Lettera aperta al ministro Bonafede Ristretti Orizzonti, 17 marzo 2020 Gentile Ministro, chi le scrive è un detenuto, non importa quale sia il mio nome o la pena che sto scontando, non importa in quale carcere io sia collocato adesso o in quale carcere a breve sarò spedito, non importa se lavoro o meno, non importa se ho rapporti continui con i miei famigliari o meno, non importa se nel carcere dove sono rinchiuso è stato impedito l’accesso ai volontari e familiari, non importa se ci è stato impedito di approvvigionarci di generi alimentari o denaro tramite colloqui, non importa se chi non ha soldi sul conto del carcere rischia di non poter chiamare per rassicurare ed essere rassicurato dai propri famigliari, non importa nemmeno se, per lungo tempo agli agenti di polizia penitenziaria non è stata fornita alcuna mascherina. Gentile ministro, nulla di tutto questo sembra essere importante per un ministro della Giustizia, che però è stato istituito dai nostri padri costituenti per far fronte anche ai problemi del carcere, ma forse a qualcuno era sfuggito. Ecco gentile ministro io ho sentito molto parlare in tv di queste rivolte, ma avrei voluto sentire la sua voce nel pieno della crisi, e invece non ho sentito una parola a riguardo delle drammatiche condizioni che i detenuti sono costretti a sopportare giorno dopo giorno, anno dopo anno a causa del sovraffollamento e non solo. Perché certo io ho fatto del male e sto pagando per questo, ma chiedo solo di farlo in modo umano. Tra l’altro, ci sono stati disordini anche nel carcere dove sono ristretto io e mentre tanti detenuti urlavano e sbattevano le pentole, i coperchi o qualsiasi altra cosa che poteva fare rumore, ma non danni, sentivo anche urlare “lavoro, lavoro, lavoro”. Ecco signor ministro, forse è vero che il coronavirus è stato una goccia che ha fatto traboccare il vaso, e le rivolte che hanno provocato dei danni sono io il primo a condannarle, sia chiaro, però è anche vero che il vaso è stato riempito da anni e anni di inefficienza istituzionale, di inerzia dei vertici di comando nel realizzare dei piani di “sfollamento” che non dovevano per forza essere amnistie o indulti ma potevano essere per esempio una applicazione più ampia delle misure alternative, come dovrebbe essere sempre. Riflettendo su quello che sentivo io prima delle rivolte e quello che sento adesso in tv non riesco a capire una cosa: se lei stesso nei vari talk show a cui partecipa mi pare abbia dichiarato più volte che in Italia non si va in carcere con pene inferiori ai 4 anni, adesso come spiega il fatto che si stanno adottando delle misure per mandare a casa i condannati sotto i 18 mesi di residuo pena? Questi non sono già liberi? Oppure come si spiega che si parli anche di mandare a casa detenuti con pene inferiori ai 3 mesi? E la legge n.199 che permetteva ai detenuti di andare in detenzione domiciliare sotto i 18 mesi perché non è stata applicata prima e adesso si muovono tutti in fretta e furia per invitare i detenuti a presentarne richiesta? Mi scusi sig. ministro per questa mia “esplosione di pensieri” che butto su carta senza nemmeno rifletterci, ma quello a cui dovremmo e dovreste pensare adesso è come fare per riprendere in maniera seria e costruttiva una profonda e studiata riforma del sistema dell’esecuzione penale a partire da tutto il lavoro svolto nei tavoli degli Stati Generali che lei ha cestinato poco dopo la sua elezione, forse perché il lavoro era stato voluto e messo in atto da un partito politico che non esibiva la sua stessa bandiera, ma adesso è vostro alleato di governo quindi potete benissimo prendere le distanze dagli attacchi reciproci, perché quando ci sono di mezzo vite umane i colori sotto i quali si deve lavorare sono quelli del tricolore della bandiera italiana senza stelline né altri simboli, il caso impone serietà, credibilità e concretezza. Sarebbe bello che lei avesse il coraggio adesso di riprendere quel progetto, almeno nelle parti che possono contribuire in questo momento a dare maggiore accesso alle misure alternative, e di fare quello che è giusto: realizzare quell’Ordinamento penitenziario, che è già stato elaborato, è frutto del lavoro svolto negli Stati Generali da molti fra i massimi esperti in materia di pene e carcere, e se fosse stato approvato prima forse oggi non saremmo in questo disastro. Lettera firmata Le carceri siamo noi di Riccardo De Vito* Il Foglio, 17 marzo 2020 Non ci sarà più sicurezza, più libertà e più salute se lasceremo a sé stesso il sistema penitenziario. Circola una metafora per descrivere lo stato degli italiani in guerra contro il virus maledetto: la reclusione. Non è abusata, perché è la prima volta che le generazioni successive alla seconda guerra mondiale si confrontano con l’orizzonte del coprifuoco. La pazzia di Dio, questa volta, non ha preso la forma delle trincee e degli aeroplani. Farà meno morti, ma non sappiamo quando concederà l’armistizio. C’è una condizione in queste ore che, più di tutte, accomuna liberi e detenuti. Non è il domicilio coatto, ma la perdita di controllo sulla propria vita, la dipendenza da altri. Vedere o non vedere un figlio, una madre e un padre o un amore non dipende più da noi. Allo stesso modo, la perdita della possibilità di decidere su sé stessi e sulla gestione dei pochi residui di libertà è la quintessenza della reclusione in carcere. I diritti nell’ordinamento penitenziario vivono attraverso le mediazioni dell’istituzione totale. Sentire un parente al telefono, ottenere una visita medica, acquistare beni di prima di necessità sono azioni che devono passare per una domanda del ristretto e attraverso una risposta dell’autorità. Questa similitudine, tuttavia, funziona al momento a senso unico. Leggiamo spesso che, nello stato di eccezione che vale addirittura per i liberi, sono i detenuti a dover comprendere quanto le limitazioni che gli sono state imposte - niente colloqui visivi, niente uscite dal carcere - siano giustificate. E lo sono, per carità. Per capire di più della situazione carceraria ai tempi del coronavirus, però, occorre cambiare prospettiva, girare il cannocchiale. Vedremmo subito che qualcosa, in quella immedesimazione, si sgretola e che il nostro #iorestoacasa è ben altra cosa dal permanere nei confini di una cella. La cifra della distanza si misura oggi sull’emozione primaria della paura, liquida e pervasiva fuori, viscosa dentro le mura. Prorompe da una realtà che, giorno dopo giorno, si muove secondo regole opposte a quella della prevenzione nel mondo dei liberi: nessuna distanza di sicurezza possibile nella promiscuità forzosa delle camere multiple, dove tre metri quadri paiono oro; niente soluzioni idroalcoliche, niente mascherine; assistenza medica ridotta all’osso, per non parlare della medicina dell’emergenza; condizioni igieniche spesso precarie e comunità detenuta affetta dalle patologie di chi vive al margine. Nessuna possibilità, poi, di tenere il mondo di fuori sull’uscio. Per far funzionare l’istituzione ogni giorno migliaia di persone entrano ed escono dal carcere. Se il virus dovesse varcare il muro di cinta come sarebbe possibile, poi, garantire l’isolamento in un sistema di 47 mila posti effettivi e di oltre 61 mila detenuti? Questa domanda esige risposte, ben oltre quelle che sono state date con la possibilità di aumentare oltre ogni limite le telefonate e le videochiamate. Il carcere italiano ha bisogno di spazio e di elasticità di gestione. Ha bisogno di poter isolare e separare eventuali positivi, di gestire cure all’interno nella malaugurata ipotesi che il virus vi metta piede, di liberare reparti per spostare le persone e garantire ingressi controllati, di lavorare con meno pressione sui detenuti e sugli operatori. La magistratura sta già lavorando in questa direzione con le norme esistenti, l’avvocatura penalistica fa proposte ragionevoli e condivisibili, così come il mondo delle associazioni e il Garante nazionale. Urgono scelte del decisore politico. Un primo passo potrebbe arrivare dal decreto-legge approvato in queste ore, con lo snellimento di un istituto già presente nell’ordinamento (l’esecuzione delle pene presso il domicilio di pene inferiori a 18 messi). Ma è solo un primo passo. Per giustificare misure normative dovrebbe bastare l’argomento della salute dei reclusi: in democrazia la pena si prende il tempo e l’anima dei condannati, ma non deve ghermire la loro salute. È triste (ma realistico) pensare che questo principio, in tempi di passioni punitive, non faccia breccia nella politica e nell’opinione pubblica. Si consideri, allora, che il carcere potrebbe rovesciare il contagio all’esterno, moltiplicato, e che l’esigenza di cura potrebbe riversarsi sulla sanità esterna già intasata. O, ancora, che tutto quello che non faremo adesso in modo controllato e ragionevole - anche in tema di scarcerazioni delle persone meno pericolose, potremmo doverlo fare in modo casuale sotto la spinta dell’emergenza. Mettere testa al carcere è un dovere nei confronti di tutti. Torniamo alla metafora. Dovrebbe insegnarci che la galera ci riguarda da vicino; che c’è un “noi”, rinchiuso, di cui è fondamentale prendersi cura. Dieci anni dopo la Grande depressione del ‘29, le pagine di The Grapes of Wrath avvertivano: il fatto di possedere vi congela per sempre in “io” e vi separa per sempre dal “noi”. Su questa strada non c’è salvezza per nessuno. Non ci sarà un di più di salute, di libertà, di sicurezza per i liberi, se il sistema penitenziario verrà lasciato a sé stesso, coperto dal silenzio. *Presidente di Magistratura Democratica Ai domiciliari con il braccialetto con braccialetto chi deve scontare da sei a 18 mesi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 17 marzo 2020 Fuori dal carcere e agli arresti domiciliari chi ha non più?di 18 mesi di pena da scontare. Con differenza tra chi ha non più di 6 mesi e chi invece ha da 6 mesi e 1 giorno a 18 mesi (solo per questi ultimi la modalità di controllo prevista è quella del braccialetto elettronico). Per un totale di detenuti interessati vicino a 4.000. È questa la soluzione, modulata sulla “svuota-carceri” del 2010, la legge n. 199, messa a punto dal ministero della Giustizia per affrontare l’emergenza sanitaria negli istituti carcerari. Una strada in qualche modo obbligata anche per abbassare il livello di tensione che nei giorni scorsi ha dato luogo a numerose e drammatiche rivolte. L’intervento, che si accompagna a stanziamenti per l’edilizia penitenziaria finalizzati al ripristino degli istituti più danneggiati, intende valorizzare uno strumento di esecuzione della pena con uno strumento che già l’ordinamento riconosce come normale in caso di pena contenuta. Cruciale, però sarà la disponibilità dei braccialetti elettronici, oggi segnalata dal ministero dell’Interno in circa 2.500, per non allungare i tempi di attivazione della misura. È chiaro che se dovessero passare settimane prima di poter fare decollare l’intervento, l’efficacia si ridurrebbe in maniera significativa. Così, l’esecuzione delle pene detentive non superiori a 18 mesi presso il domicilio prevista dal decreto legge si distingue, dalla detenzione domiciliare “ordinaria” sia per la minor durata della pena da eseguire, sia per la diversità della procedura, sia per la diversità dei presupposti necessari per l’accesso all’istituto. In particolare, la procedura prevista (che rimane, salvo un intervento di semplificazione, quella della legge 199/10), stabilisce che la misura sia applicata dal magistrato di sorveglianza oltre che su istanza dell’interessato, per iniziativa della direzione dell’istituto penitenziario oppure del pubblico ministero. Peraltro, nel primo caso, che presuppone che il condannato sia già detenuto in carcere, allo scopo di non appesantire i carichi di lavoro, in questo momento di estrema complicazione, dell’amministrazione penitenziaria, si è previsto che la direzione dell’istituto non deve trasmettere al magistrato di sorveglianza una relazione sulla condotta tenuta durante la detenzione (come previsto dalla legge n. 199 del 2010), ma che deve solo indicare il luogo esterno di detenzione (abitazione o altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza), dopo averne verificato l’idoneità. Tra le esclusioni, i condannati per i delitti indicati dall’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, tra i quali da ultimo quelli per