiti, che chiosa: “Siamo preoccupati, ma se un detenuto mi chiede un colloquio, io più che mettere la mascherina non posso fare”. Sardegna. Caligaris (Sdr): “Sistema in sofferenza per operatori, detenuti e familiari” sardegnalive.net, 20 marzo 2020 Svariati i problemi presenti nelle carceri anche prima del Covid-19. Maria Grazia Caligaris, socia fondatrice associazione Onlus “Socialismo diritti riforme” fa un quadro della situazione attuale delle carceri sarde. Secondo la donna i tanti problemi, presenti anche prima dell’emergenza Coronavirus, vano risolti quanto prima. “Il provvedimento con cui il Governo è intervenuto per alleviare la presenza dei detenuti nelle carceri, con l’intento di dare una risposta all’emergenza Covid-19, non risolverà la condizione di grave sofferenza in cui si trova anche il sistema penitenziario in Sardegna. È un primo passo ma non sufficiente. Occorre ampliare il ricorso alle pene alternative e promuovere una mini amnistia o un indulto”, scrive la Caligaris. “Nella nostra isola al problema del sovraffollamento in alcuni Istituti (Oristano-Massama, Cagliari-Uta e Sassari-Bancali) si aggiungono le carenze ‘storiché che il Ministero della Giustizia e il Dap non hanno mai seriamente affrontato e risolto. La costruzione di quattro nuove strutture penitenziarie ha paradossalmente complicato la realtà isolana dove sono aumentati i detenuti in alta e massima sicurezza e la carenza di personale (direttori, agenti, educatori e amministrativi). È inadeguata l’organizzazione sanitaria, deficitaria sotto il profilo dell’efficienza. Aspetti che rendono difficile tenere insieme esigenze diverse nel rispetto dei diritti di tutti. Senza parlare della Magistratura di Sorveglianza che necessita di numeri decisamente più importanti per rendere il ricorso alle pene alternative più snello ed efficace. Non si può fare a meno di considerare che se nelle carceri isolane non si sono verificati atti inconsulti lo si deve al senso di responsabilità delle persone private della libertà e dei loro familiari ma ha avuto un ruolo determinante il personale. In queste settimane dell’imperativo “restare a casa” abbiamo sperimentato, almeno in parte, che cosa significa vivere con limiti alla libertà. Da cittadini responsabili abbiamo rinunciato a uscire di casa se non per necessità. Molti hanno sofferto a tal punto questa condizione da non riuscire a portarla a termine completamente. Hanno frequentato le edicole o il market o la farmacia più di una volta, senza neanche l’urgenza. Hanno avuto al loro fianco moglie o marito, figli, nipoti. Hanno avuto momenti di socialità attraverso il computer o il cellulare. Imporre restrizioni a chi vive una condizione limitata, violando così anche le norme vigenti che permettono ai detenuti di vedere almeno i propri familiari (principio peraltro fondamentale per il reintegro sociale e per mantenere relazioni con i figli) oppure i volontari ha creato non pochi problemi a Direttori e Comandanti di Reparto. Ha imposto agli Agenti e agli Educatori un surplus di lavoro costringendoli, in un momento della loro vita condizionato da una grave emergenza sanitaria, a fare leva quasi solo sull’arma della comunicazione. Non è stato facile spiegare perché, condividere lo scopo delle nuove più rigide limitazioni palesando un fine comune per il rispetto della vita di tutti. Tutto questo è stato fatto, anche con il contributo dei Cappellani, durante le ultime tre settimane costruendo un nuovo modo per stare insieme in una realtà chiusa. A questo equilibrio delicato e sempre instabile ha contribuito il personale sanitario in grande difficoltà. Tutti, anche i volontari, aspettano un ulteriore provvedimento del Ministro Bonafede che con senso di responsabilità, senza il condizionamento degli insensati allarmi per la libertà a vantaggio di violentatori, pedofili e assassini, assuma una decisione in grado di incidere più opportunamente per alleviare una situazione che, forse non si è ancora capito, è molto delicata. Non basta riconfermare un dispositivo di legge esistente (199/2010), come ha fatto. Non basta garantire l’uscita dal carcere a chi deve scontare ancora 18 mesi. Serve coraggio e determinazione per consentire a chi sta concludendo il percorso detentivo di andare a casa, seppure in detenzione domiciliare. Una mini amnistia e/o un indulto sarebbero l’ideale, anche perché la situazione dei Tribunali non è facile. Il Ministro non aspetti oltre intervenga affinché la salute di tutti sia salvaguardata in condizioni di vita in cui l’igiene sia davvero garantita ed esclusa o almeno controllata la promiscuità”. Porto Azzurro (Li). “Aiutatelo”, ma lui si uccide in cella di Antonella Mollica Corriere Fiorentino, 20 marzo 2020 la famiglia aveva chiesto il trasferimento: “Irriconoscibile”. Si è ucciso il giorno dopo il suo compleanno in una cella del carcere di Porto Azzurro inalando il gas del fornellino. Fiorentino, 54 anni, era detenuto da sei anni per tentato omicidio ed era stato dichiarato parzialmente incapace di intendere e volere. Dopo l’arresto l’uomo era finito a Sollicciano, poi trasferito a Montelupo, infine a Porto Azzurro. La scorsa estate i familiari, preoccupati dello stato di prostrazione in cui avevano trovato l’uomo durante un colloquio, si erano rivolti al Garante per i diritti dei detenuti segnalando le condizioni disperate dell’uomo. La moglie e il figlio avevano denunciato che l’uomo era irriconoscibile, era diventato uno scheletro e che si stava “lasciando morire”: è diventato “una larva umana - avevano scritto al Direttore del carcere di Porto Azzurro - e per evitare di arrivare a una situazione irreparabile bisogna pensare al più presto a una soluzione alternativa”. Ad agosto l’uomo aveva così ricevuto la visita del garante per i detenuti di Porto Azzurro che aveva confermato di aver trovato l’uomo fortemente dimagrito dal momento che, come lui stesso ammetteva, mangiava poco perché non aveva fame. Quando i familiari avevano ventilato la possibilità di farlo andare in una Rems, una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, sembra che lui non avesse preso bene questa possibilità. A settembre era arrivata la risposta ai familiari dal carcere: i vertici dell’istituto avevano spiegato che erano stati fatti accertamenti, che l’uomo era seguito regolarmente, che “non emergono elementi da segnalare” e sottolineavano che “nessuna informazione ulteriore sullo stato di salute dell’uomo poteva essere fornita ai familiari se non dietro il suo consenso”. Quattro giorni fa la decisione di farla finita. Voghera (Pv). Presunte manganellate per sedare le proteste dei detenuti in Alta Sorveglianza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 marzo 2020 I reclusi protestavano per il blocco delle telefonate ai familiari