Carceri: Restiamo umani di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 16 marzo 2020 Carceri: restiamo umani. Perché usiamo queste parole? Perché ora, ai tempi del coronavirus, tutti ci affanniamo a dire che bisogna ripensare la nostra vita, che bisogna riscoprire il valore del tempo, delle relazioni, dell’essere comunità, della nostra umanità, oggi soffocata dall’odio sociale. Questo è quello che noi volontari in carcere cerchiamo SEMPRE di fare. Da anni, il motore delle attività del volontariato nelle carceri e sul territorio è l’idea di ricostruire il rapporto tra la società e gli uomini e le donne che ne hanno violato le regole. Se dovessimo pensare a qualcuno a cui ispirarci in questo lavoro, torniamo a dire che lo troveremmo nello scrittore israeliano David Grossman, là dove ci insegna a guardare il mondo “con gli occhi del nemico”: “Quando abbiamo conosciuto l’altro dall’interno, da quel momento non possiamo più essere completamente indifferenti a lui. Ci risulterà difficile rinnegarlo del tutto. Fare come se fosse una “non persona”. Non potremo più rifuggire dalla sua sofferenza, dalla sua ragione, dalla sua storia. E forse diventeremo anche più indulgenti con i suoi errori”. Ma è un’impresa titanica, accompagnare per mano le persone, in particolare quelle che un altro scrittore, Edoardo Albinati, definisce “odiatori in servizio permanente”, a non trattare chi sta in carcere come “non persone”. E lo è soprattutto oggi, in un momento in cui gli “odiatori” hanno trovato un alibi: quello per cui “non possiamo dargliela vinta a quei violenti che hanno assaltato le carceri”. E invece dobbiamo avere la forza di gestire anche la nostra rabbia, di capire la disperazione di chi sta in carcere, e di pensare a misure serie per disinnescare quella bomba che sono le nostre galere oggi. Farlo è importante anche per quegli operatori, come la Polizia penitenziaria, ma anche gli operatori dell’area pedagogica, che per fare decentemente il loro lavoro, oggi diventato drammaticamente difficile, e dare a quel lavoro più forza e più importanza, hanno bisogno di carceri più umane e dignitose. Per questo oggi vi chiediamo di ASCOLTARCI. Dopo i familiari, siamo stati i primi ad essere esclusi dalle carceri, per la sicurezza sanitaria. Ma forse qualche consiglio ve lo possiamo dare. È questo il motivo per cui vi abbiamo chiesto di istituire presso ogni Istituto di pena una specie di Unità di crisi che coinvolga tutti, e quindi anche noi, che siamo in grado di aiutarvi in particolare nella comunicazione e nel mantenere i rapporti con le famiglie delle persone detenute. Perché è certo che il Volontariato ha qualcosa da dire su come affrontare i conflitti, le paure, la solitudine, la rabbia delle persone, private della libertà personale e non sempre trattate, appunto, come PERSONE. A proposito di circolari, misure di prevenzione, conseguenze da gestire Le circolari non sono quasi mai testi “con un’anima”, ma da quando è scoppiata l’epidemia di coronavirus, dentro a carceri già stremate dal sovraffollamento, ci sarebbe bisogno di questo, di pensare a misure efficaci, ma anche di tirar fuori tutta l’anima possibile per spiegarle alle persone detenute, alle loro famiglie, agli operatori stessi. La lettura delle circolari è un esercizio utile per capire cosa sta invece succedendo nelle carceri: si danno disposizioni tecniche, con lo scopo di “salvaguardare l’ordine e la sicurezza pubblica collettiva”, ma non si vuole capire che l’ordine e la sicurezza si garantiscono anche dialogando, tirando fuori tutti i residui di cuore e anima che le Istituzioni DEVONO avere e mettendoli in piazza con coraggio e senza timore di apparire deboli. Per tutto quello che riguarda gli affetti, le circolari non devono dire vagamente di aumentare le telefonate, far usare Skype, invitare ad istituire un servizio di posta elettronica per i rapporti con le famiglie. Devono far capire che tutto questo non è una striminzita concessione per far star calmi i detenuti, ma la volontà forte e chiara di capire la loro sofferenza e di cercare di alleviarla avvicinando le loro famiglie. Le istituzioni quindi dovrebbero essere in grado, oltre che di acquistare degli smartphone per farli usare in modo controllato, di calcolare il tempo disponibile per l’uso del telefono e suddividerlo per i detenuti che vogliono telefonare. E stabilire un fondo straordinario per chi non ha soldi nel conto corrente: ma possibile che un’amministrazione, che ha speso tre milioni e mezzo di euro per bloccare la circolazione di telefonini in carcere, venga a chiedere alle associazioni e alle cooperative di mettere un po’ di euro per far telefonare i detenuti indigenti? Quanto alle postazioni Skype, vanno introdotte dove ancora non ci sono, e aumentate, monitorate senza inventarsi regole mostruosamente complesse per il loro uso. La circolare poi del DAP sull’accesso da parte delle persone detenute alla posta elettronica rompe il tabù sull’ingresso della tecnologia in carcere. Ma è un provvedimento che rischia di essere una vuota dichiarazione d’intenti, in un luogo che finora si è attrezzato per resistere all’uso delle tecnologie, anche del solo computer in cella. Come si può fare per rendere effettiva questa disposizione in sicurezza?  Forse si potrebbe ipotizzare di fornire un computer con connessione internet per sezione, che può essere usato sia per Skype sia per la posta elettronica; e se non è possibile una connessione fissa (adsl) dotare l’agente di sezione di dispositivo per l’accesso ad Internet (tipo WebCube). Basta un cubo per più computer che non siano troppo distanti, e consentire poi tramite filtri il solo accesso a provider di posta elettronica tipo Gmail. Per la posta elettronica ogni detenuto dovrebbe aprire una propria casella sullo stesso provider e poter utilizzare il computer per una volta al giorno per 10-15 minuti o a seconda delle possibilità (numero di detenuti per computer). Allo stesso modo si possono organizzare dei turni per Skype, consegnando la lista degli account delle persone autorizzate all’agente di sezione, a cui sarebbe affidato il controllo delle regole di utilizzo, finché non vengono realizzate le protezioni opportune. Per quel che riguarda le proposte, per ridurre il numero di detenuti presenti, non siamo addetti ai lavori e ci fidiamo di chi, da anni, propone un approccio serio al tema del sovraffollamento, un approccio che parta non dalla necessità di “sfollare” le carceri, ma dalla consapevolezza che la pena del carcere dev’essere davvero data solo quando c’è una reale pericolosità sociale, e per il resto servono pene più miti e intelligenti, sì intelligenti, diciamola pure questa parola, sono intelligenti le pene che danno alle persone, responsabili di reati, la possibilità di capire e cambiare, e alla società la consapevolezza che riaccogliere queste persone ci rende tutti più sicuri. Dire che mandare in detenzione domiciliare persone a cui mancano pochi mesi da scontare costituisca un pericolo è solo una finzione, il pericolo vero è tenerle in galera e rischiare che le galere diventino luoghi fuori controllo. Quello che è certo è che tutti noi, che ci occupiamo di questi temi, fatichiamo perfino in questo disastro ad avere un pensiero comune, senza etichette e senza protagonisti, ma ce la faremo, dobbiamo farcela se vogliamo contare qualcosa. Per finire, rispetto alla prevenzione del contagio da coronavirus, siamo talmente spaventati anche noi, nella nostra condizione di persone libere, che questa posizione del provare a mettersi “nei panni del nemico” la riteniamo un momento fondamentale di civiltà. Perché per noi, che facciamo volontariato in carcere, è facile accettare che non siamo in guerra e non abbiamo a che fare con dei “nemici”, ma per voi fuori capiamo che abbiate paura e che riteniate chi sta in carcere un nemico della vostra serenità. Ma se provate a immaginare di essere ancora più chiusi di quello che siete oggi, ancora più lontani dai vostri cari, ancora più abbandonati e soli, forse potete capire che se, come dice Grossman, tratterete anche il vostro nemico come persona, contribuirete a rendere la società un po’ meno cattiva e un po’ meno disperata. * Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia L’ordine che produce disordine. Se tredici morti vi sembrano pochi di Francesca de Carolis remocontro.it, 16 marzo 2020 La prevedibile esplosione delle carceri. Lo sconcertante silenzio su quei tredici morti… Solo una “drammatica conseguenza? L’epidemia che ci assedia, dicono in molti, ci costringerà a rivedere il nostro sistema di vita, e bisognerà pur rivedere anche il sistema delle pene. Perché non è civile una società che guarda, se le guarda, con una scrollata di spalle, a 13 persone morte “per overdose” nel mezzo di una battaglia “dentro le fauci del mostro”. “L’ordine regna a Varsavia” - Mi è subito venuta in mente la frase del generale Sebastiani che, nel settembre del 1831, annunciava la caduta di Varsavia sotto l’assalto delle truppe dello zar Nicola, ascoltando la chiusura di un servizio con il quale non so quale rete televisiva dava conto della situazione delle carceri italiane, dopo la rivolta di cui sapete. La frase, certo era più morbida. “È tornata la calma”, mi sembra. D’altra parte sembra anche che la frase pronunciata da Sebastiani fosse, più diplomaticamente, “la tranquillità regna a Varsavia”. E visto che noi fuori siamo agitatissimi per tutt’altro, ora se ne parla davvero poco, o non se ne parla affatto, di quel che accade nelle carceri, se non per aggiornare sulla ricerca dei “mostri” che sono fuggiti. Ed è questa forse la cosa più sconvolgente. Ma se 13 morti vi sembran pochi... A me sembra piuttosto una strage. Permettete qualche riflessione… Certo, strage di cattivi, cattivissimi, di cui ce ne importa poco… strage di miserabili, se leggo di due magrebini, di un tunisino, insomma quasi tutti stranieri… e che neppure di tutti sono stati diffusi i nomi… ancora più miserabili se tutti i tredici disgraziati, in rivolta fra gli altri, non hanno avuto altro pensiero che cercare disperatamente droga e imbottirsene fino a morire. Ho qualche difficoltà a immaginare che nella concitazione, negli scontri, gli incendi… l’unico modo per morire sia per overdose (e se pure le cose fossero andate proprio così, bisognerebbe pure chiedersi cosa ci stanno a fare in carcere persone che hanno bisogno più che altro di essere curate…). Le inchieste chiariranno. Ma per chi appena appena conosce la tremenda realtà delle nostre carceri, è da tempo evidente che prima o poi ci sarebbe stata un’esplosione. Persone esperte e ben autorevoli da tempo lo paventano. Il morbo che sta ammorbando la vita di noi tutti, è stato solo l’occasione che fa sì che tutti i nodi vengano al pettine. Tutti i nodi di questa società dove le sperequazioni, le ingiustizie, le violenze silenti sono cresciute a dismisura e sono talmente parte costitutiva del mondo che abbiamo costruito che, se dalla parte “giusta”, neppure ce ne accorgiamo. Eppure sono un’enormità: quelli che precari, quelli con lavoro in nero (quelli costretti a lavorare in nero), quelli che una casa dove barricarsi non ce l’hanno (quarantamila solo a Roma, sentivo ieri per radio), quelli che se stanno male non hanno alternativa che mettersi in fila agli sportelli della sanità pubblica… Ammassati come cataste di legna - Quelli che in carcere… in luoghi sovraffollati, ammassati come cataste di legna (la definizione è di Andrea Pugiotto, costituzionalista), quelli che “uomini come bestie” (è il titolo, pensate un po’, del libro scritto da Francesco Ceraudo, che è stato pioniere della medicina penitenziaria), quelli costretti a passare il tempo nella disperazione del non far nulla, quelli che se hai un momento di sconforto non puoi nel momento in cui ti serve fare una telefonata, quelli che la risposta alla “domandina” (per un permesso, per una visita, per una matita…) la aspettano giorni, settimane, mesi (e ce ne accorgeremo anche noi, che significa…). Tutti i nodi vengono al pettine - È bastata la paura (quella che abbiamo tutti noi), la visita di un parente annullata (riuscite a immaginare?), la sospensione di un permesso atteso da tempo… E non penso che queste misure che a freddo, da fuori, ci sembrano ragionevoli, siano state comunicate magari con l’aiuto di uno psicologo, qualora necessario. E d’altra parte, come possibile? Se… “Gli psicologi? Desaparecidos”, mi ha scritto tempo fa un detenuto. Tutti i nodi vengono al pettine. Ma mi sembra questo sia un nodo grosso come un groppo soffocato in gola della società tutta, che con indifferenza accetta di avere in seno un mostro. Il pittore e disegnatore Marco Bailone anni fa disegnò la copertina di uno dei primi libri di Carmelo Musumeci, l’ergastolano scrittore ora in libertà condizionale, “L’assassino dei sogni”. Il carcere qui è rappresentato come una fortezza che ha il volto di un mostro e le sbarre sono i denti della sua orrenda bocca. Deve conoscere bene, Bailone, Massa e Potere, se Canetti vi scrive che “pressoché sterminati i draghi e le fauci mostruosi se ne trovò un equivalente simbolico: le prigioni. Dapprima, quando erano ancora camere di tortura, esse assomigliavano fin nei particolari alle fauci nemiche. E così ancora oggi è raffigurato l’inferno. Le vere e proprie prigioni, invece, si sono trasformate in senso puritano: la levigatezza dei denti ha conquistato il mondo, le pareti delle celle sono una sola superficie liscia e il finestrino per la luce è molto esiguo. Per i prigionieri la libertà è tutto lo spazio che si trova di là dalla barriera delle due fila di denti rinserrate l’una sull’altra al posto delle quali vi sono ora le pareti nude della cella”. Insomma, il carcere