Briciole di libertà, briciole di salute di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 19 marzo 2020 Briciole di libertà, briciole di salute: questa ci sembra la sostanza dei nuovi provvedimenti per fronteggiare il rischio di coronavirus nelle carceri. Soluzioni deboli e inadeguate, in luoghi in cui c’è fame di tutto, di spazi più accettabili, di cure, di informazioni attendibili. Gentili cittadini liberi anche se reclusi in casa, gentile ministro della Giustizia, gentile ministro della Salute, la prima cosa che vorremmo ricordarvi riguarda i rischi che state/stiamo correndo: se il virus si diffonderà nelle carceri, si riverseranno sul sistema sanitario già così pesantemente provato migliaia di malati, tra persone detenute e operatori. Perché nessuna "distanza sociale" si può rispettare in carceri sovraffollate, dove vivono persone spesso fragili per un passato di tossicodipendenza e tante patologie. Ancora una volta assistiamo invece, rispetto alle carceri, all’emanazione di provvedimenti nati dall’urgenza del momento e che però prevedono molteplici fattori che rischiano di limitare gli effetti a un numero ridotto di casi a livello nazionale. In accordo ai primi DPCM con i quali il Governo imponeva, per prevenire il rischio di contagio da coronavirus nella società, l’utilizzo dei dispositivi individuali di protezione, anche il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria avrebbe dovuto provvedere ad applicare nelle carceri le stesse misure, in realtà per circa tre settimane questo si è tradotto in quasi nulla di fatto con la Polizia Penitenziaria e in generale gli Istituti di pena spesso privi di gel disinfettanti, guanti, mascherine, e adesso c’è un ritardo desolante nell’affrontare l’emergenza sanitaria. Ora si prevedono nuove misure per fronteggiare il sovraffollamento e per contenere il pericolo del contagio all’interno degli Istituti penitenziari, ma è davvero troppo, troppo poco. E crescono la disperazione, la paura, la rabbia. L’emergenza sovraffollamento già in passato era stata fronteggiata, con strumenti però ben più efficaci e celeri, da un lato facendo ricorso alla liberazione anticipata speciale pari a 75 giorni anziché 45 a semestre, dall’altro con la detenzione domiciliare speciale. Oggi, che l’emergenza è doppia, sovraffollamento e coronavirus, le misure sono davvero debolissime: lasciamo ai giuristi il compito di cercare disperatamente di proporre, in sede di conversione del decreto, modifiche significative all’ultimo DPCM, ma bisogna che per lo meno la detenzione domiciliare speciale sia concessa a chi ha un residuo pena fino ad almeno due anni, senza la previsione del braccialetto elettronico e soprattutto senza tutte le altre limitazioni, in particolare relative all’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario. Un’ultima osservazione: certamente, tra gli ammalati nel mondo "libero", ci saranno anche chissà quante persone che hanno massicciamente evaso le tasse o contribuito a inquinare l’ambiente, creando danni a tutti noi, e ora vengono curate dalla sanità pubblica. Allora, forse dobbiamo cominciare a riflettere sul fatto che i "cattivi" non sono solo quelli rinchiusi, e che il sistema sanitario non deve guardare alle colpe, ma alle persone. E se le persone si ammaleranno in carcere, non potrete far finta di nulla. Cominciate tutti a riflettere sul fatto, che persone che hanno da scontare ancora fino a un massimo di 18 mesi (ma noi speriamo che si arrivi almeno a 24 mesi) usciranno comunque presto, e mandarle oggi in detenzione domiciliare invece che lasciarle a intasare le galere significa agire per la sicurezza di tutti, la sicurezza sanitaria ma anche la sicurezza sociale. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Coronavirus. "In cella come topi in gabbia. Le misure del decreto sono inadeguate" di Tatiana Mario difesapopolo.it, 19 marzo 2020 Intervista a Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato e giustizia. Alla luce del decreto del Governo "Cura Italia" già in vigore, le misure introdotte per contenere il contagio fuori dalle carceri italiane sono del "tutto inadeguate", come denuncia Ornella Favero. E intanto, fuori dal circondariale e dalla casa di reclusione Due Palazzi il triage nella tenda della Protezione civile non viene effettuato né per i nuovi arrestati né per tutto il personale interno alle strutture detentive. Adesso è solo una corsa sfrenata contro il tempo. La preoccupazione sta raggiungendo il picco più alto, se non lo è già. Bisogna fare prestissimo prima che l’epidemia s’infiltri dentro agli istituti di pena, causando problemi sanitari e di sicurezza sociale mastodontici per il Paese. Quando viene raggiunta al telefono Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato e giustizia e direttore della rivista Ristretti orizzonti della casa di reclusione Due Palazzi, ha appena concluso una riunione a distanza con i rappresentati del volontariato carcerario di ogni parte d’Italia e si è sentita personalmente anche con alcuni magistrati di sorveglianza per commentare insieme le nuove misure per la popolazione detenuta introdotte dal decreto "Cura Italia" firmato soltanto poche ore fa dal presidente della Repubblica Mattarella e già in vigore. "I provvedimenti risultano del tutto inadeguati - spiega la presidente di Volontariato e giustizia - servono a poco per ripristinare l’ordine e la sicurezza sanitaria dentro alle carceri ormai vicine al collasso. L’introduzione del braccialetto elettronico per la detenzione domiciliare per chi ha una pena inferiore ai 18 mesi da scontare è un’assurdità perché rallenta il sistema, lo appesantisce ulteriormente di nuove procedure quando le forze si devono concentrare su ben altro. Non sappiamo neppure se ci siano dispositivi per tutti… A cosa serve tutto questo? Stiamo parlando di persone con una pena ormai risicata da scontare che in pratica hanno già chiuso il proprio debito con la giustizia". Su una popolazione ristretta di 61 mila persone a fronte di 50 mila posti a disposizione, quanto stabilito dal Governo andrà effettivamente ad alleggerire il sovraffollamento che non consente attualmente, in molti casi come al circondariale Due Palazzi, la distanza minima di un metro dentro alle celle? "Assolutamente no. Questa misura blanda non inciderà sufficientemente sul problema del sovraffollamento perché, con tutte le limitazioni che hanno imposto, non sono così numerosi coloro a cui resta da scontare meno di 18 mesi". A Padova, fuori dal carcere circondariale e dalla casa di reclusione, le tende della protezione civile sono state montate la scorsa settimana: sono vuote, senza strumenti e personale. Il triage non è ancora attivo per i nuovi arrestati che giungono al circondariale e per tutti coloro che entrano per motivi di lavoro all’interno di entrambi gli istituti... "Mi è incomprensibile perché un servizio così banale, ma essenziale per respingere il contagio non sia ancora stato attivato: bisognerebbe chiederlo al dottor Felice Nava (responsabile dell’unità operativa sanità penitenziaria e area dipendenze dell’Azienda Ulss 6 Euganea, ndr), al Provveditorato e alle direzioni delle carceri. Il provveditore della Lombardia Pietro Buffa mi confermava proprio poco fa al telefono che in tutta la regione il triage obbligatorio davanti agli istituti di pena è già partito nelle scorse settimane. In alcuni penitenziari i detenuti stanno iniziando a produrre le mascherine...". Come avete deciso di procedere come coordinamento nazionale? "Stiamo scrivendo ora una lettera aperta al ministro della sanità Speranza perché, se il Ministero della giustizia non comprende la gravità del momento, è bene che anche quello della sanità si renda conto di cosa stiamo rischiando: se l’epidemia si diffondesse dentro alle carceri, le persone detenute sarebbero le ennesime a riversarsi dentro al sistema sanitario nazionale con tutti i problemi correlati". Come si sentono le persone dentro alle carceri? "Topi in gabbia. Inviterei ognuno a immaginare di essere chiuso con una minaccia che incombe sulla testa ed essere intrappolato vivo, senza vedere applicate misure concrete che tutelino la sicurezza di tutti, a partire dalle mascherine e dai gel igienizzanti che scarseggiano fino alla mancanza del metro di "distanziamento sociale" impossibile da applicare nei casi di sovraffollamento". Carceri, il coraggio che non c’è di Luigi Manconi La Repubblica, 19 marzo 2020 Va bene, non facciamolo per filantropia, e tantomeno per un senso di appartenenza alla medesima comunità umana. Va bene, non facciamolo per questo, dal momento che per molta parte dell’opinione pubblica i detenuti non hanno diritto ad avere diritti: e non va riconosciuta loro quella dignità che è la qualità essenziale della persona. Se così stanno le cose, e la richiesta di salvare la pelle dei detenuti non trova massicci consensi, pensiamo almeno alla tutela della salute pubblica: quella, cioè, di tutti noi. Come ha scritto il New York Times, con l’esplosione della pandemia, le condizioni inumane delle carceri rappresentano un pericolo per ogni americano. È palese, infatti, che una cella - una cella chiusa e affollata - costituisce un formidabile incentivo alla diffusione del coronavirus. Nel corso del 2019 l’Associazione Antigone ha potuto visitare oltre la metà degli istituti penitenziari e ha rilevato come, nel 50% dei casi le celle fossero prive di acqua calda e di docce; e come il sovraffollamento medio sfiorasse il tasso del 120% della capienza regolamentare e, in alcune carceri, raggiungesse il 190%. Soprattutto, in simili ambienti la convivenza e la prossimità diventano immediatamente promiscuità coatta, intimità forzata e soffocante, addensarsi e sovrapporsi di corpi, liquidi e secrezioni, eiezioni e sudori. Questo fa del sistema penitenziario una cellula patogena e un potenziale focolaio di infezione assai più pericoloso di altre strutture che accolgono rilevanti aggregazioni di individui. In questo quadro il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria comunica che vi sarebbero dieci detenuti risultati positivi al Covid-19, ma da molti istituti arrivano ulteriori segnalazioni. Le domande conseguenti sono: come trattare i compagni di stanza o di sezione di un positivo? Come realizzare la quarantena? E ciò che più inquieta è quanto potrà accadere nei prossimi giorni e settimane, tenuto conto del periodo di incubazione e del quotidiano movimento del personale (poliziotti penitenziari e amministrativi) che avviene in condizioni di carente sicurezza sanitaria. Il provvedimento deciso dal governo dimostra che vi è consapevolezza di questo rischio, ma segnala anche una preoccupante assenza di lucidità e coraggio. Il decreto legge approvato in Consiglio dei ministri dispone che i detenuti in semilibertà potranno restare a dormire fuori dal carcere fino alla fine di giugno. Per quanto riguarda l’esecuzione della pena a domicilio si ricorre a una legge già esistente dal 2010 e le si dà una nuova veste, prevedendo che i condannati fino a 18 mesi possano scontare la pena ai domiciliari. Vengono esclusi i condannati per reati ostativi, i delinquenti abituali, professionali o per tendenza, o quelli sprovvisti di un domicilio idoneo. Inoltre non potranno accedere alla misura coloro che nell’ultimo anno hanno ricevuto una sanzione disciplinare o che hanno partecipato alle ultime rivolte. Per un verso, rispetto alla legge precedente, sono state accelerate e agevolate le procedure, per altro verso - con un soprassalto di ignavia -si sono frapposti ulteriori ostacoli e introdotte nuove esclusioni. La proiezione statistica del governo dice che, in virtù di tale provvedimento, usciranno dal carcere circa 3 mila detenuti sugli oltre 60 mila ma le stime parlano di numeri assai più contenuti, forse appena poche centinaia. Il sindacato della Polizia Penitenziaria, Sinappe, non certo sospettabile di lassismo, afferma che quelle misure sono "ben poca cosa" e propone una politica che valorizzi le misure alternative e l’esecuzione penale esterna. Non stupisce che un simile programma coincida largamente con quello elaborato da tutte le associazioni di tutela dei diritti dei detenuti, dal coordinamento dei garanti regionali e dal garante nazionale delle persone private della libertà. E ciò riguarda sia la prospettiva di medio periodo sia l’intervento urgente in questa fase di gravissima emergenza. In proposito Emilia Rossi, del Collegio del Garante nazionale, così ha dichiarato al Dubbio: "Per decongestionare rapidamente le carceri, le uniche misure efficaci sono l’applicazione della liberazione anticipata speciale, i domiciliari, la licenza per i semiliberi". In tal modo si potrebbe arrivare a far uscire dal sistema penitenziario circa 15 mila detenuti, realizzando così un vero e proprio programma di sanificazione degli ambienti e quelle misure precauzionali oggi rese impossibili dalla abnorme congestione degli spazi vitali. In carcere, ricordiamolo, il "distanziamento sociale", richiesto dal governo, non si calcola attraverso la misura di "almeno un metro", ma attraverso il ritmo dei fiati. Sentiamo ripetere in queste ore: "Non è tempo di mezze misure". È vero, è il momento della lungimiranza e non della pavidità. Dopotutto, l’Iran del dispotismo teocratico ha liberato 85 mila detenuti. Il (non) cura carceri di David Allegranti Il Foglio, 19 marzo 2020 Il nuovo decreto scontenta tutti: giustizialisti, garantisti e magistrati di sorveglianza. Il decreto "Cura Italia" sulle carceri, che cerca rifugio nella legge 199 del 2010 voluta dal governo Berlusconi con Alfano ministro della Giustizia, è riuscito a scontentare tutti. Giustizialisti e garantisti. Per i primi si tratta di un via libera allo "svuotamento delle carceri" e si userebbe "come scusa il contenimento da Covid-19", dice l’ex sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone della Lega. Per i secondi, invece, il problema del sovraffollamento non viene risolto. "La situazione nelle carceri è drammatica. E resta drammatica anche oggi a primo decreto approvato. Troppe le cautele. Nell’interesse e nel rispetto della salute e della vita di detenuti e operatori bisogna liberare le carceri di almeno altre diecimila persone", afferma Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Il punto è proprio questo: il decreto, che dovrebbe puntare alla deflazione carceraria, non svuota assolutamente niente. Lo spiega bene al Foglio Michela Mencattini, magistrato di sorveglianza al Tribunale di Massa: "È una norma inutile che restringe di fatto quella già in vigore e applicata ampiamente dai giudici di sorveglianza. Si deve avere il coraggio di prendere atto del sovraffollamento in atto e della emergenza epidemiologica per aumentare il limite di pena per accedere alla detenzione domiciliare speciale per Covid-19. I giudici valuteranno adeguatamente la pericolosità sociale e idoneità al domicilio". Anche tra i Cinque stelle le misure adottate, prima e dopo il contagio, vengono considerate insufficienti. Nelle carceri, d’altronde c’è un sovraffollamento "strutturale. I gravi fatti che hanno portato persino alla morte di 13 persone negli scorsi giorni, non sono semplici reazioni alla situazione di emergenza legata al Covid-19", dice al Foglio l’eurodeputato del M5S Marco Zullo. "Per quanto esecrabili ed ingiustificabili, tali comportamenti sono il frutto di anni di disinteresse per l’intero comparto penitenziario da parte delle istituzioni e di tensioni sempre pronte a scoppiare, ancor più in situazioni di emergenza; sono la diretta conseguenza della totale dimenticanza di un intero settore e delle vite di tutte le persone che vi gravitano attorno: detenuti, polizia penitenziaria, dirigenti, e rispettivi familiari. La scintilla, questa volta, è stata la sospensione dei colloqui con i familiari e la paura di essere in grave pericolo di contagio da Covid-19, ma le polveri che sono esplose sono fatte di sovraffollamento, di mancanza di servizi essenziali e di un sistema giustizia al collasso di cui detenuti e operatori penitenziari pagano il conto". E le norme del nuovo decreto sono adeguate? "Assolutamente no. Si tratta di norme timide che estendono (in misura minima) la portata di alcune norme già in vigore, introducendo però al contempo nuove limitazioni alla loro applicazione. Penso soprattutto al testo dell’articolo 123, la cui applicazione appare condizionata in larghissima misura alla disponibilità dei "braccialetti elettronici" e, in certa misura, ad un provvedimento del capo del Dap per cui dovremmo poter attendere ancora 10 giorni... Mentre in queste ore si apprende che si sono registrati i primi casi di Covid in diverse carceri". Ma, dice Zullo, "siamo ancora in tempo: come suggerivo già diversi giorni fa, esistono delle misure concrete e a costo zero che dovrebbero essere adottate immediatamente. Auspico, ad esempio, che tutti i tribunali di sorveglianza adoperino al massimo gli strumenti di legge che consentono la detenzione domiciliare a chi ha un residuo breve di pena; che la sussistenza di patologie a rischio in caso di contagio sia fatta rientrare tra le ipotesi di concessione della detenzione domiciliare e dell’affidamento ai servizi sociali; così come proposto da Antigone ed altre importanti realtà. Che senso ha, ad esempio, l’art. 124 dell’odierno decreto? Ai detenuti in semilibertà, già dunque valutati come non pericolosi, si sarebbe potuta concedere la possibilità di dormire a casa tout court, prevedendo un regime di eccezioni specifiche. Poi, superata la situazione di crisi, si dovrà pensare ad affrontare i gravi problemi strutturali e ripensare il sistema punitivo in termini di maggiore efficacia in termini rieducativi e di risocializzazione". È un reato non fare di tutto per evitare il contagio nelle celle di Rita Bernardini Il Riformista, 19 marzo 2020 Troppo tardi, troppo poco, troppe esclusioni, troppa burocrazia. Questo è il giudizio che mi sento di dare sulle misure prese dal governo per fronteggiare l’emergenza coronavirus nelle carceri. Nel decreto-legge entrato in vigore ieri mattina bisogna arrivare agli articoli 123 e 124 per trovare qualcosa che riguardi la necessità di ridurre il sovraffollamento nelle celle dei 190 istituti penitenziari italiani. L’articolo 123 prevede una forma di detenzione domiciliare per coloro che devono scontare una pena (o un residuo pena) inferiore ai 18 mesi. La