e l’isolamento totale dopo il caso di un contagio da coronavirus. Presunte manganellate all’interno della sezione di alta sorveglianza (as3, settimo piano) del carcere di Voghera dopo che i detenuti hanno intrapreso una protesta per il blocco delle telefonate ai famigliari e l’isolamento totale dopo il caso di un recluso contagiato dal coronavirus. “Mi ha chiamato piangendo mio marito - denuncia al Il Dubbio la moglie di un recluso - raccontandomi che gli stessi agenti penitenziari della sezione, fino all’altro giorno cordiali e disposti con tutti, sono entrati in cella e hanno picchiato un suo compagno di cella perché aveva protestato contro l’isolamento totale e il blocco delle telefonate di ieri. Non tutti, fortunatamente c’era qualche agente che ha cercato di fermare i loro colleghi”. Tutto da dimostrare. Ma secondo la ricostruzione di alcuni familiari, tutto sarebbe cominciato quando un detenuto, da alcuni giorni con sintomi influenzali, è risultato positivo al tampone e ricoverato all’ospedale. Gli stessi agenti, dopo la battitura dei reclusi per chiedere di avvisare i propri cari, hanno dato la possibilità di far fare le telefonate tutti i giorni. Poi però è scattata la quarantena, isolamento totale senza ora d’aria e il blocco anche delle telefonate. Quindi una nuova protesta. A quel punto alcuni agenti avrebbero sedato la protesta con le manganellate. Ma parliamo di una testimonianza diretta di un recluso e il condizionale è d’obbligo. Tante, troppe le segnalazioni che provengono da più parti. C’è l’autorità del garante nazionale dei detenuti che è anche impegnato a controllare, in rapporto con le Procure e in talune casi con visite, la consistenza di alcune notizie ricevute circa possibili casi di ritorsione nei confronti di persone che hanno partecipato alle proteste. E continuano anche ad arrivare da parte dei familiari richieste di informazione sui propri congiunti trasferiti a seguito delle proteste. Il garante a questo proposito aveva sollecitato l’Amministrazione penitenziaria al fine di assicurare a tutte le persone trasferite negli altri Istituti di informare i loro riferimenti affettivi circa la nuova assegnazione detentiva. Nel frattempo buone notizie buone notizie dal fronte dei detenuti contagiati dal Covid-19: due di loro sono guariti, come dimostra l’esito negativo del terzo tampone effettuato, e hanno fatto rientro in istituto dall’ospedale dove erano ricoverati. Per uno il medico dell’istituto ha prescritto la quarantena fino al 24 marzo prossimo e quindi si trova attualmente in isolamento precauzionale in una camera di pernottamento singola, dotata di bagno autonomo. Per l’altro invece non è stato ritenuto necessario l’isolamento e ha quindi fatto rientro nella sezione detentiva. Rimangono così soltanto otto i detenuti positivi sull’intero territorio nazionale dal 22 febbraio scorso, da quando cioè il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha varato i primi provvedimenti per fronteggiare il rischio contagio da coronavirus, fra cui l’istituzione dell’unità di crisi per il monitoraggio del fenomeno. Alcuni di questi sono ricoverati presso strutture ospedaliere delle città. Altri si trovano in istituto, isolati dal resto della popolazione detenuta, secondo il protocollo sanitario previsto dalle circolari del Dap e del Ministero della Sanità: in qualche caso hanno contratto il virus all’esterno mentre si trovavano ricoverati, per altri motivi, presso strutture sanitarie. Opera (Mi). Al 41bis con problemi psichiatrici: sarebbe stato aggredito da 5 agenti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 marzo 2020 Mentre per le rivolte in carcere sono stati aperti dei fascicoli di indagine su presunti maltrattamenti nei confronti di alcuni rivoltosi, è in corso una verifica per quanto riguarda una presunta aggressione a un detenuto al 41bis ristretto nel carcere milanese di Opera. Il fatto sarebbe avvenuto il 23 febbraio. Cinque agenti della polizia penitenziaria, capitanati dal Comandante, sarebbero entrati nella cella. Quest’ultimo, per far aprire la cella, avrebbe sfidato il detenuto fronteggiandolo in maniera diretta e lo avrebbe spinto con un colpo al petto, facendo perno con le proprie braccia sui montanti che sorreggono l’inferriata posta all’ingresso della cella. In questa maniera avrebbe fatto arretrare il detenuto, consentendo a tutti di entrare. A quel punto, con il supporto degli agenti che avrebbero accerchiato il detenuto, il comandante avrebbe continuato a sfidarlo verbalmente, fino a quando lo avrebbe preso per il collo con entrambi le mani, ma con una tale forza da lasciargli i segni della stretta. Il detenuto avrebbe quindi reagito, con una testata nel volto del presunto aggressore, per interrompere l’atto di violenza. La denuncia è arrivata sul tavolo della Procura milanese da parte dell’avvocato difensore Eugenio Rogliani. Ma per capire meglio la vicenda, bisogna partire dall’inizio. L’avvocato spiega che il suo assistito, nel corso del suo lungo periodo al regime duro, ha più volte manifestato segni di grave instabilità psichiatrica con atti di autolesionismo. A causa della sua patologia, il detenuto è sottoposto a una massiccia somministrazione di antidepressivi, ansiolitici e antipsicotici. L’avvocato Rogliani sottolinea che purtroppo non basta, non essendo sottoposto ad alcun programma di psicoterapia. Condizioni che ovviamente accentuate, essendo sottoposto al regime del 41bis. Fatte le dovute premesse, cosa è accaduto? Il recluso, a causa di una grave infiammazione al nervo sciatico, è stato costretto ad assumere un farmaco a base di cortisone. L’episodio è avvenuto la mattina del 23 febbraio, intorno alle 9, quando il detenuto ha chiesto agli agenti di poter ricevere una cassa d’acqua, per smaltire correttamente il farmaco. Ma gli agenti non avrebbero acconsentito. A quel punto il recluso al 41bis avrebbe reiterato la sua richiesta più volte nel pomeriggio. Ma senza ottenere nulla. A causa delle continue richieste rigettate, e in considerazione del suo profilo psichico, il detenuto, per reazione, si è opposto all’ispezione giornaliera degli agenti. In sostanza non ha voluto far entrare gli agenti nella sua cella. Ed è lì che sarebbe avvenuta l’aggressione come ritorsione alla sua opposizione. Secondo l’avvocato Rogliani, il suo assistito sarebbe stato vittima di un chiaro travalicamento dei limiti legislativamente imposti all’uso della forza nei confronti dei detenuti. “Infatti - sottolinea l’avvocato a Il Dubbio - gli agenti intervenuti non hanno avuto il minimo riguardo del criterio di proporzionalità che dovrebbe ispirare la scelta dei meccanismi e degli strumenti di coercizione del detenuto sulla scorta delle modalità con le quali viene attuata la resistenza ad opera dello stesso”. Allo stesso modo, spiega l’avvocato, “deve segnalarsi che il ricorso alla forza è intervenuto a scopo eminentemente punitivo e intimidatorio, giacché la passiva resistenza opposta dal mio assistito all’ingresso degli agenti in cella era stata vinta già da diversi istanti prima dell’aggressione”. In tutto questo, ci sarebbe anche l’aggravante che il recluso è affetto da una grave patologia psichiatrica, quindi l’approccio sarebbe dovuto essere, a maggior ragione, diverso. Venezia. Morì suicida in carcere, lo Stato non è colpevole Il Gazzettino, 20 marzo 2020 Le autorità italiane non sono responsabili per la morte di un detenuto avvenuta alla fine del maggio 2005 nel carcere veneziano di Santa Maria Maggiore, e hanno condotto un’inchiesta efficace per determinarne le cause. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani che ha assolto l’Italia dall’accusa, formulata dai parenti del detenuto, di aver violato il suo diritto alla vita perché le autorità penitenziarie non hanno preso misure adeguate ad evitare la tragedia, e le autorità inquirenti non hanno condotto un’inchiesta efficace per verificare i fatti. A ricorrere alla Corte di Strasburgo, nel 2013, sono stati due parenti del carcerato, un uomo con problemi di tossicodipendenza, trovato morto nella sua cella alla fine del maggio 2005.Gli accertamenti disposti dalla procura consentirono di accertare che l’uomo morì a causato “dell’inalazione volontaria del gas contenuto nella bombola usata per cucinare”. Gli atti di autolesionismo sono uno dei problemi più preoccupanti nei penitenziari della regione, che soffrono di cronico sovraffollamento di detenuti (a fronte di una capienza regolamentare di 1.942 posti i penitenziari della regione hanno ospitato mediamente 2.394 detenuti) mentre il numero di agenti di polizia penitenziaria è sempre più carente. Nell’ultimo anno censito dalle statistiche ufficiali, sono raddoppiate le morti per suicidio, passate da 2 a 4 (una a Padova e tre a Verona), mentre i tentati suicidi sono lievitati da 57 a 81 e gli episodi di autolesionismo da 556 a 674. Il 2020 si è aperto a gennaio con il suicidio di un colombiano, detenuto per droga, che è riuscito a togliersi la vita dopo un tentativo non andato a buon fine. Brescia. Carceri, l’allarme di Camera penale e Garante: “Misure insufficienti” di Mara Rodella Corriere della Sera, 20 marzo 2020 Forti critiche al dl in materia di contenimento del virus per detenuti e personale. Senza braccialetti elettronici “non sarà possibile accedere alla detenzione domiciliare nei limiti di pena indicati”. Una decisione “scellerata” e “del tutto insufficiente a fronteggiare la situazione critica delle carceri”. È una posizione dura, netta, oltre che - come sottolineano - “doverosa”, quella presa in maniera congiunta dal consiglio direttivo della Camera penale e dal Garante per i detenuti di Brescia, in relazione alle disposizioni contenute nell’articolo 123 del decreto legge del 17 marzo sulla detenzione domiciliare, e che “dovrebbero contribuire ad alleviare” le drammatiche condizioni in carcere, dove “a repentaglio” c’è “la salute dei detenuti, della polizia penitenziaria e di tutti gli operatori che ci lavorano”. Le norme introdotte nel decreto, denunciano penalisti e Garante, “sono assolutamente insufficienti per rispondere a sovraffollamento e insicurezza”. E non genericamente, ma nel dettaglio. A cominciare dal comma 3, là dove “prevede che, a esclusione dei condannati minorenni o con pena da eseguire non superiore a sei mesi, la concessione della detenzione domiciliare introdotta si applica unitamente alla procedura di controllo con mezzi elettronici o altri strumenti tecnici resi disponibili dagli istituti penitenziari”. Viene da sé il comma 5, per il quale il numero di queste dotazioni viene “individuato” nei limiti delle risorse finanziarie disponibili a legislazione vigente”. Quindi, continuano, appare evidente che “senza la concreta disponibilità di braccialetti elettronici” da parte dei singoli istituti “non sarà possibile accedere alla detenzione domiciliare nei limiti di pena indicati” nella norma stessa. Non solo. “Non è prevista alcuna forma di obbligatoria e immediata messa a disposizione dei dispositivi necessari per attivare la citata procedura di controllo; e da ciò si deve necessariamente desumere che la prevista ed eccezionale misura della detenzione domiciliare non potrà essere applicata se non in un numero esiguo di casi, comunque insufficiente per far fronte alla gravissima emergenza del coronavirus negli istituti penitenziari italiani, atteso che, qualora scoppiasse, anche in uno solo di essi, un focolaio di infezione, la situazione diverrebbe assolutamente ingestibile dal punto di vista sanitario e della sicurezza di detenuti e operatori”. Da qui non solo la denuncia della Camera penale e del Garante di Brescia, ma anche un appello “alle autorità e alle istituzioni”, a fronte di una decisione arrivata, peraltro, “dopo che, in precedenza sembrava venisse inserita la locuzione “se disponibili”, riferita ai braccialetti elettronici, grazie alla quale si sarebbe evitato l’aberrante effetto qui denunciato”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Coronavirus, ?positivo il dirigente sanitario del carcere di Mary Liguori Il Mattino, 20 marzo 2020 C’è anche un dirigente del servizio sanitario penitenziario del carcere “Uccella” di Santa Maria Capua Vetere, tra i dieci casertani positivi al coronavirus per i quali il risultato del tampone è arrivato nella giornata di ieri. Il medico, che era in isolamento da alcuni giorni, non avrebbe mai avuto contatti diretti con i detenuti, in quanto ricopre un ruolo di dirigente e lavora prevalentemente in ufficio e non in infermeria. Proprio per questa ragione, tra ieri e oggi, sono stati eseguiti una decina di tamponi sulle persone che hanno avuto contatti diretti con lui. Si tratta di personale sanitario, medici e infermieri, e di alcuni agenti di polizia penitenziaria. Nessun detenuto, invece, fino a ieri, era stato sottoposto al tampone. Tra le persone che attendono il test, ci sono un poliziotto e un infermiere che hanno avuto con il medico più contatti prima che lo stesso andasse in isolamento in attesa dell’esito del tampone. È chiaro che il fatto che il medico contagiato non abbia avuto contatti diretti con i detenuti, non basta a placare gli animi già agitati dell’”Uccella” dove sono un migliaio per persone recluse a fronte degli 800 posti disponibili. Dieci giorni fa, sulla scia di quanto accaduto a Foggia, Modena, Poggioreale e in altre carceri italiane, anche all’Uccella c’è stata una rivolta contro lo stop ai colloqui tuttora in vigore e disposto nell’ambito delle misure di contenimento del contagio. Un blocco non gradito né dai carcerati né dai