corruzione e concussione; i delinquenti abituali, professionali o per tendenza; i detenuti sottoposti a regime di sorveglianza particolare; i detenuti privi di un domicilio effettivo e idoneo anche in funzione delle esigenze di tutela delle persone offese dal reato. Con il decreto potenzialmente i domiciliari solo per 3.000 persone di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 marzo 2020 Niente libertà anticipata speciale, ma semplificazione della misura già esistente e licenza ai semiliberi fino al 30 giugno. Sono queste le misure deflattive - inserite del decretone - per ridurre il sovraffollamento penitenziario in maniera tale da facilitare le misure sanitarie in caso di coronavirus in carcere. Si recupera così il modello già sperimentato con la legge 26 novembre 2010 n. 199, che già prevede la possibilità di eseguire ai domiciliari le pene detentive di durata non superiore a diciotto mesi. Parliamo della misura, che però - se utilizzata in maniera ottimale dai magistrati di sorveglianza - farebbe uscire dal carcere circa 3.000 detenuti. In che maniera si semplificherebbe la procedura? Si è previsto che la direzione dell’istituto non debba trasmettere al magistrato di sorveglianza una relazione sulla condotta tenuta durante la detenzione (come previsto dalla legge n. 199 del 2010), ma che debba solo indicare il luogo esterno di detenzione (abitazione o altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza), dopo aver previamente verificato la sua idoneità. L’eliminazione della relazione sul complessivo comportamento tenuto dal condannato durante la detenzione è dovuta alla necessità di semplificare gli incombenti, ma anche alla considerazione che gli unici elementi rilevanti (che infatti debbono essere comunicati al magistrato di sorveglianza) sono quelli indicati come preclusivi dal comma 1, tra i quali vi sono anche aspetti rilevanti circa il comportamento tenuto in carcere: ossia l’essere sottoposti al regime di sorveglianza particolare o l’essere destinatari di un procedimento disciplinare per alcune violazioni specifiche, nonché l’aver preso parte ai tumulti e alle sommesse verificatesi negli istituti penitenziari. Poi c’è il caso in cui è il pubblico ministero - colui che ha emesso l’ordine di carcerazione non ancora eseguito - a dover trasmettere al magistrato di sorveglianza gli atti del fascicolo dell’esecuzione (sentenza, ordine di esecuzione, decreto di sospensione), oltre che il verbale di accertamento dell’idoneità del domicilio. Il magistrato di sorveglianza, inoltre, (come già previsto dalla legge) provvede con ordinanza adottata in camera di consiglio, senza la presenza delle parti (articolo 69bis della legge n. 354 del 1975), con riduzione del termine per decidere a cinque giorni. Quindi, la cancelleria dell’ufficio di sorveglianza, entro quarantotto ore, comunica l’ordinanza all’istituto, che provvede all’esecuzione, nonché all’ufficio locale di esecuzione penale esterna e alla questura competenti per territorio. Questa procedura a contraddittorio differito, in cui l’ordinanza è notificata al condannato o al difensore e comunicata al procuratore generale della Repubblica, i quali entro dieci giorni dalla comunicazione possono proporre reclamo al tribunale di sorveglianza, assicura decisioni più celeri. Rimane la preclusione per chi ha commesso reati ostativi. In compenso, alla luce dell’esperienza maturata nel corso dell’applicazione della legge 199 del 2010, sono stati esclusi quali elementi preclusivi per l’accesso alla detenzione domiciliare, il fatto che vi sia “la concreta possibilità che il condannato possa darsi alla fuga” ovvero il fatto che sussistano “specifiche e motivate ragioni per ritenere che il condannato possa commettere altri delitti”. La ragione di questa scelta è che si tratta di due presupposti che limita l’utilizzo dell’istituto e che in questa fase di urgenza sono di complesso accertamento. L’altra misura riguarda la durata delle licenze concesse al condannato ammesso al regime di semilibertà: può essere prorogata fino al 30 giugno 2020. Si consente che l’estensione temporale delle licenze godute possa eccedere l’ordinario ammontare di quarantacinque giorni già previsto. Sono misure che però rischiano di non riuscire ad alleggerire i penitenziari come prefissato. Si riuscirà a far fronte ad una eventuale emergenza? Tremila detenuti a casa, ma è solo un timido passo avanti di Stefano Anastasia* Il Riformista, 17 marzo 2020 Si riprende una disciplina già esistente prevista dalla legge Alfano del 2010 e si dà nuova veste fino al 30 giugno. Ma servono iniziative più coraggiose per raggiungere almeno la quota di 10mila. Banalmente il Governo ha preso atto che la prevenzione della diffusione del coronavirus in carcere non può essere fatto negli istituti sovraffollati che conosciamo. Sabato scorso ho avuto un interessante confronto con una delegazione dei detenuti della sezione reclusione della Casa circondariale di Civitavecchia. I presenti, che avevano scelto da due giorni la strada di una protesta nonviolenta, attraverso lo sciopero della fame, illustravano con perizia e puntualità le misure di prevenzione del virus diffuse dalle autorità sanitarie (solo due giorni prima era stato a far loro visita il direttore generale della Asl del territorio, sempre presente e attento ai problemi del carcere), e lucidamente argomentavano come sia impossibile rispettarle in un carcere sovraffollato come quello (e tanti altri). Ancora mancano, da parte delle autorità sanitarie e dall’Amministrazione penitenziaria, indicazioni su cosa fare dei compagni di stanza e di sezione in caso di sospetto o positività di uno di loro. Secondo le norme di salute pubblica diffuse tra i cittadini liberi, ognuno di loro dovrebbe andare in quarantena per quattordici giorni, e dunque ognuno di loro dovrebbe avere una stanza singola dotata dei necessari servizi individuali. Chi conosce il carcere sa che questo è praticamente impossibile: cinquanta, cento, duecento stanze singole con servizi autonomi non ci sono neppure cumulando numerosi istituti di pena. Solo i 41bis hanno questo “privilegio”. Dunque, che si fa? In carcere e tra i familiari dei detenuti cresce, comprensibilmente, la preoccupazione. E cresce anche tra gli operatori, costretti a prestare servizio in quelle condizioni, con un rischio personale di contagiare ed essere contagiati assai più alto che in qualsiasi altro servizio pubblico che non siano quelli di vera e propria trincea ospedaliera. Tutti, e sottolineo tutti, coloro che abitano o frequentano il carcere, direttori e magistrati, detenuti e poliziotti, speravano in un provvedimento coraggioso, volto a far uscire dal carcere almeno quella eccedenza di 10mila persone oltre la capienza regolamentare. Mi dispiace per il senatore Salvini, ma anche la stragrande maggioranza dei poliziotti penitenziari non è dalla sua parte e sa bene che solo una rapida e consistente riduzione della popolazione detenuta può consentire la prevenzione della diffusione epidemica del virus in carcere. Per quel che se ne conosce, il decreto approvato ieri in Consiglio dei ministri riconosce il problema, finalmente, ma lo affronta ancora troppo timidamente. I semiliberi potranno restare a dormire fuori dal carcere fino alla fine di giugno senza perdere giorni di licenza, e va bene. Per il resto, per diminuire i numeri della popolazione detenuta, si riprende una disciplina già esistente, l’esecuzione delle pene al domicilio, prevista dalla legge Alfano del 2010 (era in carica il Governo Berlusconi e dopo la prima condanna della Corte europea per il sovraffollamento era stato dichiarato lo stato di emergenza penitenziario), e le si dà una nuova veste, da qui al prossimo 30 giugno. I condannati a pena inferiore a diciotto mesi, o i detenuti che non ne abbiano da scontare di più, potranno andare in detenzione domiciliare. Come era già previsto dalla legge in vigore, non potranno godere di questa misura i condannati per reati ostativi, i “delinquenti abituali, professionali o per tendenza”, quelli sottoposti a regime di sorveglianza particolare e quelli privi di un domicilio idoneo. In più non ne potranno godere quelli che hanno avuto sanzioni disciplinari nell’ultimo anno e chi ha partecipato attivamente alle rivolte dei giorni scorsi. Messa così, sembra una restrizione di una legge già esistente, e dunque addirittura controproducente, ma la procedura viene semplificata: l’accertamento dell’idoneità del domicilio lo farà direttamente la polizia penitenziaria, la direzione del carcere non dovrà più fare una relazione comportamentale e il giudice non dovrà più escludere il pericolo di fuga o di recidiva. Anche se i detenuti con un residuo di pena inferiore ai diciotto mesi sono circa tredicimila, per via delle preclusioni vecchie e nuove il Governo stima che potrebbero usufruire di questa misura rinnovata tremila persone. Se così fosse, va detto, non sarebbe sufficiente. Certo, il segnale c’è. Vengono incentivate prassi virtuose che già si andavano organizzando in molti istituti e distretti, che si potranno consolidare e diffondere. E bisognerà coinvolgere il volontariato e il terzo settore che potrebbe mettere a disposizione dei tanti detenuti senza casa un altro luogo di accoglienza sul territorio. Sulla base della normativa specifica, già vigente, si potranno valutare le istanze di detenzione domiciliare per motivi di salute ai detenuti anziani, immunodepressi, cardiopatici o con pregresse malattie respiratorie. Insomma: si farà tutto il possibile, con il concorso di tutti, come testimonia, da ultimo, la importante presa di posizione del Coordinamento dei magistrati di sorveglianza. Ma poi, se queste misure e l’impegno degli operatori, dei magistrati, del terzo settore non saranno stati sufficienti, bisognerà tornarci, con il coraggio, la tempestività e la determinazione dettata dalle necessità. *Portavoce dei Garanti territoriali dei detenuti Carcere: un primo passo, ma ci vuole ben altro di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 17 marzo 2020 Ieri è arrivato il primo decreto del governo per affrontare l’emergenza carceraria. Esso contiene norme che cambiano le regole di accesso alla detenzione domiciliare; secondo le previsioni di chi ha proposto il provvedimento dovrebbero nelle prossime settimane uscire due-tre mila persone, sempre che la magistratura di sorveglianza interpreti le norme in modo estensivo. In questo momento nelle carceri italiane vi sono circa quattordici mila persone in più rispetto alla capienza regolamentare effettiva. Il sovraffollamento nella vita quotidiana significa condividere dodici metri quadri in quattro persone, dormire praticamente con la faccia spalmata sulla soffitta della cella, essere visitato dal medico raramente, non avere lo spazio per leggere tranquillamente seduti su uno sgabello, non avere privacy neanche quando si va in bagno. Da qualche settimana, oltre a tutto questo, il sovraffollamento significa anche avere il timore delcontagio. Per questo nei giorni scorsi, insieme a Cgil, Anpi, Arci, Gruppo Abele, e con l’adesione della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e di Ristretti, abbiamo richiesto l’adozione di misure dirette a decongestionare le carceri, a partire da chi versa in condizioni di salute peggiori o di chi sta scontando gli ultimi scampoli di pena. Misure che avevamo proposto anche a tutela della salute dello stesso staff carcerario. Ieri è arrivato il primo decreto del governo per affrontare l’emergenza carceraria. Esso contiene norme che cambiano le regole di accesso alla detenzione domiciliare; secondo le previsioni di chi ha proposto il provvedimento dovrebbero nelle prossime settimane uscire due-tre mila persone, sempre che la magistratura di sorveglianza interpreti le norme in modo estensivo. Se fosse così non possono che essere considerate un piccolo primo passo, eccessivamente cauto, verso il ritorno alla legalità. Ben altro ci servirebbe. Si tratta dunque di una norma dall’impatto incerto che si spera, ma come detto non è dimostrato con quale capacità, vada in una direzione di deflazione numerica. Bisogna riportare il sistema carcerario italiano in condizioni di legalità. Solo le condizioni di legalità ripristinate saranno a loro volta utili a poter gestire l’emergenza coronavirus dentro gli istituti penitenziari. È necessario liberare varie migliaia di