amplificazione delle fauci, dove tempo e spazio vengono a mancare. “Entro di esso si possono muovere alcuni passi in qua e in là come fa il topo sotto gli occhi del gatto. E spesso ci si sente alle spalle l’occhio del carceriere. (…) Inoltre il prigioniero avverte continuamente l’interesse per la sua distruzione, nutrito (anche quando sembra cessare) dall’apparato che lo tiene in carcere”. Un mostro dai “denti rinserrati” - Cosa volevate che succedesse alla notizia di ulteriori restrizioni, e con il panico innescato dal pensiero di un’epidemia, senza poter comunicare, senza essere certi di potersi fidare, in un mondo dove ognuno “avverte continuamente l’interesse per la sua distruzione”. E questo a prescindere dall’impegno e dalla buona volontà di molti che ci lavorano, di quelli che anche in questo momento hanno fatto e fanno il possibile. Il sistema carcere è in sé un mostro dai “denti rinserrati”. Quest’epidemia, dicono in molti, ci costringerà a rivedere il nostro sistema di vita, se vogliamo che la nostra civiltà vada avanti. Volenti o nolenti. E volenti o nolenti bisognerà pur rivedere anche il sistema delle pene. Perché non è civile una società che guarda, se le guarda, con una scrollata di spalle, a 13 persone morte “per overdose” nel mezzo di una battaglia dentro le fauci del mostro… perché “l’ordine che regna a Varsavia”, è quel tipo di ordine che (rubo le parole a Vittorio da Rios) solo produce disordine… e non ci fa affatto sentire tranquilli. Rivolte nelle carceri. Le vite a latere costrette alla noncuranza di Chiara Formica 2duerighe.com, 16 marzo 2020 Soli più di prima. Dobbiamo partire da qui se vogliamo attribuire un senso alle rivolte nelle carceri e andare oltre l’ostinata tentazione a colpevolizzare i detenuti a qualunque costo. Ogni vicenda ha i suoi personaggi invisibili, quelli che passano inosservati o le cui azioni ci lasciano impassibili. Questa è da sempre la sorte delle persone recluse all’interno degli istituti penitenziari, è la sorte delle vite a latere. Di quelle persone che vivono, si, ma sempre mentre accade qualcosa di più rilevante. Alcuni reparti delle carceri interessate dalle rivolte hanno reagito alla notizia della diffusione del coronavirus in Italia urlando, facendo casino. Volevano essere visti. Non vogliono essere lasciati soli e dimenticati nel pieno di un’emergenza sanitaria di questa portata. Invece sono soli e dimenticati più di prima. Camus apre il Mito di Sisifo con la domanda suprema tra tutte le domande e scrive: “vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia”. Rispondere a questo quesito non è solo il primo problema della filosofia, è il primo problema di ogni esistenza: qual è la vita che vale la pena vivere? Sembra quasi un gioco di parole se riportato nelle realtà carcerarie: i detenuti scontano una pena per vivere una vita che ne varrà lo sforzo. Ciò che mantiene in vita quando si è ristretti dentro un carcere è il pensiero, ossia quel portarsi fuori che trattiene in sé la potenza e il sapore della libertà. Ricordare un luogo o un volto significa smettere di sentire costantemente le sbarre. Accedere ai colloqui, incontrare i volontari è altro ancora, è resistere un po’ a quelle sbarre e vincerle in qualche modo. È dare alla domanda di Camus la risposta più rassicurante: sì, la mia vita vale la pena di essere vissuta. Si parla e si scrive continuamente dell’emergenza covid19, dei danni all’economia e di quali saranno i passi da muovere per non ripiombare nella crisi nera. Non si parla e non si scrive affatto delle persone morte: si riportano i numeri ma non i nomi, non le loro storie, non si dà voce ai familiari che li piangono. Passata l’emergenza, superato il confinamento nel quale stiamo vivendo, queste persone avranno spazio, riusciremo a dire chi erano e perché non ce l’hanno fatta. Chi non avrà voce, o avrà voce davvero bassa, sono le 13 persone morte durante le rivolte nelle carceri. Il governo, né nella figura di Conte tanto meno in quella di Bonafede, ha mai affrontato seriamente il problema. Nella conferenza stampa dello scorso lunedì, il presidente del Consiglio si è limitato ad affermare che qualora le rivolte non avessero cessato sarebbe stato mobilitato l’esercito. Mentre il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, si è limitato a definirli in Senato “atti criminali”. È vero che durante le rivolte alcune strutture hanno riportato molti danni sia all’interno delle celle, sia all’interno di alcuni spazi comuni come le infermerie e le biblioteche nelle quali sono stati bruciati anche dei libri. Le rivolte in carcere hanno avuto e stanno avendo pesanti ripercussioni anche sui detenuti stessi, soprattutto su coloro che non ne hanno preso parte ma che vedono comunque peggiorate le loro condizioni di vita. Dalle informazioni divulgate dai vari istituti penitenziari e dai rapporti inviati al Garante nazionale, Mauro Palma, sappiamo che la maggior parte di questi detenuti sono morti per overdose da metadone o da altri medicinali presi dalle infermerie, ma che almeno 4 sono morti durante trasferimenti in altre strutture detentive. Le domande che sorgono spontanee sono due, la prima: perché trattenere in carcere tossicodipendenti che approfittano del subbuglio generale per lenire le crisi di astinenza? La seconda: perché trasferire delle persone in condizioni di salute non stabili che sono addirittura morte durante il trasferimento? Varie associazioni già da qualche settimana stanno proponendo la strada dell’indulto per abbassare il livello del sovraffollamento carcerario e quindi evitare che la diffusione del coronavirus abbia una portata devastante, qualora dovesse avvenire all’interno degli istituti di detenzione. Con un indulto di due anni, uscirebbero quasi 17mila detenuti, con un indulto di tre anni, come quello del 2003, più di 24mila. Le rivolte nelle carceri sono state esplosione rabbiosa della disperazione, della costrizione a vivere tutti i giorni, a tutte le ore del giorno, a meno di mezzo metro di distanza l’uno dell’altro, del bisogno di dire “siamo qui e siamo persone a rischio contagio anche noi”. Le rivolte nelle carceri sono, seppur nell’assoluta irrazionalità, l’estremo tentativo di salvataggio contro l’estraneazione totale dal mondo esterno. Coronavirus. Il potere e la nuda vita carceraria di Vincenzo Scalia* lanuovacalabria.it, 16 marzo 2020 “L’improvviso e drammatico esplodere della crisi sanitaria del coronavirus ha investito, e non poteva essere diversamente, anche le carceri italiane, che hanno pagato un doloroso pedaggio di 14 morti al panico morale verificatosi in seguito all’emergenza e alle misure varate dal governo in materie di carcere. Il problema, come al solito, è quello della repressione e del contenimento, di cui i detenuti, per la loro condizione, sono i primi a subire le conseguenze. L’emergenza sanitaria, quindi, sortisce l’effetto non solo di rafforzare il neo-liberismo, ma anche lo stato d’eccezione, a spese dei più deboli. Da parte nostra, pensiamo che i detenuti abbiano le loro ragioni, e che bisognerebbe lavorare per trovare risposte altre dalla repressione. Ma che, d’altra parte, i rapporti di forza esistenti a livello politico e sociale, fanno sì che l’esito non possa essere che quello attuale. Proveremo a spiegare questo assunto in tre passaggi”. “In primo luogo, il coronavirus sta smantellando i fondamenti della convivenza civile, a partire dalla routine. In altre parole, tutto il cumulo di abitudini, aspettative, richieste che forma la trama della vita quotidiana, è sospeso. Non si può uscire, incontrare gli altri, rimanere fuori per scelta propria. In altre, parole, libertà di circolazione, una delle prerogative individuali sancite dalla Costituzione, su cui alcuni costituzionalisti hanno già trovato da ridire per le conseguenze lesive dai diritti fondamentali. Se il vulnus dei diritti è già profondo per i cittadini liberi, lo è ancora di più per i detenuti. La routine carceraria, infatti, consiste di poche valvole di sfogo a fronte del regime detentivo prolungato nel tempo: le ore d’aria, i colloqui con gli avvocati, le visite dei familiari, oltre alle attività di trattamento, rappresentano le valvole di sfogo attraverso le quali la condizione detentiva riesce ad essere sopportabile, o, quantomeno, ad essere sopportata dai detenuti. Un altro elemento della routine carceraria, è rappresentato dalla possibilità di fruire dei permessi per andare a trovare i propri familiari. Una misura di prospettiva, che consente ai detenuti non solo di ricostruire la propria rete relazionale, ma anche di progettare un reintegro in società alla fine della pena. È evidente che la sospensione di queste misure in conseguenza del coronavirus contribuisce a rendere ancora più invivibile la vita all’interno dei penitenziari, e a porre le condizioni per un malessere che non può non sfociare in una ribellione. A poco servono argomentazioni ciniche che vedrebbero i detenuti più preparati ad affrontare l’isolamento rispetto alla popolazione libera, perché proprio chi vive in una situazione di spazi vitali ridotti al minimo soffre maggiormente delle ulteriori restrizioni, che si connotano come un vero e proprio colpo di grazia agli spiragli di umanità che talvolta si aprono all’interno di una condizione di sofferenza come quella detentiva. Banner In secondo luogo, questo discorso vale anche per le condizioni sanitarie. Da anni si continua a rilevare come il carcere sia un vero e proprio luogo di sofferenza fisica. Spazi ristretti e insalubri ospitano una popolazione carceraria in eccesso rispetto ai parametri minimi di vivibilità. A peggiorare la situazione, si aggiunge una sovra-rappresentazione di gravi patologie come l’AIDS, la TBC, l’epatite, la tossicodipendenza tra i detenuti. In questo contesto, al momento in cui un’infezione da coronavirus facesse capolino in carcere, il numero di decessi sarebbe di proporzioni esponenziali, finendo per degenerare in una vera e propria strage di detenuti. Buonsenso vorrebbe che, per questi motivi, si varassero immediatamente dei provvedimenti deflattivi: immediata scarcerazione dei detenuti di età superiore ai 65 anni, di quelli con un residuo di pena inferiore a 3 anni, di quelli affetti da patologie gravi. Ancora meglio, sarebbe il momento di varare un’amnistia, che finalmente la faccia finita con l’ipertrofia penitenziaria dispiegata in questi anni e ponga le condizioni per una nuova politica penale incentrata sulle garanzie e sui diritti dei detenuti. Magari all’amnistia si potrebbe accompagnare una nuova stagione di politiche pubbliche a partire dall’emergenza coronavirus, che si concentri sugli investimenti nella sanità, sulla tassazione dei patrimoni, sulla requisizione della sanità privata e degli alloggi sfitti per far fronte all’emergenza ospedaliera. E magari riduca il panico morale. Non assisteremo a niente di tutto questo. Il potere si nutre della paura, del bisogno, della disuguaglianza. Peggio ancora, il potere ha bisogno di costruirsi un’aura di sacralità, che lo rende al di sopra del bene del male e lo legittimi presso il pubblico come la fonte suprema della moralità e della pratica. Per questo i detenuti saranno le prime vittime del coronavirus. Per questo 14 morti passano inosservati. L’homo sacer, ci insegna Giorgio Agamben, rappresenta la soglia di legittimazione del potere. Senza un capro espiatorio da sacrificare, non esiste un potere da temere e da ossequiare. Per questo la vita va depotenziata, devitalizzata, tolta. Perché senza questo passaggio, un’opinione pubblica da anni bramosa di maniere forti, stenterebbe a credere al governo. In particolare a un esecutivo sorto da un’alchimia di palazzo, che stava disperatamente cercando la propria occasione. In Italia, in questo momento, di homini (e feminae) sacri, ce ne sono 60.000. Da rinchiudere, da reprimere, da uccidere. Sennò, l’opinione pubblica, rifiuterebbe di credere alle buone intenzioni del governo e alle comparsate televisive. E non canterebbe sui balconi. Ma che importa. La “sinistra” è al governo, Salvini e Meloni sono all’opposizione. Fino a quando…?” *Docente University of Winchester Lo Stato di eccezione e lo spirito del gregge di Michele Passione* Ristretti Orizzonti, 16 marzo 2020 Quando ti trovi d’accordo con la maggioranza, è il momento di fermarti a riflettere. In questi giorni di peste, nei quali in molti (e per tanti) si trovano a fare i salti mortali per salvare vite umane, qualcuno riflette sui diversi modelli che i Paesi sin qui toccati maggiormente dalla pandemia stanno utilizzando per affrontare la crisi. È già stato scritto, con grande efficacia (Roberto Buffagni, Epidemia coronavirus: due approcci strategici a confronto, in italiaeilmondo.com, 14 marzo) che “la scelta dello stile strategico di gestione è squisitamente politica”. Così, accanto a Paesi che adottano la linea dell’immunità di gregge (Regno Unito, Germania, in parte la Francia), altri, come l’Italia, hanno scelto di fronteggiare il contagio con provvedimenti emergenziali, condizionati dal quotidiano e da mille lacune e aporie (sulla vacuità dei testi e sulla loro natura di “atti sconosciuti alla Costituzione” non ha usato mezzi termini Marco Plutino, sulle pagine de Il Riformista del 14 marzo). Non è certo la prima volta che aspetti afferenti a diritti fondamentali vengono “regolati” con lo strumento adottato a più riprese in questi giorni (si pensi, tra gli altri, al DPCM 1 aprile 2008, con il quale si dispose il trasferimento della sanità penitenziaria al SSN), ma quel che viene in gioco oggi, a quanto si vede, affonda su un terreno che non solo si rivela più veloce (il virus muta) dello strumento normativo, ma soprattutto ha a che fare con nuove dinamiche sociali. La