Le ultime persone di cui occuparsi di Roberto Saviano L’Espresso, 15 marzo 2020 Così sono visti in questi giorni i cittadini che stanno in carcere. Un pianeta disumano che vogliamo rimuovere dalla coscienza. Soprattutto adesso. Prima di iniziare a scrivere pensavo: c’è qualcosa che vorrei dire ora e che non ho mai detto prima? Qualcosa che, in queste ore buie, sento l’urgenza di comunicare? Forse l’idea era quella di raccontare come sto vivendo io questo momento, ma penso che sia il modo in cui lo sta vivendo chiunque altro: sperando. Sperando che passi presto, sperando di uscirne bene, soprattutto psicologicamente. Lavorando nei limiti del consentito, studiando, leggendo e provando a tranquillizzare, pur raccomandando estrema prudenza, chi è terrorizzato dalle notizie che arrivano. Poi però ho pensato che forse avrei potuto dire qualche parola per conto di chi non viene ascoltato e che, dopo quello che sta accadendo in questi giorni farà ancora più fatica a trovare braccia tese nei ranghi della società civile. Il carcere è un argomento di cui si preferisce non sentir parlare, anche oggi che non possiamo farne a meno. Mentre scrivo, sappiamo che sette detenuti sono morti nel carcere di Modena e tre nel carcere di Rieti come conseguenza delle proteste che hanno seguito le misure adottate dalle strutture carcerarie per contenere il rischio di contagio da Covid-19 nei penitenziari. Quello che sta accadendo nelle carceri oggi, mentre il Paese vive settimane d’angoscia, è l’epilogo di anni e anni in cui politica e società civile hanno colpevolmente creduto di poter considerare estraneo alla comunità chi sconta una pena. Non è così e oggi le proteste nelle carceri ci dicono che chi sta dentro ha rapporti costanti con chi sta fuori e che chi sta dentro, come chi sta fuori, ha paura. Ha paura non solo del contagio, ma anche che non ci siano i mezzi per far fronte alla diffusione del virus. Ha paura che loro siano i sacrificabili, che siano le ultime persone di cui ci si debba preoccupare. E allora mi sono messo nei panni di chi in carcere, sbagliando, ha ceduto alla violenza; di chi in carcere ha creduto di non avere altra scelta che quella. E spero che queste persone, aiutate dalle famiglie, capiscano che la violenza è l’unica arma che non dovrebbero mai utilizzare. Marco Pannella ha indicato la strada, quella del satyagraha, dello sciopero della fame, dello sciopero della sete, della resistenza nonviolenta perché aveva compreso che chi è recluso, che chi sta scontando una pena, l’unico modo che ha per far sentire le proprie ragioni è dire le cose meglio di come le diremmo noi. Chi conosce il carcere sa bene che tutto il sistema si regge su un equilibrio precario, che fa conto sul buonsenso delle persone coinvolte, i detenuti e le loro famiglie, e sul lavoro estenuante, duro e pesantissimo di centinaia di agenti penitenzieri ed educatori. E soprattutto, chi conosce il carcere sa bene che quando un evento eccezionale modifica gli equilibri del mondo fuori, non è possibile pensare che dentro non accada nulla. Questo ha significato la sospensione, seppur temporanea, delle visite: un evento eccezionale. Tutti noi siamo sottoposti a una pressione immensa per la quantità e drammaticità delle notizie che riceviamo; ormai non c’è più nessuno che minimizzi l’emergenza, come invece accedeva nelle prime settimane del contagio. Oggi, anzi, per quanto possibile e umano, bisogna provare a schermarsi da chi fa circolare su chat e social media informazioni destituite di ogni fondamento e che inducono intere città a riversarsi nei supermercati per paura che possano presto venire a mancare i beni di prima necessità. Proviamo a fare uno sforzo e a immaginare cosa accade quando queste informazioni raggiungono chi è detenuto, chi non ha la libertà che abbiamo noi di cercare la fonte di una notizia, chi riceve un flusso di informazioni a senso unico. Chi si preoccupa per sé stesso e per i propri familiari e sa di non poter fare nulla. Le carceri sono sovraffollate, gli istituti penitenziari ospitano moltissimi detenuti in carcerazione preventiva, così come esistono delle misure alternative al carcere che per assecondare governi che si legittimano con la paura sono state disattese e accantonate per troppo tempo. Ancora poche settimane fa sentivo parlare di inasprimento delle pene per chi sia recidivo allo spaccio di modiche quantità di sostanze stupefacenti, come se le carceri non stessero già esplodendo così. Ci sono