posti letto allo scopo di avere celle singole a disposizione per gli eventuali detenuti che risultano positivi al virus. È altresì urgente mandare a casa o in luoghi di cura, persone che presentano una particolare vulnerabilità per l’età o le patologie pregresse, in quanto qualora contraessero il virus dentro sarebbe drammatico, anche in termini di aiuto medico. Era il 2013 quando l’Italia fu condannata dalla Corte europea dei diritti umani per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea a causa del sovraffollamento che rendeva degradanti le condizioni di vita interne. A seguire furono assunte alcune misure legislative per rispondere ai contenuti di una sentenza per certi versi umiliante per il nostro Paese. Siamo al 2020 e ci ritroviamo nuovamente a dover fronteggiare un’emergenza dettata da una bulimia punitiva insopportabile. Non troppo tempo fa c’era chi nel governo chiedeva più carcere per i piccoli spacciatori in quanto bisognava gratificare i poliziotti che li avevano arrestati e qualche mese prima c’era un Ministro che augurava ai detenuti di marcire in galera. Ma la grande emergenza coronavirus, anche nelle carceri, non si può ritenere chiusa e risolta con le misure decise ieri. Ci vuole molto ma molto di più, sia in termini di ulteriori vie di uscita dal carcere sia in termini di qualità socio-sanitaria della vita interna. Carceri: lo Stato non arretra se, per evitare contagi, dispone alcune detenzioni domiciliari Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 17 marzo 2020 La situazione del carcere può diventare tragica da un momento all’altro, con grave pericolo per tutti noi cittadini. Antigone ha pubblicato un appello insieme a Cgil, Anpi, Arci e Gruppo Abele per spingere il governo ad adottare misure urgenti. A breve si riunirà il Consiglio dei ministri. È fondamentale che ne esca con alcuni seri provvedimenti deflattivi. Il ministro Bonafede ha affermato che “lo Stato non arretra” di fronte alle proteste dei detenuti. Cosa significa? Quale sarebbe l’arretramento? Cominciamo col dire che, come lo stesso ministro ha riportato, solo 6.000 detenuti su oltre 61.000 hanno preso parte a disordini violenti. Per tutti gli altri si è trattato di pacifiche rimostranze di fronte a misure insufficienti a far fronte a un pericolo sanitario incombente e a una situazione di chiusura dei colloqui visivi con le famiglie poco spiegata e non affiancata da un potenziamento di quelli telefonici. Pacifiche rimostranze del tutto comprensibili e che necessitano di una risposta urgente. Lo Stato arretrerebbe, secondo Bonafede, se trasformasse alcune pene carcerarie in misure di controllo di altro tipo, essenzialmente la detenzione domiciliare. Far uscire dal carcere un certo numero di detenuti - scelti tra coloro che hanno pene brevi da scontare, che hanno tenuto comportamenti corretti, che hanno una salute particolarmente cagionevole - e mandarli a chiudersi nelle loro abitazioni costituirebbe secondo il ministro una forma di resa. Ora: non voglio spiegare quel che troppe volte ho scritto anche su queste colonne, vale a dire che le misure alternative alla detenzione sono una pena a tutti gli effetti. Non voglio ripetere che la nostra Costituzione cita le pene usando la forma linguistica del plurale, riconoscendo che il carcere non sia la sola possibilità di punizione. Non voglio far riflettere sul controllo estremo cui è sottoposta la persona in misura alternativa, sul rigido programma per lui stabilito dal magistrato di sorveglianza, sui controlli di polizia, sulle relazioni del servizio sociale che al primo sbaglio possono annullare ogni autonomia di movimento. Non voglio qui sottolineare quel che ogni giurista sa bene, e cioè che la certezza della pena non è affatto incompatibile con la previsione di misure alternative alla detenzione, poiché queste ultime sono un altro tipo di pena ma sono tuttavia certissime, hanno un inizio e una fine, un rigido percorso, un ancor più rigido controllo. Voglio dire altro. Voglio dire che io, da cittadina, sono terrorizzata all’idea che il virus possa fare ingresso in qualche carcere. Girano voci che l’abbia già fatto, a volte smentite, a volte ripetute. Non si sa ancora nulla. Le carceri in Italia sono quasi 200. Se il virus entrasse in tre, quattro, sette, dieci istituti, si propagherebbe immediatamente a tutte le persone lì rinchiuse. Sicuramente ai detenuti, ma quasi altrettanto sicuramente ai poliziotti e agli altri operatori. Immediatamente avremmo migliaia di malati in più da gestire. Immediatamente, tutti insieme. Il diritto alla salute è un diritto universale, che prescinde dallo stato di detenzione o di libertà. Spero che nessuno vorrà pensare che a quel punto lo Stato avrà meno dovere verso i malati detenuti. Se quindi si ammaleranno in migliaia, tra cui molti giovani, peseranno drammaticamente sulla nostra sanità già allo stremo. I respiratori andranno portati in carcere. Quindi, ne avremo di meno noi fuori. Qualche malato in più, tra le persone libere e incensurate, resterà senza. Lo Stato, secondo la strana interpretazione di Bonafede, non avrà arretrato. Ma avrà messo a rischio qualcuno dei suoi cittadini. Siamo ancora in tempo per evitarlo. Ma basta con gli slogan. Che il buon senso di tutti resti unito contro il coronavirus. *Coordinatrice associazione Antigone Per ridurre il sovraffollamento Bonafede riparte da Angelino Alfano di David Allegranti Il Foglio, 17 marzo 2020 Il fine settimana non è bastato a trovare un accordo nella maggioranza sui provvedimenti da prendere per gestire l’emergenza sanitaria in carcere. E ancora ieri, fino a sera, il confronto fra il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e gli alleati è stato serrato (soprattutto con il sottosegretario alla giustizia Andrea Giorgis del Pd e con Italia viva, fin dall’inizio molto critica con la gestione dell’amministrazione penitenziaria guidata da Francesco Basentini, di cui chiede le dimissioni). Il decreto in teoria dovrebbe puntare alla deflazione carceraria per ridurre il sovraffollamento. Quali sono però le norme contenute? L’articolo 120 del testo punta sull’esecuzione domiciliare delle pene, una misura alternativa già prevista dal nostro ordinamento (fu introdotta durante il governo Berlusconi, con Angelino Alfano ministro della Giustizia, dalla legge 199 del 2010) per chi abbia da scontare ancora 18 mesi di detenzione in carcere. Una norma che in dieci anni, dall’entrata in vigore fino al 29 febbraio 2020 ha fatto uscire di carcere, secondo i dati del ministero della Giustizia, 27.152 persone. Qual è dunque la novità? Anzitutto, vengono ampliati i reati per cui la detenzione domiciliare non si può applicare (maltrattamenti contro familiari o conviventi e atti persecutori; delinquenza abituale). Per nessuno di questi reati, semplicemente, viene verificata la possibilità che il detenuto abbia a disposizione un domicilio diverso da quello in cui vivono per esempio le persone che avevano subito maltrattamenti. In più vengono esclusi dalla detenzione domiciliare anche quei detenuti “nei cui confronti sia stato redatto rapporto disciplinare (…) in quanto coinvolti nei disordini e nelle sommosse verificatesi negli istituti penitenziari dalla data del 7 marzo 2020 fino alla data di entrata in vigore del presente decreto”. La novità più consistente, si fa per dire, riguarda la velocità e la semplificazione procedurale con cui dovrebbero essere disposte le detenzioni domiciliari. Il magistrato di sorveglianza provvede “con ordinanza adottata in camera di consiglio, senza la presenza delle parti, con riduzione del termine per decidere a cinque giorni. Quindi, la cancelleria dell’ufficio di sorveglianza, entro quarantotto ore, comunica l’ordinanza all’istituto, che provvede all’esecuzione, nonché all’ufficio locale di esecuzione penale esterna e alla questura competenti per territorio”. Questa procedura a “contraddittorio differito”, in cui l’ordinanza è notificata al condannato o al difensore e comunicata al procuratore generale della Repubblica, i quali entro dieci giorni dalla comunicazione possono proporre reclamo al tribunale di sorveglianza, “assicura decisioni più celeri”. La relazione tecnica del decreto prevede che le disposizioni in esame potranno far uscire di carcere solo tremila persone a fronte dei 61 mila detenuti, di cui circa diecimila non definitivi. “Dal punto di vista finanziario si rappresenta che le disposizioni in esame, che potranno trovare applicazione nei confronti di un limitato numero di detenuti chiamati a scontare una pena residua non superiore a 18 mesi (contingente stimato in un massimo di 3000 unità) e per un periodo circoscritto, legato all’emergenza epidemiologica Covid-19, fino al 30 giugno 2020, non sono suscettibili di determinare nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio dello stato”. I braccialetti elettronici, necessari a verificare lo stato della detenzione domiciliare, dovranno essere usati “ferma ovviamente la disponibilità degli strumenti”, salvo per detenuti con residuo pena di sei mesi che andranno in detenzione domiciliare senza dispositivo elettronico. Domanda: questi braccialetti ci sono oppure no? Il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese ha annunciato in Consiglio dei ministri di avere già a disposizione 2.500 braccialetti e che i rimanenti saranno acquistati. “Il ministro della Giustizia si assuma la responsabilità del momento, non scarichi sugli altri e affronti il tema del sovraffollamento carcerario alla luce del Covid-19. Su detenzione domiciliare va aumentato il termine della pena residua, così non serve a niente”, dice al Foglio Cosimo Maria Ferri, deputato di Iv e componente della commissione Giustizia. “Quelle del pacchetto Bonafede sono norme manifesto, non cambia niente. Ci vuole coraggio e visione per gestire un’emergenza sanitaria anche nel settore Giustizia e ancora di più nel settore penitenziario. Non si deve pensare al consenso o alla popolarità della norma introdotta ma alla salute di tutti e al bene del paese”. Servono i braccialetti, ma toh, le lungaggini li hanno bloccati di Tiziana Maiolo Il Riformista, 17 marzo 2020 Vengono usati per controllare coloro che vanno ai domiciliari. Piacciono tanto anche al ministro Bonafede ma è tutto bloccato e si rischia di limitare i permessi. Circa 3.000 detenuti con condanne o residui pena non superiori a diciotto mesi potrebbero nei prossimi giorni lasciare le carceri in direzione della propria abitazione, agli arresti domiciliari. Lo prevede il decreto governativo sul coronavirus, un piccolissimo passo rispetto a quel che propone da giorni il Riformista insieme alle Camere Penali. Bisogna risalire alla cultura radicale, liberale e di una parte della sinistra d’un tempo per ritrovare qualcuno (come ha fatto nei giorni scorsi Matteo Renzi) che ricordi come la detenzione in carcere dovrebbe essere l’extrema ratio nell’applicazione della pena. La quale dovrebbe servire a rieducare e non a vessare, soprattutto con strumenti che ledano la dignità della persona. E anche che se le carceri scoppiano (61.230 carcerati su una capienza di 50.931) il fatto è dovuto prima di tutto all’uso abnorme della custodia cautelare, poi alla scarsissima applicazione delle misure alternative previste dal codice del 1989 e infine a una serie di norme fortemente repressive e spesso incostituzionali votate dagli ultimi governi. Il provvedimento del governo ha già in sé un ostacolo, il reperimento dei braccialetti elettronici, che per il ministro Bonafede sono indispensabili come lo erano una volta i ceppi ai piedi. Ci troviamo quindi già davanti a una nuova, faticosa scommessa. Si riuscirà a usare il metodo “ponte di Genova”, dando un calcio alle lungaggini burocratiche, per reperire questi strumenti di controllo, oppure, dopo l’immane sforzo di democrazia il ministro Bonafede, esausto, si affiderà alla sorte, cioè ai tempi biblici per eseguire il provvedimento? Lo svuotamento delle carceri è indispensabile, il provvedimento di ieri è già tardivo e non ha saputo evitare le proteste dei detenuti in seguito alla sospensione dei colloqui. Se ci sono infatti luoghi dove la sofferenza quotidiana può trasformarsi in angoscia e stress in presenza della possibilità di epidemia, queste sono le istituzioni totali. Il Coronavirus ha illuminato a giorno la loro esistenza: il buio delle carceri, la solitudine delle case