ragione, una delle tante (ma probabilmente la principale) riposa nei difetti strutturali politico istituzionali italiani, vieppiù accentuati da una situazione che fa i conti con un governo di minoranza, di convenienza. Salvo errori, le prime riflessioni sui rischi che la risposta governativa determina rispetto a nuove regolazioni dei rapporti sociali li ha posti Giorgio Aganben, che sul Il Manifesto del 26 febbraio (certo, prima dell’acuirsi della pandemia) metteva in guardia sulla circostanza che “la limitazione della libertà imposta dai governi viene accettata in nome di un desiderio di sicurezza che è stato indotto dagli stessi governi che ora intervengono per soddisfarlo”. Ovviamente, in un contesto come quello attuale, già aggravatosi rispetto al momento dell’intervento citato, risulta difficile l’utilizzo di una informazione e partecipazione corretta, contando su di un’emancipazione delle persone e sulla loro responsabilizzazione, piuttosto che su una logica incapacitante. Molto più facile l’invocazione al bene comune, allo spirito italico, al ce la faremo. Chi scrive non ha le conoscenze mediche e/o sociologiche per misurare l’efficacia delle politiche governative rispetto al tema grande che costringe ognuno di noi in un quotidiano sfalsato dalla vita vera; da giurista, ci si limiterà a tratteggiare aspetti che preoccupano (ancor più) per il futuro che per il presente. È già stato scritto (Massimo De Carolis, La minaccia del contagio, quodlibet.it, 11 marzo): “al momento, l’obbedienza alle regole è rafforzata dalla riprovazione sociale che colpisce con severità i trasgressori”. Così si assiste (ahimè), a ripetute comunicazioni “di servizio” da parte di avvocati che offrono (strampalate, e deontologicamente censurabili) consulenze online rispetto alle denunce per l’art.650 c.p., per tacere di chi manifesta la sua indisponibilità alla difesa, per la riprovazione sociale che la trasgressione dovrebbe assumere agli occhi dei più. Ancora; qualche amministratore locale, prendendo ad esempio altre logiche incapacitanti (il TSO), firma ordinanze con le quali impone quarantene e ricorda efficaci mezzi adottati da altri Paesi (la fucilazione!). Per fortuna c’è chi (Pietro Ignazi, Poteri dello Stato e libertà personale. La democrazia alla prova del virus, La Repubblica, 15 marzo) ci ricorda che “la via cinese, invocata e applicata, ha un corollario che gli esperti trascurano: è stata adottata in un sistema totalitario, in cui l’individuo non vale nulla rispetto al potere, e non in uno stato di diritto dove, oltre al bene primario della salute, vanno salvaguardate anche le libertà individuali”. Sorprendersi, sarebbe ipocrita; non è passato che qualche mese da quando l’altra emergenza (oggi scomparsa dal radar, insieme ai sui cantori - momentaneamente al palo) veniva affrontata con le “zone rosse”, dove la logica del sospetto impediva a devianti (supposti tali) di entrare nel cuore delle città, relegandoli ai confini del regno. Così, nel mentre col calar della sera quel che resta del giorno son strade deserte e balconi plaudenti allo spirito italico, la primavera arriva con un coprifuoco sociale, economico, politico. Occorrerà fare grande attenzione, poiché la delega in bianco a risolver problemi, in un Paese come il nostro, rischia di cedere il passo in un attimo alla compromissione di diritti fondamentali (nel mondo del lavoro, del diritto, della coesione sociale). Alla quarantena e al panottico; alla biopolitca foucaultiana. Infine, per quel che ci compete, che conosciamo meglio, il carcere, ancora poche parole. Nessuno piange morti senza nomi, quelli che in rivolte senza speranza e senza obiettivi, se non quelli di rendere visibile un mondo oscuro, saranno avvolti in lenzuoli e dimenticati per sempre. Nessuno che si chieda perché è accaduto; nessuno che vada a vedere (del resto, del carcere poco importa alle persone per bene. Non il capo del DAP, le cui linee guida al momento del suo insediamento parlavano chiaro; tutto intra moenia. Non il Ministro, nella sua imbarazzante pochezza giuridica, nella sua siderale distanza dai problemi chiamato a risolvere (o almeno a conoscere), nella sua ossessiva ricerca di consenso per sé ed il suo movimento esangue, concentrato a separare i buoni dai cattivi. Inutile aspettarsi un revirement; la linea di displuvio da tempo è superata, come si sa. L’unica cosa, sarebbe farsi da parte, ma non accadrà mai. Nessuno glielo chiede, nessuno saprebbe che dire o che fare. Cosi i buoni stiano a casa, confidando nella soluzione dei problemi; nel frattempo, mentre teniamo corpi lontani e bocche chiuse, altri ne teniamo ammassati (con dolo, non per colpa, sempre che il Ministro conosca la differenza), chiusi, senza alcun ascolto a chi chiede misure ragionevoli, eque, veloci. La Politica sbanda, il Paese affonda, il Popolo si affaccia ai balconi; qualcuno legge e riflette, altri scoprono forme di condivisione sociale in remoto, e batton le mani. Il rischio è dietro l’angolo; processi a distanza, smart working, un’atomizzazione facile da controllare. Qualcuno già si appresta a magnificare la comodità del mandarsi atti da casa. Alla fine, non sarà l’immunità, quanto la logica del gregge a metterci in pericolo; una cessione di sovranità e di diritti, consapevole nella genesi ma ignara dei rischi che propone. Attacchiamo la giacca alla gruccia, che in fondo in casa si sta bene. *Avvocato del Foro di Firenze Coronavirus, i Giudici di Sorveglianza auspicano misure celeri nelle carceri ansa.it, 16 marzo 2020 Il Conams, che rappresenta i magistrati di sorveglianza, sottolinea il rischio rebound “del contagio penitenziario sull’intero sistema nazionale e sulla salute collettiva dei cittadini”. E si offre di collaborare per stilare il piano. Adottare “misure serie e celeri di prevenzione e di contenimento della diffusione virale” nelle carceri “nella consapevolezza della maggiore velocità del contagio negli universi concentrazionari, della mancanza strutturale degli spazi necessari all’isolamento sanitario e alla cura ospedaliera delle persone contagiate e dei rischi di rebound del contagio penitenziario sull’intero sistema nazionale e sulla salute collettiva dei cittadini”. Lo chiede il Conams, coordinamento nazionale magistrati di sorveglianza. Il documento del Conams arriva dopo i gravi disordini dei giorni scorsi, in varie carceri italiane. “Nella prospettiva - di esclusiva competenza delle autorità politiche - di un piano ragionato, ordinato e non indiscriminato di scarcerazioni che almeno riporti il sistema penitenziario entro la sua capacità regolamentare, con strumenti ordinari e straordinari sia nel campo delle misure cautelari sia in quello delle misure alternative alla detenzione”, il coordinamento avverte “la stringente necessità di urgentissime provvidenze di eccezionale sostegno ai settori giurisdizionali che sovraintendono a tali misure”. Con “destinazione mirata di personale magistratuale e amministrativo, di tecnologie telematiche e informatiche che consentano la gestione, anche da remoto, dei relativi procedimenti e con potenziamento delle equipe di osservazione e trattamento, degli uffici di esecuzione penale esterna e degli Uffici dedicati delle Forze dell’Ordine chiamati all’espletamento istruttorio, in modo snello ed efficace, delle verifiche e delle indagini necessarie ai fini delle decisioni ponderate e rapide nell’interesse individuale e collettivo di tutela della salute pubblica e della sicurezza nazionale”. La magistratura di sorveglianza associata si dice infine “disponibile a ogni interlocuzione istituzionale, anche immediata, utile ai fini del miglior contrasto delle emergenze sanitarie e penitenziarie in drammatica evoluzione, nelle sedi appropriate in cui riversare il proprio contributo di scienza ed esperienza”. L’Associazione Antigone propone interventi contro disperazione e solitudine nelle carceri di Graziella Di Mambro articolo21.org, 16 marzo 2020 Partendo dalla svolta tecnologica. Un rapporto dell’associazione Antigone spiega cosa sta succedendo in queste ore nelle carceri italiane e cosa si può fare per attutire gli effetti del coronavirus e i timori che sono stati alla base delle rivolte della settimana scorsa, archiviate, probabilmente, troppo in fretta. Ci sono stati quattordici morti negli istituti penitenziari italiani (50 quelli coinvolti). Una notizia che avrebbe scosso alle fondamenta la nostra democrazia se non fossimo stati alle prese con questa grave emergenza sanitaria nazionale. Ma intanto lì, tra le mura del carcere resta il sovraffollamento come anomalia cronica nel nostro Paese, con tanta paura, anche del virus ma non solo, disperazione, solitudine, incertezze. Il fatto che alcuni detenuti siano morti per overdose dice molto, ci ricorda che nelle carceri italiane circola tantissima droga e ci sono gerarchie lì dentro, tra i detenuti, ci sono soprusi e violenze e il lavoro fatto dalla polizia penitenziaria certe volte è eroico e i volontari adesso non possono più entrare, collaborare come prima. Anche questo pianeta sta cambiando. Antigone, con Anpi, Arci e gruppo Abele, snocciola in queste ore dati raggelanti su quel “pianeta”: i posti disponibili nelle carceri italiane sono 50.931, cui vanno sottratti quelli resi inagibili nei giorni scorsi; alcuni istituti hanno un tasso di sovraffollamento del 190% poiché i detenuti presenti (a fine febbraio) erano 61.230 ed è evidente che le distanze previste dalle norme sulla prevenzione in quelle strutture non possono essere rispettate, visto che in alcune celle ci sono tre persone in spazi di 12 metri quadrati in media. Bisognerebbe sanificare gli spazi comuni ed effettuare un rifornimento di presidi sanitari e prodotti per l’igiene per cercare di uniformare il “mondo di dentro” col “mondo di fuori”. Antigone e le altre associazioni hanno proposto un pacchetto di interventi per estendere le misure di protezione contro il coronavirus anche alle carceri. E tra questi cui sono l’estensione della detenzione domiciliare per le persone che hanno già problemi di salute, per coloro che hanno già il regime della semilibertà e trasformare le sentenze esecutive che prevedono il carcere in regime dei arresti domiciliari, ciò al fine di attenuare almeno il sovraffollamento. Nell’immediato viene proposto l’acquisto di smartphone per ogni cento detenuti così da poter ampliare la possibilità dei colloqui i video con i familiari su numeri già autorizzati e comunque con la presenza di un agente, in fondo sarebbe solo una modalità tecnologica rispetto ai colloqui in luoghi fisici che sono vietati in questo periodo. Allo stesso scopo viene altresì proposto l’ampliamento dei canali via mail e altre opzioni di colloqui on line sempre con familiari e nei limiti previsti. Carceri, un Comitato per la verità e la giustizia Il Manifesto, 16 marzo 2020 Dopo la morte di 13 detenuti: appello alla costituzione di un Comitato che lavori da subito alla raccolta di informazioni sulle vicende di questi giorni e si propone - nel rispetto ma anche nella sollecitazione delle competenze istituzionali - di fare piena chiarezza sull’accaduto. Tredici detenuti morti. Un numero inusitato, per giunta incerto, laddove alcuni quotidiani indicano quattordici. Numeri, neppure la dignità dei nomi, per la quale si sta adoperando il Garante nazionale dei diritti delle persone private di libertà. Un numero impressionante, pur nell’eccezionalità delle circostanze in cui quelle morti si sono verificate. Viene in mente solo un unico altro episodio in qualche misura paragonabile: l’incendio nella sezione femminile del carcere torinese delle Vallette, avvenuto il 3 giugno 1989, nel quale rimasero uccise 9 recluse e 2 vigilatrici. Ma, oltre al numero, in quell’episodio furono almeno da subito chiare le cause, i media garantirono adeguate informazioni e approfondimenti, si arrivò a un processo penale. Della vicenda odierna, al contrario, colpisce l’informazione approssimativa su ciò che ha provocato quelle morti. Un’opacità mediatica e politica incomprensibile e ingiustificabile, anche tenuto nel debito conto l’emergenza sanitaria in corso con le gravi e impellenti problematiche che pone a tutti. Il ministro della Giustizia, nella sua informativa al Parlamento sui disordini che hanno scosso numerose carceri provocando ingenti danni e feriti, ha sostanzialmente sorvolato sull’aspetto più grave, vale a dire l’ingente numero delle vittime tra i detenuti, le dinamiche che le hanno provocate, le eventuali responsabilità e differenze tra caso e caso. L’unico accenno al riguardo fatto dal ministro dà anzi adito alle peggiori ipotesi, laddove ha affermato che “le cause, dai primi rilievi, sembrano per lo più riconducibili all’abuso di sostanze sottratte alle infermerie durante i disordini”, senza dettagliare i casi e senza minimamente chiarire quali siano le altre cause occorse oltre a quelle “per lo più” riferibili all’uso di sostanze. E in ogni caso, anche per le morti da farmaci, le domande sulle dinamiche del mancato soccorso durante la reazione alle rivolte e durante le traduzioni sono più che aperte. Così pure il Guardasigilli non ha dato le necessarie risposte sui rischi per i reclusi e il personale di contagio da coronavirus nelle carceri chiarendo - o smentendo - quanto riportato da notizie di stampa, secondo cui si sarebbero già registrati alcuni casi, anche nel carcere di Modena, dove particolarmente si è accesa la protesta e dove è stato così alto il numero dei decessi. Essere rinchiusi in pochi metri affollati, privi di tutto, da chiunque non può che essere percepito come un rischio enorme per la propria incolumità, come del resto è noto che in carcere ogni malattia ha infinitamente maggiori probabilità di essere