Coronavirus, le linee guida del ministero della giustizia per uffici giudiziari e carceri Redattore Sociale, 1 marzo 2020 Firmato un documento che contiene le indicazioni utili per tutte le sedi giudiziarie, anche con riferimento a quelle che non rientrano nelle aree più colpite dal contagio. E nel Decreto Legge approvato venerdì previste anche misure per gli Istituti penitenziari. Dalla collaborazione tra i capi degli uffici giudiziari e i consigli dell’Ordine degli avvocati scaturirà, oltre che una ancora più capillare diffusione delle comunicazioni delle norme igienico-sanitarie da rispettare, anche ogni accorgimento per evitare assembramenti nelle aule di udienza e negli spazi limitrofi. Lo rende noto il ministero della Giustizia, con una nota in cui si afferma che il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e il presidente del Consiglio Nazionale Forense, Andrea Mascherin, ieri hanno firmato un documento contenente le “Linee guida” per contribuire al corretto funzionamento degli uffici giudiziari in relazione al contrasto del contagio da Covid-19. Il documento, che richiama le ordinanze e le circolari emanate nei giorni scorsi sia dal ministero della Salute che dal ministero della Giustizia, si compone di 7 articoli. “Da parte del Consiglio nazionale forense è stata espressa l’opportunità, pienamente recepita nel documento sottoscritto ieri, di provvedere a indicazioni utili per tutte le sedi giudiziarie, anche con riferimento a quelle che non rientrano nelle aree più colpite dal contagio - si legge nella nota -. In particolare il Cnf ha tenuto a che fosse prevista la facoltà per i magistrati, d’intesa con i presidenti degli Ordini forensi, di ridurre, nei limiti del possibile, il numero delle udienze da trattare nel singolo giorno, e di riformulare il calendario in modo da rinviare tutte le udienze che non fosse possibile celebrare. L’obiettivo essenziale è ridurre, con il carico, anche il numero delle presenze fisiche negli uffici: non solo nelle aule di udienza, ma anche negli spazi di attesa, dove un eccessivo assembramento ha già causato, negli ultimi giorni, situazioni incompatibili con le indicazioni già emanate, sia per gli avvocati che per le parti dei singoli processi”. “Bonafede e Mascherin esprimono soddisfazione per la sinergia con cui si è lavorato al documento e per il lavoro di squadra in un momento particolarmente delicato e raccomandano ai consigli degli ordini e ai capi degli uffici giudiziari di applicare le linee guida laddove ritenuto necessario”, conclude la nota. I provvedimenti inseriti nel Dl. Nel decreto legge approvato ieri sera in consiglio dei Ministri, “salvo intese”, in attesa della versione definitiva, sono contenute anche misure sulla giustizia adottate dal Guardasigilli, Alfonso Bonafede. “In particolare - si legge sempre in una nota del ministero -, sono previste la rimessione in termini dall’inizio dell’emergenza nonché, dall’entrata in vigore del decreto legge e fino al 31 marzo, la sospensione dei termini nei procedimenti civili e penali nelle regioni in cui si trovano i comuni interessati dal focolaio nonché per tutti i processi, anche fuori dalle zone interessate, in cui risulta che una delle parti o i loro difensori siano residenti (o esercitino) in uno dei comuni interessati”. “È prevista inoltre la sospensione delle udienze negli uffici giudiziari del circondario in cui si trovano i comuni interessati dal focolaio. Verranno sospese inoltre le udienze in cui una delle parti, un difensore o un testimone siano residenti nei comuni interessati”. “Continueranno a essere garantite invece, fra le altre, le udienze di convalida dell’arresto o del fermo, i procedimenti con imputati in stato di custodia cautelare, i processi a carico di imputati minorenni e, in genere, i casi più urgenti, che si svolgeranno, dove possibile, mediante videoconferenze o con collegamenti da remoto”. “Fra le misure, vi sono anche disposizioni per gli istituti penitenziari dove i colloqui con i congiunti saranno tenuti a distanza - conclude la nota: o mediante apparecchiature specifiche o tramite corrispondenza telefonica. Oltre, ove possibile, il ricorso alla videoconferenza per la partecipazione dei detenuti alle udienze”. Dalla Protezione civile 20 tensostrutture per le carceri lombarde. Venti tensostrutture per gli istituti penitenziari della Lombardia. Sono state presto montate all’ingresso degli istituti grazie alla collaborazione dei volontari messe a disposizione oggi dalla Protezione Civile per essere ritirate e saranno della Regione e in coordinamento col Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Lombardia. Si tratta di 20 tende autostabili a quattro campate di circa 40 mq, dotate di doppio ingresso e relativo impianto elettrico. Saranno montate all’ingresso degli istituti penitenziari lombardi allo scopo di permettere i necessari controlli previsti dalla legge sui detenuti cosiddetti nuovi giunti, sugli arrestati e su quelli provenienti da altri istituti, come previsto dalla circolare emanata dal capo del Dap nei giorni scorsi con le disposizioni per la prevenzione del contagio da coronavirus. Carcere ed affettività non sono inconciliabili di Samuele Ciambriello linkabile.it, 1 marzo 2020 Diminuirebbero le forme di autolesionismo e i tentativi di suicidio. In tanti Paesi europei questo diritto è riconosciuto. Le parole “carcere” e “affettività’’ mostrano ad una prima analisi una apparente inconciliabilità. Alessandro Margara, grande magistrato di sorveglianza aveva scritto in proposito: “Vogliamo tenere assieme cose che possono apparire impossibili, ma non devono esserlo, cioè un carcere vivibile in cui la pena non abbia nulla di afflittivo oltre alla perdita della libertà”. In fondo l’anagramma di carcere è “cercare”. Cercare per ritrovarsi. La detenzione non è solo contenimento, ma anche e soprattutto Accudimento. Il diritto all’affettività in carcere è riconosciuto in diversi Paesi a cominciare per esempio da Spagna, Svizzera, Finlandia, Svezia, Norvegia, Austria e altri. L’istituzione carceraria, difatti, priva i suoi ospiti delle relazioni confidenziali, della libera espressione dei sentimenti. A tale problema bisogna considerare l’attuale situazione delle carceri nel nostro Paese, caratterizzata da antiche criticità come sovraffollamento, carenze dell’edilizia carceraria, assenza di personale penitenziario, gesti quotidiani di autolesionismo, tentativi di suicidio e tanti sucidi. Tuttavia, la scienza criminologica contemporanea ha dimostrato come frequenti e intimi incontri con le persone con le quali vi è stabilito un legame affettivo abbiano un ruolo insostituibile nel complesso percorso di recupero del diversamente libero. A tal proposito, diversi paesi europei hanno già da tempo introdotto, nei propri ordinamenti, apposite disposizioni normative atte a garantire l’esercizio - in ambito carcerario - del diritto personalissimo a coltivare relazioni familiari, affettive, sessuali e amicali con persone libere, destinando allo scopo spazi appositi e locali idonei. In Italia mancano simili spazi e le proposte avanzate sono recepite con non poca resistenza, così, quando si è iniziato timidamente a parlare di “stanze dell’affettività” in carcere, le hanno subito battezzate “stanze del sesso”, “celle a luci rosse”. Da un punto di vista utilitaristico, però, il riconoscimento di un “diritto all’affettività” avrebbe senza dubbio un ritorno in termini di vivibilità e di gestione penitenziaria. Invero, sono due concetti distinti che non necessariamente si intersecano: vi può essere affettività senza componente sessuale (si pensi ad una relazione genitoriale o tra parenti in linea diretta o, ancora, ad una relazione amicale) e sessualità senza affettività, quale estrinsecazione della personalità e/o di un’autofilia (si pensi alla fruizione di materiale pornografico). Affettività e sessualità possono essere idealmente prefigurati come due insiemi, che si intersecano (con una zona relazionale comune), ma con parti parimenti distinte. Nel carcere, in questo luogo “senza tempo”, vanno declinate l’affettività e la sessualità. Comprendere, qualificare e gestire, queste due dimensioni è pregnante quanto delicato: la nostra Carta costituente, a chiare lettere, disegna un carcere la cui cifra tenda alla rieducazione e le cui pene non consistano in trattamenti disumani; la verità ordinamentale ha quale focus irrinunciabile il rapporto con la famiglia come elemento del trattamento e dimensione da valorizzare (ex plurimis artt. 15 e 28 O.p.), pur conciliandolo con le esigenze di ordine e di sicurezza peculiari di un ambito detentivo. Se la dimensione affettiva è normativamente tutelata dalla normativa penitenziaria, benché, talvolta, solo formalmente (vedasi esempio di molti detenuti stranieri e taluni italiani che non riescono concretamente a poter fruire dei colloqui con i parenti e affini), pressoché inesistente, da un punto di prospettiva normativo, è la dimensione sessuale; rebus sic stantibus, unico “strumento”, non pensato con tale vocazione ma, talora, funzionalizzato in tal senso è la concessione dei permessi premio ex art. 30 ter O.p., che, comunque, è astrattamente fruibile da un numero residuale di ristretti. In tale humus detentivo, come ha sostenuto il medico penitenziario Francesco Ceraudo, per molti anni Presidente nazionale dell’Amapi (Associazione medici dell’amministrazione penitenziaria italiana), la sessualità in carcere è, pressoché sospesa, congelata. Nei primi tempi della detenzione, la sessualità, appunto, è compressa da problematiche più contingenti; riemerge, in maniera prepotente, nei periodi successivi. Il sesso negato può diventare sesso esasperato o sesso “deviato”, come nei casi di “omosessualità indotta” in soggetti che, prima della detenzione, erano eterosessuali. Invece, significherebbe restituire ai detenuti un’opportunità, non solo sessuale, ma anche e soprattutto affettiva e di dignità: ciò servirebbe a garantire quei legami, quella solidarietà, a difendere quel bisogno che i detenuti hanno di abbracciare una moglie, una madre, un figlio. Ma poiché si tende sempre ad evitare o a marchiare in modo negativo le cose che danno fastidio o che comunque scandalizzano, così, quando si è iniziato timidamente a parlare di “stanze dell’affettività” in carcere, le hanno subito battezzate “stanze del sesso”, “celle a luci rosse”. Ciò che però ai detenuti manca è molto meno dal lato pratico: serve la possibilità di non recidere i legami, di non distruggere il proprio mondo relazionale ed affettivo, serve la speranza di non rimanere soli. Occorrerebbe farsi carico di un nuovo modello trattamentale fondato sul mantenimento delle relazioni affettive, la cui mancata coltivazione, è risaputo, rappresenta la principale causa del disagio individuale e grave motivo di rischio suicidario. Sono, dunque, enormi le difficoltà in cui ci si imbatte nel tentativo di portare la sessualità in carcere; probabilmente sarebbe più semplice e proficuo aumentare le possibilità di incontro tra i detenuti ed i loro familiari “al di fuori”, se veramente si vuole pensare al loro reinserimento ed alla loro riabilitazione. È fondamentale il ruolo della Magistratura di Sorveglianza, che è un giudice terzo e non un altro pm. Apparirebbe quindi, auspicabile che al soggetto venisse concessa la possibilità di uscire più spesso dall’Istituto per consentirgli di perseguire, rafforzare, tutelare e sviluppare interessi personali, familiari, culturali e sociali. In merito alle considerazioni siffatte, appaiono assai proficue ai fini del rafforzamento delle reti di legami parentali e amicali, le attività educative promosse dall’Ufficio Garante per le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale e gestite dalla cooperativa “La città della gioia” e realizzate nelle sezioni femminili di Fuorni, Bellizzi irpino e il carcere femminile di Pozzuoli. Aiutare le donne a ritrovarsi come mamme, fidanzate, mogli. Dare valore e parola a coloro che vivono il carcere può innestare un meccanismo di riforma delle pratiche concrete della vita carceraria. Le donne sono una minoranza ed è proprio da questa minoranza che, per chi promuove questi progetti, potrebbe partire un cambiamento nei fatti esteso, nel tempo, all’intero mondo del carcere. Il malsano piacere di gridare “in galera!” di Andrea Scaglia Libero, 1 marzo 2020 “Deve marcire dentro”, questa la frase che ci piace tanto. Ma quando la sentiremo rivolgere a noi stessi o a qualcuno a noi vicino, non ci resterà che piangere. E non ci ascolterà nessuno. Attenzione, che quando si tratta di condanne inflitte a persone che appaiono ricche e potenti, i discorsi si confondono. Qui non si vuole entrare nel merito della vicenda penale, dei reati commessi o meno, di quanto Vittorio Cecchi Gori abbia davvero brigato per dichiarare bancarotta in maniera fraudolenta. Dice: e vabbè, ma il resto è secondario. Mica tanto. Posto che non stiamo parlando di un assassino - qualcuno ci spiegherà quanto sia più dannoso per la società un bancarottiere di un omicida, ma tant’è - i guai giudiziari dell’ex produttore cinematografico nonché patron della Fiorentina iniziano nel 2001, 19 anni fa. Diciannove. Il primo rinvio a giudizio risale al 2004. Da lì in poi, un labirintico susseguirsi di assoluzioni, archiviazioni, condanne nei vari gradi di giudizio, e poi altri processi e altri verdetti. E gli anni che