Domiciliari immediati per 3mila detenuti su 61mila. E l’allarme carceri resta di Valentina Errante Il Messaggero, 18 marzo 2020 La previsione del governo è di circa tremila persone. Sono i detenuti che, in base al decreto del governo, hanno una pena o un residuo pena di diciotto mesi e, fino al prossimo 30 giugno, potranno ottenere gli arresti domiciliari. Il braccialetto elettronico è previsto per chi abbia ancora più di sei mesi da scontare. La norma, in realtà, era già prevista, dal 2010, dall’ordinamento penitenziario, ma il provvedimento di Palazzo Chigi, varato per contenere l’emergenza sanitaria anche nelle carceri, contempla adesso una procedura semplificata per ottenere il beneficio. Il nodo rimane il numero esiguo di detenuti interessati, rispetto a una popolazione carceraria che raggiunge quasi le 6lmila unità. E anche la disponibilità dei braccialetti che, secondo il ministero, saranno distribuiti in base alle esigenze sanitarie dei singoli istituti. Per Antigone, l’associazione che si occupa dei diritti in carcere, il provvedimento avrebbe dovuto interessare almeno 13mila persone. E la gestione dell’emergenza Covid-19 resta aperta, soprattutto per quanto riguarda gli spazi e il problema dei necessari casi di isolamento per le quarantene. Non tutti i detenuti che abbiano un residuo pena di diciotto mesi, però, potranno accedere alla procedura semplificata. Sarà escluso dalla procedura veloce chi è in carcere per reati particolarmente gravi, come che prevedono il regime del 41bis, ossia l’isolamento, o i condannati per i maltrattamenti in famiglia o stalking. Restano fuori anche tutti coloro che, nei giorni scorsi, abbiano partecipato alle rivolte nelle carceri italiane. L’intervento del 2010, come sottolinea la relazione che accompagna il provvedimento del governo, nasceva dalla necessità di “alleggerire sia il carico gravante sull’amministrazione, sia la stessa esecuzione della pena, in favore dei soggetti destinati alla detenzione extracarceraria e per tutti coloro che presso la struttura carceraria debbono continuare a permanervi”. Ma il numero interessato resta limitato come riconosce lo stesso Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria. Un modello, si legge, già sperimentato che, però “potrà trovare applicazione nei confronti di un limitato numero di detenuti chiamati a scontare una pena residua non superiore a 18 mesi (contingente stimato in un massimo di 3.000 unità)”. L’impatto sarà minimo, rispetto alle drammatiche necessità, commenta Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “Il dl si è limitato a una misura di modifica della legge sulla detenzione domiciliare del 2010, che già consentiva di scontare presso il proprio domicilio l’ultima parte della pena”, aggiunge. Ma la polemica scoppia proprio nel giorno in cui arriva la notizia dei primi casi di detenuti positivi: sono in tutto 10 dall’inizio dell’emergenza, uno di loro è un detenuto del carcere di Voghera. E intanto Matteo Salvini ribadisce il no all’indulto e solidarizza con gli agenti della polizia penitenziaria. Carceri, le norme approvate non riparano il disastro Bonafede di Cosimo Maria Ferri* Il Riformista, 18 marzo 2020 Il ministro della Giustizia che ha cancellato la riforma Orlando, ora deve assumersi la responsabilità di intervenire in maniera efficace e veloce sul sovraffollamento. Non lo sta facendo. Sono anni che parliamo di sovraffollamento carcerario, di pena, di carceri, di rieducazione e trattamento. Tutti i ministri una volta insediatisi hanno toccato il tema. Il ministro Bonafede sul punto ha iniziato con una certezza bloccare la riforma Orlando che aveva avuto il coraggio di avviare un percorso nuovo lanciando gli Stati Generali delle Carceri che hanno offerto la possibilità di raccogliere contributi non solo di giuristi ma anche della società civile. È storia vecchia, ma una premessa era necessaria perché oggi questo atteggiamento iniziale del ministro Bonafede sta complicando la gestione dell’emergenza carceri alla luce del Covid-19. Le morti dei detenuti, le evasioni, i danneggiamenti, le aggressioni agli agenti, le proteste dei familiari a cui abbiamo assistito in queste settimane sono senza precedenti e sono episodi gravissimi, di fronte ai quali occorrono soluzioni chiare ed efficaci per superare questo momento storico eccezionale. È il momento dell’equilibrio e della decisione senza guardare al consenso, ma solo al bene del Paese e alla salute di tutti come ci impone l’art. 32 della nostra Costituzione. Il ministro della Giustizia deve assumersi la responsabilità, senza ulteriori ritardi che rischiano di vanificare gli effetti di ogni futura decisione in materia penitenziaria. Provo ad offrire qualche stimolo di riflessione prendendo spunto dal documento del coordinamento nazionale dei Magistrati di Sorveglianza (Conams) che indica con chiarezza la strada in primo luogo un piano di accesso rapido a misure alternative alla detenzione per riportare velocemente il numero dei detenuti entro il numero di capienza prevista degli istituti di pena, allo scopo di mettere le direzioni degli Istituti di pena in condizioni di gestire in maniera funzionale e tempestiva eventuali situazioni critiche dal punto di vista sanitario e di circoscrivere eventuali contagi. Va infatti prevista una norma che consenta di prevedere una misura alternativa speciale con un limite di pena residua superiore ai diciotto mesi da indicare per accedere alla detenzione domiciliare speciale per Covid-19. La strada può essere quella di introdurre una norma simile allo svuota carceri (legge 199/2010) come misura temporanea ed eccezionale, ma con un limite di pena maggiore di quello oggi in vigore (diciotto mesi residui), che consentirebbe di accedere ad un reale e non solo apparente sfollamento. Mantenere il medesimo limite di pena non porterà nessun effetto immediato, in quanto l’istituto introdotto dalla legge 199/2010 risulta già gestito con carattere di urgenza dai magistrati di sorveglianza, che non hanno arretrato in tale settore. Occorre aumentare il limite di pena residua e restringere l’accesso alle autorizzazioni ad allontanarsi dal domicilio solo alle esigenze di salute, imponendo il divieto di concedere deroghe al regime di detenzione domiciliare per le varie esigenze di vita familiare La violazione delle prescrizioni è punita ai sensi dell’art. 385 Cp e pertanto comporta garanzie di sicurezza sociale. È corretto mantenere l’esclusione all’accesso di tale misura per i condannati in espiazione dei reati inclusi nell’art 4 bis, ad es. omicidio, rapina aggravata, estorsione aggravata, reati di associazione mafiosa. Servono provvedimenti immediati con supporto di mezzi e risorse per gli uffici di sorveglianza. Un intervento però senza ritardo perché in questa situazione il contagio provocherebbe danni irreparabili alla salute del personale che lavora all’intenso e degli stessi detenuti e obbligherà il Ministro a prendere decisioni ancora più drastiche. Serve un coordinamento con le forze dell’ordine per verificare gli effettivi e reali domicili dichiarati ed occorre mantenere le competenze monocratiche del giudice di sorveglianza per velocizzare l’iter del procedimento e limitare gli incombenti delle cancellerie. Il magistrato valuterà come sempre la pericolosità del soggetto e la sussistenza dei presupposti, con possibilità di revoca immediata in caso di violazione delle misure o della mancanza sopravvenuta dei requisiti, con ripristino della detenzione in carcere. Non può essere eliminata dalla norma la valutazione discrezionale del pericolo di reiterazione dei reati o di fuga, requisito imprescindibile per poter accedere ai benefici penitenziari e che costituisce il nucleo essenziale dei provvedimenti del giudice di sorveglianza Inoltre devono essere posti in essere tutti i dispositivi per garantire la sicurezza e la salute di tutto il personale che lavora all’interno delle strutture penitenziarie e degli stessi detenuti, con rafforzamento degli organici del personale sanitario che lavora all’interno degli Istituti e con previsione di speciali misure sanitarie di prevenzione del contagio (es. tampone ai soggetti asintomatici). Va previsto un piano straordinario di assunzioni per la Polizia Penitenziaria e anche per altri profili professionali (es. educatori e psicologi) indispensabili all’interno del sistema penitenziario in questo delicato momento con aumento esponenziale della conflittualità e della gestione del disagio mentale aggravato dallo stato dei ristretti. Sono stati sospesi dai giudici di sorveglianza i benefici dei permessi premio per coltivare gli affetti familiari e del lavoro all’esterno e sono stati limitati i colloqui con i familiari per contenere l’emergenza epidemiologica). Occorre poi un serio e straordinario (ed immediato) coordinamento con le Regioni per l’organizzazione del sistema sanitario all’interno delle case circondariali e di reclusione del territorio, che necessita in questo periodo di nuove risorse e di una strategia finalizzata a questa emergenza sanitaria. Purtroppo però leggendo la bozza del decreto non trovo le risposte coraggiose auspicate, ma norme manifesto che ripropongono l’assetto giuridico già in essere da dieci anni e che non ha prodotto sino ad oggi l’auspicato superamento del sovraffollamento negli Istituti penitenziari. A breve, se il Ministro non interverrà, si troverà a gestire una grave emergenza sanitaria anche nel settore penitenziario. Quindi Coraggio Ministro, uniti ce la faremo ma ascolti tutti. *Componente Commissione Giustizia Camera dei deputati Il Coronavirus è arrivato in carcere: ora la diffusione fa paura di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 marzo 2020 Sono dieci i casi di positività riscontrati tra i detenuti. Colpiti anche gli agenti penitenziari. Ieri sono squillati i telefoni di tantissimi famigliari dei detenuti del carcere di Voghera. Sono stati proprio quest’ultimi a chiamarli per avvisare che almeno uno di loro è risultato affetto di coronavirus, dopo che mostrava da qualche giorno dei sintomi influenzali. Tutti i detenuti della sezione di Alta sorveglianza, circa sessanta, sono stati messi in quarantena. Sono stati gli agenti penitenziari stessi - dopo una breve battitura come protesta - a concedere loro la possibilità di poter chiamare tutti i giorni i propri cari e i rispettivi avvocati. C’è molta preoccupazione, tanto che ora gli avvocati hanno cominciato da subito a fare istanza di scarcerazione per evidenti ragioni sanitarie, perlomeno per chi è in misura cautelare. A pensare che l’associazione Yairaiha Onlus fece, i primi marzo, una prima segnalazione di un sospetto, poi, fortunatamente, risultato negativo. Nell’appello inviato al ministro in data 4 marzo l’associazione ha sollecitato un intervento immediato per la scarcerazione dei detenuti più vulnerabili che rappresentano un numero elevato. Ma purtroppo non parliamo dell’unico caso. Secondo il Dap sono 10, ad oggi, i casi di positività che sono stati riscontrati fra i detenuti sull’intero territorio nazionale in oltre 20 giorni, ovvero dal 22 febbraio scorso, quando sono stati varati i primi provvedimenti per fronteggiare l’emergenza. In alcuni istituti penitenziari ci sono stati casi di infezione non solo dei detenuti, ma anche del personale. Per ora è un numero marginale di persone. Secondo fonti della polizia penitenziaria due medici del carcere di Brescia sono risultati positivi al coronavirus, così come due detenuti a Pavia. Una situazione che va ad aggiungersi ad un’altra notizia di giornata, secondo cui un detenuto di 19 anni, originario del Ghana, che era recluso nel carcere di San Vittore, è risultato positivo al Covid- 19 e si trova attualmente ricoverato all’ospedale Niguarda di Milano. Nei giorni scorsi la notizia di una detenuta “nuova giunta” al carcere di Lecce, risultata infetta, subito trasferita. Fortunatamente era stata messa fin da subito all’isolamento come prevede il nuovo regolamento per fa fronte all’emergenza. Così come non mancano casi di agenti penitenziari risultati positivi al tampone. Per ora, precisiamo, si trattano di pochi casi, ma c’è il dato preoccupante che le carceri sono strapiene e la misura deflattiva - tra l’altro già esistente - del decretone non basta. Per questo l’associazione Antigone - assieme all’associazione nazionale partigiani, arci, Cgil e gruppo Abele - ha proposto delle misure per ridurre il numero dei detenuti e proteggere i più vulnerabili. Antigone, nell’appello, spiega che i posti disponibili nelle carceri italiane sono 50.931, cui vanno sottratti quelli resi inagibili nei giorni scorsi. I detenuti presenti, alla fine di febbraio, erano 61.230. Alcuni istituti arrivano a un tasso di affollamento del 190%. “Ogni giorno - si legge nell’appello - i detenuti sentono dire alla televisione che bisogna mantenere le distanze, salvo poi ritrovarsi in tre persone in celle da 12 metri quadri. Le condizioni igienico-sanitarie sono spesso precarie”. Nel 2019 Antigone ha visitato 100 istituti: in quasi la metà c’erano celle senza acqua calda, in più della metà c’erano celle senza doccia. Spesso mancano prodotti per la pulizia e l’igiene. “Con questi numeri - denuncia sempre Antigone - se dovesse entrare il virus in carcere, sarebbe una catastrofe per detenuti e operatori”. Antigone quindi propone alcune misure per ridurre il sovraffollamento e proteggere i più vulnerabili: l’affidamento in prova in casi particolari di cui all’art. 47- bis della legge 354/75 è esteso anche a persone che abbiano problemi sanitari tali da rischiare aggravamenti a causa del virus Covid-19 con finalità anche di assistenza terapeutica; la detenzione domiciliare di cui all’articolo 47-ter, primo comma, della legge 354/ 75 è estesa, senza limiti di pena, anche a persone che abbiano problemi sanitari tali da rischiare aggravamenti a causa del virus Covid-19; a tutti i detenuti che usufruiscono della misura della semilibertà la concessione di trascorrere la notte in detenzione domiciliari; salvo motivati casi eccezionali, i provvedimenti di esecuzione delle sentenze emesse nei confronti di persone che si trovano a piede libero devono essere trasformati dalla magistratura in provvedimenti di detenzione domiciliare. La detenzione domiciliare prevista dalla legge 199 del 2010 e successivamente dalla legge 146 del 2013 deve essere estesa ai condannati per pene detentive anche residue fino a trentasei mesi, mentre la liberazione anticipata estesa fino a 75 giorni a semestre con norme applicabili retroattivamente fino a tutto il 2018. Ma mentre il virus, potenzialmente, potrebbe diffondersi nelle patrie galere sovraffollate, c’è la Lega che tuona contro la debole misura deflattiva inserita nel decretone che - a differenza di quanto dice il parlamentare leghista Jacopo Morrone - non farebbero uscire 6.000 persone, ma solo 3.000. Numero tra l’altro incerto visto che c’è un numero consistente di detenuti (quelli che scontano una pena brevissima) che non hanno una fissa dimora e quindi è impossibile concedere loro i domiciliari. Eppure, c’è perfino il Sinappe, sindacato di polizia non certo “progressista”, a spiegare - tramite un comunicato - che le misure del decretone non servono a nulla per un “cura carceri”. Il sindacato propone un potenziamento delle misure alternative e una politica che si appropri di quella filosofia che vece il carcere l’extrema ratio e non il “contenitore del disagio sociale”. Carceri, quei 13 morti durante le rivolte: “Più domiciliari a chi sta per uscire” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 18 marzo 2020 Non erano tutti condannati, almeno 3 erano in attesa di giudizio. C’era chi sarebbe tornato libero tra due settimane. Ora, con i primi dieci contagi negli istituti di pena, il sovraffollamento diventa motivo di una mini-deroga. Un nome, ce l’avevano pure loro. E anche una storia, benché 13 siano ancora negletti ormai a 10 giorni dalla loro morte nelle sommosse di “6.000 detenuti” in carceri sovraffollate, avvenuta per cause “per lo più riconducibili” (così si è espresso il ministro della Giustizia in Parlamento) “all’abuso di sostanze sottratte alle infermerie”. Non erano solo stranieri, a Rieti è morto il 35enne Marco Boattini, ad Ascoli il 40enne Salvatore Cuono Piscitelli. Non erano tutti condannati, almeno 3 erano in attesa di giudizio. Slim Agrebi, 40 anni, che in una rissa a base alcolica il Capodanno 2003 aveva ucciso un connazionale, nel 2017 aveva iniziato a lavorare all’esterno e il titolare lo ricorda “correttissimo, aveva le chiavi dell’azienda”. Un connazionale sarebbe tornato libero fra 2 settimane, fine pena di 2 anni, mentre il moldavo Artur Iuzu aveva il processo l’indomani. Di altri, solo i nomi: Hafedh Chouchane, 36enne tunisino come il 40enne Lofti Ben Masmia e il 52enne Ali Bakili, morti a Modena come il 37enne marocchino Erial Ahmadi. A Rieti il 41enne croato Ante Culic e il 28enne ecuadoregno Carlo Samir Perez Alvarez. A Bologna il 29enne tunisino Haitem Kedri, a Verona il connazionale 36enne Ghazi Hadidi, ad Alessandria il 34enne marocchino Abdellah Rouan. Quando 10.000 detenuti nel 2018 scelsero la non violenza dello sciopero della fame per chiedere allo Stato di cessare di essere fuorilegge in cella, nessuno (tranne Papa Francesco) se li filò. Ora, dopo morti, evasi, e feriti tra gli agenti, quel sovraffollamento, che per il capo del Dap era “un falso problema”, diventa - coi primi 10 contagi tra 61.100 detenuti in una capienza effettiva per 47.200 - motivo per Bonafede di una mini-deroga nei presupposti della detenzione domiciliare a chi (al massimo 3.785) abbia da scontare ancora fino a 6 mesi se non ha partecipato a rivolte, e fino a 1 anno (altri 5.000 al massimo) con il braccialetto elettronico. Che però nei tribunali scarseggia, posto che, dopo la telenovela dei soli 2.000 di Telecom, dal 2018 il contratto per 12.000 con Fastweb