contratta. Anche per questo riteniamo fuorviante adombrare per le proteste supposti piani della criminalità organizzata, anziché, pur censurando le violenze, capire le ragioni di chi si è ribellato a una situazione che non è stata gestita, di fronte alla mancanza di misure per assicurare il diritto alla salute delle persone detenute, che deve essere tutelato alla pari di tutti gli altri cittadini e cittadine. Da molto tempo il sistema penitenziario pare aver rinunciato a una visione costituzionalmente ancorata e orientata, divenendo sempre più solo un deposito di corpi, di disagio, di vite considerate “a perdere”. Appare evidente che la vita e l’incolumità di chi è recluso e reclusa sia l’ultima preoccupazione. Nel 2015-2016, il grande lavoro degli Stati generali dell’esecuzione penale, che ha fruito del generoso e qualificato impegno di centinaia di persone e suscitato ampie speranze, è stato alla fine frustrato e deluso per la scelta del governo pro tempore di rinunciare a varare le riforme allora messe a punto. Una scelta che è concausa della attuale drammatica situazione; riforme che andrebbero riprese e rapidamente varate, oltre a misure immediate di ridimensionamento del numero dei reclusi, quali quelle indicate da diverse associazioni in questi giorni. A noi pare che la tragica morte di tredici persone detenute non possa essere rimossa e nascosta. Tutti coloro che vivono nel carcere, vi lavorano o lo frequentano, i famigliari e in generale la società e la pubblica opinione, hanno diritto di conoscere ciò che è successo nei dettagli. E di conoscerlo tempestivamente: poiché occorre avere consapevolezza di quanto l’opacità, la disinformazione, l’incertezza e la paura possano provocare in chi vive rinchiuso disperazione, la quale a sua volta può innescare nuovi conflitti. Al contempo questa vicenda e lo stato generalizzato di profondo disagio e sofferenza delle carceri, che si è ora manifestato con ulteriore evidenza, vanno trasformati in occasione per ripensare la pena e la sua funzione e per riformare il sistema che la amministra. questa necessità e prospettiva, facciamo appello alle associazioni, al composito mondo del volontariato penitenziario, alla rete dei media sociali, ad avvocati e operatori del diritto, ai Garanti dei diritti delle persone private della libertà con cui per primi si intende collaborare dato il fondamentale ruolo, a tutti coloro che in modo singolo o organizzato sono impegnati in percorsi e culture improntate alla decarcerizzazione, al recupero sociale, alla depenalizzazione di condotte quali il consumo di droghe, alla tutela dei diritti umani e sociali, per costituire assieme un Comitato che lavori da subito alla raccolta di informazioni sulle vicende di questi giorni e che si proponga - nel rispetto ma anche nella sollecitazione delle competenze istituzionali - di fare piena chiarezza sull’accaduto. Per aderire: info@dirittiglobali.it Sottoscrivono: Vittorio Agnoletto, Ascanio Celestini, Franco Corleone, Giuseppe De Marzo, Alessandro De Pascale, Monica Gallo, Nicoletta Gandus, Francesco Maisto, Bruno Mellano, Moni Ovadia, Livio Pepino, Marco Revelli, Susanna Ronconi, Paolo Rossi e la Compagnia teatrale dei “Fuorilegge di Versailles”, Sergio Segio, Stefano Vecchio, Grazia Zuffa. Dall’Ucpi una lettera pubblica ai protagonisti degli Stati Generali dell’esecuzione penale camerepenali.it, 16 marzo 2020 Lettera pubblica a Matteo Renzi, Andrea Orlando, Pietro Grasso, protagonisti degli Stati Generali dell’esecuzione penale, per chiedere loro un impegno personale, diretto e concreto affinché siano in via straordinaria assunte oggi iniziative per alleggerirne la condizione. Egregi Signori, la situazione all’interno degli istituti penitenziari italiani è ormai di una drammaticità assoluta perché il sovraffollamento è aggravato dal reale e gravissimo rischio del contagio. Le recenti rivolte, certamente inaccettabili e comunque riconducibili ad una minoranza di detenuti, sono l’effetto dell’estremo degrado nel quale è costretta a vivere sia la popolazione detenuta sia coloro i quali sono chiamati a svolgere i compiti istituzionali di vigilanza, con la preoccupazione della diffusione del virus, già contratto da alcuni di loro. Il drammatico numero delle morti in quel contesto è la dimostrazione di come nel carcere siano costrette anche persone portatrici di disagio sociale e psichico o di tossicodipendenti per le quali il carcere non svolge alcuna funzione di recupero ed anzi ne aggrava la condizione. Il concreto pericolo che dalla situazione di costrizione di molte persone in pochi metri quadrati, nei quali sono rinchiuse tutto il giorno in una condizione di promiscuità inumana, trasformi il carcere in luogo privilegiato per il diffondersi della pandemia è denunciato da tutti i rappresentanti delle istituzioni che interagiscono con il carcere, dal mondo del volontariato che è parte fondamentale di quella realtà, da esponenti religiosi ed anche dall’Avvocatura penale. È questo il tempo della solidarietà e di azioni di governo che contribuiscano - con misure anche straordinarie - allo sforzo di tutti e di ciascuno per superare la grave emergenza che attanaglia il nostro Paese e che verrebbe ulteriormente aggravata dallo scaricare sul sistema sanitario, già prossimo al collasso, anche migliaia di detenuti. L’Avvocatura penale ha in corso, in queste ore, una interlocuzione con il Ministro della giustizia sui possibili interventi per affrontare l’emergenza da coronavirus. Le nostre proposte sono state nel senso della individuazione di misure volte a rendere omogenee, per tutte le sedi giudiziarie, le regole per il rinvio delle udienze e prevedere la sospensione di tutti i termini processuali. Abbiamo trovato nel Ministro un interlocutore attento sul piano degli interventi processuali, ma da lui non abbiamo ottenuto risposta alcuna sulle proposte che abbiamo avanzato sul tema del carcere. Eppure si tratta di proposte semplici, di facile e immediata attuazione, quali stabilire che la prosecuzione della espiazione delle pene inferiori ai ventiquattro mesi si svolga in regime di detenzione domiciliare, indicazioni per la ordinarietà della misura degli arresti domiciliari nelle situazioni nelle quali siano individuati i presupposti per l’adozione di misure coercitive, interventi di proroga e differimento di esecuzione della pena nelle situazioni di disagio o malattia; insomma misure assolutamente ragionevoli e che riguardano la popolazione carceraria di minor pericolosità sociale. Sappiamo che il drammatico silenzio governativo non appartiene alla vostra sensibilità ed al vostro pensiero politico. Scriviamo a voi poiché personalmente siete stati protagonisti, sul versante della rappresentanza politica del governo del Paese, di un’importante stagione nella quale finalmente si era affrontato in modo sistematico il problema del carcere. Le indicazioni da voi positivamente individuate all’esito degli Stati Generali dell’esecuzione penale, in una situazione che già allora poneva le condizioni del mondo penitenziario tra le più pressanti urgenze civili, sono oggi il viatico delle nostre proposte. In nome di quei valori e di quelle scelte in tempo così recente da voi condivise, in nome dei principi di civiltà e di umanità invocati da tutti gli operatori e da chi da sempre opera nel mondo del carcere, nonché in ragione dell’improcrastinabile necessità di evitare ulteriori emergenze sanitarie dentro e fuori le carceri, vi chiediamo un impegno personale, diretto e concreto affinché siano in via straordinaria assunte oggi iniziative per alleggerirne la condizione. Tutto ciò ha a che fare non solo con la drammaticità del momento, che non può essere governato da derive populiste, ma anche con l’idea di Paese che ci ritroveremo dopo questa drammatica emergenza. Il Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane, Avv. Gian Domenico Caiazza Il Segretario dell’Unione delle Camere Penali Italiane, Avv. Eriberto Rosso Le rivolte sono frutto di decenni di politica dissennata. Che prosegue di Maurizio Turco e Irene Testa* Libero, 16 marzo 2020 Dodici morti in un solo giorno nelle carceri italiane. Sì, il virus è di certo entrato anche nelle patrie galere. Questa è già un’emergenza drammatica che richiederebbe una presa di coscienza che la classe politica che esprime un ministro della Giustizia come l’avvocato Bonafede non raggiunge. In 27 carceri italiane sono scoppiate le rivolte, dentro e fuori. Fuori le carceri, i familiari dei detenuti protestavano per il blocco imposto dal ministero, per ragioni sanitarie, che impedisce i colloqui. Sospendere le attività trattamentali come i colloqui non era una decisione che andava presa con leggerezza. Un ministro della Giustizia competente non può non saperlo. Ma è evidente che quanto è accaduto è la spia di qualcosa che va ben oltre. Sono le frustrazioni di riforme annunciate e mai realizzate. Di sentenze della Corte europea dei Diritti dell’Uomo che condannano l’Italia per la violazione dei più elementari diritti nella detenzione. Di carceri che sono lazzaretti, che devono sopperire alla mancanza di strutture per il trattamento delle tossicodipendenze e dei malati psichici. Sono il frutto di decenni che i detenuti vivono in celle sovraffollate oltre i limiti di legge e di decenza civile. Sono la mancanza cronica di fondi e di personale. Nell’emergenza è urgente sfollare le carceri per rientrare nei limiti di legge, riconoscendo a chi deve scontare pene residue fino a due anni l’accesso a pene alternative. L’unica solidarietà che ci sentiamo di esprimere è quella ai direttori, in prima linea di fronte al disastro; al coraggio della Direttrice del carcere di Rebibbia che ha concesso a 50 detenuti in semilibertà di rientrare nelle loro abitazioni; agli agenti penitenziari, ai sanitari, agli educatori che, in numero non adeguato, cercano di sopperire a una politica penitenziaria in totale abbandono. A tutti quei detenuti che con il Partito Radicale continuano a scegliere la lotta non violenta contro la dirompenza della violenza di cui lo Stato è legittimo e finale titolare. Siamo fermamente convinti che lo Stato non deve indietreggiare nei confronti delle minoranze di detenuti e di agenti che infrangono la legge. Va altrettanto detto con forza che i problemi del carcere non sono causati né dai detenuti né dagli agenti, ma dalla violenza dello Stato che viola la Costituzione, i trattati internazionali sottoscritti, le proprie leggi. *Segretario e Tesoriere del Partito Radicale “Serve subito l’indulto o in carcere sarà guerra” di Giovanni Terzi Libero, 16 marzo 2020 Il Garante per i diritti dei detenuti della Lombardia: “Nei penitenziari situazione insostenibile aggravata dal Coronavirus”. Conosco Carlo Lio da anni. Da vent’anni, per essere precisi, cioè da quando nel 1994 stava terminando la sua esperienza amministrativa come Sindaco della città di Cinisello Balsamo, una città di quasi ottantamila anime alle porte di Milano. È stato un sindaco molto amato Carlo Lio, socialista e Craxiano, non soltanto per la sua competenza amministrativa ma anche per la sua passione umana che, da sempre, ha contraddistinto ogni azione politica. Dal 2000 al 2005 è stato assessore ai Lavori Pubblici della Regione Lombardia nella giunta presieduta da Roberto Formigoni. Lo troviamo, oggi, in un ruolo già di per sé difficile che si è complicato nel momento in cui è arrivato il coronavirus; Carlo Lio da tre anni è il garante dei diritti dei cittadini e delle carceri per la Regione Lombardia. “Stiamo vivendo una emergenza sociale ed umana senza precedenti”, inizia Carlo Lio. “Di fronte ad un simile evento servano misure eccezionali che risolvano subito il problema delle tensioni che si sono sviluppate nelle carceri in questi giorni e che rischiano di diventare esplosive”. Tipo? “Arriviamo subito al punto: serve l’indulto”. Addirittura l’indulto. Non le sembra di esagerare? “Assolutamente non esagero. Non parlo di un indulto generico e generalizzato ma di qualcosa che in modo razionale metta le carceri in condizione di poter svolgere il proprio compito”. E quale è il compito delle carceri? “Rieducare per cercare di inserire di nuovo in società chi ha commesso reati; l’articolo 27 della Costituzione così recita “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Lei ritiene che questa situazione non esista oggi nei nostri penitenziari? “Parliamo di numeri; oggi in Lombardia ci sono 8.547 detenuti e le strutture possono contenere massimo 6.199 persone. Millecinquecento detenuti in più solo in Regione Lombardia sono una enormità. Il livello nazionale ben più grave anche percentualmente. Un altro esempio più piccolo è il carcere di Busto Arsizio ci sono 440 detenuti contro i 240 posti disponibili. Come crede sia possibile rieducare se c’è una situazione di esubero così importante?”