misure urgenti come la detenzione domiciliare e l’affidamento in prova ai servizi sociali che sono l’unica soluzione per decongestionare il sistema penitenziario. So che siamo in emergenza, ma chi è privato della libertà proprio a causa dell’emergenza non può più aspettare. Nelle carceri c’è una malattia in più: la segretezza di David Allegranti Corriere Fiorentino, 15 marzo 2020 Non c’era purtroppo bisogno dell’emergenza coronavirus per capire che le carceri italiane sono generalmente inadeguate e sovraffollate. Ma se qualcuno aveva ancora qualche dubbio sul vertice dell’amministrazione penitenziaria, se li sarà tolti dopo le rivolte in tutta Italia, Toscana compresa (Sollicciano, Prato): che cosa aspetta Francesco Basentini, capo del Dap, a dimettersi? È evidente che non è in grado di fronteggiare una situazione “ordinaria” (anche se ordinaria non è), figuriamoci adesso. Basta leggere la sua intervista a Interris del 12 marzo nella quale Basentini, nominato nel giugno 2018 capo del Dap su proposta del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (che lo ha confermato nel 2019), ha spiegato che “una delle criticità più serie deriva dall’assistenza sanitaria, che l’amministrazione penitenziaria non gestisce. La sanità pubblica è già in difficoltà: chi vive in una condizione di assembramento obbligato, si sente preoccupato. L’occasione è stata utile per far emergere una serie di carenze e una voglia di libertà dei detenuti”. Nell’ultima settimana ci sono stati 12 morti tra i detenuti e 40 feriti tra gli agenti di Polizia penitenziaria e “l’occasione” è stata utile a far emergere “una serie di carenze” e una “voglia di libertà dei detenuti”? Ma stiamo scherzando? Nelle carceri basta entrarci per capire che uno dei problemi reali è il sovraffollamento, al quale si è aggiunta pure l’emergenza coronavirus. Ma Basentini ha sempre negato la questione. “Al contrario di quanto molti affermino, quello del sovraffollamento negli istituti penitenziari italiani è un falso problema, sia dal punto di vista giuridico che dal punto di vista dimensionale-logistico”, ha detto Basentini nel marzo 2019. Nei giorni scorsi, invece, persino il ministro Bonafede ha dovuto ammettere che “tanti detenuti siano effettivamente preoccupati, soprattutto in condizioni di sovraffollamento, dell’impatto del coronavirus sulla propria salute e sulle condizioni detentive”. La motivazione della preoccupazione dei detenuti è evidente. “Se c’è un posto sovraffollato con alta concentrazione di persone con problemi di deficit immunitari, malattie infettive e respiratorie quello è il carcere”, ha spiegato Emilio Santoro, ordinario di filosofia del diritto all’Università di Firenze: “Tutti sappiamo che un terzo dei detenuti è tossicodipendente, è malato di Aids, di tubercolosi o ha comunque problemi infettivi. Se il virus entra lì, fa una strage. Il carcere già di suo è un lazzaretto, quindi i detenuti sono oggi terrorizzati perché sanno di poter essere condannati a morte. E noi, come al solito, ci siamo scordati di loro. Perché sono cittadini di serie C”. Purtroppo, cercare di capire che cosa succede nelle carceri italiane - vera bomba batteriologica - è molto difficile. Anche perché le istituzioni non aiutano a far chiarezza sul rischio sanitario nelle prigioni. Il caso toscano è piuttosto eclatante. Questa settimana chi scrive ha cercato di intervistare un medico infettivologo che ha 15 anni di esperienza e lavoro nelle prigioni italiane. Una direttiva della Ausl Toscana impedisce ai medici di rilasciare dichiarazioni ai giornalisti. Già questo è discutibile ma dopo aver chiesto l’autorizzazione all’ufficio stampa della Aus la risposta è stata questa: “In questa particolare e delicata fase si ritiene inopportuna un’intervista del dottor X. Anche se si tratta di un contributo medico esso sarebbe comunque contestualizzato negli attuali fatti di cronaca. Sono certa che comprenderai le nostre ragioni”. No, non è comprensibile. I contributi scientifici sono di aiuto proprio in questa “particolare e delicata fase”. Non è con la mancanza di informazione e di conoscenza che si può rendere un buon servizio ai cittadini. “Prendiamo atto - osserva Sofia Ciuffoletti, direttrice de L’altro diritto e garante dei detenuti di San Gimignano - che sull’emergenza sanitaria in carcere non sia possibile avere notizie, quando ogni mattina, giorno, sera (giustamente) un virologo/immunologo/anestesista/microbiologo ci parla dei rischi nella