passano. Fino a quest’ultima sentenza della Cassazione che dispone una pena residua di oltre 8 anni per Cecchi Gori, nel frattempo arrivato ai 78 anni. Ora, la prima cosa che viene in mente è la sempre dimenticata “funzione rieducativa della pena”, quella rimarcata anche in Costituzione - ma già accennarne, in questo Paese, viene considerato squalificante o, ancor peggio, “buonista”. E che cosa vuoi rieducare un uomo di 78 anni, lustri dopo i reati commessi? Obiezione: ma in America li sbattono dentro anche se son vecchietti, loro sì che fanno sul serio. Se è per questo, là esiste ancora la pena di morte e convivono con tante altre contraddizioni: non potremmo, ogni tanto, assimilare le virtù dagli altri, invece dei difetti? Le considerazioni da paradossali si mutano in tragiche sapendo che Cecchi Gori sconterà la pena a Rebibbia. Qui il discorso non vale solo per quest’ultimo condannato famoso, ma per tutti gli ospiti del carcere: Rebibbia conta oltre 400 detenuti in più rispetto alla capienza massima prevista. Quattrocento! Ed è pazzesco vedere come ancora si spediscano in cella persone anziane e malmesse invece di pensare, come sarebbe logico e soprattutto umano, a modi alternativi di scontare la pena. In Italia siamo così: vedere ingabbiare qualcuno ci regala un brivido di piacere, fa sentire migliori noi che restiamo “fuori”. “Deve marcire dentro”, questa la frase che ci piace tanto, ancor di più se la ripete il politico di riferimento. Quando la sentiremo rivolgere a noi stessi o a qualcuno a noi vicino, non ci resterà che piangere. Ma non ci sentirà nessuno. Un ponte tibetano chiamato processo di Roberto Saviano L’Espresso, 1 marzo 2020 La metafora del processo come ponte tibetano apre il saggio del giurista Glauco Giostra, intitolato “Prima lezione sulla giustizia penale”, pubblicato da Laterza. Ed è una metafora che ricorre in tutto il libro. Giostra insegna procedura penale alla Sapienza e probabilmente oggi, tra i suoi studenti, ci saranno i magistrati e gli avvocati di domani: a loro Giostra racconta come funziona o non funziona il ponte tibetano del processo penale. Un cammino difficile, ma obbligato, che non può durare all’infinito. Mi piace questa immagine: il processo penale è come un ponte tibetano, una struttura di corde flessibili, in equilibrio tra loro, che consente di passare dall’evento delittuoso alla condanna o alla assoluzione. Sotto il ponte c’è una voragine più o meno profonda, c’è acqua o rocce, un manto boscoso o un paese edificato a valle, a seconda dei casi, e non esiste altro modo per andare dall’evento delittuoso alla punizione o alla assoluzione che passare su quel ponte sospeso nel vuoto. Ed è fondamentale, per la sopravvivenza della vita democratica, fidarsi dei costruttori e di chi fa la manutenzione delle corde. Anche gli Inca usavano ponti di corde sospesi tra le vette delle Ande; lo scrittore americano Thornton Wilder ha vinto il Pulitzer nel 1928 raccontando proprio, in un romanzo intitolato “Il ponte di Saint Louis Rey”, la storia di un gruppo di persone che perde la vita attraversando un ponte di corde tra Lima e Cuzco. Attraversare un ponte fatto di corde e sospeso su un burrone è come attraversare un processo penale, perché ogni processo, anche quello apparentemente meno insidioso, pone una serie di interrogativi che riguardano l’uomo, la sua condizione, il suo essere in relazione alla comunità. E anche se le tecnologie sono sempre più presenti sul ponte tibetano del processo penale, l’esito finale non contempla la certezza assoluta (potremmo dire meglio: astratta) della colpevolezza o dell’innocenza: è questa carenza, probabilmente, a distinguere una Democrazia da uno Stato autoritario. E non si può abbandonare il viaggio, non si può tornare indietro: il ponte deve essere attraversato fino in fondo perché senza percorso non c’è soluzione, come senza processo non c’è composizione. Il percorso è dunque il processo, un percorso che non può durare in eterno - come di recente ha opportunamente ricordato la Presidente della Corte costituzionale, Marta Cartabia - e che allo stesso tempo deve essere compiuto con scrupolo e con attenzione. Poiché, è bene ricordarlo, il processo è di per sé una pena. Secondo l’articolo 111 della Costituzione, l’attraversamento deve avvenire in tempi ragionevoli perché non si può restare per anni sospesi sul baratro. Il libro di Glauco Giostra - che è un libro di ragionamenti, in un tempo nel quale anche su argomenti molto tecnici si invocano tifoserie - affronta proprio il tema della sospensione sul baratro dell’imputato che, nella nostra società, è per lo più considerato colpevole fino a prova contraria; quindi quella sospensione, quel rallentamento, è tanto più sofferto e difficile da sostenere. C’è un punto in cui il giurista se la prende con la politica, ed è quello in cui parla delle tempistiche processuali in Italia, la cui lentezza è acuita, nella percezione generale, dalla rapidità dei processi sommari che si celebrano in televisione: è sempre agevole condannare senza processo, senza darsi la pena di attraversare quel ponte traballante. Giostra passa in rassegna diversi fattori discussi che riguardano il processo penale; tra questi, solo per citarne alcuni: l’obbligatorietà dell’azione penale, la carenza di personale e di strutture, l’incapacità organizzativa, la mancata informatizzazione delle comunicazioni da e verso il processo, il sistema delle impugnazioni. Non si tratta di questioni solo tecniche, poiché diverse impostazioni possono arrivare a implicare diverse visioni dei principi costituzionali in materia di processo. Eppure, di fronte all’enormità del problema, le maggioranze politiche succedutesi negli ultimi anni hanno sempre preferito agire, in un senso o nell’altro, sui tempi di prescrizione; hanno sempre cercato lo specchietto per le allodole per eccellenza. Giostra scrive che siamo il Paese in Europa con il maggior numero di processi che si concludono per prescrizione, da un lato, e il maggior numero di condanne per irragionevole durata dei processi, dall’altro. In un senso o nell’altro, si potrebbe dire, è il tempo il protagonista del processo; un tempo che scorre lento, tanto che, per certi versi, più che una pena in sé il processo rischia di divenire la sola pena. La riforma delle (utili) intercettazioni e il rischio del Paese-spione di Massimo Krogh Il Mattino, 1 marzo 2020 Dai media abbiamo appreso giorni addietro che sulla riforma delle intercettazioni, dopo molte polemiche, sarebbe stata raggiunta una intesa dalle forze politiche del Paese, in vista dell’annunciata e più generale riforma del processo penale. In questo girotondo di cose che vanno e vengono, la parola “riforma” brilla come il lumino funebre dei progetti su cose defunte. Come può riformarsi il vuoto? Il giustizialismo abbonda, favorito dall’obbligatorietà dell’azione penale, peraltro si scontra con le carenze del Servizio giudiziario che dovrebbe soddisfarlo; moltissimi processi ma poche sentenze. Tanto giustizialismo, vuoto di giustizia. Vistosa contraddizione che punisce il nostro Paese, noto in Europa per essere in testa fra i Paesi censurati dalla Corte di Strasburgo. La nostra Costituzione all’articolo 111 prevede il giusto processo, all’articolo 112 stabilisce l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, che crea tanti processi da impedirne, giusti o non, la celebrazione. Bisogna convenire che in Italia la questione giustizia è ancora irrisolta, forse prigioniera di radici culturali logorate. Un vuoto culturale antico, che non si colma con qualche legge che “riforma”, richiedendo un percorso di pensiero e riflessione sinora mancato. Possibile che nessuno si sia accorto che siamo l’unico, fra i Paesi di civiltà avanzata, a mantenere l’obbligatorietà dell’azione penale, conservata da qualche altro paese esclusivamente per reati molto gravi? Possibile che nessuno si sia accorto che l’articolo 112 della Costituzione, intasando di processi ingestibili il paese, si pone in contrasto con l’articolo 111 che li vorrebbe, invece, celebrati e nel modo giusto? Si è, persino aggiunto il recente reato di “Depistaggio”, che in un Paese sommerso dai processi scoraggia le archiviazioni piuttosto che incoraggiarle! Occorre ammettere che abbiamo un codice nato male e malissimo rattoppato, facendolo funzionare sempre peggio. Il processo accusatorio, che vorrebbe una linea orizzontale di parità delle parti, è trasformato in una torre verticale di “reclami” eccessivi e ritardanti. La riforma brilla ora per le intercettazioni mediante trojan, che danno notevole spazio ai reati contro la pubblica amministrazione e all’intervento degli avvocati. Le intercettazioni, rinforzate dal sistema trojan, sono uno strumento di indagine molto invasivo; ma indubbiamente efficace e, pertanto, sono spesso privilegiate, appartandosi altri mezzi investigativi della ricerca analitica, quali impronte, documenti, testimonianze, riscontri, sopralluoghi, ricognizioni e così via. Vi è da temere che, per l’immediatezza dei risultati che forniscono, possano oscurare le altre fonti e gli altri metodi d’indagine. Ciò non gioverebbe alla giustizia, anche perché le intercettazioni si prestano, nell’inconsapevolezza del gestore, a fughe di notizie e violazioni della privacy, con conseguenti strumentalizzazioni che offuscano concetto e significato di “giusto processo”. Sono un mezzo di ricerca della prova che dovrebbe essere usato come supporto e che invece è divenuto il prevalente strumento investigativo. Occorre molta attenzione, insomma un Paese molto attento che, però, non si trasformi in uno “spione”. Il cavallo di trojan dei manettari che infetta la giustizia di Andrea Amata Il Tempo, 1 marzo 2020 La Camera dei Deputati ha convertito in legge il Decreto legge “Intercettazioni” facendo prevalere il modello con l’occhiuto Grande Fratello ad ispezionare il privato dei cittadini italiani. In sostanza si inserisce nella legislazione la subcultura giustizialista dei Cinque Stelle estendendo l’utilizzo dei trojan, i captatori informatici da infiltrare nei telefonini o nei dispositivi portatili, peri reati contro la pubblica amministrazione commessi dai pubblici ufficiali e dagli incaricati di pubblico servizio. Un range di intercettabili generico ed ampio che avrà l’effetto di frenare l’attività amministrativa su cui incomberà l’inquietudine di essere esplorati da occhi invadenti. Il sistema di intrusione informatico era circoscritto ai crimini che procurano un alto allarme sociale come quelli attinenti alla malavita organizzata e al terrorismo, mentre con la norma che disciplina l’uso delle intercettazioni si dilata la possibilità di origliare le conversazioni e di scrutare le immagini detenute negli archivi personali dei suoi titolari. Il Cavallo di Trojan dei giustizialisti è stato installato nella legislazione italiana per penetrare le difese della privacy, equiparando i reati, fra loro ineguali nella gerarchia della pericolosità, per la captazione delle informazioni. Il diritto alla riservatezza giustifica una sua compressione dinanzi alla tutela della sicurezza nazionale che autorizza l’intercettazione dei colloqui fra soggetti indiziati per crimini di terrorismo e mafia, ma consentire di utilizzare dispositivi intrusivi per una estesa platea potenziale significa rinunciare a quei criteri selettivi che mantengono inalterata l’integrità della nostra civiltà giuridica. Inoltre, sono stati evidenziati i limiti tecnici dei trojan, in fase di perfezionamento, che non assicurano l’integrità della documentazione censita e non escludono azioni illecite di pirateria per immettere nel telefono inquisito indizi falsi inducendo in errore l’autorità giudiziaria. La filosofia barbara dei grillini, distruttiva delle garanzie di uno stato di diritto, viene celebrata in una legge che ritiene l’innocente in carcere un danno collaterale e sacrificabile per la loro idea pacchiana di giustizia. A differenza delle intercettazioni ambientali, che sono vincolate ai luoghi in cui si consuma il delitto, i trojan pedinano l’imputato con una sorta di guinzaglio elettronico che ne sorveglia ogni espressione, anche di intimità, risultando un dispositivo eccessivamente invasivo che solo i reati di stampo mafioso e di terrorismo rendono accettabile. I fenomeni corruttivi nella pubblica amministrazione vanno perseguiti con rigore e inflessibile severità, ma estendere i captatori informatici ai sospettati di reati contro la Pa con le connesse fughe di notizie, che catalizzano la gogna mediatica delle intercettazioni pubblicate sui giornali, anche di quelle irrilevanti sul piano penale, equivale a consegnare le carriere amministrative alla disponibilità delle Procure. Il giurista Cesare Beccaria, considerato uno dei padri fondatori del diritto penale, affermava che “Ogni atto di autorità di uomo a uomo che non derivi dall’assoluta necessità è tirannico”. Quale necessità soddisfa l’autorità di una legge, peraltro imposta da una rappresentanza parlamentare non più rappresentativa del Paese, che autorizza a violare i confini che delimitano la proprietà sacra della propria libertà espressiva? Nessuna, se non quella di appagare la vocazione manettara di una minoranza politica che andrebbe resa innocua con libere elezioni, superando la “quarantena democratica” che ne ha isolato per il momento la volontà. Preoccupanti novità sulle intercettazioni: più trojan e via