di riposo, il disagio delle malattie psichiche. Quello che oggi per tutti noi, con la presenza di un virus ignoto e insidioso, comporta già un mutamento radicale della vita quotidiana, un presente che non vede nell’immediato un futuro, una privazione del sogno e del progetto, per persone già prive della libertà rischia di essere solo un buco nero senza fine. Per questo, oggi più che mai, un programma liberale per la giustizia è quanto mai urgente. Ripensare daccapo i principi del codice accusatorio, già fortemente inquinato nel corso degli anni da un legislatore condizionato da una casta di magistrati ancorati alla vecchia inquisizione. E porre un freno alle manette facili del carcere preventivo. Ma, prima ancora di mettere mano alle riforme, mettere in campo provvedimenti come l’amnistia e l’indulto, come forme di riparazione verso una serie di norme repressive che hanno trasformato il carcere nel contenitore di ogni problema sociale, persino di ogni fastidio. Ci sarebbe piaciuto che il provvedimento del governo non fosse stato determinato dal coronavirus e dalle proteste, ma che fosse solo un fatto di civiltà. Che fosse esteso per esempio anche ai tanti anziani, malati psichici, tossicodipendenti che vivono nelle prigioni italiane. Si tratta di persone che dovrebbero stare altrove, nelle case, negli ospedali, nelle comunità. Sempre, non solo quando c’è il timore che un virus ignoto e pericoloso crei un problema di salute nella convivenza e nella promiscuità. Perché il problema c’è sempre. Basterebbe applicare le norme della Costituzione per affrontarlo, e magari risolverlo. Conte, tira fuori i dati sui farmaci nelle prigioni di Giulia Crivellini* e Giulio Manfredi** Il Riformista, 17 marzo 2020 Tredici detenuti sono morti la scorsa settimana a causa dell’abuso di sostanze sottratte alle infermerie, in seguito alle rivolte scoppiate nelle carceri italiane in risposta all’applicazione delle misure per il contenimento del coronavirus. Episodio che sbatte in faccia un problema che, da troppo, continua a essere ignorato dai governi che si succedono: l’inadeguatezza dei trattamenti sanitari attuati dagli istituti di pena, in particolare quelli relativi ai cittadini detenuti tossicodipendenti che prevedono l’utilizzo di terapie farmacologiche sostitutive. Siamo ancora lontani dalla piena attuazione della riforma della medicina penitenziaria la quale, nel 1999, stabiliva il servizio sanitario nazionale assicuri ai detenuti e agli internati livelli di prestazioni analoghi a quelli garantiti ai cittadini liberi. Ce ne rendiamo conto grazie all’attività portata avanti nelle carceri: quel che sappiamo su questo tema, lo conosciamo grazie alle visite che conduciamo, alle storie raccolte dalle famiglie dei detenuti e non certo grazie alla relazione annuale al Parlamento che fotografa il fenomeno delle tossicodipendenze in Italia. Un documento che dovrebbe fornire informazioni chiave per elaborare strategie e politiche, il quale tuttavia dedica solo tre pagine sulle quasi 300 che lo compongono ai “soggetti tossicodipendenti in carcere”. Tre pagine che, inoltre, non forniscono informazioni utili sui trattamenti sanitari effettuati nelle case circondariali. Sappiamo, per esempio, che nel 2018 i Serd hanno assicurato prestazioni farmacologiche a oltre la metà dei pazienti fuori dalle mura degli istituti penitenziari; non abbiamo idea, invece, di quale sia la percentuale all’interno. Eppure i numeri sono il punto di partenza per studiare quanto accade e individuare le giuste risposte. Per questo Radicali Italiani chiede al presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte, al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, al ministro della Salute Roberto Speranza di fornire dati esaustivi e analitici sui trattamenti farmacologici sostitutivi effettuati negli istituti di pena. Il Governo, di fronte a quanto accaduto nei giorni scorsi, non può continuare a ignorare un problema che si è manifestato in tutta la sua gravità. Non può limitarsi a tamponare le ferite, deve operare in profondità e, per farlo in modo efficace, deve partire dalla diagnosi. Chiediamo, dunque, che il Governo raccolga, elabori e fornisca, per ogni istituto di pena italiano, i dati relativi al numero dei soggetti tossicodipendenti detenuti e di quelli tra loro che accedono a trattamenti farmacologici, includendo i dettagli relativi alle terapie somministrate. E domandiamo che questo avvenga a partire dalla presentazione della prossima relazione, entro il termine di legge del 30 giugno. Le carceri non possono continuare a essere trattate come un mondo isolato, al quale interessarsi solo quando la violenza esplode troppo forte per consentire di far finta di nulla. Oggi più che mai, la diffusione del coronavirus e le ripercussioni che sta causando, ci dimostrano che gli istituti penitenziari non sono un mondo a parte, a chiusura stagna. Le recenti rivolte ci suggeriscono che ormai il sistema è saturo, manifestazione di malesseri lasciati crescere; ci hanno fornito, a caro prezzo, una consapevolezza che non possiamo rigettare. Abbiamo già vissuto anni di disordini sanguinosi nelle carceri, erano gli anni 70. Abbiamo gli strumenti per far sì che ciò non si ripeta. Il Governo li ha. Ci metta anche la volontà. *Tesoriera Radicali Italiani **Associazione radicale Adelaide Aglietta Carceri: messaggio alle istituzioni promosso dal Partito Radicale Ristretti Orizzonti, 17 marzo 2020 Il Partito Radicale lancia un appello a Governo e istituzioni, a cui aderiscono molte personalità, tra le quali anche il presidente del Gruppo Abele, don Luigi Ciotti, sul tema del sovraffollamento carcerario. Situazione tanto più rischiosa oggi alla luce dell’emergenza sanitaria dettata dalla pandemia di Coronavirus, mentre si è ben lontani dalle esigenze di campagna elettorale. Nel luglio 2011 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano affermò che “La questione del sovraffollamento nelle carceri è un tema di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile”. Due anni dopo, nell’ottobre 2013, il Presidente Napolitano inviò un messaggio alle Camere sulla situazione carceraria, nel quale indicò le misure urgenti da adottare, tra le quali amnistia e indulto. Scrive il Presidente: “L’effetto combinato dei due provvedimenti (un indulto di sufficiente ampiezza, ad esempio pari a tre anni di reclusione, e una amnistia avente ad oggetto fattispecie di non rilevante gravità) potrebbe conseguire rapidamente i seguenti risultati positivi: a) l’indulto avrebbe l’immediato effetto di ridurre considerevolmente la popolazione (…) riportando il numero dei detenuti verso la capienza regolamentare; b) l’amnistia consentirebbe di definire immediatamente numerosi procedimenti per fatti “bagatellari” (destinati di frequente alla prescrizione se non in primo grado, nei gradi successivi del giudizio), permettendo ai giudici di dedicarsi ai procedimenti per reati più gravi e con detenuti in carcerazione preventiva. Ciò avrebbe l’effetto - oltre che di accelerare in via generale i tempi della giustizia - di ridurre il periodo sofferto in custodia cautelare prima dell’intervento della sentenza definitiva (o comunque prima di una pronuncia di condanna, ancorché non irrevocabile). Le rivolte di questi giorni sono la conseguenza dell’indifferenza e dell’ignavia con le quali il parlamento accolse quell’unico messaggio che il Presidente Napolitano ha inviato al Parlamento durante il suo mandato. Per non dire dell’illusione creata dalla mancata applicazione della riforma dell’ordinamento penitenziario votata dal parlamento e sacrificata dal Governo sull’altare elettorale. Oggi non c’è più tempo, è indispensabile agire subito! Forti anche del convergente appello dei cappellani penitenziari, ci appelliamo al Governo perché adotti con la massima urgenza un primo provvedimento che riporti l’affollamento penitenziario nei limiti previsti dalla legge, violazione già sanzionata in passato dalla corte europea dei diritti dell’uomo, ed oggi nuovamente e palesemente violata. Hanno già aderito: Sen. Paola Nugnes, Gruppo Misto; Clemente Mastella, Sindaco di Benevento, già Ministro della Giustizia; Sen. Sandra Lonardo, FI; On. Vittorio Sgarbi, Gruppo Misto; On. Renata Polverini, Fi; Don Ettore Cannavera, Responsabile de La Collina, Misure alternative al Carcere e Cappellano della REMS della Sardegna; Don Luigi Ciotti, presidente Gruppo Abele e Libera; Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Regione Campania; Bruno Mellano, Garante dei detenuti del Piemonte; Gianfranco Oppo, già garante dei detenuti di Nuoro; Francesco Ceraudo, medico penitenziario/già direttore del centro clinico del carcere Don Bosco di Pisa; Ilaria Cucchi; Ornella Favero, Presidente Associazione Ristretti Orizzonti; Avv. Roberto Lamacchia, Presidente dell’Associazione Giuristi Democratici; Corradino Mineo, giornalista, conduttore; Vittorio Feltri, Direttore di Libero; Giuliano Ferrara, giornalista; Riccardo Iacona, Giornalista Rai; Pietro Palau Giovannetti, sociologo; Lillo Di Mauro, Presidente della Consulta Penitenziaria di Roma Capitale e Presidente della Conferenza Volontariato Giustizia del Lazio; Paolo Ferrero, già Segretario nazionale di Rifondazione comunista; Rossella Panuzzo, ufficio stampa Fondazione Terre des Hommes Italia; ARCI Nazionale (Associazione Ricreativa e Culturale Italiana); Associazione Ristretti Orizzonti; Associazione Stefano Cucchi Onlus; Associazione Pantagruel; Avvocati Senza Frontiere; Movimento per la Giustizia Robin Hood (Organizzazione Di Volontariato); Donne per la Giustizia; Associazione Giuristi Democratici; Associazione Fuori Dall’ombra; Consulta Penitenziaria di Roma Capitale; Conferenza Volontariato Giustizia del Lazio; Coronavirus, Dap: “Sartorie carceri riconvertite per produrre mascherine” adnkronos.com, 17 marzo 2020 Via libera al progetto da Protezione civile, si attende l’ok dell’Iss. Le lavorazioni sartoriali presenti in alcuni istituti penitenziari dove vengono impiegati i detenuti potrebbero essere immediatamente riconvertite per iniziare a produrre mascherine di tipo chirurgico in ‘tessuto non tessuto’ per rispondere all’emergenza sanitaria in corso. Questo, a quanto si apprende da fonti del ministero della Giustizia, il progetto cui starebbe lavorando il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sottoposto sabato scorso alla Protezione Civile e che ha ricevuto oggi il via libera. Sarebbero nell’ordine delle migliaia le mascherine chirurgiche al giorno che potrebbero essere prodotte nei 25 laboratori presenti negli istituti italiani. Per poter avviare il processo produttivo, si attende ora solo l’assenso dell’Istituto Superiore di Sanità relativo ai profili certificativi delle caratteristiche di questo tipo di mascherine. Giustizia, fino al 15 aprile termini davvero sospesi di Errico Novi Il Dubbio, 17 marzo 2020 C’è del criterio, nelle scelte compiute dal governo in materia di giustizia. E se c’è, è anche in virtù dell’ascolto prestato dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede alle richieste degli avvocati. Nel maxi decreto “Cura Italia” viene infatti previsto il rinvio delle udienze non urgenti a dopo il 15 aprile e sospeso fino a quella data il decorso di “tutti i termini procedurali”. Un’espressione netta, che sembra accogliere in modo efficace la richiesta essenziale avanzata negli ultimi giorni da istituzioni e rappresentanze forensi: evitare che gli avvocati si trovassero comunque costretti a produrre affannosamente atti nonostante la situazione di gravissimo disagio in cui, come tutti, sono immersi. Al secondo comma dell’articolo 80 c’è, sul punto, un passaggio dettagliato, scrupoloso, per certi aspetti persino iterativo, ma opportunamente chiaro, in modo da evitare che i professionisti del Foro si trovino in piena, tragica emergenza coronavirus, a sfidare persino il destino. Lo aveva chiesto il Consiglio nazionale forense (che con l’intesa fra Bonafede e Mascherin aveva definito un paradigma di concrete cautele da adottare nei Tribunali) così come l’Ocf, l’Unione nazionale Camere Civili e l’Unione Camere penali - da cui peraltro era venuta l’idea di assimilare lo stop di questi giorni a quello del periodo feriale agostano. Viene ascoltato, da via Arenula e da Palazzo Chigi, dove ieri mattina il decreto è stato varato, anche il grido di dolore di tanti Ordini e Unioni regionali