non è mai partito per l’incapacità del ministero dell’Interno di gestire il collaudo. Il carcere (anche al tempo del Covid-19) è il banco di prova della democrazia di Franco Corleone Messaggero Veneto, 18 marzo 2020 Il carcere è balzato agli onori della cronaca solo grazie alle proteste e alle rivolte in molti istituti penitenziari del nord, del centro e del sud d’Italia in seguito alle norme del decreto legge del Governo che stabiliva la soppressione dei colloqui dei detenuti con i familiari e la sospensione dei permessi e della semilibertà. Erano stati emanati provvedimenti di chiusura delle scuole e delle università, dei cinema e dei teatri; tutte le le iniziative politiche e culturali erano state annullate, era stato rinviato sine die il referendum sul demagogico “taglio” dei parlamentari ma del carcere nessuno si era preoccupato. Una distrazione eloquente di come si intende che sia fuori dalla società e dalla città la prigione. Il problema è che chi si dovrebbe occupare di una istituzione totale che però non è chiusa e sigillata non sa nulla della storia del carcere, delle dinamiche che si innescano in relazione alle informazioni che giungono da fuori (si parla non a caso di radio carcere) e delle necessità e delle risposte da dare alle domande legittime e spesso angosciate. Il detenuto sa di essere in balia di altri, di non avere possibilità di decisione sulla sua vita; è realmente prigioniero e la paura che oggi è vissuta dai cittadini in “libertà” in una condizione paragonabile allo stato di guerra si trasforma inevitabilmente in disperazione. Le conseguenze sono gli atti di distruzione delle suppellettili delle celle e la devastazione dei locali e la presa non dell’armeria, ma dell’infermeria alla ricerca dei farmaci. Tredici morti di questa tragedia che ci ha riportato indietro di cinquant’anni con i detenuti sui tetti di San Vittore pare non turbino nessuno mentre dovrebbero interrogare le coscienze di tutti noi e soprattutto dei responsabili di un fallimento sesquipedale. Se, come sostengo, siamo di fronte a una Caporetto del ministro della Giustizia pro tempore e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria è bene che si proceda subito a una rimozione come avvenne a Cadorna. Il sovraffollamento ha ripreso a mordere; a fine febbraio erano presenti nelle carceri italiane 61.230 detenuti (2702 donne e 19.899 stranieri) rispetto a una capienza di meno di cinquantamila posti. In Friuli Venezia Giulia la capienza è di 479 posti e i presenti sono 663 (23 donne e 236 stranieri); ci sono almeno 184 persone in esubero che sono concentrate a Udine e Tolmezzo, infatti nel capoluogo sono detenuti 153 persone con una capienza di 90 posti e nel carcere in Carnia 225 presenze con 149 posti. Sono certo che il Presidente del Tribunale di Sorveglianza Giovanni Pavarin metterà in atto tutte le misure per far uscire dal carcere tutti coloro che ne hanno titolo, dai semiliberi agli over 65 anni con problemi cardiaci o respiratori e che saranno valutati con sagacia i detenuti ammissibili alla detenzione domiciliare o all’affidamento in prova. Contrariamente a una triste vulgata, il carcere va utilizzato come extrema ratio, e quindi va riservato per gli autori di delitti contro la persona o di gravi reati e non come discarica sociale. Questa emergenza deve convincere che non devono entrare e stare in carcere persone dichiarate tossicodipendenti che sono oltre il 30%, in cifra assoluta pari a circa 17.000 persone e che va rivista la legge antidroga che per violazione dell’art. 73 del Dpr 309/90 riguardante la detenzione e il piccolo spaccio di sostanze stupefacenti vede la presenza di oltre il 35% dei detenuti, cioè più di 21.000 persone. Una questione sociale riempie le patrie galere per oltre la metà delle presenze! Un quadro completo si può leggere nel Decimo Libro Bianco redatto dalla Società della Ragione e presentato a luglio dello scorso anno anche a Udine e mi piace ricordare che i dossier precedenti li illustrammo con la presenza di Maurizio Battistutta, garante dei detenuti di Udine, scomparso tre anni fa e i cui scritti assai attuali si possono leggere nel volume Via Spalato. Nonostante questo dato macroscopico solo tre settimane fa la ministra dell’Interno Lamorgese annunciava che sarebbe stata predisposta, di concerto con il ministero della Giustizia “una norma per superare l’attuale disposizione dell’art. 73 comma cinque che non prevede l’arresto immediato per i casi di spaccio di droga” e per prevedere la “possibilità di arrestare immediatamente con la custodia in carcere coloro che si macchiano di questo reato”. Un ministro dell’Interno che si rispetti dovrebbe conoscere i dati e dovrebbe dire la verità e cioè che la proposta di una stretta repressiva si riferisce a una norma già presente nella legge proibizionista del 1990 concernente i fatti di lieve entità. Letta oggi questa appare più che una provocazione un errore politico gravissimo. La propaganda e la demagogia accecano. Ho curato recentemente una ricerca che dimostra inoppugnabilmente che già oggi, contro la legge, troppe persone vengono rinchiuse in carcere per una scorretta applicazione del comma 5 dell’art. 73 già ricordato. La riforma che è urgente è quindi di segno esattamente contrario a quello proposto in maniera sgangherata. Per sanare le ferite di questi giorni ci vuole intelligenza e non imboccare la strada della repressione. Occorre invece riprendere i contenuti improvvidamente messi da parte dal ministro Bonafede degli Stati Generali sulla pena e sul carcere. Non deve sembrare una provocazione. Dalla crisi si esce con l’affermazione dei principi della Costituzione e con leggi che realizzino diritti e garanzie a cominciare dalle condizioni minime di vita. La decenza e la dignità richiedono che il lavandino nelle celle non sia accanto alla tazza del cesso e usato da tre, quattro o cinque persone. E se vogliamo essere credibili non possiamo chiedere a tutti i cittadini di stare a più di un metro di distanza per ridurre il rischio di contagio e invece con lampante contraddizione ammassare corpi ristretti in uno spazio di pochi metri quadri. Anche ai detenuti va data una informazione chiara e comprensibile sui rischi per la salute, e va garantito dal servizio sanitario a tutti gli operatori, dalla polizia penitenziaria agli educatori, dai volontari ai famigliari le condizioni di prevenzione della diffusione del virus: misurazione della temperatura all’ingresso, distributori di liquidi disinfettanti e controlli con tamponi nei casi sospetti. L’aumento delle telefonate e l’uso di skype sono un altro segno di rispetto dei sentimenti e del timore dell’abbandono. Azioni di riduzione del danno ma con una avvertenza. Dopo l’emergenza non si potrà tornare alle vecchie abitudini. Il cambiamento deve cominciare nel fuoco della difficoltà, certo non è un buon segno che il Provveditore Sbriglia sia andato in pensione e non sia stato sostituito e così i lavori di ristrutturazione nel carcere di Udine sono fermi e il carcere di San Vito rimane un miraggio. 14 morti non bastano a Bonafede. Aspettiamo l’ecatombe in carcere? di Franco Corleone L’Espresso, 18 marzo 2020 Sembra passato un secolo dal 6 marzo quando avevo scritto un commento preoccupato sulla disattenzione verso la sorte del carcere in tempi di corona virus. Purtroppo il ministro della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria hanno compiuto errori catastrofici che hanno fatto esplodere le carceri. Sono riusciti in una impresa straordinaria, riportandoci ai detenuti sui tetti, alle rivolte che avevamo visto quaranta o cinquanta anni fa. La morte di quattordici detenuti nel carcere di Modena è archiviata come un dettaglio irrilevante, forse perché “stranieri” e “tossicodipendenti”. Intanto un detenuto si è suicidato a Porto Azzurro e uno è morto a Udine: corpi a perdere. Garanti e magistrati di sorveglianza, operatori e volontari chiedono provvedimenti seri per far uscire migliaia di persone con pene brevi in affidamento o in detenzione domiciliare. Il Governo invece dispone misure ridicole che alimenteranno la rabbia dei prigionieri con grandi rischi per la salute e per la convivenza in un momento delicatissimo. Bisogna abbattere il sovraffollamento che è determinato dalla legge antidroga frutto di una visione ideologica legata al proibizionismo cambiando una legge criminogena. Certo è difficile che questa scelta sia compita da questo governo che per bocca del ministro Lamorgese solo un mese fa annunciava un decreto per mandare in galera anche i responsabili di fatti di lieve entità. Purtroppo nessun responsabile si dimette o viene rimosso. Il diritto alla vita e alla salute è in pericolo nel luogo dove le persone sono affidati allo Stato; quei diritti costituzionali sono affidati al servizio sanitario nazionale ma le Regioni sono distratte e poco sensibili. È indilazionabile una modifica dell’art. 79 della Costituzione che rende impossibile la concessione di una amnistia e di un indulto per il quorum stratosferico di due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni articolo e nella votazione finale. Le ragioni si possono leggere nel volume “Costituzione e clemenza” curato dal prof. Andrea Pugiotto, da Stefano Anastasia e da me. Il Presidente Mattarella potrebbe dare un segno di speranza concedendo un numero significativo di grazie come testimonianza di umanità. Il coronavirus è arrivato nelle carceri. L’indulto è più che mai urgente di Giovanni Russo Spena Left, 18 marzo 2020 Come usciremo dalla pandemia? Certamente non come vi siamo entrati. Come è sempre accaduto storicamente per le grandi crisi, si para dinanzi alle società un bivio. O si rafforzeranno stati di eccezione (alla Schmitt), comunità nazionalistiche ed escludenti o prevarrà una nuova percezione di senso, che ci urla che il “re è nudo”, che il capitale globale è fragile, che l’Unione europea ha definitivamente fatto bancarotta. Può diventare percepita la fragilità strutturale. Il dominio del capitale può disvelarsi come un comando senza egemonia culturale. Anche noi dovremo cambiare mettendo a tema categorie classiche in parte rimosse come corpi, spazi, territori. A questo allude, ad esempio, la tragica e prevista esplosione del carcere (oggi, 17 marzo, purtroppo sono stati rilevati i primi contagi di Covid-19 in penitenziari lombardi e a Voghera, ndr). Corpi massacrati, spazi ristretti e sovraffollati, inaudita promiscuità ci parlano di una feroce ed incostituzionale condizione carceraria. Dovrà profondamente cambiare. Parleremo con maggiore autorevolezza ed ascolto rispetto a ieri di depenalizzazione dei reati minori, di misure alternative, del carcere come ultima istanza, di abbattimento dei muri etnici, dei Centri di permanenza per il rimpatrio. Discuteremo con più forza di amnistia. Non a caso, in queste ore voci importanti nella magistratura, nell’associazionismo, le Unioni camere penali, i piccoli partiti della sinistra, stanno discutendo di indulto e di una serie di misure urgenti alternative all’ossessione giustizialista di Bonafede. Si aprono, insomma, in forme a volte non lineari, terreni più avanzati di conflitto. Un secondo esempio. Lottiamo da anni, Giuristi democratici con i comitati degli occupanti di case che lottano per il costituzionale diritto all’abitare, per il “diritto di avere diritti” (richiamando Hannah Arendt e Stefano Rodotà). Cioè per il riconoscimento della residenza, sia per i nativi che per i migranti, essenziale per realizzare l’obiettivo, in base all’art. 3 della Costituzione. È stata emanata, molto recentemente, una decisiva sentenza della Corte costituzionale (sentenza n.44 del 2020) che sancisce che limitare l’accesso all’edilizia residenziale pubblica solo a coloro che risiedono o lavorano nel territorio regionale da almeno cinque anni è incostituzionale. A volte, allora, si vince. La Consulta ha, infatti, annullato la legge iniqua e razzista n.16 del 2016 della Regione Lombardia, tesa ad impedire a quasi tutti i migranti l’accesso alla graduatoria. Il ricorso contro la legge del 2016 era stato presentato proprio da un cittadino tunisino attraverso l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e l’Associazione volontaria di assistenza socio/sanitaria e per i diritti dei cittadini stranieri, rom e sinti. Un bel lavoro fatto insieme, dal basso, da sfruttati, migranti e Giuristi democratici conseguenti, che osano andare controcorrente. La Consulta ha richiamato espressamente il “principio di eguaglianza sostanziale, perché il requisito temporale richiesto dalla legge lombarda contraddice la funzione sociale stessa dell’edilizia residenziale pubblica”. È molto importante, perché la Lombardia era stata imitata, in questa spirale razzista, dal Veneto, dal Friuli Venezia Giulia, dal Piemonte, dalla Toscana. Ora la lotta per la casa poggia su una più forte legittimazione. È stato, infatti, ribadito dalla Corte in maniera solenne il diritto costituzionale all’abitazione, precisando che è compito della Repubblica dare effettiva attuazione a tale diritto. La Corte ci richiama ai parametri di vita dignitosa di fronte all’indigenza, a criteri economico/sociali. E ci dice che frapporre ipocriti ostacoli temporali riguardanti la residenza è ingiusto e razzista. Ha spostato molto in avanti il conflitto sociale. E ha anche rafforzato l’impegno di Left contro l’autonomia differenziata (“la secessione dei ricchi”, non a caso). L’autonomia regionale, quando diventa territorio e comunità escludenti, deve lasciare il passo all’affermazione dei diritti universali costituzionali. Anche le difficili condizioni strutturali di una sanità regionalizzata, privatizzata, mercificata stanno facendo, in questi giorni, aprire gli occhi a milioni di persone. Potremo, forse, con più forza, ricominciare a discutere di un importante intervento pubblico, di uno Stato costituzionale che progetta e coordina. È possibile che, usciti dalla crisi della pandemia, spiri un’aria più fresca? Coronavirus nelle carceri, adesso fa più paura di Stefania Moretti laleggepertutti.it, 18 marzo 2020 Un’emergenza nell’emergenza: il sovraffollato sistema penitenziario italiano si ritrova ora a dover cercare di limitare i contagi in spazi ristretti ad alta densità di detenuti, dove manca perfino il sapone per lavarsi le mani. Sapevamo che poteva succedere: il Coronavirus è arrivato nelle carceri. Un detenuto risultato positivo, rinchiuso nel penitenziario di Voghera, è stato ricoverato all’ospedale San Paolo di Milano. Si tratterebbe del secondo caso registrato in un penitenziario in Italia: il primo si sarebbe verificato a Lecce. Ma sarebbero altri tre in Lombardia i detenuti contagiati, secondo l’Ansa: uno è a San Vittore, ha 19 anni ed è originario del Ghana; gli altri due sono a Pavia. Positivi anche due medici del carcere di Brescia. E adesso la paura è che il morbo abbia un altro velocissimo veicolo di contagio: il già disastrato e sovraffollato sistema penitenziario italiano. Perché Covid-19 è ancor più temibile in carcere - Ne avevamo scritto giorni fa, parlandone in termini di possibile bomba epidemiologica. Senza esagerare, purtroppo. Facendo un conto del salumiere, il numero di persone che potrebbero ritrovarsi potenzialmente coinvolte ammonta più o meno 100mila, circa 60mila detenuti e qualcosa come almeno 35mila poliziotti che lavorano ogni giorno in carcere. Senza contare gli educatori, i volontari, gli amministrativi. Il rischio, nelle patrie galere, è più concreto per via della ben nota emergenza sovraffollamento, tipicità tutta italiana già più volte sanzionata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo: i 60mila detenuti di cui sopra sono stipati in qualcosa come meno di 50mila posti letto. L’utenza, insomma, supera di gran lunga la capienza regolamentare totale e questo comporta che i detenuti si ritrovino a condividere celle piccole, con percentuali di sovraffollamento variabili da un carcere all’altro. Difficile, in queste situazioni, applicare l’essenziale regola del distanziamento sociale. Ma è difficile perfino lavarsi le mani, in alcuni penitenziari sprovvisti di saponi e igienizzanti. Va da sé, quindi, che seguire le precauzioni imposte dal governo, già straordinarie di per se, diventa ancor più complicato in carcere. E questo aumenta le probabilità di espandere i contagi all’esterno, qualora dovessero ammalarsi i detenuti e chi nei nostri penitenziari lavora. Mancano guanti, mascherine, igienizzanti - Con l’ultimo decreto approvato ieri si è parzialmente intervenuti su una situazione che rischia davvero di diventare esplosiva, aumentando i contagi a dismisura. “Il decreto - come spiega il Garante nazionale dei detenuti dal suo sito Internet - semplifica la procedura di accesso alla detenzione domiciliare, condizionandola però a due fattori. Il primo è il non aver riportato sanzioni disciplinari relative a sommosse, evasione o reati commessi in carcere. Il secondo fattore riguarda l’applicazione del braccialetto elettronico per coloro che devono ancora scontare più di sei mesi di pena”. Ma il Garante fa tre considerazioni che aiutano a capire quanto la misura possa essere insufficiente in termini di prevenzione: “Il numero complessivo di coloro che devono scontare una pena fino a sei mesi, senza altre pendenze, è pari a 3785, mentre il complessivo numero di coloro che devono scontare una pena o un residuo pena fino a un anno sale a 8629. La Cassazione ha affidato comunque al giudice la possibilità di stabilire se la misura sia applicabile anche in caso di indisponibilità del braccialetto. La terza questione, infine, è che si tratta di una deroga temporanea fino al 30 giugno del 2020?. Ne aggiungiamo un’altra, che leggiamo sul sito del ministero della Giustizia: il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha disposto la consegna immediata di 2600 kit per la protezione completa degli operatori di polizia