libera allo “strascico” di Nicola Galati extremaratioassociazione.it, 1 marzo 2020 Il 27 febbraio la Camera dei Deputati ha convertito in legge il decreto-legge 30 dicembre 2019 n. 161 recante modifiche urgenti alla disciplina delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni. Ecco le novità: più trojan, intercettazioni a strascico, nessun limite per la gogna mediatica. La principale innovazione prevista riguarda la disciplina del trojan horse, il cui uso per le intercettazioni di comunicazioni tra presenti è stato esteso ai procedimenti riguardanti i reati contro la pubblica amministrazione commessi dagli incaricati di pubblico servizio. Rientrano in questa ampia e variegata categoria, ai sensi dell’art. 358 c.p., coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio (dal custode del cimitero al bidello della scuola). Già la legge c.d. “Spazza-corrotti” ne aveva esteso l’utilizzo ai delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni. In precedenza, invece, tale invasivo strumento investigativo era ammesso soltanto per i reati di criminalità organizzata e terrorismo. I delitti contro la pubblica amministrazione sono esclusi esplicitamente da quelli per i quali è necessario indicare “i luoghi e il tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono”. Mentre, quando si procede per i delitti di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, l’uso del trojan per intercettare comunicazioni tra presenti che avvengano nel domicilio è sempre consentito, quando si procede per un delitto dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio contro la p.a. con pena della reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni l’uso del trojan è consentito solo “previa indicazione delle ragioni che ne giustificano l’utilizzo anche nei luoghi indicati dall’articolo 614 del codice penale”. La sostanziale parificazione tra reati contro la pubblicazione amministrazione commessi da pubblici ufficiali ed incaricati di pubblico servizio e reati di criminalità organizzata e terrorismo è frutto di una precisa decisione politica ma è una scelta opinabile e discutibile. Porre sullo stesso piano categorie di reati così diverse è irragionevole considerata la differente gravità dei fenomeni criminali ed il non paragonabile allarme sociale provocato. Soprattutto, si è aperta la porta a future nuove estensioni dell’applicabilità della disciplina del trojan ad altre categorie di reati. La fallacia dell’emergenza continua consiste proprio nel rendere regola l’eccezione. Gli strumenti eccezionali, che dovevano avere attuazione limitata nel tempo e riguardante casi particolarmente gravi, sono divenuti strumenti stabili e sempre più estesi (è emblematica l’estensione del regime carcerario ostativo e delle misure di prevenzione ai reati contro la p.a.). La politica, i media e l’opinione pubblica trovano sempre una nuova emergenza per la quale invocare misure eccezionali in ossequio al populismo penale ed al panpenalismo che caratterizzano la nostra epoca. Adesso è il turno della corruzione, altra seguirà (ad es. l’evasione fiscale). In nome di un presunto pericolo pubblico e delle superiori esigenze di salvezza della collettività si accettano continue limitazioni dei diritti fondamentali dell’individuo. L’applicazione sempre più estesa di norme liberticide anziché provocare una reazione preoccupata e contraria ha indotto all’assuefatta e tacita accettazione. Tale logica ha trovato applicazione anche nel caso dell’utilizzo del trojan horse. Pur di non rinunciare alla possibilità di reperire una mole immensa di informazioni, sono state trascurate le criticità legate all’uso di uno strumento investigativo così invasivo. Con tale nome epico, infatti, si indica un malware, un captatore informatico, inoculato nei dispositivi elettronici che ne consente il controllo da remoto, la raccolta e la modifica dei dati, l’attivazione del microfono e della videocamera, l’individuazione della posizione e degli spostamenti, la registrazione delle comunicazioni scritte ed orali ed in particolare la registrazione delle conversazioni tra presenti. Peraltro, la normativa si riferisce alla sola captazione di comunicazioni tra presenti mediante captatore in dispositivi portatili, rimanendo quindi prive di esplicita disciplina le altre funzioni del trojan. Bisognerà attendere un decreto del Ministro della giustizia che stabilisca “i requisiti tecnici dei programmi informatici funzionali all’esecuzione delle intercettazioni mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile”. Il legislatore ha precisato che “i requisiti tecnici sono stabiliti secondo misure idonee di affidabilità, sicurezza ed efficacia al fine di garantire che i programmi informatici utilizzabili si limitano all’esecuzione delle operazioni autorizzate”. I numerosi dubbi avanzati circa l’affidabilità dei soggetti esterni coinvolti nelle operazioni di captazione, anche alla luce di alcuni episodi di cronaca, restano al momento in attesa di risposta. Altra significativa novità introdotta dalla riforma riguarda l’utilizzazione delle intercettazioni in altri procedimenti. Ha subito una modifica l’art. 270 c.p.p. che adesso prevede che “I risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino rilevanti e indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza e dei reati di cui all’articolo 266, comma 1”. Inoltre, è stata consentita l’utilizzabilità delle intercettazioni tra presenti operate per mezzo del trojan, anche per la prova dei reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione, qualora risultino indispensabili per l’accertamento dei delitti contro la pubblica amministrazione puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni o di delitti attribuiti alla competenza della procura distrettuale.??? Il legislatore è prontamente intervenuto in materia di “intercettazioni a strascico” depotenziando una recentissima pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. La sentenza Cavallo del 2 gennaio 2020 aveva stabilito che: “Il divieto di cui all’art. 270 c.p.p. di utilizzazione dei risultati di intercettazioni di conversazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali siano state autorizzate le intercettazioni - salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza - non opera con riferimento ai risultati relativi a reati che risultino connessi ex art. 12 c.p.p. a quelli in relazione ai quali l’autorizzazione era stata ab origine disposta, sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dalla legge”. Il Supremo Collegio aveva voluto limitare il ricorso a tale strumento ai soli casi di reati gravi e connessi a quelli per i quali si procede. Con la riforma, invece, si è estesa nuovamente l’utilizzabilità delle intercettazioni in altri procedimenti purché siano rilevanti ed indispensabili (criteri alquanto generici) all’accertamento dei delitti per cui è obbligatorio l’arresto in flagranza e sono consentite le intercettazioni (categoria molto più estesa di quella prevista dalle Sezioni Unite). La riforma ha, inoltre, affidato al pubblico ministero (e non più alla polizia giudiziaria come originariamente previsto dalla riforma Orlando) il compito di dare indicazioni e vigilare affinché nei verbali non siano riportate espressioni lesive della reputazione delle persone o quelle che riguardano dati personali definiti sensibili dalla legge, salvo che risultino rilevanti ai fini delle indagini. Così come sarà gestito secondo le indicazioni e sotto la responsabilità del Procuratore Capo l’archivio unico centralizzato nel quale confluiranno tutte le intercettazioni disposte dall’ufficio e gli atti ad esse relativi. Un nuovo comma, il 2-bis, è stato inserito nel corpo dell’art. 114 c.p.p., in base al quale “è sempre vietata la pubblicazione, anche parziale, del contenuto delle intercettazioni non acquisite ai sensi degli articoli 268, 415-bis o 454”. Questa è l’unica misura adottata per evitare la diffusione e la pubblicazione di intercettazioni di comunicazioni non aventi rilievo penale (che era tra le finalità dichiarate della riforma Orlando). Appare lecito nutrire più di un dubbio sulla efficacia di tale misura. Non sarà certo sufficiente l’introduzione di una nuova norma, peraltro priva di strumenti sanzionatori, a fermare un fenomeno così diffuso, soprattutto in considerazione del fatto che i divieti legislativi sono già in vigore da anni ma sono di fatto disattesi e disapplicati. Si poteva sicuramente sperare in un intervento più deciso sul punto ma resta la consapevolezza che soltanto l’introduzione e la successiva applicazione di sanzioni più incisive unite ad una diversa sensibilità ed attenzione degli operatori interessati potrà produrre gli effetti sperati. La novella nulla ha previsto con riguardo alle intercettazioni delle comunicazioni tra il difensore ed il proprio assistito, pertanto entrerà in vigore una modifica dell’art. 103 c.p.p. prevista nella riforma Orlando riguardante l’introduzione del divieto di trascrizione, anche in forma riassuntiva, delle comunicazioni con il difensore casualmente captate. Non ha trovato seguito, purtroppo, la proposta avanzata dal Consiglio Nazionale Forense di prevedere l’immediata interruzione dell’intercettazione così da evitare qualsiasi ascolto della conversazione. Nel complesso la riforma è deludente e criticabile. Deludente perché non vi è stata l’ampia e profonda riforma della disciplina delle intercettazioni invocata da anni e promessa da ogni governo. Le modifiche sono poche e poco incisive. Non si ha avuto il coraggio di affrontare alla radice le annose problematiche della materia: il ricorso spropositato allo strumento delle intercettazioni delle comunicazioni (dato confermato dai numeri in particolare se comparati con quelli di altri Paesi occidentali), la diffusione illecita sui media, la pervasività del trojan horse. Nel tempo le intercettazioni hanno assunto un peso eccessivo al di là del ruolo originario di mero mezzo di ricerca della prova, di per sé non decisivo in quanto soggetto ad inevitabili fraintendimenti e strumentalizzazioni (una frase trascritta non conterrà mai il senso dell’oralità, soprattutto se decontestualizzata). Non si considera l’incidenza delle intercettazioni nel delicato rapporto tra cittadino ed autorità. La disciplina delle intercettazioni deve bilanciare il diritto dei singoli individui alla libertà e alla segretezza delle loro comunicazioni (sancite dall’art. 15 della Costituzione) con l’interesse pubblico a reprimere i reati e a perseguire i loro autori. L’importanza primaria dei diritti protetti dall’art. 15 può ammettere compressioni limitate ed eccezionali non una violazione sistemica e diffusa. La scarsa attenzione per la tutela della libertà e della segretezza delle comunicazioni dell’individuo è spesso frutto di una consolidata visione autoritaria e collettivista che subordina i diritti dell’individuo agli interessi dello Stato. La diffusione illecita delle intercettazioni sui media ha un ruolo fondamentale nell’oleato ingranaggio del processo mediatico e della gogna pubblica eppure in troppi hanno tacitamente interesse al perdurare dello status quo. Infine si è persa l’occasione di introdurre nell’ordinamento una ampia regolamentazione e limitazione dell’uso del trojan horse nei suoi aspetti multiformi. Probabilmente è stato inutile ed ingenuo aspettarsi di più dall’attuale legislatore, sostenitore convinto di una visione autoritaria ed illiberale del Diritto. Lombardia. Coronavirus: 20 tensostrutture per gli istituti penitenziari di Marco Belli gnewsonline.it, 1 marzo 2020 Venti tensostrutture per gli istituti penitenziari della Lombardia. Sono state messe a disposizione oggi dalla Protezione Civile per essere ritirate e saranno presto montate all’ingresso degli istituti grazie alla collaborazione dei volontari della Regione e in coordinamento col Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Lombardia. Si tratta di 20 tende autostabili a quattro campate di circa 40 mq, dotate di doppio ingresso e relativo impianto elettrico. Saranno montate all’ingresso degli istituti penitenziari lombardi allo scopo di permettere i necessari controlli previsti dalla legge sui detenuti cosiddetti nuovi giunti, sugli arrestati e su quelli provenienti da altri istituti, come previsto dalla circolare emanata dal Capo Dap nei giorni scorsi con le disposizioni per la prevenzione del contagio da coronavirus. Toscana. Garante per i detenuti, una poltrona per tre Corriere Fiorentino, 1 marzo 2020 Tre in pole position per il ruolo di Garante regionale dei detenuti: Francesco Ceraudo, pioniere della medicina penitenziaria, Roberto Bocchieri, collaboratore dell’assessore Stefania Saccardi in materia di carcere e l’avvocato ed ex sindaco di Arezzo Giuseppe Fanfani. A decidere sarà la Commissione Affari istituzionali il prossimo 3 marzo. Si tratta di una figura di garanzia importante che, scaduto ormai da tempo il mandato di Franco Corleone, è ancora vacante. Napoli. Coronavirus, a Poggioreale una tensostruttura per i casi sospetti di Enrico Tata napoli.fanpage.it, 1 marzo 2020 Per il direttore del carcere di Poggioreale, Carlo Berdini, nominato poco più di un mese fa, “ogni azione concreta per la salvaguardia della salute di tutti sarà messa in campo con l’ausilio delle forze previste e disponibili senza remore alcuna in sinergia con tutte le figure competenti. Non è detto che a breve