forensi, in particolare di quelli del Nord Italia, dove la minaccia del contagio negli uffici, per avvocati e magistrati, è semplicemente micidiale. Che il decreto sia definitivo nello sciogliere i nodi lo si coglie anche nella doppia estensione dello stop: se il periodo “simil feriale” si allunga fino al 15 aprile (avrebbe dovuto concludersi il 22 marzo, secondo il Dl 11/ 2020), la “fase 2”, in cui comunque si proseguirà con tutte le possibili cautele anti contagio, arriverà al 30 giugno e non più solo al 31 maggio. Ancora, viene recepita la logica delle osservazioni avanzate dagli avvocati amministrativisti, per esempio dall’Unaa, che si era prima confrontata con il presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi e aveva poi inviato una lettera al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, da cui la giustizia amministrativa dipende direttamente, per suggerire, “quando il termine è computato a ritroso e ricade in tutto in parte nel periodo di sospensione”, lo “slittamento delle udienze da cui decorre il termine in modo da consentirne il rispetto”. In realtà proprio in campo amministrativistico la soluzione adottata è un po’ più complessa. Non si determina l’automatismo di un rinvio a nuova data dell’udienza per la quale il difensore avrebbe dovuto produrre atti durante la sospensione: basterà però una sua istanza per ottenere, in modo certo, la “rimessione in termini” e lo slittamento. È poi interessante la possibilità prevista per le udienze che si svolgeranno davanti ai Tar o al Consiglio di Stato dopo il 16 aprile e fino al 30 giugno: nessuna discussione, per evitare presenze fisiche, ma facoltà di depositare, due giorni liberi prima delle udienze, brevi note difensive. A proposito della “fase 2” 16 aprile- 30 giugno, va segnalata la conferma dello spettro modulare di cautele che i capi degli uffici potranno assumere, e soprattutto la previsione, già inserita nel decreto 11 dell’8 marzo, che si debba sentire l’Ordine forense del territorio, oltre che l’Autorità sanitaria regionale (per il tramite dei governatori). Tra le possibili soluzioni colpisce il secco rinvio delle udienze fissate anche in tale periodo ad epoche successive al 30 giugno. Sarà forse inevitabile, per sfoltire l’intensità del calendario e ridurre così gli “assembramenti” anche al di fuori delle aule. Viene tradotta in dato normativo la logica delle già ricordate linee guida ministero-Cnf. Ribaditi diversi punti introdotti col decreto sulla zona rossa di inizio marzo e richiamati poi dal Dl 11/ 2020 della settimana successiva: dal ricorso ai collegamenti in videoconferenza per la partecipazione dei detenuti “a qualsiasi udienza” alla scrupolosa selezione di quegli affari civili e penali definiti urgenti e che si continuerà a trattare anche in questi giorni, dunque per l’intero periodo che si concluderà il 15 aprile. Con affinamenti significativi. Nel civile, oltre alle cause con minorenni, ai procedimenti di diritto familiare relativi agli alimenti, alle espulsioni di migranti irregolari e ai fascicoli ritenuti comunque indifferibili, va segnalata l’attenzione per i casi relativi a tutela, amministrazione di sostegno o interdizione: si tratta di settori in cui “l’esame diretto della persona” è irrinunciabile, ma che proprio per questo, in Tribunali come quello di Milano, sono divenuti carburante per il contagio. Così li si continuerà a discutere anche durante la sospensione solo se sarà impossibile rimediare con “provvedimenti provvisori”, e sempre che la presenza della persona da esaminare “non risulti incompatibile con le sue condizioni di età e salute”. Assennata anche, nel penale, l’idea di accludere le udienze con detenuti - o in cui “è pendente la richiesta di misure detentive” - fra le indifferibili solo se gli interessati o i loro difensori “espressamente lo richiedono”. Come previsto è stato dato via libera a eseguire esclusivamente per via telematica le notificazioni e le comunicazioni in ambito penale, e sarà assicurato un contributo di 600 euro, per un massimo di 3 mesi, ai magistrati onorari. Stavolta l’intervento sui tribunali è così netto da apparire davvero definitivo. Processi, notifiche penali solo con il digitale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 17 marzo 2020 Proroga al 15 aprile del rinvio delle udienze e sospensione dei termini, notificazioni solo per via telematica, misure di sostegno alla magistratura onoraria. Sono queste alcune delle misure sul sistema giustizia contenute nel nuovo decreto legge legato all’emergenza sanitaria. Nel dettaglio, viene prorogato al15 aprile il rinvio delle udienze e la sospensione dei termini nei procedimenti civili e penali su tutto il territorio nazionale, già previsto nel precedente decreto fino al 22 marzo. Per lo stesso periodo, quindi fino al 15 aprile, vengono sospesi anche i termini di durata massima delle misure cautelari e il corso della prescrizione. Sempre nella prospettiva di contrasto al coronavirus, è stato dato via libera a eseguire esclusivamente per via telematica le notificazioni e le comunicazioni in ambito penali. Per gestire il notevole carico di lavoro delle cancellerie per le comunicazioni e le notificazioni dei provvedimenti di rinvio (o degli altri provvedimenti previsti dai decreti legge adottati) si dispone una generale domiciliazione presso l’avvocato di fiducia dell’imputato e di tutte le parti private. La sospensione dei termini investe qualsiasi atto del procedimento e si estende quindi anche ai termini stabiliti per la fase delle indagini preliminari, per l’adozione di provvedimenti giudiziari e per il deposito della loro motivazione, per la proposizione degli atti introduttivi del giudizio e del procedimento esecutivo, per le impugnazioni e, in genere, riguarda tutti i termini procedurali (quindi anche dei procedimenti esecutivi e concorsuali). La disciplina del decreto legge 11 del 2020 viene integrata con l’introduzione di una norma che punta a soddisfare l’esigenza di sospendere i termini per compiere gli atti previsti nei procedimenti di risoluzione giudiziale delle controversie nel periodo di sospensione dell’attività giudiziaria: si prevede così lo stop nei procedimenti di mediazione e di negoziazione assistita da avvocati. A sostegno della magistratura onoraria, vengono estese misure simili a quelle introdotte per i lavoratori autonomi, attraverso un contributo economico di 600 euro mensili per un massimo di 3 mesi, calcolato sulla base dell’effettivo periodo di sospensione dell’attività. Lombardia. Carceri “al collasso”, appello dei Giudici di sorveglianza al ministro Bonafede di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 17 marzo 2020 La lettera chiede di concedere detenzione domiciliare per chi deve scontare meno di 4 anni e riduzioni di pena, perché gli istituti della regione stanno scoppiando: il rischio di contagio è altissimo e si potrebbero scatenare nuove rivolte. Le carceri della Lombardia “versano in situazione di gravissimo collasso” ed “emergenziale mai vista prima”, nella quale un focolaio di infezione sarebbe “ingestibile” dal punto di vista sanitario, favorirebbe nuove rivolte dei detenuti che “potrebbero crescere senza possibilità di contenimento”, mentre il personale e gli agenti della Polizia penitenziaria sono ormai allo “spasimo”. Con una lettera ferma e accorata al ministro della giustizia Alfonso Bonafede, i presidenti dei Tribunali di sorveglianza di Milano e Brescia, che coprono l’intero territorio della regione, lanciano l’allarme e chiedono “forti interventi normativi” per alleggerire immediatamente il sovraffollamento negli istituti di pena della regione che stanno scoppiando. “Nonostante il massimo impegno” di tutti gli operatori, che i presidenti Giovanna Di Rosa (Milano) e Monica Lazzaroni (Brescia) definiscono “eroi”, “la diffusione del virus all’interno degli istituti costituisce una situazione altamente depotenziante la possibilità di controllo degli stessi”, che potrebbe far scoppiare nuove proteste dopo quelle “contenute” dei giorni scorsi che hanno devastato alcuni reparti ma che hanno “riguardato 1270 detenuti su un totale di 8.500 circa (per una capienza di 6.200,ndr.)” e, generalmente, solo tra coloro che non erano sottoposti a programmi trattamentali. I pericoli di contagio sono “costantemente presenti e attualmente stanno producendo i loro tragici frutti, a causa della diffusione del morbo e dei dati che sono rassegnati quotidianamente anche alla sua attenzione”, scrivono a Bonafede. L’impegno enorme dei magistrati di sorveglianza per valutare e concedere le misure alternative al carcere a coloro che ne hanno diritto, in modo da ridurre il sovraffollamento delle celle e contenere il rischio di contagio “purtroppo prevedibile”, non è sufficiente di fronte a norme prevedono una “tempistica non adeguata alla situazione di assoluta emergenza che la Lombardia sta vivendo”. Di Rosa e Lazzaroni denunciano anche le condizioni degli agenti di polizia penitenziaria “sfiniti da turni senza riposo ed esposti al rischio di contagio, là dove non già e consistentemente colpiti dalla malattia”. Non è migliore la situazione dei Tribunali di sorveglianza che “lavorano in uno stato di guerra” e sono al “collasso” per svolgere le udienze via skype ed evitare il pericolo di contagio durante le traduzioni. Per “fronteggiare l’emergenza”, basterebbero poche, precise norme applicabili senza l’intervento dei giudici di sorveglianza: detenzione domiciliare “per coloro che hanno pena anche residua inferiore ai 4 anni”; riduzione di pena di 75 giorni ogni sei mesi scontati in buona condotta; licenza speciale di 75 giorni ai semi liberi. “Si tratterebbe ovviamente di provvedimenti destinati a coloro che non hanno partecipato alle note rivolte e che hanno tenuto nel corso della detenzione regolare condotta”, puntualizzano subito i due magistrati. Senza questi interventi, avvertono, “non è possibile fronteggiare l’emergenza così drammaticamente insorta: il virus corre più veloce di qualunque decisione che, alle condizioni date, è certo perverrebbe fuori tempo massimo”, perché “la Lombardia versa in una situazione che non è possibile assimilare al resto d’Italia, per la sua gravità, ma può costituire il dato esperienziale per evitare che il morbo si propaghi al resto d’Italia”, scrivono ancora Di Rosa e Lazzaroni, che invitano il Guardasigilli a visitare le carceri della regione per rendersi conto di persona di quello che sta succedendo. Abruzzo. Pubblicato l’avviso pubblico per il reinserimento dei detenuti cityrumors.it, 17 marzo 2020 La creazione di un modello di reinserimento lavorativo da sottoporre ai detenuti o soggetti interessati da provvedimenti dell’autorità giudiziaria è l’obiettivo che intende raggiungere la Regione Abruzzo con la pubblicazione dell’Avviso “Reinserimento dei detenuti”. L’intervento s’inserisce nell’ambito della programmazione Por Fse 2014-2020 e rientra nell’Asse II del Programma, con l’obiettivo di favorire l’inclusione lavorativa di questa categoria di soggetti svantaggiati. La misura può contare su una dotazione finanziaria complessiva di oltre 250 mila euro; l’avviso pubblicato, in questa prima fase, è volto ad acquisire le manifestazioni d’interesse degli operatori economici per poter partecipare ad una gara ad evidenza pubblica sul Mercato elettronico della pubblica amministrazione (MePa) al fine di elaborare un progetto tecnico di reinserimento e conseguente proposta economica. L’obiettivo principale è quello di sviluppare un modello di presa in carico dei detenuti o di altri soggetti sottoposti a misure dell’autorità giudiziaria per favorirne così il reinserimento nel contesto sociale ed economico di riferimento. Il progetto interesserà tutti gli 8 penitenziari presenti in Abruzzo: Avezzano, Chieti, L’Aquila (in regime di 41bis), Lanciano, Pescara, Sulmona (unico ad Alta sicurezza), Teramo e Vasto per un totale di circa 2000 detenuti. Il termine per la presentazione delle manifestazioni di interesse scade alle ore 14 del 26 marzo. Nella seconda fase, che verrà avviata successivamente, si attiveranno le misure di reinserimento che vanno dalla presa in carico alla formazione professionale con possibilità di qualifica, dall’assistenza e accompagnamento per lo svolgimento di tirocini extracurriculari fino alla promozione dell’inserimento lavorativo al termine del tirocinio. Puglia. Le richieste