platea potrebbe essere importante (12-13 mila detenuti) se non ci fossero Lune le esclusioni già previste dalla Legge 199/2010 e quelle aggiuntive scritte nel decreto di ieri. Nella relazione tecnica circolata tre giorni fa (mentre la norma era in corso di elaborazione), il contingente di detenuti stimati come beneficiari era di un massimo di ¾.000 unità, il che sta a significare che la riduzione del sovraffollamento prevista dalla nonna è del tutto inadeguata ad affrontare la realtà attuale di circa 14.000 detenuti in più rispetto ai posti regolamentari disponibili. Ma c’è di più e di peggio. La versione definitiva del decreto prevede che chi ha una pena residua superiore a 6 mesi debba necessariamente scontare l’anno residuo con il braccialetto elettronico. Ma i braccialetti elettronici non ci sono! E non ci sono per colpevole omissione dei governi Conte 1 (quando ministro dell’interno era Salvini) e Conte 2 (ministro dell’interno Lamorgese) che non hanno effettuato il previsto collaudo dopo che Fastweb (ben 15 mesi fa) si era aggiudicato l’appalto con gara europea. Ecco una scandalosa e colpevole omissione che mi auguro sia velocemente riparata con le procedure d’urgenza già contemplate per fronteggiare l’emergenza. Mentre errori, omissioni e sottovalutazioni si susseguono, quel che non doveva accadere è successo: il virus ha fatto il suo ingresso in carcere. Si ha infatti notizia di 10 detenuti e 15 agenti contagiati e queste sono le tardive informazioni che filtrano da un’istituzione "oscura" e abbandonata quale è il carcere. I rappresentanti istituzionali, in primo luogo il presidente del consiglio Conte e il ministro della giustizia Bonafede, non possono non sapere che tutto ciò che non è stato fatto per evitare il diffondersi del contagio in car cere configura ipotesi di reato molto gravi. Gli strumenti legali e costituzionali per intervenire c’erano e ci sono. Il Riformista e il Partito Radicale lo hanno proposto con un appello alle istituzioni volto ad ottenere un urgente provvedimento di amnistia e di indulto che ha già raccolto prestigiose adesioni. Ignavia e codardia devono essere bandite nella tragedia umana in corso in Italia e nel mondo. "Caro Partito Radicale - mi ha scritto con calligrafia infantile il 5 marzo scorso un giovane detenuto padre di tre bambini piccolissimi ristretto nella Casa circondariale di Ferrara - spero che lo Stato italiano abbia pietà e non abbandoni tutti i detenuti. Non è uno scherzo questo virus, "coronavirus". Dobbiamo pagare i reati, è giusto, ma arrivare al punto di farci morire in carcere mi sembra esagerato". Mai come ora sento così vero e profondo l’evangelico "chi è senza peccato scagli la prima pietra contro di lei" (l’adultera). Coronavirus: coro di "no" su Dl carceri, va cambiato ansa.it, 19 marzo 2020 Il dl sulle carceri va cambiato. Per ragioni opposte lo chiedono sia chi come la Lega, lo vede come un indulto mascherato, sia tutto il fronte più impegnato sulle carceri (Radicali, Unione delle Camere penali, Antigone), che giudica le misure "inefficaci" e rischiose perché non riusciranno a frenare i contagi tra i detenuti. Insoddisfazione anche tra le organizzazioni della polizia penitenziaria: il dl farà uscire solo duemila detenuti, non risolvendo l’emergenza, accusa il sindacato Spp. Mentre il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, continua a difendere le misure ma chiede che sia data "ampia possibilità" di accedervi a tutti quelli che ne hanno i requisiti. In prima fila nella mobilitazione perché il decreto sia modificato ci sono i penalisti, che parlano di "scelte irresponsabili e ciniche" da parte della maggioranza, visto che le detenzioni domiciliari per chi deve scontare meno di 18 mesi di pena residua sono "condizionate" - a differenza delle iniziali bozze - a braccialetti elettronici "che non esistono e che nessuno vuole acquistare". Le misure previste "sono evidentemente insufficienti per rispondere alle esigenze di estrema gravità e urgenza che la situazione richiederebbe" accusa a sua volta Antigone, che per garantire salute e vita di detenuti e personale della polizia penitenziaria chiede "di liberare le carceri di almeno altre diecimila persone", avvertendo che altrimenti le carceri diventeranno "una bomba sanitaria". I Radicali definiscono il decreto Bonafede "non solo inefficace ma pericoloso: da una parte si impone ai cittadini di rispettare alcune regole sanitarie, in carcere li si costringe a violarle". Sul fronte opposto la Lega. "È inaccettabile lo svuota- carceri" tuona il leader Matteo Salvini, che chiede di cambiare nel suo insieme il decreto Cura Italia. Difende il provvedimento la presidente pentastellata della Commissione Giustizia della Camera, Francesca Businarolo, che accusa invece gli ex alleati di "cinismo intollerabile" visto che diffondono "notizie false" sull’uscita dal carcere di spacciatori, rapinatori e truffatori. Di fronte alla situazione gravissima delle carceri "le norme del decreto ‘cura Italia’ sono un primo passo ma certamente insufficiente", riconosce Franco Mirabelli, vice presidente dei senatori del Pd, ma la Lega sbaglia: "se non vogliamo trovarci a gestire una tragedia sanitaria e di ordine pubblico nelle carceri dobbiamo diminuire il numero di detenuti". Intanto sono saliti a 120 gli istituti penitenziari presso i quali è stata installata una tensostruttura per le attività di triage a beneficio di detenuti e personale. Sinora sono dieci i detenuti positivi al Coronavirus. A Milano un detenuto, affetto da una grave patologia, è stato scarcerato e posto ai domiciliari per i "rischi connessi all’emergenza sanitaria" del Coronavirus, che possono aggravare la sua malattia. Nelle carceri il clima resta teso. Il Garante per i detenuti fa sapere che con le Procure e con visite negli istituti sta verificando la veridicità di "casi di ritorsione" nei confronti dei detenuti che hanno partecipato alle proteste dei giorni scorsi. Detenuti, anziani e disabili e il rischio Coronavirus di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 marzo 2020 Il Garante nazionale delle persone private della libertà pubblica relazioni quotidiane. Continua il garante nazionale delle persone private della libertà a pubblicare quotidianamente dei resoconti nei giorni dell’emergenza coronavirus. Spiega che è dell’altro ieri sera la pubblicazione del testo del Decreto legge predisposto dal Consiglio dei ministri che contiene, tra l’altro, due articoli specifici riguardanti le persone in esecuzione penale. Il primo (n 123) interviene, come già il Garante ha anticipato, sulla legge 199 del 2010, prevedendo una deroga temporanea fino al 30 giugno 2020, deroga che semplifica la procedura di accesso alla detenzione domiciliare e toglie i vincoli relativi all’accertamento del mancato pericolo di fuga e della propensione alla reiterazione del reato. Sono esclusi, oltre a coloro che già lo erano in base alla legge 199, anche chi abbia riportato sanzioni disciplinari relative a sommosse, evasione o reati commessi in carcere. Il testo mantiene i termini di applicazione per chi abbia una pena o un residuo pena fino a 18 mesi. Tuttavia, per chi abbia una pena o un residuo inferiore a 18 mesi ma superiore ai 6, è prevista l’applicazione del braccialetto elettronico secondo un programma di disponibilità che sarà definito entro dieci giorni dall’entrata in vigore del Decreto legge dall’Amministrazione penitenziaria di concerto con il Capo della Polizia. Il secondo articolo (n. 124) riguarda invece le persone detenute che sono in regime di semilibertà e prevede che siano loro concesse delle licenze fino al 30 giugno 2020. Ciò permetterà di liberare, fino a quella data, i reparti per persone in regime di semilibertà, creando spazi per le esigenze interne degli Istituti. "Si tratta - scrive il Garante - di un primo passo importante che consentirà di alleggerire le presenze all’interno degli Istituti di pena, garantendo la sicurezza di tutti, e andando incontro alle esigenze di prevenzione della diffusione del Covid-19 all’interno delle carceri". Ovviamente, il Garante nazionale confida che "l’applicazione di queste misure sarà coerente con lo spirito che ha caratterizzato la loro previsione: quello di favorire, in termini certamente di sicurezza, un’ampia possibilità di accesso di coloro che si trovano nei parametri indicati dalla legge". Il Garante nazionale, spiega che Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ha comunicato la presenza di casi di positività tra alcuni detenuti. "Si tratta di numeri molto contenuti (dieci) - sottolinea - e di persone che in taluni casi non erano ancora entrate in contatto con il resto della popolazione detenuta, grazie al triage che viene fatto a tutti i nuovi giunti". Negli Istituti viene applicato l’isolamento precauzionale in appositi reparti che sono in via di realizzazione in tutte le carceri. In accordo con il Ministero della giustizia, il Garante nazionale sarà informato costantemente dell’andamento della situazione. Prosegue intanto, in stretta collaborazione con i Garanti territoriali, l’attività di monitoraggio delle condizioni degli Istituti penitenziari. Sono in corso delle visite negli Istituti, soprattutto in quelli maggiormente danneggiati dalle proteste. Il Garante nazionale anche è impegnato a controllare, in rapporto con le Procure e in taluni casi con visite, "la consistenza di alcune notizie ricevute circa possibili casi di ritorsione nei confronti di persone che hanno partecipato alle proteste". Ma non solo. Al Garante continuano anche ad arrivare da parte dei familiari richieste di informazione sui propri congiunti trasferiti a seguito delle proteste. Il garante a questo proposito aveva sollecitato l’Amministrazione penitenziaria al fine di assicurare a tutte le persone trasferite negli altri Istituti di informare i loro riferimenti affettivi circa la nuova assegnazione detentiva. L’autorità del Garante monitora anche la situazione delle Residenze per persone con disabilità o anziane. Sottolinea la preoccupazione per la mancanza di indicazioni operative da parte di Regioni e Comuni relativi alla attivazione di servizi domiciliari individuali sostitutivi dei Centri semiresidenziali per persone anziane o con disabilità, prevista dal Decreto Legge agli articoli 47 e 48. Il Garante, nel comunicato precedente, ha spiegato che gli ospiti delle RSA sono esposti, come altri luoghi in cui è concentrato un certo numero di persone, a un elevato rischio di contagio. "È chiaro - ha sottolineato il Garante - che il primo provvedimento possibile è la limitazione degli accessi alle strutture e un’elevata attenzione alle prassi igienico-sanitarie per prevenire la diffusione del virus al loro interno, diffusione peraltro particolarmente letale per la tipologia di ospiti". Anche in queste strutture, infatti, vanno tutelati non solo il diritto alla salute, ma anche il diritto al mantenimento delle relazioni familiari, spesso unica motivazione che sostiene la vita degli ospiti, favorendo forme di comunicazione alternative alla visita, anche a distanza, "perché sarebbe inaccettabile una svalutazione del bisogno di relazioni sociali", ha osservato il Garante. Uno sguardo va anche alle strutture semiresidenziali, sulle quali il Garante nazionale ha competenza nel monitoraggio, e agli interventi conseguenti la loro chiusura. Il Garante nazionale ritiene che sarebbe opportuno dare seguito alla disposizione dell’articolo 9 del decreto-legge 9 marzo 2020, n. 14 "Disposizioni urgenti per il potenziamento del Servizio sanitario nazionale in relazione all’emergenza Covid-19. (20G00030)". Tale decreto al comma 2 dell’articolo 9 prevede la facoltà delle Regioni e delle Province autonome di Trento e Bolzano di istituire entro dieci giorni dall’entrata in vigore del decreto stesso, unità speciali atte a garantire l’erogazione di prestazioni sanitarie e sociosanitarie a domicilio in favore di persone con disabilità che presentino condizione di fragilità o di comorbilità tali da renderle soggette a rischio nella frequentazione dei Centri diurni per persone con disabilità. Attualmente, non tutte le Regioni o Comuni, infatti, hanno dato indicazioni operative, con atti normativi locali, in merito alla sostituzione dei servizi diurni con servizi di assistenza domiciliare, per i quali, tra l’altro, il decreto non prevede risorse economiche straordinarie Il Garante auspica il miglioramento del testo del decreto- legge in sede parlamentare per consentire l’attivazione di queste unità speciali con una rappresentanza delle Autorità competenti, comprese l’Autorità Garante e le Associazioni di persone e famiglie con disabilità. I centri per migranti - Per quanto riguarda invece i Centri di permanenza e rimpatrio per migranti, il Garante ha già riferito nel racconto precedente che l’attenzione è stato focalizzato sul Centro romano di Ponte Galeria dove sono presenti 95 uomini e 40 donne (è atteso l’arrivo di 3 persone tutte provenienti dagli Istituti penitenziari, come del resto tutti i nuovi ingressi attuali nei Cpr). Resta aperto il problema della coerenza di un trattenimento finalizzato al rimpatrio nel momento in cui sono bloccate tutte le possibilità di arrivare nei Paesi di destinazione: problema che è ancor più rilevante per coloro che sono prossimi alla scadenza del numero massimo di giorni previsti per tale forma di trattenimento. Per quanto riguarda la questione sanitaria, nel Centro di Ponte Galeria, oltre alla informazione multilingua sulle regole da seguire e a un aumento delle attività di pulizia, è stato introdotto il rilevamento quotidiano della temperatura corporea a tutte le persone trattenute. Non c’è stata comunque necessità di effettuare alcun tampone. Il clima interno è stato riferito al Garante come tranquillo, superati alcuni giorni di fibrillazione, coincidenti con le proteste in carcere. Le audizioni per i richiedenti asilo delle Commissioni territoriali sono sospese. Nelle carceri bisogna ridurre la popolazione, si deve fare di più di Franco Mirabelli* huffingtonpost.it, 19 marzo 2020 Tutti gli operatori, i magistrati di sorveglianza, i garanti regionali e comunali ci stanno dicendo che la situazione nelle carceri italiane è esplosiva. Le rivolte degli scorsi giorni sono state sedate, ma la tensione e la paura negli istituti sta diventando sempre più alta. Le preoccupazioni di contagio, le condizioni igieniche, l’impossibilità di comunicare coi familiari se non telefonicamente, stanno rendendo insostenibile per i detenuti, ma anche per agenti e operatori, la situazione. Di fronte a questa situazione gravissima le norme introdotte dal decreto "cura Italia" sono un primo passo, ma certamente insufficiente. Leggo che la Lega, innanzi tutto, pensa sia possibile risolvere questo dramma chiudendo le celle e dando le mascherine agli agenti. Purtroppo non è così. E non sono neppure sufficienti le misure, giuste, previste per sanificare le carceri, sostenere il lavoro e aumentare il numero degli agenti di custodia, creare presidi sanitari all’interno, attrezzare le carceri per consentire più contatti telefonici o via Skype con i familiari. Deve essere chiaro a tutti che nessuno di questi problemi può essere affrontato senza intervenire sulla sovrappopolazione, sul fatto che, di media, 140 detenuti stanno negli spazi definiti per 100, che mentre noi stiamo quotidianamente attenti a tenere a distanza le altre persone nelle celle convivono anche sei persone in 10 metri quadri. Quindi piaccia o non piaccia alla Lega se non vogliamo trovarci a gestire una tragedia sanitaria e di ordine pubblico nelle carceri dobbiamo diminuire il numero di detenuti. Solo una politica irresponsabile può dedicarsi a fare polemiche e propaganda. Da questo punto di vista il governo ha introdotto nel decreto due misure importanti ma non sufficienti. Giusto scegliere di allungare al 20 giugno le licenze di chi già gode di benefici di semilibertà anche per ridurre, in questa fase di emergenza sanitaria, gli ingressi dall’esterno in carcere. Bene anche aver raccolto la nostra proposta di mandare agli arresti domiciliari chi ha ancora 18 mesi da scontare, anche se l’obbligo del braccialetto elettronico, per chi ha più di sei mesi da scontare, rischia di ridurre il numero dei beneficiari nel caso la disponibilità delle apparecchiature fosse insufficiente. Credo che in fase di conversione del decreto vada fatto di più. Consentendo i domiciliari anche in caso di indisponibilità di braccialetti, tenendo anche conto che chi sta finendo di scontare la pena per reati gravi non potrà comunque beneficiare degli arresti a casa. E visto che oggi la legge prevede sconti di pena per buona condotta (45 giorni in meno per ogni anno), pensare di aumentare a 75 i giorni da scontare per anno aiuterebbe ulteriormente a decongestionare le carceri. Sono norme semplici che intervengono su leggi già esistenti ampliandone la portata. Norme di buon senso. Norme necessarie di cui la politica deve sapersi assumere la responsabilità non delegando la soluzione dei problemi alla magistratura di sorveglianza. Non si tratta di liberare migliaia di delinquenti, come dice Salvini, ma di far scontare la pena fuori dal carcere a chi ne ha diritto in una fase emergenziale salvando delle vite. *Senatore Pd, capogruppo nella Commissione bicamerale Antimafia Le ribellioni in carcere hanno prodotto solo palliativi di Adriano Sofri Il Foglio Quotidiano, 19 marzo 2020 Faccio solo un elenco, oggi. Un promemoria. Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia. Dei 13 morti in due giorni di ribellioni in diverse carceri italiane disse al Senato, senza farsi sfiorare dalla tentazione di citarne i nomi, che erano morti "per lo più" di overdose. Francesco Basentini, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Sostenne ostinatamente che non c’era sovraffollamento nelle carceri italiane, che era una questione di convenzioni lessicali. Bastava cambiare discorso, e gli spazi si allargavano. I tredici detenuti morti. I loro nomi sono stati fatti solo ieri, dopo undici giorni, per quello che ho visto, da Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera, e a lui rimando. Di qualcuno accompagnati da circostanze: per esempio che tre di loro non erano ancora stati processati, dunque erano in carcere da non colpevoli, per esempio che altri stavano per uscire a pena finita, uno entro due settimane, e che uno usciva in semilibertà da tre anni tenendo un comportamento lodevole. Di altri solo nomi ed età. Erano italiani, magrebini (tunisini, marocchini, un algerino), un moldavo, un ecuadoriano, un croato. Una lapide potrebbe unire i loro nomi, luogo e data di nascita, luogo e data di morte, e tre sole parole, maiuscole: PER LO PIU’. Una menzione meritano quei giornalisti - chiamo così, per economia, persone che scrivono in sedi che per economia chiamo giornali - i quali non si concessero nemmeno un quarto d’ora di riflessione prima di proclamare che la rivolta carceraria era frutto di una cospirazione ordita da tempo e guidata dalla criminalità organizzata. Martedì 17 marzo: primo annuncio ufficiale sui detenuti positivi al coronavirus - dieci - cui si sommano gli agenti penitenziari. In ritardo sulla società a piede libero: saprà recuperare. Un decreto governativo prevede che i magistrati di sorveglianza - buona parte dei quali lo chiedevano da tempo - possano concedere con procedure più rapide il passaggio a pene alternative, la detenzione a domicilio (per chi ce l’ha) o il braccialetto (che non c’è), dei detenuti con un residuo di pena basso. Quasi 25 mila detenuti sono infatti in carcere con una pena residua inferiore ai tre anni, più di 16 mila con meno di due anni. Il ministero, e con lui il governo, hanno tirato al ribasso fino a indicare una pena residua tale che a usufruirne potranno essere solo 3.700, in pratica molti meno. Una misura irrisoria e derisoria. Sufficiente, certo, agli ululati di Lega e Fratelli d’Italia e fogli affini, quelli del marcire in galera. Motto aggiornato al nuovo virus: marciranno prima. Fra le numerose esclusioni ordinate, ce n’è una in più: sono esclusi coloro che abbiano partecipato alle rivolte. La valutazione ufficiale è che siano stati 6 mila, e abbiamo visto di quale rango. Ho visto con dolore che anche persone impegnate a ridurre lo scandalo delle nostre galere hanno dato per scontata quella esclusione, non so se per un riflesso di legalismo frainteso, o per una distrazione dell’intelligenza. Osservo che la condizione delle carceri dichiarata da tempo insopportabile ha suscitato, con la goccia (un droplet, infatti) del coronavirus a farla traboccare, una ribellione che ha costretto le autorità a confessare la propria ottusità e rassegnarsi a qualche palliativo, escludendone coloro che non hanno sopportato l’insopportabile. Chi aderisce a una ribellione in carcere non è particolarmente delinquente, e forse non lo è affatto: se aveste anche solo un centesimo d’immaginazione, lo capireste. O se solo vi ricordaste di qualcuno dei film carcerari che vi commuovono. I nonviolenti esigono moltissimo da sé stessi: può succedere loro di non farcela a prendere una distanza di sicurezza dai loro simili che divelgono le sbarre. Ultimo punto: forse la prossima ribellione avrà per protagonisti gli agenti penitenziari. E non contro i detenuti. Il giallo dei braccialetti: ne saranno disponibili solo 2.600 a metà maggio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 marzo 2020 Tre anni fa Fastweb si è aggiudicata la gara per la fornitura. Le norme in materia penitenziaria, inserite all’interno del nuovo decreto del governo per far fronte all’emergenza coronavirus, prevede che la detenzione domiciliare sia subordinata alla effettiva disponibilità del braccialetto elettronico. Ad oggi però i braccialetti risultano insufficienti. Lo spiega la stessa relazione tecnica che parla, al momento, di circa 2600 braccialetti disponibili fino al 15 maggio. Teoricamente, però, dovrebbero esserci almeno 15 mila braccialetti, visto che il contratto con Fastweb (la compagnia che ha vinto il bando di gara nell’agosto del 2017) prevede la fornitura di 1000- 1200 braccialetti mensili per l’intera durata triennale, in scadenza al 31 dicembre del 2021 per un importo annuo di circa 7,7 milioni di euro ed un onere complessivo di circa 23 milioni di euro. Fastweb in tandem con l’azienda Vitrociset aveva presentato l’offerta più conveniente dal punto di vista economico: parliamo del bando di gara a normativa Europea, sulla base del criterio dell’offerta più vantaggiosa, relativa alla produzione dei braccialetti elettronici. Sono passati oramai tre anni fa da quando ha vinto il bando. Infatti, la commissione nominata per le valutazioni tecnico/ economiche delle offerte pervenute, aveva affidato alla compagnia la fornitura, l’istallazione e attivazione mensile di 1.000 braccialetti elettronici, fino a un surplus del 20 per cento in più, con connessi servizi di assistenza e manutenzione per un arco temporale di 27 mesi. Il servizio sarebbe dovuto partire già da ottobre del 2018. Ma c’era bisogno che il ministero dell’Interno, guidato da Matteo Salvini, nominasse la commissione di collaudo di tutto il sistema: l’emissione del servizio, quindi l’infrastruttura, la sala di controllo e i device. In quel periodo Il Dubbio ha contattato direttamente Fastweb. L’azienda rispose che la commissione sarebbe stata nominata a novembre dell’anno scorso e quindi il collaudo sarebbe dovuto partire a metà dicembre 2018. Ma quando è partito il contratto? Secondo la relazione tecnica sarebbe partito il 31 dicembre del 2018, ma nello stesso tempo dice che, ad oggi, "nell’arco temporale di 15 mesi ne sono stati attivati circa 5200 con una media circa di 350 dispositivi". Se è vero - come relazionato nella scheda tecnica - che il contratto è partito al 31 dicembre del 2018, i braccialetti elettronici dovrebbero essere di un numero decisamente superiore. Eppure, Il Dubbio, verso la fine dell’anno scorso ha contattato Fastweb per sapere se ci sia stato o no l’avvio dell’emissione dei braccialetti: ha risposto che la compagnia si occupa solo della fornitura e di aver ricevuto l’ordine dal ministero dell’Interno di non dare ulteriori notizie sullo sviluppo, perché questo compito spetta al Viminale. Il Dubbio, con tanto di lettera scritta come prevede la prassi, ha chiesto informazioni nel merito al ministero, ma tuttora la richiesta è rimasta inevasa. Ora, però, dalla relazione tecnica leggiamo che il contratto sarebbe partito da tempo, ben 15 mesi fa. Ma quindi il collaudo è effettivamente avvenuto? Almeno dal sito della Polizia di Stato, risulta che la procedura è aperta. Infatti si ferma alla data del 17/ 12/ 2018 quando viene pubblicato il decreto di approvazione del verbale di collaudo positivo relativo alla fase uno. Almeno fino a ieri, dal sito della Polizia di Stato non risulta il "Piano di collaudo della fase 2", che rappresenta la base di tutte le attività di verifica di conformità della fornitura e sottoposto a valutazione e approvazione da parte dall’Amministrazione. Resta il dato oggettivo che Il servizio erogato dalla compagnia telefonica vincitrice dell’appalto deve consentire, mensilmente, l’attivazione media di un 1000 dispositivi con la capacità di attivarne anche il 20% in più per un periodo minimo di 27 mesi. Per "attivazione" si intende l’intero ciclo di vita di un braccialetto associato ad un soggetto destinatario del provvedimento dell’Autorità Giudiziaria che comprende la fornitura, l’attivazione, la manutenzione e la disattivazione del dispositivo stesso. Ma quindi è partita la fornitura o no? E se è partita, perché di fatto ci ritroviamo solo con 2600 braccialetti da qui fino al 15 maggio come relazionato nella scheda? Critico l’avvocato Gianpaolo Catanzariti dell’osservatorio carceri delle camere penali. "Dinanzi agli accorati appelli a fare presto per scongiurare un disastro umanitario - tuono il penalista - il governo adotta un decreto legge con misure davvero insufficienti se non irresponsabili. Preoccupato di "percorrere moderate ed accorte soluzioni" volte ad alleggerire la concentrazione davvero elevata della popolazione penitenziaria, si è infilato in un angolo cieco senza dare le risposte congrue rispetto al delicato momento". Il presidente dell’osservatorio carcere prosegue: "Si introduce una procedura non solo farraginosa, ma addirittura impraticabile e ciò al di là del consenso manifestato dai detenuti sull’utilizzo dei dispositivi elettronici di controllo che, ad oggi, non ci sono, se è vero che diversi sono i casi di detenuti in carcere in attesa della disponibilità del braccialetto nonostante un provvedimento favorevole del magistrato". E conclude: "Pare che entro il 15 maggio potranno essere reperiti 2600 braccialetti. Insomma il coronavirus galoppa e non aspetterà, anche sulla base delle notizie che filtrano dalle carceri, la tempistica lenta individuata dal Dap. L’Italia è sì un modello per l’emergenza coronavirus in carcere, ma da evitare". Cinico bluff sulle carceri, Governo irresponsabile di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 19 marzo 2020 Altro che domiciliari: senza braccialetti tutti in cella. La versione definitiva corregge la bozza del decreto che consentiva almeno di far uscire un po’ di detenuti. Una vergogna. Quando il Consiglio dei Ministri discuteva dell’ormai attesissimo super decreto, la bozza relativa alle disposizioni sulle carceri sembrava accogliere il suggerimento dei penalisti italiani, ma anche del coordinamento dei Giudici di Sorveglianza e di tanti magistrati ragionevoli e soprattutto consapevoli del fuoco epidemico che cova sotto la cenere dell’indecente sovraffollamento carcerario nostrano. Detenzione domiciliare per le pene residue inferiori ai 18 mesi. Se superiori a sei mesi, esse saranno accompagnate da braccialetto elettronico "ove disponibile". Ma nella notte, la norma viene riscritta: se il braccialetto non è disponibile, niente detenzione domiciliare. E qui casca l’asino, perché anche le pietre sanno che braccialetti elettronici non ce ne sono. I pochi esistenti, come è noto, non riescono già a soddisfare le esigenze delle custodie cautelari da scontare agli arresti domiciliari, al punto che i destinatari restano spesso molti giorni in più in carcere in attesa che se ne liberi uno. Come si può immaginare allora che quello stesso esiguo numero di braccialetti possa d’improvviso coprire un fabbisogno del tutto nuovo ed inusuale, cioè quello della espiazione pena in detenzione domiciliare per migliaia di detenuti in pochi giorni? La cosa strabiliante è che lo stesso decreto dà atto di questo stato di fatto, visto che la Relazione illustrativa si preoccupa di spiegare i cervellotici rimedi distributivi tra le carceri dei braccialetti "in caso di parziale disponibilità" degli stessi. In caso di parziale disponibilità?! Ma il Ministro e tutti i membri del Governo conoscono perfettamente il numero esiguo dei braccialetti disponibili e la loro cronica insufficienza già solo per le misure cautelari. Ora dovremmo addirittura sottrarli ai detenuti in attesa di giudizio. e moltiplicarli come i pani ed i pesci - ed in qual modo? - per renderli disponibili per migliaia di detenzioni domiciliari in espiazione pena? C’è davvero da chiedersi, strabiliati, a quale livello di cinica irresponsabilità si possa tollerare che arrivi questa politica letteralmente prigioniera delle parole d’ordine populiste e giustizialiste più viete ed ottuse. È bene si sappia che la possibilità di espiare pene residue inferiori ai 18 mesi in detenzione domiciliare è già prevista dalla legge, ma senza la condizione impossibile del braccialetto elettronico. Sostituire, come qui si è inteso fare, la valutazione del Giudice di Sorveglianza con il braccialetto elettronico significa rendere la pratica più veloce, per poi però farla certamente arenare di fronte alla già ben nota indisponibilità del necessario numero di braccialetti. Dunque, nei fatti non solo non si è risolto il problema, ma anzi lo si è aggravato, per di più travolgendo in questa incredibile, catastrofica dimostrazione di insipienza amministrativa, tutto il delicato comparto dei detenuti in custodia cautelare (il cui numero, senza braccialetti elettronici disponibili per gli arresti domiciliari, subirà inesorabilmente una impennata). Una vergogna, una prova sconcertante di cinismo e di incapacità amministrativa, che non potrà rimanere senza una adeguata risposta. I penalisti italiani sono pronti a fare la loro parte. *Presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Lo svuota-carceri che non c’è. Il Cura Italia taglia solo i tempi di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 19 marzo 2020 La norma già prevista dalla legge. Fino al 30 giugno ci sarà solo una procedura semplificata. Matteo Salvini evoca strade affollate di criminali a causa della misura sui domiciliari per una fascia di detenuti. E quella contenuta nel decreto "Cura Italia" che, in realtà, accelera solo la procedura già prevista dalla legge secondo la quale si può scontare a casa, non per tutti i reati, la pena residua fino a 18 mesi. Opposta la reazione di avvocati, radicali e associazioni come Antigone, che parlano di provvedimento "inefficace" non solo per l’emergenza coronavirus, ma anche per il sovraffollamento delle carceri. Secondo Salvini siamo di fronte a uno "svuota carceri inaccettabile. Mentre si arrestano gli italiani che escono di casa, si pensa di fare uscire 5.000 carcerati fra cui spacciatori, rapinatori, ladri, truffatori". In realtà si applica, sia pure con procedura più snella, una legge del 2010,1a 199, a firma dell’allora ministro della Giustizia, Angelino Alfano, e votata pure dalla Lega. Il decreto, infatti, stabilisce che i detenuti con condanne definitive possono andare ai domiciliari se devono scontare una pena anche residua che non superi i 18 mesi. Ma, in deroga alla legge del 2010 e fino al 30 giugno 2020, non ci sarà più un’udienza con tutte le parti sulla richiesta in merito, ma una procedura semplificata che prevede una nota del direttore del carcere competente in cui si attesta che il detenuto ha diritto al provvedimento e il via libera "in solitaria" del giudice di Sorveglianza "salvo che ravvisi gravi motivi ostativi alla concessione della misura". Restano esclusi i condannati a gravi reati (quelli indicati dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario), i maltrattamenti in famiglia e lo stalking, "delinquenti abituali, professionali o per tendenza", quelli sottoposti al "regime di sorveglianza particolare" e chi ha avuto sanzioni disciplinari in carcere. Dunque, anche coloro che hanno partecipato alle sommosse dei giorni scorsi. E veniamo alla parte più criticata dagli avvocati penalisti e che riguarda i braccialetti elettronici: eccetto che per i detenuti con pena fino a 6 mesi o minorenni, per gli altri, che devono obbligatoriamente dare il consenso, "è applicata la procedura di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici". Per la distribuzione dei braccialetti ai direttori dei penitenziari la palla passa al capo del Dap Basentini e al capo della polizia Gabrielli che entro "dieci giorni" deve adottare un provvedimento, da aggiornare periodicamente, in cui "è individuato il numero dei mezzi elettronici e degli altri strumenti da rendere disponibili nei limiti delle risorse finanziarie". Protesta l’Unione delle Camere penali: "Scelte irresponsabili e ciniche: detenzioni domiciliari condizionate a braccialetti elettronici che non esistono e che nessuno vuole acquistare!". Ma, secondo quanto ci risulta, sono disponibili 2.500 braccialetti elettronici. E quanti i detenuti che dovrebbero andare ai domiciliari? Non ci sono ancora numeri ufficiali. Secondo i sindacati di polizia penitenziaria non saranno più di 2 mila su oltre 61 mila detenuti complessivi di cui 8.629 hanno una pena residua che non supera un anno ma, come detto, ci sono molti reati ostativi ai domiciliari. Inoltre, i detenuti con pene sopra i 6 mesi andranno ai domiciliari gradualmente "a partire dai detenuti che devono scontare la pena residua inferiore". Lo stesso decreto, infine, prevede che i detenuti in semi libertà, 1.100 circa, secondo quanto ci risulta, potranno avere una licenza fino al 30 giugno anche se si superano i canonici 45 giorni. Vuol dire che invece di rientrare la sera in carcere possono rimanere nelle loro case. Un modo, sembra, per liberare posti nelle sezioni distaccate delle carceri, utili, in caso di necessità, per detenuti che devono essere magari messi in quarantena per il coronavirus. Per il Garante dei detenuti, Mauro Palma, il decreto è "un primo passo importante che consentirà di alleggerire le presenze" nelle carceri, "garantendo la sicurezza e andando incontro alle esigenze di prevenzione di diffusione" del coronavirus. L’emergenza coronavirus svela la disumanità del carcere" di Sergio Galeazzi interris.it, 19 marzo 2020 Intervista a Giorgio Pieri, coordinatore del progetto "Cec" attraverso il quale la Comunità Papa Giovanni XXIII si occupa dei detenuti. "Negli istituti manca la comunicazione interna". "In carcere, come in tutti i settori, l’attuale emergenza sanitaria mette in evidenza quello che c’è di bello e di brutto nelle nostre realtà", spiega a Interris.it Giorgio Pieri, coordinatore della "Cec", la comunità educante con i carcerati, un progetto della Papa Giovanni XXIII ispirato al modello realizzato fin dagli anni Settanta dall’Apac (Associazione per la Protezione e Assistenza ai condannati), il carcere a bassa presenza di guardie che in Brasile ha fatto scendere la recidiva dall’80% al 15%. La "Cec" prevede l’accoglienza di detenuti (imputati e condannati in via definitiva) per qualsiasi reato e di ogni età e nazionalità in strutture dedicate, ossia in comunità di soli detenuti. "Abbiamo 8 strutture in Italia, 2 in Camerun e una è in aperura in Togo - precisa Pieri. 290 detenuti ed ex detenuti comuni seguono un percorso educativo personalizzato. 