non siano prese misure ulteriormente drastiche”. Per il momento non c’è nessun caso positivo di coronavirus all’interno delle strutture penitenziarie campane, ma la situazione delle carceri è monitorata e controllata 24 ore su 24. Non solo gli operatori sanitari a contatto con detenuti affetti da patologie gravi sono stati dotati di mascherina, ma sono stati predisposti dispenser di disinfettante in tutti i luoghi affollati. Come per gli ospedali, a Poggioreale sarà installata una tensostruttura per i nuovi ingressi e per tutti coloro che presentano sintomi sospetti. È possibile, inoltre, che vengano sospesi i colloqui per la tutela della salute dei detenuti in caso la situazione si aggravi ulteriormente. “Possibile stop ai colloqui a Poggioreale” - “La prevenzione premeditata è sinonimo di buon senso e di una presa di coscienza dell’epidemia in atto, che non deve creare solo critici allarmismi, ma determinare quel lavoro sinergico di squadra tra le varie forze, per la tutela della sicurezza di tutti”, hanno dichiarato Luigi Castaldo, segretario Provinciale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp Napoli e Vincenzo Palmieri, segretario regionale Osapp. Per il direttore del carcere di Poggioreale, Carlo Berdini, nominato poco più di un mese fa, “ogni azione concreta per la salvaguardia della salute di tutti sarà messa in campo con l’ausilio delle forze previste e disponibili senza remore alcuna in sinergia con tutte le figure competenti. Non è detto che a breve non siano prese misure ulteriormente drastiche, come la sospensione dei colloqui per la tutela della salute dei detenuti, qualora dovesse aggravarsi la situazione”. Milano. Coronavirus, c’è timore anche in carcere: “Misure di prevenzione insufficienti” bergamonews.it, 1 marzo 2020 “In Lombardia con ci sono solo la “zona rossa” e la “zona gialla”, le scuole, i musei, i cinema, i locali che la Regione vuole che restino chiusi per altri 7 giorni per fronteggiare la diffusione del coronavirus. C’è anche la “zona carcere”, ci sono 19 istituti penitenziari (compresa la sezione femminile di Milano San Vittore) vale a dire circa 9mila detenuti, il maggior numero della popolazione carceraria in una sola regione. È questo l’ulteriore “fronte coronavirus” che continua a essere sottovalutato perché gestito con provvedimenti estemporanei e senza coordinamento”. Lo ha detto Aldo Di Giacomo, segretario generale del sindacato di Polizia penitenziaria, arrivato a Milano per monitorare la situazione e incontrare i giornalisti davanti al carcere di Milano Bollate. Di Giacomo ha precisato che “non ci sono notizie di contagi ma, per ora, di una decina di detenuti in isolamento, alcuni tamponi negativi. Tuttavia, le misure messe in campo nelle carceri non sono sufficienti. Se si dovesse verificare anche solo un contagio, il virus si diffonderebbe al 100 per cento - perché i detenuti vivono in spazi molto stretti - come del resto insegnano le cronache delle carceri cinesi e delle navi crociera, la situazione sarebbe dunque esplosiva, con tutto ciò che comporta l’evacuazione di un carcere sino a 3 mila detenuti”. Del resto, da una parte si punta a sminuire, come se contro il coronavirus bastasse un’aspirina, e dall’altra si pensa all’allestimento di sezioni quarantena provocando ulteriori allarmismo e tensione. È esattamente quello che non si deve fare per non accrescere la psicosi tra i detenuti incollati alle tv per essere informati sull’evoluzione della diffusione di coronavirus. Ferrara. Coronavirus, raccolta di prodotti igienici per detenuti e bisognosi estense.com, 1 marzo 2020 Fino al 2 marzo sarà possibile consegnare la merce in via Ortigara, l’iniziativa per sopperire alla carenza degli ultimi giorni. A seguito dell’emergenza Coronavirus e dei provvedimenti presi per contrastarlo, il Partito Democratico di Ferrara promuove la raccolta di prodotti esclusivamente per l’igiene intima e la detergenza del corpo da destinare alla Casa Circondariale di Ferrara e alle associazioni di volontariato che si occupano di contrasto alla povertà. “Ci segnalano in queste ore la carenza di molti prodotti per la cura personale, a seguito anche dall’esaurimento delle scorte dei magazzini. In un particolare momento di emergenza sanitaria si chiede la collaborazione dei cittadini all’acquisto e alla donazione di beni necessari per affrontarla correttamente, come da disposizioni di prevenzione” spiegano i promotori della raccolta. È possibile contribuire alla raccolta fino a lunedì 2 marzo, consegnando il materiale presso il circolo Pd Gad di via Ortigara, dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 18 nelle giornate di sabato 29 febbraio e domenica 1 marzo e dalle 17 alle 19 di lunedì 2. La merce verrà suddivisa e consegnata tempestivamente agli enti bisognosi Termini Imerese (Pa). “Spazio lib(e)ro”, la nuova biblioteca tra le mura del carcere teletermini.it, 1 marzo 2020 Venerdì 13 marzo 2020, alle ore 9, verrà inaugurata Spazio lib(e)ro, la nuova biblioteca tra le mura del carcere di Termini Imerese. Sarà un luogo di incontro che diviene contesto di scambio e confronto, polo attorno al quale tutte le attività culturali e interculturali dell’Istituto potranno ruotare - sostiene Patrizia Graziano - dirigente del Centro Provinciale Istruzioni adulti Palermo 2 (Cpia Palermo 2) che insieme a Carmen Rosselli, direttrice della casa Circondariale A. Burrafato, e a tutti i detenuti coinvolti nel progetto, hanno fortemente voluto questo luogo. “È uno spazio realizzato con i finanziamenti del D.M. 663/2016 a seguito del protocollo di intesa tra il Miur e il Ministero della Giustizia e con il contributo del privato sociale. Ma soprattutto è il frutto di un lungo lavoro di ristrutturazione, grazie all’impegno e alla dedizione dei detenuti - esordisce Valentina Rinaldo, responsabile insieme a Silvana Moscato della biblioteca. Sono stati riportati alla luce soffitti storici e mostre lapidee delle finestre; le sbarre sono state coperte da tende colorate e le poltrone hanno sostituto gli sgabelli di legno. Ma soprattutto il patrimonio librario, che grazie alla donazione di 300 volumi della casa editrice Sellerio e di persone comuni, è stato aggiornato e rivisto. “La lettura è un importante atto sociale e non solo personale - sostiene Valeria Monti, ideatrice del logo insieme ai detenuti -, accresce la capacità di usare le parole oltre che di comprenderle, e ci aiuta a muoverci meglio in questo mondo, rendendoci più competenti e riducendo le disuguaglianze”. Un lavoro corale, dunque, che verrà presentato venerdì mattina a fianco alle autorità istituzionali. Saranno presenti: la direttrice della Biblioteca Comunale di Termini Imerese; i detenuti, principali fruitori dello spazio; il Comandante di Reparto Maria Pia Campanale e il personale di Polizia Penitenziaria; i docenti del Cpia Palermo 2 e dell’I.I.S.S. Stenio di Termini Imerese; il capo area educativa Giuseppina Pastorello; gli educatori; gli assistenti sociali, i volontari, i donatori e tutti coloro che nel tempo hanno offerto il loro lavoro per fare della lettura e della cultura un passo imprescindibile nel percorso di recupero. La giornata sarà scandita da diversi interventi che racconteranno il luogo, dall’idea alla realizzazione e vedrà i detenuti, insieme ad attori professionisti, impegnati nel reading di brani. A conclusione poi, la firma dei protocolli di intesa con la biblioteca Liciniana e le biblioteche del territorio termitano: “il protocollo è espressione di fattiva e proficua collaborazione tra le Istituzioni Scolastica, Penitenziaria e Comunale e rappresenta una valida opportunità di crescita nel processo di integrazione/inclusione nel territorio” commenta ancora la dirigente Patrizia Graziano. Un appello per chi vuole contribuire allo sviluppo della biblioteca: sarà previsto uno spazio donazioni, in cambio delle quali i detenuti faranno dono di segnalibri dipinti a mano durante le attività laboratoriali guidate dalle insegnanti Silvana Moscato ed Enza Gambino. Un buffet offerto dalla sezione Alberghiero dell’I.I.S.S. Ugdulena, chiuderà la giornata. Per informazioni: Valentina Rinaldo, pamm15600q@istruzione.it. Firenze. Dietro le sbarre con l’Orkestra ristretta di Francesca Joppolo wsimag.com, 1 marzo 2020 Intervista a Massimo Altomare. “Con loro riesco a essere felice”. La vita non finirà mai di sovvertire le regolette che, annaspando nel dramma fin dalla nascita, l’essere umano stila per cavarsela e, fra un tiro mancino e l’altro, elargisce sprazzi di gioia nelle situazioni più impensate. Massimo Altomare è felice in carcere. Diamine, va chiarito che non è un galeotto. Ma passa giorni dietro le sbarre e frequenta un manipolo di reclusi che fa cantare e suonare nella sua Orkestra ristretta. Cantante, in duo con Checco Loy negli anni Settanta, poi solista, poi sul palco con Stefano Bollani, poi ancora solista, da una ventina d’anni lavora con i detenuti di Sollicciano, a Firenze e dice: “Quando mi esibisco io, e ancora mi esibirò, non ho intenzione di appendere l’ugola al chiodo, anche nelle serate di più grande successo, perfino con Bollani, c’è sempre qualcosa dentro di me che non è andata bene. Invece se sento loro che fanno la cosa giusta e vedo il pubblico che li ama, ho una sensazione di profonda felicità”. Altomare è nato a Verona, figlio di una veneziana e di un pugliese. Il padre era direttore di dogana e quindi la famiglia girava. Nel 1970, in piena epoca di beat, di swinging London, strinse un patto con la madre, suo padre non c’era già più: “Faccio la maturità, però dopo me ne vado a Londra”. A Londra incontrò “un tipo che si chiamava Francesco Loy detto Checco con il quale è nato un affiatamento pazzesco dal punto di vista musicale. Checco è più giovane di me: aveva sedici anni e io diciotto quindi eravamo ragazzi anche se allora a trent’anni s’era ‘omini’. Abbiamo cominciato a scrivere canzoni e il nostro obiettivo era quello suonare a Portobello road per fare due soldi. Come vedi non avevamo ambizioni sfrenate”. Per mantenersi Massimo faceva il barman e Checco il dj nella stessa discoteca: “All’inizio pensava di essere sistemato meglio di me, in realtà sbagliava perché il dj era chiuso in un angoletto, non era un divo come oggi. Mentre il barman era circondato da donne che volevano cocktails per cui era molto vantaggioso”. Si pensa Giorgio Gaber: “No, per ora va bene, m’arrangio, lavoretti qua e là, saltuari, che se un domani uno fa lo scrittore, li mette nella biografia”. Anche se uno fa il musicista o l’attore di Hollywood, luogo che pullula di ex barman. Non c’è che dire, Altomare è un artista anche per quanto riguarda il “colore”. Il sogno di esibirsi in Portobello road fu ampiamente surclassato perché, rientrati alla base, i due amici si fecero sentire da un discografico che li incoraggiò: “Ci hanno detto che dovevamo ancora lavorare, ma eravamo guardati di buon occhio perché siamo in Italia e contava che Checco fosse er fijo de Nanny Loy”. Tornai a Verona a studiare all’Università, poi mi trasferii a sociologia a Trento, mentre Checco rimase a Roma però dopo un anno mi stufai. Lui ebbe un’occasione e gli serviva un cantante”. E nacque il duo Loy e Altomare? Sì, abbiamo fatto un primo disco nel 1972, un altro nel ‘74 e l’ultimo nel ‘79. Pur non avendo avuto mai successo, Loy e Altomare hanno avuto un pubblico di nicchia molto affezionato. Eravamo un po’ snob, faccio autocritica. Abbiamo venduto poco, ricordo la delusione del primo disco che dopo sette, otto mesi aveva venduto diecimila copie. Oddio, rispetto alle vendite di adesso eravamo Michael Jackson! Oggi con diecimila copie ci sarebbe il disco di platino. A un certo punto Checco si innamorò di una fiorentina, ebbe un’eredità, comprò un fondo a Firenze e mi propose di fare uno studio di registrazione insieme. Io mettevo me stesso e lui metteva i soldi. Lo studio si chiamava Gas ed è stato molto famoso negli anni Ottanta, quando esplodeva la new wave a Firenze: ci hanno registrato tutti, a partire dai Litfiba, che abbiamo anche prodotto. Collaboravamo con Ernesto De Pascale. Ho fatto anche due dischi, diciamo belli, con Roberto Terzani, nel suo intermezzo fra i Windopen e i Litfiba. Tutti i miei dischi hanno il karma di non vendere però diventano rarissimi e costosi. Perché il duo si sciolse? Diversità di valutazione. Negli anni Ottanta ho fatto tre dischi da solista molto mandati da Videomusic. Nei Novanta mi sono avvicinato al jazz ed è nata la mia fraterna amicizia con Stefano Bollani. Insieme con lui ho creato molti spettacoli, poi abbiamo fatto un’incisione di cui sono estremamente orgoglioso, la Gnosi delle fanfole, dalle poesie di Fosco Maraini, persona straordinaria, che ho avuto il privilegio e la fortuna di conoscere. Maraini aveva scritto queste poesie in una lingua inventata, però credibile. Molto sofisticato. Nella prefazione del libro, scriveva che avrebbe desiderato che le fanfole fossero recitate o meglio ancora cantate. Allora io telefonai, era sull’elenco, gli feci sentire registrazioni con Bollani per piano e voce. Fu entusiasta e abbiamo fatto un sacco di concerti, Stefano ed io. Ora spalanchiamo le grate della gattabuia... Verso il Duemila un amico mi suggerì di fare un ciclo di lezioni sulla canzone italiana nella sezione femminile del carcere di Sollicciano. Non ebbi reazioni di rigetto, di noia, di angoscia. Anzi, mi sembrava di essere utile. Rimasero