società aperta. Ma se dei rischi della società dei reclusi non si parla è un problema. Di tutti, dato che quei reclusi oggi domani o tra un mese torneranno a essere liberi”. Carceri: affrontare l'emergenza, per la salute, la dignità, contro l'isolamento antigone.it, 15 marzo 2020 Gli eventi tragici dei giorni scorsi hanno scosso alle fondamenta il sistema penitenziario italiano. Quasi 50 istituti sono stati coinvolti in proteste che in alcuni casi, fortunatamente pochi, sono degenerate in manifestazioni violente. Tra le conseguenze più tragiche vi sono i 14 morti e le diverse persone detenute in ospedale in condizioni precarie. La paura, la solitudine, la disperazione, il sovraffollamento e i rischi di contagio da Covid-19 sia per i detenuti che per lo staff penitenziario impongono risposte urgenti ed efficaci, allo scopo di non recidere i rapporti con il mondo esterno. I posti disponibili nelle carceri italiane sono 50.931, cui vanno sottratti quelli resi inagibili nei giorni scorsi. I detenuti presenti, alla fine di febbraio, erano 61.230. Alcuni istituti arrivano a un tasso di affollamento del 190%. Ogni giorno i detenuti sentono dire alla televisione che bisogna mantenere le distanze, salvo poi ritrovarsi in tre persone in celle da 12 metri quadri. Le condizioni igienico-sanitarie sono spesso precarie. Nel 2019 Antigone ha visitato 100 istituti: in quasi la metà c’erano celle senza acqua calda, in più della metà c’erano celle senza doccia. Spesso mancano prodotti per la pulizia e l’igiene. Con questi numeri, se dovesse entrare il virus in carcere, sarebbe una catastrofe per detenuti e operatori. Per gli uni e per gli altri bisogna muoversi subito. Queste le proposte da noi elaborate per superare l’isolamento dei detenuti, per deflazionare il sistema penitenziario senza ripercussioni per la sicurezza, per proteggere i lavoratori. Ci auspichiamo che siano immediatamente adottate. Le nostre proposte per ridurre il numero dei detenuti e proteggere i più vulnerabili - L’affidamento in prova in casi particolari di cui all’art. 47-bis della legge 354/75 è esteso anche a persone che abbiano problemi sanitari tali da rischiare aggravamenti a causa del virus Covid-19 con finalità anche di assistenza terapeutica. - La detenzione domiciliare di cui all’articolo 47-ter, primo comma, della legge 354/75 è estesa, senza limiti di pena, anche a persone che abbiano problemi sanitari tali da rischiare aggravamenti a causa del virus Covid-19. - A tutti i detenuti che usufruiscono della misura della semilibertà è concesso di trascorrere la notte in detenzione domiciliare. - Salvo motivati casi eccezionali, i provvedimenti di esecuzione delle sentenze emesse nei confronti di persone che si trovano a piede libero sono trasformati dalla magistratura in provvedimenti di detenzione domiciliare. - La detenzione domiciliare prevista dalla legge 199 del 2010 e successivamente dalla legge 146 del 2013 è estesa ai condannati per pene detentive anche residue fino a trentasei mesi. - La liberazione anticipata è estesa fino a 75 giorni a semestre con norme applicabili retroattivamente fino a tutto il 2018. Le nostre proposte per ridurre l’isolamento dei detenuti in questa fase difficilissima - La direzione di ciascun istituto penitenziario provvederà all’acquisto di uno smartphone ogni cento detenuti presenti - con attivazione di scheda di dati mobili a carico dell’amministrazione - così da consentire, sotto il controllo visivo di un agente di polizia penitenziaria, una telefonata o video-telefonata quotidiana della durata di massimo 20 minuti a ciascun detenuto ai numeri di telefono cellulare oppure ai numeri fissi già autorizzati. - Verranno attivati canali di corrispondenza e-mail con i parenti autorizzati alle visite Le nostre proposte per la prevenzione del contagio e per sostenere lo staff penitenziario - Fornitura immediata e straordinaria di dpi a tutto il personale penitenziario. - Immediata e progressiva sanificazione di tutti gli ambienti carcerari, a cominciare dagli spazi comuni di socialità, da quelli adibiti a caserme e uffici del personale, dalle officine di lavorazioni e dai magazzini. - Piano straordinario e immediato di assunzioni di personale penitenziario - Riportare la salute in carcere al centro delle politiche sanitarie, nazionali e territoriali, attraverso il reclutamento straordinario di medici, infermieri e operatori socio-sanitari da destinare all'assistenza sanitaria in carcere. L'assunzione