penitenziaria. Quantità che, naturalmente, non può bastare a fronte degli almeno 35mila agenti penitenziari italiani. E mentre si attendono le 100mila mascherine annunciate dal ministero, nelle carceri continuano a essere introvabili presidi sanitari come igienizzanti e prodotti specifici. Manca tutto, mascherine comprese, denunciava il sindacato di polizia penitenziaria Osapp solo tre giorni fa. E così si pretende di combattere il virus. Carceri, rischio bomba sanitaria e sociale di Fabio Zenadocchio Città Nuova, 18 marzo 2020 L’eco delle proteste è stato sopito dall’emergenza coronavirus, ma la questione carceri resta ancora in piedi, come lo è stata per anni. Miravalle (Antigone): “non siano lazzaretti”. L’emergenza coronavirus ha travolto, tra le altre cose, anche il sistema carcerario italiano. Gli effetti delle rivolte carcerarie degli ultimi giorni si sono abbattuti sul ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede e sui vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, per i quali sono arrivate le richieste di dimissioni da Italia Viva, con Boschi e Renzi esposti in prima persona, o di commissariamento straordinario, da parte della Lega. Il ministro Cinque Stelle ha relazionato in parlamento parlando di “atti criminali”, annunciando misure finalizzate alla prevenzione del contagio da Covid-19. Tra queste si parla dell’assunzione immediata di oltre 1.100 nuovi agenti di polizia penitenziaria e dell’incremento dei braccialetti elettronici, per alleggerire la pressione all’interno delle carceri. Nodo della protesta, per la quale si contano 14 morti tra i detenuti, decine di feriti e diversi evasi ancora a piede libero, è che le carceri siano particolarmente esposte a eventuali contagi da Covid-19. E non potrebbe essere altrimenti, dato che il livello di sovraffollamento, leggermente rientrato in seguito alla storica sentenza Torreggiani del 2013, è tornato a livelli insostenibili: “Già da un paio di anni la media di sovraffollamento è del 130%, con punte del 200% in alcune realtà del Nord Italia”. A parlarcene è Michele Miravalle, coordinatore nazionale dell’osservatorio sulle carceri per Antigone, associazione che si occupa di diritti e garanzie nel sistema penale. “La popolazione carceraria è cambiata negli ultimi anni, ci sono molte persone con problemi di natura economica e di salute, che finiscono in galera per piccoli reati e che portano dentro le carceri problemi nuovi, che nelle strutture non possono essere risolti. Il 40% di loro ha problemi psichiatrici, ai quali si aggiungono quelli di natura fisica”. Il panorama è più delicato di quello che si percepisce all’esterno, e il grido di dolore spesso passa inosservato: “In carcere è tornata prepotente la totale indigenza, che in situazioni di detenzione diventa insostenibile. Altro problema è la tossicodipendenza, al quale non si riesce a trovare soluzione”. La questione del contagio è, ovviamente, la miccia che ha scatenato la rivolta. La decisione è figlia dei provvedimenti emergenziali straordinari che hanno coinvolto la Nazione intera, ma il problema è stato nella comunicazione “hanno fatto passare il messaggio che fosse bloccato tutto a data da destinarsi, chiaramente una notizia del genere provoca paura, perché insinua il sospetto che nelle carceri possa già circolare il virus”. La questione si presenta dunque sul piano della perdita dei diritti: “sarebbe stato necessario comunicare dei correttivi, quali l’aumento delle telefonate a casa, per bilanciare la privazione”. La protesta divampata in decine di istituti, secondo Miravalle non è stata coordinata: “personalmente non credo che esista una regia delle rivolte. Esiste una paura e una mancanza di comunicazione di cosa fare che si è tramutata in violenza. Negli istituti dove i direttori hanno spiegato la situazione, queste rivolte sono state meno violente o non ci sono state proprio”. La paura di tutti gli addetti ai lavori è che la questione possa sfuggire di mano: “ogni sforzo deve essere concentrato per non far diventare le carceri dei lazzaretti. Siamo molto preoccupati, perché i luoghi sono sovraffollati e malsani, potrebbe diventare una bomba sanitaria e sociale. Le persone vulnerabili si trovi un modo di punirle diversamente e si garantisca un minimo di prevenzione”. L’eco delle proteste è stato sopito dall’emergenza, ma la questione carceri resta ancora in piedi, come lo è stata per anni, seppur nascosta sotto il tappeto. Alfonso Bonafede eredita una situazione più che critica, ma oltre ai correttivi sull’emergenza, che dovrebbero entrare nel prossimo Dpcm, deve avviare una seria campagna di riforma del sistema carcerario. “Finalmente la politica ha acceso i riflettori sul mondo del carcere” di Valentina Stella Il Dubbio, 18 marzo 2020 Riccardo De Vito, presidente di Magistratura Democratica e magistrato di Sorveglianza a Sassari, conosce molto bene il mondo del carcere e con grande sensibilità costituzionale affronta quotidianamente le criticità che lo contraddistinguono. Dottor De Vito cosa ne pensa del provvedimento, contenuto nel decreto Cura Italia (nel momento in cui scriviamo ancora non pubblicato in Gazzetta Ufficiale), che mira a contrastare l’emergenza sanitaria in carcere? Si tratta di un primo passo, ma solo di un primo passo, nella direzione giusta. Il vantaggio di questa detenzione domiciliare speciale è unicamente nella snellezza e celerità del procedimento. Le aree educative, gli uffici esecuzione esterna e i magistrati non saranno impegnati in istruttorie estenuanti, che correrebbero il rischio di ottenere risultati di deflazione della popolazione carceraria in ritardo rispetto al periodo emergenziale. Mi sarei aspettato un po’ più di coraggio sul versante dell’estensione temporale della misura - sino a diciotto mesi di pena residua mi sembra poco, sarebbe importante poter arrivare a due o tre anni - e rimango perplesso sull’utilizzo dei braccialetti, che forse potrebbero meglio essere impiegati per i detenuti in attesa di giudizio. Ripeto, si tratta solo di un primo passo e il senso più importante di questo intervento normativo è che finalmente la politica ha acceso i riflettori sul carcere, sinora rimosso dall’agenda. Il capo del Dap Basentini in una intervista su In-Terris sulle rivolte in carcere: “L’occasione è stata utile per far emergere una serie di carenze e una voglia di libertà dei detenuti”... Non penso sia importante commentare dichiarazioni che, senza dubbio, sono state rilasciate in un momento di grande tensione. Piuttosto credo che, una volta terminata l’emergenza, sarà importante interrogarsi tutti - Amministrazione, Polizia Penitenziaria, operatori, magistratura - sul concetto di carenze del carcere. Abbiamo tutti le stesse idee in proposito e, soprattutto, le stesse ricette, per risolvere le questioni sul tappeto? Faccio un esempio: la tutela della salute dei detenuti è uno dei grandi problemi del penitenziario italiano. Lo era prima e lo è di più oggi. Sento con insistenza invocare un ritorno alla sanità gestita dall’amministrazione penitenziaria, ma credo che la soluzione sia diversa e passi attraverso una miglior coinvolgimento del sistema sanitario nazionale, con più spesa e risorse per il carcere. Ecco spero che questa emergenza possa almeno far capire due cose importanti. La prima è che spendere nella tutela della salute dei detenuti significa spendere per curare meglio tutta la società. Ai tempi del contagio, questa affermazione dovrebbe essere di immediata comprensione, perché il virus che entra in carcere riesce moltiplicato nella società. La seconda è che la situazione emergenziale non deve diventare il viatico per ribaltare paradigmi culturali ormai acquisiti. L’affidamento della tutela della salute dei detenuti al servizio sanitario nazionale aveva le sue ragioni nell’uguaglianza tra cittadini, liberi e reclusioni, in relazioni a un diritto fondamentale, che non può sopportare cedimenti a esigenze di custodia. Secondo lei quali sono state le cause delle rivolte? Sono state eterodirette dalla criminalità organizzata? Non so dire se in alcuni casi vi sia stata eterodirezione dei facinorosi da parte della criminalità organizzata e se sul punto vi siano indagini. Da quello che abbiamo potuto apprendere le rivolte hanno avuto cause diverse. Le ragioni immediate sono da rinvenirsi, come ha puntualmente osservato l’autorità del Garante Nazionale, in un errore di comunicazione circa il blocco dei colloqui visivi. Si è poi visto che a livello normativo la chiusura dei colloqui è stata compensata da grande estensione delle telefonate e dei colloqui video. In questo senso mi consta che l’amministrazione stia facendo grandi sforzi per garantire quelle forme di comunicazione che, ormai, sono le uniche consentite anche nel mondo dei liberi. Vi è poi la paura del contagio. Dobbiamo pensare che il carcere è un ambiente dove non sono consentite distanze di sicurezza, la promiscuità è una condizione non reversibile e prevenzione e cura sono difficili. Non si può fare a meno di pensare che il processo riformatore, iniziato con gli Stati Generali, si è arenato ed è stata partorita una riforma monca. Se il lavoro della Commissione Giostra fosse andato in porto, forse staremmo commentando una situazione diversa. Tutto ciò, naturalmente, non giustifica la violenza. E vale ancora l’appello ai detenuti: proposte e critiche nonviolente ben vengano, ma isolate i violenti. A causa di queste rivolte l’immagine del carcere nella opinione pubblica è davvero compromessa... L’opinione pubblica deve sapere che a fronte di una minoranza rumorosa di rivoltosi, la gran parte dei detenuti è rimasta nei reparti e ha dimostrato senso di responsabilità. Le vicende di alcuni istituti, penso a Bologna ad esempio, hanno chiaramente dimostrato che i detenuti assistiti da più trattamenti (scuola, sport, attività rieducative in senso lato) hanno disertato le rivolte e hanno mostrato lealtà. Questo la dovrebbe dire lunga su come funziona il carcere. Non sono chiusura e custodia a garantire la disciplina (termine infido, ma rende), ma il trattamento e i diritti. Sono questi gli elementi che favoriscono processi di responsabilizzazione immediatamente verificabili. Con questa maggioranza in Parlamento è difficile pensare ad un provvedimento di amnistia... I provvedimenti di clemenza collettivi, amnistia e indulto, sono diventati più difficili da quando, nel 1992, è stato modificato l’art. 79 Cost. A ciò si aggiungano sistemi elettorali che hanno impedito alle assemblee parlamentari di essere le vere protagoniste della produzione legislativa. Sono d’accordo, tuttavia, che siano provvedimenti di cui recuperare l’agibilità. Occorre poterli usare, anche in situazioni emergenziali, per far in modo che la pena reale risponda a quella scritta in Costituzione: umanità, dignità, rieducazione. In questo senso il dibattito politico e culturale, lanciato da autorevoli costituzionalisti, deve essere ripreso. Vuole aggiungere qualcosa? Vorrei lanciare con forza un messaggio per tranquillizzare i detenuti. Tutti i soggetti che ruotano attorno al carcere stanno affrontando l’emergenza. Nessuna inerzia. I numeri della popolazione detenuta si stanno già abbassando con il lavoro fatto a normativa invariata. Anche le aree sanitarie si stanno attrezzando. Contiamo sui provvedimenti normativi in arrivo e, se ci sarà bisogno, non faremo mancare la nostra voce. “Ora misure alternative. Solo così si proteggono gli agenti e i detenuti” di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 18 marzo 2020 Gherardo Colombo conosce bene il carcere. Come volontario tiene corsi di legalità per i detenuti ed è stato a lungo giudice e pubblico ministero. Proteste, rivolte, contagi. C’è tensione “dentro”? “Per la paura, i disagi e le restrizioni causate dal coronavirus. Ora è ancora più evidente del solito il contrasto tra la vita da reclusi e l’articolo 27 della Costituzione, secondo cui, cito, le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Le carceri, nonostante le restrizioni che i detenuti subiscono, non sono isolate dal mondo. Ad esempio, entrano agenti della polizia penitenziaria e operatori, come tutti esposti al contagio. Leggo addirittura che una recente circolare del Dap dice che gli agenti devono restare in servizio anche se hanno avuto contatti con persone contagiose perché sono operatori pubblici essenziali”. Ci sono i primi contagi… “Potrebbero espandersi rapidamente, visti gli spazi ristrettissimi nei quali sono spesso stipati i detenuti, facendo aumentare la tensione. Occorre impegnarsi molto anche nella protezione degli agenti e di tutti coloro che lavorano in carcere”. Una pentola a pressione che rischia di esplodere? “È già esplosa nelle proteste dei giorni scorsi con 13 morti, sui quali avere notizie precise non sarebbe disdicevole, e potrebbe deflagrare ulteriormente. I benefici sono sospesi e l’affollamento aumenta. Sono sospese le attività dei volontari che, oltre ad avere effetti positivi in tema di rieducazione, contribuiscono ad allentare la tensione”. I detenuti hanno chiesto amnistia o indulto. Difficili in questo contesto politico… “Credo che in primo luogo bisognerebbe rendere perlomeno sopportabile la situazione attraverso altri canali. I provvedimenti di clemenza li vedo lontani anni luce”. In che modo? “Ci sono 61mila detenuti per 51mila posti, ai quali vanno tolti quelli danneggiati o in ristrutturazione. In una situazione come questa occorrerebbe andar sotto la capienza regolamentare per garantire le stesse distanze di chi sta fuori. Per ridurre il sovraffollamento bisogna applicare di più e con norme più agevoli le misure alternative, escludendole quando sia provata la pericolosità del richiedente. Solo un terzo dei detenuti è considerato pericoloso. Affidamento in prova ai servizi sociali e detenzione domiciliare dovrebbero essere estesi, come chiedono in molti, anche a chi ha problemi sanitari e che, se esposto al coronavirus in carcere, rischia la vita. Occorrerebbe che chi lavora fuori dorma a casa ed ampliare la liberazione condizionale. Assumerebbe anche il senso di un atto restitutorio prevedere che chi si trova nelle condizioni di lavorare all’esterno, ma un lavoro non ce l’ha, possa mettersi a disposizione della Protezione civile”. Il governo vuole estendere la detenzione domiciliare a fino a 18 mesi di pena… “Ci sarebbero due possibilità nel decreto non ancora pubblicato: concederla ai detenuti che, per reati meno gravi, debbano scontare non oltre i8mesi ed abbiano un domicilio; consentire a chi si trova in semilibertà di restare fuori dal carcere, in licenza, se concessa dal magistrato di sorveglianza, fino al 3o giugno prossimo. Temo che questo, se non seguito da altri passi, difficilmente risolverà il problema”. Quanto pesa la sospensione dei colloqui in carcere? “Molto. In una situazione così emotivamente coinvolgente sarebbe necessario almeno passare ad una telefonata al giorno e consentire l’uso, effettivo, di videochiamate e posta elettronica. Stempererebbe la tensione, conforterebbe i detenuti, li libererebbe dall’angoscia di non sapere come stanno i loro cari, in questo rapidissimo evolversi degli eventi”. Coronavirus e carceri, Antigone: “Insufficienti le norme previste nel decreto del governo” antigone.it, 18 marzo 2020 “Sono necessari altri provvedimenti, altrimenti a rischio la salute pubblica”. “La situazione nelle carceri è drammatica. E resta drammatica anche oggi a primo decreto approvato. Le norme in materia penitenziaria, inserite all’interno del nuovo decreto del governo, pubblicato ieri in gazzetta ufficiale, sono evidentemente insufficienti per rispondere alle esigenze di estrema gravità e urgenza che la situazione richiederebbe. Troppe le cautele. Nell’interesse e nel rispetto della salute e della vita di detenuti e operatori bisogna liberare le carceri di almeno altre diecimila persone”. A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “Le carceri rischiano di diventare una bomba sanitaria che si può ripercuotere sulla tenuta stessa del sistema sanitario nazionale - sostiene Gonnella. La grande promiscuità in cui sono costretti a vivere i detenuti può facilmente far degenerare il numero di contagi. Inoltre lo stato di salute di chi vive in carcere, con il 67% dei reclusi che ha almeno una patologia pregressa, potrebbe rendere necessario il ricorso al ricovero nei reparti di terapia intensiva. Senza contare che un contagio in carcere può oltrepassare quelle mura con il personale penitenziario a far da veicolo tra il dentro e il fuori. Intervenire urgentemente non è quindi un regalo ai detenuti, ma una logica e irrimandabile necessità a tutela della salute pubblica”. “Con questo decreto - sottolinea ancora il presidente di Antigone - saranno pochissimi i detenuti che potranno lasciare le carceri, di gran lunga meno degli oltre 14 mila che andrebbero scarcerati per riportare le carceri ad una situazione di legalità e rendere possibile il contrasto di casi di coronavirus all’interno degli istituti. Mancano inoltre, nel decreto del governo, norme che tengano conto delle condizioni di salute dei detenuti che, se dovessero contrarre il covid-19, potrebbero non salvarsi. A loro bisognava guardare con norme ad hoc”. “Su questo - prosegue Gonnella - chiediamo che si esprima l’amministrazione penitenziaria, che non può pensare che tutto sia sotto controllo. Così non è e così non è stato”. Quello che Antigone fa è di continuare a sollecitare i provvedimenti che insieme a Cgil, Anpi, Arci e Gruppo Abele, Conferenza nazionale volontariato giustizia e Ristretti aveva segnalato come fondamentali. “Bisogna far uscire subito i detenuti che non hanno un posto regolamentare per affrontare al meglio il possibile diffondersi del coronavirus. Iniziano a esserci casi di persone detenute risultate positive ai controlli medici. Per questo ci vuole un nuovo decreto urgente” afferma Patrizio