colpiti dal mio approccio e mi proposero di passare a un programma più corposo. Sempre con la sezione femminile perché allora era molto diverso. Ci sarebbe da fare un discorso lunghissimo. Accenniamolo… La situazione delle donne in prigione era migliore. Erano più disponibili a partecipare alle attività, meno infelici, facevo le parodie e in tante venivano, si divertivano. Non è che in carcere si trovi gente che legge Cechov, ma in questo momento siamo ai minimi storici, culturalmente c’è stato un abbassamento ulteriore. Sollicciano è fatto a semicerchio e c’è lo spicchio femminile con più di cento detenute che è rivolto verso quello dei sette/ottocento i maschi. C’è una tradizione che si chiama panneggiare per cui donne e uomini si parlano da lontano muovendo dei panni. Quando una è innamorata mette un panno rosso: poi chiedono i colloqui per incontrarsi e alcuni di loro si fidanzano, ma molto spesso i detenuti non hanno una mentalità svedese, magari sono arabi quindi impediscono alle ragazze di venire al corso con me. Negli anni Novanta facevo solo il femminile, i maschi neanche lo sapevano. Poi ho cominciato anche il maschile e il problema è nato quando li ho fatti esibire insieme. Lavoravi molto con Bollani: avevate progetti sugli anni Trenta, Quaranta, Sessanta. Il tempo per il carcere lo trovavi sempre? Sempre. Anche se non ci mettevo l’impegno che ci metto oggi. Avevo bisogno di un’associazione che mi rappresentasse perché il Ministero di Grazia e Giustizia non pagava i singoli e, essendo storicamente di sinistra, mi sono affidato all’Arci. Nel 2011 fondai Orkestra ristretta. Dal 2014 ho cominciato a collaborare invece con Tempo Reale (Centro di ricerca Produzione e Didattica n.d.r.), al principio con un progetto loro che si chiamava Sollicciano tour o Leit motiv Sollicciano. Portavo dei piccoli gruppi di pubblico in giro per la prigione, biblioteca, scuola, al seguito di un marching band. E a un certo punto Orkestra ristretta ha veramente decollato. Nel 2016 Orkestra ristretta ha inciso anche un disco, finanziato dalla Regione Toscana, Otto. Com’è? Rap anche se non canonico. Il rap canonico è basato quasi unicamente sull’elettronica ed è molto semplice armonicamente, a volte anche uno o due accordi: ha una sua cifra particolare. Questo è un rap da galera perché c’è una parte di suono dal vivo. Live spacchiamo, come direbbe Sfera Ebbasta. Date le circostanze in Orkestra c’è un bel via vai? Tutti gli anni cambiamo. Sollicciano non è una casa penale, è una casa circondariale. Quindi sono pochissimi quelli che hanno condanne lunghe da scontare. Quasi tutti sono di passaggio per due o tre anni, al massimo. Però il repertorio ormai c’è. Ora sto lavorando con un rapper nero super e un nigeriano che sembra un cantante americano soul, voce stupenda, alla Otis Redding. Come scegli i componenti? Faccio una sorta di casting all’inizio di ogni stagione chiedendo: sapete suonare o cantare? Quest’anno il 10 settembre ci sarà un concerto serale per il pubblico, quindi farò il casting a ottobre. Penso che la musica sia un deterrente per il crimine: in galera sanno suonare pochissime persone. Si trovano percussionisti, ma la gente che suona strumenti armonici è rara. Poi magari invito qualcuno quasi sempre nell’ambito di Tempo Reale. Mi trovo bene con loro, con Francesco Giomi, sono molto professionali. E chi non ha esperienza ma è attratto? Lo faccio provare. Se non prendono nemmeno il tempo, magari li tengo e danno una mano con i microfoni. Perché sono severo, veramente una carogna. Con il buonismo di “poverino, sta in galera” diventa una roba da dama di San Vincenzo. Gli agenti amano tantissimo questa mia intransigenza. Io non sono né un giudice né una guardia: o mi fai star bene con la musica o non mi interessa tanto. Invece nel volontariato a volte la mentalità del ‘poverino’ è dannosa. La mia severità, l’essere rompiscatole termina al concerto. Divento San Francesco d’Assisi, faccio passare qualsiasi magagna, cerco di sorridergli. Oltre a essere il capobanda, compongo, e suono con loro. Il mio strumento è la voce, ma le canzoni le scrivo al piano, suono la chitarra e un po’ la batteria. Non mi sarei mai dedicato a uno strumento con questa cura se non fosse stato per loro. Soprattutto sono entrato nel mondo del rap, fatto che alla mia generazione di solito non capita. Il pubblico? Impazzisce. È pronto ai “poverini” e quando sente questi che spaccano, lì per lì è allibito, poi trascinato. I ragazzi delle scuole urlano, delirano. Ci sono dei reati che impediscono la partecipazione alla band? I detenuti non vogliono pedofili e violentatori. È anche un pregiudizio perché alcuni di questi hanno delle facce da poveri cristi. Ma qualcosa sta cambiando: è stato appena ammesso nel gruppo uno che proviene dalla sezione dei reati sessuali. Ogni quanto vai a Sollicciano? Tre volte alle settimane, due dai maschi una dalle femmine. Ma essendo un artista -per artista intendo dire uno che lavora con l’arte, non significa che sia bravo, tengo a chiarire questo equivoco - con la mia capoccia sto sempre sul pezzo. L’impegno mentale in questo momento è costante. Per esempio, e lo dico in anteprima: vorrei fare un album-concept sul carcere in cui mettere le nostre canzoni e anche momenti musicali, a cura di Tempo Reale. Per l’occasione vorrei scrivere un pezzo che poi canterò anche io, mi farebbe piacere. Magari uscirà nel ‘21. In una fase in cui la discografia non esiste, questo progetto mi sembra culturalmente interessante: restituire il carcere come lo possono vedere musicisti professionisti e quelli che stanno dentro. Non voglio dire che è un disco necessario però non è inutile. Palermo. Tempo e libertà, così l’arte declina i temi dei detenuti di Sergio Troisi La Repubblica, 1 marzo 2020 Una lunga striscia di stoffa attraversa gli ambienti dei depositi dei pegni di Palazzo Branciforte, si innalza e ridiscende come un anelito ogni volta frustrato e ogni volta rinnovato; le strisce che la compongono recano scritte parole che raccontano il sentimento e l’idea della libertà, e questo reticolo serpentinato (“Il buco nella rete”, è il titolo) proietta la sua griglia sul fitto ordito delle scaffalature dove venivano custoditi i poveri pegni di corredi e masserizie. Accoglie così il visitatore “L’arte della libertà”, la mostra (a cura di Elisa Fulco e Antonio Leone, sino al 29 marzo) che mette in scena gli esiti di un workshop lungo un anno che Loredana Longo ha tenuto con detenuti e operatori dell’Ucciardone su tracce e segni che sono di tutti e che nella detenzione si caricano di significati diversi e talvolta imprevedibili: cos’è la libertà, ovviamente, ma anche che significano dentro e fuori, che direzione e il camminare, come contiamo il tempo o misuriamo lo spazio. Temi e modalità operative particolarmente congeniali all’artista siciliana, da sempre attenta a indagare le dinamiche sociali di spazi, oggetti e linguaggi. Ma anche un lavoro (sostenuto dalla Fondazione Sicilia, dalla Fondazione per il Sud e in collaborazione con l’Asp di Palermo) che si immagina difficile, e dai risultati non scontati, a cui le sale dei depositi offrono non tanto una ambientazione congeniale ma un vero e proprio moltiplicatore di senso: come istituendo un parallelismo e un possibile ribaltamento di opportunità tra lo spazio di controllo del carcere borbonico e il dispositivo di custodia sociale a cui indirettamente assolveva il Monte di Pietà. In entrambi i casi gli attori sono i corpi, i loro movimenti e le loro tracce fisiche e mentali che il workshop ha elaborato in quattro video in un bianco e nero appena sgranato e un po’ sporco proiettati tra le scaffalature sugli schermi già attraversati dai segni di grafite, e sono i momenti forse più potenti della mostra. In “Avanti e indietro” due schiere di detenuti avanzano l’una verso l’altra e subito indietreggiano, lasciando impresse sulla tela le lettere incise sui tacchi e sulle suole; ne “Il tempo del tempo libero” le tracce sono quelle delle passeggiate durante l’ora d’aria, in diagonale o a ghirigori o anche circolari come nella celebre “Ronda dei carcerati” dipinta da Van Gogh. Ne “Il muro di carne” un cerchio di persone ne trattiene a spinta all’interno altre bendate, con un passo al ralenti che non attenua e anzi accentua la violenza del contatto; e ne “La mappa dell’abitudine” due coppie di detenuti di continuo si sovrappongono mutando posizione. Qui la ripresa è dall’alto: noi, al contrario, lo vediamo dal basso, lo schermo appeso sopra le nostre teste, con un moto del collo e degli occhi che raddoppia la torsione dello sguardo. Tutt’intorno, i disegni con cui i detenuti hanno riproposto lo spazio reale o immaginario delle loro celle; uno di loro ha apposto accanto al nome di battesimo il titolo, tutto in maiuscolo, di Utopia. C’è ancora dell’altro, in questi ambienti insieme così spogli e così carichi. Una tenda-calendario per esempio, fatta da altre strisce di stoffa su cui i partecipanti hanno iscritto il loro conteggio del tempo, con le iniziali dei giorni della settimana, con le visite di un parente o ancora con la ripetizione alternata di segni elementari, e si tratta di una tenda (“Il tempo che rimane”) che non si attraversa né si apre, e i cui elementi semmai si accarezzano o si fanno scorrere tra le dita, come con la pioggia o i grani di un rosario. E c’è, infine, anche una grande scritta al neon, rosso fuoco, che recita “Volare per una farfalla non è una scelta”, ed è stata scelta dai partecipanti all’inizio workshop dopo una discussione che sarà stata intensa e satura di implicazioni su cosa significhi volare via, e verso dove. La scritta è stata stampata su delle magliette, il neon sarà installato all’Ucciardone. La giustizia è il contrario della povertà di Silvia Gusmano L’Osservatore Romano, 1 marzo 2020 Storia dell’avvocato Bryan Stevenson e della sua Equal Justice Initiative. “La maggior parte delle cose importanti non possono essere capite da lontano, “Bryan. Ti devi avvicinare”, mi ripeteva sempre mia nonna”. Un invito, un imperativo che ha guidato negli anni l’avvocato statunitense fondatore dell’Equal Justice Initiative, organizzazione senza scopo di lucro impegnata a porre fine all’incarcerazione di massa e alle punizioni eccessive, a sfidare l’ingiustizia razziale ed economica, e a proteggere i diritti umani delle persone più deboli e vulnerabili. Una vicenda vera, dolorosa e incredibile che lo stesso Bryan Stevenson racconta in Il diritto di opporsi. Una storia di giustizia e redenzione (Roma, 2019, pagine 446, euro 16), bestseller oltre oceano ora finalmente proposto al pubblico italiano da Fazi nella traduzione di Michele Zurlo. Bryan Stevenson è un giovane avvocato da poco laureatosi a Harvard quando decide di trasferirsi a Montgomery, in Alabama, per fondare l’Equal Justice Initiative. Al racconto della sua formazione, Stevenson intreccia le storie delle persone che ha difeso e che lo hanno introdotto in un groviglio di cospirazioni, macchinazioni politiche, inganni legali e razzismo diffuso, costringendole a modificare radicalmente e definitivamente la sua concezione della giustizia. Il libro si apre con il caso di Walter McMillian, un afroamericano condannato a morte per l’omicidio di una ragazza bianca, nonostante innumerevoli prove dimostrassero la sua completa estraneità ai fatti. E si chiude con Anthony Ray Hinton, rimasto in isolamento per tre decenni all’Istituto correzionale di Holman in una cella di un metro per due, proprio in fondo al corridoio che porta alla camera in cui, nel periodo da lui trascorso nel braccio della morte, vennero giustiziati oltre 50 detenuti. Hinton che in un caldo mattino del venerdì santo 2015 uscendo di prigione divenne la 152a persona a essere scagionata dopo un’ingiusta condanna a morte. Il diritto di opporsi - divenuto anche un film ora al cinema con Michael B. Jordan, Jamie Foxx e Brie Larson - è la storia della vita di Stevenson, e di un progetto volto a perseguire una giustizia più equa (“prima la facoltà di legge mi era sembrata astratta e avulsa da tutto il resto, ma dopo aver incontrato chi era imprigionato e non aveva speranza, ogni cosa divenne rilevante e di estrema importanza”). Perché equo non è un sistema che continua a trattare meglio le persone ricche e colpevoli rispetto a quelle povere e innocenti; che nega agli indigenti l’assistenza legale di cui hanno bisogno; che rende la ricchezza e la posizione sociale più importanti della colpevolezza. Cresciuto nel Delawre, “un luogo in cui la storia razziale del nostro Paese aveva proiettato un’ombra lunga”, Stevenson sa benissimo cosa significhi essere condannati prima ancora di aver a che fare con la legge. Nella terra della sua infanzia gli afroamericani vivono segregati in ghetti isolati dai binari della ferrovia, in piccole città o all’interno dei “settori di colore” nelle campagne. “Sono cresciuto in un insediamento rurale in cui c’erano persone che vivevano in baracche minuscole; famiglie sprovviste di impianti idraulici interni e che erano costrette a usare i gabinetti all’esterno. Le nostre aree di gioco all’aperto le dovevamo condividere con i polli e i maiali. I neri intorno a me erano gente forte e determinata, ma esclusa ed emarginata. (...) Era come se tutti avessimo addosso una veste non gradita fatta di differenza razziale, che ci vincolava, ci confinava e ci limitava”. Alternandolo con il racconto