di specifici piani di salute e prevenzione per ogni singolo istituto penitenziario. Vanno ripresi e rafforzati il percorso, i principi e le finalità contenute nella legge vigente: deve essere garantita qualità ed uniformità degli interventi e delle prestazioni sanitarie nei confronti dei detenuti, degli internati e dei minorenni sottoposti a provvedimenti restrittivi. Antigone, Anpi - Associazione Nazionale Partigiani d'Italia, Arci, Gruppo Abele Il coronavirus ci ricorda i problemi delle carceri italiane di Francesco Neri e Stefano Anastasia poliziaedemocrazia.it, 15 marzo 2020 Un’insurrezione quasi sincronizzata che ha coinvolto molti istituti di pena, da Milano a Roma, da Modena a Palermo, da Padova a Parma, da Foggia a Lecce e Matera. 22 carceri italiane in rivolta, più di dieci morti per overdose da psicofarmaci o soffocamento. Da anni non accadeva nulla del genere nel sistema penitenziario italiano. Dalla metà degli anni Ottanta e dalla riforma della legge Gozzini (che vieta una pena detentiva in violazione dei diritti umani e introduce alcune possibilità per ridurre le restrizioni personali a cui è sottoposto un detenuto) la popolazione carceraria ha sempre trovato il modo per far sentire la propria voce e per affermare i propri diritti. Era possibile evitare quanto accaduto? È stato commesso qualche errore dal ministro della giustizia? Come si esce da questa situazione? La parola a Stefano Anastasia Come era facile prevedere, l’emergenza del coronavirus ha squadernato tutti i problemi delle carceri italiane: dal sovraffollamento alle condizioni igieniche, dalla rigidità nell’accesso alle alternative al carcere alla disperazione di una popolazione detenuta senza prospettive di effettivo reinserimento sociale. Questa volta la protesta non è individuale, né silenziosa, non si consuma nel silenzio della propria stanza o attaccati a una bomboletta. Siamo tornati alle occupazioni delle sezioni e dei tetti, come negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, con in più questo tragico risvolto delle morti in infermeria, apparentemente per abuso di farmaci e stupefacenti, spie di una sofferenza e di una dipendenza che il carcere non placa e non guarisce. Per fortuna, nel momento in cui scriviamo, non ci sono ancora notizie di aggressioni e violenze fisiche, né da parte dei detenuti, né - in maniera reattiva - da parte del personale. Va dato merito ai dirigenti amministrativi e di polizia intervenuti sul campo di aver gestito situazioni difficili evitando che degenerassero, con buona pace dei profeti di violenza che, per fortuna, non rivestono più responsabilità di Governo. Ciò detto i problemi squadernati dalla protesta sono sotto gli occhi di tutti, amplificati dall’emergenza del coronavirus. L’Amministrazione penitenziaria ha proceduto a tentoni e in maniera contraddittoria, senza dare chiare indicazioni alla periferia e al personale, che spesso ha dovuto inventarsi misure di prevenzione caso per caso. Che senso ha sospendere i colloqui dei detenuti con i familiari se il personale operante in sezione, o comunque a diretto contatto con i detenuti non è provvisto di mascherina idonea a schermare la diffusione del virus? A che serve l’autocertificazione di non avere sintomi se neanche la temperatura viene misurata all’ingresso in carcere? Così siamo partiti, senza vera prevenzione, e allora è comprensibile che i detenuti abbiano potuto ritenere la sospensione dei colloqui con i familiari non una misura di tutela della loro salute, ma una forma di discriminazione nei loro confronti. Ma il coronavirus ci ha detto che il sistema penitenziario così com’è non regge: troppi detenuti, personale in sofferenza, assistenza sanitaria insufficiente. Mentre scriviamo non sappiamo dell’evoluzione della situazione epidemiologica nelle carceri, ma se - come è realistico che sia - il virus avesse attecchito anche in uno, due, dieci o venti istituti penitenziari, come sarà stato possibile gestire le decine, centinaia, migliaia di casi di isolamento sanitario necessari, per le persone positive e per quelle che fossero entrate in contatto con loro? Difficile immaginarlo nelle nostre carceri sovraffollate. Anche questo è un rischio di un sistema in perenne emergenza, che quando poi se ne aggiunge una dall’esterno il tutto non regga più. E allora la richiesta di diminuire e contenere la popolazione detenuta non è solo la rivendicazione strumentale di alcune centinaia di detenuti che sperano di