. Chi rappresenta la maggioranza della popolazione carceraria? “Guardi, le dico soltanto una cosa: che circa il 10/15 per cento di chi è dietro le sbarre è rappresentato da persone in custodia cautelare”. E la sua proposta in cosa consisterebbe? “Dobbiamo ridurre la popolazione carceraria in modo drastico. Questa emergenza esisteva anche prima naturalmente ma adesso diventa quasi una priorità”. Come pensa di agire? “Lunedì (oggi per chi legge) ci sarà una riunione via Skype assieme alla dottoressa Di Rosa (Presidente del Tribunale di Sorveglianza) e il dottor Pietro Buffa per cercare di condividere questa idea e portarla su un tavolo nazionale. Va precisato che la mia idea è quella di scontare ai domiciliari la pena per chi è sotto i due anni da scontare significherebbe di diminuire, nella sola Lombardia, di circa duemila unità la popolazione carceraria”. Così si arriverebbe ad un numero consentito di presenze... “Certamente e si potrebbe iniziare a parlare di dignità all’interno dei penitenziari, altrimenti”. Altrimenti che cosa? “Altrimenti si cambi la Costituzione, si agisca con la pancia e non con il cervello e si punisca per il desiderio spasmodico di una informazione che appare assetata di sangue”. La società è pronta per una simile iniziativa? “Io spero di sì. L’informazione deve fare la sua parte e la politica non deve soffiare sul fuoco. Se noi pensiamo sia necessario rieducare, per esempio, questo avviene soltanto con la semilibertà. Ma se su 100 casi di semilibertà uno scappa non si deve bloccare quel processo; ad oggi è questo che succede”. Non crede che sia necessario anche da parte dei detenuti un comportamento diverso? Non è stato certo edificante il comportamento tenuto settimana scorsa in tutti i penitenziari… “Capisco ciò che mi dice ma vorrei fare presente come la direttrice del carcere di Monza mi ha informato dell’accordo fatto con tutti i detenuti che eviteranno ogni azione di tensione comprendendo il grave momento. Questo è un grande gesto di responsabilità che apprezzo moltissimo e esprimo a ognuno di loro la mia vicinanza e umana solidarietà. Apprezzamento che invio a tutti gli operatori sanitari e assistenziali che unitamente alla direzione e al personale della polizia penitenziaria hanno reso possibile questa bellissima assunzione di responsabilità”. Però come non comprendere un desiderio di Giustizia? “Tutti noi vogliamo Giustizia ma non possiamo permetterci una società giustizialista. Mercoledì sera ho molto apprezzato le parole di un uomo come Vittorio Feltri che nel programma su Rete 4 condotto da Paolo Del Debbio ha dichiarato “Amnistia per farli uscire, gli uomini sono tutti uguali”. Una frase molto forte soprattutto se detta da un uomo “d’ordine” come il direttore Feltri… “Ma paradossalmente questo virus, questa emergenza, ci ha messo di fronte ad un problema che tutti noi sapevamo esisteva da tempo”. La Lombardia, assieme al Veneto, è stata la Regione più colpita da virus ma anche quella che ha dato le linee guida più stringenti per combatterlo. Queste linee guida sono diventate riferimento per i DCPM del Governo. Pensa che anche sulle carceri e l’indulto possa accadere questo? “Credo di sì. La Lombardia è un riferimento operativo e morale che può essere seguito. Le voglio dire una cosa”. Mi dica... “Non saremo mai una civiltà evoluta e compiuta tendo i penitenziari in questo modo. Serve un tavolo urgente, questo è il momento! Anche perché il tema della dignità dei detenuti si ribalta immediatamente sulla polizia penitenziaria che non è in grado di sedare sempre queste tensioni”. Nelle carceri ci sono molti extracomunitari. Non crede sia giusta anche la proposta di inviare nei Paesi d’origine a scontare la pena tutti gli extracomunitari? “Sarebbe una bellissima idea ma è più complicata da attuare. Servirebbe che gli accordi internazionali si attivino ma la vedo dura”. Perché? “Perché in questa emergenza nessun paese vuole “indietro” per scontare la pena per chi proviene dall’Italia”. Mi fa capire che nei penitenziari esiste una vera e propria bomba batteriologica... “Mi sembra evidente ma siamo in grado (qualora ci fosse la volontà politica) di risolvere tutto. Io ci credo davvero che questo periodo storico possa cambiare le nostre coscienze e renderle più attente al prossimo. Ci credo e voglio che accada”. Agenti e detenuti per ora esclusi dalla bozza del decreto per fronteggiare l’emergenza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 marzo 2020 Nella bozza del decreto che il governo si appresta ad approvare mancano misure deflattive per fronteggiare l’emergenza sia per gli agenti che per i detenuti. Per ora il testo del decreto legge è una bozza, quindi potrebbero esserci delle modifiche e, ci si augura di sì, visto che mancano completamente le misure deflattive per fronteggiare l’emergenza coronavirus in carcere. Ma non solo. Non c’è nessun riferimento agli agenti penitenziari, l’unica forza di polizia non menzionata dal decreto in via di approvazione, ma soggetto ancora a modifiche. Su questo punto tuona il sindacalista Gennarino De Fazio, rappresentante nazionale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria nazionale. “Dalla lettura della bozza del decreto-legge che il Governo - denuncia De Fazio - dovrebbe varare in serata per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid-19, emerge che nulla sarebbe previsto in favore della Polizia penitenziaria. Stanziamenti per il lavoro straordinario di appartenenti ai Carabinieri, alla Polizia di Stato e alla Guardia di Finanza, misure per i Vigili del Fuoco, sanificazione degli ambienti di lavoro per gli stessi operatori, ma niente di niente per il Corpo di polizia penitenziaria. Se così fosse, sarebbe inaccettabile!”. Non ci sta il rappresentante della Uilpa: “Delle due l’una: o il Governo equipara l’opera della Polizia penitenziaria, com’è giusto che sia, agli altri servizi pubblici essenziali e assume urgentissimi provvedimenti anche in favore di quest’ultima, oppure dica espressamente che non ne fa parte e autorizzi i suoi appartenenti a comportarsi come tutti gli altri cittadini”. Per quanto riguarda il carcere, c’è la scheda relativa al risanamento economico dei danni subiti dalle rivolte. Sulla base delle prime informazioni acquisite presso i Provveditorati Regionali e Direzioni degli istituti penitenziari, infatti, si segnalano importanti danni di natura edilizia e di impiantistica che complessivamente raggiungono i 20 milioni di euro. Per la copertura degli oneri è prevista quindi una specifica autorizzazione di spesa per l’anno 2020, finalizzata alla riparazione dei danni subiti dalle strutture, dagli impianti e dai beni mobili appartenenti all’amministrazione penitenziaria. Tutti soldi che saranno recuperati dai detenuti che hanno partecipato alle devastazioni. Quindi, per ora, nel decreto non c’è nulla per quanto riguarda i detenuti e la possibile ed auspicabile misura di deflazione. Ma bisogna attendere stasera. Nel frattempo c’è una circolare emanata dal Dap dove ci sono ulteriori indicazioni operative per la prevenzione del contagio da coronavirus negli istituti penitenziari. Quali sono le cautele da intraprendere? Per quanto riguarda i nuovi giunti dalla libertà o da altri istituti sarà effettuato al momento dell’ingresso, presso le tensostrutture (ove presenti) o altro locale idoneo, un triage da parte del personale, opportunatamente dotato di dispostivi di protezione individuale, diretto in un primo orientamento. Sarà cura del medico competente, in occasione della visita di primo ingresso, adottare tutti gli interventi di tipo sanitario: nei casi in cui verrà disposto l’isolamento sanitario della persona all’interno del carcere, esso avrà attuazione mediante collocamento del detenuto in apposita sezione già individuata dalla direzione. Per quanto riguardano i detenuti già presenti, in seguito di riferita sintomatologia da coronavirus, il detenuto sarà visitato presso la sua cella per la valutazione della procedura da seguire. Gli altri detenuti presenti verranno sottoposti ai controlli. Nel caso positivo al tampone, i sanitari valuteranno se metterlo in isolamento sanitario oppure trasferirlo in ospedale. Rita Bernardini del Partito Radicale riferisce a Il Dubbio di non essere per nulla d’accordo con queste misure, perché le considera impraticabili. “Mi dispiace - spiega l’esponente radicale e della presidenza di Nessuno Tocchi Caino - ma solo chi non conosce la realtà penitenziaria per quella che è, può inviare una circolare siffatta. Solo chi non conosce la promiscuità del carcere e la carentissima sanità penitenziaria, può permettersi di proporre isolamenti sanitari con servizi igienici “esclusivamente dedicati” e il supporto delle cure necessarie”. La Bernardini continua: “Solo chi non ha mai messo un piede nelle celle di detenzione, può pensare che un’emergenza come quella del coronavirus possa essere gestita nelle disastrose condizioni di fatiscenza e carenze di organico che ci sono oggi. Occorre un immediato decreto per far uscire da quel luogo di tortura almeno due decine di migliaia di detenuti non pericolosi: si può fare, si deve fare se non si vuol essere autori di reati gravissimi contro la salute e la vita stessa delle persone detenute e di chi in carcere ci lavora”. Ora si attende il decretone finale, augurandoci che sia presa in considerazione tutta la popolazione penitenziaria, detenuti e agenti penitenziari compresi. Coronavirus, niente quarantena per gli agenti che hanno avuto contatti con persone contagiate di Marco Galvani Il Giorno, 16 marzo 2020 Gli agenti della Polizia penitenziaria al lavoro anche se hanno avuto contatti con persone contagiate. Niente quarantena per gli agenti del carcere. Non importa se hanno avuto contatti con persone positive al coronavirus o che si sospetti siano state contagiate: devono andare al lavoro lo stesso. È l’ordine impartito nero su bianco a tutti i direttori delle carceri da Francesco Basentini, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Immediata la reazione degli agenti, già da giorni sul piede di guerra per il clima di tensione nelle celle dopo la sospensione dei colloqui dei detenuti con i familiari: “Non ci considera mai nessuno, nel nuovo decreto del Governo con le nuove misure per fronteggiare l’emergenza coronavirus non c’è nulla per la polizia penitenziaria, eppure adesso siamo considerati servizio pubblico essenziale”, sbotta Domenico Benemia della Uil penitenziari. Ed è per questo che per gli agenti del carcere non è prevista la quarantena. Una deroga prevista per decreto, come per gli operatori sanitari. Quindi, tutti al lavoro comunque: “Per garantire l’operatività delle attività degli istituti penitenziari - scrive Basentini -, nell’unica prospettiva di salvaguardare l’ordine e la sicurezza pubblica collettiva, si ritiene che gli operatori di polizia penitenziaria in servizio debbano continuare a prestare servizio”. Unica accortezza: evitare di impiegarli nei turni nelle sezioni a contatto con i detenuti o nei servizi di traduzione, cioè di accompagnamento all’esterno per visite mediche o processi. “Ma allora, se siamo equiparati a medici e infermieri, perché a noi non vengono fornite le mascherine?” denuncia Benemia. Migliore (Iv): “Dal capo Dap nessun rispetto per sicurezza polizia e carceri” (Adnkronos) “L’ultima circolare del capo del Dap impone ai poliziotti penitenziari, assimilati a operatori pubblici essenziali, di continuare a prestare servizio presso le strutture penitenziarie anche se abbiano incontrato persone probabilmente positive al coronavirus. Tale disposizione, come altre dell’amministrazione, non rispetta i più elementari requisiti di tutela e sicurezza del personale della polizia e non tiene conto della possibile diffusione del contagio all’interno delle carceri”. Lo sottolinea il deputato di Italia Viva Gennaro Migliore, ex-sottosegretario alla Giustizia. “Come evidenzia più di un sindacato della Polizia Penitenziaria, la priorità è quella di dotare tutti gli operatori di dispositivi di protezione individuale che, pur essendo stati annunciati in pompa magna e già in enorme ritardo, sono attualmente carenti presso gli istituti. Inoltre - spiega - va effettuato il tampone a tutti i poliziotti e va reso immediatamente pubblico il risultato”. “Non comprendere la specificità e l’eccezionalità dell’ambiente carcerario significa procurare danni all’intera collettività, ma in primo luogo a chi in quegli istituti lavora o è ristretto. Non si tratta di una polemica ma di riconoscere che dopo le rivolte, I ferimenti degli agenti e le tragiche morti di 14 detenuti avvenute negli ultimi giorni, nulla si stia facendo da parte del vertice del Dap in ossequio al più elementare buon senso”, conclude. Tribunali chiusi fino al 15 aprile. Alt a notifiche dei ricorsi fiscali di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 marzo 2020 Rinvio delle udienze fino al prossimo 15 aprile, con contestuale sospensione dei termini e applicazione a tutti i procedimenti civili e penali pendenti. Sostegno economico ai giudici onorari, blocco delle notifiche tributarie in primo grado. La bozza di decreto legge aggiorna e modifica il pacchetto di misure, approvato da poco più di una settimana, per garantire l’amministrazione della giustizia nelle settimane dell’emergenza sanitaria. Così, preso atto dell’aggravarsi della situazione, il termine di rinvio-sospensione è prorogato dal 22 marzo al 15 aprile; di conseguenza passa al 16 aprile il giorno dal quale i capi degli uffici giudiziari potranno adottare misure per evitare l’affollamento degli uffici (misure che possono andare da limitazioni degli orari di apertura sino al rinvio delle udienze). Tra i chiarimenti, quello iniziale è sul perimetro applicativo della sospensione, dove ora il riferimento ai “procedimenti civili e penali”, estende la previsione originaria: da un lato, infatti, rende evidente che la sospensione si riferisce a tutti i procedimenti civili e penali e non solo ai procedimenti in cui è stato disposto un rinvio di udienza; dall’altro lato, considerata la straordinaria emergenza sulla funzionalità degli uffici, è dilatata la sospensione oltre i confini della “pendenza” del procedimento. In questi primi giorni, si sottolinea nella relazione, erano infatti emersi dubbi interpretativi e prassi applicative che aggirano l’obiettivo dello stop, costituito dalla duplice esigenza di sospendere tutte le attività processuali per ridurre al minimo quelle forme di contatto personale che favoriscono il propagarsi dell’epidemia, da un lato, e di neutralizzare ogni effetto negativo che il