della sua vita, Stevenson esamina le incarcerazioni di massa e le pene estreme in America, racconta la facilità con cui le persone sono giudicate e l’ingiustizia che viene regolarmente commessa “quando consentiamo che siano la paura, la rabbia e il distacco a dare forma al modo in cui trattiamo i più vulnerabili tra noi”. Non solo. Stevenson è convinto che negli ultimi decenni le cose negli Stati Uniti siano peggiorate: viviamo in un periodo drammatico della storia recente americana “che ha segnato in maniera indelebile la vita di milioni di americani di ogni razza, età e genere, e la psiche del Paese nel suo complesso”. “La prima volta che ho messo piede nel braccio della morte, nel dicembre 1983, gli Stati Uniti muovevano i primi passi verso una trasformazione radicale che ci avrebbe resi una nazione inclemente e punitiva senza precedenti, e il cui esito sono state incarcerazioni di massa che non hanno corrispettivi storici. Oggi noi deteniamo il più alto tasso di carcerazione al mondo”. I dati non lasciano scampo: si calcola che un bambino di colore su tre, tra quelli nati in questo secolo, verrà incarcerato. Le pagine che Stevenson dedica ai minori in carcere sono decisamente le più dure. “Ho rappresentato ragazzini vittime di abusi e abbandonati, che sono stati perseguiti come adulti e che hanno subito ancor più abusi e maltrattamenti dopo essere stati mandati in strutture destinate agli adulti”. Alcuni stati americani non prevedono un’età minima per perseguire i minori come adulti: un quarto di milione di bambini sono stati mandati nelle prigioni e nei penitenziari destinati agli adulti a scontare pene a lungo termine. E alcuni di loro non hanno neppure dodici anni. A lungo, infatti, gli Usa sono stati l’unico Paese al mondo a condannare i bambini all’ergastolo senza neanche la libertà condizionale. Quasi tremila minori - chiosa Stevenson - sono stati condannati a morire nelle carceri. Un risultato molto concreto, però, l’avvocato l’ha raggiunto: nel 2012 in seguito a quanto da lui argomentato nel caso di Kuntrell Jackson, la Corte suprema degli Stati Uniti ha vietato la condanna all’ergastolo obbligatorio senza condizionale per tutti i minori di 18 anni. Sono dunque state centinaia le persone che nel Paese hanno ottenuto finalmente la scarcerazione dopo essere state condannate a morire in prigione per crimini commessi quando erano ragazzini. A fronte di una spesa per prigioni e penitenziari salita da 6,9 miliardi di dollari nel 1980 ai quasi 80 miliardi di dollari oggi, quel che colpisce delle pagine di Stevenson è il ritratto di un ordinamento che nega una seconda possibilità a chi sbaglia. Con effetti a catena deleteri. Se ad esempio sono già state condannate per droga, viene negata alle donne povere, e inevitabilmente ai loro figli, la possibilità di accedere ai buoni spesa e alle case popolari. Ciò ha dato vita a “un nuovo sistema di caste che costringe migliaia di persone a vivere senza un tetto, che proibisce loro di stare con la propria famiglia e nelle loro comunità, e che le rende virtualmente non idonee al lavoro”. Alcuni Stati privano definitivamente del diritto di voto chi è stato condannato per un reato penale; il risultato è che nel sud del Paese la privazione del diritto di voto tra gli afroamericani ha raggiunto livelli che non si vedevano più da prima del Voting Rights Act del 1965. Gli Stati Uniti - prosegue Stevenson - hanno rinunciato al recupero, all’istruzione e ai servizi per i carcerati, “perché a quanto pare fornire assistenza è troppo gentile e compassionevole”. Hanno istituzionalizzato politiche che riducono le persone ai loro atti peggiori, bollandole per sempre come criminali, assassini, stupratori, ladri, spacciatori, molestatori sessuali, delinquenti; “identità che non possono cambiare, indipendentemente dalle circostanze in cui sono avvenuti i loro crimini o da tutti i miglioramenti che possono aver compiuto nella propria esistenza”. Come se tutto ciò non bastasse, tra i condannati il numero di innocenti è altissimo. La somma di presunzione di colpevolezza, povertà, pregiudizi razziali e complesse dinamiche sociali, strutturali e politiche ha dato vita a un sistema costellato di errori in cui migliaia di innocenti soffrono in prigione. Quella vicinanza suggeritagli dalla nonna, ha pertanto insegnato una lezione fondamentale all’avvocato Stevenson: ognuno di noi è ben di più dell’atto peggiore che possa aver commesso. “Il lavoro che ho svolto con i poveri e con i carcerati mi ha persuaso che il contrario della povertà non è la ricchezza. Il contrario della povertà è la giustizia”. Altro che coronavirus, c’è una crisi di civiltà: responsabili politici e giornali di Fausto Bertinotti Il Riformista, 1 marzo 2020 Un’epidemia è un’epidemia, si potrebbe dire classicamente. Ma la diffusione del coronavirus sancisce anche qualcos’altro oltre a quello che manifesta direttamente, ovvero l’esistenza di una crisi di civiltà e la totale sparizione degli intellettuali. L’epidemia e la crisi di civiltà sono sorelle. C’è un’evidenza che si manifesta anche nelle citazioni che si sentono in questi giorni come la peste raccontata dal Manzoni ne I promessi sposi e nella Storia della colonna infame. La peste, del tutto imparagonabile al virus dei nostri giorni, ha in comune con ciò che stiamo vivendo la manifestazione di una paura che persino con la peste era largamente sovrastimata, tanto che il Manzoni denuncia la caccia all’untore. La prima ragione per la quale viene denunciata risiede nel principio della carità cristiana. Questa citazione mette in luce una necessità, a cui tuttavia non si può dare seguito, perché la carità cristiana, così rilevante in Manzoni, è uno dei tanti elementi che vengono messi in crisi nella civiltà dei nostri giorni. Manca cioè l’anticorpo a cui, nella sua grande narrazione, il Manzoni faceva riferimento. Tuttavia, la cosa è ugualmente indicativa, perché c’è un bisogno di far fronte al fenomeno, secondo le difese dell’umanità e della razionalità ma la crisi di civiltà le ha consumate. Le vicende dei nostri giorni - che sono francamente clamorose - ci inducono e ci obbligano a un’indagine sia sulla crisi della politica, che sulla crisi più profonda, quasi di natura antropologica del vissuto dei nostri giorni. La crisi della politica è molto evidente. Assistiamo a un fenomeno che sarebbe potuto essere fronteggiato con le armi ordinarie del contenimento, dell’informazione, dell’introduzione degli elementi necessari contro un male oggettivo, ma assolutamente circoscrivibile. Invece tutto questo è diventata una patologia, perché si è depositato in questa così diffusa e sistemica crisi. Sul banco degli accusati, prima ancora della deficitaria politica, va il sistema delle comunicazioni di massa per il suo connotato strutturale, di fondo, di essere una trincea osmotica tra il popolo e la produzione di informazioni e di cultura. L’epidemia la mette proprio sulla frontiera ed è qui che rivela tutto il suo carattere deficitario. In questa patologia psicologica di una risposta del tutto incomprensibile razionalmente e fondata tutta sulla paura, la comunicazione di massa ha avuto il ruolo di regina. Bastava accendere nei giorni scorsi una televisione di qualunque ordine e grado per avere obbligatoriamente un sovrappiù di informazione drammatizzante sul virus, pervasiva, drammaticamente pervasiva. Persino le frasi che sono diventate di rito, “Bisogna preoccuparsi senza allarmismi”, erano il viatico di ogni allarmismo. Questo ruolo non credo sia mai stato svolto in maniera così esagitata, scomposta e così sistematica, e mette in luce che ormai abbiamo un sistema di informazione (stampa, tv e radio) malato nella sua radice, in grado soltanto di amplificare quello che ritiene sia esistente, privo di qualunque capacità critica. Non si è mai visto un sistema di comunicazione così privo di pensiero critico come quello che abbiamo visto all’opera in questa stagione. Spariti gli intellettuali, il pensiero critico è stato completamente bandito. Per quanto riguarda la crisi della politica, è facilmente rintracciabile una mancanza di autorevolezza, delle istituzioni di qualsiasi ordine e grado: dal governo alle regioni sono stati semplicemente una carta assorbente. A differenza delle parole dei sistemi di comunicazione che sono state pesanti, le parole della politica sono state leggere, prive di qualunque influenza. È vero che la politica ha perso legittimità da diverso tempo, ma neppure in un frangente come questo, in cui non sono in campo direttamente le categorie classiche della politica, ha dimostrato la sua impotenza, la sua totale estraneità alla vita comune delle persone. Possiamo poi individuare un elemento di crisi nel sistema istituzionale italiano, che ha mostrato la sua incongruenza. Il rapporto tra il potere centrale e potere delle regioni si è rivelato non disciplinato da un comune sentire e da una comune cultura. Messa in mora l’autorevolezza dei comuni - la cui autonomia sarebbe stata fruttuosa e che ha a che fare con le radici della grande tradizione italiana - il bilanciamento tra potere centrale e regioni è tra due ordinamenti burocratici, entrambi privi della linfa vitale del popolo. A proposito della crisi antropologica, c’è un’immagine molto pertinente che descrive lo stato delle cose esistenti nella formula usata da Giuseppe De Rita, ripresa da Vincenzo Gioberti, ovvero l’immagine del “popolo di sabbia”. Il popolo di sabbia è un ossimoro: “popolo” fa pensare che si tratti di un processo unitario; la “sabbia” fa pensare ai granelli che vivono l’uno accanto all’altro in una assoluta solitudine. Quest’ossimoro è rappresentativo della realtà che viviamo: continuiamo a considerarci popolo, ma siamo solo granelli di sabbia. Questa antropologia della solitudine non poteva che portare al formarsi del senso comune di questi ultimi nostri, drammatici anni: la vittoria di un populismo reazionario, che ha fatto della paura la sua bandiera. In primis, la paura nei confronti dell’altro. L’altro non è più considerato una risorsa, come nelle culture del movimento operario. Il populismo reazionario ha proposto invece il rovesciamento di questo paradigma, individuando nell’altro una minaccia e un pericolo, tanto più grande, quanto l’altro è diverso. L’immigrato, il nero, l’ebreo e il malato, invece che elementi che richiedono solidarietà, inducono alla paura. La paura è stata infatti la cifra con cui si è affrontata questa crisi, è il prodotto di una mutazione della cultura del Paese a cui corrisponde la desertificazione della politica e un ruolo inquinante delle comunicazioni di massa. Migranti. Così Erdogan sta giocando con l’Europa di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 1 marzo 2020 Gli argomenti del leader turco con l’Unione sono pretestuosi, persino provocatori. Ma alla Ue e alla Nato chiede sostegno per frenare Putin in Siria. Non è certo la prima volta che le masse di migranti desiderose di raggiungere l’Europa sono strumentalizzate e abusate per fini politici, economici o strategici. Avviene quotidianamente in Libia. E adesso si ripropone drammaticamente nelle ultime mosse di Recep Tayyip Erdogan. Costretto con le spalle al muro dalla sanguinosa offensiva militare nell’enclave di Idlib lanciata brutalmente dal regime siriano, sostenuto dalle milizie sciite filo-iraniane e soprattutto da Vladimir Putin, il presidente turco non esita a sfruttare la questione migranti per spingere l’Europa e con essa l’intera comunità internazionale ad ascoltare le sue ragioni. Ma è proprio la flagrante e repentina violazione degli accordi firmati con la Ue nel 2016, per cui Bruxelles s’impegnava a pagare 6 miliardi di euro affinché la Turchia trattenesse i migranti all’interno dei suoi confini, che rivela le gravi difficoltà di Erdogan. I suoi argomenti sono pretestuosi, persino provocatori. Senza alcun preavviso accusa l’Europa di ritardare i pagamenti e di “non rispettare i patti”. Dichiara che 18.000 disperati sono già partiti in direzione di Grecia, Bulgaria e Ungheria. E potrebbero diventare presto 30.000. Tuttavia, il suo vero obbiettivo è un altro: occorre che l’Europa contribuisca a bloccare il sostegno russo a Bashar Assad. Quella stessa Europa, che lui ha tra l’altro sfidato violando gli accordi internazionali per lo sfruttamento dei giacimenti energetici nel Mediterraneo, ora torna utile per fermare la guerra in Siria. E così per la Nato, di cui la Turchia è membro, ma a sua totale discrezione. L’anno scorso Erdogan abbracciava Putin per l’acquisto dei sistemi antiaerei S-400, scatenando le rimostranze Usa e atlantiche. Adesso però chiede l’appoggio del Pentagono per frenare il presidente russo, con cui tuttavia non vorrebbe lo scontro diretto. La contraddittorietà di tali mosse mette in luce debolezze estreme. Su cui l’Europa può lavorare. Stati Uniti. Gli ex detenuti sono elettori di serie B di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 1 marzo 2020 Il diritto di voto negli Usa non è uguale per tutti e colpisce soprattutto gli afroamericani. Perciò democratici e repubblicani litigano. Dawn Harrington è una signora 39enne di Nashville che da più di dieci anni combatte inutilmente con la burocrazia del suo Stato, il Tennessee, per riavere il diritto di voto. Nel 2008, mentre era a New York, venne fermata e trovata in possesso di una pistola regolarmente registrata in Tennessee. Ma New York non