approfittare della situazione per guadagnarsi anzitempo la libertà, ma una ragionevole proposta per risolvere l’emergenza di oggi e quella strutturale, riportando il carcere a quella extrema ratio della sanzione penale, per i reati più gravi e per i detenuti più pericolosi, su cui la qualità professionale degli operatori penitenziari può esercitarsi nel modo migliore. Ancora non sappiamo se Governo e Parlamento, sotto l’urgenza dell’emergenza, avranno il coraggio e la lucidità per dare la necessaria sterzata al nostro sistema penitenziario, ma sappiamo che di questo c’è bisogno, per il benessere dei detenuti, dei loro familiari, del personale e della comunità esterna, che ha solo da guadagnare da un carcere finalmente capace di adempiere alla propria funzione costituzionale. Il coronavirus spaventa i detenuti di Franco Negrini poliziaedemocrazia.it, 15 marzo 2020 Si diffonde il rischio del contagio e scoppia una rivolta nelle carceri italiane. Ai tempi del coronavirus, che causa la malattia respiratoria Covid-19, ai disagi che riguardano la sanità, i trasporti e l’economia del nostro Paese si aggiunge anche il problema, inaspettato e non prevedibile in questo momento, che riguarda le proteste dei detenuti dei penitenziari italiani, nate dalle limitazioni dovute alla necessità di contenimento della diffusione dell’infezione. Con conseguenze particolarmente drammatiche dal momento che ci sono stati anche alcuni morti. Le agitazioni delle persone ristrette dietro le sbarre, hanno riguardato Milano e Foggia, Alessandria e Verona, Pavia e Modena, Salerno, Roma e Palermo, Vercelli, Frosinone e Lecce. Proprio in quest’ultima città si è registrato il numero più alto dei decessi: nel capoluogo pugliese sono morti sei detenuti. Cinque probabilmente per overdose dovuta all’uso di psicofarmaci sottratti durante un assalto all’infermeria interna al carcere, uno per soffocamento a causa dei fumi provocati dell’incendio di materassi durante le proteste. Altre tre morti sono state registrate nel carcere di Mantova. Nel primo pomeriggio del giorno 9 marzo due agenti sono rimasti lievemente feriti nelle fasi più concitate delle proteste, prima che il personale del carcere - una ventina tra poliziotti e sanitari - fosse fatto uscire. Sul posto è arrivato anche il prefetto della città, assieme alle forze di polizia che si sono schierate di fronte alla struttura da cui è stato visto uscire del fumo, probabilmente a causa di un incendio di materassi. Poi, in tarda serata, la notizia della morte di un detenuto. Secondo il Sap, il sindacato della polizia penitenziaria, i carcerati “chiedono provvedimenti contro il rischio dei contagi” ha spiegato il segretario Aldo Di Giacomo. La sospensione dei colloqui, prevista dalle misure anti-coronavirus, è stata alla base della protesta nel carcere napoletano di Poggioreale, dove alcuni detenuti sarebbero saliti sui muri del cosiddetto ‘passeggio’, nella zona interna del penitenziario. Parallelamente, al di fuori del carcere, c’è stata la protesta dei parenti dei carcerati, anche loro per lo stesso motivo. Indulto, amnistia o arresti domiciliari è ciò che hanno chiesto per i loro familiari reclusi, bloccando anche il passaggio dei tram. La protesta è rientrata nel tardo pomeriggio. Al pronto soccorso dell’ospedale civile di Baggiovara sono state invece medicate tre guardie e sette sanitari con ferite non preoccupanti; uno di questi è risultato lievemente intossicato. Sono stati 18 - secondo il Policlinico di Modena - i pazienti trattati nei posti medici avanzati (Pma), la maggior parte per intossicazione. I più gravi, 6 detenuti, sono stati trasportati ai pronto soccorso cittadini, quattro in prognosi riservata, ricoverati in terapia intensiva: due al policlinico di Modena, uno a Baggiovara e uno a Carpi. Detenuti in rivolta sui tetti anche nel carcere di San Vittore. I detenuti milanesi avrebbero sfasciato alcuni ambulatori e dato fuoco a delle lenzuola, gridando “libertà, vogliamo la libertà”. Sul posto gli agenti di polizia in assetto antisommossa e il pubblico ministero Alberto Nobili per trattare con i detenuti. Sono rientrati nelle celle anche i detenuti del carcere di Pavia che avevano devastato la struttura. Scesi dai tetti dopo una trattativa con il procuratore aggiunto pavese Mario Venditti. Da quanto ha riferito il procuratore aggiunto, tutti i detenuti dell’istituto penitenziario di Pavia sono usciti dalle celle e sono saliti addirittura sui tetti all’interno