Gonnella. “Ci appelliamo inoltre affinché da oggi si ripristini dappertutto e per tutti un collegamento (telefonico, WhatsApp o Skype) con le famiglie. Ci scrivono parenti di detenuti che non sanno più nulla dei loro cari da giorni. Inoltre abbiamo ricevuto segnalazioni e denunce di ricorso illegale alla violenza nei confronti dei detenuti nei giorni scorsi. Presenteremo altrettanti esposti alle procure. Chiediamo all’amministrazione penitenziaria di fare proprie inchieste interne e stigmatizzare ogni episodio di uso arbitrario della violenza o di rappresaglia rispetto alle rivolte dei giorni scorsi” conclude il presidente di Antigone. Coronavirus, carcere e droga. Servono chiarezza e proposte oltre l’emergenza di Forum Droghe Onlus fuoriluogo.it, 18 marzo 2020 Forum Droghe, l’associazione che da 25 anni si occupa della riforma delle politiche sulle droghe con status consultivo all’Onu, esprime grande preoccupazione per i recenti eventi accaduti in alcune carceri italiane a seguito della crisi del coronavirus, nel corso dei quali - secondo quanto ha riportato la stampa - sono morti quindici detenuti, alcuni sembra per intossicazione acuta da psicofarmaci e metadone. Ci pare che la modalità impositiva con la quale sono state applicate misure immaginate per salvaguardare la salute dei detenuti, senza adeguata informazione e coinvolgimento dei detenuti stessi, sia stata una mossa poco responsabile. L’interruzione repentina dei colloqui con i famigliari e la sospensione di tutte le misure di semilibertà e dei permessi rappresentano una vera e propria violazione dei diritti umani, soprattutto perché applicate senza adeguate soluzioni alternative, quali il rafforzamento e l’attivazione delle altre forme di comunicazione con l’esterno già permesse dal regolamento come le telefonate e le sessioni di videoconferenza. L’effetto paradosso di una misura che avrebbe dovuto proteggere la salute dei detenuti dal coronavirus e che in realtà ha determinato morti, devastazioni e interruzione di ogni misura di flessibilità nella circolazione interna agli istituti dei detenuti, in un clima ancora più irrespirabile e repressivo, mette sempre più in evidenza che l’ingestibilità delle carceri italiane è legata alla concezione ancora imperante del ruolo di istituzione totale e sempre più socialmente pervasiva che le si attribuisce e alle leggi che la sostengono e riproducono. In questo contesto, le morti dei detenuti avvenute per presunta assunzione di psicofarmaci e metadone, che in genere è custodito in cassaforte, evidenziano la gravità della ostinata e miope volontà di negare la evidente presenza - anche in situazioni ordinarie - di sostanze psicoattive provenienti dall’esterno e circolanti nelle carceri, e di conseguenza di non rifornire i servizi sanitari di emergenza degli Istituti con i farmaci antagonisti salvavita come il naloxone e l’anexate. Inoltre troppo spesso l’ideologia del consumo zero e dell’astinenza forzata continua ad essere il faro con il quale ancora diversi servizi sanitari intervengono in carcere, malgrado all’esterno gli stessi servizi operino con politiche molto più aggiornate e rispettose delle persone. In ogni caso risulta urgente accertare le modalità che hanno portato alla morte delle persone detenute, ad oggi non tutte chiare, secondo criteri di massima tempestività e trasparenza. Questo momento di emergenza nazionale potrebbe essere utilizzato per mettere in atto alcune misure realmente “protettive per la salute”, come la scarcerazione anticipata dei detenuti con pene residue limitate, l’attivazione di tutte le misure alternative possibili per coloro che ne hanno diritto, la collocazione agli arresti e detenzioni domiciliari, che avrebbero il risultato “salutare” di decongestionare le carceri italiane, oltre a garantire comunque forme di comunicazione adeguate con i famigliari per chi è detenuto. Nello stesso tempo tali misure avrebbero la funzione di preparare il terreno, proprio a partire da una emergenza nazionale come questa che rende esplosive le contraddizioni della logica del carcere totale e della tolleranza zero, per iniziative di cambio radicale di rotta delle leggi sulle droghe. Come più volte abbiamo messo in evidenza la legge sulle droghe da trent’anni riempie le carceri italiane, nella gran parte dei casi a causa di reati minori. Come si evidenzia anche nell’ultimo Libro Bianco, un terzo dei detenuti è legato alla tossicodipendenza e se si aggiungono i detenuti con reati per il piccolo spaccio si sale a circa il 50% della popolazione carceraria. Da tempo Forum Droghe con molte altre realtà ha elaborato e proposto alla discussione del Parlamento disegni di legge che prevedono sia una completa decriminalizzazione delle condotte legate all’uso personale di droghe sia un abbassamento delle pene per i reati minori, una revisione radicale del sistema degli interventi nella prospettiva della Riduzione del danno, e l’ampliamento delle misure alternative alla detenzione per il piccolo spaccio. Oltre che naturalmente la regolazione legale della cannabis. Tutte misure che risolverebbero il sovraffollamento delle carceri riducendo drasticamente anche i rischi legati alla gestione delle epidemie, affrancando nello stesso tempo ampie aree di popolazione da stigmi insopportabili e socialmente e culturalmente deprivanti. Forum Droghe continuerà a battersi, insieme alle reti delle persone che usano sostanze, agli operatori, alle associazioni che si battono per i diritti dei consumatori e dei detenuti, per mantenere alto il livello di guardia nel dibattito pubblico e nella iniziativa politica e parlamentare su queste proposte. Proposte che risolverebbero il sovraffollamento delle carceri e nello stesso tempo restituirebbero il diritto alla cittadinanza per una parte importante delle persone che vivono e transitano per il nostro Paese. Coronavirus, la solidarietà dei carcerati: pronti a produrre mascherine e a donare sangue di Viviana Lanza Il Riformista, 18 marzo 2020 Nelle carceri campane sono un migliaio i detenuti in cella nonostante un residuo da scontare che non supera l’anno e mezzo. La proposta al vaglio del governo è di cominciare da loro per un provvedimento “svuota-carceri” che tuteli in questo momento un diritto fondamentale e irrinunciabile, come quello alla salute. Ci si chiede, se di fronte a una crisi totale come questa causata dal rapido diffondersi del coronavirus, abbia ancora senso lasciare in carcere un detenuto che ha quasi saldato il suo debito con la giustizia. Se la certezza della pena debba prevalere sul diritto alla salute, e quindi alla vita. Se si possa, per questi detenuti, prevedere misure alternative che consentano di sfollare le celle e alleggerire il peso di una crisi sanitaria che, per fortuna, fino ad ora è solo una minaccia ma non una realtà negli istituti di pena della Campania dove non ci sono casi di contagio e si sono adottate tutte le misure per evitarli. Da ieri si fa più fatica nel carcere di Ariano Irpino, la cittadina nell’Avellinese che rientra tra i Comuni chiusi per ordinanza del governatore De Luca nell’ambito delle misure per contenere i casi di Covid-19. Si registrano ritardi e disagi per via dei più capillari controlli disposti per chi entra e esce dal paesino, considerati tuttavia “fisiologici”. Quello che invece si annuncia come una vera e propria novità è il progetto di affidare ai detenuti la produzione delle mascherine chirurgiche che cominciano a scarseggiare negli ospedali. Per far fronte a questa emergenza nell’emergenza l’aiuto potrebbe arrivare dai detenuti al lavoro nelle sartorie presenti negli istituti di pena. In Campania la produzione è stata già avviata in via sperimentale nelle sartorie di sei carceri: Pozzuoli, Secondigliano, Santa Maria Capua Vetere, Salerno, Benevento, Sant’Angelo dei Lombardi. Il provveditore dell’amministrazione penitenziaria campana, Antonio Fullone, ha sottolineato l’importanza del progetto: “È un’iniziativa che può rivelarsi socialmente molto utile, e sarebbe non soltanto un segnale di riscatto da parte dei detenuti, finiti per colpa di pochi violenti al centro delle cronache sulle proteste delle scorse settimane, ma sarebbe soprattutto un valido aiuto di cui c’è bisogno”. Si prevede una produzione di migliaia di mascherine al giorno e vi lavorerebbero i 25 laboratori presenti negli istituti italiani. Per avviare il processo produttivo manca solo il via libera dell’Istituto Superiore di Sanità. In Campania le sartorie delle carceri lavorano alla produzione sperimentale di mascherine di tessuto non tessuto con la collaborazione dell’Asl Napoli 1 e dell’Università Federico II, valutando anche l’idea di allargare poi la produzione anche a quelle di livello più elevato, con i più sofisticati filtri anti-coronavirus. E la solidarietà che arriva dal popolo del mondo di dentro, quello delle carceri, non si ferma qui. Perché da Poggioreale i detenuti del reparto Avellino, quello che ospita i reclusi in regime di alta sicurezza, hanno fatto sapere di voler fare la propria parte. Come? “Siamo pronti a donare il sangue per sopperire alla carenza di donazioni di cui abbiamo tanto sentito parlare in tv in questi giorni”, hanno scritto in una lettera dal carcere. In premessa hanno chiarito di non aver aderito alle proteste dei detenuti che si sono ribellati alla temporanea sostituzione dei colloqui con le telefonate ai familiari: “Ci dissociamo” hanno scritto, mostrando consapevolezza della realtà che si vive nel mondo fuori. “Siamo anche noi padri, mariti, fratelli, figli e vogliamo donare il sangue accettando tutte le procedure di sicurezza che le istituzioni riterranno necessarie”. Intanto non si ferma l’attività del garante per i detenuti Samuele Ciambriello, degli avvocati dell’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali nazionali presieduto dall’avvocato Riccardo Polidoro, dei penalisti della Camera penale di Napoli guidati dall’avvocato Ermanno Carnevale per portare all’attenzione del governo la difficile condizione dei detenuti e sollecitare misure straordinarie per intervenire sulle esecuzioni penali e sul sovraffollamento Sostegno a chi lotta contro il virus: le iniziative in carcere di Antonella Barone gnewsonline.it, 18 marzo 2020 La cifra di per sé è modesta ma ha un alto valore simbolico. Parliamo dei 110 euro, raccolti attraverso una donazione dalle 71 donne del carcere femminile della Giudecca, destinati al reparto di terapia Intensiva dell’Ospedale dell’Angelo di Mestre, una delle strutture in prima linea nella lotta al Coronavirus in Veneto. L’iniziativa è arrivata a conclusione di una settimana caratterizzata da disordini e violenze nelle carceri italiane. Rivolte che non hanno riguardato l’istituto veneziano dove la protesta - pur sentita, contro il sovraffollamento e determinata in primo luogo dal timore di una diffusione all’interno del carcere del Covid-19 - si è espressa in maniera pacifica. La raccolta nasce dalla volontà di contribuire alla lotta contro il Coronavirus anche in quanto cittadine, come le detenute stesse hanno voluto sottolineare nella lettera che ha accompagnato la donazione: “Siamo le donne che ai vostri occhi fanno parte dell’ultimo ceto sociale, donne che hanno sbagliato ma stanno anche pagando per i loro errori, donne che lì fuori, come tutti voi, hanno una famiglia”. Dall’istituto veneziano è arrivata nei giorni scorsi anche la notizia di un’altra risposta pensata per fronteggiare la situazione emergenziale in atto. La Cooperativa Rio Terà dei Pensieri, realtà storica degli Istituti veneziani con i suoi laboratori artigianali, officinali e cosmetici, ha riconvertito parte della produzione di saponi, destinata alle catene alberghiere, a gel igienizzante per le mani. Un prodotto specifico realizzato con componenti e dosi bilanciate dal chimico del laboratorio di cosmesi della Giudecca. In tutto 400 flaconcini, di cui metà destinata alla vendita e metà donata alle carceri e agli Uffici di Esecuzione Penale del territorio. Anche le detenute di Pozzuoli hanno voluto inviare un messaggio di incoraggiamento a tutti i cittadini e a chi è in prima linea nella lotta contro il virus realizzando un lenzuolo con l’arcobaleno e lo slogan “Andrà tutto bene”, affisso all’esterno del carcere. I detenuti del Pagliarelli di Palermo, dove è tuttora in corso una protesta pacifica, rispondono invece alla campagna di sensibilizzazione lanciata dall’Avis rendendosi disponibili a effettuare donazioni di sangue. Procedimenti giudiziari, estesi i termini delle sospensioni di Valerio Vallefuoco Il Sole 24 Ore, 18 marzo 2020 Nuova proroga della sospensione processuale dei termini per tutti i procedimenti giudiziari civili e penali pendenti e per quelli i cui termini di impugnazione ed opposizione vengano a scadere dal 9 marzo al 16 aprile del 2020. L’articolo 79 del decreto Cura Italia contiene anche nuove misure urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica da Covid-19, per contenerne gli effetti in materia di giustizia civile, penale, tributaria e militare. Vengono pertanto chiariti ed estesi i termini della sospensione processuale del precedente Dl 8 marzo 2020, numero 11 così come richiesto dalle associazioni di categoria degli avvocati. Sono quindi sospese tutte le udienze civile e penali in tutta Italia, le stesse disposizioni sono altresì estese anche ai processi tributari, ai procedimenti della magistratura militare ed ai processi amministrativi e contabili. Gli avvocati ma anche i commercialisti, consulenti del lavoro e tutti i soggetti abilitati alla difesa presso la magistratura tributaria non potranno effettuare alcuna udienza fino al 16 aprile. Successivamente saranno i capi degli uffici giudiziari a poter disporre ulteriori rinvii motivati dall’emergenza sanitaria. È stato espressamente chiarito che la sospensione processuale, ferme le eccezioni previste per alcune udienze urgenti, investe qualsiasi atto del procedimento e non solo del processo e si estende anche ai termini stabiliti per la fase delle indagini preliminari, per l’adozione di provvedimenti giudiziari e per il deposito della loro motivazione, per la proposizione degli atti introduttivi del giudizio e del procedimento esecutivo, per le impugnazioni e, in genere, riguarda tutti i termini procedurali e quindi anche dei procedimenti esecutivi e concorsuali. Ulteriore modifica e precisazione tendente a risolvere i problemi interpretativi sollevati al computo del termine cosiddetto “a ritroso” è stato l’utilizzo del differimento dell’udienza o della diversa attività cui sia collegato il termine, in modo da farlo decorrere nuovamente al di fuori del periodo di sospensione. Sono state riproposte tutte le eccezioni per i processi già definiti urgenti dal precedente decreto. Sono state introdotte delle rilevanti novità normative al sistema delle notificazioni e delle comunicazioni attualmente previsto dal Codice di procedura penale, consentendo agli uffici giudiziari di comunicare celermente e senza la necessità di impegno degli organi notificatori i provvedimenti destinati alla comunicazione alle parti processuali delle date delle udienze attraverso il sistema di notificazioni e comunicazioni telematiche. Viene così consentita la notifica presso il difensore di fiducia dell’imputato e di tutte le parti private, da effettuarsi tramite invio all’indirizzo di posta elettronica certificata di sistema. Sempre nel settore penale, nel decreto, sono state prorogate le sessioni delle Corti di assise e delle Corti di assise di appello per evitare la convocazione di un numero considerevole di persone presso gli uffici giudiziari, per la selezione dei giudici popolari. Infine la nuova normativa ha anche sospeso tutti i termini per il compimento degli atti previsti nei procedimenti di mediazione e di negoziazione assistita da avvocati, nonché in tutti gli altri procedimenti previsti per la risoluzione alternativa delle controversie che costituiscono condizione di procedibilità della domanda giudiziale alla data del 9 marzo, prevedendo la sospensione dello svolgimento di qualunque attività prevista adeguando questa sospensione alla durata massima degli stessi procedimenti. Mancato versamento ritenute, pena tagliata all’imprenditore che salva posti di lavoro di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 18 marzo 2020 Corte di cassazione - Sezione III - sentenza 16 marzo 2020 n. 10084. Il giudice non può escludere a priori uno sconto ulteriore di pena per l’imprenditore che, a causa della crisi economica, non versa le ritenute certificate per salvare posti di lavoro. Ma deve valutare la possibilità di applicare l’attenuante per aver agito per ragioni di particolare valore sociale. La Cassazione, con la sentenza 10084, accoglie il ricorso di un amministratore di società, condannato per aver violato l’articolo 10-bis del Dlgs 74/2000. Ad avviso della Suprema corte, i giudici di appello hanno correttamente affermato l’esistenza del reato. Perché la crisi di impresa, pur se non addebitabile all’imprenditore, non esclude il dolo nel reato tributario, specialmente quando, come nel caso esaminato, si protrae per anni, senza che le iniziative adottate abbiano effetto. La corte territoriale ha però sbagliato a non considerare gli argomenti della difesa, ai fini dell’applicazione dell’attenuante generica, che stava nell’aver tentato di salvare l’occupazione di 55 dipendenti. Ad avviso della Cassazione poteva scattare l’articolo 62 bis del Codice penale, che prevede la possibilità di far concorrere le attenuanti generiche con le comuni. A far pendere il piatto della bilancia a favore del manager c’erano le azioni messe in atto per evitare il fallimento e garantire il lavoro ai dipendenti. Dopo la marcia indietro di una finanziaria, che si era detta pronta a intervenire per il risanamento, la società di famiglia dell’imputato aveva messo in gioco tutto il suo patrimonio fino ad arrivare alla liquidazione. L’amministratore aveva rinunciato al suo compenso e offerto garanzie personali alle banche per ottenere un nuovo credito. Il tutto sperando che la congiuntura economica sfavorevole avesse una fine. La Corte d’Appello dovrà dare un peso a queste condotte, per valutare un maggiore sconto di pena, rispetto a quello concesso riconoscendo le attenuanti specifiche. Immigrazione, non esclusa la particolare tenuità per il mancato allontanamento di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 18 marzo 2020 Corte di cassazione - Sentenza n. 10275 del 16 marzo 2020. Sì alla particolare tenuità del fatto, quella prevista dall’articolo 34 del Dlgs 274/2000 che regolamenta la competenza penale del giudice di pace, anche per lo straniero che entri illegalmente nel territorio italiano o non ottemperi all’obbligo di allontanamento. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza n. 10275 del 16 marzo, accogliendo con rinvio il ricorso di un uomo di nazionalità nigeriana. Il giudice di pace di Ferrara lo aveva condannato a 10mila euro di multa in quanto responsabile del reato previsto dall’art. 14, comma 5-ter, del Testo unico immigrazione per non aver adempiuto all’ordine di lasciare il territorio emesso dal questore di Agrigento nel dicembre 2015. Secondo il Gdp era da escludere l’applicazione della causa di non punibilità considerato che la norma “si fonda su di un giudizio precostituito di offensività soggettiva e indifferenziata dell’interesse ad una disciplina dei flussi migratori”, senza possibilità dunque di distinguere tra comportamenti più gravi o meno gravi, “trattandosi di reato di pura condotta”. Una lettura bocciata dalla Prima Sezione penale che ricorda come la Corte costituzionale abbia chiarito, nella sentenza n. 250 del 2010, con riferimento ai casi in cui lo straniero si trattenga oltre il termine per ragioni “puramente contingenti” (quali per esempio l’aver perso l’aereo o il non aver ricevuto tempestivamente dai parenti all’estero il denaro per l’acquisto del biglietto), che può operare l’istituto dell’esclusione della procedibilità per “particolare tenuità del fatto”, anche considerata l’attribuzione della competenza per questo reato al giudice di pace. Pertanto, prosegue la decisione, tale norma di diritto sostanziale si applica ai reati previsti dal Tu Immigrazione che rientrano nella competenza del giudice di pace, “anche perché nessuna indicazione in senso contrario sul punto si rinviene nelle disposizioni dello stesso T.U.”. La particolare tenuità, spiega infatti la sentenza, è fatta derivare “dalla esiguità, rispetto all’interesse tutelato, del danno o del pericolo rispettivamente derivati dalla commissione del reato, dalla occasionalità della violazione e dal ridotto grado di colpevolezza e dalla considerazione del pregiudizio che la prosecuzione del procedimento penale può arrecare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute dell’imputato”. In definitiva, conclude la Corte, “non è conforme a diritto l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata nella parte in cui afferma la non applicabilità della causa di non punibilità in riferimento ai fatti sussumibili nelle fattispecie rispettivamente previste dall’art. 10-bis e dall’art. 14-ter del t.u. immigrazione”. Spetterà dunque al giudice del rinvio pronunciarsi sull’istanza di applicazione della causa di non punibilità conformandosi al seguente principio “la norma recata dall’art. 34, comma 1, del Dlgs 274 del 2000, applicabile solo quanto ai reati da tale decreto attribuiti alla competenza del giudice di pace, è astrattamente riferibile a tutti i reati indicati dallo stesso decreto; compreso quello previsto dall’art. 14-ter del Dlgs n. 286 del 1998”. Lombardia. Coronavirus: contagi nelle carceri di San Vittore, Pavia e Voghera La Repubblica, 18 marzo 2020 Il Garante denuncia possibili maltrattamenti a Opera. Il positivo a Milano è un ragazzo di 19 anni, positivi anche due medici penitenziari a Brescia. Nei giorni scorsi la “rivolta” delle carceri italiane. Un detenuto di 19 anni, originario del Ghana, che era recluso nel carcere di San Vittore, è risultato positivo al coronavirus e si trova attualmente ricoverato all’ospedale Niguarda di Milano. “Ha contratto l’infezione all’esterno dell’istituto dove non è presente dallo scorso dicembre”, ha precisato Giacinto Siciliano direttore del carcere. In questi giorni anche due detenuti del carcere di Pavia sono risultati positivi al Covid-19, così come un detenuto del carcere di Voghera (Pavia). Contagiati, inoltre, due medici del carcere di Brescia. Lo si apprende da fonti di polizia penitenziaria. Già all’interno del carcere Sant’Anna di Modena, dove circa dieci giorni fa è scoppiata la rivolta che ha portato alla morte di nove detenuti a quanto pare per overdose di farmaci e che poi è dilagata in molti altri penitenziari del Paese, era stato precedentemente riscontrato un caso di coronavirus in un detenuto. Un altro caso c’era stato nel carcere di Lecce. Ma dalle carceri non arrivano solo notizie di contagi. Il garante dei detenuti del Comune di Milano, Francesco Maisto, ha presentato una denuncia alla Procura in cui fa riferimento a possibili maltrattamenti ai danni dei reclusi nel carcere di Opera. “Ho ricevuto attraverso diverse vie di comunicazione - spiega - informazioni su presunti maltrattamenti a Opera nel pomeriggio del 9 marzo scorso, rispetto ai quali ho chiesto l’attenzione della Procura perché ne accerti la veridicità e la consistenza, nonché al locale magistrato di Sorveglianza che ha effettuato due ispezioni”. I pericoli di contagi, secondo Maisto, “sono costantemente presenti e attualmente stanno producendo i loro tragici frutti, a causa della diffusione del morbo. I gravissimi episodi di rivolta, sinora tenuti a freno - avverte - potrebbero crescere senza possibilità di contenimento e assumere forme diverse non facilmente contrastabili”. E rimanendo ai penitenziari, ma guardando oltre la Lombardia, è partita oggi nella casa circondariale di Massa (Massa Carrara) la produzione di mascherine per l’emergenza coronavirus. Lo rende noto il parlamentare Iv Cosimo Maria Ferri. Il laboratorio interno al penitenziario, “dove già lavoravano diversi detenuti e venivano prodotte lenzuola e federe per tutte le carceri italiane e per tutte le caserme degli agenti penitenziari - spiega Ferri - vista l’emergenza sanitaria per Covid-19, trasformerà la propria attività e produrrà mascherine chirurgiche”. Le mascherine “saranno destinate prima di tutto a tutto il personale del settore penitenziario, ai detenuti, e a coloro che frequenteranno il carcere. Soddisfatte queste esigenze, grazie ad un accordo con il ministero della Sanità e con le Asl, le mascherine potranno essere destinate anche alle strutture ospedaliere”. Lombardia. I magistrati di Sorveglianza a Bonafede: “Forti interventi normativi” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 marzo 2020 Le carceri lombarde scoppiano e in alcuni casi il Coronavirus ha fatto capolino. A causa di ciò, il rischio concreto che possano scoppiare di nuovo le rivolte è sempre più vicino. Un problema che affligge anche gli agenti penitenziari, sempre più insofferenti di questa situazione. Parliamo della regione più colpita dalla pandemia e i presidenti dei Tribunali di sorveglianza di Milano e Brescia, che coprono l’intero territorio, lanciano l’allarme e chiedono “forti interventi normativi”, tramite una lettera indirizzata al ministro della giustizia Alfonso Bonafede. “Nonostante il massimo impegno di tutti gli operatori - scrivono le presidenti Giovanna Di Rosa e Monica Lazzaroni la diffusione del virus all’interno degli istituti costituisce una situazione altamente depotenziante la possibilità di controllo degli stessi”, che potrebbe far scoppiare nuove proteste dopo quelle “contenute” dei giorni scorsi. I pericoli di contagio sono “costantemente presenti e attualmente stanno producendo i loro tragici frutti, a causa della diffusione del morbo e dei dati che sono rassegnati quotidianamente anche alla sua attenzione”, scrivono a Bonafede. L’impegno enorme dei magistrati di sorveglianza per valutare e concedere le misure alternative al carcere a coloro che ne hanno diritto, in modo da ridurre il sovraffollamento delle celle e contenere il rischio di contagio “purtroppo prevedibile”, non è sufficiente di fronte a norme prevedono una “tempistica non adeguata alla situazione di assoluta emergenza che la Lombardia sta vivendo”. Non è migliore la situazione dei Tribunali di sorveglianza che “lavorano in uno stato di guerra” e sono al “collasso” per svolgere le udienze via skype ed evitare il pericolo di contagio durante le traduzioni. Per “fronteggiare l’emergenza”, basterebbero poche, precise norme applicabili senza l’intervento dei giudici di sorveglianza: detenzione domiciliare “per coloro che hanno pena anche residua inferiore ai 4 anni”; riduzione di pena di 75 giorni ogni sei mesi scontati in buona condotta; licenza speciale di 75 giorni ai semi liberi. “Si tratterebbe ovviamente di provvedimenti destinati a coloro che non hanno partecipato alle note rivolte e che hanno tenuto nel corso della detenzione regolare condotta”, puntualizzano subito i due magistrati. Senza questi interventi, avvertono, “non è possibile fronteggiare l’emergenza così drammaticamente insorta: il virus corre più veloce di qualunque decisione che, alle condizioni date, è certo perverrebbe fuori tempo massimo”, perché “la Lombardia versa in una situazione che non è possibile assimilare al resto d’Italia, per la sua gravità, ma può costituire il dato esperienziale per evitare che il morbo si propaghi al resto d’Italia”, concludono Di Rosa e Lazzaroni, che invitano il Guardasigilli a visitare le carceri della regione per rendersi conto di persona di quello che sta succedendo. Piemonte. Il Garante regionale dei detenuti: “Urgente ridurre il numero dei carcerati” torinoggi.it, 18 marzo 2020 “Soprattutto adesso, dopo che è giunta la notizia di un primo caso di contagio da coronavirus nel carcere di Voghera: inevitabilmente, altri ne seguiranno”, sottolinea Bruno Mellano. Il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte Bruno Mellano, insieme al Coordinamento regionale dei Garanti comunali piemontesi delle persone detenute o private della libertà, intendono esprimere pubblicamente la propria preoccupazione per la fase attuale che vive la comunità penitenziaria italiana, e quella piemontese nello specifico. Sono urgenti interventi straordinari per far diminuire la presenza di detenuti nelle carceri del Piemonte: in questi minuti arriva la notizia di un primo caso di contagio nel carcere di Voghera e, inevitabilmente, altri ne seguiranno. Una comunità che conta in Piemonte circa 4.600 detenuti nelle 13 carceri per adulti e un istituto penale per minori con una capienza effettiva complessiva di solo 3.700 posti, con oltre 3.000 agenti di polizia penitenziaria e circa 500 operatori dei vari settori, rappresenta una situazione solo parzialmente protetta: i detenuti e gli agenti in primis ne sono consapevoli. Le condizioni di vivibilità negli ambienti insalubri, ristretti e chiusi delle nostre carceri sono ordinariamente precarie, ora con il rischio contagio in un contesto di sovraffollamento grave si rivelano tutte le vulnerabilità del sistema: impossibile pensare che nei nostri penitenziari si possano mettere in atto misure di distanziamento sociale o di prevenzione richieste per l’esterno. La sfida finora è stata prevalentemente quella di bloccare all’ingresso ogni possibile fonte di contagio per un mondo chiuso, ma permeabile alla società esterna: le decisioni messe in campo hanno inciso pesantemente sul versante della popolazione detenuta, ma rimane aperta la sponda degli operatori che garantiscono il funzionamento della macchina detentiva. Noi non possiamo che auspicare che il contesto sia ben presidiato e in questi giorni abbiamo continuato a segnalare situazioni e problematiche emergenti allo sguardo dell’osservatore esterno quale è un garante. Abbiamo sollecitato e richiesto un’efficace ed efficiente presa in carico della situazione da parte dell’Assessorato alla Sanità e poi dell’Unità di Crisi, ben consapevoli che l’Amministrazione penitenziaria e i singoli direttori (dove presenti) non potessero e dovessero fare da soli. Ora lanciamo un pubblico appello alla Magistratura giudicante e di sorveglianza affinché possano - nell’immediato - affrontare di petto la situazione: nessun istituto penitenziario piemontese ha, ad oggi, gli spazi fisici né i posti letto separati necessari per gestire in sicurezza numeri significativi di casi di sospetti contagi o tanto meno numeri rilevanti di casi positivi asintomatici o nelle fasi lievi o iniziali. Si tratta certo di pensare a piani straordinari dal punto di vista organizzativo delle carceri, ma in questi giorni abbiamo dovuto registrare l’arrivo di decine di detenuti sfollati da altri istituti danneggiati dalle rivolte e questo ha vanificato in molti casi gli sforzi riorganizzativi messi in campo per ricavare spazi e zone di isolamento. Diventa dunque di impellente urgenza un intervento straordinario della Magistratura, in particolare quella di sorveglianza, volto all’immediato deflazionamento della presenza in carcere, in linea con le previsioni del decreto-legge “Cura Italia”. Il Governo ha infatti previsto misure innovative o deroghe ai vincoli per permettere maggior celerità e maggior ampiezza di intervento. Si calcola che l’effetto delle nuove misure possa essere alquanto contenuto, ma si spera possa rappresentare l’inizio di un percorso: il Garante nazionale segnala che il numero complessivo di coloro che devono scontare una pena fino a sei mesi, senza altre pendenze, è oggi pari a 3.785, mentre il complessivo numero di coloro che devono scontare una pena o un residuo pena fino a un anno sale a 8.629. Come Garanti territoriali sottolineiamo che nell’ordinamento italiano sono già presenti norme e strumenti giuridici di esecuzione penale alternativi alla reclusione e che l’emergenza ne esiga la più veloce attivazione. Indubbiamente un ruolo decisivo - anche in questo frangente - avranno le valutazioni del singolo magistrato in merito alla reale dimensione della problematica attuale e soprattutto di quello che si rischia di dover affrontare nei prossimi giorni. Pur nella consapevolezza della difficoltà di lavorare in questa emergenza, riteniamo nostro imprescindibile dovere ricordare che la situazione attuale - per come noi la conosciamo dall’interno delle varie comunità penitenziarie piemontesi - esige di affrontare con occhi e metri diversi i casi che giungono all’attenzione del Magistrato. Su questa emergenza l’impegno dei Garanti, come quello degli Avvocati e dell’Amministrazione Penitenziaria deve essere al fianco della Magistratura, filtro necessario di ogni provvedimento deflattivo del carcere, per cercare di garantire tempi certi e necessariamente celeri. Lazio. Coronavirus, dalla Regione le istruzioni per le carceri romatoday.it, 18 marzo 2020 “Ma è necessario ridurre il numero dei detenuti”. La richiesta ribadita dal Garante dei detenuti del Lazio Anastasìa che conferma: “Nessun caso di Covid-19 nel Lazio”. Dopo le proteste dei giorni scorsi nelle carceri romane, così come quelle italiane, i detenuti e le loro famiglie attendono di capire quali misure verranno messe in campo e, soprattutto, con quali tempi visto il crescere dell’emergenza Coronavirus. Come ha fatto sapere con una nota il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasìa, oggi dalla Regione sono arrivate le indicazioni sanitarie per contenere e gestire un eventuale contagio da Covid-19 negli istituti penitenziari nel Lazio. La nota, inviata dal Direttore per la Salute della Regione Lazio, Renato Botti ai direttori generali delle Asl, ai dirigenti regionali dell’Amministrazione penitenziaria e della Giustizia minorile, alla presidente del Tribunale di sorveglianza, disciplina le precauzioni standard di prevenzione della diffusione del virus e le modalità di valutazione ed eventuale assistenza dei detenuti in ingresso o già all’interno negli istituti penitenziari. Un “passaggio essenziale di condivisione e omogeneizzazione delle procedure”, commenta il Anastasìa che però presuppone “un significativo ridimensionamento della popolazione detenuta”. Ridurre il sovraffollamento per Anastasìa è “essenziale per poter disporre le misure di isolamento sanitario, anche in via precauzionale, laddove dovessero registrarsi casi di positività”. Una preoccupazione comprensibile, viste anche le notizie che arrivano da alcune carceri lombarde, “anche se nel Lazio non si registrano casi di positività”, ribadisce il Garante. In quanto alle misure di sicurezza sanitaria, secondo quanto apprende Romatoday, presso gli istituti penitenziari sono state allestite delle tende della protezione civile “per effettuare controlli sanitari sui detenuti in ingresso”. Come raccontato da Romatoday, su impulso del Tribunale di sorveglianza ormai qualche giorno fa ai detenuti di Rebibbia con pene inferiori ai 18 mesi sono state fatte compilare domande di domiciliari e la polizia penitenziaria ha iniziato a verificare i domicili dei diretti interessati. Campania. Coronavirus, il Garante Ciambriello: “Il decreto carceri è insufficiente” Il Mattino, 18 marzo 2020 “Il decreto carceri è insufficiente. È certamente una presa di coscienza che il problema esiste. Certo un segnale c’è, è un primo passo, vengono incentivate prassi virtuose e si andavano già organizzando in molti istituti penitenziari e in tanti uffici di Sorveglianza. Da adesso si potranno consolidare e diffondere”. È quanto afferma Samuele Ciambriello, Garante campano dei detenuti in merito al decreto approvato ieri dal governo in materia di prevenzione e diffusione del Corona virus in carcere. “Una norma