dei detenuti raccolte in una nota del Garante Piero Rossi pugliain.net, 17 marzo 2020 Nei giorni scorsi, all’indomani dei disordini all’interno delle carceri italiane, il Garante regionale dei detenuti Piero Rossi ha effettuato una visita all’interno della Casa Circondariale di Bari, sia per cercare di comprendere le motivazioni che hanno portato ai disordini, sia per recepire e comunicare all’esterno le richieste degli stessi. “Nel corso di una visita alla Casa Circondariale di Bari, richiesta dagli stessi detenuti e svoltasi lo scorso 12 marzo 2020, abbiamo assunto l’impegno a rendere pubblica una nota, manoscritta dai detenuti ristretti all’interno della prima sezione della Casa Circondariale di Bari, è di fatto una protesta pacifica scritta, inerente al disagio carcerario da loro quotidianamente vissuto”. “I Ristretti - sottolinea Rossi - sono consapevoli del difficile momento che l’intera popolazione italiana sta vivendo a causa della diffusione del Virus Covid-19 e non intendono creare ulteriori situazioni di criticità, ma chiedono, una volta terminato questa situazione di crisi, di concentrare l’attenzione e di impegnarsi a risolvere le problematiche esistenti da decenni e che gravano sul sistema carcerario italiano”. “Condizioni che, in particolari situazioni di criticità, come le attuali, diventano insostenibili. Per questa ragione chiedono immediatamente l’osservanza delle leggi esistenti per l’accesso ai benefici a coloro i quali rientrano nei termini e nei requisiti, escludendo la discrezionalità dei giudici che potrebbe creare differenze di applicazione tra i diversi tribunali di sorveglianza italiani e le dimissioni immediate del Ministro Bonafede che non ha mai prestato la giusta attenzione a quanto, sin dall’inizio del suo mandato gli era noto”. “Successivamente al termine dell’emergenza Coronavirus, i Ristretti chiedono di affrontare in modo attento e consapevole tutte le problematiche inerenti a: sovraffollamento, sanità penitenziaria, agibilità Istituti penitenziari”. Bologna. Il Garante: “dopo la rivolta camere detentive chiuse h24” di Ambra Notari Redattore Sociale, 17 marzo 2020 In una nota Antonio Ianniello, Garante dei detenuti di Bologna, fa il punto sulla situazione alla Dozza: “Ci sono luoghi non agibili: le devastazioni hanno interessato anche gli ambulatori medici e gli spazi per le visite specialistiche. Si riparta dal buon senso dei detenuti che hanno scelto di non partecipare alla rivolta”. “Nel reparto giudiziario, non essendoci attualmente condizioni di sicurezza a causa delle devastazioni che hanno interessato gli spazi, le persone detenute sono per il momento chiuse nelle camere di pernottamento h24. Alcuni spazi detentivi sono ancora senza luce. Sono peggiorate anche le condizioni di lavoro degli operatori che prestano servizio nelle sezioni detentive: nei giorni scorsi i sindacati di Polizia Penitenziaria in una nota congiunta hanno chiesto la chiusura del reparto giudiziario e il relativo trasferimento della totalità delle persone detenute lì collocate verso altri istituti penitenziari”. A fare il punto della situazione in cui si trova la Casa circondariale Rocco D’Amato di Bologna è il Garante dei detenuti di Bologna, Antonio Ianniello, che in una nota mette in fila tutte le esigenze che riguardano l’istituto, parzialmente devastato dalle rivolte dei giorni scorsi, che hanno portato alla morte di un detenuto per cause ancora da chiarire. “Dobbiamo ringraziare l’amministrazione penitenziaria e l’Azienda Usl di Bologna - sottolinea -. C’è ancora molto lavoro da portare avanti per il progressivo ripristino dei locali e delle infrastrutture, anche di tipo sanitario: le devastazioni, infatti, hanno anche interessato ambulatori medici e spazi e strumentazione per le visite specialistiche”. Nei giorni scorsi sono stati effettuati trasferimenti di persone detenute verso altri istituti per motivi di ordine e sicurezza, ma i problemi permangono: dalla chiusura h24 dei detenuti del giudiziario nelle proprie camere detentive; alle peggiorate condizioni di lavoro degli agenti, per giorni costretti a lavorare immersi nell’odore acre dei roghi spenti della rivolta. “È stata ripristinata al 1° piano la linea telefonica, i colloqui sono sospesi ma si sta garantendo un maggior numero di comunicazioni telefoniche e via skype. Ritengo, però, sarebbe necessario un potenziamento delle linee telefoniche e delle postazioni informatiche”. Nei giorni scorsi la Direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dap, per limitare il disagio delle persone detenute in questo momento, ha autorizzato l’utilizzo della posta elettronica per la corrispondenza con i familiari anche per i ristretti nel circuito Alta Sicurezza 3, anche presenti a Bologna. Da oggi, poi, saranno ripristinati i colloqui con gli avvocati, per atti urgenti e improrogabili, che all’ingresso in istituto potranno essere sottoposti al triage; saranno anche tenuti a compilare l’apposito modulo di autocertificazione. “Risulta opportuno ribadire che, da quanto risulta, un consistente numero di persone detenute ha scelto di adottare comportamenti responsabili, non partecipando ai disordini. È anche altamente probabile che non siano poche le persone detenute che, pur trovandosi in quelle stesse sezioni del reparto giudiziario coinvolte nelle violenze, non hanno alla fine partecipato attivamente alle devastazioni. Bisognerà ripartire dal senso di responsabilità di chi non ha usato violenza durante i disordini affinché le ulteriori fasi di questa emergenza sanitaria possano essere affrontate con moderazione nel contesto penitenziario dove evidentemente l’alleggerimento degli attuali numeri delle presenze in carcere consentirebbe di creare condizioni essenziali per la possibilità di reperire spazi detentivi da utilizzare per l’eventuale isolamento delle persone sulla base delle necessità sanitarie”. A livello centrale è operativa una task force, voluta dal Ministro della giustizia, in cui sono anche presenti il Garante nazionale delle persone private della libertà personale e i Capi dipartimenti dell’amministrazione penitenziaria e della Giustizia minorile e di comunità, proprio con il compito di elaborare strategie possibili d’intervento per far fronte all’emergenza in atto. Il Garante nazionale sta anche chiedendo informazioni alle Procure della Repubblica, tra cui anche quella di Bologna, circa l’apertura delle indagini in merito ai decessi per proporre la presentazione come persona offesa. Rieti. I parenti dei detenuti: “chiarezza su morti durante rivolta in carcere” di Silvia Mancinelli adnkronos.com, 17 marzo 2020 “Sulle morti nel carcere di Rieti non può cadere il silenzio. Già da più di un mese e mezzo il virus è in Italia, l’allarme si diffonde, diventa sempre più forte e vicino a noi tutti. Sappiamo come noi, persone fuori dalle galere, abbiamo reagito alla nostra paura, alla nostra quotidianità che cambiava in peggio giorno dopo giorno, alle notizie di ospedali pieni e incapaci a garantire le adeguate cure a chi si ammalava. Intanto nelle carceri il sovraffollamento mette insieme troppe persone in celle strette, detenute e detenuti anche anziani, malati, senza le minime distanze uno dagli altri. Tutto questo in un’assistenza sanitaria che lascia al quanto a desiderare, un’assistenza che già in tempi di non emergenza sanitaria, riusciva a garantire solo psicofarmaci e, a malapena, qualche tachipirina”. Inizia così la lettera scritta dai parenti dei detenuti morti nel carcere di Rieti e affidata all’Adnkronos. “La tensione aumenta e lo Stato decide, per contenere il contagio, di adottare misure, le più restrittive, quali la sospensione di ogni attività, fino all’interruzione dei colloqui con i familiari. In compenso - si legge - gli operatori e gli agenti penitenziari continuano a rispettare i loro turni di lavoro ed entrano ed escono dalle galere, senza alcuna precauzione, nemmeno dotati di mascherine e guanti. Nessuna misura di prevenzione di carattere sanitario. Dal carcere di Salerno la rivolta si estende ‘contagiando’, in pochissime ore, ben 27 carceri di tutta Italia. Quattordici i decessi tra i detenuti di Modena, Alessandria e Rieti. Tutte morti, ci dicono dagli esiti di autopsie fatte in fretta e furia e, probabilmente, in assenza di figure legali nominate dalle famiglie, dovute ad abuso di psicofarmaci presi dalle infermerie interne alle carceri. “Ci volevano le rivolte affinché il Ministro della Giustizia, oltre ad esprimere il pugno di ferro nei confronti di chi ha partecipato alle rivolte, distribuisse 100 mila mascherine. Ma come si sedano le rivolte? - chiedono i parenti dei detenuti - Trattando con i detenuti, oppure con pestaggi reiterati. Non è una novità. Lo sa chiunque abbia vissuto direttamente o indirettamente (avendo un proprio caro lì rinchiuso) il carcere. In questi difficilissimi giorni, in cui l’impegno di ognuno di noi è tutto volto alla tutela della collettività, c’è chi non ha alcuna tutela”. “Chiediamo che il Direttore Generale della Asl di Rieti, anche competente e responsabile della salute delle persone detenute nel carcere, si impegni nell’accertamento delle condizioni dei detenuti. Ci domandiamo come mai a fronte di ben 4 morti i garanti, nazionale e regionale, dei diritti dei detenuti non si siano ancora recati sul posto. Li invitiamo a farlo al più presto, nel loro ruolo di tutela delle persone private della loro libertà”. Foggia. “Gli evasi avevano paura e c’erano anche i cancelli aperti” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 marzo 2020 La denuncia di un Comitato di familiari dei detenuti del carcere pugliese. Il video l’hanno visto tutti. I cancelli sono aperti, fuori solo due pattuglie della polizia e un centinaio di detenuti evadono con apparente tranquillità. Solo alcuni scappano per raggiungere delle auto nel parcheggio con la speranza di rubarle e fuggire. Parliamo della più grande evasione di massa mai avvenuta in Italia e il protagonista è il carcere di Foggia, teatro della forte rivolta avvenuta il 9 marzo scorso. A segnalare l’evento anomalo sono proprio un folto gruppo di familiari dei detenuti del carcere pugliese che hanno anche formato un comitato. Hanno prodotto un video, che Il Dubbio ha potuto visionare, nel quale si vede come il giorno prima della rivolta, i detenuti avevano iniziato una protesta pacifica con la cosiddetta battitura. “Possibile che visto gli avvenimenti dei quei giorni in tv e visto l’inizio di una protesta, nessuno sia riuscito a prendere provvedimenti prima?”, si chiede il comitato. Ma non solo. Dopo la rivolta i familiari vivono in un blackout totale. Al comitato arrivano testimonianze di parenti i cui figli e mariti hanno chiamato lamentandosi di avere ancora addosso la roba di una settimana fa. “Il carcere di Foggia non vuole darci nulla e noi familiari non possiamo spedirli”, denuncia la portavoce del comitato. Alla richiesta di avere indietro la roba, secondo quanto testimoniano i familiari, è che avrebbe provveduto il carcere a spedirla. “Ma è passata una settimana, i nostri cari sono stati trasferiti lontano e non hanno ancora indumenti”, denuncia il comitato dei familiari dei detenuti di Foggia. “Di alcuni di loro non si hanno ancora notizie, non ci danno notizie, qualcuno ha preparato e spedito pacchi con la roba ma a quanto pare per l’emergenza coronavirus il pacco è fermo e non può essere consegnato”, testimoniano ancora i familiari. Sono preoccupati, non hanno notizie. “Noi non possiamo stare zitti - tuonano i componenti del comitato -, vogliamo dei chiarimenti. Non giustifichiamo l’accaduto, hanno sbagliato ma hanno reagito per paura perché quel carcere è da anni che versa in condizioni critiche”. Denunciano che la polizia penitenziaria di Foggia, il giorno della rivolta, non indossava mascherine perché il carcere non le avrebbe fornite. Poi il comitato sottolinea un evento che potrebbe far capire il motivo scatenante della rivolta. “Molti nostri compagni lamentavano di detenuti con febbre. È normale aver paura - spiegano i familiari - noi vogliamo chiarimenti”. Una paura che però coinvolge - in generale - anche gli agenti penitenziari, i quali lamentano di non essere protetti. D’altronde numerosi sono i comunicati di varie sigle sindacali che chiedono provvedimenti, protezione e gestione efficace delle emergenze. Ma ritorniamo ai detenuti che sono riusciti ad