detenuti che hanno protestato in alcuni casi con epiloghi drammatici: evasione di massa da Foggia, otto morti a Modena. Meno irruenta l’iniziativa dei detenuti di Santa Maria Capua Vetere che, lo scorso 10 marzo, hanno approfittato dell’ora d’aria per scavalcare una balaustra e protestare dai passeggi esterni del terrazzo mentre una trentina di familiari raggiungeva l’area esterna del penitenziario. La rivolta investì anche l’Alta sicurezza, con cinquanta “reclusi” eccellenti che presero possesso del reparto e distrussero suppellettili e letti. La notizia del medico contagiato ha ovviamente gettato nel panico i familiari dei detenuti che, da ieri pomeriggio, stanno telefonando agli avvocati per ottenere notizie su quanto sta accadendo all’interno delle mura carcerarie. La situazione dei penitenziari è apparsa come una polveriera già dopo il boom di contagi in Italia e i conseguenti decreti per il contenimento del virus che hanno interrotto le visite. È evidente che un contagio tra il personale non può che alimentare altre pericolose tensioni. In questi giorni per effetto delle misure di contenimento, i detenuti in ingresso vengono sottoposti prima al triage nella tenda allestita all’ingresso del perimetro carcerario e poi tenuti in isolamento in un reparto predisposto ad hoc in attesa del risultato dei test cui tutti i nuovi arrivati debbono sottoporsi. Una strategia che mira a evitare contagi in prigione dove il sovraffollamento è un humus pericolosissimo. Al momento, comunque, all’”Uccella” si è in attesa dei risultati degli altri tamponi eseguiti sul personale che ha avuto contatti con i detenuti e solo dopo si potrà capire se all’”Uccella” esiste un’emergenza sanitaria. Roma. Tregua a Rebibbia, mascherine per agenti e detenuti e colloqui via Skype di Laura Barbuscia La Repubblica, 20 marzo 2020 A 11 giorni dalla rivolta, a Rebibbia è tornata la calma apparente, un reparto è stato liberato nell’eventualità di una quarantena, alcuni tamponi sono stati fatti ma sono risultati negativi, trasferimenti e domiciliari previsti dovrebbero alleggerire il sovraffollamento, ma la tensione e le preoccupazioni restano alte. E poi c’è la conta dei danni. Nelle ore della rivolta sono andati a fuoco arredi e suppellettili, ma anche i libri. Non un danno da poco, visto che nel carcere sono tanti i reclusi che provano ad agguantare un diploma o una laurea, come accaduto a Renata Sejdic, prima rom a laurearsi, come raccontato da Repubblica. Il rogo dei giorni scorsi ha mandato in fumo i volumi e in parte i sogni di Roberto, detenuto comune e studente di Lettere dell’Ateneo di Roma Tor Vergata, che ha scritto di suo pugno una lettera post sommossa - avvenuta all’interno del suo stesso reparto, il G11 - indirizzata al tutor, Fabio Pierangeli: “Sono stati bruciati molti libri della biblioteca, anche i miei di studio, compreso il computer si legge nero su bianco nella missiva inviata al prof. dagli agenti per email - Anche per noi qui è una sorta di quarantena, niente colloqui, niente visite di volontari, sala universitaria chiusa”. Ora a tenere banco è la questione della salute di agenti e detenuti. Le mascherine sono arrivate, ma non bastano. E se la bocca e il naso degli agenti sono protette con quelle con il filtro FFP2, lo stesso non si può dire per quelli dei carcerati, coperti dalle maschere monouso. Altre ne verranno prodotte, e arriveranno dalla Toscana entro il fine settimana. Per tamponare l’emergenza, dal laboratorio sartoriale interno a Rebibbia escono mascherine antivirus con pelle d’uovo e cotone al 100%, riutilizzabili previo lavaggio e bollitura, da donare a chi opera e si trova dentro il carcere, ma anche a chi ne ha bisogno dall’esterno. Procede l’installazione delle attrezzature per i video-colloqui. Al femminile sono in funzione 5 postazioni Skype, al penale invece 3, i tablet sono 5. ne arriveranno altri per aumentare le videochiamate. All’interno delle mura carcerarie intanto un’altra protesta, questa volta pacifica, prende forma. E sul tavolo del Capo dello Stato arriva una lettera in cui i detenuti chiedono rispetto. Oltreché l’estensione delle misure alternative. Tra quelle previste nel decreto “Cura Italia”, la possibilità di richiedere i domi - ciliari per chi deve scontare meno di 18 mesi. E braccialetti elettronici per coloro che hanno pene residue. Padova. Tribunale, da lunedì via alle direttissime online di Roberta Polese Corriere del Veneto, 20 marzo 2020 Il procuratore Cappelleri: “Questa è la strada”. Il comandante dei carabinieri: “Anche tra noi qualche positivo”. Al via le direttissime on line in tribunale a Padova. Dopo Milano e Vicenza anche al Palazzo di giustizia di via Tommaseo verrà adottato l’uso di piattaforme web per la convalida degli arresti. Il tribunale, la procura, le varie forze dell’ordine e gli avvocati si stanno coordinando in questi giorni par partire già lunedì con le nuove disposizioni. Il piano, adottato in primis dal tribunale di Milano, prevede che il detenuto venga portato dalle varie forze dell’ordine nella caserma, o questura, o sede del comando della Guardia di Finanza, competente per territorio. Chi esegue l’arresto si preoccuperà di avvisare il magistrato e il giudice e di stabilire l’ora della direttissima, alla quale parteciperà anche l’avvocato difensore il quale potrà essere fisicamente presente in caserma o in questura o collegarsi in remoto. La piattaforma indicata dal ministero è “Team” che consente un collegamento temporaneo con più utenti. L’avvocato difensore potrà parlare da con l’arrestato qualche minuto prima solo dell’udienza. “È una misura che diminuisce ancora di più gli spostamenti delle forze dell’ordine - spiega il procuratore capo Antonino Cappelleri - serve ancora qualche riunione per definire alcuni dettagli ma questa è la strada”. Al momento le piattaforme web sono state attivate per l’ufficio gip, per interrogatori di garanza o convalide, in questo caso i collegamenti si fanno direttamente dal carcere. Sotto gli occhi di tutti c’è un evidente calo dei reati, tuttavia le forze dell’ordine sono tra le categorie di persone esposte per via dei controlli per il rispetto del Dpcm per mantenere il contagio. “La direttissima via web diminuisce ancora di più gli spostamenti e sicuramente questo va nella direzione imposta dal governo - spiega il comandante provinciale dei carabinieri Luigi Manzini - c’è ancora qualche dettaglio tecnico da definire ma siamo attrezzati per supportare questa nuova iniziativa. Ad oggi anche i carabinieri devono far fronte a nuove esigenze organizzative, anche tra le file dei carabinieri di Padova abbiamo avuto delle positività al coronavirus, si tratta di una manciata di persone su 1.000 carabinieri, abbiamo preso immediatamente tutte le misure di contenimento necessario”. “L’iniziativa del Procuratore della Repubblica trova concorde il Consiglio dell’ordine degli avvocati, che si dichiarerà disponibile alla sottoscrizione del protocollo, atteso il momento di emergenza per la salute collettiva e individuale - dice il presidente dell’ordine degli avvocati Leonardo Arnau -. Conosco perfettamente e condivido le perplessità più volte segnalate dalla Camera penale “Francesco de Castello” in ordine allo svolgimento delle udienze con metodi “a distanza”, ma sappiamo che si tratta di misure eccezionali, dettate dall’emergenza sanitaria per il coronavirus non reiterabili in situazioni di ordinario svolgimento dell’attività giurisdizionale”. Vercelli. 