40 carceri sono visitate ogni settimana dai nostri operatori, per offrire sostegno morale ai detenuti, in particolare quelli che espiano pene lunghe. Solo l’8% di coloro che portano a termine il nostro programma di recupero torna a delinquere a fronte di una media nazionale del 70%". Perché ritiene che l’epidemia di Covid-19 riveli il positivo e il negativo di ogni settore? "Lo vediamo ovunque. Negli ospedali, per esempio, stiamo vedendo gli effetti prodotti da anni di tagli alla sanità. Parimenti l’emergenza sanitaria pone in evidenza quanto il carcere sia un ambiente disumano e come persista la mentalità del chiudere dentro le persone e buttare via la chiave. Ovviamente non è una situazione generalizzata. Varia molto a seconda degli istituti". Le rivolte carcerarie sono state esplosioni improvvise di rabbia? "Andava gestita diversamente la comunicazione interna. Tengo a precisare che gli agenti della polizia penitenziaria, gli educatori e il comparto direttivo degli istituti svolgono un lavoro immane. Sono spesso degli eroi e tra loro ci sono persone che danno la vita per migliorare la situazione, ma è in sé il carcere ad essere disumano e questa disumanità emerge in tutta la sua drammaticità in questo momento di crisi e di paura per l’epidemia di coronavirus". Quali effetti produce dietro le sbarre questa situazione emergenziale? "In un ambiente complesso come il carcere la paura è oggettivamente difficile da gestire. In più sono stati commessi gravi errori di comunicazione. Hanno detto ai detenuti che fino al 31 maggio erano interrotti i colloqui con i familiari e la possibilità di fare permessi premio, mentre per le scuole la chiusura è fino al 3 aprile. È comprensibile il provvedimento, ma andava spiegato meglio all’interno. Si vuole proteggere l’istituto dai detenuti che escono e poi tornando dentro possono portare il contagio in carcere. E lo stesso discorso vale per i colloqui. Misure giuste per proteggere l’istituto ma perché sfalsare le date rispetto alla comunità esterna? Perché proibire colloqui e permessi premio fino al 31 maggio e non fino al 3 aprile come stabilito per tutte le attività pubbliche al di fuori del carcere?". Cosa bisognava tenere presente? "Non si è tenuto sufficientemente conto che per un detenuto, cioè per una persona che vive in una condizione di isolamento, il colloquio settimanale è ciò che gli consente di vivere gli altri giorni della settimana in pace. Si poteva gestire la situazione in altri modi. Per esempio, mantenere i colloqui con i familiari adottando delle protezioni anti-contagio, oppure si potevano aumentare le telefonate dei detenuti ai familiari o garantire colloqui via Skype. Dire "colloqui cancellati" e basta è stato un errore". Cosa insegna dell’universo carcerario questa situazione di allarme generale? "Il sistema carcere si basa ancora molto sulla sicurezza e poco sull’educazione. Dentro diventa lecito dire dei no senza tenere conto delle conseguenze e senza neppure dare spiegazioni sommarie. Se un detenuto fa una domanda all’istituto riceve risposte spesso prive di spiegazioni. Gli si dice che è per ragioni di sicurezza. E ciò concorre a rendere disumano il carcere. Poi certo va anche detto che negli istituti, in situazioni di cattività, escono fuori le parti più brutte dell’uomo che finisce per comportarsi da bestia. Ed è doveroso tenere anche conto della comprensibile paura della polizia penitenziaria di fronte a comportamenti brutali e reazioni autenticamente bestiali". Svuotamento carceri indispensabile, non per Coronavirus ma come atto di civiltà di Tiziana Maiolo Il Riformista, 19 marzo 2020 Circa 3.000 detenuti con condanne o residui pena non superiori a diciotto mesi potrebbero nei prossimi giorni lasciare le carceri in direzione della propria abitazione, agli arresti domiciliari. Lo prevede il decreto governativo sul coronavirus, un piccolissimo passo rispetto a quel che propone da giorni il Riformista insieme alle Camere Penali. Bisogna risalire alla cultura radicale, liberale e di una parte della sinistra d’un tempo per ritrovare qualcuno (come ha fatto nei giorni scorsi Matteo Renzi) che ricordi come la detenzione in carcere dovrebbe essere l’extrema ratio nell’applicazione della pena. La quale dovrebbe servire a rieducare e non a vessare, soprattutto con strumenti che ledano la dignità della persona. E anche che se le carceri scoppiano (61.230 carcerati su una capienza di 50.931) il fatto è dovuto prima di tutto all’uso abnorme della custodia cautelare, poi alla scarsissima applicazione delle misure alternative previste dal codice del 1989 e infine a una serie di norme fortemente repressive e spesso incostituzionali votate dagli ultimi governi. Il provvedimento del governo ha già in sé un ostacolo, il reperimento dei braccialetti elettronici, che per il ministro Bonafede sono indispensabili come lo erano una volta i ceppi ai piedi. Ci troviamo quindi già davanti a una nuova, faticosa scommessa. Si riuscirà a usare il metodo "ponte di Genova", dando un calcio alle lungaggini burocratiche, per reperire questi strumenti di controllo, oppure, dopo l’immane sforzo di democrazia il ministro Bonafede, esausto, si affiderà alla sorte, cioè ai tempi biblici per eseguire il provvedimento? Lo svuotamento delle carceri è indispensabile, il provvedimento di ieri è già tardivo e non ha saputo evitare le proteste dei detenuti in seguito alla sospensione dei colloqui. Se ci sono infatti luoghi dove la sofferenza quotidiana può trasformarsi in angoscia e stress in presenza della possibilità di epidemia, queste sono le istituzioni totali. Il Coronavirus ha illuminato a giorno la loro esistenza: il buio delle carceri, la solitudine delle case di riposo, il disagio delle malattie psichiche. Quello che oggi per tutti noi, con la presenza di un virus ignoto e insidioso, comporta già un mutamento radicale della vita quotidiana, un presente che non vede nell’immediato un futuro, una privazione del sogno e del progetto, per persone già prive della libertà rischia di essere solo un buco nero senza fine. Per questo, oggi più che mai, un programma liberale per la giustizia è quanto mai urgente. Ripensare daccapo i principi del codice accusatorio, già fortemente inquinato nel corso degli anni da un legislatore condizionato da una casta di magistrati ancorati alla vecchia inquisizione. E porre un freno alle manette facili del carcere preventivo. Ma, prima ancora di mettere mano alle riforme, mettere in campo provvedimenti come l’amnistia e l’indulto, come forme di riparazione verso una serie di norme repressive che hanno trasformato il carcere nel contenitore di ogni problema sociale, persino di ogni fastidio. Ci sarebbe piaciuto che il provvedimento del governo non fosse stato determinato dal coronavirus e dalle proteste, ma che fosse solo un fatto di civiltà. Che fosse esteso per esempio anche ai tanti anziani, malati psichici, tossicodipendenti che vivono nelle prigioni italiane. Si tratta di persone che dovrebbero stare altrove, nelle case, negli ospedali, nelle comunità. Sempre, non solo quando c’è il timore che un virus ignoto e pericoloso crei un problema di salute nella convivenza e nella promiscuità. Perché il problema c’è sempre. Basterebbe applicare le norme della Costituzione per affrontarlo, e magari risolverlo. Coronavirus, le carceri "infette" saranno la prossima bomba di Luigi Bisignani Il Tempo, 19 marzo 2020 Galeotta, è proprio il caso di dire, fu la rivolta nelle carceri ai tempi del Coronavirus per far rifiorire l’amore tra il premier Conte, il suo scudiero più fidato, il Guardasigilli Alfonso Bonafede e il leader della Lega Matteo Salvini, contrari ad ogni forma di provvedimenti umanitari. Di fronte al rischio di un contagio dilagante del Covid-19 e alla totale assenza di misure di prevenzione sanitaria, le nostre carceri, più affollate di un aperitivo al Papeete in agosto, sono una polveriera pronta ad esplodere nuovamente. Il Dipartimento dell’Amministrazione Giudiziaria (Dag) lo ha scritto riservatamente, in tutti i modi, ben sapendo che una nuova rivolta nelle carceri non sarà più controllabile come la precedente, anche perché giorno dopo giorno, cresce la solidarietà tra i detenuti e gli agenti di polizia penitenziaria che, non bisogna dimenticarlo, entrano ed escono quotidianamente dagli istituti penitenziari e non dispongono tutti a tutt’oggi di alcun kit di protezione. I dati parlano di 61 mila detenuti il 130% in più dell’effettiva capienza, in spregio a qualsiasi principio di civiltà e umanità con i reparti di infermeria allo stremo e con poche postazioni per la terapia intensiva. Un altro punto evidenziato dal Dap è il continuo arrivo dei cosiddetti nuovi giunti visto che, ovviamente, la macchina repressiva non si è fermata. Secondo gli esperti, tali soggetti non dovrebbero essere inseriti nei circuiti carcerari, ma nelle celle di sicurezza delle Forze di Polizia o delle strutture militari per rigorosi controlli sanitari, almeno per 14 giorni, così come sta avvenendo per tutti i cittadini. Ancora sulle carceri, a parte le lodevoli intenzioni, dei braccialetti elettronici e della possibilità di arresti domiciliari per i detenuti con reati minori e a fine pena, non c’è ancora nulla di chiaro, se non l’intasamento dei Tribunali di Sorveglianza, già al collasso organizzativo prima di questa pandemia, che dovranno decidere caso per caso. Era inevitabile nelle settimane scorse che il divieto tout court introdotto con decreto-legge dei colloqui dal vivo, unico sbocco di un detenuto verso il mondo esterno e i propri affetti, e la possibilità di sospendere la concessione dei permessi premio e del regime di semilibertà, avrebbero determinato un’insurrezione dei carcerati, nonché un prevedibile approfittarsi della situazione da parte di alcuni di essi, invero una minoranza. È di ieri la notizia del primo detenuto positivo. Quanti sono nelle carceri, al momento, i detenuti o operatori della polizia penitenziaria con la febbre e quanti tamponi sono stati fatti per verificare se il virus è già dilagato in quelle strutture? Come se non bastasse, sul fronte giustizia continuano ad arrivare notifiche di atti giudiziari da tutte le Amministrazioni interessate, che impongono impugnazioni da parte degli avvocati dinanzi a diverse Autorità, che vanno dalla Ragioneria generale dello Stato ai giudici penali, perché non si è avuto il coraggio, o almeno la competenza, in questo periodo di emergenza, di bloccare espressamente tutto l’iter dell’attività giudiziaria, come avviene in agosto. O meglio, è stato comunicato come al solito in conferenza stampa urbi et orbi, ma senza prevedere, espressamente e chiaramente, la sospensione di tutti i termini, anche di quelli per le impugnazioni, per il deposito di querele e per qualsiasi altro atto. Il caos come conseguenza e i poveri avvocati in subbuglio, peraltro non troppo tutelati dai vari organi rappresentativi. Se c’è una pandemia, e dunque una situazione straordinaria di necessità e di urgenza, bisogna avere il coraggio e la competenza di adottare provvedimenti seri e radicali. Tutto ciò genera ancora più sconcerto se si pensa che il Ministro della Giustizia dovrebbe essere anche un tecnico, cioè un avvocato, e il che Presidente del Consiglio si era addirittura autoproclamato "avvocato del popolo". È legittimo chiedersi di quale popolo, anche alla luce delle derive populiste di Matteo Salvini che, con la sua ultima presa di posizione contro le uscite anticipate dalle carceri, non fa altro che buttare benzina sul fuoco. Per fortuna, dopo che "Giuseppi" ha dato finalmente sfogo al suo animus manettaro mettendoci tutti ai domiciliari, ci saranno almeno molti meno reati. Mancano le mascherine? Produciamole in carcere di Filippo Merli Italia Oggi, 19 marzo 2020 Grazie ai laboratori dei penitenziari italiani. Lettera a Borrelli e Speranza. La proposta del presidente siciliano di Antigone, l’associazione per i diritti dei reclusi. Per Pino Apprendi il carcere "è un pezzo di città". E ora, secondo il presidente della sezione siciliana di Antigone, un’associazione che si batte per i diritti del sistema penale, potrebbe assumere un ruolo fondamentale nella lotta dell’Italia all’epidemia del coronavirus. Come? Con i detenuti impegnati nella produzione delle mascherine. "Sarebbe un bel segnale per dare un’opportunità di riscatto ai reclusi", dice Apprendi a Italia Oggi. "E nello stesso tempo servirebbe a riconciliare il rapporto con quella parte di cittadini che non crede nella riabilitazione". Apprendi, palermitano di 71 anni, ex deputato nell’Assemblea regionale siciliana, ha già inviato una lettera con la sua proposta al capo della Protezione civile, Angelo Borrelli, e ai ministri Roberto Speranza e Francesco Boccia. "Nel corso della mia esperienza ho visitato diverse carceri", spiega il presidente di Antigone. "In alcune di esse sono presenti laboratori sartoriali ben attrezzati. Dato che in Italia mancano le mascherine per chi entra in contatto con i contagiati, ma anche per chi vuole indossarle semplicemente per andare a fare la spesa, ho pensato che queste protezioni potrebbero essere realizzate nelle case circondariali di tutto il paese. Naturalmente con le indicazioni di tecnici e specialisti per le varie norme di conformità". Nei penitenziari italiani, in seguito alle restrizioni annunciate dal premier Giuseppe Conte per tentare di arginare l’emergenza del Covid-19, sono scoppiate proteste e rivolte. Impegnare i detenuti in una sorta di enorme catena di montaggio per la fabbricazione delle mascherine, secondo Apprendi, potrebbe riabilitare la loro immagine. Oltre a dare un contributo significativo alle necessità dei cittadini. "A mio parere sarebbero gli stessi reclusi a essere entusiasti di lavorare 24 ore su 24, a turno, per rendersi utili in questo momento così drammatico. A parte il fatto che le mascherine servirebbero anche a loro, potrebbero produrle anche per gli agenti della polizia penitenziaria, che ne lamentano la scarsità. In più quelle a disposizione delle forze dell’ordine che prestano servizio nelle carceri sono monouso, quindi servono solo per pochi giorni". Apprendi ha già illustrato la sua iniziativa all’assessore al Territorio della Regione Sicilia, Totò Cordaro, e al direttore siciliano della Protezione civile, Calogero Foti. La sua lettera, inoltre, è sulla scrivania di Borrelli, Speranza e Boccia. "Mi auguro che questo progetto si possa avviare in tutta Italia, da Milano a Palermo, da San Vittore all’Ucciardone", sottolinea l’ex parlamentare regionale. "Fare una stima sull’eventuale produzione è impossibile. Ho parlato con un imprenditore che ha ipotizzato una fabbricazione di circa 5 mila mascherine al giorno, ma con un normale orario lavorativo, non 24 ore su 24 con turni di quattro o cinque ore. I numeri, insomma, sono confortanti. Ora non resta che avviare il progetto". Una inchiesta sullo stato delle carceri de "Il Giornale dell’Architettura" Ristretti Orizzonti, 19 marzo 2020 Se è vero che i provvedimenti anti Covid19 sono stati la causa scatenante delle recenti rivolte negli istituti penitenziari italiani, è altrettanto vero che la conflittualità sociale delle persone detenute, è esacerbata dalla condizione ambientale in cui si trovano a vivere. Ilgiornaledellarchitettura.com, prestigiosa testata online di architettura, ha ritenuto opportuno avviare una inchiesta a puntate sulla condizione delle carceri del nostro paese ed i temi legati alla sua dimensione architettonica. A cura l’architetto Cesare Burdese, l’inchiesta coinvolgerà una serie di esperti nel tracciare lo stato dell’arte, confrontando le esperienze virtuose estere con la realtà italiana; la quale, dopo gli anni 70 del secolo scorso, ha rinunciato al contributo della cultura architettonica. I primi contributi sono degli architetti Luca Zevi e Cesare Burdese e compaiono sul numero di questa settimana della rivista online Il Giornale dell’Architettura scaricabile da internet al seguente link: https://ilgiornaledellarchitettura.com/web/ Il Covid-19 spiegato ai ragazzi "dentro" di Davide Dionisi L’Osservatore Romano, 19 marzo 2020 Lo straordinario lavoro dei cappellani delle carceri minorili per garantire assistenza e conforto ai detenuti più piccoli. Una volta li chiamavano riformatori, poi sono diventate case di correzioni, carceri minorili, istituti di rieducazione per minorenni. Oggi anche queste realistiche espressioni hanno lasciato il posto a "Istituti Penali per Minorenni" e per la verità gli ospiti di queste strutture, l’aria del carcerato non ce l’hanno. Tanto più che, collaborando con le figure istituzionali che condividono il loro percorso di detenzione, a partire dai direttori, si è riusciti nel tempo a mutare l’aspetto di un carcere minorile in quello di un collegio neanche troppo rigoroso. Certo, non c’è la libertà, ci sono le pesanti porte di ferro, le serrature robuste e il campanello alla fine delle lezioni non ti invita a uscire per tornare a casa. Andiamo ai numeri. Cosa sta succedendo? - Secondo il quinto rapporto di Antigone, "Guarire i ciliegi", presentato nei giorni scorsi a Borgo Amigò, la struttura romana alternativa al carcere fondata da Padre Gaetano Greco, al 15 gennaio scorso i minori e giovani adulti detenuti nei 17 Ipm italiani erano 375. Raramente le presenze sono scese sotto le 400 unità (dunque il dato attuale è quasi eccezionale) ma, altrettanto raramente, sono salite sopra le 500. Cifre che rivelano un’Italia che ricorre alla detenzione dei più piccoli in maniera residuale. "Numeri bassi che sono certamente una buona notizia e che si accompagnano ad una diminuzione anche dei numeri della criminalità minorile" sostiene il Presidente di Antigone, Patrizio Gonnella. Ma sono comunque 375 e in questo momento anche loro stanno vivendo un disagio nel disagio. Come spiegare il contagio da Covid-19, questo evento nefasto epocale, a minorenni che vivono già da ristretti e che difficilmente riescono a comprendere ciò che sta accadendo fuori? Un ruolo centrale lo stanno svolgendo al loro fianco i cappellani. La vita che cambia - Don Nicolò Ceccolini, che presta servizio nell’Ipm di Casal del Marmo a Roma, racconta che: "È stata la stessa direttrice a chiedermi di incontrare i ragazzi per illustrare questo insolito scenario, perché si è detta convinta che quando i ragazzi vedono il sacerdote si tranquillizzano. Per certi versi ha ragione" aggiunge. "Non possiamo fare miracoli, ma aiutiamo a stemperare tante situazioni di difficoltà". Quale è stata la loro reazione, gli chiediamo: "Ho cercato di fargli capire che quello che sta succedendo fuori, cambierà anche le loro vite. È un momento speciale che chiede a tutti di fare un sacrificio in più". Quanto al coinvolgimento personale, Don Ceccolini precisa: "A me hanno chiesto da dove viene questo virus e perché ha colpito proprio la nostra nazione. Ho riposto che il Covid-19 viene dal cuore della Cina, ma non dal cuore di Dio, perché il Signore non vuole il male dei suoi figli. Inoltre" continua il cappellano di Casal del Marmo "li ho invitati a cogliere questa occasione che, se pur drammatica, offre la possibilità per riprendere in