massiccio differimento delle attività processuali avrebbe potuto produrre sulla tutela dei diritti per effetto del potenziale decorso dei termini processuali, dall’altro. Con riguardo al riferimento alla “pendenza” dei giudizi, che aveva provocato il dubbio sull’estensione della sospensione al termine per proporre impugnazione delle sentenze, si è ritenuto di eliminare il riferimento alla pendenza dei procedimenti, in maniera tale da eliminare ogni motivo di dubbio e, nello stesso tempo, di estendere gli effetti della sospensione anche agli atti introduttivi del giudizio, quando ne è previsto un termine. Chiarita poi anche la fattispecie del calcolo dei termini “a ritroso”. Il?penale - Nel penale viene, per il medesimo periodo di tempo, deciso anche il blocco del decorso della prescrizione. Stabilita ancora la sospensione dei termini di durata massima delle misure diverse dalla custodia cautelare, di cui all’articolo 308 del Codice di procedura penale (obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria e allontanamento dalla casa familiare, per esempio), per il tempo in cui il procedimento è rinviato, analogamente a quanto già disposto per i termini di durata della custodia cautelare. Sempre nel penale, la bozza di decreto introduce poi deroghe al sistema delle notificazioni e delle comunicazioni attualmente previsto, per consentire agli uffici giudiziari, nella situazione di emergenza che ha imposto il rinvio d’ufficio delle udienze per la trattazione di affari penali non urgenti e l’adozione di una serie di misure emergenziali, di comunicare velocemente e senza la necessità di impegno degli organi notificatori i provvedimenti destinati alla comunicazione alle parti processuali delle date delle udienze fissate per effetto del rinvio d’ufficio o di qualsiasi altro elemento che deriva dai provvedimenti di urgenza. In questo senso, si prevede l’utilizzo del sistema di notificazioni e comunicazioni telematiche come modalità di partecipazione ordinaria. Tributario e e giudici onorari - Intervento poi sui giudizi tributari, oltre che misure specifiche per Tar e Consiglio di Stato. Sospesi infatti fino al 15 aprile i termini per la notifica del ricorso in primo grado davanti alle commissioni tributarie e quello di 90 giorni previsto per la mediazione nelle liti fiscali di valore più basso. Infine, tenendo conto della situazione di blocco sostanziale dell’attività giudiziaria ordinaria, la bozza di decreto legge introduce un contributo di 700 euro al mese, per 3 mesi, per i magistrati onorari in servizio, cercando comunque di tenere comunque ferma la regola che vede i magistrati onorari titolari di un incarico temporaneo. In questa prospettiva allora, il contributo è in sostanza allineato a quello previsto per sostenere il reddito dei lavoratori autonomi. Fuga dal virus e dalle misure restrittive: la scarsa efficacia delle sanzioni penali di Aldo Natalini Il Sole 24 Ore, 16 marzo 2020 In fuga dal virus nelle “zone protette” e dalle misure estese a tutto il territorio nazionale con i Dpcm 8 marzo e 9 marzo, tra psicosi collettiva e italica insofferenza alle regole (anche se di salute pubblica). Chi è scappato dalle “zone rosse” lombarde e venete: cosa rischia - Già nelle scorse settimane, in vigenza delle prime “zone rosse” (lombarde e veneta) istituite col Dpcm del 23 febbraio, attuativo del coevo decreto legge n. 6/2020, si sono moltiplicate le notizie di violazioni alle disposizioni governative impartite per il contenimento del contagio da COVID-19: alcuni lodigiani sono scappati dalla zona-focolaio per raggiungere le loro famiglie al sud; altri hanno tentato di forzare i controlli dei checkpoint per portare materiali ad amici o parenti; altri ancora, improvvidamente, hanno eluso la quarantena fiduciaria entrando in contatto con altre persone. Le misure rafforzate su tutto il territorio nazionale - Più di recente con l’identificazione dell’”area di contenimento rafforzato” all’intera regione Lombardia e alle quattordici province del nord sono aumentati i tentativi di fuga dalla “zona arancione” (iniziati nottetempo persino prima dell’entrata in vigore del Dpcm 8 marzo 2020, del quale improvvidamente sono state fatte circolate le bozze, innescando così un effetto panico a catena che ha sovvertito la ratio stessa delle nuove restrizioni). Da ultimo, con la “blindatura” totale dell’intero Paese (Dpcm 9 marzo 2020), il tema delle conseguenze penali connesse alla violazione delle stringenti misure di contenimento - assai invasive ma inevitabili, in ragione della rapidissima progressione della curva del contagio - riguarda ormai tutti, non più soltanto gli abitanti di alcuni territori. E inesorabilmente, a fronte di comportamenti irresponsabili, è affidata al diritto penale (e alle forze di polizia) la tenuta delle restrizioni previste dal Governo a tutela dei nostri “corpi”. Il Dl “Coronavirus”: illecito penale ad hoc - Il decreto legge n. 6/2020, entrato in vigore il 23 febbraio scorso e convertito, a tempo di record, dalla legge n. 13/2020, è il principale provvedimento varato dall’Esecutivo nella prima fase del piano di interventi per fronteggiare l’epidemia da Covid-19. L’articolo 3, comma 4, del decreto legge n. 6/2020 contiene un illecito penale ad hoc, sanzionato ai sensi dell’articolo 650 del Cp, in caso di violazioni alle misure di contenimento ivi previste: contravvenzione che - come vedremo - di per sé è un’arma spuntata; tuttavia a essa possono aggiungersi ben più gravi titoli delittuosi (dolosi e colposi). Processo penale, perde peso la prova per testimoni di Rosa Anna Ruggiero Il Sole 24 Ore, 16 marzo 2020 La prova testimoniale, che è tradizionalmente considerata la prova principale del processo penale, sta diventando sempre più marginale per l’accertamento della responsabilità dell’imputato: da tempo oramai sono altri gli strumenti che vengono privilegiati. Le intercettazioni, le prove scientifiche, i documenti informatici o le video registrazioni. Prove preconfezionate, in altre parole, solo in apparenza più concludenti, che però per loro natura si formano fuori dal giudizio, dunque senza il controllo diretto del giudice chiamato a decidere. Proprio per questo il Codice di procedura penale assegna invece un ruolo centrale alle prove dichiarative, che si formano in dibattimento, nel contraddittorio delle parti, innanzi al giudice che determinerà l’esito del processo. Il monito della Consulta - In questo scenario vanno contestualizzate due recenti decisioni della Corte costituzionale e delle Sezioni unite della Cassazione che hanno di fatto messo in soffitta una regola cardine del Codice di rito e che riguarda appunto le prove costituende, prima fra tutte quella testimoniale: il riferimento è all’articolo 525, comma 2, del Codice di procedura penale che individua nella necessaria identità tra giudice chiamato a decidere e giudice che abbia partecipato al dibattimento un principio fondante del nostro processo accusatorio, non a caso presidiato dalla nullità assoluta, la più grave tra le invalidità. Il senso della norma è chiaro: l’imputato non può essere giudicato se non da chi abbia costruito il proprio convincimento sulla base di prove che ha visto formare innanzi a sé e di cui proprio per questo abbia potuto apprezzare l’attendibilità. Pertanto, se il giudice cambia, il dibattimento - se viene richiesto - è da rifare. Vi è da dire che, in genere, le parti lo chiedono e questo inevitabilmente incide sulla durata del processo, soprattutto nei casi in cui il giudice cambi più volte. La Cassazione - Tuttavia, dopo il monito rivolto al legislatore da parte della Corte costituzionale, che suggeriva di prevedere “ragionevoli eccezioni” a questo principio, in modo da evitare l’impiego strumentale del diritto alla rinnovazione e il ripetersi di istruttorie che dilatano i tempi già lunghi del processo penale, sono state le Sezioni unite a invertire il rapporto regola-eccezione, affermando che la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale non è dovuta se muta la persona fisica del giudice, a meno che non si dimostri la necessità di esaminare i dichiaranti su fatti rimasti in precedenza inesplorati. In base a questa interpretazione, il nuovo giudice dunque potrà decidere, di norma, sulla base dei verbali di prove acquisite da altri prima di lui. Ciò significa non ritenere più fondamentale quel contatto diretto tra organo giudicante e fonte di prova, caratteristica tipica della prova testimoniale, nonostante l’articolo 525 del Codice di procedura penale. Udienze ravvicinate - I processi che ricominciano all’infinito per variazione del giudice e che rappresentano una patologia del nostro sistema si devono quasi sempre ai frequenti trasferimenti dei magistrati ad altro ufficio. Una soluzione a questa stortura andava trovata, ma non mettendo a carico dell’imputato il costo di una disfunzione di cui non ha responsabilità. Si sarebbe potuto (e si potrebbe) sperimentare, come in alcuni tribunali già avviene, che il dibattimento di primo grado non inizi se non quando si sia in grado di calendarizzare udienze molto ravvicinate, così da assicurare tempi più contenuti, limitando l’incognita della destinazione del giudice altrove. Andava verificata la possibilità di sospendere il trasferimento del magistrato sino al momento della definizione dei processi in corso. È difficile, in altre parole, credere che non esistano strumenti organizzativi per evitare lo scandalo della sostituzione di nove giudici diversi (ciò che si era verificato nel giudizio nel quale è stata sollevata la questione di costituzionalità dell’articolo 525 del Codice di procedura penale), senza comprimere i diritti della difesa, anche quando vi sia il rischio di un loro uso strumentale. Viviamo però in un momento storico in cui appaiono obsolete quelle prove un tempo considerate fondamentali per l’accertamento: così, l’ultimo disegno di legge di riforma del processo penale recepisce le conclusioni delle Sezioni unite in merito alla presunzione di superfluità della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale dopo il cambiamento del giudice. Se questa riforma dovesse passare, la prova testimoniale diverrebbe ancor meno rilevante in un processo che non recupererà comunque efficienza dalla rinuncia alle garanzie. Legge anticorruzione, retroattività all’angolo di Ilaria Li Vigni Italia Oggi, 16 marzo 2020 Non si può applicare retroattivamente la legge anticorruzione, con effetti diretti sull’accesso ai benefici penitenziari per i cosiddetti reati ostativi, previsti dalla Legge n. 3/2019 c.d. “Spazza-corrotti”. In data 26 febbraio sono state depositate le motivazioni della sentenza emessa dalla Corte Costituzionale in data 12 febbraio. “Se al momento del reato è prevista una pena che può essere scontata fuori dal carcere, ma una legge successiva la trasforma in una pena da eseguire dentro il carcere, quella legge non può avere effetto retroattivo”, è la motivazione di fondo che ha guidato i giudici costituzionali. Infatti, si spiega, “tra il “fuori” e il “dentro” vi è una differenza radicale: qualitativa, prima ancora che quantitativa, perché è profondamente diversa l’incidenza della pena sulla libertà personale”. Sul filo di questo ragionamento, con la sentenza numero 32 del 2020, relatore Francesco Viganò, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima l’applicazione retroattiva della legge numero 3 del 2019, la cosiddetta “Spazza-corrotti”. La Corte, si legge nelle motivazioni, “ritiene necessario procedere a una complessiva rimeditazione della portata del divieto di retroattività sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., in relazione alla disciplina dell’esecuzione della pena”. Questo perché “l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità circa il carattere processuale delle norme dell’ordinamento penitenziario” va oggi letto “anche alla luce delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo”. Fino a ora, infatti, sia la Cassazione che la stessa Corte costituzionale avevano sempre seguito un orientamento diverso, secondo cui le pene devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento dell’esecuzione della pena, e non a quella in vigore al momento del fatto. A essere rimeditato è appunto l’articolo 25 della Costituzione, secondo cui nessuno può essere punito con una pena non prevista al momento del fatto o con una pena più grave di quella allora prevista, che opera come “uno dei limiti al legittimo esercizio del potere politico, che stanno al cuore stesso del concetto di Stato di diritto”. E quindi, continua la Corte, se, di regola, è legittimo che le modalità esecutive della pena siano disciplinate dalla legge in vigore al momento dell’esecuzione e non da quella in vigore al momento del fatto (anche per assicurare uniformità di trattamento tra i detenuti), ciò non può valere “allorché la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato”. Questo perché la legge “anticorruzione” ha reso assai più gravose le condizioni di accesso alle misure alternative alla detenzione e alla liberazione condizionale, e, quindi, non può essere applicata retroattivamente dai giudici. Le stesse considerazioni valgono per il meccanismo processuale della sospensione dell’ordine di esecuzione della pena in caso di condanna a non più di quattro anni per chiedere al tribunale di sorveglianza l’ammissione a una misura alternativa alla detenzione. La consulta, dopo aver sottolineato che la legge c.d. Spazza-corrotti non contiene alcuna disciplina transitoria, ha dichiarato incostituzionale parte della predetta normativa, “in quanto interpretata” nel senso che le modificazioni da essa introdotte si applichino anche ai condannati per fatti commessi prima della sua entrata in vigore, con riferimento alle misure alternative alla detenzione, alla liberazione condizionale e al divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena. La Corte ha sottolineato che “i principi così sanciti non riguardano i permessi premio e il lavoro all’esterno, che quindi continuano ad essere regolati dalla legge in vigore al momento dell’esecuzione della pena”. Tuttavia, la Corte ha chiarito che “ciò non significa, peraltro, che al legislatore sia consentito disconoscere il percorso rieducativo effettivamente compiuto dal condannato che abbia già raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio”. Insomma, a parere di chi scrive, si tratta di una pronuncia che riconduce la norma nell’ambito di una coerente applicazione del principio, costituzionalmente sancito, di applicazione in bonam partem della legge penale e rieducazione del condannato, così emendando disposizioni evidentemente incostituzionali che spesso si riscontrano in molte recenti previsioni normative. Rito a presentazione immediata davanti al giudice di pace per i reati sull’immigrazione Il Sole 24 Ore, 16 marzo 2020 Giudice di pace - Presentazione immediata a giudizio in casi particolari - Reati previsti dal d.lgs. n. 286/1998 - Termine massimo di 15 giorni - Tassatività. Nei procedimenti instaurati per i reati previsti dagli artt. 10-bis e 14, commi 5-ter e 5-quater, del testo unico sull’immigrazione, la presentazione immediata a giudizio dell’imputato prevista dall’art. 20-bis, d.lgs. n. 274/2000, comporta una drastica riduzione del termine per la comparizione e dunque per la difesa, rispetto a quello ordinario fissato dall’art. 20, comma 4, stesso decreto. Scopo della norma speciale è quello di assicurare la celebrazione in brevissimo tempo - immediata o al più nei quindici giorni conseguenti l’accertamento del fatto -, onde il termine deve ritenersi tassativo e riferito alla data del fatto e non alla mera richiesta della polizia giudiziaria che potrebbe ritardarla “a proprio piacere”. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 2 marzo 2020 n. 8307. Sicurezza pubblica - Stranieri - Presentazione immediata dell’imputato dinanzi al giudice di pace ai sensi dell’art. 20-bis, d.lgs. n. 274 del 2000 - Termine massimo di quindici giorni - Violazione - Nullità a regime intermedio - Configurabilità - Conseguenze. In materia di reati concernenti l’immigrazione, la violazione da parte del pubblico ministero del termine massimo di quindici giorni per la presentazione immediata dell’imputato dinanzi al giudice di pace, previsto dall’art. 20-bis del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, determina una nullità a regime intermedio, ai sensi dell’art. 178, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., che deve essere eccepita nei termini previsti dall’art. 182 cod. proc. pen. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 28 ottobre 2019 n. 43831. Sicurezza pubblica - Stranieri - Reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio - Citazione a giudizio nelle forme previste dall’art. 20-bis, D.Lgs. n. 274 del 2000 - Termine massimo di 15 giorni - Tassatività - Sussistenza - Ragioni. In materia di reati concernenti l’immigrazione, ha carattere tassativo la previsione della instaurazione del giudizio dinanzi al giudice di pace nel termine massimo di quindici giorni, recata dall’art. 20-bis, D.Lgs. n. 274 del 2000, e applicabile nei procedimenti relativi ai reati di cui agli artt. 10-bis e 14, commi 5-ter e 5-quater, D.Lgs. n. 286 del 1998, nel caso in cui si procede nelle forme della presentazione immediata davanti al giudice. (In motivazione, la Corte ha precisato che la drastica riduzione dei tempi per la difesa, prevista dai moduli procedimentali di cui agli artt. 20-bis e 20-ter, D.Lgs. n. 274 del 2000 può trovare giustificazione solo se è realizzata la finalità di assicurare la celebrazione del processo in tempi brevissimi). • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 18 giugno 2015 n. 25815. Sicurezza pubblica - Stranieri - Ingresso o soggiorno illegale di stranieri - Procedimento davanti al giudice di pace - Rito a presentazione immediata - Inderogabilità - Esclusione - Fattispecie. Il rito speciale a presentazione immediata richiamato dall’art. 10-bis, D.Lgs. n. 286 del 1998 non è previsto in modo inderogabile per il reato di ingresso o soggiorno illegali nel territorio dello Stato. (Fattispecie in cui la Corte, sulla base dell’illustrato principio, ha annullato senza rinvio il provvedimento del giudice di pace che, rilevando l’intempestività dell’attivazione del rito speciale, aveva dichiarato l’irregolarità della citazione a giudizio e rimesso gli atti al pubblico ministero). • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 16 marzo 2011 n. 10994. Lettera di ringraziamento e di vicinanza Ristretti Orizzonti, 16 marzo 2020 Un gruppo di giuristi ha voluto scrivere un messaggio di vicinanza e di ringraziamento, rivolto in particolare agli operatori del mondo della giustizia. Tra le firme: Davide Galliani, Giorgio Lattanzi, Gaetano Silvestri, Armando Spataro, Glauco Giostra, Marco Pelissero, Antonio Balsamo, Oscar Magi, Oreste Pollicino, Lello Magi, Costantino Visconti, Pasquale Bronzo, Silvia Buzzelli, Carlo Fiorio, Elisabetta Grande, Carlo Rimini, Giulio Vigevani, Emilio Dolcini, Lara Trucco, Roberto Bin, Emilio Santoro, Alessandra Facchi, Antonio Marchesi. Il testo: “Il nostro più sincero ringraziamento a tutti coloro che svolgono il loro mestiere nel mondo della sanità e in quello della giustizia. Medici, magistrati, infermieri, avvocati, tecnici, operatori. In molti non avrete nemmeno il tempo di leggere il nostro messaggio. Ma sappiate che vi siamo vicini. La medicina e il diritto sono per loro natura umanistici. Ogni difesa dell’umanesimo è dunque una difesa della medicina e del diritto. Anche per questo grazie”. Davide Galliani, Università degli Studi di Milano, Giorgio Lattanzi, Presidente della Scuola Superiore della Magistratura, Gaetano Silvestri, Presidente emerito della Corte costituzionale, Armando Spataro, magistrato, Glauco Giostra, Università La Sapienza di Roma, Marco Pelissero, Università degli Studi di Torino, Antonio Balsamo, magistrato, Oscar Magi, magistrato, Oreste Pollicino, Università Bocconi, Lello Magi, magistrato, Costantino Visconti, Università degli Studi di Palermo, Pasquale Bronzo, Università La Sapienza di Roma, Silvia Buzzelli, Università degli Studi di Milano-Bicocca, Carlo Fiorio, Università degli Studi di Perugia, Elisabetta Grande, Università degli Studi del Piemonte Orientale, Carlo Rimini, Università degli Studi di Milano, Giulio Vigevani, Università degli Studi di Milano-Bicocca, Emilio Dolcini, Università degli Studi di Milano, Lara Trucco, Università degli Studi di Genova, Roberto Bin, Università degli Studi di Ferrara, Emilio Santoro, Università degli Studi di Firenze, Alessandra Facchi, Università degli Studi di Milano, Antonio Marchesi, Università degli Studi di Teramo. Milano. “San Vittore era pronto al coronavirus. Ecco come è nata la rivolta” di Caterina Giojelli Tempi, 16 marzo 2020 Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di Sorveglianza, racconta le ore folli della sommossa nel carcere milanese tra roghi e cascate d’acqua. Per ore magistrati e agenti avevano fatto su e giù dai reparti, risalendo quei torrenti di acqua gelida che invadevano celle e scalette, detriti che galleggiavano nel buio, roghi di lenzuola, odore di gomma bruciata, caloriferi divelti, vetri ovunque, piramidi di letti di ferro e sgabelli sgangherati alte fino alle botole del soffitto. Sapendo una cosa sola: nulla inizia e finisce per caso in carcere, ma l’alibi del coronavirus non era stato fornito da circostanze o istituzioni. Non a Milano. “Le limitazioni a San Vittore erano scattate già da 15 giorni - cioè dal 21 febbraio, quando in Lombardia si è iniziato a lavorare subito tutti e come si poteva per fronteggiare l’allarme sanitario - e nulla lasciava presagire cosa sarebbe accaduto. Non qui. Non dopo due settimane di attenzione, dialogo e gesti di vera autoresponsabilità”. La mattina di lunedì 9 marzo Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, si trova a San Vittore insieme a direttore e comandante per incontrare i rappresentanti dei detenuti. Sono passate poche ore dalla pubblicazione del nuovo dpcm firmato da Giuseppe Conte con i provvedimenti più stringenti per contenere la diffusione del coronavirus in Lombardia, poche ore dallo scoppio delle prime rivolte nelle carceri di Modena, Frosinone, Pavia. Presidente Di Rosa, per due settimane tutti gli operatori hanno spiegato le ragioni di ogni provvedimento, restrizione, limitazione alle tradizionali regole di vita del carcere. Cosa cambia il 9 marzo? Per San Vittore sarebbe cambiato poco rispetto agli altri istituti di pena: a Milano avevamo fatto tanta comunicazione trasparente e preventiva, spiegando che la regolamentazione degli ingressi era necessaria per motivi sanitari. Erano già state ridotte all’osso le attività di volontariato o formative, entravano solo operatori penitenziari sottoposti a triage, medici e infermieri monitoravano costantemente i detenuti. Avevamo lavorato moltissimo anche in previsione della limitazione dei colloqui con i famigliari via telefono: molti detenuti temevano non tanto per la propria salute, quanto per quella dei famigliari a casa. Il carcere è un arcipelago delicatissimo, non si può mentire a un detenuto: ascolto e dialogo sono strumenti per realizzare la tanto sbandierata educazione alla legalità. Tutti i detenuti sono stati messi al corrente di tutto quello che sarebbe successo, applicando forme di attenzione, contenimento, isolamento e chiusura rispetto alla tradizionale “vita quotidiana” fin da subito. E neanche un materasso bruciato per 15 giorni... Dopo 15 giorni di comunicazione e autoresponsabilità - e sottolineo ancora il termine -, i detenuti della regione più colpita dal coronavirus apprendono le notizie in tv e col “tam tam” del carcere: si parla di isolamento per reclusi “sintomatici”, di sospensione di tutti i colloqui, di limitazioni di permessi e semilibertà, si diffondono notizie di rivolte, decessi, evasioni di massa. Un richiamo sordo che rimbalza a tappeto da un luogo all’altro e la mattina del 9 febbraio arriva anche da noi. Ero in riunione con il direttore, il comandante e i delegati dei detenuti per affrontare il problema della gestione della prevenzione del contagio e dei colloqui telefonici e via skype quando sentiamo i primi boati. Si propagano di reparto in reparto, insieme a grida furiose, i detenuti iniziano a fuggire nei corridoi, distruggere materassi, incendiare coperte e lenzuola, spaccare tutto, l’impianto elettrico e i tubi dell’acqua, i caloriferi. In pochi minuti alcuni reparti sono piombati nel buio, altri hanno iniziato ad allagarsi. Tutto era pieno di fumo, odore di gomma bruciata. Due agenti sono stati presi in ostaggio. Alcuni detenuti hanno saccheggiato l’infermeria e sono andati in overdose da metadone. Arrivati all’ultimo raggio ci siamo trovati davanti una scena surreale: erano state issate delle barricate di letti alte fino al soffitto, erano state distrutte le botole, alcuni uomini si erano radunati sul tetto. Si capisce il cortocircuito della comunicazione. Ma a far scattare la rivolta sono state le nuove misure di sicurezza o la paura del contagio? Forse entrambe le cose, forse nessuna delle due. San Vittore è un istituto di pena dove arrivano persone appena arrestate, all’inizio del loro percorso giudiziario, in attesa di giudizio o di processo. San Vittore è lo specchio dell’Italia da record di detenuti in attesa di giudizio, della carcerazione preventiva, qui sono ospitati circa 1.100 detenuti a fronte di una capienza di circa 600 posti. San Vittore è un simbolo del sovraffollamento carcerario. Per capirci: a Bollate non abbiamo registrato proteste, a Opera proteste più contenute seppur gravi. Il problema dei detenuti di San Vittore non è il coronavirus. Insieme a direttore, comandante, provveditore, al procuratore aggiunto Alberto Nobili e al pubblico ministero Gaetano Ruta, lei ha condotto una trattativa per sedare la rivolta. Alcuni giornali hanno titolato: “I detenuti comandano, i giudici si piegano”… Non ho avuto tempo di leggere i giornali. Se per questi trattare significa venire a patti con i detenuti sulle barricate, ebbene non c’è stata nessuna trattativa. Le dico io cosa c’è stato: c’è stata da parte nostra la promessa di farci carico delle loro istanze e riportarle al ministro e al Dap. E questo per tre motivi molto semplici: una risposta è dovuta; su tanti fascicoli gravano le attese di migliaia di persone ed era il momento di dare a queste la precedenza; nessuno può permettersi un altro fronte caldo nella Milano del coronavirus. Nessuno ha promesso un risultato o trattato la pace in cambio di un esito specifico, nessuno si è piegato a un ricatto, tanto è vero che nessuno a Milano ha parlato di timbro della legge per ottenere l’indulto: nella lettera inviata a Roma si chiede al ministero di Giustizia e al Dipartimento di amministrazione penitenziaria di prendere sulle spalle la responsabilità del sovraffollamento e prevedere modifiche anche normative che allevino la permanenza dei detenuti in queste condizioni. Questo abbiamo fatto: la storia ci insegna che si può intervenire con bastoni e idranti, noi non li abbiamo usati. E i detenuti hanno capito che non avrebbero ottenuto nulla con le barricate. Il suo Tribunale di Sorveglianza, intanto, si è attivato per “liberare” le carceri “il più possibile” e avviato “intese con il Sert” (il servizio contro le tossicodipendenze)... Sì, l’obiettivo è potenziare gli affidamenti