60 detenuti rinunciano al vitto per donarlo all’associazione don Longhi di Andrea Zanello La Stampa, 20 marzo 2020 Una sessantina di detenuti del carcere di Biliemme ha deciso di rinunciare al vitto donandolo all’Associazione Don Luigi Longhi dell’Aravecchia. I reclusi hanno deciso di non usufruire di quello che ogni giorno il carrello porta in cella: colazione, pranzo e cena. Si arrangiano con quello che arriva loro da fuori da parte dei parenti e con quello che riescono ad acquistare. Il loro non è uno sciopero della fame. Lo fanno per l’iniziativa #perlepersonedetenute:nonvogliamomoriredentro. È una forma di protesta pacifica come quelle messe in atto da diversi giorni attraverso la battitura delle inferriate per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle condizioni di sovraffollamento delle carceri. Condizione che si è aggravata con l’emergenza legata al Covid-19. Tra le misure per affrontarla infatti sono stati sospesi i colloqui fisici. A Vercelli però sono stati potenziati i servizi per mettere in contatto i detenuti con le famiglie. Oltre a poter usufruire di postazioni con Skype ogni detenuto ha diritto a fare una telefonata al giorno. L’associazione Sant’Egidio, insieme ad altri sodalizi legati al mondo del volontariato che si occupano del carcere, ha anche versato dei fondi a favore dei detenuti indigenti. La popolazione carceraria della casa circondariale di Vercelli è di circa 320 unità. Per ora, anche grazie alle misure prese con il protocollo dell’Asl, la situazione sanitaria interna al carcere non desta preoccupazione. Tutti i detenuti che entrano in struttura affrontano un periodo di quarantena. Senza dimora, detenuti, migranti: le vittime dimenticate del coronavirus di Luigi Mastrodonato wired.it, 20 marzo 2020 Il virus non è una grande livella: un dramma ulteriore si sta consumando lì dove tendenzialmente lo sguardo non arriva, nel mondo degli ultimi, degli emarginati e dei soggetti fragili. Quella che stiamo vivendo in questi giorni è una tragedia collettiva, continuiamo a ripeterci. Nella Covid-19 non ci sono privilegiati a cui è concesso di continuare normalmente la propria vita e condannati a cui è richiesto di cambiare in toto le proprie abitudini: siamo tutti sulla stessa barca, una barca in un mare in tempesta, e a tutti sono richiesti gli stessi sacrifici, in una sorta di mal comune mezzo gaudio che nella sua drammaticità può aiutare a farci forza. Eppure va da sé che queste settimane di pandemia, con tutto quello che si stanno portando dietro, hanno impatti differenti sui differenti profili sociali. Il Covid-19 è una tragedia globale, che ci riguarda tutti, ma è anche una tragedia soggettiva, nel senso che la sua violenza è variabile. Non esiste la grande livella, quando si parla di virus. I precari, tra gli altri, usciranno maggiormente sconfitti da questa situazione, perché la sospensione lavorativa avrà effetti molto più netti sulle loro finanze e la loro sopravvivenza: perché l’accesso alle cure sanitarie e psicologiche sarà economicamente più difficile, perché il contesto abitativo in cui si trovano renderà la quarantena meno sopportabile rispetto a chi può permettersi una villetta a schiera con giardino. Ma al di là di queste disuguaglianze attuali e, soprattutto, future, che riguardano la società visibile, un altro dramma si sta consumando lì dove tendenzialmente lo sguardo non arriva, nel mondo degli ultimi, degli emarginati. Dei soggetti già fragili. Un mondo sommerso, già tormentato nella normalità, ancora più messo in ginocchio ora. Il paradosso più significativo di questi giorni riguarda le denunce nei confronti dei senza dimora, colpevoli di stare all’aperto quando le ordinanze chiedono di non uscire. Una concretizzazione della scritta homeless go home diventata virale grazie alla sua assurdità. Di fatto si chiede a chi una casa non ce l’ha di stare a casa, mettendo il dito nella piaga di fragilità con cui queste persone sono già costrette a confrontarsi. In queste settimane, per scongiurare gli assembramenti, sono peraltro state chiuse diverse mense, sono stati limitati gli accessi ai dormitori, e alla distribuzione dei pasti caldi si è sostituita l’offerta in qualche piazza di alimenti essenziali da consumare a distanza. Sono stati sospesi i servizi di docce e lavaggio e il numero di volontari che assistono i senza dimora si è ridotto, a causa delle limitazioni negli spostamenti. Il Covid-19 ha insomma accentuato la solitudine e la fragilità di chi vive in strada, in parallelo a una criminalizzazione di questa condizione (che tanto piacerà ai teorici del decoro). Ma il virus è entrato con tutta la sua violenza anche in altri mondi invisibili, come quello delle carceri. Ai detenuti da ormai un mese sono stati sospesi alcuni diritti per contenere il contagio, annullando di fatto i contatti con l’esterno. Se noi fatichiamo a stare 24 ore senza una corsetta al parco, ci lamentiamo dai nostri salotti con Netflix su uno schermo e Facetime sull’altro che squilla dieci volte al giorno con la fidanzata o l’amico pronti a tenerci compagnia, immaginiamoci cosa può significare - per chi in quarantena vive da anni - perdere anche quell’ora settimanale di contatti con i parenti. Le rivolte in decine di istituti nelle scorse settimane, le vittime che sono state avvolte nel silenzio e su cui ancora non si è fatta chiarezza, sono un dramma nel dramma del coronavirus. Ma altre conseguenze tragiche sono dietro l’angolo. Nelle scorse ore le Ong hanno dichiarato che si trovano costrette a sospendere le loro operazioni di soccorso nel mar Mediterraneo, a causa delle restrizioni in corso. È un problema, perché per quanto i sovranisti urleranno ai megafoni che questo comporterà l’azzeramento degli sbarchi a causa della fantomatica legge del pull factor, nella realtà i barconi continueranno a solcare il mare, senza però poter contare sull’assistenza umanitaria in caso di difficoltà. Durante la politica dei porti chiusi di Salvini, nel mar Mediterraneo sono morte 1.151 persone, a riprova di quanto la presenza delle Ong sia fondamentale per