mano le questioni più importanti della loro vita. Tanto più che siamo in tempo di Quaresima". "Tempo favorevole" - Dalla capitale al Beccaria di Milano, storicamente uno degli Istituti Penali Minorili più importanti d’Italia, grazie al grande impegno (anche in termini di risorse economiche) delle istituzioni pubbliche e private milanesi. Qui Don Claudio Burgio nel 2000 ha dato vita all’associazione "Kayrós", a Lambrate, e a Vimodrone, alla prima comunità di accoglienza per minori in difficoltà segnalati dal Tribunale per i Minorenni, dai Servizi Sociali di riferimento e dalle forze dell’Ordine. "Il nostro nome, Kayrós, è in questo momento più che mai importante perché in greco significa tempo favorevole, l’occasione di saper vivere un momento così difficile anche in questa chiusura blindata come se ci fosse un carcere nel carcere" rileva Don Burgio. "Vivere aiutandosi, riscoprendo il valore dei rapporti umani, andando avanti senza usare sostanze stupefacenti. Non possono vedere nessuno e questa lontananza dai loro familiari e, perché no, anche dalla scuola, li deprime. Sta a noi inventare le loro giornate attraverso attività formative, ludiche e ricreative che possono stimolare pensieri nuovi per un futuro diverso. Anche se oggi ci appare quanto mai incerto". Affetti via chat - Da Milano a Catania dove il cappellano dell’Ipm Bicocca è don Francesco Bontà: "Per fortuna i ragazzi qui non sono molti. L’Amministrazione ha dato la possibilità di continuare ad avere i colloqui attraverso Skype per non perdere il contatto con i loro cari. Sono molto tranquilli e mi rivolgono tante domande, anche se ovunque sono state sistemate istruzioni su come comportarsi per evitare il contagio. Su tutte, lavarsi bene le mani ogni volta che si rientra in cella ed evitare qualsiasi contatto. Quanto alle attività" continua Don Bontà "cerchiamo di proporre soprattutto momenti di svago e ci aiutiamo con i giochi da tavolo. Non è facile, ma al cappellano oggi viene chiesto soprattutto questo, perché per loro siamo un padre. Anzi, non solo per loro, ma anche per gli agenti di Polizia Penitenziaria e per quanti ruotano attorno alla struttura che, costantemente, ci chiedono di pregare". I ragazzi finiti dentro sono quasi sempre portatori di disagi personali enormi. Disagi che si ingigantiscono ulteriormente quando subentra la coscienza di essere ghettizzati, reclusi tutti insieme, come scarto della società. La mobilitazione del cuore - Al tempo del Coronavirus le istituzioni sono chiamate ad un surplus di progettualità per cercare di eliminare le condizioni di disagio, di emarginazione che hanno portato i ragazzi a commettere reati. Prima della diffusione del Covid-19 il difficile veniva quando uscivano da queste strutture, per mancanza di strutture e di reti di servizi in grado di continuare ad occuparsi di loro. Ma oggi? Secondo il Card. Giuseppe Petrocchi, Arcivescovo de L’Aquila, da sempre attivo nel servizio di pastorale carceraria non solo nella sua diocesi: "Così come il navigante deve porre in atto manovre particolari se il mare è in tempesta, anche la comunità cristiana in questi frangenti deve fare appello a tutte le risorse di mente e di cuore di cui dispone per essere una Comunità Samaritana, cioè una comunità che si fa carico della sofferenza e dei sofferenti". Il porporato parla dell’esempio di Papa Francesco: "Attraverso la mobilitazione del cuore, animato dalla carità cristiana, il Santo padre pone dei gesti importanti che non hanno solo un valore esemplare nel suo ministero, ma tracciano anche dei percorsi che l’intera comunità ecclesiale è chiamata a vivere in modo corale". Il Card. Petrocchi spiega inoltre che: "La carità non è soltanto fare qualcosa per gli altri, non è soltanto dare, ma è stare con gli altri. Non significa soltanto mettere in campo gesti di beneficenza, anch’essi importanti, ma fare spazio a chi porta nella propria esistenza i segni di una sofferenza in cui riconosciamo la croce del Signore. In questo tempo di difficoltà occorre un amore speciale. Specialmente nei confronti di questi ragazzi". Il reato di "passeggiata" non esiste. I pm di Genova archiviano le denunce di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 19 marzo 2020 "Troppe denunce" per la violazione delle disposizioni sul decreto Coronavirus. L’allarme viene direttamente dalla Procura di Genova, "sommersa" in questi giorni dalle notizie di reato per inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità e falsa attestazione da parte delle Forze di polizia in relazione all’emergenza in corso. Il problema è nato dalla qualificazione giuridica delle condotte da sanzionare, e quindi dei reati che verrebbero violati, inseriti nei moduli prestampati diffusi dal Ministero dell’interno per giustificare gli spostamenti all’esterno della propria abitazione. L’autocertificazione in questione, peraltro, è stata recentemente aggiornata da parte del capo della polizia con la previsione anche dell’indicazione di "non essere positivo" o in "quarantena". L’attenzione dei magistrati si è concentrata sull’articolo 495 cp, "falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri", reato punito con la reclusione non inferiore a due anni. Martedì scorso è stata diffusa una circolare alle Forze di polizia firmata da Paolo D’Ovidio, procuratore aggiunto della Procura ligure. Per il magistrato, "il delitto dell’art. 495 viene integrato esclusivamente dalle false attestazioni aventi ad oggetto l’identità lo stato od altre qualità della persona". Nulla a che vedere, dunque, sulla veridicità o meno di quanto indicato nel modulo a proposito dei motivi dello spostamento dal proprio domicilio. Ma non solo. "Le persone che, fermate per controllo, offrano giustificazioni non veritiere aggiunge D’Ovidio - non possono essere denunciate per l’art. 483", che punisce la "falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico" con la reclusione fino a due anni. Il motivo? "L’impossibilità di qualificare come "attestazione" penalmente valutabile la dichiarazione che, non può ritenersi finalizzata a provare la verità dei fatti esposti", puntualizza la toga. Resta, allora, solo la violazione dell’art. 650 cp, "inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità", una contravvenzione punita con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a duecento sei euro. Poca cosa, quindi, rispetto ai due reati che erano stati previsti dal Ministero dell’interno. L’art. 650 è uno scarso deterrente per le persone che, nonostante i ripetuti avvisi, continuano imperterrite ad uscire di casa senza giustificato motivo. Il governo, infatti, ha già in programma una stretta per cercare di arginare il fenomeno. Ipotizzando, ad esempio, il reato di diffusione di epidemia. Tornando, comunque, alle indicazioni date dalla Procura di Genova alle Forze di polizia, i magistrati ricordano che la ratio della circolare punta a vietare gli immotivati spostamenti delle persone, consentendoli solo all’interno della zona di residenza, ed evitando quelli fra territori limitrofi. Sono vietati, poi, gli spostamenti in gruppo e gli assembramenti di persone. "La percezione del problema sfugge a troppi", ha sottolineato ieri Franco Gabrielli, evidenziando come siano già 700.000 le persone controllate e circa 30.000 quelle denunciate. Numeri elevatissimi che, a questo punto, saranno destinati, per le denunce, ad un forte ridimensionamento in base alle indicazioni dei magistrati liguri. Emergenza Covid-19 e soluzioni smart: anche il processo diventa agile di Sara Canciani e Andrea Ferrandi Il Sole 24 Ore, 19 marzo 2020 Al fine di contrastare l’emergenza epidemiologica da Covid-19, il Governo ha introdotto delle misure straordinarie e urgenti anche nell’ambito dell’attività giudiziaria. Al fine di contrastare l’emergenza epidemiologica da Covid-19, il Governo, prima con il decreto legge 11/20 e poi con il Dl 18/20 (decreto "Cura Italia") ha introdotto delle misure straordinarie e urgenti anche nell’ambito dell’attività giudiziaria. In particolare sono stati disposti il differimento delle udienze e la sospensione dei termini nei procedimenti giudiziari, con l’obbligo del deposito telematico - negli uffici nei quali è attiva tale funzione - di tutti gli atti e i documenti del processo (obbligo finora valevole per i soli atti endoprocedimentali e non anche per quelli introduttivi). Sempre al fine di garantire il rispetto delle indicazioni fornite dal ministero della Salute, le norme emanate hanno altresì previsto che i capi degli uffici giudiziari possano adottare - come di fatto è avvenuto - misure organizzative volte ad evitare assembramenti all’interno di detti uffici, potendone limitare l’accesso al pubblico e prevedendo lo svolgimento dei processi civili e penali a distanza, mediante collegamenti da remoto, per il periodo contemplato dall’emergenza nonché per i procedimenti eccezionalmente non rinviati, in quanto indifferibili. Per l’effetto, le udienze civili che non richiedano la presenza di soggetti diversi dai difensori, e loro assistiti, potranno svolgersi - nel rispetto del diritto al contraddittorio e all’effettiva partecipazione delle parti - mediante collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia. Del pari, le udienze penali si svolgeranno, ove possibile, utilizzando gli strumenti di videoconferenza già a disposizione degli uffici giudiziari e degli istituti penitenziari o, anche in questo caso, con collegamenti da remoto individuati e regolati, come sopra, con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati (si è in attesa di conoscere se il provvedimento dello scorso 10 marzo, nel quale venivano individuati nei programmi già a disposizione dell’Amministrazione - in particolare "Skype for business" e "Teams" - i collegamenti da remoto utili ai fini dello svolgimento delle udienze, verrà confermato nei contenuti, anche ad esito della sostanziale abrogazione del Dl 11/20 a opera del più recente decreto Cura Italia). Tali innovazioni, tuttavia, impongono una riflessione più generale. L’adozione di tali misure, se da un lato ha accelerato il ricorso alla tecnologia in campo processuale, dall’altro lato altro non ha fatto che anticipare meccanismi di progressiva dematerializzazione del processo già in atto, frutto del graduale passaggio dalla più tradizionale visione dell’amministrazione della giustizia - fatta di aule, corridoi, pile di fascicoli e lunghe attese - alla più flessibile giustizia offerta dal cosiddetto processo telematico, già ampiamente diffuso. I vantaggi di una macchina giudiziaria fortemente digitalizzata sono di facile intuizione: maggiore efficienza gestionale delle pratiche, diminuzione dei costi di giustizia, riduzione dei tempi e dei costi per l’avvocatura (si pensi agli spostamenti da un Foro ad un altro, o al ricorso a colleghi domiciliatari), e maggiore accessibilità - alla professione ma anche al processo vero e proprio - per i soggetti impossibilitati alle trasferte, per ragioni di salute o di sicurezza. Non mancano, però, anche i "contro", tanto in termini di investimenti - sul personale amministrativo e su nuovi strumenti informatici - quanto in termini di rischi connessi a tutto ciò che è "digitale", e che riguardano, nel caso specifico, la necessità di aggiornare costantemente protocolli e tecnologie in modo da verificare l’identità e la libera volontà dei partecipanti e garantire un livello elevato di riservatezza nelle trasmissioni. Alcuni uffici hanno già avviato la sperimentazione di fasi processuali gestite in modalità telematica, e l’andamento dei prossimi mesi sarà sicuramente determinante al fine di valutare l’opportunità di mantenere, anche ad emergenza superata, le procedure da remoto, così inaugurando un rinnovato dialogo, fra gli operatori del diritto, finalizzato all’adeguamento della giustizia ordinaria - come già avviene nell’ambito delle procedure extra giudiziali di risoluzione alternativa delle controversie - alle esigenze di flessibilità e innovazione, anche culturale, che sempre più caratterizzano la nostra epoca. Frode informatica, la competenza segue il profitto di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 19 marzo 2020 Corte di cassazione - Sentenza n. 10354 del 17 marzo 2020. Il reato di frode informatica, al pari della truffa, si consuma nel momento in cui l’agente consegue l’ingiusto profitto. Di conseguenza, è a quel momento che si deve fare riferimento ai fini del radicamento della competenza giurisdizionale. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 10354/2020, dichiarando inammissibile il ricorso di un uomo condannato per aver trasferito abusivamente 250 euro da una post pay ad un’altra, non sua, ma di cui aveva la disponibilità, in tal modo appropriandosi della somma. Contro questa decisione il ricorrente aveva sostenuto che la competenza territoriale sarebbe stata illegittimamente identificata nella Corte di appello di Torino, luogo dove sarebbe stato conseguito l’ingiusto profitto, "mentre avrebbe dovuto essere identificata nel luogo ove aveva sede il sistema informatico oggetto di manipolazione" oppure "nel luogo dove si era consumato il depauperamento della persona". Una lettura bocciata dalla Seconda sezione penale per cui è da confermare l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui il reato di frode informatica (articolo 640 ter c.p.) ha la medesima struttura e quindi i medesimi elementi costitutivi della truffa, dalla quale si differenzia solamente perché l’attività fraudolenta dell’agente investe non la persona, "di cui difetta l’induzione in errore", bensì il suo sistema informatico, attraverso la relativa manipolazione. Anche la frode informatica, pertanto, "si consuma nel momento in cui l’agente consegue l’ingiusto profitto con correlativo danno patrimoniale altrui". Deve dunque ritenersi "definitivamente superato" il risalente indirizzo che identificava la consumazione della frode informatica nel luogo in cui veniva eseguita l’attività manipolatoria del sistema. La manipolazione del sistema informatico, prosegue la decisione, "rappresenta infatti una modalità speciale e tipizzata di espressione dei comportamenti fraudolenti necessari per integrare la truffa semplice". "Si tratta - spiega ancora la Corte - di una modalità della condotta che non esaurisce e perfeziona l’illecito che si consuma nel momento dell’ottenimento del profitto". Nessun vizio dunque nella scelta della Corte territoriale di confermare la legittimità della competenza territoriale. Bocciata anche la richiesta di non punibilità per particolare tenuità del fatto (131-bis c.p.) considerati i precedenti per usura, bancarotta fraudolenta e calunnia, ritenuti "indicativi della propensione alla consumazione di fatti illeciti" e dunque riconducibili al concetto ostativo alla misura di favore della "abitualità". Contratti, adempimenti in ritardo sottoposti a valutazione dei giudici di Angelo Busani Il Sole 24 Ore, 19 marzo 2020 Non adempiere le obbligazioni contrattuali in questo periodo, in cui sono attive le "misure di contenimento" disposte per arginare Covid-19, non genera automaticamente conseguenze negative per il debitore: il giudice che sia chiamato a decidere in ordine alle conseguenze generate dall’inadempimento dovrà necessariamente "valutare" la situazione concreta mettendo l’inadempimento su un piatto della bilancia e la necessità di rispettare le "misure di contenimento" (ad esempio: le limitazioni agli spostamenti) sull’altro piatto. Lo stabilisce l’articolo 91 del Dl 18/2020 nel suo intento di "sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19", con ciò raccogliendo l’allarme che Il Sole 24 Ore aveva lanciato il 17 marzo: infatti, in mancanza di una norma di legge che esplicitamente provvedesse sul punto, la norma di cui all’articolo 1218 del codice civile sarebbe stata implacabile: "Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile". La norma è scritta affinché chi assume obblighi pensi bene a quel che sta facendo e si organizzi al meglio: solo l’impossibilità sopravvenuta della prestazione (e non la mera difficoltà, anche grave) che, in più, derivi da causa non imputabile al debitore, rende l’inadempimento incolpevole. In ogni altro caso l’inadempimento è colpevole (è una sorta di responsabilità "oggettiva" che colloca sul debitore il rischio dell’inadempimento) e obbliga il debitore inadempiente a risarcire il danno provocato al creditore e che sia conseguenza "immediata e diretta" dell’inadempimento (sia nella sua componente di danno emergente che nella sua componente di lucro cessante: articolo 1223 del Codice civile). Oltre alla disattivazione della norma di cui all’articolo 1218, l’articolo 91, del Dl 18/2020 rimette alla valutazione del giudice anche la maturazione di una "decadenza" o la pretesa di una "penale" "connesse a ritardati o omessi adempimenti" i quali siano, a loro volta, da porre in relazione al "rispetto delle misure di contenimento". In altre parole, alla luce di questa normativa emergenziale, può stare sufficientemente tranquillo chi: a) pretenda uno spostamento di qualche settimana di una data per la stipula di un contratto definitivo, decisa in un contratto preliminare; b) abbia pattuito un "termine essenziale" per l’adempimento di una data obbligazione (l’articolo 1457 del Codice civile); c) abbia dato o ricevuto una "caparra confirmatoria": in questo caso, l’inadempimento di una parte provoca che l’altra parte può recedere dal contratto e può trattenere la caparra o pretendere il doppio di quella data; d) abbia pattuito una "penale": si tratta di una somma dovuta per il caso di inadempimento di un’obbligazione che "ha l’effetto di limitare il risarcimento alla prestazione promessa, se non è stata convenuta la risarcibilità del danno ulteriore" (articolo 1382 del codice civile). Stranieri, permesso di soggiorno al fratello della cittadina italiana solo se c’è convivenza di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 19 marzo 2020 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 18 marzo 2020 n. 7427. La relazione tra due fratelli, entrambi maggiorenni e non conviventi, non è riconducibile al concetto di vita familiare rilevante secondo l’articolo 8 della Cedu, in assenza di elementi dai quali presumere l’esistenza di un legame affettivo qualificato da un progetto di vita comune. Di conseguenza perché un fratello possa ottenere un permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare con un altro fratello o sorella, è necessario il requisito della convivenza effettiva. La Corte di cassazione, con la sentenza 7427del 18 marzo, ha respinto il ricorso di un cittadino straniero che invocava il diritto al permesso di soggiorno per motivi familiari, avendo una sorella cittadina italiana. Una richiesta respinta dalla Corte d’Appello perché mancava la prova della convivenza. Il ricorrente non aveva, infatti, saputo spiegare le ragioni della sua assenza in casa in occasione dei sopralluoghi. E le dichiarazioni della sorella non bastavano. Per la difesa il verdetto della Corte d’Appello violava l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, sul diritto alla vita privata e familiare. La Suprema corte, con una sentenza in linea con la giurisprudenza sovranazionale e costituzionale, precisa che i fratelli, maggiorenni, non rientrano nella nozione di famiglia, rilevante ai fini del ricongiungimento. Né è ipotizzabile la violazione della Cedu. La Cassazione ricorda che il concetto di vita familiare, è stato esteso dai giudici di Strasburgo anche a situazioni di comunione affettiva in cui non c’è un vincolo giuridico, come nel caso delle coppie di fatto omosessuali. Tuttavia l’estensione non è tale da comprendere il rapporto tra fratelli maggiorenni se non conviventi. Calabria. Coronavirus e carcere di Agostino Siviglia* Ristretti Orizzonti, 19 marzo 2020 Nelle carceri della Calabria ad oggi non si registrano casi di positività al virus, permane tuttavia una grave criticità rispetto all’assistenza sanitaria, specie, presso l’istituto penitenziario di Arghillà dove si registra ancora l’assenza di copertura infermieristica h24 e la mancanza di un referente sanitario. Ho scritto formalmente a chi di dovere e continuo quotidianamente a segnalare l’annosa problematica eppure ancora non si riesce a risolvere la situazione. Nella malaugurata ipotesi di un contagio, si ribadisce, in particolare presso il carcere di Arghillà, la situazione rischia di degenerare irrimediabilmente, nonostante fino ad oggi le persone detenute, i loro familiari e tutto il personale di Polizia Penitenziaria, sanitario ed educativo, oltre le Direzioni dei singoli istituti ed il Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, abbiamo dato prova di un alto senso di responsabilità collettiva. A ciò si aggiunga che sono stati trasferiti nei 12 istituti penitenziari della Calabria ben 150 detenuti provenienti dalle carceri in rivolta (Poggioreale, Prato, Foggia, Salerno, Modena, solo per citarne alcuni). Fra questi, oltre 30 detenuti sono stati trasferiti presso il carcere di Arghillà. Risulta perciò improcrastinabile l’immediata attivazione dell’assistenza infermieristica h24 presso il carcere di Arghillà ed il completamento orario degli specialisti già presenti, con particolare rilevanza rispetto all’assistenza psichiatrica e psicologica. L’ufficio Gestione Risorse Umane dell’Asp di Reggio Calabria deve, pertanto, procedere subito con il reclutamento del personale infermieristico attingendo alle mobilità e alle graduatorie vigenti per incarichi a tempo determinato garantendo contratti almeno semestrali, eventualmente rinnovabili. Rispetto alla specialistica ambulatoriale è fondamentale avviare la procedura prevista dal vigente Accordo Collettivo Nazionale: convocare immediatamente gli Specialisti dell’Asp che ancora non hanno avuto il completamento dell’orario di lavoro e garantire, secondo le priorità previste dal contratto, il monte orario previsto pari a 38h settimanali. Peraltro, il budget di spesa risulta già previsto a causa dei numerosi pensionamenti e, inoltre, l’art. 5 del recente Dl n. 14 del 9.3.2020, "Cura Italia" per l’emergenza Covid-19, autorizza le aziende sanitarie ad incrementarne la quota. Questo è solo il primo passo da compiere per iniziare a garantire un minimo di livello assistenziale sanitario alle persone detenute, nelle more dell’implementazione di altre necessarie figure specialistiche (cardiologo, odontoiatra, fisiatra, ortopedico). Infine mi preme evidenziare che il DL del 17 marzo 2020 n. 18 seppur prevede, agli artt. 123 e 124, alcune misure volte ad alleggerire il sovraffollamento penitenziario (in specie l’esecuzione della pena in detenzione domiciliare purché non superiore a 18 mesi, anche come residuo di maggior pena, ovvero un ampliamento delle licenze per i semiliberi fino al 30 giugno 2020), nella sostanza, nel breve periodo, difficilmente riusciranno a dispiegare effetti deflativi, considerata la necessaria attività procedimentale e giurisdizionale da compiersi che, pare, non essere sufficientemente semplificata. Mi appello, pertanto, ancora una volta a chi di dovere affinché si intervenga al più presto, prima che la situazione degeneri irrimediabilmente. *Garante regionale dei detenuti della Calabria Milano. Scarcerato causa virus. "Emergenza rischio grave" di Mario Consani Il Giorno, 19 marzo 2020 Sconterà 3 anni e 10 mesi ai "domiciliari" un detenuto anziano e già malato. Il magistrato: "Lo stress da contagio può aggravare i suoi problemi". Scarcerato causa virus. Un detenuto che doveva restare in cella 3 anni e 10 mesi per reati finanziari, è da tre giorni in detenzione domiciliare perché è seriamente malato e si potrebbe aggravare visti "i rischi connessi all’emergenza sanitaria". Indica una strada precisa il provvedimento del magistrato di sorveglianza Rosanna Calzolari dopo l’istanza urgente presentata dall’avvocato Antonella Calcaterra. Nella decisione depositata lunedì, scrive infatti che va considerato il "rischio di evoluzione negativa della grave patologia" del detenuto e bisogna tenere conto, in questo senso, dei "rischi connessi all’emergenza sanitaria in atto", che può essere un "fattore di aggravamento" date le "condizioni di salute compromesse". Nell’istanza il legale aveva sottolineato anche l’esigenza, in questo momento, di ridurre il sovraffollamento nelle carceri. Una questione che è all’attenzione in questi giorni della Sorveglianza milanese presieduta da Giovanna Di Rosa, che sta lavorando a ciclo continuo per concedere il più presto possibile le misure alternative a quei detenuti che hanno i requisiti per accedere alla detenzione domiciliare o all’affidamento in prova ai servizi sociali. Un appello in questo senso è partito ieri anche dal Garante per i diritti dei detenuti del Comune di Milano. "Ritengo necessari - scrive in un comunicato Francesco Maisto - provvedimenti normativi deflattivi di immediata applicazione e tali da non richiedere il vaglio della magistratura di sorveglianza che già ora, per le condizioni dei propri uffici, non sarebbe in grado di poterli applicare in tempi ragionevoli ed adeguati alla diffusione del virus". Il Garante spiega pure di aver ricevuto "informazioni su presunti maltrattamenti" nel carcere di Opera dopo le recenti proteste dei detenuti, e di aver presentato su questo un esposto alla Procura. Procura dove intanto il pm Alberto Nobili ha aperto un’inchiesta sulla rivolta di San Vittore per i reati di devastazione e saccheggio ma sta per allargare lo sguardo ad ampio raggio alla protesta di Opera dove, nel frattempo, un magistrato di sorveglianza ha effettuato due ispezioni. E le nuove regole per la detenzione domiciliare introdotte dal Governo sembrano troppo deboli anche ad Aldo Di Giacomo, segretario del sindacato di polizia penitenziaria Spp: "Il provvedimento crea confusione tra arresti domiciliari e detenzione domiciliari. Una frittata. Sterile nell’efficacia in quanto escono solo 2.000 detenuti e povero di contenuti perché non si prendono in considerazione le persone fortemente a rischio di contagio". Bologna. Carcere della Dozza "il problema resta ancora il sovraffollamento" di Francesco Mazzanti e Francesca Maria Chiamenti incronaca.unibo.it, 19 marzo 2020 Le misure alternative alla detenzione previste dal decreto servono, ma mancano i braccialetti elettronici. Parla l’avvocatessa Francesca Modaffari. Ammassati nel carcere, i diritti ridotti al minimo dopo le rivolte e in attesa di una riforma che, oltre l’emergenza, risolva i problemi decennali delle prigioni italiane. Uno su tutti il sovraffollamento. L’avvocatessa Francesca Modaffari assiste dei detenuti di Bologna. La scorsa settimana, durante la rivolta alla Dozza, era fuori dall’istituto penitenziario, cercando notizie su ciò che avveniva all’interno. Silenzio assoluto, almeno fino a pochi giorni fa. Ora il decreto ha riattivato la possibilità di fare colloqui con i legali, preoccupati però per le contraddizioni nella gestione dell’emergenza. E ieri quattro detenuti nelle carceri lombarde sono risultati positivi al Covid-19. Modaffari, è riuscita ad avere un colloquio con i suoi assistiti? "Si, anche se è difficile a causa del Coronavirus. I detenuti vengono portati uno alla volta dagli avvocati. Secondo me è un controsenso: stanno in tre o quattro in una cella di pochi metri quadrati, ma il colloquio possono farlo solo uno alla volta". Quali sono le loro condizioni di salute? "Per quanto riguarda l’incolumità fisica stanno bene, perché non ci sono casi di rappresaglia sui detenuti da parte della penitenziaria. Chi viene dall’esterno, come noi avvocati, deve rispettare le misure. Dentro però ci sono molti problemi, i detenuti sono ammassati fra loro: il sovraffollamento già esisteva e adesso dopo la rivolta sono agibili due piani su tre. Non c’è un estremo rispetto di quelle che sono le regole imposte dal governo sulla distanza. I poliziotti hanno mascherine vecchie e ai detenuti non è stato fornito materiale". La rivolta ha altre motivazioni, oltre alle misure restrittive imposte dal Governo? "Il sovraffollamento, soprattutto. La situazione è oggettivamente insostenibile. Sicuramente la sospensione dei colloqui con i familiari imposta dal decreto è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Pur temendo il contagio, non comprendono questo distacco totale dal mondo esterno. Forse andavano attivati da subito i colloqui via skype, magari la situazione non sarebbe degenerata fino a questo punto". Nelle carceri italiane dove non ci sono state rivolte violente i detenuti hanno comunque protestato. Che cosa si chiede principalmente? "Pensando al lungo periodo, aspettano tutti una riforma penitenziaria. Per molti di loro la rivolta è già una storia vecchia. La mente di una persona carcerata ha un approccio diverso agli eventi. In carcere alcuni diritti fondamentali sono violati da anni e quindi è il momento che lo Stato ne prenda atto. Indipendentemente dalla partecipazione o dalla condanna verso la rivolta, in questo momento tutti temono il trasferimento. Anche i familiari sono preoccupati, perché non hanno avuto contatti con i detenuti da due settimane". Nel decreto "Cura Italia" sono previste misure alternative alla detenzione per chi ha un residuo pena inferiore ai 18 mesi. Che ne pensa? "Alcuni colleghi mi hanno detto che già qualche detenuto ha beneficiato degli arresti domiciliari. Lo stesso ministero sta incentivando l’uso del braccialetto elettronico. Però in Italia mancano gli strumenti tecnologici sufficienti. Chi arriva per primo riuscirà a prenderlo, chi arriva tardi purtroppo rimarrà dov’è o avrà una misura diversa. Il ministero dovrebbe fornire più braccialetti. Purtroppo si sta aspettando con ansia una riforma penitenziaria, che rischia di passare in secondo piano anche questa volta a causa dell’emergenza sanitaria". Milano. A San Vittore un positivo al Covid-19 tra i detenuti cityrumors.it, 19 marzo 2020 C’è anche un detenuto nel carcere di San Vittore tra i contagiati dal Covid-19. Si tratta di un ragazzo di 19 anni, nato in Ghana, ricoverato all’ospedale Niguarda per gli effetti del virus. "Ha contratto l’infezione all’esterno dell’istituto dove non è presente dallo scorso dicembre", dice Giacinto Siciliano, direttore del carcere. Altri casi si sono già succeduti nei giorni scorsi sia nel carcere di Pavia che in quello di Voghera, della stessa provincia. Un altro caso era stato invece riscontrato a Sant’Anna di Modena prima che scoppiasse la rivolta a causa della quale sono morte nove persone. Altro motivo di discussione arriva dalla denuncia presentata da Francesco Maisto, garante dei detenuti del Comune di Milano, alla Procura per possibili maltrattamenti all’interno delle strutture carcerarie. "Ho ricevuto attraverso diverse vie di comunicazione informazioni su presunti maltrattamenti a Opera nel pomeriggio del 9 marzo scorso, rispetto ai quali ho chiesto l’attenzione della Procura perché ne accerti la veridicità e la consistenza, nonché al locale magistrato di Sorveglianza che ha effettuato due ispezioni". Milano. Parte l’inchiesta sui disordini nel carcere di Opera Il Messaggero, 19 marzo 2020 Dopo la protesta praticamente sincronizzata dei detenuti nelle carceri di tutta l’Italia, contro le restrizioni imposte dal governo sulle visite dei familiari e sui permessi premio per fronteggiare l’emergenza Coronavirus, si moltiplicano le inchieste dal Nord al Sud d’Italia. A Milano, dopo il primo fascicolo aperto nei giorni scorsi per i tafferugli e le devastazioni all’interno del carcere di San Vittore, gli inquirenti hanno deciso di aprire una seconda indagine per i disordini avvenuti lo scorso 9 marzo nel carcere di Opera. Al pm Alberto Nobili, capo del pool antiterrorismo, verranno a breve consegnati i video delle telecamere di sorveglianza della struttura. I reati ipotizzati dai magistrati vanno dalla devastazione alla resistenza a pubblico ufficiale, dal saccheggio alle lesioni. Nel fascicolo del pm Nobili verrà anche approfondita la questione di presunti maltrattamenti, denunciata nel comunicato diffuso da Francesco Maisto, Garante dei diritti delle persone private di libertà personale del Comune di Milano. Da quanto è stato riferito, i pm valuteranno se durante i disordini si siano verificati nel carcere di Opera episodi di violenza o reazioni esagerate da parte degli agenti di polizia penitenziaria, in risposta ai tafferugli. Milano. Maltrattamenti ai detenuti durante la protesta, la procura apre un fascicolo La Stampa, 19 marzo 2020 Indagine conoscitiva dopo la segnalazione del garante. Cosa è successo nel carcere di massima sicurezza di Opera durante la protesta dei detenuti del 9 marzo scorso? È quello che vuole accertare la procura di Milano che ha aperto un fascicolo a seguito della denuncia di maltrattamenti ai carcerati da parte del garante dei detenuti di Milano, Francesco Maisto. L’indagine, conoscitiva, è seguita dal pm Alberto Nobili. "Ho ricevuto attraverso diverse vie di comunicazione informazioni su presunti maltrattamenti a Opera nel pomeriggio del 9 marzo scorso - ha spiegato Maisto - Per questo ho chiesto l’attenzione della Procura perché ne accerti la veridicità e la consistenza, nonché al locale magistrato di Sorveglianza che ha effettuato due ispezioni". Venezia. Fogliata: "Esplodono con le criticità tutti i gravi problemi della giustizia" di Gianluca Amadori Il Gazzettino, 19 marzo 2020 "L’emergenza coronavirus ha fatto esplodere i gravi problemi della giustizia e le annose difficoltà di funzionamento degli uffici giudiziari, incidendo su un sistema già debole. Sono poco fiducioso per il futuro". È un’analisi dai toni preoccupati quella tratteggiata dal presidente della Camera penale veneziana, l’associazione che riunisce gli avvocati penalisti della provincia di Venezia. "C’è un clima di prostrazione e frustrazione a livello generale ma, nel settore giudiziario, la situazione se possibile è ancor peggiore", sentenzia Renzo Fogliata, facendo innanzitutto riferimento all’enorme confusione vissuta bei palazzi di Giustizia di tutto il Paese nelle prime settimane di allarme, quando le udienze proseguivano nel caos tra scuole chiuse e gran parte degli altri servizi sospesi. "Come penalisti siamo dispiaciuti per aver dovuto lottare per ottenere la dovuta sospensione delle udienze, che proseguivano a causa di un rimpallo di responsabilità e della mancata decisione del ministero - spiega il presidente della Camera penale - Per due settimane gli avvocati sono stati costretti a lavorare in modo non dignitoso, e con loro magistrati e cancellieri, mettendo a repentaglio la vita di molte famiglie e dell’intera comunità locale". Poi finalmente è arrivato il decreto che ha sancito il blocco dell’attività giudiziaria, inizialmente fino al 22 marzo, e poi prorogata al prossimo 15 aprile. "Ma questa doverosa decisione ha creato nuovi profili di confusione. Non è chiaro, infatti, quali termini siano stati sospesi: quelli relativi a tutti i procedimenti in corso, o soltanto quelli dei procedimenti che vengono rinviati durante il periodo di sospensione dell’attività. Dalla lettura della norma si tratta dei secondi, mentre l’interpretazione del ministero precisa che i termini sono tutti sospesi: ma come possono gli avvocati basarsi su un’interpretazione, con il rischio di decadere da ricorsi e impugnazioni? Il risultato è che, nell’incertezza, si continua a lavorare: una follia!". Ma non è l’unica. In molti uffici giudiziari penali, a causa della carenza di personale non accettano gli atti notificati via Pec, la posta elettronica certificata, e così i legali sono costretti a recarsi di persona al palazzo di giustizia, sfidando il divieto di spostamento. "È una delle tante contraddizioni di uno Stato per il quale qualsiasi documento trasmesso al cittadino via Pec è dato per notificato, ma il contrario non vale: l’avvocato non può utilizzare la Pec per comunicare con il Tribunale. Una situazione pazzesca". Un altro aspetto oggetto delle critiche della Camera penale riguarda le udienze a porte chiuse, celebrate nei primi giorni di emergenza, derogando al principio di massima pubblicità dei processi. E soprattutto l’estensione della possibilità di svolgere interrogatori e processi in video conferenza, finora consentita soltanto per le udienze che riguardano la criminalità organizzata, nelle quali gli imputati detenuti possono partecipare in collegamento audio e video restando in carcere. "I penalisti sono da sempre contrari alla videoconferenza perché il processo è un’altra cosa e prevede la presenza delle parti - spiega Fogliata. Ora il rischio è che, approfittando dell’emergenza, si estenda questa modalità a tutte le udienze: è necessario che vi siano rassicurazioni del governo affinché ciò non accada. Il ricorso alla