della struttura. “C’è stata una gran confusione - ha detto Venditti - e alcuni atteggiamenti che sono stati equivocati” e che hanno fatto credere a chi del personale del carcere era presente per sedare la rivolta, a un sequestro e al pestaggio di due agenti. Fatto, quest’ultimo, che il procuratore ha smentito: “nessun atto di violenza, nessun sequestro” ha spiegato, aggiungendo che non si è trattato nemmeno di “un regolamento di conti tra detenuti”. A Foggia invece i detenuti sono riusciti a forzare il cancello dell’area, la block-house, che separa il penitenziario dall’esterno. Anche qui naturalmente non sono mancati momenti di tensione, con incendi e feriti. Alcuni hanno rotto le finestre e distrutto i reparti, altri si sono arrampicati sui cancelli chiedendo l’indulto. Un gruppo è persino riuscito ad evadere. Poi catturati in strada. A tentare la fuga sarebbero stati una cinquantina e ne sarebbero stati rintracciati 36. Si può immaginare il caos. Carceri italiane, la cura che può sanare un sistema malato da tempo di Simone Lonati piolatorre.it, 15 marzo 2020 I provvedimenti dell’amministrazione penitenziaria per far fronte all’emergenza sanitaria di questi giorni hanno scatenato rivolte in molte carceri. Ma la situazione di oggi mette a nudo problematiche antiche, che ora richiedono soluzioni urgenti. La scintilla delle rivolte - Tutti gli studi sociologici spiegano che il carcere è un punto di osservazione particolare attraverso cui è possibile studiare la società e valutarne il grado di civiltà. È da questa convinzione che occorre partire per interpretare gli avvenimenti che hanno sconvolto le nostre carceri in questi giorni: in ventidue istituti sull’intero territorio nazionale sono avvenute sommosse; nelle carceri di Modena e Rieti tredici reclusi hanno perso la vita; a Foggia ne sono evasi 75; a Melfi e Pavia sei agenti penitenziari sono stati sequestrati; a Rebibbia 90 agenti della polizia penitenziaria sono rimasti feriti. La scintilla da cui sono scaturite le rivolte sono stati i provvedimenti giustamente adottati dall’amministrazione penitenziaria per far fronte all’emergenza sanitaria: interruzione dei colloqui con i familiari (rimane comunque la possibilità di fare tre telefonate alla settimana di dieci minuti e di utilizzare la piattaforma Skype), sospensione dei permessi premio, dei provvedimenti di ammissione al lavoro all’esterno, imposizione di restrizioni ai rapporti dei carcerati con il mondo esterno (viene limitato l’accesso a volontari e associazioni). Perché queste misure abbiano scatenato le inaccettabili violenze degli scorsi giorni è una domanda a cui non è possibile dare una risposta univoca. Certamente, vi è stato un difetto di comunicazione tra le autorità e la popolazione detenuta: le ragioni che giustificano le misure adottate non sono state spiegate, o comunque non sono state comprese. Anche la componente emotiva ha svolto un ruolo importante: la preoccupazione per il diffondersi dell’epidemia - che tutti noi cittadini liberi proviamo - ha inevitabilmente colpito, nelle forme più accentuate, le persone ristrette negli istituti penitenziari, improvvisamente private della possibilità di qualunque contatto con il mondo esterno. In più, chi conosce da vicino la realtà delle carceri italiane ha fin dall’inizio compreso come le violenze dei giorni scorsi siano la conseguenza di un sistema carcerario pronto a scoppiare da tempo, anche a prescindere dall’emergenza sanitaria. È quindi necessario chiedersi quali siano i numeri all’interno delle carceri italiane. Secondo i dati del ministero della Giustizia, le persone detenute in carcere in Italia sono attualmente 61.230 per una capienza regolamentare di 50.931 posti, con un tasso di sovraffollamento pari al 119 per cento. In Lombardia, regione in cui il tasso di sovraffollamento tocca il 140 per cento, gli ospiti delle carceri sono 8.720 per soli 6.199 posti. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato più volte il nostro paese per il trattamento “inumano e degradante” al quale sono sottoposti i detenuti in alcuni nostri istituti penitenziari: celle in cui lo spazio a disposizione di ciascuno è di soli tre metri quadri. Forse, è necessario chiedersi quale potrebbe essere il giudizio della Corte di Strasburgo sulle condizioni in cui sono costretti a vivere i nostri detenuti in piena emergenza sanitaria. Si pensi solo alla realtà di una cella alla luce della ormai nota prescrizione di mantenere “almeno un metro di distanza” nelle relazioni tra persone: si tratta (almeno nel 50 per cento dei casi nei 189 istituti penitenziari italiani) di ambienti chiusi per la maggior parte delle ore del giorno, popolati a volte da otto detenuti contemporaneamente, dove la promiscuità e la condivisione di umori, sudori, liquidi è inevitabile. Le misure da prendere - Di fronte a questa realtà, che rischia di aggravarsi a causa degli scontri dei giorni scorsi, è chiaro che occorrono misure specifiche e urgenti. Anche in questo caso, i numeri ci possono dare un’idea: ci sono 8.682 persone detenute che devono scontare una pena residua inferiore a dodici mesi e altre 8.146 con pene tra uno e due anni. Al di là delle proposte di amnistia e indulto - inattuabili in questo contesto politico - è necessario che il governo utilizzi la decretazione d’urgenza per organizzare una task force, composta non solo dai magistrati di sorveglianza ma anche dai magistrati ordinari per il momento sollevati dal carico delle udienze, che si occupi di valutare le istanze presentate ai sensi della legge n. 199 del 2010 (richiesta di esecuzione domiciliare delle pene) almeno per questi detenuti. Si potrebbe così garantire in tempi brevi a detenuti e personale penitenziario quella distanza di sicurezza che al momento risulta essere l’unico antidoto contro il propagarsi incontrollato dell’epidemia. Infine, un’ultima raccomandazione. L’Italia è uno dei paesi con più personale in carcere, più che in Spagna, in Francia, in Germania o nel Regno Unito, tutti paesi in cui ci sono più detenuti che da noi. Ma da noi il personale è costituito quasi esclusivamente da agenti di custodia. Psicologi sono lo 0,1 per cento, contro una media europea del 2,2 per cento, mentre medici e paramedici sono lo 0,2 per cento, contro il 4,3 per cento della media europea. Significa che nel nostro paese l’idea della pena è ancora legata, nei fatti in maniera assolutamente prevalente, alla dimensione custodiale. Eppure, l’articolo 27 della Costituzione continua ad affermare che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Mai come in questa situazione di emergenza sanitaria, psicologi e personale medico potrebbero, se non fare la differenza, certamente aiutare. Coronavirus, le rivolte in carcere hanno mostrato i problemi che lo affliggono di Achille Saletti* Il Fatto Quotidiano, 15 marzo 2020 La rivolta nelle carceri italiane ci rimanda indietro con la memoria ad altre rivolte. Credo, però, che ciò che è accaduto nei giorni scorsi sia, per numero di morti e carceri coinvolte, sommossa di gran lunga peggiore rispetto a quelle passate. Oltre 40 anni fa, il carcere presentava due gerarchie che, in maniera non scritta, ne regolavano la vita. Da una parte i detenuti politici e dall’altra i mammasantissima delle mafie. Le rivolte venivano orchestrate dai primi per ovvi motivi ideologici e oggettive ragioni legate a carcerazioni che incarnavano forme dilatate di tortura. Talvolta i secondi si associavano e talvolta no. Ma oggi, con un carcere totalmente diverso, la cui composizione è fatta da cani sciolti, il più delle volte veri disperati, le ragioni di tale rivolta sono da addebitarsi esclusivamente alla totale abulia con cui la società civile, la politica, l’intero mondo esterno al pianeta carcere ne nega gli enormi problemi, forse, traendone anche una personale soddisfazione. Il luogo comune per cui se uno è dentro lo merita, sfocia nelle rappresentazioni sociali legate ad una concezione della pena detentiva ottocentesca, punitiva, vendicativa. Esattamente il contrario di ciò che la Costituzione, scritta da uomini che le carceri le conoscevano, raffigurava in termini di pena. Esattamente il contrario. Accade che coloro che più di altri si sbracciano definendosi, custodi di detta Costituzione e che, onore enorme, ne vestono i panni di ministro della Giustizia, in realtà, appartengono alla schiera di coloro che del luogo comune ne sono i più convinti sostenitori. Pensando di governare le carceri come si governava le colonie penali del secolo scorso in tempi di pace rimangono inerti. In tempi di guerra rimangono indignati e sorpresi dal fatto che il carcerato ridotto a rango di bestia, si ribelli. Molti anni fa un criminologo David Garland (D. Garland, 2001, The culture of control) descrisse, con grafici e statistiche, le svolte securitarie verso le quali le democrazie - mancando ogni forma di immaginazione altra - si stavano avviando facendo del carcere una