riconosce il porto d’armi di altri Stati: Dawn finì in prigione. Quando fu scarcerata riacquistò la libertà, ma non il diritto di andare alle urne. In molti Stati dell’Unione, infatti, i pregiudicati non possono votare: in alcuni casi finché hanno conti aperti con la giustizia, in altri anche dopo. Milioni di ex detenuti (l’America è il Paese con il tasso di incarcerazioni più alto al mondo: quasi l’1 per cento della popolazione dietro le sbarre, ai domiciliari o rilasciata su cauzione) che diventano elettori-fantasma. Norme durissime, molto diverse da quelle in vigore in Europa, spesso introdotte fin dall’Ottocento. Leggi a sfondo razziale: dopo la Guerra civile, finito lo schiavismo, questo era uno dei modi per evitare che i neri esercitassero in massa il diritto di voto, quando era loro riconosciuto (negli Usa gran parte delle persone che hanno problemi con la giustizia sono afroamericani e, in misura minore, ispanici). Negli ultimi decenni in vari Stati sono emerse tendenze più garantiste che hanno portato a una modifica di queste legislazioni. È il caso del referendum del 2018 nel quale una larga maggioranza della popolazione della Florida ha deciso di restituire il diritto di voto a un milione e 400 mila cittadini dello Stato che hanno ormai saldato il loro debito con la giustizia. L’attuazione di questa misura è stata, però, ostacolata in vari modi (e conflitti analoghi si sono prodotti anche in altri Stati) con la conseguente esplosione di dispute in sede giudiziaria che minano ulteriormente la fiducia dei cittadini nelle istituzioni democratiche e rischiano di mettere in dubbio la credibilità del responso delle urne. A volte queste situazioni caotiche nascono da insolubili rebus burocratici. Come nel caso di Dawn alla quale le autorità che dovrebbero restituirle il certificato elettorale chiedono gli originali dei documenti dello Stato di New York sulla fine delle procedure penali nei suoi confronti. E pretendono anche che i funzionari della Grande Mela firmino una dichiarazione all’interno di un documento dello Stato del Tennessee. Nel caso della Florida, invece, è stato lo stesso governatore, il repubblicano Ron DeSantis, a far varare, subito dopo il referendum, una leggina che condiziona il rilascio del certificato elettorale all’avvenuto pagamento di multe, indennizzi e altre pene pecuniarie accessorie. Per i conservatori è una misura giusta: se il diritto di votare va restituito a chi ha saldato i conti con la giustizia, è bene che si tenga conto di tutti i capitoli sospesi, pene pecuniarie comprese. Per i progressisti, invece, quella introdotta in Florida è una specie di tassa per l’esercizio dei diritti politici. Un tributo che taglia fuori gran parte del popolo degli ex detenuti visto che, stando alle indagini condotte dalle associazioni per i diritti civili, il 70 per cento non è in grado di saldare il debito: uscito dal carcere e senza un lavoro, non ha i mezzi per pagare le multe. Il conflitto politico è divenuto ben presto battaglia legale: un giudice ha riconosciuto a chi è stato riabilitato il diritto di partecipare al voto anche se non ha saldato le pene pecuniarie, ma ha applicato la sua sentenza solo ai 17 ex detenuti che avevano fatto ricorso in sede giudiziaria. Per lo stesso motivo un tribunale federale, quello di Atlanta, in Georgia, ha dichiarato incostituzionale la norma votata dal Parlamento della Florida. Che ha fatto subito ricorso alla Corte Suprema dello Stato. Il rischio di arrivare alle presidenziali di novembre in una situazione giuridica ancora confusa, senza una vera certezza su chi ha diritto di votare e chi non ce l’ha, è rilevante. E la Florida non è un posto qualunque: è uno Stato ricco e popoloso la cui conquista è essenziale per arrivare alla Casa Bianca. Ed è uno Stato in bilico: basta pensare a quello che accadde vent’anni fa quando proprio lo stallo della Florida lasciò per giorni e giorni la presidenza in bilico tra George Bush e Al Gore. Poi, nel bel mezzo di un riconteggio dei voti, con una differenza di meno di 300 schede a favore di Bush su sei milioni di voti espressi e i democratici che chiedevano una revisione dei criteri usati per individuare le schede nulle, la Corte Suprema improvvisamente assegnò la vittoria al candidato repubblicano. E quattro anni fa la Florida, pur non essendo uno dei tre Stati (Pennsylvania, Wisconsin e Michigan) conquistati da Trump per un pugno di voti (meno di 80 mila in tutto), andò a The Donald con un margine di poco più di centomila suffragi: mettere in pista più di un milione di nuovi elettori sarebbe una scossa non da poco. Questo della Florida è il caso più grosso e politicamente significativo, ma il fenomeno soprannominato voter suppression crea incertezza e confusione in vari Stati. In America solo Vermont e Maine riconoscono, come da noi, il diritto di voto anche ai detenuti. Poi ci sono 16 Stati (dall’Illinois all’Ohio, passando per la Pennsylvania e la città di Washington) che restituiscono automaticamente il certificato elettorale a chi ha saldato i conti con la giustizia. In altri 21 Stati (tra i quali i più importanti: California, Texas e New York), il diritto di voto viene restituito, ma solo dopo che l’interessato avrà completato tutte le procedure di riabilitazione. Infine gli 11 Stati (tra essi Florida, Alabama e Arizona) che tolgono i diritti politici agli ex detenuti a tempo indeterminato, anche dopo che tutti i conti sono stati saldati. L’atteggiamento nei confronti degli ex detenuti è il principale fattore di distorsione dell’elettorato, ma non l’unico: i trucchi per tenere lontani dalle urne i gruppi sociali più deboli (e sgraditi a chi fa le regole) sono tanti: seggi elettorali spostati senza preavviso, trasferiti in luoghi difficili da raggiungere o addirittura soppressi, norme cervellotiche sul documento da presentare per farsi identificare e altro ancora. Anche qui con una coda di ricorsi all’autorità giudiziaria che mina la credibilità dell’impianto elettorale. Siria. La strage di bambini che tutti ignorano di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 1 marzo 2020 Idlib, la strage degli innocenti. La mattanza di bambini, condotta nel silenzio complice della comunità internazionale mentre è ormai guerra totale tra Ankara e Damasco. “Ancora una volta siamo scioccati da un’ondata di violenza inarrestabile che ha visto almeno nove bambini e tre insegnanti uccisi mentre 10 scuole e asili sono stati attaccati due giorni fa a Idlib, nel nord-ovest della Siria - dichiara Ted Chaiban, direttore regionale dell’Unicef per il Medio Oriente e il Nord Africa -. Almeno quattro di queste scuole erano sostenute dai partner dell’Unicef. Arrivano notizie secondo cui almeno 40 donne e bambini sarebbero rimasti feriti in questi attacchi. Questi attacchi arrivano in un momento in cui l’aumento della violenza nel nord della Siria ha costretto più di mezzo milione di bambini a fuggire. Quasi 280.000 bambini hanno subito un’interruzione della loro istruzione. Almeno 180 scuole della zona non sono operative perché sono state danneggiate, distrutte o ospitano famiglie di sfollati. Condanniamo fermamente - rimarca Chaiban - l’uccisione e il ferimento dei bambini. Le scuole e le altre strutture didattiche sono un rifugio per i bambini. Attaccarle è una grave violazione dei diritti dei bambini”. “Dall’inizio del 2020, sono già 22 le scuole bombardate, di cui quasi la metà in questa giornata”, denuncia Save the Children. “È ora di dire basta alla guerra sui bambini. Le scuole dovrebbero essere luoghi sicuri dove i bambini possono imparare e giocare, anche in una zona di conflitto. Colpire scuole e asili usati per scopi civili è un crimine di guerra”, fa eco Heba Morayef, direttrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord. “Nove anni dopo l’inizio della crisi, il governo siriano continua a mostrare profondo disprezzo per le leggi di guerra e per la vita dei civili. Gli attacchi alle scuole fanno parte di una politica sistematica di attacchi contro le popolazioni civili e costituiscono crimini contro l’umanità e crimini di guerra”, ha sottolineato Morayef. “Chiediamo alle forze siriane e russe di porre fine a tutti gli attacchi diretti contro i civili, agli attacchi indiscriminati e alle altre gravi violazioni dei diritti umani in corso. Coloro che hanno ordinato o commesso crimini di guerra dovranno essere portati di fronte alla giustizia” aggiunge Morayef. Quante madri dovranno ancora tenere in braccio il loro bambino mentre le bombe cadono ovunque? Quanti padri dovranno rassicurare i loro figli e farli ridere, mentre gli spari esplodono tutto intorno?” si chiede Cristian Reynders, coordinatore delle operazioni di Medici Senza Frontiere per la Siria nord-occidentale. “C’è una cosa in cui le persone in Idlib continuano a sperare: preservare la vita. Ma le loro speranze si abbassano ogni minuto, di giorno in giorno”. A Idlib il “Banksy siriano” ha dipinto un murale: “Oltre un milione di bambini a Idlib stanno affrontando lo stesso destino della piccola fiammiferaia. Salvali”, recita la scritta. La situazione dei civili è sempre più drammatica. L’ufficio Onu per il coordinamento umanitario (Ocha) ha aggiornato i dati della crisi umanitaria e fa sapere che sono 950mila i civili siriani sfollati nella regione di Idlib. Ocha precisa che gli sfollati dal 1 dicembre a oggi sono 948mila e che di questi 569mila sono minori, 195mila sono donne. Donne e bambini compongono l’81% dell’intera comunità di sfollati siriani a Idlib. L’Onu ha avvertito che i combattimenti si stanno avvicinando “pericolosamente” ai loro campi, rischiando un “bagno di sangue”. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, Filippo Grandi si è detto inorridito delle condizioni in cui sopravvivono questi poveri sfollati, molti dei quali accampati all’aperto nella neve e nel freddo gelido. “Non devono essere migliaia di persone - ha ammonito Grandi - a pagare il prezzo delle divisioni della comunità internazionale, la cui incapacità di trovare soluzioni a questa crisi costituirà una macchia indelebile sulla coscienza di tutti”. Appelli accorati che cadono nel vuoto. Davanti al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite riunito martedì scorso a Ginevra, il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov detto che in questo momento una tregua equivarrebbe “ad una resa davanti ai terroristi”. Il principale alleato del presidente siriano Bashar al-Assad ha aggiunto che un cessate-il-fuoco “sarebbe considerato persino un premio ai terroristi per le loro violazioni dei trattati internazionali e di numerose risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu”. E un “no” alla tregua umanitaria viene anche dal “Sultano” di Ankara. “A Idlib non faremo il minimo passo indietro. Faremo arretrare il regime siriano dietro i limiti definiti” della zona di de-escalation negli accordi con la Russia “e permetteremo il ritorno dei civili nelle proprie case”, proclama il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, in un discorso al gruppo parlamentare del suo Akp. E Idlib è anche il teatro di una guerra globale tra Ankara e Damasco. Almeno 33 soldati turchi sono stati uccisi da un raid dell’aviazione siriana nella provincia di Idlib. L’attacco è arrivato nella tarda serata di giovedì, dopo il fallimento dei colloqui russo-turchi ad Ankara. È il più grave incidente che coinvolge le truppe turche dal 19 dicembre, quando è cominciata l’offensiva di Bashar al-Assad per riconquistare la provincia ribelle. Ci sarebbero anche molti feriti, portati subito negli ospedali militari in patria, come ha confermato il governatore della provincia turca confinante di Hatay, Rahmi Dogan. Le forze armate di Ankara hanno reagito con bombardamenti massicci di artiglieria, “su tutte le postazioni” governative nell’area, ha precisato il portavoce Fahrettin Altun. L’Osservatorio siriano per i diritti umani, vicino all’opposizione, ha fornito un bilancio di 34 morti. Erdogan ha convocato un vertice d’emergenza e ha annunciato che la sua guardia costiera e l’esercito non fermeranno più i profughi siriani diretti verso l’Europa, se non riceverà aiuto e sostegno dagli alleati occidentali. Il ministro della Difesa Hulusi Akar ha detto che l’artiglieria e i droni armati turchi hanno distrutto “5 elicotteri, 23 tank, 23 cannoni semoventi, due sistemi di difesa anti-aerea Sa-17 e Sa-22” e “neutralizzato”, cioè ucciso e ferito “309 soldati del regime siriano”. Mentre Bruxelles (Nato) e Washington si schierano, almeno a parole, con Ankara, dalla televisione di Stato, Bashar al- Assad ha annunciato che non si fermerà: “La battaglia per la liberazione delle province di Aleppo e Idlib continua, indipendentemente dai discorsi vuoti e allarmisti che vengono dal nord”. In una Norimberga siriana, lo Zar del Cremlino (Vladimir Putin), il Sultano di Ankara e il Rais di Damasco avrebbero un posto in prima fila. Sul banco degli imputati. Siria. Idlib come Aleppo, bagno di sangue nella contesa tra Russia e Turchia di Mariano Giustino Il Riformista, 1 marzo 2020 La Turchia si è svegliata il 28 febbraio, il giorno per lei più cupo del conflitto siriano, piangendo la morte di suoi 36 soldati a seguito di un pesante bombardamento aereo delle forze del regime di Assad sostenute dalla Russia, al culmine di una escalation che ha portato le tensioni con Mosca e Damasco a un livello senza precedenti. A Idlib, provincia