evadere, poi riacciuffati. La compagna di uno di loro racconta a Il Dubbio che soffre di asma e l’assistenza sanitaria del carcere foggiano non riuscirebbe ad assisterlo come dovuto. “Io sono consapevole che nel passato ha sbagliato. Però non si sarebbe mai comportato così. Io sono certa che lui era evaso per paura dell’epidemia: mi disse che se con un semplice attacco d’asma non lo curano, figuriamoci con il coronavirus. Non avrebbe mai fatto una cosa del genere - racconta accoratamente a Il Dubbio. Non si sarebbe mai finito di rovinare con le sue stesse mani, se non avesse avuto così tanta paura”. Melfi (Pz). Dopo la rivolta in carcere 70 detenuti trasferiti in tutta Italia Gazzetta del Mezzogiorno, 17 marzo 2020 Con un’operazione alla quale hanno partecipato circa 200 uomini della Polizia penitenziaria, 70 detenuti del carcere di Melfi (Potenza) - tutti della sezione “alta sicurezza” - che il 9 marzo scorso si erano rivoltati prendendo in ostaggio nove persone fra agenti di custodia e personale sanitario, sono stati trasferiti stamani in altri istituti di pena d’Italia. La rivolta era cominciata, come in decine di altre carceri italiane, per protestare contro le misure - come la sospensione dei colloqui con i parenti - prese per contrastare la diffusione del coronavirus. I 70 detenuti trasferiti stamani, anche dopo aver rilasciato gli ostaggi, non erano rientrati in cella e la situazione di tensione era rimasta. Il segretario generale del Sindacato di Polizia penitenziaria, Aldo Di Giacomo, ha definito l’operazione di stamani che ha portato al trasferimento dei detenuti più turbolenti “una prova di forza dello Stato necessaria. Speriamo - ha aggiunto - che si continui su questa strada perché bisogna mantenere alta la guardia in tutti gli istituti italiani, ancora di più in questo momento segnato dall’emergenza per il covid-19”. Matera. “Noi, separate dai nostri mariti in carcere” Corriere del Mezzogiorno, 17 marzo 2020 “Siamo rimaste sveglie tutta la notte per conoscere il contenuto del decreto e alla fine, la delusione”. Maria, nome di fantasia per questioni di privacy, parla del “cura Italia”: il Dpcm varato ieri. È la moglie di un detenuto nel carcere di Matera. Una tra le persone che hanno protestato nei giorni scorsi in via Cererie, davanti ai cancelli della casa circondariale della città dei Sassi. Si aspettava “qualcosa di più dal ministro Bonafede” e invece “usciranno solo tremila persone, quelle che erano già in libertà vigilata. Ho paura che adesso succeda una rivolta”. Maria e le altre donne ricevono da mariti, figli, fratelli, lettere cariche di preoccupazione. L’incubo è che qualcuno possa essere contagiato dal Covid19. “Se il coronavirus arriva nel carcere - dice Maria - fa una strage. Allora sì che usciranno anche trentamila persone, ma in una cassa di legno. L’onorevole Rita Bernardini dei Radicali, con cui sono sempre in contatto, ci aveva spiegato che avremmo potuto avere i colloqui tramite Skype, ma niente. Neppure questo. Il carcere di Matera non è attrezzato per consentire i collegamenti, così io non vedo mio marito dal 5 marzo. Da allora c’è stata solo una telefonata di neppure dieci minuti, tre giorni fa. Sono molto preoccupata. In cella ci sono quattro persone. Non riescono certo a mantenere la distanza di sicurezza di un metro”. La Protezione civile ha allestito intanto anche nell’istituto di Matera le tende per il pre-triage. I timori però non sono solo per il coronavirus. Ma pure per le conseguenze di eventuali reazioni violente come quelle viste in altre città. Si pensi a Modena, dove non sono mancati i morti. “Mio marito mi scrive che potrebbe scoppiare una nuova protesta e che se lui non partecipasse rischierebbe di subire ritorsioni dagli altri detenuti. Come si può evitare tutto questo? Chi ci assicura che i nostri uomini stanno bene? Lui uscirà tra due anni e tre mesi. Io, intanto, sono malata. Ho un tumore. Vivo con la paura che non riusciremo più a vederci”. Dall’altra parte c’è la Polizia penitenziaria a dover gestire il tutto. I sindacati di categoria da anni denunciano la carenza di personale in carceri sempre più sovraffollate. Parma. In via Burla in arrivo 50 detenuti trasferiti dal Sant’Anna di Modena parmatoday.it, 17 marzo 2020 Lo annuncia il Garante dei Detenuti Roberto Cavalieri. Nel carcere parmigiano di via Burla arriveranno altri 50 detenuti, che sono stati trasferiti dal carcere Sant’Anna di Modena nel penitenziario della nostra città dopo le rivolte della settimana scorsa. Dopo il trasferimento di 16 detenuti dal carcere di Modena e di due dal carcere di Reggio Emilia il giorno stesso e nei giorni immediatamente successivi alla protesta, ora i nuovi trasferimenti. A Parma dovrebbero arrivare anche altri 15 detenuti dal carcere di Bologna”. Modena. Progetto “Nuova dimora”, promosso da Camera Penale e Ass. Porta Aperta modenatoday.it, 17 marzo 2020 “Nuova Dimora”, un alloggio per i detenuti con particolari regimi di semilibertà: è questa la soluzione della Camera Penale di Modena che - insieme all’Associazione di volontariato Porta Aperta - promuove per far fronte alle situazioni che hanno scatenato le rivolte dei giorni scorsi. È ormai appurato che le rivolte nelle carceri italiane verificatesi in tutta la penisola la scorsa settimana, siano frutto di crisi vecchie e nuove. L’emergenza coronavirus - e la conseguente sospensione dei colloqui con i familiari-, sembra solo la goccia che ha fatto traboccare un vaso già saturo da tempo. Il sovraffollamento delle carceri (in Italia, secondo una recente statistica resa nota dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, la popolazione carceraria è in soprannumero del 21,1%; e al Sant’Anna di Modena nello specifico i detenuti sarebbero stati 562 per 369 posti) infatti, come sottolinea la Camera Penale di Modena in un comunicato stampa emesso in mattinata “aveva già comportato in passato diverse condanne da parte dell’Europa per condizioni disumane”. Per sopperire a questa mancanza, a Modena erano già da qualche tempo in corso di realizzazione dei progetti capaci di consentire ad alcuni detenuti di intraprendere percorsi esterni al carcere, attualmente sospesi a causa della emergenza coronavirus. In seguito ai gravissimi fatti accaduti presso la Casa Circondariale Sant’Anna di Modena, l’inagibilità della struttura sta costringendo l’Amministrazione Penitenziaria a trasferire i detenuti in altre strutture d’Italia, ma l’Associazione di volontariato Porta Aperta Odv Ets e la Camera Penale di Modena Carl’Alberto Perroux, fanno sapere di voler fermamente evitare la dispersione di queste progettualità. È proprio per questo motivo che le due associazioni hanno costruito e promuovono “Nuova dimora”, un progetto finalizzato a creare alloggi per le persone private della libertà che si trovano in regime di lavoro all’esterno, in regime di semilibertà o per i quali siano già state ammesse ad altre misure alternative. Verosimilmente questo progetto interesserà quei carcerati che hanno già in corso, o sono in procinto di ottenere, misure finalizzate a dare piena attuazione all’art. 27 Costituzione, nella parte in cui afferma che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Attuazione che, comporta l’ammissione a percorsi rieducativi e risocializzanti quali il lavoro esterno, la semilibertà e le altre misure alternative. Roma. Carceri, l’appello del mondo cattolico per misure urgenti caritasroma.it, 17 marzo 2020 La Caritas di Roma e le associazioni di volontariato chiedono interventi per evitare il contagio. Le associazioni del mondo cattolico impegnate in carcere chiedono al Governo di mettere in campo con urgenza e senza esitazioni dei provvedimenti che consentano di affrontare in maniera adeguata e nei tempi necessari il rischio del diffondersi del contagio da Covid 19 in carcere. Occorre fare uscire le persone fragili e chi ha un fine pena breve, ampliando la detenzione domiciliare speciale per liberare spazi all’interno degli Istituti di pena, in un momento in cui lo spazio è essenziale per fermare la diffusione dell’epidemia. Non bastano i presidi sanitari. In un luogo chiuso come il carcere occorrono provvedimenti coraggiosi e decisi a tutela di tutti. Sottoscrivono: Associazione volontari in carcere; Caritas diocesana di Roma; I cappellani degli Istituti penitenziari di Roma; Ispettore generale dei Cappellani penitenziari; Seac; Comunità di Sant’Egidio; Sesta Città rifugio; VoReCo; I Gruppi di Volontariato Vincenziano. Venezia. Le detenute rispondono alle violenze nelle carceri con una “protesta solidale” globalist.it, 17 marzo 2020 Parla suor Franca, che lavora alla Casa di Reclusione della Giudecca: “Una voce fuori dal coro. Le donne hanno raccolto una cifra simbolica”. Una “protesta solidale” in risposta alle violente rivolte scoppiate all’interno delle carceri italiane al seguito del diffondersi del coronavirus. È questa l’iniziativa delle detenute della Casa di Reclusione Femminile della Giudecca - Venezia. Pur essendo solidale con gli altri detenuti e chiedendo comunque di poter vedere i propri cari, la stragrande maggioranza delle donne del carcere (71 su 85) si è dissociata dalle violenze, si è unita e ha dato vita a una raccolta fondi per mostrare vicinanza alle persone che stanno combattendo il coronavirus. Le donne hanno così raccolto 110 euro in un giorno da donare al Reparto di Terapia Intensiva dell’Ospedale dell’Angelo di Mestre. “Si tratta di una cifra simbolica, è vero, ma per alcuni anche un euro può significare tanto. E queste ragazze hanno dato tutto ciò che avevano. Quell’euro era tutto ciò che avevano”, spiega suor Franca, membro delle Suore di Maria Bambina, che lavora nel carcere. Suor Franca, le detenute hanno raccolto 110 euro in un giorno. Come diceva, una cifra simbolica, ma significativa per chi lavora in prigione... Esatto, soprattutto in questi giorni, in cui queste donne hanno visto interrotte, per un periodo non prevedibile, tutte le attività delle cooperative che danno loro lavoro all’interno di vari laboratori e progetti (lavanderia, laboratorio di cosmetica, orto, sartoria), a causa del quasi completo azzeramento delle commesse da parte dei committenti esterni, rappresentati qui a Venezia dalle grandi catene di alberghi di lusso, tutti desolatamente chiusi. Un gesto lodevole quello di raccogliere fondi anche in un momento così delicato per loro... Sì, mi viene in mente un’immagine evangelica: la vedova che, al tempio, dà due spiccioli. E quegli spiccioli sono tutto quello che ha. Ecco, allo stesso modo, queste donne mi hanno commosso. Volevano far sentire la loro solidarietà alla popolazione veneziana, a medici e infermieri in prima linea e all’Italia intera che sta subendo questo flagello. La loro è una bella voce da far sentire. Una voce fuori dal coro, no? Assolutamente, vista anche la situazione nelle altre carceri. Le donne della Giudecca si sono dissociate dalle proteste violente. Questo non perché non siano solidali con gli altri detenuti. Al contrario, anche se alla Giudecca il problema del sovraffollamento non esiste, nelle carceri italiane rimane il grande fardello. Infatti, il vero motivo delle proteste è quello: immaginiamo di vivere, in questo periodo storico, in una cella a stretto contatto con altre persone. Se scoppia il contagio nelle carceri diventa molto difficile riuscire a fronteggiare il problema. Per questo, la paura travolge e, purtroppo, in alcuni posti, si trasforma in violenza. Le detenute della Giudecca, invece, hanno scelto la via della solidarietà. Quella più efficace e che può ricongiungere tutti. Quindi, come si sono organizzate per diffondere questa “protesta solidale”, come loro stesse hanno chiamato l’iniziativa? Si sono riunite e, nel corso di un’assemblea, hanno scritto una lettera. Poi hanno chiesto alla direttrice del carcere, la dottoressa Antonella Reale, di poter far arrivare la loro voce anche all’esterno della prigione. Cosa chiedono? Attenzione per tutta la popolazione detenuta e pregano le autorità di valutare la possibilità di misure che permettano, almeno a una parte di loro, di ricongiungersi con le famiglie. Inoltre, chiedono di non essere dimenticate. Partiamo dal primo punto. Com’è la situazione per loro adesso? Non deve essere facile non poter vedere i propri cari... In questo momento, hanno la possibilità di effettuare quattro chiamate a settimana con Skype, oltre