videoconferenza deve essere provvisoria, in attesa della fine dell’emergenza coronavirus". Padova. La Via Crucis del Papa scritta dai detenuti di Riccardo Benotti ilnuovogiornale.it, 19 marzo 2020 L’annuncio l’ha dato direttamente Papa Francesco, cogliendo un po’ tutti di sorpresa, con una lettera personale al direttore delle quattro maggiori testate del Veneto ("Il Mattino di Padova", "La Nuova Venezia", "La Tribuna di Treviso", "Il Corriere delle Alpi"), Paolo Possamai: le meditazioni della prossima Via Crucis 2020 sono state preparate dalla parrocchia della Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova. Quattordici stazioni, quattordici storie intrecciate con la vita delle persone lì detenute, gli agenti di Polizia Penitenziaria, gli educatori carcerari, i volontari, coloro che amministrano la giustizia. Con chi, soprattutto, il carcere lo subisce, come le famiglie delle persone ristrette, le vittima di reato, chi è stato per anni accusato ingiustamente. A raccogliere e scrivere le meditazioni sono stati don Marco Pozza, teologo e cappellano della Casa di Reclusione Due Palazzi, e Tatiana Mario, giornalista e volontaria, che raccontano la loro esperienza in un momento assai difficile per il Paese alle prese con l’emergenza Coronavirus e con le proteste nelle carceri. Li abbiamo raggiunti telefonicamente. Le carceri italiane sono in ebollizione. Che messaggio vuole dare ai tanti detenuti che stanno vivendo questo momento di emergenza per la diffusione del Coronavirus? Don Pozza: Le difficoltà della vita in carcere e le restrizioni ancora maggiori che in questi giorni sono state attuate per scongiurare il diffondersi del Coronavirus all’interno dei penitenziari, devono essere affrontate alla luce di un senso di responsabilità e di unità nazionale al quale ciascuno di noi è chiamato. Sono tanti i detenuti che hanno compreso il momento che il Paese sta attraversando e, pur con fatica, si stanno adeguando alle indicazioni per garantire prima di tutto la loro salute e quella delle loro famiglie. A tutti vorrei rivolgere un appello a una maggiore concordia e, anche se difficile per ovvie ragioni, a quella serenità interiore ed esteriore cui bisogna aspirare. Perché il mondo del carcere come tema centrale della Via Crucis 2020? Don Pozza: Il carcere è un mondo caro a Papa Francesco. Sin dall’inizio del suo pontificato ha acceso le luci in questo scantinato della società che sono le patrie galere. La sua mossa vincente è stato il Giubileo Straordinario della Misericordia: il fatto di poter gustare, nella porta della propria cella, una porta-santa da attraversare è stata un’intuizione davvero profetica. Quel gesto, così semplice e pieno di drammatica poesia, ha sancito un amore profondo tra il Santo Padre e il mondo di chi abita e frequenta le carceri. Il fatto, poi, che il centro si capisca meglio dalla periferia - uno dei quattro principi a cui si rifà il Papa - rende più chiara questa scelta. E l’idea di fare scrivere le meditazioni proprio al vostro carcere com’è nata? Don Pozza: Tempo fa, lavorando ad un altro progetto, gli ho fatto leggere un testo scritto da un ragazzo detenuto: la scrittura, in carcere, è terapia, salvezza, per qualcuno una passione. Il Papa mi guarda, e mi dice: "Mi piacerebbe che, quest’anno, la Via Crucis del Venerdì Santo mi aiutaste voi a comporla". In quell’attimo ho avvertito la felicità di tutta la gente che abita in carcere. Il suo desiderio, però, era anche un altro: "Non la vorrei scritta solo dalle persone detenute: mi piacerebbe il racconto di una società coinvolta nel lavoro di recupero". Poi mi guarda: "Il mondo delle vittime, prima di tutto". In quel suo sguardo c’era tutta la sua visione d’insieme. Come avete organizzato il vostro lavoro per riuscire, poi, a scrivere le quattordici meditazioni? Mario: Dapprima abbiamo individuato, nella moltitudine di storie a disposizione nel mondo che ruota attorno al nostro carcere, le storie che, a nostro parere, meglio si abbinavano ai titoli delle stazioni. La proposta, poi, l’abbiamo rivolta alle quattordici che hanno accettato di lasciarsi coinvolgere. Il brano di Vangelo che proponevamo di meditare assieme è diventata la strada per entrare nelle profondità di sé stessi, ripercorrendo la propria biografia personale. Tutti, senza eccezione alcuna, hanno saputo raccontarsi senza paura, pur lasciando che il dolore e la fatica facessero la loro parte. Quali emozioni si provano ad aiutare il Papa nella stesura di una Via Crucis? Mario: Ci siamo sentiti davvero privilegiati e anche responsabili. Abbiamo imparato una volta di più a camminare in punta di piedi nelle vite degli altri, rispettandone il silenzio e accogliendo con discrezione anche le lacrime di cuori lacerati e vite straziate dal dolore, dal giudizio, dall’indifferenza. Ne abbiamo ricavato un grande insegnamento: anche dietro alla sofferenza più nera, si cela sempre un barlume di speranza, piccolo o grande che sia. Basta cercarlo, basta acconsentire di lasciarsi attraversare da quella scintilla. Dietro ogni meditazione c’è una storia, un nome. Nessuno di loro, il Venerdì Santo, avrà su di sé le luci della ribalta perché i nomi non verranno pronunciati. Non tanto per restare anonimi, ma perché il desiderio condiviso è stato quello di diventare la voce di tutti: di ogni persona detenuta nel mondo come di ogni persona vittima di reato, di ogni giudice o magistrato, di ogni volontario, di ogni agente di Polizia Penitenziaria come di ogni educatore. Come nasce l’amicizia che lega il mondo della vostra Casa di Reclusione con il Santo Padre? Don Pozza: Questa vicinanza così particolare risale a domenica 6 novembre 2016, mentre si stava per concludere il Giubileo delle persone carcerate. La mia vita personale e quella del nostro carcere sono state travolte da una telefonata del Papa, giunta improvvisa, e dall’incontro avvenuto pochi minuti dopo. Nessuno, quella sera, poteva immaginare che nulla sarebbe stato come prima. È nata così quest’amicizia affettuosa che, nel tempo, si è andata rafforzando. Non c’è volta nella quale noi due ci troviamo che Francesco non mi chieda: "Come stanno i nostri amici? Salutameli, vi porto nel mio cuore. Se hai bisogno di qualcosa, ci sono, lo sai". Questa sua vicinanza ci fa sentire "in una botte di ferro", come diciamo in Veneto. Bollate (Mi). Progetto Cavalli in carcere: "medicina" per abilità e autocontrollo cavallomagazine.it, 19 marzo 2020 I primi risultati dello studio dell’empatia e regolazione degli impulsi condotto da veterinari e psicologi dell’Università degli Studi di Milano presso l’associazione di volontariato Asom Cavalli in carcere tendono a dimostrare che il lavoro sinergico di cavalli e detenuti sviluppa abilità e autocontrollo. Presso la II Casa di Reclusione di Bollate un seminario ha presentato primi risultati dello studio condotto da veterinari e psicologi dell’Università di Milano circa l’empatia e la regolazione degli impulsi dei detenuti che lavorano con i 40 cavalli della scuderia operante all¹interno del carcere. L’attività equestre con i detenuti nel penitenziario di Bollate è diretta da Claudio Villa, grazie al progetto dell¹associazione di volontariato Asom, denominato "Cavalli in carcere". "Il lavoro svolto da cavalli e detenuti - come ha spiegato la Dott.ssa Emanuela Prato Previde, docente di psicologia alla facoltà di Medicina e Chirurgia dell¹Università degli Studi di Milano - tende a sviluppare delle abilità e l¹autocontrollo. Inoltre aiuta a inibire le reazioni impulsive, a osservare il comportamento non verbale e infine sviluppa la capacità di assumere punti di vista diversi dal proprio e preoccuparsi dello stato emotivo del cavallo". Il cavallo è una preda, è sensibile agli stimoli potenzialmente minacciosi e comunica le proprie emozioni con segnali non evidenti. Per questo lavorare con loro - i detenuti frequentano un corso di mascalcia - può aiutare i reclusi a sviluppare una ampia serie di abilità, fondamentali nelle relazioni interpersonali e possono essere valutate con test e questionari validati. Toh chi si rivede, la voglia di informazione di Roberto Vicaretti Il Dubbio, 19 marzo 2020 Però quella vera e attendibile: non perdiamo l’occasione. L’informazione mainstream ha riconquistato il posto che improvvisati blogger e siti non professionali le avevano tolto. Ma ora tocca a noi. Sarebbe stato meglio scoprirlo in una situazione completamente diversa. Ovviamente. Ma tra le eredità di questa grande tragedia globale ci sarà il rispetto delle competenze. A tutti i livelli. Ricordate i no-vax? L’epidemia di Covid-19 li ha relegati nell’angolo del dibattito pubblico. In Rete, poi, sembrano scomparsi gli esperti di tutto, avventati e improvvisati tuttologi che, nascosti dietro improbabili nickname predicavano urbi et orbi di medicina, diritto costituzionale, filosofia. E giornalismo. Eh sì, perché gli anni della disintermediazione social hanno messo a dura prova anche il nostro lavoro, la nostra professionalità e la nostra autorevolezza. Prima di tutto, però, una doverosa premessa: se abbiamo perso punti nel giudizio di lettori e telespettatori è, in primo luogo, per le nostre responsabilità, i nostri errori e per la nostra incapacità di stare dentro le novità e i ritmi della nuova epoca. Non solo non abbiamo capito gli effetti che la nuova realtà social avrebbero avuto sul nostro lavoro, ma, spesso, ci siamo attardati a esaltare le "magnifiche sorti e progressive" offerte dalla disintermediazione. È in questa dimensione che si sono alimentate le fake news, che hanno preso progressivamente piede le post verità e che la professione giornalistica ha perso progressivamente autorevolezza, alimentando così un circolo vizioso sempre più pericoloso per la tenuta del sistema democratico, del quale la libertà d’informazione resta un pilastro fondamentale. La guerra al Coronavirus ci ha ricordato le nostre responsabilità e, soprattutto, ha ricordato alla cittadinanza quanto sia importante la stampa e una corretta informazione. L’avvio dell’epidemia in Cina è stato segnato da censura, silenzi imposti dalle autorità e silenziamento di quanti avevano provato a denunciare la gravità della situazione. I limiti e i guasti dell’autoritarismo e dell’illiberalità del sistema cinese hanno dato un drammatico aiuto a Covid-19. E, allo stesso tempo, hanno ricordato a noi europei - in parte affascinati dall’affermazione di concetti come democratura e democrazia illiberale - quanto trasparenza e libera informazione siano indispensabili. Il Governo e le Regioni hanno fatto, va detto, la propria parte non lasciando spazio a zone grigie o a silenzi che avrebbero aggravato la situazione. Questo, ovviamente, non vuol dire che non ci siano stati errori. Ma i cittadini hanno potuto seguire ogni passaggio, hanno potuto farsi un’idea della discussione in atto e costruirsi un’opinione. E la stampa, la libera informazione ha fatto la sua parte. Abbiamo commesso errori, e altri ne commetteremo, ma abbiamo saputo adempiere alla nostra missione e gli italiani ce lo stanno riconoscendo. L’informazione mainstream - radio, tv, quotidiani, siti d’informazione - ha riconquistato il posto che improvvisati blogger, siti non giornalistici avevano preso. I cittadini, ora, scelgono noi per informarsi. È una rivincita? Forse. Ma, credo, dovremmo viverla con una conquista, anzi una riconquista. Ora, però, la partita per il mondo dell’informazione non è finita. Tocca a noi tenerci stretta questa ritrovata fiducia da parte degli italiani. Significa stare dritti in mezzo alla tempesta del Covid-19 continuando a raccontare i luoghi, i momenti, le difficoltà e i gesti di questa drammatica pagina di storia nazionale e mondiale. Tuttavia, dovremo ricordarci di questi giorni quando tutto sarà finito, non dimenticando le lezioni che il Coronavirus ci sta drammaticamente impartendo. Sarà nostro dovere andare a spulciare le prossime leggi di bilancio per vedere quanti soldi saranno destinati alla sanità pubblica, quanto spenderemo in ricerca. Sarà nostro dovere tenere alta l’attenzione sui temi dell’ambiente e dell’inquinamento che, lo dicono gli esperti, sono fattori centrali nella diffusione delle malattie. Dovremo, infine, non tornare seduti sulle veline che arrivano dagli uffici stampa dei partiti e del Palazzo per riprenderci il nostro posto nel racconto della politica, senza assistere impotenti al dilagare della disintermediazione, del rapporto diretto - e, inevitabilmente, squilibrato - tra il leader di turno, che attraverso i social diffonde la sua verità, e i cittadini. Il nostro lavoro è fondamentale per la democrazia e per la vita civile. D’altra parte, cosa si può acquistare tranquillamente anche in questi giorni difficili di limitazione delle uscite di # iorestoacasa? I farmaci, il cibo e i quotidiani: il necessario per vivere… liberamente. Operai e detenuti i più a rischio, per lo Stato non sono persone di Fausto Bertinotti Il Riformista, 19 marzo 2020 Qualcosa si muove se non ancora nelle reti televisive e nei talk show, almeno con qualche primo intervento sulla grande stampa. Tra gli altri, Piero Ignazi su La Repubblica si interroga sul rapporto tra le misure antivirus e lo stato della democrazia, sulla sospensione delle libertà individuali. Sul Riformista avevamo provato a indagare il lato nascosto della decisione, chi in realtà prende le decisioni e come le prende. Non sono in discussione né il ruolo della scienza né l’attività del governo in una società civile organizzata e in un paese democratico. Però non deve sfuggire, dietro la necessità di prendere misure efficaci contro un pericolo reale (cioè la diffusione del virus e la possibilità che il sistema sanitario nazionale non riesca più a farvi fronte adeguatamente) la costruzione non necessariamente consapevole di un regime a-democratico: un regime proprio fondato sullo stato di eccezione. Si costituisce così una particolare forma di governo fondata sul connubio tra esperti e governanti che sequestra ogni decisione strategica rendendola indiscutibile. Nasce una nuova autorità, un nuovo decisore, fuori dal circuito classico della democrazia rappresentativa. L’opposizione può contrastare questo o quel provvedimento, e lo fa, ma solo per rivendicare la propria candidatura al governo del Paese nello stesso sistema. La critica di sistema e alla filosofia generale che ispira le singole scelte è bandita, così come il ruolo della politica. Per pensare a quanto ci si stia allontanando dalla sua sovranità, esercitata in nome del popolo, basti ricordare la famosa formula di Alcide De Gasperi: datemi su un problema i pareri diversi degli esperti e io, la politica, deciderò cosa fare. Uno studioso come Ignazi, non appartenente a quell’area di intellettuali che lavora sullo stato di eccezione, ci dice ora che "l’eccezionalità del momento è presente a tutti e ciascuno deve fare il possibile per evitare che il contagio si diffonda. Allo stesso tempo, però, va ribadito che questa situazione deve essere limitata nel tempo e non prorogabile qualunque cosa succeda, in quanto intacca i diritti inalienabili della persona". Bene, ma non si deve derubricare l’analisi critica su ciò che è accaduto e su quel che continua ad accadere, e alle ragioni di fondo addotte affinché questo accada. Anche per far venire alla luce ciò che già preesisteva al virus in questa crisi della democrazia, in questa eclissi della democrazia rappresentativa reale così come, nel conflitto sociale nella grande politica, si era invece affermata nei trent’anni gloriosi dopo l’avvento delle costituzioni democratiche. Le sue radici trascendono la dimensione istituzionale perché raggiungono i tanti versanti della nuova e vecchia questione sociale a cui si allude oggi quando si parla dell’esplodere della disuguaglianza. Se quella sanità pubblica che ancora afferma il suo primato contro la privatizzazione è stata mutilata dalle chiusure di ospedali, dalla perdita di decine di migliaia di posti letto, dal taglio di medici e di infermieri ed è stato penalizzato da una spesa pubblica ridicola per la ricerca - tanto da essere a rischio di fronte alla pandemia - ci sarà pure una spiegazione di questa che appare oggi come una follia. Ma ieri è stata il pensiero pressoché unanime di tutte le principali forze politiche del Paese. È stata la forza di una certa economia, il finanz-capitalismo, e di una ideologia, perché un’ideologia è quella del primato del mercato e quella delle compatibilità economiche con esso. Così è stato nel caso dell’austerity. Lo stato sociale, spia e sostegno di una particolare concezione della democrazia, è stato destrutturato. Ancora di più lo è stato il lavoro; il potere, i diritti, la dignità connessi alla figura dei lavoratori sono stati messi in discussione radicalmente. Quella concezione pratica della democrazia è stata annichilita, lo stesso lavoratore è stato desoggettivizzato e ridotto a merce. La prima cosa che necessiterebbe è dunque capire quale disastro sia stata la politica dell’ultimo quarto di secolo. E ora? Ora lo stato di eccezione, la forma di un nuovo governo neoautoritario, non solo prevarica le istituzioni democratiche, ma si mette in atto. Le assemblee elettive, il Parlamento, sono ridotti anche fisicamente a simulacri, ma questo sistema insidia i diritti delle persone e fa prove di un processo più generale di spoliazione. La spoliazione, la sottrazione alle persone delle loro facoltà di scelta si diffonde per gradi e procede per salti, come a sperimentare sulle parti più esposte, su quelle più infragilite dalla loro specifica condizione sociale, un potere assoluto. La nuda vita, i corpi diventano l’oggetto di una contesa nascosta nella quale il nuovo potere ti dice che tu puoi soltanto subire. Accade in particolare per gli invisibili, per quelle realtà sociali che entrano nel cono d’ombra della democrazia del nostro tempo. I carcerati lo sono da così gran tempo da farli vivere in una condizione di illegalità, di sistematica mancanza di rispetto della legge. Gli operai lo sono da meno tempo e, pour cause, meno strutturalmente. Eppure sono, anche se diversamente, gli uni e gli altri diventati invisibili. Alla prova del virus si ordinano regimi speciali, le regole di salvaguardia dell’integrità fisica delle persone non valgono per gli invisibili. Il sovraffollamento delle carceri lo impedisce, ma anche le esigenze del sistema produttivo, dell’economia, si