dall’impatto incerto che va nella direzione di liberare dal carcere migliaia di detenuti, quindi liberare migliaia di posti letto per rendere più vivibili e legali le celle. Certo, se queste misure, l’impegno degli operatori penitenziari, dei magistrati, dei direttori delle carceri, del terzo settore, delle associazioni di volontariato non saranno state sufficienti, bisognerà avere il coraggio di tornarci, e soprattutto la politica dovrà essere meno pavida e populista”, aggiunge Ciambriello. Il Garante poi comunica che “la procedura prevista stabilisce che la misura sia applicata dal magistrato di sorveglianza, su istanza dell’interessato, per iniziativa della direzione dell’istituto penitenziario oppure del Pubblico ministero. Occorre rafforzare la dotazione di personale presso gli Uffici di Sorveglianza che è un settore strategico della giustizia penale. Su questo tema specifico ho scritto una lettera al ministro della Giustizia. Comunico inoltre che i semiliberi potranno restare a dormire a casa loro fino alla fine di giugno”. Porto Azzurro (Li). Detenuto si toglie la vita inalando una bomboletta di gas Il Tirreno, 18 marzo 2020 Il corpo senza vita dell’uomo di 54 anni è stato trovato domenica in una delle celle del penitenziario elbano. Una tragedia si è consumata nel carcere di Porto Azzurro. Un detenuto toscano di 54 anni si è tolto la vita nella sua cella. Sono stati gli agenti della polizia penitenziaria a trovare il corpo senza vita dell’uomo, la mattina di domenica. Hanno provato a prestare soccorso al detenuto ma, purtroppo, non c’è stato niente da fare. La direzione della casa di reclusione di Porto Azzurro ha informato immediatamente l’autorità giudiziaria livornese su quanto accaduto all’interno del penitenziario elbano. Alla base del gesto del detenuto, che era recluso da alcuni anni nella struttura carceraria dell’isola d’Elba e aveva quasi finito di scontare la sua pena, ci sarebbero motivi familiari e personali. Il gesto non sarebbe in alcun modo collegato alle ultime tensioni vissute nelle carceri del paese, nate nel pieno dell’emergenza per il coronavirus. Il cinquantaquattrenne, secondo quanto raccolto, si sarebbe tolto la vita inalando il gas di una bomboletta in dotazione per scaldare cibi e bevande. La mattina di domenica, durante i controlli di routine svolti dal personale del carcere, si è concretizzata la tragedia, che ha coinvolto la comunità carceraria di Forte San Giacomo. La salma del detenuto di 54 anni è stata trasferita a Portoferraio dal personale dell’impresa funebre Fuligni e da domenica mattina è all’obitorio dell’ospedale di Portoferraio, già a disposizione dei familiari, in attesa del trasferimento nella sua città di origine. Milano. Una task-force per le carceri di Mario Consani Il Giorno, 18 marzo 2020 “Velocizzare le misure alternative a chi ne ha diritto”. Una “task-force” di addetti ai lavori per alleggerire il sovraffollamento delle carceri lombarde, applicando le norme in vigore e nel rispetto della sicurezza dei cittadini. Di fatto, l’avvio di una ricognizione su larga scala delle posizioni dei quasi 9mila detenuti nei diversi Istituti di pena in regione, che consenta di individuare tutti quelli che potrebbero usufruire delle diverse misure alternative al carcere. È un tavolo virtuale quello che ha riunito ieri via Skype i presidenti dei due Tribunali di sorveglianza di Milano e di Brescia, il Provveditorato regionale alle carceri, i direttori delle Case di reclusione, i Garanti dei diritti dei detenuti e una rappresentanza del volontariato più impegnato nei diversi Istituti penitenziari. Entro una settimana l’impegno a riconvocarsi con un quadro più preciso della situazione, in questo modo si saprà presto quanti sono, per esempio, i detenuti tossico-dipendenti con pena sotto i sei anni che, come prevede la legge, potrebbero aver diritto all’affidamento terapeutico in comunità. Quanti gli ultra-settantenni che potrebbero andare ai domiciliari, quanti quelli con pena residua tale da poter garantire loro l’affidamento ai servizi sociali o la detenzione tra le mura. Tutte situazioni già previste dalla legge, naturalmente, ma che in troppi casi non vanno a buon fine per problemi pratici legati alla difficoltà di trovare comunità terapeutiche disponibili, alloggi per chi non ha casa dove scontare il residuo della pena o un lavoro per chi non l’ha mai avuto. Tutti intoppi che nell’intenzione del tavolo convocato ieri dai presidenti della Sorveglianza, Giovanna Di Rosa (Milano) e Monica Lazzaroni (Brescia) verrebbero presi di petto e affrontati nel più breve tempo possibile proprio in considerazione dell’emergenza sanitaria a fronte del sovraffollamento delle celle. È facile, infatti, immaginare quale potrebbe essere, in quelle condizioni, l’escalation di un contagio da Coronavirus. Ben oltre il migliaio dovrebbero essere i casi di detenuti nel complesso (ma forse molti di più), che se venissero trattati regolarmente, ma con tempi accelerati rispetto all’ordinario potrebbero dare un po’ di respiro a una condizione come quella esistente che - è il caso di ricordarlo - in Lombardia vedeva a fine febbraio 2020 (dati ministeriali) 8.720 detenuti per 6.199 posti letto, con un tasso di sovraffollamento del 140 per cento, doppio rispetto a quello nazionale. Nei giorni scorsi, peraltro, i due presidenti Di Rosa e Lazzaroni avevano già inviato al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede una lettera in cui suggerivano anche delle modifiche legislative per “fronteggiare l’emergenza”, per esempio, la detenzione domiciliare “per coloro che hanno pena anche residua inferiore ai 4 anni” (la riduzione di pena di 75 giorni ogni sei mesi scontati in buona condotta) e/o “una licenza speciale di 75 giorni ai semi liberi”. A scanso di equivoci, i due magistrati ricordavano che “si tratterebbe ovviamente di provvedimenti destinati a coloro che non hanno partecipato alle note rivolte e che hanno tenuto nel corso della detenzione regolare condotta”. Bari. Proteste in carcere e per strada, doppia indagine di Luca Natile Gazzetta del Mezzogiorno, 18 marzo 2020 S’indaga sui disordini all’interno della Casa circondariale e sulle manifestazioni fuori dal carcere dell’8 e 9 marzo. Dentro prove tecniche di rivolta, fuori il presidio non autorizzato di moglie, madri, figlie e fidanzate dei detenuti, i volti coperti da mascherine respiratorie, affiancate dagli attivisti dei centri sociali. Dentro la Casa circondariale “Francesco Rucci” i loro mariti, figli, fidanzati accendevano falò con indumenti e coperte al grido “Libertà, libertà”. Per strada le loro famiglie urlavano a gran voce “Amnistia, amnistia”, mostrando striscioni a tema unico “Mettetevi le mascherine sulla coscienza”, “Il detenuto è uno di noi. Non lo lasceremo solo” e “Domiciliari, indulto e amnistia per tutti i reclusi. Tutti liberi”. Al rullo di tamburo suonato fuori dalle mura, i carcerati hanno risposto a tempo battendo oggetti sulle grate, alle quali alcuni hanno tentato di arrampicarsi. E poi urla, invocazioni, saluti scambi di commenti ad alta voce. In una sezione alcune decine di detenuti, tutti o quasi legati alla stessa famiglia malavitosa, si sono rifiutati di rientrare nelle celle. Dentro la mobilitazione delle guardie carcerarie in tenuto antisommossa. Fuori il traffico bloccato lungo via Papa Giovanni XXIII, tra corso Alcide De Gasperi e via Giulio Petroni. La protesta “#fatelitornareacasa”, inscenata 1’8 marzo, giorno della festa della donna, e il 9, non è rimasta una parentesi folcloristica. I detenuti, “considerata l’emergenza causata dalla pandemia Covi- 19” hanno affidato al loro garante regionale Piero Rossi, una lettera destinata al presidente della Repubblica e al ministro della Giustizia, chiedendo “il riconoscimento dei benefici di legge a coloro che rientrano nei termini e nei requisiti, escludendo la discrezionalità dei giudici che potrebbero creare differenze di applicazione tra i diversi tribunale di sorveglianza”. Gli agenti della polizia giudiziaria della Polizia Penitenziaria, per quando accaduto tra le pareti blindate della casa circondariale e gli investigatori della Squadra mobile e della divisione investigazioni generali e operazioni speciali (Digos) della Questura, per la manifestazione in strada hanno invece aperto due distinti fascicoli di indagine. Su entrambe le inchieste viene mantenuto il riserbo. Fonti attendibili riferiscono che all’interno del carcere la protesta sia stata inscenata dai più giovani, rinchiusi, come abbiamo già detto nella sezione che raduna i detenuti imputati per processi che hanno toccato la famiglia mafiosa degli Strisciuglio o che comunque sono vicini ed organici a quel clan. Presi dall’eccitazione, trascinati dalla foga, a quanto pare, non hanno dato ascolto ai consigli dei più anziani i quali non si sarebbero uniti alla protesta, mantenendosi nelle retrovie. Fuori dalle mura, invece nell’informativa di reato che i detective della Squadra Mobile e della Digos hanno già inviato alla Procura della Repubblica, ipotizzando una serie di violazioni. La prima al testo unico che contiene le leggi sulla pubblica sicurezza, il quale prevede espressamente, in caso di manifestazioni l’obbligo di preavvisare il questore che è la massima autorità per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica. Il secondo reato contestato è quello relativo al blocco stradale, reintrodotto dal decreto sicurezza 2018 che prevede la reclusione da 1 a 6 anni per chi ostruisce o ingombra una strada. Infine, limitatamente al secondo giorno di proteste, il 9 marzo, (data in cui la “zona rossa” è stata estesa a tutta Italia), l’informativa ipotizzata la violazione delle prescrizioni del Decreto governativo finalizzate al contenimento e alla gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19. Gli investigatori stanno ultimando di analizzare i filmati della protesta. Hanno già identificato e identificato una parte di coloro che vi hanno partecipato. Tra questi, insieme ai parenti dei detenuti, anche una decina di militanti dei centri sociali. Tutti i nomi verranno comunicato all’autorità giudiziaria nelle prossime ore. Melfi (Pz). Carceri e detenuti, di chi sono le responsabilità di Daniela Manzitti Gazzetta del Mezzogiorno, 18 marzo 2020 Sono la madre di un ragazzo detenuto a Melfi. Sono alquanto basita e amareggiata nel constatare che, una categoria così fragile, come quella dei detenuti, sia completamente abbandonata a sé stessa. Si sono accesi i riflettori solo nei giorni delle rivolte, diffondendo tra i cittadini “onesti”, una sorta di odio nei confronti della popolazione carceraria. Le rivolte hanno avuto motivo d’esserci, è inutile dire che dovevano protestare pacificamente! Non sono mai stati ascoltati in tempo di pace, figuriamoci in tempo di guerra! È anche ingiusto fare di tutta l’erba un fascio identificandoli tutti come i facinorosi di Foggia. Le dico una cosa: gli evasi sarebbero potuti essere molti di più, ma davvero molti, invece la maggior parte di loro sono rimasti al proprio posto, consapevoli di doverlo fare! E sono convinta che, quei pochi che sono evasi hanno avuto e avranno a che fare con il disappunto degli altri detenuti sui quali è ricaduta la responsabilità! Siamo abituati a leggere articoli dove si evidenzia il coraggio e il vittimismo delle guardie penitenziarie, che sicuramente svolgono il loro compito con impegno e professionalità (non tutti), ma è così difficile spezzare una lancia a favore dei detenuti, molti dei quali sono rassegnati e consapevoli di dover pagare il loro conto alla giustizia. La invito pertanto a leggere un’intervista fatta ad una psicologa che si è trovata di turno a Melfi, nel momento della rivolta. L’ho appena letta e non mi giungeva cosa nuova: ho sentito telefonicamente mio figlio qualche giorno dopo l’evento, e mi spiegò esattamente come erano andati i fatti (ma erano solo le parole di un ragazzo detenuto). Quindi, questa intervista resa pubblica, mi ha confermato che i fatti non erano andati come descritto da decine di quotidiani, ovvero con la furia e la violenza dei detenuti, il sequestro di guardie e personale sanitario, ma piuttosto come lui me li aveva raccontati. Questo mi ha fatto quasi inorgoglire, perché sapevo che mio figlio non avrebbe mai potuto fare del male a qualcuno (specialmente in un ambiente come quello dove vige, al contrario di quello che si possa credere, rispetto tra detenuti e guardie e viceversa) né lui né altri che si trovano lì per espiare le proprie colpe con consapevolezza e rassegnazione. Ho scritto una lettera al Ministro Bonafede che, sinceramente non si sta dimostrando all’altezza della situazione. Salerno. Sono 24 i detenuti che saranno trasferiti dopo la sommossa avvenuta il 7 marzo zerottonove.it, 18 marzo 2020 Sono 24 i detenuti che, dal carcere di Fuorni, Salerno saranno trasferiti dopo le sommosse avvenute lo scorso 7 marzo, in carceri fuori regione. Questo è il primo dei provvedimenti adottati contro i 150 detenuti che hanno messo a soqquadro la struttura penitenziaria salendo sul tetto e distruggendo alcune zone. La causa di questa sommossa è stata la chiusura dei colloqui settimanali per contenere il contagio del Coronavirus. Il divieto del colloquio, come scrive La Città, ha portato dei tumulti fin dalla mattina del 7 marzo che sono poi continuati fino a sfociare in una vera e propria guerriglia nel pomeriggio. I detenuti della prima sezione hanno cercato di ricavare delle armi rudimentali ricavate dai piedi delle brande e hanno distrutto tutto ciò che si trovavano davanti fino a riuscire a salire sul tetto della struttura. Durante la sommossa è rimasta ferita la direttrice della struttura che aveva cercato, inutilmente, di placare la rivolta. In tutta risposta i detenuti hanno utilizzato gli idranti per “eliminare” chiunque provava a mettere fine alla situazione. Solo dopo numerose ore di trattative, alcuni detenuti hanno deciso di fermare la sommossa e tornare volontariamente alle proprie celle. Siracusa. Il Garante dei detenuti: “responsabili della rivolta in carcere denunciati e trasferiti” blogsicilia.it, 18 marzo 2020 Visita in carcere, nel penitenziario di Siracusa, del garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune, Giovanni Villari. È il primo sopralluogo dopo i disordini di martedì scorso per verificare le condizioni dell’istituto. “I segni della devastazione - spiega Villari - sono ancora molto evidenti, sebbene si sia provveduto a rimuovere buona parte delle macerie e degli arredi distrutti. La cucina centrale, barbaramente danneggiata insieme alla dispensa, è stata in parte ripristinata, anche grazie al lavoro volontario di alcuni detenuti siracusani abili nel mestiere di muratore e imbianchino, e funziona quasi a pieno ritmo per la preparazione dei pasti. Alcuni ambienti risultano ancora inagibili, pertanto i detenuti sono stati ulteriormente allocati in celle di per sé già molto piccole. Due delle sezioni coinvolte nella rivolta del “Blocco 50” sono state completamente evacuate. I responsabili dei gravi atti vandalici sono stati individuati, denunciati e trasferiti in altre carceri, come tutti gli ospiti delle sezioni stesse”. In merito alla rivolta il garante del Comune di Siracusa precisa. “Non tutti i detenuti hanno però preso parte alla devastazione violenta e al tentativo di evasione, scongiurato dall’intervento della polizia penitenziaria. Diversi tra loro, pur nella foga della rivolta, si sono astenuti dagli atti vandalici e distinti dagli altri. La direzione si è premurata di igienizzare le aree di percorso comuni, quali corridoi, sale per la socialità, cortili e rotonde da cui si accede alle sezioni. Si attendono ulteriori presidi sanitari, quali soluzioni igienizzanti e prodotti specifici”. Secondo il garante ci sono altre emergenze. “Come dal primo giorno - spiega - di emergenza, le chiamate ai familiari continuano ad essere quotidiane per tutti, ma anche in questo caso l’assenza di prodotti adatti per igienizzare le postazioni telefoniche e gli apparecchi di volta in volta mancano, tanto che ciascun detenuto provvede in proprio come può. Si segnala, con rammarico, che attualmente nessun presidio sanitario di protezione è stato fornito al personale amministrativo e ai funzionari giuridico-pedagogici che operano all’interno dell’Istituto e ciò perché le scorte promesse a tutti gli istituti non sono state sufficienti a coprire il totale fabbisogno” Siracusa. Coronavirus, nel carcere i detenuti realizzano le mascherine Quotidiano di Sicilia, 18 marzo 2020 Prime mascherine prodotte dai detenuti nel carcere di Siracusa. Il Garante comunale dei detenuti, Giovanni Villari, si è recato in visita al carcere Cavadonna, per la prima volta dopo i disordini di martedì scorso. “I segni della devastazione - ha detto - sono ancora molto evidenti, sebbene si sia provveduto a rimuovere buona parte delle macerie e degli arredi distrutti. La cucina centrale, danneggiata insieme alla dispensa, è stata in parte ripristinata, anche grazie al lavoro volontario di alcuni detenuti siracusani, e funziona quasi a pieno ritmo per la preparazione dei pasti. Alcuni ambienti risultano ancora inagibili, pertanto i detenuti sono stati ulteriormente allocati in celle di per sé già molto piccole. Due delle sezioni coinvolte nella rivolta del ‘Blocco 50’ sono state completamente evacuate. I responsabili dei gravi atti vandalici sono stati denunciati e trasferiti in altre carceri, come tutti gli ospiti delle sezioni stesse. Non tutti i detenuti hanno però preso parte alla devastazione”. “La direzione - ha aggiunto - si è premurata di igienizzare le aree di percorso comuni. Si attendono ulteriori presidi sanitari. Come dal primo giorno di emergenza, le chiamate ai familiari continuano ad essere quotidiane per tutti, ma l’assenza di prodotti adatti per igienizzare le postazioni telefoniche e gli apparecchi di volta in volta