scongiurare queste tragedie. Sono solo alcuni esempi della violenza soggettiva con cui il Covid-19 si sta abbattendo sulla popolazione. Se è vero dunque che siamo tutti sulla stessa barca, è anche vero che si tratta di una barca con business class, prima classe e seconda classe. Il mare in tempesta c’è per tutti, ma per alcuni - gli ultimi - il dramma si sta facendo sentire in modo ancora più violento. Coronavirus, è allarme tra i detenuti: dalla Cina all’Iran, nelle carceri è allarme rosso di Erminia Voccia Il Messaggero, 20 marzo 2020 Le carceri sono luoghi ideali per l’incubazione e la rapida diffusione delle malattie infettive. Su questo punto gli esperti sono tutti d’accordo. Ambienti chiusi, sovraffollati, dove le persone vivono in condizioni igieniche non certo ottimali, le carceri sono per queste ragioni il veicolo perfetto per la trasmissione del nuovo coronavirus, in tutto il mondo. Già nel 2018 uno studio della celebre rivista The Lancet aveva avvertito che il rischio che i detenuti possano contrarre malattie come l’HIV, l’epatite B e C, la sifilide o la tubercolosi, è molto più alto rispetto agli altri individui. Ma spesso, specificava lo studio, i detenuti soffrono di altre patologie croniche, malattie non infettive, come problemi cardiaci. Ciò non fa che aumentare il rischio di infezione da Covid-19. La questione è esplosa drammaticamente in Italia nelle scorse settimane, ma anche nel resto del mondo si iniziano a prendere misure per provare a contenere la diffusione del virus nelle carceri. Il pericolo riguarda la possibilità che il personale impiegato, guardie, operatori sanitari, personale di altro tipo, possa trasmettere il virus ai detenuti, ponendo le premesse per la trasmissione del contagio a centinaia di persone. Le prigioni cinesi sarebbero state particolarmente colpite dal Covid-19, ma il problema è emerso anche in Iran, dove il regime ha permesso il rilascio temporaneo di 85mila persone, inclusi prigionieri politici. Nella Repubblica islamica la situazione è molto critica. Il 9 marzo l’Iran ha annunciato la liberazione di 70mila prigionieri come misura contro la diffusione del coronavirus, ma nessuno di questi era prigioniero politico. Come scive il New York Times, lo Special Rapporteur per i diritti umani in Iran ha chiesto al governo di Teheran di liberare tutti i prigionieri politici dalle affollate prigioni iraniane. Rehman ha affermato però che solo chi ha da scontare una pena inferiore a 5 anni è stato liberato, mentre chi ha pene più pesanti è rimasto in cella, compreso chi ha partecipato alle proteste contro il regime degli ultimi mesi. Mercoledì 18 marzo, inoltre, nel Regno Unito è stato registrato il primo caso confermato di coronavirus in un carcere di Manchester. A riferirlo il Guardian. In Cina la diffusione del coronavirus nelle carceri e nei campi di detenzione è una questione che afferisce, non solo ai diritti umani, ma anche alla credibilità di Pechino sulla scena mondiale. L’opacità e la mancanza di trasparenza sui dati, la comunicazione tardiva delle informazioni sulla diffusione della malattia, anche in relazione alle prigioni, gettano nuove ombre sulla Repubblica Popolare. Secondo la rivista The Diplomat, gli oltre 550 casi di contagio nelle prigioni cinesi hanno svelato le mancanze della Cina nella gestione dell’emergenza, delle crepe preoccupanti nelle misure di contenimento del coronavirus. Molto difficile avere dati aggiornati sulla diffusione della malattia nelle prigioni cinesi. Il 26 febbraio il Ministero della Giustizia di Pechino ha diffuso la seconda parte di uno studio su Covid-19 e sistema detentivo. In data 25 febbraio c’erano almeno 555 casi di infezione in cinque carceri di tre province cinesi: Hubei, Shandong e Zhejiang, un numero certamente destinato a salire. Il 26 febbraio la Cina non riferiva di alcun caso di decesso nelle carceri. Il carcere femminile di Wuhan risultava già il più colpito, tanto che il dirigente è stato licenziato. Anche in questo caso la Cina ha informato delle infezioni solo molto tempo dopo i primi casi riscontrati. I media di stato cinesi hanno provveduto ad annunciare il licenziamento degli ufficiali e dei responsabili della giustizia a livello locale, nel tentativo di trovare un colpevole. A preoccupare anche la condizione dell’oltre un milione di uiguri detenuti nei campi di detenzione della regione autonoma dello Xinjiang. Ad Hong Kong, inoltre, riferiscono alcuni media, le detenute sono sfruttate per la produzione di mascherine protettive. Lavoro a basso costo richiesto proprio a chi è più vulnerabile al virus. Iran. Dopo le 85.000 scarcerazioni arriva l’amnistia per 10mila detenuti di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 20 marzo 2020 Si tratta di persone che hanno una condanna a meno di 5 anni, molti sono prigionieri politici. L’annuncio è arrivato è improvviso e sorprendente. Oggi in Iran si festeggia l’inizio del nuovo anno, il Nowruz, e per questa importante data il regime degli Ayatollah ha deciso di liberare definitivamente 10mila prigionieri. Il provvedimento è partito direttamente dalla Guida Suprema Alì Khamenei, come riportato dal portavoce della magistratura islamica Gholamhossein Esmaili attraverso la Tv di Stato: “quanti riceveranno il perdono non torneranno in prigione”. Chi riceverà il “perdono” tra gli 85mila già liberati temporaneamente all’inizio della crisi non dovrà tornare in cella. Fino ad ora nel Paese si sono registrati 17mila casi e 1.135 vittime, i guariti invece sono 4mila. Almeno la metà dei rilasciati, sono prigionieri per reati legati alla sicurezza, in pratica oppositori politici e molti degli arrestati (con meno di 5 anni da scontare) durante le proteste contro la crisi economica del novembre scorso. Non è ancora chiaro se usufruiranno della misura anche alcuni cittadini stranieri di origine iraniana. A partire dall’operatrice umanitaria britannica Nazanin Zaghari- Ratcliffe, condannata a 5 anni nel 2016. Così come l’accademico anglo- australiano Moore- Gilbert, detenuto a Teheran per 18 mesi dopo essere stato condannato a 10 anni per spionaggio. I Guardiani della Rivoluzione hanno arrestato negli ultimi anni dozzine di stranieri con doppia nazionalità tra cui persone degli Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Australia, Austria, Francia, Svezia, Paesi Bassi e Libano. Teheran ha sempre negato di detenerli per motivi politici e ha principalmente accusato i prigionieri di essere agenti segreti. Il perdono di Khamenei avviene in un paese che conta almeno 189mila detenuti. È il caso del famigerato carcere di Evin. Qui è rinchiusa dal 13 giugno 2018 l’avvocata e attivista per i diritti umani Nasrin Sotoudeh, condannata a 33 anni di carcere e 148 frustate per reati che riguardano proprio la “sicurezza