alle telefonate normali. I colloqui visivi sono stati interrotti per tutelare la sicurezza dei detenuti e dei loro cari. Sono state seguite le direttive del decreto. C’è da dire che in questo momento, stiamo vivendo un po’ tutti agli arresti domiciliari, forse adesso capiamo cosa significa essere privati della libertà. Noi almeno abbiamo Internet e riusciamo a restare in contatto e connessi col mondo, loro non hanno nulla. Adesso che si è bloccato tutto - anche le attività - il tempo dentro il carcere non passa mai. E com’è l’umore delle detenute? Noi suore e l’amministrazione cerchiamo di portare serenità, un grido di speranza, cerchiamo di star loro vicino e di far loro compagnia. Adesso stiamo dipingendo un cartello con su scritto #andratuttobene. Però la paura c’è, questo è un tempo sospeso. In uno spazio ristretto, la sensazione di angoscia aumenta ancora di più. Anche perché le detenute sono dentro e sono in pensiero per i loro cari. Torniamo al secondo punto. Ha detto che le carcerate chiedono di non essere dimenticate. Cosa intendono? Il carcere è un luogo ancora poco conosciuto perché fa paura. Nell’immaginario collettivo, i cattivi sono dentro e i buoni sono fuori. Quando, invece, inizi a conoscerlo poi ti accorgi che hai a che fare con persone che hanno sbagliato, che stanno pagando per i loro errori, ma che spesso vengono ingiustamente dimenticate. Un essere umano non è solo il reato che ha commesso, c’è molto di più dietro, è ombra e luce come lo siamo tutti noi. Il virus mette la globalizzazione con i piedi per terra di Luigi Ferrajoli Il Manifesto, 17 marzo 2020 Scopriamo la fragilità e l’interdipendenza del mondo e insieme crescono, nel senso comune, il valore della sfera pubblica, il primato dello Stato e la solidarietà. Il coronavirus non conosce confini. Si è ormai diffuso in quasi tutto il mondo e certamente in tutta Europa. È un’emergenza globale che richiederebbe una risposta globale. Possiamo quindi trarne due insegnamenti, che ci costringono a riflettere sul nostro futuro. Il primo insegnamento riguarda la nostra fragilità e, insieme, la nostra totale interdipendenza. Nonostante le conquiste tecnologiche, la crescita delle ricchezze e l’invenzione di armi sempre più micidiali, continuiamo - tutti, semplicemente in quanto esseri umani - ad essere esposti alle catastrofi, talune provocate da noi stessi con i nostri inquinamenti irresponsabili, altre, come l’attuale epidemia, consistenti in calamità naturali. Con una differenza, rispetto a tutte le tragedie del passato: il carattere globale delle catastrofi odierne, le quali colpiscono tutto il mondo, l’umanità intera, senza differenze di nazionalità, di cultura, di lingua, di religione e perfino di condizioni economiche e politiche. Ne consegue purtroppo - da questa pandemia planetaria - una drammatica conferma della necessità e dell’urgenza di realizzare un costituzionalismo planetario: quello proposto e promosso dalla scuola “Costituente Terra” che abbiamo inaugurato a Roma il 21 febbraio scorso. Il secondo insegnamento riguarda la necessità che di fronte a emergenze di questa natura vengano adottate misure efficaci e soprattutto omogenee, onde evitare che la varietà dei provvedimenti adottati, in molti casi del tutto inadeguati, finisca per favorire il contagio e moltiplicare i danni per tutti. E invece ciascun paese adotta misure diverse, talora del tutto insufficienti come quelle prese negli Stati Uniti e in Inghilterra, i cui governi stanno sottovalutando il pericolo per non danneggiare le loro economie. Perfino in Europa i 27 paesi membri si muovono in ordine sparso, adottando ciascuno strategie differenti: dalle misure rigorose dell’Italia e della Spagna a quelle più lievi della Francia e della Germania. Eppure, almeno per quanto riguarda l’Europa, una gestione comune dell’epidemia sarebbe addirittura imposta dai Trattati. L’articolo 168 del Trattato sul funzionamento dell’Unione, dedicato alla sanità pubblica, dopo aver affermato che “l’Unione è garante di un livello elevato di protezione della salute umana”, stabilisce che “gli Stati membri coordinano tra loro, in collegamento con la Commissione, le rispettive politiche” e che “il Parlamento europeo e il Consiglio possono anche adottare misure per proteggere la salute umana, in particolare per lottare contro i grandi flagelli che si propagano oltre frontiera”. Inoltre l’art. 222, intitolato “clausole di solidarietà”, stabilisce che “l’Unione e gli Stati membri agiscono congiuntamente in uno spirito di solidarietà qualora uno Stato membro sia vittima di una calamità naturale”. È mai possibile che l’Unione Europea sia capace di imporre agli Stati membri soltanto sacrifici e politiche di austerità a beneficio dei pareggi di bilancio, e non anche misure sanitarie a beneficio della vita dei suoi cittadini? La Commissione europea ha tra i suoi componenti un commissario per la salute, un altro per i diritti sociali, un altro ancora per la coesione e le riforme e perfino un commissario per la gestione delle crisi. Cosa aspettano costoro a prendere in mano questa emergenza e a promuovere in tutta Europa, con direttive vincolanti, misure omogenee ed efficaci dirette a fronteggiarla? Ma soprattutto il carattere globale di questa epidemia conferma la necessità - già evidente in materia di aggressioni all’ambiente, ma resa ancor più visibile e urgente dal terribile bilancio quotidiano dei morti e dei contagiati - di dar vita a una Costituzione della Terra che preveda garanzie e istituzioni all’altezza delle sfide globali e a tutela della vita di tutti. Esiste già un’Organizzazione mondiale della Sanità. Ma essa non ha i mezzi e gli apparati necessari neppure per portare nei paesi poveri i 460 farmaci salva-vita che 40 anni fa stabilì che dovessero essere accessibili a tutti e la cui mancanza provoca ogni anno 8 milioni di morti. Oggi l’epidemia globale colpisce tutti, senza distinzione tra ricchi e poveri. Dovrebbe perciò fornire l’occasione per fare dell’Oms una vera istituzione di garanzia globale, dotata dei poteri e dei mezzi economici necessari ad affrontare la crisi con misure razionali e adeguate, non condizionate da interessi politici o economici contingenti ma finalizzate alla garanzia della vita di tutti gli esseri umani solo perché tali. Di questo salto di civiltà - la realizzazione di un costituzionalismo globale e di una sfera pubblica planetaria - esistono oggi tutti i presupposti: non soltanto quelli istituzionali, ma anche quelli sociali e quelli culturali. Tra gli effetti di questa epidemia ci sono infatti una rivalutazione della sfera pubblica nel senso comune, una riaffermazione del primato dello Stato rispetto alle Regioni in tema di sanità e, soprattutto, lo sviluppo - dopo anni di odio, di razzismi e di settarismi - di un senso straordinario e inaspettato di solidarietà tra le persone e tra i popoli, che si sta manifestando negli aiuti provenienti dalla Cina, nei canti comuni e nelle manifestazioni di affetto e gratitudine, sui balconi, nei confronti dei medici e degli infermieri, nella percezione, in breve, che siamo un unico popolo della Terra, accomunato dalla condizione comune in cui tutti viviamo. Forse da questa tragedia può nascere finalmente una consapevolezza generale in ordine al nostro comune destino, che richiede perciò un comune sistema di garanzie dei nostri diritti e della nostra pacifica e solidale convivenza. L’Ue si chiude, Schengen è sempre più un ricordo di Carlo Lania Il Manifesto, 17 marzo 2020 Oggi il Consiglio europeo decide la sospensione degli ingressi in Europa per trenta giorni. “Dobbiamo dire la verità ai cittadini: sarà una crisi seria, lunga e difficile. Dobbiamo serrare i ranghi”. Quando parla, il presidente del Consiglio Ue Charles Michel ha appena finito un vertice tenuto in videoconferenza con i leader del G7 mentre per oggi ha convocato un consiglio straordinario con i capi di Stato e di governo europei dove si discuteranno nuove misure per contrastare la diffusione del Coronavirus: “È fondamentale fare di tutto per contenere i contagi”, spiega Michel. “Bisogna garantire le forniture di attrezzature mediche, sostenere la ricerca e limitare il più possibile i danni all’economia”. È l’annuncio che verranno adottate misure ancora più rigorose nella speranza di contenere l’epidemia. E tra queste c’è la decisione di chiudere l’Unione europea al resto del mondo, decretando lo stop temporaneo dei viaggi non essenziali nell’Unione. La misura verrà decisa nel vertice di oggi, durerà trenta giorni (salvo rinnovo) e riguarderà tutti i Paesi che non fanno parte dell’area Schengen. “Lo facciamo per non far ulteriormente diffondere il virus dentro e fuori il continente e per non avere potenziali ulteriori pazienti che pesino sul sistema sanitario dell’Ue”, spiega la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen. Dalla restrizione è esclusa la Gran Bretagna, che nonostante la Brexit continuerà fino al 31 dicembre a far parte dell’Unione. Nella decisione dei vertici europei c’è sicuramente l’intenzione di contenere il contagio, ma anche la speranza di riuscire in questo modo a salvare quanto rimane del trattato di Schengen, messo sempre più a rischio dalle scelte fatte dai singoli Stati di ripristinare i controlli alle frontiere. Sono nove quelli che finora hanno comunicato alla Commissione Ue l’intenzione di chiudere i propri confini. Si tratta di Germania, Danimarca, Ungheria, Austria, Repubblica Ceca, Polonia, Lituania, Estonia e, dalla mezzanotte di ieri, anche la Spagna. A questi si aggiungono poi Svizzera e Norvegia che fanno parte di Schengen pur non appartenendo alla Ue. “La Commissione ritiene che chiudere le frontiere non è necessariamente il modo migliore di garantire un ulteriore contenimento dell’epidemia all’interno dell’Unione europea” spiegava, inutilmente, in mattinata un portavoce della Commissione. Che ieri ha comunque diffuso delle linee guida alle quali gli Stati membri dovrebbero attenersi. Tra le misure decise sono previsti controlli sanitari alle frontiere esterne dell’Unione dove sarà consentito sottoporre a screening tutti “i cittadini Ue e non Ue” che intendono entrare nell’area Schengen. Per i Paesi sarà inoltre possibile vietare l’ingresso a chi dovesse mostrare sintomi pertinenti o che risulti essere stato esposto al virus. Ma lo stop alle persone non deve assolutamente riguardare anche le merci, raccomanda la Commissione preoccupata da un possibile rallentamento dei rifornimenti di cibo e di materiali sanitari. Un anticipo di quanto potrebbe accadere lo si è visto già ieri, quando ai valichi di frontiera si sono create lunghe code di camion rimasti fermi per ore a causa dei controlli. Proprio per evitare queste situazioni la Commissione ha quindi raccomandato agli Stati la creazione di corsie prioritarie per il trasporto delle merci, per le quali non è previsto che vengano imposte ulteriori certificazioni in aggiunta a quelle già esistenti. Brasile. Caos nelle carceri a San Paolo: evadono oltre 1.000 detenuti di Robert Kromar tio.ch, 17 marzo 2020 Tensione e proteste sono generate a causa delle relative restrizioni dovute al coronavirus. Caos e proteste, con una presa d’ostaggi, e una conseguente evasione di massa, seguita dalla fuga per le vie della città. È successo di tutto in serata a San Paolo, in Brasile, dove le norme e le restrizioni anti-coronavirus hanno scatenato un’ondata di reazioni. L’esodo è avvenuto in particolare poiché era stato momentaneamente vietato ai detenuti il rilascio temporaneo. La spiegazione è stata data dal Governo dello Stato brasiliano in una dichiarazione su Twitter. Il motivo principale della sospensione del rilascio temporaneo, come spiegano le autorità, è che le oltre 34.000 persone che possono approfittarne, se avessero preso il coronavirus, avrebbero potuto portarlo in carcere agli altri detenuti (considerati gruppo vulnerabile) al loro ritorno. Ciò avrebbe portato a rischi eccessivi per gran parte dei detenuti, oltre che per la salute dei funzionari e degli amministratori. Tuttavia, la decisione non è andata giù ai detenuti, e si sono verificati atti di insubordinazione nelle carceri di Mongaguá, Tremembé, Porto Feliz e Mirandópolis. Numerose forze sia del Gruppo d’Intervento Rapido (Gir) che della Polizia militare dello Stato di San Paolo sono state impiegate e si stanno occupando della situazione, conclude la nota.