mancano, tanto che ciascun detenuto provvede in proprio come può. Si segnala, con rammarico, che attualmente nessun presidio sanitario di protezione è stato fornito al personale amministrativo e ai funzionari giuridico-pedagogici”. Il Prap (Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria) ha emanato un ordine affinché vengano realizzate mascherine artigianali di protezione all’interno del laboratorio di tessitoria dell’istituto, che produce il tessuto di cotone e il prodotto finito. Le mascherine saranno distribuite a tutti i detenuti. Si escludono al momento casi di contagio da Covid-19, né potenziali e né effettivi, tra i ristretti. Vi sono tuttavia delle persone detenute che necessiterebbero in tempi brevi di interventi medici specialistici presso la struttura ospedaliera cittadina. Napoli. Protesta dei familiari dei detenuti nel carcere di Poggioreale askanews.it, 18 marzo 2020 Assembramenti dei parenti nonostante ordinanza per Coronavirus. Non si fermano le proteste dei familiari dei detenuti del carcere di Poggioreale, a Napoli. Questa mattina i parenti dei detenuti della Casa Circondariale si sono nuovamente riuniti intorno all’ingresso principale del carcere, in via Nuova Poggioreale, nonostante l’ordinanza che vieta di uscire di casa e di dare vita ad assembramenti. Le persone hanno anche inscenato una protesta chiedendo la libertà e l’indulto per i loro familiari agli arresti. Diversi cittadini hanno segnalato l’episodio al Consigliere Regionale della Campania dei Verdi Francesco Emilio Borrelli e al conduttore radiofonico Gianni Simioli alla trasmissione “La Radiazza” in onda su Radio Marte, raccontando come siano stati aggrediti dai familiari dei detenuti, attraverso il lancio di oggetti vari, quando gli si è stato chiesto di rispettare le distanze di sicurezza per evitare contatti ed il diffondersi dell’epidemia da Coronavirus. “I familiari dei carcerati di Poggioreale dimostrano ancora una volta di voler essere al di sopra delle regole e delle leggi. Non solo, in barba ai decreti di sicurezza per il coronavirus, si sono riuniti dando vita ad un pericoloso assembramento di persone ma hanno pure aggredito chi ha chiesto loro di rispettare le ordinanze, hanno scaraventato oggetti contro i balconi dei residenti che chiedevano a questi soggetti di rispettare almeno le distanze di sicurezza. Sono degli irresponsabili che mettono in pericolo l’intera popolazione con il loro modo sconsiderato di agire, vanno fermati e devono essere puniti. Per questo li abbiamo segnalati alla Questura” - ha dichiarato il Consigliere Borrelli. Napoli. A Poggioreale va in onda la ressa, nessuno rispetta le misure anti-contagio di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 18 marzo 2020 Inarrestabile, incurante di ogni prescrizione, la folla di mogli, sorelle, genitori e affini dei detenuti di Poggioreale continua a sfidare le regole anti-contagio. Una nuova calca, ieri, sotto le mura del carcere-lager di Poggioreale. Al di là delle condivisibili, legittime preoccupazioni di chi ha un parente al di là delle sbarre, resta da denunciare lo stato di incomprensibile promiscuità nelle file che descrivono un lato della paura. Più delle parole, e al di là di ogni commento, a parlare sono le immagini, le foto diffuse dal consigliere regionale dei Verdi, Francesco Emilio Borrelli. “I familiari dei detenuti di Poggioreale non si arrendono - denuncia - e continuano a svolgere assembramenti inscenando proteste improvvisate. I parenti dei detenuti della Casa Circondariale di Poggioreale si sono nuovamente riuniti intorno all’ingresso principale del carcere, in via Nuova Poggioreale, nonostante l’ordinanza che vieta di uscire di casa e di dare vita ad assembramenti. Con la scusa delle consegne dei pacchi hanno anche inscenato una protesta chiedendo la libertà e l’indulto per i loro familiari agli arresti”. Sia chiaro: legittimi tutti i timori legati ad una potenziale diffusione del Covid 19 all’interno delle carceri. Ma serve senso di responsabilità, anche da parte di chi poi - dopo aver portato ai propri cari, che sono reclusi - i generi di prima necessità. Diversi cittadini hanno segnalato l’episodio al consigliere Borrelli e al conduttore radiofonico Gianni Simioli alla trasmissione “La Radiazza” in onda su Radio Marte, raccontando come siano stati aggrediti dai familiari dei detenuti, attraverso il lancio di oggetti vari, quando gli si è stato chiesto di rispettare le distanze di sicurezza per evitare contatti ed il diffondersi dell’epidemia. “I familiari dei carcerati di Poggioreale dimostrano ancora una volta di voler essere al di sopra delle regole e delle leggi - dichiara Borrelli. Non solo, in barba ai decreti di sicurezza per il Coronavirus, si sono riuniti dando vita ad un pericoloso assembramento di persone, ma hanno pure aggredito chi ha chiesto loro di rispettare le ordinanze, scaraventando oggetti contro i balconi dei residenti che chiedevano a questi soggetti di rispettare almeno le distanze di sicurezza. Sono degli irresponsabili che mettono in pericolo l’intera popolazione con il loro modo sconsiderato di agire, vanno fermati e devono essere puniti. Per questo li abbiamo segnalati alla Questura”. Il Sappe, dal canto suo, denuncia le condizioni di perniciosa promiscuità che deriverebbero dalle condizioni nelle quali gli agenti della Penitenziaria sono costretti alla mensa del carcere di Secondigliano. Come sarà l’Italia domani lo si decide in questi giorni di emergenza coronavirus di Massimo Cacciari L’Espresso, 18 marzo 2020 Tra vent’anni potremmo dire di avere avuto una classe politica all’altezza capace di cogliere l’occasione per affrontare i mali antichi del Paese. Oppure ci diremo che questo è rimasto solo un sogno e l’inizio della fine. Ricordando oggi il lontano giorno in cui tutta l’Italia fu dichiarata “zona rossa” e miriadi di confini dividevano o cercavano di dividere comuni, provincie, regioni, anzi: una casa dall’altra, sembra incredibile misurare il cammino percorso. A molti quella grande crisi sanitaria apparve come il sigillo di un processo di irreversibile decadenza delle istituzioni nostre e europee, il simbolo della loro inettitudine a governare quel generale “mutamento di stato” che la nostra epoca rappresenta. E invece fu quel toccare il fondo da cui rimbalzò volontà politica, grande Politica. I giovani nati dopo quella data non possono immaginare la vera e propria “conversione” che la crisi produsse nell’intera classe dirigente del Paese, dalle forze politiche a tutte le organizzazioni di categoria. Mai, certo, il male è provvido, ma quello risvegliò intelligenze, fece comprendere i disastri del precedente trentennio, ne iniziò la sistematica cura. I primi segni della nuova fase, d’altronde, si potevano cogliere già nella gestione dell’emergenza stessa. Sotto il profilo medico-sanitario non vi era altra scelta, infatti, che seguire le indicazioni delle autorità scientifiche, del Consiglio superiore della sanità. Ma il Governo non si limitò affatto a questo né a stanziare confusamente qualche risorsa a fronte della scontata catastrofe per vitali settori della nostra economia. No, grazie anche a un’approfondita concertazione con le stesse opposizioni, il governo indicò le priorità di intervento, criteri e modalità di erogazione. Dimostrò subito di comprendere benissimo come non ci si ammali soltanto di corona virus, ma anche, e forse son mali di più lunga durata, e facilmente somatizzabili, di crescita ulteriore della disoccupazione, di precarietà dilagante, di smarrimento di ogni fiducia. Perciò si rivolse ai settori più colpiti dalla crisi (e fondamentali per l’economia del Paese), garantendo anzitutto ai lavoratori ogni forma di tutela (cassa integrazione o altro), e promettendo alle imprese una precisa riformulazione complessiva dei loro obblighi fiscali. Non solo, il Governo disegnò già durante i giorni in cui sembrava che l’unico imperativo categorico fosse “io sto a casa” (“padroni a casa propria” finalmente, scherzava qualcuno) le linee per affrontare le eccezionali difficoltà economico-finanziarie in cui ci si sarebbe trovati a “liberazione” avvenuta. I conti erano presto fatti e vennero esposti con chiarezza ai cittadini: erano in ballo centinaia di miliardi del Pil (il solo turismo, con annessi e connessi, valeva il 13%); altro che qualche miliardo in più di deficit; occorreva finalmente porre mano a riforme strutturali della spesa. Vennero cosi richiamati in servizio i Cottarelli, i Cassese, ed altre voci prima sistematicamente ignorate. Si indicarono i colossali risparmi ottenibili da una radicale spending review collegata a una autentica riforma anti-burocratica e federalistica del nostro Stato. Si ammisero francamente i ritardi, gli errori, le impotenze dei governi passati. E soprattutto si dichiarò solennemente che i costi della piccola guerra non sarebbero stati “spalmati” sui cittadini, tantomeno su quel 50% di essi che paga regolarmente e in toto le tasse. Finalmente la lotta all’evasione non sarebbe rimasta il solito ritornello. Tutto questo rassicurò, rincuorò, fece intendere che dalla crisi nascevano volontà e progetti nuovi. Mentre medici, infermieri, protezione civile lottavano nel loro campo con tutti i mezzi a disposizione, malgrado i tagli susseguitisi per tutto il precedente trentennio e le disuguaglianze immense tra le strutture sanitarie delle diverse regioni, il ceto politico compiva cosi il proprio dovere, anche girando Europa e mondo per difendere l’immagine del nostro Paese e combattere lo sciacallismo di “amici” concorrenti. I risultati di tutte queste iniziative e decisioni venivano illustrati ogni sera dopo i bollettini medici. Il buon giorno si vide cosi fin dal mattino, anzi: dal buio della notte. Il nostro Governo, forte di quella dolorosissima esperienza, si batté in ogni sede perché una nuova cultura politica si affermasse, coerente con il mondo globale in cui, ci piaccia o no, dobbiamo vivere. L’emergenza corona-virus non era “logicamente” diversa da tante altre che tormentavano quell’epoca fortunatamente passata. Nessuna crisi poteva restare locale. Si trattasse di finanza, di movimenti migratori, di ambiente, di malattie. Nessun muro ci difende dal dilagare del contagio. Se non quello che sappiamo costruire attraverso la cooperazione, l’intesa tra Stati, la definizione di regole e norme internazionali che si incardino nel diritto positivo di ciascuno. E ciò vale per ogni materia. La crisi sanitaria mise a nudo la necessità di questo salto. È vero che la sua natura, come quella dei terremoti, sembra trascendere ogni potenza politica, ma non è così. Il caso trascende soltanto una politica che non sia capacità di analisi e di previsione. Ma su tutte le grandi questioni noi abbiamo la capacità di prevedere e dunque prevenire. Una politica che insegue l’emergenza non poteva essere all’altezza dell’epoca. Per il semplice fatto che l’emergenza in essa si fa fisiologica e cessa perciò di essere tale. Scoprimmo allora che era necessaria una cultura politica in grado di prevenire, come la buona medicina, pronta, cioè, ad affrontare quello che una volta sarebbe sembrato mero accidente. Ma per saper prevenire occorre sapere; le forze politiche divennero coscienti di ciò, si riorganizzarono in tal senso; interiorizzarono, per così dire, specialismi e competenze; moltiplicarono sforzi e risorse per la formazione di ceti amministrativi, burocratici, tecnici in grado di convivere con la “rivoluzione permanente” del nostro tempo. Ciò che vent’anni fa sembrava si potesse soltanto sperare contro ogni speranza, nel corso di questa generazione si è quasi realizzato. Le nostre forze politiche hanno saputo far leva su quella crisi sanitaria per iniziare insieme la fase costituente che avevano ignobilmente mancato trent’anni prima, alla caduta del Muro. Per questo celebriamo oggi l’anniversario del 10 marzo 2020. Che il virus non contagi la democrazia di Vincenzo Vita Il Manifesto, 18 marzo 2020 In questi giorni così difficili di emergenza da epidemia di Covid-19 si stanno restringendo diversi diritti, a cominciare da quello della libertà di movimento. Del resto, l’emergenza sanitaria è talmente grave (e inedita) da rendere inevitabile la compressione di talune libertà. Tuttavia, ogni limitazione deve essere limitata, transitoria e - è necessario aggiungere - saldamente controllata, nel suo perimetro e nella sua invadenza, dalla sfera pubblica. La questione diviene particolarmente delicata e per ciò che concerne la circolazione e il trattamento dei dati personali. Il Garante Antonello Soro si è mosso scrupolosamente fin dallo scorso febbraio, indicando i criteri generali alla Protezione civile. Si tratta di combinare due diritti costituzionali altrettanto cruciali: la salute e la riservatezza. Come può accadere in casi omologhi, in simili situazione è inevitabile scegliere il diritto prevalente. E la vita di un essere umano prevale sempre. Tuttavia, il tema della raccolta delle tracce che ognuno di noi lascia in giro magari senza esserne cosciente (vedi il caso limite della Corea del Sud in merito alla tracciabilità degli spostamenti) è particolarmente serio. Perché l’identità digitale è parte integrante della cittadinanza e della coscienza. È indispensabile, quindi, uscire da una stretta polarità dialettica, che metta in contrasto elementi ugualmente fondamentali per il tessuto civile. Serve una via di congiunzione garantita dalle istituzioni e dalla sfera statuale. Guai ad appaltare i servizi di condivisione dei dati, pur per finalità nobili, ai soliti Over The Top: da Google, ad Amazon, a Facebook in poi. Ne ha scritto su il manifesto dello scorso giovedì 12 marzo Michele Mezza e ci ha ragionato sul sito del “Centro per la riforma dello Stato” il direttore di quest’ultimo Giulio De Petra. Ci sentiremmo più tutelati ora e si correggerebbe la disastrosa linea privatistica che ha condizionato le politiche digitali (imposte dalla televisione) negli ultimi venticinque anni, contribuendo al disastro italiano. Diversi commentatori in questo periodo sembrano riscoprire i difetti teorici e pratici degli approcci liberisti, piangendo sull’assenza in numerose zone della banda larga e di una seria rete infrastrutturale aperta e “bene comune”. Ne risentono i pur buoni propositi sull’educazione a distanza e sullo smart working, a prescindere dalle sacrosante problematiche pedagogiche e sindacali. È il caso di rimettere il naso nelle modeste esperienze delle “Agende digitali” e di coordinare meglio (anzi, coordinare) i differenti centri decisionali, che già hanno fatto spendere cifre meglio utilizzabili per comprare i software proprietari di Microsoft, invece di utilizzare i gratuiti programmi free. Insomma, il dramma che stiamo vivendo è anche l’occasione per cambiare radicalmente rotta, rendendoci indipendenti dagli oligarchi della rete, usi a commerciare i dati con obiettivi meramente commerciali o direttamente politici. La repentina discesa dei consensi nelle primarie democratiche degli Stati Uniti di Elizabeth Warren, che ha più volte proposto lo “spezzatino” di Facebook, troppo grande e prepotente per rimanere in mani così ristrette, fa pensare. Così pervasivi i social? Certamente sì. L’economista controcorrente Mariana Mazzucato scrive chiaramente (“Il valore di tutto”, Bari-Roma, Laterza, 2018, p. 239) che “il punto critico è di assicurare che la proprietà e la gestione dei dati rimangano collettivi come la loro origine: il pubblico…”. Un’ipotesi. Antonello Soro dispone a normativa vigente di rilevanti funzioni. E se gli fossero conferiti poteri straordinari? Povertà e nessun tipo di prevenzione nelle baraccopoli al tempo del virus di Giuliano Santoro Il Manifesto, 18 marzo 2020 Insediamenti informali. L’Unione inquilini chiede al governo interventi per le tendopoli di migranti e rom. La casa è diventata il rifugio, l’argine individuale di fronte all’epidemia in corso. Ma spesso dimentichiamo le migliaia di persone che abitano nei rifugi di fortuna o nei veri e propri slum disseminati in tutto il paese, da nord a sud. Sono cittadine spontanee che spesso si inseriscono nel tessuto produttivo come serbatoi di manovalanza a basso costo, spesso costituita da migranti senza diritti. L’allarme arriva da Unione inquilini, che ieri ha scritto al governo e alle amministrazioni competenti per chiedere quali misure stiano prendendo per tutelare i migranti delle baraccopoli, con particolare attenzione alle tendopoli di San Ferdinando e della Piana di Gioia Tauro, in Calabria, dove vivono fino a 2mila persone. Il sindacato degli inquilini chiede che agli abitanti delle baraccopoli informali, i ghetti per lavoratori stagionali più grandi d’Europa, vengano riconosciuti una sistemazione degna e a quelli che vivono nelle tendopoli si forniscano strutture che consentano un ambiente più salubre. Nel rapporto si citano i documenti prodotti da Medici per i diritti umani, da Mediterranean Hope (il programma migranti e rifugiati della Federazione delle chiese evangeliche in Italia), da Sanità di Frontiera, dal centro socio-culturale Nuvola Rossa di Villa San Giovanni e dal Comitato solidarietà migranti. Sono testimonianze che riportano dati che tra l’altro provengono dalla clinica mobile di Medici per i diritti umani che lavora sul campo e che evidenziano come molti braccianti presentino casi di infiammazione delle vie respiratorie. Per limitarsi agli ultimi mesi, questo tipo di patologia è stato diagnosticato nel 23% dei pazienti visitati. “È la dimostrazione - sostiene il rapporto - di come le condizioni abitative favoriscano il protrarsi dei sintomi e il decorso di problemi legati alle malattie respiratorie”. E il sindacato inquilini: “Date le condizioni strutturali e igienico-sanitarie dei luoghi di dimora dei migranti, per lo più impiegati in agricoltura, nel caso in cui si presentasse un caso di positività al Covid-19, la