nordoccidentale della Siria, dal maggio 2019 si scontrano da una parte le forze di Assad sostenute dalla Russia e dall’altra le forze turche e i loro alleati ribelli sunniti. Negli ultimi giorni l’epicentro degli scontri è diventata la città strategica di Seraqib, a sudest di Idlib, crocevia delle autostrade M4 e M5 che rispettivamente collegano Latakia e Damasco ad Aleppo. In questa provincia siriana si sta consumando una tragedia annunciata. I disaccordi tra Mosca e Ankara derivano principalmente da diverse interpretazioni dell’accordo di Sochi del 2018. Da quasi due anni, Mosca, pur sostenendo Bashar al-Assad, ha un accordo con la Turchia per la de-escalation nella provincia di Idlib. Le forze turche sono presenti in quest’area della Siria nordoccidentale con proprie truppe per costituire una zona cuscinetto delimitata dalla cosiddetta “linea di de-escalation” presidiata da 12 avamposti militari (ormai quasi tutti assediati) per tenere separate le forze ribelli da quelle del regime, secondo l’accordo di Sochi siglato da Turchia e Russia del 17 settembre 2018. Per la Russia, l’accordo di Sochi avrebbe dovuto portare a una soluzione per Idlib. Il ruolo della Turchia sarebbe dovuto essere quello di demilitarizzare la regione procedendo al disarmo di tutti i gruppi ribelli suoi alleati e di combattere le milizie filo al-Qaida di Hayat Tahrir al-Sham (HT?) per permettere ad Assad di avanzare indisturbato. Ma la Turchia non ha fatto nulla di tutto ciò e la sua presenza militare è diventata dunque un ostacolo all’offensiva dell’esercito siriano. Mosca sembra determinata in ogni caso a sostenere Damasco, lasciando Ankara davanti ad una scelta: se vuole avere un ruolo con la sua presenza in Siria deve disarmare i ribelli e riprendere il dialogo con Damasco. La Turchia, dal canto suo, sostiene che Mosca non sta osservando il secondo articolo dell’accordo di Sochi, che impegna la Russia al rispetto del cessate-il-fuoco obbligando Assad a sospendere la sua offensiva. Secondo la Russia, la presenza sul terreno di elementi jihadisti legittima l’offensiva delle forze del governo siriano, annullando il cessate il fuoco. Insomma, tutti gli attori in campo hanno visioni diverse e i nodi stanno venendo al pettine. Le oltre 40 fazioni eterogenee che la Turchia ha riunito nella Siria nordoccidentale sotto la bandiera dell’Esercito nazionale siriano sono considerate da Mosca e Damasco organizzazioni dell’Islam radicale e dunque terroristiche. A Idlib, vivono intrappolate tre milioni di persone, sottoposte alla tirannia di HT? e delle sue bande armate e nel terrore delle bombe siriane e russe. Non hanno alcuna via d’uscita dalla loro tragedia se non raggiungere l’Europa attraversando il confine turco. L’intervento militare per eliminare i gruppi del radicalismo islamico a Idlib sta causando un bagno di sangue, probabilmente anche peggiore di quello che si è consumato ad Aleppo nel 2016. E proprio al confine turco si sono ammassati oltre un milione di persone in fuga dai bombardamenti indiscriminati che hanno raso al suolo interi villaggi. La Turchia ha aperto i propri confini ai profughi siriani, sia quelli con la Siria che quelli con l’Unione Europea. Una decisione con cui mira a esercitare pressione sull’Europa affinché la sostenga nella sua intenzione di costituire una zona cuscinetto in Siria lungo il suo confine per dare riparo ai profughi. File interminabili di rifugiati stanno attraversando il confine siriano di ?dlib e di Afrin e sono giunti alle porte dell’Europa al confine con Grecia e Bulgaria e sulla costa dell’Egeo, pronti a salire su un gommone per approdare sulle isole greche davanti alle coste turche. Afghanistan. Firmato il trattato di pace fra Usa e Taliban La Stampa, 1 marzo 2020 Finisce la guerra più lunga: le truppe della Nato saranno ritirate dal Paese entro 14 mesi. Pompeo: sorveglieremo da vicino il rispetto dei patti. Stati Uniti e Taleban hanno firmato a Doha, in Qatar, l’accordo per il ritiro delle truppe americane e della Nato dall’Afghanistan “entro 14 mesi”. Se i patti saranno rispettati, l’intesa porterà alla fine della guerra più lunga mai combattuta dagli Stati Uniti, quasi 19 anni, costata soltanto agli Usa oltre 2.400 caduti sul terreno. La Coalizione “completerà il ritiro delle forze rimanenti in Afghanistan entro 14 mesi”, ma a patto che i guerriglieri mantengano “gli impegni stabiliti” dall’accordo. Entro 135 giorni le forze stranieri saranno ridotte a 8.600 uomini. Gli Stati Uniti hanno in questo momento 13 mila soldati nel Paese, gli altri Paesi della Coalizione, circa altri 4 mila. Regime “islamico” ma non terrorista - Il segretario di Stato Mike Pompeo ha precisato che il ritiro sarà effettivo soltanto sei Taleban rispetteranno tutti gli impegni, anche riguardo “il rispetto dei diritti delle donne”. Il leader degli studenti barbuti, l’emiro Hibatullah Akhundzada ha garantito che “uomini e donne” dell’Afghanistan “godranno dei loro rispettivi diritti. L’emiro ha anche ordinato la sospensione immediata di tutti gli attacchi contro le forze di sicurezza afghane. Il negoziatore capo Abdul Ghani Baradar ha però precisato che l’obiettivo “è un regime islamico”, anche se non nemico dell’Occidente, e che Paesi come “Pakistan, Russia, Cina” si sono impegnati a contribuire alla ricostruzione e a garantire la stabilità del Paese. I Taleban si sono anche impegnati a lottare contro il terrorismo e a non minaccia in alcun modo, anche indiretto, l’Occidente. Scambio di prigionieri - Il governo afghano, guidato la presidente Ashraf Ghani, si è invece impegnato a scarcerare “5 mila prigionieri” talebani entro marzo, i guerriglieri jihadisti libereranno 1000 soldati afghani nello stesso periodo. L’intesa è arrivata dopo anni di colloqui, tenuti sempre in Qatar. Le trattative erano osteggiate dallo stesso Ghani, rieletto cinque mesi fa in un voto per le presidenziali molto controverso e ancora contestato dal principale rivale Abdullah Abdullah. Ma alla fine le pressioni americane, con la minaccia di non riconoscere la legittimità della sua rielezione, lo hanno convinto. I punti dell’accordo - Il ritiro comincerà da cinque basi, che saranno lasciate nel giro di due-tre mesi. Poi si estenderà a tutte le basi nel Paese. In base alla situazione sul terreno, gli Usa avranno però l’opzione di mantenere un contingente limitato, soprattutto forze speciali, per continuare la lotta contro i gruppi jihadisti internazionali, Al-Qaeda e l’Isis. I Taleban si impegneranno a contribuire nel contrasto del terrorismo. Dopo l’accordo fra Taleban e Stati Uniti seguiranno trattative fra gli studenti barbuti e il governo di Kabul per arrivare a un compromesso politico. L’obiettivo è evitare l’assalto a Kabul e un’altra guerra civile. L’inviato speciale - L’intesa è il frutto anche della mediazione dell’Inviato speciale Zalmay Khalilzad, politico e diplomatico con doppia cittadinanza afghana e americana. Sarà presenze alla cerimonia assieme al ministro degli Esteri del Pakistan Shah Mehmood Qureshi. Islamabad è da sempre il padrino politico dei Taleban, “creati” dai Servizi d’intelligence pachistani, l’Isi, per contrastare l’invasione dell’Unione sovietica, cominciata nel dicembre del 1979 e durata dieci anni. La guerriglia di mujaheddin del Nord e talebani pashtun del Sud costrinse alla fine i russi alla ritirata. Nel frattempo erano arrivati però anche migliaia di jihadisti arabi, un’armata che formò il primo nucleo di Al-Qaeda. Lo spettro di Najibullah - Nel 1996 i Taleban conquistarono Kabul e uccisero l’ex presidente filo-russo Mohammad Najibullah, anche con l’appoggio di Osama bin Laden. L’attacco alle Torri Gemelle, l’11 settembre 2001, portò però all’intervento americano, per cacciare gli islamisti da Kabul e dare la caccia al principe del terrore. Per questo l’accordo non convince ampie fette della dirigenza afghana. Oggi arriveranno a Kabul il segretario alla Difesa Mark Esper e il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, per fornire garanzie al presidente Ghani, che teme di fare la fine di Najibullah. Afghanistan. Kabul come Saigon: cosa accadrà a chi ha lottato a fianco degli occidentali? di Franco Venturini Corriere della Sera, 1 marzo 2020 Dopo l’accordo con gli Usa, incognite e ferite: che ne sarà degli afghani che si sono battuti a fianco degli occidentali e ora sono esclusi dai negoziati con i Talebani? È una pace zoppa quella firmata ieri per l’Afghanistan, ma è pur sempre una pace dopo diciotto anni di massacri e di guerra senza vincitori. È la pace di Donald Trump, che vuole avere il tempo e il modo di ritirare dalla “Tomba degli imperi” afghana quasi tutti i suoi 13.000 soldati prima delle elezioni presidenziali di novembre, e che già tra 135 giorni potrà esibire agli elettori statunitensi una riduzione del contingente a 8.600 uomini. Quanto dovrebbe bastargli per rimanere alla Casa Bianca. Già tra 135 giorni il Presidente potrà esibire agli elettori statunitensi una riduzione del contingente a 8.600 uomini. Quanto dovrebbe bastargli per rimanere alla Casa Bianca. È la pace dei Talebani, ai quali per tornare al potere viene chiesta soltanto la stessa pazienza che ebbero i nordvietnamiti quando gli statunitensi cominciarono a ripiegare, fino a quell’ultimo sovraccarico elicottero in partenza nel 1975 dal tetto dell’ambasciata di Saigon. Forse si può sperare che sia anche la pace delle popolazioni civili afghane, che hanno pagato un prezzo esorbitante alla ferocia o alla mancanza di cautela di entrambi gli schieramenti. Ma non è la pace, questa, degli afghani che si sono battuti con enormi perdite a fianco degli occidentali, e che ora sono stati esclusi dai negoziati con i Talebani in cambio di un vago “dialogo inter-afghano” che proprio ieri ha fatto emergere un primo contrasto sul numero di prigionieri che il governo di Kabul dovrebbe liberare (cinquemila?) in cambio dei mille lasciati andare dai Talebani. E non è nemmeno la pace, questa, delle popolazioni urbane che durante la presenza degli occidentali hanno conquistato margini di libertà individuale impensabili prima che l’attacco alle Torri Gemelle nel 2001 provocasse la risposta armata dell’America. È un bene che i talebani abbiano promesso agli Usa di impedire che terroristi sul modello di al-Qaeda tornino a minacciare gli Stati Uniti dal suolo afghano. Ma cosa accadrà alla società che in quasi due decenni è nata e cresciuta, alle donne orgogliosamente affrancate seppur nei limiti delle tradizioni, ai giovani, alle minoranze? Le promesse fatte sono vaghe, e colpisce che i Talebani continuino a parlare, per il futuro anche prossimo, di un “Emirato Islamico dell’Afghanistan” che non può essere considerato di buon auspicio. E come non ricordare, proprio oggi, i nostri morti tra tanti altri morti, i 54 militari italiani che in quella terra lontana hanno lasciato la vita combattendo sì ma cercando anche di fare del bene. E noi del Corriere, possiamo forse dimenticare la collega Maria Grazia Cutuli che alla fine di quel 2001 in Afghanistan fu uccisa perché voleva raccontarci orrori evidenti e orrori nascosti? Oltre a essere zoppa, questa road map per la pace afghana tocca cicatrici profonde. Ma alla fine sarà come sempre una storia fredda e cinica a decidere se la pace ci sarà davvero, e se sarà giusta, o almeno tollerabile per chi lì si è battuto tanto a lungo. I talebani hanno ottenuto ieri scadenze precise davanti alle quali gli americani ancora nello scorso settembre storcevano la bocca: non solo le forze Usa saranno ridotte a 8.600 uomini entro 135 giorni e di pari passo dimagriranno i contingenti alleati (gli italiani sono oggi circa novecento, con compiti di istruttori), ma entro quattordici mesi tutte le forze straniere, statunitensi, italiane o di altri Paesi, saranno fuori dall’Afghanistan. A condizione che i Talebani tengano fede ai loro impegni. Una condizione fragile, verrebbe da dire, perché non è immaginabile che il Trump che conosciamo, oppure un Trump rieletto a novembre, oppure ancora un suo successore, vogliano ri-coinvolgere l’America in una guerra afghana. E lo stesso vale per gli alleati. Per questo i talebani fanno fatica a non gridare vittoria, oggi. Per questo i talebani faranno del loro meglio per non deludere Washington, per incoraggiare Trump a non aspettare tutti i quattordici mesi e per favorire la sua rielezione: lui, di sicuro, non potrebbe contraddirsi e tornare indietro. La Casa Bianca, delusa dalla Corea del Nord, trova in Afghanistan il successo di politica estera di cui il Presidente aveva bisogno. Ma nessuno può nascondersi che le insidie sono già in attesa. Questa è una pace singolare, che non ha stabilito nemmeno un cessate il fuoco ma soltanto una approssimativa “riduzione della violenza”. Come giocherà la feroce rivalità politica tra il presidente Ghani e il suo premier Abdullah quando Kabul dovrà “dialogare” con il fronte compatto e sprezzante dei talebani? Quante clausole degli accordi sono state tenute segrete, e potrebbero esplodere come mine lungo il cammino che porta alla scadenza dei quattordici mesi da oggi (per esempio, i militari Usa vorrebbero garantire a Kabul la copertura aerea contro i talebani anche dopo il ritiro)? E i talebani, a loro volta, si mostreranno uniti, come in realtà non sono mai stati? La pace zoppica, e le sentenze definitive sono rinviate senza ottimismo. Come accade sempre nelle guerre che non si riesce a vincere.