terapeutici e le misure alternative anche con un tavolo che si è costituito con il Tribunale di Sorveglianza di Brescia e le direzioni delle carceri, il Provveditorato regionale e Regione Lombardia, i garanti e l’Unep. Adesso c’è il coronavirus ma il coronavirus ci impone di prendere in mano tutte quelle valutazioni rimandate per anni. Non vedo continuità con la “decarcerazione” seguita alla sentenza Torreggiani (quando lo Stato italiano è stato condannato per sistematica violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea ovvero la proibizione di trattamenti inumani e degradanti) o con i provvedimenti seguiti i correttivi Cedu, o con i rimedi compensativi previsti dall’articolo 35-ter che riconoscono al detenuto, sottoposto a condizioni che violino l’articolo 3, una riduzione della pena ancora da espiare o il risarcimento del danno. È possibile ottenere nuove forze e accelerare la strada per realizzare misure alternative? Maggior ricorso alle misure alternative e la riduzione dell’applicazione della custodia cautelare sono argomenti espressi dalla Corte europea che invita gli Stati a esortare in questa direzione giudici e procuratori. Sono un dovere. Fuori la vita va avanti? Va avanti anche dentro. Va avanti anche in carcere, che ricordo essere la casa dello Stato. Casa per sessantamila persone che non termineranno la reclusione con la fine dell’emergenza coronavirus. Bologna. Il carcere dopo i disordini di Antonio Ianniello* Ristretti Orizzonti, 16 marzo 2020 Gli operatori dell’Amministrazione Penitenziaria e dell’Azienda Usl di Bologna - a entrambi si torna a esprimere vicinanza - stanno attuando un grande sforzo per far fronte all’attuale situazione detentiva, restando sempre alta l’attenzione circa nuovi possibili disordini e comunque considerando che rimane ancora grande il lavoro da portare avanti per il progressivo ripristino dei locali e delle infrastrutture, anche di tipo sanitario (si ricorda che le devastazioni hanno anche interessato ambulatori medici e gli spazi e la strumentazione per le visite specialistiche). Sono stati effettuati trasferimenti di persone detenute verso altri istituti penitenziari per motivi di ordine e sicurezza in ragione dei disordini ai quali sono anche collegate gravissime conseguenze che stanno seriamente riflettendosi sulle condizioni generali di vita delle persone detenute: nel reparto giudiziario, non essendoci attualmente condizioni di sicurezza a causa delle devastazioni che hanno interessato gli spazi, le persone detenute sono per il momento chiuse nelle camere di pernottamento h 24, risultando generalmente in un normale stato di salute, secondo quanto riferito. Già ripristinata al 1° piano la linea telefonica, rimanendo ancora parzialmente senza luce alcuni spazi detentivi. Anche il profilo relativo al peggioramento delle condizioni di lavoro degli operatori che prestano servizio nelle sezioni detentive appare sensibile: nei giorni scorsi i sindacati della Polizia Penitenziaria in una nota congiunta hanno chiesto la chiusura del reparto giudiziario e il relativo trasferimento della totalità delle persone detenute lì collocate verso altri istituti penitenziari. Negli altri reparti la quotidianità detentiva pur nell’emergenza va avanti in modo ordinario. Risulta opportuno ribadire che, da quanto risulta, un consistente numero di persone detenute ha inteso adottare comportamenti responsabili, non partecipando ai disordini, anche essendo altamente probabile che non siano poche le persone detenute che, pur trovandosi in quelle stesse sezioni del reparto giudiziario coinvolte nelle violenze, non hanno alla fine partecipato attivamente alle devastazioni. Bisognerà ripartire dal senso di responsabilità di chi non ha usato violenza durante i disordini affinché le ulteriori fasi di questa emergenza sanitaria possano essere affrontate con moderazione nel contesto penitenziario dove evidentemente l’alleggerimento degli attuali numeri delle presenze in carcere consentirebbe di creare condizioni essenziali per la possibilità di reperire spazi detentivi da utilizzare per l’eventuale isolamento delle persone sulla base delle necessità sanitarie. A livello centrale è operativa una task force, voluta dal Ministro della Giustizia, in cui sono anche presenti il Garante nazionale delle persone private della libertà personale e i Capi Dipartimenti dell’Amministrazione Penitenziaria e della Giustizia minorile e di comunità, proprio con il compito di elaborare strategie possibili d’intervento per far fronte all’emergenza in atto, monitorando l’evoluzione della situazione negli istituti penitenziari. Il Garante nazionale sta anche chiedendo informazioni alle Procure della Repubblica, tra cui anche quella di Bologna, come noto, essendosi verificato il decesso di una persona detenuta, circa l’apertura delle indagini in merito ai decessi al fine di proporre la presentazione come persona offesa. Nei giorni scorsi, con nota apposita, la Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento del Dap, allo scopo di limitare il disagio delle persone detenute in questo momento, ha autorizzato l’utilizzo della posta elettronica per la corrispondenza con i familiari anche per i ristretti nel circuito Alta Sicurezza 3, anche presenti a Bologna. Stante l’emergenza sanitaria in atto, che ha comportato la sospensione dei colloqui, si sta garantendo un maggior numero di comunicazioni telefoniche e via skype, ma sarebbe comunque necessario un potenziamento delle linee telefoniche e delle postazioni informatiche. Da lunedì 16 marzo verranno ripristinati i colloqui con gli avvocati (per atti urgenti e improrogabili) che all’ingresso in istituto potranno essere sottoposti al c.d. triage e saranno tenuti a compilare l’apposito modulo di autocertificazione. *Garante per i diritti delle Persone private della Libertà personale Comune di Bologna Melfi (Pz). Dopo la rivolta detenuti del circuito “Alta sicurezza” rifiutano di rientrare in cella Gazzetta del Mezzogiorno, 16 marzo 2020 Dopo la rivolta nel carcere di Melfi culminata con il sequestro di quattro poliziotti penitenziari e 5 operatori dell’area sanitaria, “i detenuti del circuito Alta Sicurezza, si sono imposti con forza e prepotenza, rifiutando di entrare categoricamente nelle proprie celle e, pretendendo di circolare liberamente all’interno delle sezioni detentive, una sorta di autogestione, quando, invece, sarebbero dovuti rimanere chiusi, nelle sezioni”. Lo sostiene l’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria), che avverte: “lo Stato non può consentire una così palese condizione di resa alle violenze né può piegarsi al volere di chi ha violato le regole e impone con forza criminale le sue regole”. “Presso il carcere di Melfi si registra una gestione da parte della Direzione gravemente insufficiente che si ripercuote in particolar modo sul personale di Polizia penitenziaria, che vi presta servizio e che dal giorno del sequestro sta vivendo una sequela di gravi difficoltà. La stessa Direzione non sarebbe in grado di porre in essere gli urgenti correttivi rivolti a ripristinare l’ordine e la sicurezza interna”, afferma il sindacato, che chiede perciò “un urgente ed autorevole intervento da parte delle autorità politiche”. Cosenza. “Detenuti ai domiciliari, la vita viene prima di tutto” di Camillo Giuliani cosenzachannel.it, 16 marzo 2020 Mettere ai domiciliari i detenuti per proteggerli dal coronavirus. È questa la richiesta della Camera penale di Cosenza al direttore del carcere di Vaglio Lise, al presidente del Tribunale di sorveglianza di Catanzaro e ai magistrati che si occupano della stessa materia a Cosenza. L’annoso problema del sovraffollamento delle carceri italiane, infatti, con l’epidemia in corso si è aggravato e i detenuti sono esseri umani, come chi è in libertà. E allora può mai prevalere il timore per la sicurezza sociale sulla tutela delle vite? La risposta è no e la Camera penale - nella lettera firmata da Guido Siciliano e Pietro Perugini, segretario e presidente della sezione bruzia - lo ribadisce a gran voce. Già nei giorni scorsi, infatti, la Giunta nazionale aveva paventato “danni irreparabili ai detenuti, al personale carcerario e a tutti coloro che per lavoro o per necessità frequentano le carceri”. Il monitoraggio delle prigioni calabresi ha evidenziato la necessità della “immediata e non più rinviabile applicazione di misure alternative”, quali appunto gli arresti domiciliari. I rischi per la salute dei detenuti sono elevatissimi. Esposti al contagio per i contatti continui col personale che entra ed esce dagli istituti penitenziari, si ritrovano a vivere in celle sovraffollate. E anche solo ipotizzare di poter mantenere le distanze di sicurezza tra le persone in una situazione simile è una chimera. La casa circondariale di Cosenza, ad esempio, dovrebbe ospitare al massimo 218 persone, ma dietro le sbarre ce ne sono 260. Una situazione già disumana, dunque, che l’epidemia in corso rende pericolosissima. Il ricorso agli arresti domiciliari per le fasce di criminalità medie e basse, potrebbe invece scongiurare un disastro irreparabile. Serve dunque una risposta immediata, scrivono Perugini e Siciliano, da parte della magistratura di sorveglianza, “chiamata a tutelare concretamente il costituzionale diritto alla salute dei detenuti”. Palermo. Rivolta nelle carceri, al Pagliarelli danni per oltre due milioni di euro palermotoday.it, 16 marzo 2020 Dopo gli episodi risalenti alla settimana scorsa, ecco la nuova bozza di decreto con le misure per rispondere all’emergenza. Obiettivo: ripristinare la piena funzionalità e garantire le condizioni di sicurezza degli istituti penitenziari danneggiati. “Al fine di ripristinare la piena funzionalità e garantire le condizioni di sicurezza degli istituti penitenziari danneggiati nel corso delle proteste dei detenuti anche in relazione alle notizie sulla diffusione epidemiologica a livello nazionale del Covid-19, è autorizzata la spesa di 20 milioni di euro per la realizzazione di interventi urgenti di ristrutturazione e di rifunzionalizzazione delle strutture e degli impianti danneggiati”. È quanto si legge nella nuova bozza di decreto con le misure per rispondere all’emergenza coronavirus. Per quanto riguarda i fatti di Palermo, in particolare, si legge nella bozza, “si segnalano nella casa circondariale di Palermo-Pagliarelli, danni per un ammontare complessivo stimato in due milioni e 150 mila euro”. La sommossa dei detenuti nella struttura penitenziaria risale alla notte tra domenica (8 marzo) e lunedì della scorsa settimana. Tutto iniziò - seguendo l’esempio delle altre carceri italiane - con degli incendi appiccati all’interno delle celle, poi con alcune stoviglie sbattute contro le grate in ferro delle finestre sbarrate, quindi grida e fischi. Una rivolta che parallelamente si svolse all’esterno del carcere, con i parenti dei detenuti che a lungo bloccarono viale Regione Siciliana. Le cose che sto imparando di Fabio Fazio La Repubblica, 16 marzo 2020 La lezione dell’isolamento: proviamo a mettere ordine, non solo nei cassetti di casa e nelle tasche dei vestiti dimenticati nell’armadio, ma in noi stessi. Sono giorni durissimi in cui abbiamo tutti modo di riflettere sul significato delle parole e su tutti quei gesti quotidiani piccoli e preziosi che ci mancano. Stiamo vivendo la prova più dura e inattesa che ci potessimo trovare di fronte ma potremmo uscirne migliori per davvero se, lasciando da parte paura o al contrario rimozione, provassimo a fare un esercizio di consapevolezza. Per imparare a guardare in noi stessi, per provare ad ascoltarci e a specchiarci nell’altro e soprattutto per ordinare le cose da cui ricominciare. Sì, proviamo a mettere ordine, non solo nei cassetti di casa e nelle tasche dei vestiti dimenticati nell’armadio, ma in noi stessi. Propongo un esercizio che potrà tornarci utile per quando arriveranno giorni migliori. E, stiamone certi, arriveranno. Mettiamo in fila, tutti insieme, le cose che ogni giorno stiamo imparando. Che sono tante. Tantissime, quante sono le parole. Elenco delle cose che ho imparato. 1. Devo rimettere in ordine la mia scala di valori per scoprire quel che veramente è importante. 2. Quando tutto ciò sarà finito, devo attenermi alla suddetta scala di valori. 3. La cosa che di sicuro più conta è stare vicini alle persone a cui vogliamo bene. Nulla è più importante di un abbraccio ai nostri figli. 4. Devo ricordarmi che è ora di riconnettermi con la Terra e con l’ecosistema: solo rispettandone l’equilibrio ne saremo rispettati e saremo preservati. 5. Mi sono reso conto che le cose capitano anche contro la volontà degli uomini: non siamo onnipotenti. 6. Ho riscoperto il valore di alcune parole e concetti che troppo in fretta avevamo liquidato: Stato sociale per esempio. Solidarietà, per fare un altro esempio. 7. È diventato evidente che chi non paga le tasse non commette solo un reato ma un delitto: se mancano posti letto e respiratori è anche colpa sua. 8. Mi sono ripromesso di non accettare più nessuna forma di cinismo: in questo momento così duro è comunque bello volersi bene e sentirsi parte della stessa cosa. 9. Mi sono persuaso che il significato delle parole è sacro. 10. Mi sono ripromesso di pretendere che chi ha ruoli di responsabilità e di governo sia più preparato di quelli che da lui sono governati. 11. Ho imparato il valore di una stretta di mano. 12. Ho imparato la necessità di tendere la mano. 13. Ho imparato che siamo connessi per davvero e non solo in rete. 14. Mi sono reso conto che i confini non esistono e che siamo tutti sulla stessa barca. 15. E dal momento che siamo tutti sulla stessa barca, è meglio che i porti, tutti i porti, siano sempre aperti. Per tutti.