propagazione potrebbe avvenire in modo rapido e difficilmente controllabile”. La denuncia punta l’obiettivo sull’abitare informale e sulle situazioni di povertà estrema. Mentre le carte di Unione inquilini vengono trasmesse a Palazzo Chigi, gli operatori dell’Associazione 21 luglio raccolgono ed elaborando gli ultimi dati sugli effetti del decreto emergenziali del presidente del consiglio sulle persone che vivono in cinque baraccopoli formali di Roma. Il documento verrà diffuso domani e riguarderà le condizioni di vita di tutte le persone che vivono ammassate nei campi, spesso rom e sinti, all’epoca della contenzione da virus. Si tratta delle baraccopoli di Castel romano, di via Salone, di Casal Lombroso, di via dei Gordiani e di via Candoni, alla Magliana. Insediamenti riconosciuti che l’attuale giunta aveva promesso di chiudere e nei quali vivono in più di 2mila. “Se una persona è positiva in un campo devono metterne in quarantena centinaia - racconta Carlo Stasolla, della 21 luglio. Se dovesse scattare l’ordinanza che dichiara il regime di isolamento fiduciario domiciliare il servizio sanitario dovrebbe provvedere all’alimentazione per tutti gli abitanti”. C’è già un precedente. A Cuneo, in un campo in cui vivono in 50, una persona aveva avuto contatti con un’altra risultata positiva e sono scattate le restrizioni Migranti: Medu: “l’85% di chi è arrivato in Italia negli ultimi 6 anni ha subito torture” di Patrizia Caiffa difesapopolo.it, 18 marzo 2020 L’85% dei migranti e rifugiati giunti dalla Libia in Italia dal 2014 al 2020 nel periodo che va dal 2014 al 2020 ha subito torture e trattamenti inumani e degradanti; i due terzi sono stati detenuti, quasi la metà ha subito un sequestro o si e trovata vicino alla morte. Nove persone su dieci hanno dichiarato di aver visto qualcuno morire, essere ucciso o torturato: è quanto emerge dal rapporto “La fabbrica della tortura” diffuso oggi da Medici per i diritti umani, basato su oltre 3.000 testimonianze raccolte in luoghi diversi. Un lungo e dettagliato report con testimonianze e grafici che mostrano le gravi violazioni dei diritti umani a cui sono sottoposti i migranti in Libia. Nello specifico “il 79% è stato detenuto/sequestrato in luoghi sovraffollati e in pessime condizioni igienico sanitarie, il 75% ha subito costanti deprivazioni di cibo, acqua e cure mediche, il 65% gravi e ripetute percosse. Inoltre, un numero inferiore, ma comunque rilevante, di persone ha subito stupri e oltraggi sessuali, ustioni provocate con gli strumenti più disparati, falaka (percosse alle piante dei piedi), scariche elettriche e torture da sospensione e posizioni stressanti (ammanettamento, posizione in piedi per un tempo prolungato, sospensione a testa in giù, ecc.)”. Questa tendenza, osserva Medu, “è rimasta invariata - o addirittura si è aggravata - nel corso degli ultimi tre anni, a partire dal 2017, anno di sigla del Memorandum Italia-Libia sui migranti”. “Tutti i migranti detenuti hanno subito continue umiliazioni e in molti casi oltraggi religiosi e altre forme di trattamenti degradanti - si legge nel report -. Nove migranti su dieci hanno dichiarato di aver visto qualcuno morire, essere ucciso o torturato. Alcuni sopravvissuti sono stati costretti a torturare altri migranti per evitare di essere uccisi. Numerosissime le testimonianze di migranti costretti ai lavori forzati o a condizioni di schiavitù per mesi o anni”. L’80% dei migranti, richiedenti asilo e rifugiati assistiti all’interno dei progetti di riabilitazione medico-psicologica per le vittime di tortura di Medu in Sicilia e a Roma (circa 800 pazienti) presentava ancora segni fisici compatibili con le violenze riferite e conseguenze psicologiche e psico-patologiche della violenza. Francia. Proteste nel carcere di Grasse dopo il blocco dei colloqui in parlatorio ana.it, 18 marzo 2020 Fra i 50 e i 100 detenuti del carcere di Grasse, nel sud della Francia, hanno protestato ieri contro il blocco dei colloqui in parlatorio con i familiari per ostacolare la propagazione del coronavirus. La protesta ha innescato un inizio di ammutinamento che in breve - secondo fonti sul posto - è rientrato. Si registra, alla fine della protesta, soltanto qualche danno alle recinzioni e un inizio di incendio in una garitta, subito domato. Sono intervenuti gendarmi e poliziotti. Fonti della prefettura hanno spiegato che “i detenuti credevano che l’amministrazione volesse interrompere anche le passeggiate o la consegna di pacchi, cosa che non risponde a verità”. Ungheria. Cpt: “Il trattamento dei detenuti è nel complesso soddisfacente” coe.int, 18 marzo 2020 “Ma occorrerebbero maggiori sforzi per migliorare le condizioni carcerarie”. Il Comitato anti-tortura sull’Ungheria: Il trattamento dei detenuti è nel complesso soddisfacente, ma occorrerebbero maggiori sforzi per migliorare le condizioni carcerarie. In un rapporto pubblicato quest’oggi, il Comitato per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani o degradanti (Cpt) constata i progressi compiuti dall’Ungheria per quanto riguarda il trattamento dei detenuti e delle persone trattenute dalla polizia, dalla sua visita precedente nel 2013. La maggior parte delle persone interrogate dalla delegazione, che erano o erano state sotto custodia della polizia, non ha denunciato maltrattamenti. Le autorità ungheresi hanno adottato misure per rafforzare le garanzie contro i maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine (in particolare il diritto di informare un terzo dell’arresto e di avere accesso a un avvocato), grazie a una nuova norma di procedura penale e ai relativi regolamenti di polizia. Il rapporto, che si basa su una visita effettuata in Ungheria alla fine di novembre 2018, constata inoltre che sono stati compiuti progressi per migliorare la documentazione dell’esercizio dei diritti dei detenuti. Il Cpt formula altresì raccomandazioni su come affrontare la violenza tra detenuti e migliorare le condizioni materiali nelle carceri minorili, nonché introdurre una procedura per un significativo riesame delle condizioni dei detenuti condannati all’ergastolo, con lo scopo non solo di fornire agli ergastolani la possibilità di ottenere un’effettiva riduzione della pena, ma anche di infondere loro il desiderio di raggiungere degli obiettivi mirati, al fine di motivare un loro comportamento positivo in carcere. Tra gli altri problemi sollevati nel rapporto, il Cpt sottolinea la necessità di rafforzare le misure per tutelare la sicurezza dei detenuti nell’ambito delle sanzioni di isolamento o segregazione. Raccomanda una modifica della legislazione, al fine di garantire che la durata massima di tali misure a fini disciplinari per gli adulti non superi i 14 giorni per una determinata infrazione, indipendentemente dal regime di sicurezza a cui è sottoposto il detenuto. Per quanto riguarda i minori, il Cpt sottolinea che non dovrebbero essere posti in isolamento disciplinare. Stati Uniti. Armati di pistola contro il coronavirus di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 18 marzo 2020 Il paradosso: scatta l’allarme sanità e gli americani si precipitano a comprare coltelli e fucili per abbattere i criminali che volessero approfittare del caos che potrebbe scatenarsi per il panico dovuto alla pandemia. Le code interminabili davanti alle armerie di tanti americani spaventati da coronavirus e dunque subito precipitatisi a comprar nuovi coltelli, nuove pistole, nuove carabine e nuovi mitragliatori per abbattere i criminali che volessero approfittare del caos che potrebbe scatenarsi nelle strade per il panico dovuto alla pandemia, la dicono lunga sugli incubi a stelle e strisce. Basti guardare le decine di foto stupefacenti dilagate su Internet, come quelle postate ad esempio dal Mail Online: non ce n’è uno, tra quegli acquirenti ordinatamente in fila davanti ai fornitissimi magazzini di armi da fuoco, che indossi i guanti o la mascherina. Ma come, si dirà, vedono più concreta la minaccia di una revolverata che quella di un’ondata di contagi che ieri sera, secondo il monitoraggio della Johns Hopkins University aveva già ucciso nel mondo 7.519 persone? Eppure, per un assurdo e immondo paradosso, hanno perfino qualche ragione: tutti i morti per il coronavirus in tutto il mondo fino a ieri sera, uccisi dalla pandemia più grave dell’ultimo secolo dopo la “spagnola” del 1918, non arrivavano neppure alla metà dei morti assassinati nei soli Stati Uniti nel solo 2019: oltre 16.000. Nessuno stupore. Stando alle statistiche, infatti, circa 330 milioni di americani possiedono almeno 357 milioni di pistole da borsetta, 38 Magnum, doppiette da caccia, fucili a pompa, kalashnikov e così via. Una media pazzesca: almeno un’arma a testa. Armi difese a spada tratta, al fianco dei potentissimi produttori e trafficanti sempre generosi nelle loro donazioni, da quel Donald Trump che una ventina giorni fa, quando gli italiani stroncati dal coronavirus non arrivavano a una venti, sconsigliava ai compatrioti di stare alla larga dal nostro Paese, considerato “poco sicuro”. Prova provata che, come spiega ad esempio il costituzionalista Lucio Pegoraro nel suo ultimo saggio “Individuare un nemico”, che il nemico assoluto, eterno, immanente non esiste: ognuno se lo sceglie. Mezzo mondo invoca letti di rianimazione, disinfettanti, medici, infermieri, mascherine. Altri una nuova scorta di pallottole... Mettono spavento, a dispetto della teoria che più armi ci sono in mano ai cittadini e più sicurezza c’è nella società, i numeri della violenza negli Usa. Basti dire che la sola città di Baltimora, che ha poco più degli abitanti di Genova, ha contato l’anno scorso 348 omicidi. Più che tutta l’Italia, quasi cento volte più popolosa, messa insieme. Iran. Liberati 85.000 prigionieri per svuotare le carceri e limitare la diffusione del Covid-19 reuters.com, 18 marzo 2020 L’Iran, il Paese che dopo Cina e Italia registra il numero più alto di contagiati da Covid-19, ha appena liberato temporaneamente 85.000 prigionieri, compresi quelli politici e “legati alla sicurezza”, nel tentativo di arginare la diffusione del coronavirus. Ad annunciarlo, il Governo iraniano attraverso il portavoce della magistratura Gholamhossein Esmaili che, come riportato dalla Reuters, ha dichiarato che sono stati liberati solo coloro che stavano scontando condanne a meno di cinque anni, mentre i prigionieri politici e quelli accusati di condanne più pesanti legate alla partecipazione a proteste antigovernative sono rimasti in prigione. Lo scorso 10 marzo il relatore speciale sui diritti umani dell’Onu in Iran, Javaid Rehman, aveva chiesto a Teharn di liberare temporaneamente tutti i prigionieri politici dalle carceri sovraffollate dove si stava velocemente propagando la diffusione del virus, ma anche malattie legate all’igiene come la tubercolosi e l’epatite C. “Sono molto preoccupato per il fatto che centinaia, se non migliaia, di manifestanti detenuti a novembre stiano attualmente affrontando difficoltà in strutture sovraffollate”, ha dichiarato Rehamn, aggiungendo che i prigionieri dovrebbero anche essere sottoposti a test completi per il coronavirus. Prima del rilascio annunciato e secondo il rapporto che Rehman ha presentato al Consiglio per i diritti umani a gennaio, infatti, l’Iran ha dichiarato di avere 189.500 prigionieri, inclusi centinaia di arrestati durante o dopo le proteste antigovernative a novembre. Nei giorni scorsi, sono stati rilasciati almeno una dozzina di prigionieri politici, secondo attivisti e gruppi dei diritti, ma i prigionieri politici più importanti e simbolici rimangono ancora in prigione. Anche gli Stati Uniti avevano chiesto il rilascio di dozzine di doppi cittadini americani e stranieri detenuti principalmente con l’accusa di spionaggio minacciando che Washington riterrà il Governo iraniano direttamente responsabile di eventuali morti statunitensi. Intanto in Iran il bilancio alla data di oggi conta 14.991 casi confermati, 853 morti e 4.996 ricoverati e il regime è stato ampiamente criticato per la sua gestione dell’epidemia, a partire dal rifiuto di chiudere i luoghi di pellegrinaggio sacri. Il portavoce Esmaili ha comunque affermato che la metà delle persone liberate erano prigionieri “legati alla sicurezza” e che “nelle carceri sono state prese misure precauzionali per far fronte allo scoppio”, ma non ha spiegato quando i liberati dovrebbero tornare in prigione. Anche nelle carceri italiane la situazione è pesantissima e sono al vaglio misure simili per prevenire il contagio in quelle maggiormente sovraffollate. Medio Oriente. La guerra non si chiude in casa di Alberto Negri Il Manifesto, 18 marzo 2020 Zar, raìs e regimi autocratici giocano duro con il virus. Dalla Siria alla Libia, dall’Iraq allo Yemen. Per Putin e i suoi alleati è arrivata la tempesta perfetta: pandemia, guerre vere, battaglia sul petrolio e mercati occidentali in malora. Dovremo imparare a raccontare “Barzellette per miliziani”, titolo di un libro assai ironico e illuminante dello scrittore e giornalista libanese Mazen Maarouf. Sono i miliziani, come avviene da decenni, i co-protagonisti irrinunciabili delle partite belliche e geopolitiche che si giocano dalla Siria alla Libia, dall’Iraq allo Yemen. Per Putin e i suoi alleati è arrivata la tempesta perfetta: pandemia, guerre vere, battaglia sul petrolio e mercati occidentali in malora. Una partita dura e quelli che la giocano senza rendere conto a nessuno sono zar, raìs e regimi autocratici. Dall’Algeria all’Egitto, dall’Iraq al Sudan, sono in corso le scosse di assestamento delle primavere arabe e il coronavirus indebolisce le opposizioni che vorrebbero la riforma o lo smantellamento dei poteri in carica. Mohammed bin Salman, il principe assassino mandante dell’omicidio Khashoggi, a Riad ne ha approfittato per far fuori altri membri della corona e 300 funzionari che non gli versavano le tangenti: chiaro il messaggio del maggiore acquirente di armi occidentali. Putin, in vista del referendum costituzionale di aprile per incoronarlo zar a vita, “vede” intanto il traguardo di rafforzare la sua presenza nel Mediterraneo, a colpi di basi militari, gas e petrolio sostenuti da una diplomazia cinica e realistica. Una fase favorevole anche a Pechino la cui presenza in Italia è già vista in Usa ma anche a Bruxelles come un golpe medicale: “Oggi le mascherine, domani Huawei” dichiara il politologo Ian Bremmer su Formiche, punta di lancia nostrana dell’atlantismo duro e puro. Pechino proverà a giocare il ruolo di investitore in titoli di Stato e asset strategici dei Paesi europei piegati dal coronavirus. È nel nuovo ordine delle cose. Si combatte per accaparrarsi quote di mercato e quote di Mediterraneo mentre restano le sanzioni americane all’Iran ed europee a Damasco e gli Usa si disputano la loro presenza militare in Iraq a colpi di missili e droni: questa è la “guerra di Soleimani”, cominciata il 3 gennaio scorso con l’uccisione del generale iraniano a Baghdad. Come conseguenza gli Usa hanno appena deciso di ritirarsi da tre basi irachene su otto: Al Qaim, Kirkuk e il Qayara Airfield. Mentre l’Iran, triturato dalle sanzioni e ora dalla pandemia, si sta giocando, per la prima volta dagli anni Sessanta la carta dei prestiti del Fondo monetario: se andrà in porto sarà una “normalizzazione” della repubblica islamica ma non la sua fine. La Cina continuerà a sostenere Teheran, anello strategico della Via della Seta. Per Trump, nell’anno elettorale, si profilano forse guai maggiori che per gli ayatollah. Dei profughi, a milioni in situazioni disperate, ormai si interessano soltanto quelli che li manovrano, da Erdogan ad Assad, a Putin: gli stessi europei sotto sotto pensano cinicamente che il Coronavirus sistemerà da solo la questione. Ma il lacerante appello dell’Unhcr riportato domenica dal manifesto nell’articolo di Chiara Cruciati ci dice che non basterà chiuderci in casa. Busseranno, insieme agli altri, alla nostra porta. Quando l’Europa si rialzerà dal ventilatore della sopravvivenza da coronavirus e dalla crisi economica troverà un panorama dove non controllerà più i processi in corso. Mentre qui chiudono le frontiere, in Medio Oriente e sulla Sponda Sud a viaggiare freneticamente - pure a confini chiusi - sono rimasti eserciti e miliziani, di vecchio e di nuovo conio. Dalla Siria alla Libia si profila un asse Russia-Assad- Egitto, che comprende anche Iran e Hezbollah, per ostacolare la penetrazione turca nel Mediterraneo. Il capo dei servizi egiziani, generale Abbas Kamel, si è recato a Damasco per incontrare il suo omologo siriano Ali Mamluk per contrastare l’influenza turca nel Mediterraneo orientale e in Libia. L’Incontro, certo non il primo, è avvenuto prima che Putin raggiungesse un fragile accordo con Erdogan su Idlib. Assad per negoziare con Erdogan sul Nord della Siria vuole avere dalla parte il mondo arabo, persino le ostili monarchie del Golfo. Ecco la manovra. Al Sisi, con Emirati e Arabia Saudita, sostiene le truppe di Khalifa Haftar e Assad, alleato della Russia, ha stabilito relazioni diplomatiche formali con il governo di Tobruk contro quello di Tripoli di Sarraj, tenuto in vita dalla Turchia. E non basta. Russia e Hezbollah libanesi, vicini all’Iran, hanno cominciato a reclutare “civili” siriani da inviare a sostegno di Haftar. In Siria sono stati aperti dal governo e dai russi centri di reclutamento di nuovi miliziani da inviare a Haftar. Alla mobilitazione partecipa anche Hezbollah. Del resto la Turchia ha inviato altri mercenari dal nord della Siria a Tripoli e Misurata: milizie jihadiste filo-turche della regione siriana di Idlib e a nord di Aleppo, cui si aggiungono centinaia di consiglieri militari turchi. La “guerra dei vasi comunicanti”, tra Siria, Libia, Iraq, continua anche con il virus: tenetevi pronti perché anche noi tra un po’ dovremo sapere raccontare barzellette ai miliziani del nuovo ordine sotto casa.