nazionale”. Ma purtroppo l’amnistia non la riguarderà. Turchia. La feroce repressione sugli avvocati. Gli esiliati: mobilitazione per il 5 aprile di Roberto Giovene Di Girasole* Il Dubbio, 20 marzo 2020 Violate le regole processuali, i difensori spesso accusati degli stessi reati dei loro clienti. Le cifre: 605 arrestati, 334 condannati 2.086 anni di reclusione. Il Covid-19, con la sua drammatica scia di morti, ricoverati in rianimazione e contagiati ha sconvolto la vita di tutti noi determinando, in un sempre maggior numero di Stati, una grande limitazione dei diritti fondamentali, tra i quali in Italia quelli di movimento e di riunione fisica (certamente giustificata dall’esigenza di tutelare la salute ex art. 32 della Costituzione) attraverso la sospensione di tutte le attività non strettamente indispensabili. Ha provocato, nel mondo, la chiusura dei monumenti, dei musei più celebri, il rinvio di tutte le più importanti competizioni sportive a livello globale ma non ha fermato, invece, la repressione del dissenso. Quanto accade in Italia, dove nelle carceri c’è un’emergenza sanitaria resa ancora più grave da una situazione di sovraffollamento che le misure adottate dal Governo non sono idonee a mitigare, non può farci dimenticare la situazione di avvocati, giornalisti e difensori dei diritti umani perseguitati per la loro attività in tante parti del mondo. Per quanto riguarda la Turchia il 12 marzo scorso ben tredici avvocati sono stati arrestati, subendo anche la perquisizione dei loro studi, nelle provincie del sud est, a maggioranza curda, di Urfa e di Diyarbakir, città quest’ultima dove, nel novembre 2015 venne barbaramente assassinato il presidente del consiglio dell’Ordine degli avvocati Tahir Elci. Alcuni di essi avevano denunciato le violenze perpetrate dalla polizia nei confronti di 54 persone nel giugno 2019. Un ennesimo episodio di repressione in Turchia, dove agli avvocati viene impedito il libero esercizio della professione, mediante intimidazioni, violenze, arresti, processi e condanne, ottenute anche mediante il ricorso a testimoni la cui identità resta sconosciuta, negando alla difesa ogni possibilità di contraddittorio. La possibilità per gli avvocati di essere accusati di concorso nei medesimi reati contestati ai loro clienti è altissima. Sempre in Turchia, il 3 febbraio scorso hanno iniziato lo sciopero della fame otto avvocati turchi, appartenenti all’associazione Çhd, Çagdas Hukukçular Dernegi (Progressive Lawyers Association), attualmente detenuti nel carcere di Sliviri (località a circa 70 KM dal centro di Istanbul), che hanno subito pesanti condanne fino a 18 anni e 6 mesi di reclusione, il 20 marzo 2019, poi confermate in appello. Un processo caratterizzato dalle violazioni delle più elementari regole processuali. Non si hanno notizie certe sulle loro condizioni di salute, a causa della cessazione della possibilità di colloqui per l’epidemia. Il Dubbio ha pubblicato le motivazioni del loro sciopero. Purtroppo la pandemia sta paralizzando anche le missioni di osservazione dei processi all’estero e quelle all’interno delle carceri, non solo in Turchia, Paese che per primo ha bloccato i voli da e per l’Italia, ma anche in altri Stati, ma non ferma certamente l’azione di informazione sulle repressioni e le violenze e la solidarietà verso chi subisce, ingiustamente, la privazione della libertà. Il 5 aprile prossimo si celebra, come ogni anno, la giornata dell’avvocato in Turchia, Anche quest’anno, pur con tutti i problemi derivanti dal Covid-19, ci si prepara ad una mobilitazione internazionale, soprattutto sui mezzi di informazione e sui social, affinché sulla repressione del dissenso non cada il silenzio. Per l’occasione il Consiglio Nazionale Forense pubblicherà, in lingua italiana, il rapporto 2019 dell’associazione Arrested lawyers Initiative, composta da avvocati turchi in esilio. 605 arrestati e 334 condannati, complessivamente a 2086 anni di prigione, queste le drammatiche cifre della repressione a carico degli avvocati. Un modo per non spegnere la luce, ma tenere, invece, accesa la speranza per quanti pagano, dal carcere, con la loro prigionia un prezzo molto alto anche per difendere la nostra libertà. *Componente commissione rapporti internazionali e Paesi del Mediterraneo del C.N.F. “Liberate i prigionieri”. L’Egitto arresta 4 attiviste di Pino Dragoni Il Manifesto, 20 marzo 2020 Tre rilasciate su cauzione, la quarta trasferita: è Laila Soueif, la madre di Alaa Abdel Fattah. Il regime mette il bavaglio a chi parla di coronavirus: cacciata una giornalista britannica. Il rischio coronavirus minaccia anche le carceri egiziane. E rischia di avere effetti disastrosi. L’epidemia ha ormai investito in pieno il più grande paese arabo (nonostante il regime continui a sottovalutare il pericolo) e per la popolazione carceraria il pericolo è massimo. A lanciare l’allarme già da settimane sono solidali, organizzazioni per i diritti umani e parenti dei detenuti, che adesso pagano a caro prezzo la loro richiesta di tutele per i prigionieri. Martedì sono state arrestate quattro donne che stavano protestando davanti alla sede del governo con lo slogan “Liberate i prigionieri”. Si tratta della matematica Laila Soueif, della biologa Mona Seif, della scrittrice Ahdaf Soueif e della politologa Rabab el-Mahd, figure di intellettuali e attiviste di primo piano, tutte molto note anche all’estero. Le prime tre sono rispettivamente la madre, la sorella e la zia di Alaa Abd El Fattah, uno degli attivisti più importanti della rivoluzione di piazza Tahrir, arrestato per l’ennesima volta lo scorso settembre. La quarta è una professoressa dell’Università Americana del Cairo, autrice di numerosi studi di rilievo internazionale sulla politica egiziana, che è stata anche tutor di Giulio Regeni durante la sua permanenza al Cairo. Per le attiviste è già stata pagata la cauzione, ma mentre ieri sera dopo diverse ore tre di loro sono state rilasciate, al momento in cui scriviamo Laila Soueif resta in stato di fermo ed è stata trasferita in una località sconosciuta. La madre di Alaa Abdel Fattah, 63 anni, è in sciopero della fame e della sete a oltranza dal momento dell’arresto. Nei giorni scorsi Laila Soueif aveva inviato una lettera pubblica al procuratore generale avvertendo del pericolo che rappresentano le carceri come “focolai di contagio”, non solo per i detenuti ma per tutto il personale impiegato nelle strutture detentive, e di conseguenza per l’intero paese. Nella lettera l’attivista chiedeva la liberazione di tutti i prigionieri che, come suo figlio Alaa, sono sottoposti a misure di custodia cautelare, sotto processo o in attesa di processo. Si tratterebbe di migliaia, se non decine di migliaia di persone, una misura immediata per decongestionare