chiudono fino a sospendere quelle dei lavoratori. Per gli uni e gli altri, pure nella loro radicale diversità, non valgono le distanze di sicurezza che valgono per i cittadini, per le persone. La cosa per un certo tempo sembra non destare scandalo, appare come una parte del nuovo funzionamento del sistema, come organica a questo sistema nel momento dell’emergenza. La limitazione delle libertà individuali per tutti diventa per qualcuno persino la spoliazione della sua umanità, una cosificazione. Ma i corpi violati spingono al rifiuto. Le carceri esplodono. Il detonatore è costituito dalle misure contro il virus che negano loro l’ultimo rapporto con l’altro pezzo dell’umanità, con il mondo, con l’amore. Scoppia allora la rivolta, che questo giornale ha documentato con partecipazione intelligente e sofferta, fino a dentro il centro delle grandi città, da San Vittore a Regina Coeli. Nel Paese che è stato di Mario Gozzini c’è chi prima di prendere questa decisione estrema ha discusso con i detenuti, con il personale di sorveglianza, con le popolazioni del carcere? La rivolta porta dentro di tutto, anche il peggio, ma anche domande di civiltà. Essa è una reazione a una condizione strutturale e ad una eccezionale. Quella strutturale è il sovraffollamento delle carceri, l’aumento provocato da una pessima legislazione sui detenuti, dalle loro condizioni di vita a volte infernali. Quella eccezionale sono le misure di emergenza. Ed è un modo dello stato attuale quello di fronteggiare l’emergenza negandoli come persona. La spoliazione e la rivolta. Chissà se sollecitato da Rita Bernardini e dai suoi compagni di strada qualcuno nelle istituzioni repubblicane lassù capisca cosa sta accadendo in questa parte negata della società. "Non siamo carne da macello" hanno gridato gli operai organizzando gli scioperi spontanei. "Gli operai hanno paura, si sospendano le attività non necessarie" dicono i sindacalisti torinesi commentando gli scioperi. Già, hanno paura anche gli operai. Perché anche gli operai sono persone. Le fabbriche che si sono fermate sono molte: in Piemonte, nel milanese, in Toscana, in Emilia, a Genova e a Taranto, nelle multinazionali come nelle medie fabbriche. È stata una diffusa ribellione alla negazione di sé del lavoratore come persona. Un pezzo grande della società e dai molti rinvii a questioni più generali si è messo in evidenza, ha rotto l’invisibilità almeno per un momento. Non si tratta neppure di quella condivisione estrema di deprivazione dei diritti del lavoro costituita dalla moltitudine dei precari strutturali fino ai rider. Si tratta di quella popolazione lavorativa che una sociologia cinica e ignorante ha definito "dei garantiti". Si tratta del lavoro più classico, tradizionale, quello che i diritti sociali se li era conquistati. Negati come cittadini, sfruttati come lavoratori ora, nella lotta dello stato contro il virus, questi vengono spogliati del loro essere persona, vengono spogliati di umanità. Una operaia ha detto che lei lavorava tutti questi giorni eccezionali gomito a gomito con le sue compagne di lavoro. Tutte legate allo stesso ciclo produttivo. E allora si è chiesta se la sua fabbrica fosse immune al virus perché a saperlo ci avrebbe portato la famiglia intera. In realtà la fabbrica non è immune, sono i lavoratori a non essere considerati persone, dunque come ognuno esposti al rischio. C’è qualcuno che aveva sentito la loro opinione, c’è stata una qualche partecipazione alle scelte che riguardavano la loro stessa vita? La diffusione improvvisa e imprevista degli scioperi, della ribellione, ha aperto ora un varco nell’ordinamento decisionale che li ha ignorati e che li considera come un oggetto della stessa decisione. Si è avviata infatti una contrattazione diffusa, fabbrica per fabbrica, tra i sindacalisti che rappresentano i lavoratori delle aziende e l’azienda stessa, una trattativa per riorganizzare il lavoro in modo da garantire la salute dei lavoratori. È uno spiraglio, una breccia aperta sul futuro ma anche, forse, una breccia per recuperare il passato, quando la compagine lavorativa, costruita attorno al suo delegato, costruiva con gli esperti di una scienza critica, un modello di lavoro fondato sulla salute. La sorveglianza elettronica non è la risposta al Coronavirus di Arturo Di Corinto Il Manifesto, 19 marzo 2020 Si moltiplicano le richieste di geolocalizzare i cittadini per limitare l’infezione. Ma si può fare solo nel rispetto della privacy e in un quadro di garanzie costituzionali. La gestione delle misure per arginare il Coronavirus ha rivelato la totale, marchiana e colpevole incapacità dei leader europei ed occidentali di preservare la salute pubblica. Macron lo sapeva dai primi di gennaio, Johnson ha temporeggiato, Trump ha sottovalutato e la Merkel tentennato. L’Italia ha fatto meglio. Tuttavia ritardi, errori nella comunicazione, notizie trapelate a giornalisti amici, impreparazione e indecisioni, hanno favorito la pandemia. Come annunciare la zona rossa in Lombardia senza chiudere le stazioni. Adesso si pensa di correre ai ripari utilizzando strumenti tecnologici di sorveglianza per tracciare gli spostamenti della popolazione. L’unico leader "occidentale" capace di dirlo a chiare lettere è stato il capo ad interim del governo israeliano, Benjamin Netanyahu. Nel suo discorso alla nazione ha citato l’uso efficace dei dati telefonici a Taiwan per garantire la quarantena. Come pure è successo nell’autoritaria Singapore e nella Cina che prima aveva negato e poi censurato la notizia dell’epidemia. Nethanyahu è stato molto criticato perché alludeva all’uso di sistemi di sorveglianza di tipo militare usati dall’antiterrorismo del suo paese e, pare, ai tool di una start up di nome Rayzone che usa Big Data, intercettazioni telefoniche, geolocalizzazione e fonti aperte - social network, social media e blog - per effettuare la sorveglianza elettronica del target. Ora un approccio populista al problema chiede di decidere tra la salute e la privacy anche da noi. È una falsa dicotomia. I paesi democratici devono trovare un giusto equilibrio fra i due diritti fondamentali e preservarli entrambi. Si potrà fare in Italia? Sappiamo che in caso di eventi eccezionali è possibile derogare dalla Gdpr, il regolamento europeo per la protezione dei dati personali. Ma a patto di capirne l’utilità. Secondo il professore Michael Birnhack dell’università di Tel Aviv è possibile applicare un criterio proporzionale di sorveglianza per garantire privacy e salute pubblica. A cominciare dai target del Big Brother elettronico. Per primi, i pazienti. Hanno bisogno delle migliori cure, la loro privacy è ridotta dall’ospedalizzazione ma protetta. La loro anamnesi dice tutto. Secondo, le persone isolate in casa. Chi esce viola la legge. Dovrebbe essere un deterrente sufficiente per chi non ha motivi impellenti. Geolocalizzare quelli che consapevolmente violano le restrizioni potrebbe non servire perché lascerebbero il telefono a casa. Terzo, i malati di cui si vuole ricostruire il percorso dell’infezione. Non tutti ricordano dove sono stati prima di essere infettati. I dati del cellulare possono aiutare. Secondo il professor Birnhack la maggior parte delle persone è pronta a cedere quei dati e consentirne l’utilizzo. Rimarrebbero quelli che devono nascondere la frequentazione con pusher, amanti e prostitute. Infine la localizzazione di chi è stato esposto a un paziente conclamato. Qui ogni informazione serve. Per avvisare quelli potenzialmente contagiati la sorveglianza telefonica può aiutare. Si può fare con i dati delle compagnie telefoniche ma è una misura probabilmente sproporzionata. Secondo Birnhack si può fare il contrario: chiedere alle compagnie di contattare chi era nel posto sbagliato al momento sbagliato, offrendo una serie di garanzie legali. Le possiamo immaginare: l’adeguata protezione cibernetica di quei dati; l’uso temporaneo e la distruzione degli stessi una volta utilizzati; il divieto di usarli per altri fini; un comitato di vigilanza sull’intero processo e il coinvolgimento del Garante della Privacy. "Tutelare i migranti in accoglienza per evitare i contagi" di Adriana Pollice Il Manifesto, 19 marzo 2020 In Lombardia. Casi di Covid-19 nei centri, dove non c’è isolamento. L’emergenza coronavirus rischia di far saltare il sistema di accoglienza. Il delegato Anci all’immigrazione, il sindaco di Prato Matteo Biffoni, ha scritto al viceministro dell’Interno Matteo Mauri per sollecitare il governo su tre punti: conferma del budget già stanziato, evitando tagli per sopperire ad altri comparti; proroga dei progetti e superamento, per il periodo di emergenza, del sistema delle gare per dare continuità ai servizi sul territorio; una soluzione che aiuti i cittadini stranieri con permessi di soggiorno in scadenza, come l’estensione della validità dei titoli in essere, fondamentale per conservare il pieno accesso alla Sanità pubblica. Sono 85.324 i migranti inseriti nel circuito italiano: 254 negli hotspot, 62.650 nei Cas, 22.420 nei centri Siproimi (ex Sprar). La cifra più alta è nell’epicentro del Covid-19, la Lombardia: 9.898 nei Cas e solo 1.998 nei Siproimi, 292 i minori non accompagnati. Seguita dall’Emilia-Romagna con 6.741 nei Cas, 2.038 negli ex Sprar, 480 i minori non accompagnati. "Mauri ha aperto subito un’interlocuzione - spiega Biffoni - ieri abbiamo mandato una nota più tecnica, il percorso è in itinere. A Milano, ad esempio, so che si sono autorganizzati per far scendere i livelli di affollamento nei centri. Il problema è la quarantena per chi è costretto a farla e risiede in strutture dove non ci sono le condizioni di sicurezza. Si rischia "l’effetto Diamond Princess" con il contagio che si estende a tutta la camerata". La comunicazione con i migranti altro tema sul tavolo: "In alcuni situazioni - prosegue Biffoni - si è dovuto intervenire con energia per convincerli a stare nelle strutture. La ministra Luciana Lamorgese si era già impegnata a potenziare l’insegnare dell’italiano, fondamentale in questo momento. La scelta di tagliare i servizi all’accoglienza del primo decreto Sicurezza si sta rivelando nella sua pochezza: ora è difficile comunicare con i migranti, spiegare la situazione. Il sistema va ripensato: ci vogliono i corsi di lingua e i lavori socialmente utili per creare legami di comunità. Legami che avrebbero aiutato in questo momento difficile". In Lombardia si sono registrati i primi casi ufficiali di migranti positivi al Covid-19. A Camparada, piccolo comune in provincia di Monza, è stato contagiato un migrante che viveva in una struttura che ospita 130 richiedenti asilo. A Milano un ragazzo è finito in isolamento nell’ospedale militare di Baggio. Il centro che l’ospitava è stata sanificato e metà dei residenti trasferiti. "Serve un piano di ridefinizione delle strutture di accoglienza - ha commentato l’europarlamentare Pd Pierfrancesco Majorino, ex assessore alle Politiche sociali meneghino -. Si tratta di ambienti portati ad alimentare il contagio, perché hanno camerate con 4 o 6 posti letto". A Bologna la consigliera comunale Emily Clancy ieri ha denunciato: "Ci risulta che al Cas di via Mattei non sia ancora stata fatta la sanificazione, non siano disponibili le mascherine per i migranti che mangiano ancora nella mensa comune e dormono in camere da dieci letti". A Caserta l’Ex Canapificio gestisce il progetto Siproimi: "I dispositivi di protezione ce li siamo dovuti comprare da soli e adesso abbiamo difficoltà a trovarli - spiega Mimma D’Amico -. Il sistema di accoglienza diffuso è l’unico efficace in questa crisi: i richiedenti asilo da noi sono come piccole famiglie in appartamento e, come gli italiani, non escono da casa. Non è come nei Cas, riflettiamoci per il futuro. Con l’emergenza sanitaria le strutture collettive come Cas e hotspot andrebbero chiuse facendo intervenire le prefetture e i servizi che coordina i Siproimi". L’Ex Canapificio ha organizzato una rete con altre associazioni, Caserta solidale, attraverso cui raccolgono le richieste di cibo o farmici. A Castel Volturno, dove la comunità migrante può raggiungere le 30mila persone, è più dura: "Dopo due settimane di isolamento c’è il problema del reddito, che per loro si è azzerato. Rischiano di rimanere senza viveri. Ieri il comune, scortato dalla polizia, ha cominciato a distribuire pacchi di generi alimentari. Stiamo cercando di organizzarci per fare speakeraggio con la Protezione civile, per ottenere non solo l’effetto deterrenza ma anche per coinvolgere i cittadini africani. Coronavirus, le Ong fermano le missioni di salvataggio in mare. Migranti senza più soccorsi di Alessandra Ziniti La Repubblica, 19 marzo 2020 Mediterranea: "La pandemia ci impone di congelare l’attività operativa. Scelta obbligata anche se le partenze sono ricominciate". Bloccate in porto anche Ocean Viking, Sea Watch e Open Arms. Le partenze dei migranti dalle coste africane sono riprese ma il Mediterraneo è destinato a rimanere senza soccorsi per chissà quanto tempo. Il coronavirus ferma anche le navi umanitarie e, una dietro l’altra, le Ong comunicano a malincuore la sospensione delle missioni. "Una comunicazione inevitabile e difficile - dice Mediterranea, che pure nelle scorse settimane si era vista finalmente restituire le due navi, Mare Jonio e Alex, sequestrate per mesi dal decreto sicurezza - Eravamo pronti a ripartire con la tenacia e la determinazione di sempre: pronte le navi, pronti gli equipaggi. Ma lo svilupparsi della pandemia e le sacrosante misure adottate per tentare il contenimento del contagio e per tentare di salvare le persone più fragili ed esposte, ci impone oggi di congelare l’attività operativa in mare. Gli effetti di questa scelta obbligata ci fanno soffrire perché in mare c’è chi rischia la morte ogni giorno". Mediterranea confida nella disponibilità, per i soccorsi in mare delle navi civili che continuano ad operare. "Daremo loro ogni supporto possibile". Restano al momento in porto anche le navi della Sea Watch e di Sos Mediterranée e Medici senza frontiere che hanno finito il periodo di quarantena dopo gli ultimi due sbarchi di migranti a Pozzallo e a Messina. E ferma è anche da una ventina di giorni per riparazione, la spagnola Open Arms. "Stiamo cercando di capire in che modo poter tornare in mare in sicurezza per tutti. Purtroppo in mare c’è bisogno di noi nonostante il coronavirus", dice la portavoce Veronica Alfonsi. Le partenze dall’Africa comunque non si fermano. Il centralino Alarm phone negli ultimi giorni ha segnalato diverse imbarcazioni in difficoltà in zona Sar libica e maltese. E preoccupano gli sbarchi autonomi sull’isola di Lampedusa dove nell’ultima settimana sono arrivate 150 persone. Il sindaco Salvatore Martello ne ha disposto subito la messa in quarantena nell’hot spot ma ha chiesto al ministro dell’Interno Lamorgese un protocollo per il loro immediato trasferimento sulla terraferma per la mancanza delle necessarie misure a salvaguardia della popolazione. Anche in Africa ormai sono centinaia i casi di coronavirus registrati nei Paesi di origine dei migranti e anche la Libia ha dichiarato lo stato di emergenza per l’epidemia. Al momento le Ong che hanno volontari impiegati nei servizi di assistenza medica e paramedica nelle aree più colpite dal territorio sono Medici senza frontiere, la cui presidente Claudia Lodesani da giorni sta lavorando a Codogno. Ma anche la piattaforma di terra di Mediterranea ha messo a disposizione le sue forze. Francia. Anche le prigioni francesi in rivolta per il Covid-19 di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 19 marzo 2020 La scintilla è scattata con la sospensione dei colloqui. L’epidemia di coronavirus fa esplodere proteste anche nelle carceri francesi. Lunedì scorso è morto in ospedale un detenuto del penitenziario di Fresnes nella Val de Marne. Aveva 74 anni e si era sentito male il venerdì della scorsa settimana, la ministra della giustizia Belloubet ha dichiarato che "era anziano e molto vulnerabile, con problemi di salute. Era diabetico". Ma al di là del singolo episodio il mondo carcerario francese è in subbuglio, a Fresnes, una delle prigioni più fatiscenti del paese, sono risultati contagiati anche due infermieri e il direttore delle risorse umane. L’allarme è scattato con il divieto in tutte le carceri di visite dei parenti e dei trasferimenti. Come in Italia la misura ha immediatamente provocato la reazione dei detenuti, lunedì a Grasse, sud della Francia, un centinaio di internati ha dato vita ad una rivolta, in molti sono saliti sui tetti lanciando oggetti contro gli agenti. Non si sono registrati feriti e al termine della giornata la protesta è rientrata. Ufficialmente si dice che i detenuti credevano che fossero sospese anche le passeggiate e la consegna dei pacchi, cosa poi risultata non veritiera. La prigione di Grasse ospita 673 detenuti a fronte di una disponibilità di 574 posti. Il sovraffollamento e la paura sono i detonatori delle esplosioni di rabbia. Lo dimostra anche ciò che è successo a Metz, la zona del Grand Est che è una di quelle dove si registra il maggior numero di contagi da coronavirus. Nella prigione della città si sono ripetute così le stesse scene di rabbia anche se in misura minore. L’irrigidimento dei dispositivi nelle carceri non riguarda solo le visite ma anche la sospensione della formazione professionale e culturale. Un aggravio ulteriore per le condizioni dei detenuti che sembrano essere sempre al secondo posto rispetto a quella che l’Amministrazione Penitenziaria (Dap) francese ritiene la "continuità del servizio penitenziario". Negli istituti, sono state distribuite mascherine agli agenti e kit d’igiene ai detenuti ma non viene fornita la soluzione idroalcolica per il divieto di far entrare alcool nei penitenziari. Anche gli spostamenti interni sono continuamente sotto osservazione. Le celle singole per isolamento vengono viste come un’ulteriore forma di punizione. Su tutto regnano le politiche che quest’anno hanno riempito i penitenziari con 70.651 persone mentre i posti sono solo 61.080. Secondo l’Osservatorio internazionale sulle prigioni spesso le celle sono condivise da più 3 carcerati e almeno 1600 persone sono costrette a dormire ogni notte su materassi a terra. Le situazioni peggiori si verificano nelle carceri per detenuti in custodia cautelare o che devono scontare brevi pene.