il popolatissimo sistema carcerario egiziano, dove almeno 60mila sono soltanto i prigionieri politici. Lunedì anche l’udienza per lo studente Patrick Zaki era saltata, insieme a quelle di tutti i detenuti del carcere di Tora, per le precauzioni dovute all’epidemia da Coronavirus. Una delle prime misure prese dal governo è stata quella di sospendere tutte le visite nelle carceri. Ora però le famiglie non possono più accertarsi dello stato di salute dei loro cari, né consegnare loro cibo o indumenti. “Le carceri egiziane sono già un ammasso di malattie. - afferma Mona Seif in un video su Facebook poco prima di essere arrestata in diretta - Celle sovraffollate, poco arieggiate, per lo più senza luce solare. In queste prigioni le patologie proliferano in tempi normali”. In molti casi, associata alla deliberata negazione di cure adeguate, questa situazione conduce alla morte dei detenuti, come accaduto anche all’ex presidente islamista Mohamed Morsi. Il numero di contagi accertati in Egitto si è moltiplicato nelle ultime settimane. Dopo che per giorni le autorità avevano smentito e ridimensionato la diffusione della malattia, l’enorme numero di turisti stranieri risultati positivi al virus dopo un soggiorno in Egitto ha alimentato il sospetto che le cifre ufficiali fossero ampiamente sottostimate. Finora secondo l’Oms in Egitto ci sono 210 casi confermati, su oltre 3mila casi sospetti e sottoposti al test. Ma non è chiaro il numero totale di test effettuati. Secondo il britannico Guardian sono almeno 97 gli stranieri tornati dall’Egitto e risultati positivi o con sintomi. Tra i morti secondo il ministero della Sanità egiziano ci sarebbe anche una turista italiana di 78 anni. Basandosi su un modello statistico, uno studio condotto da specialisti di malattie infettive dell’università di Toronto afferma che una “stima prudente” sulla diffusione del virus porterebbe a calcolare il numero dei contagiati in Egitto tra i 6mila e i 19mila. Sono almeno tre i problemi che impediscono di ottenere dati realistici e attendibili dal Cairo. Per prima cosa, il regime sta scatenando la repressione contro chi diffonde notizie diverse da quelle ufficiali. In seguito a un suo articolo, Ruth Michaelson, giornalista del Guardian, si è vista ritirare l’accreditamento come corrispondente dal Cairo. Anche Declan Walsh del New York Times ha ricevuto un “avvertimento” per alcuni suoi tweet, colpevoli di diffondere false informazioni. Soprattutto, il sistema sanitario egiziano, piagato da inefficienze e malagestione, è gravemente impreparato ad affrontare l’emergenza dal punto di vista diagnostico e terapeutico. La notizia che per i lavoratori egiziani emigrati nel Golfo fosse necessario un certificato di negatività al tampone ha generato assembramenti di centinaia di persone nei dintorni pochissimi laboratori attrezzati. Infine, in molti preferiscono non dichiararsi alle autorità in caso di sintomi sospetti, per timore delle misure draconiane adottate nei confronti delle persone o comunità colpite. Il governo ha da pochi giorni adottato alcune misure per contrastare la diffusione del virus, poche, insufficienti e tardive. Scuole e università chiuse, tutti i voli bloccati, vietato il narghilè nei locali e chiusura serale per bar e ristoranti, ma molti siti turistici restano aperti, la preghiera comunitaria nelle moschee e nelle chiese è solo “sconsigliata”. E in molti luoghi di lavoro poco o nulla è cambiato. In uno dei paesi con la densità abitativa più alta al mondo, il compito del virus non potrebbe essere più semplice. Libia. Haftar chiude scuole e moschee. Poi bombarda Tripoli di Roberto Prinzi Il Manifesto, 20 marzo 2020 Oms e Onu chiedono la tregua per poter affrontare l’epidemia. Da Bengasi arriva la denuncia: gli zero casi dovuti alle carenze degli ospedali e alla corruzione diffusa. Ma il generale prosegue con la guerra. Sebbene non si registri ufficialmente nemmeno un caso, nella Libia lacerata da una violenta guerra civile il coronavirus è più di una semplice minaccia. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha messo nero su bianco i suoi timori martedì quando ha chiesto alle parti rivali libiche - il Governo di accordo nazionale (Gna) di Tripoli riconosciuto internazionalmente e quello rivale di Tobruk in Cirenaica - di porre fine alle ostilità per “consentire alle autorità sanitarie nazionali e ai partner sanitari di rispondere alla potenziale diffusione del virus nel paese”. Sulla stessa lunghezza d’onda è la missione Onu in Libia (Unsmil): ha esortato le parti a una “tregua umanitaria” perché “il virus non ha affiliazioni e supera tutti i fronti di guerra”. Di fronte agli appelli internazionali e ai rischi di un ulteriore aggravamento delle condizioni umanitarie a causa dell’epidemia, le amministrazioni rivali di Tripoli e di Bengasi hanno promesso fondi ai servizi sanitari locali e applicato rigide restrizioni. In Cirenaica il generale Haftar - capo dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Enl), braccio armato di Tobruk - usa il pugno di ferro per prevenire la diffusione del coronavirus. Il suo obiettivo non è solo sanitario, ma anche politico: legittimarsi agli occhi della comunità internazionale e del popolo libico come il solo leader capace di domare l’epidemia. Chiuse moschee, scuole, porti, frontiere. Sospesi voli, sterilizzate le strutture pubbliche e annunciato il coprifuoco dalle 18 alle 6 del mattino. Formato anche un ente ad hoc (l’Alta commissione per la lotta al Covid-19) che avrà sede a Rajma, fuori Bengasi. Al momento si registrano due persone in isolamento. In “quarantena precauzionale” si è posto Ahmed al-Mismari, portavoce Enl. Più lento ad agire è stato il Gna che ha decretato solo quattro giorni fa lo stato d’emergenza che si è tradotto in una serie di misure restrittive. Ma l’assenza di contagi nell’intera Libia non deve trarre in inganno: nel gigante nordafricano, infatti, le risorse e le strutture di rilevazione dell’infezione sono inappropriati. “Gli ospedali non rispettano i più semplici standard internazionali nell’affrontare malattie del genere, il personale medico non ha formazione ed esperienza, per non parlare poi della diffusa corruzione amministrativa, della cattiva gestione e della mancanza di trasparenza”, ha denunciato ad Agenzia Nova un funzionario del Centro medico di Bengasi che prevede un “disastro peggiore di quanto visto in Iran e Italia” se il coronavirus dovesse arrivare. Anche perché la guerra continua indifferente agli appelli internazionali. Il Gna ha denunciato mercoledì l’uccisione a Tripoli di quattro persone (tre bambini e una donna) ad opera degli uomini di Haftar. Sempre nella capitale, sono intensi gli scontri tra forze rivali sulla strada per l’aeroporto e nelle zone di al-Sadiyya e a Ramla.