riedizione riveduta e corretta di ciò che, le discariche, rappresentano per i rifiuti. Chiaramente la voce “sostanze stupefacenti illegali” fu una delle cause di tale scelta. Discariche sociali che, come sempre avviene in tempi di risposte uniche a condotte disfunzionali, oltre al criminale, iniziarono ad intercettare la sofferenza psichica. In questi ultimi 30 anni la popolazione carceraria è più che raddoppiata pur in presenza di reati gravi in diminuzione. Ed allora ci si domanda: ma chi affolla le celle delle nostre carceri? La risposta è semplice. Il carcere è affollato da persone che di tutto avrebbero bisogno meno che del carcere stesso. Tolta una percentuale minore di persone i cui agiti violenti necessitano, in primis, di un contenimento, per il resto le carriere criminali si presentano per ciò che realmente sono: fallimenti esistenziali. Fallimenti che il carcere reitera con accanita perseveranza nella piena consapevolezza che di tale fallimento è parte in causa. Il paragone con le discariche ambientali ha un suo interesse perché, negli ultimi anni sono state messe in discussione e si cercano, a partire dal riciclaggio, soluzioni nuove. Il carcere, discarica sociale, al contrario, viene ritenuto sempre più centrale ed attuale, una sorta di farmaco generico che cura, si suppone, un poco tutte le malattie non curandole affatto. Pochissime le voci “ecologiche” che indicano altre direzioni. Straordinario no? In pratica, il carcere, in questi anni, ha perfezionato sé stesso aumentando le storie fallimentari e allontanandosi sempre di più dal precetto costituzionale. Il ministro Bonafede, a questo punto, non sappiamo più quale Costituzione voglia difendere. E quando cita la parola legalità qualche suo consigliere dovrebbe sussurrare che prima ancora dei detenuti ribelli, chi viola la legalità e lo Stato che il ministro rappresenta. E la viola da anni, negando condizioni minime di convivenza ad agenti e detenuti, negando assistenza sanitaria e negando risorse e azioni tese a concretizzare il famoso precetto costituzionale. Rimasto lettera morta. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Faccia un giro nelle carceri, ministro, e si renda conto che di tutto ciò poco o nulla esiste. *Criminologo, dirigente Impresa Sociale Anteo Carceri affollate molto pericolose di Arrigo Cavallina L’Arena di Verona, 15 marzo 2020 Non ci sono giustificazioni per le violenze, le aggressioni, i vandalismi, gli incendi avvenuti in molte carceri. Mostrano sia esasperazione, sia incapacità da parte dei reclusi più fragili di affrontare i problemi con realismo ed efficacia, fragilità che si presta a strumentalizzazioni da parte di organizzazioni criminali e resa tragicamente evidente dall’assalto alle bottiglie di metadone e dalle morti per overdose. Ma non giustificare non significa non cercare invece di capire, per intervenire consapevolmente e rimuovere o ridurre le cause di questi episodi. Ancora nel 2013 la Corte Europea, aveva accertato, riguardo al sovraffollamento carcerario, la violazione da parte dell’Italia dell’art. 3 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. Per adeguarsi alla sentenza (ma, si spera, anche per un’esigenza etica) l’Italia ha adottato un pacchetto di provvedimenti, tra i quali soprattutto l’incremento delle misure alternative al carcere, che hanno portato alla progressiva diminuzione di oltre 13.000 del numero dei detenuti alla fine del 2015, quando hanno toccato poco più di 52.000. Da allora ad oggi, malgrado una costante tendenza alla diminuzione dei reati, il numero dei detenuti ha ripreso a salire raggiungendo alla fine di febbraio scorso i 61.230, a fronte di 50.931 posti teorici, ma che in pratica sono ancora meno. Alla stessa data il nostro carcere di Montorio contava 511 detenuti a fronte di 335 posti. In questa situazione, di più persone costrette a convivere in celle fiato contro fiato, a passeggiare stipate in corridoi o spicchi di cortile, noi “liberi” ci sentiamo raccomandare o imporre di evitare raggruppamenti, di stare ad oltre un metro l’uno dall’altro. E mentre cominciamo a preoccuparci per la salute dei nostri cari e dei nostri amici, ai detenuti vengono bloccati i colloqui con i familiari; provvedimento ragionevole, ma teniamo conto che si tratta della principale, per molti unica luce della settimana o di periodi più lunghi. E neanche le telefonate e le conversazioni in Skype, malgrado le raccomandazioni ministeriali, sono incrementate o introdotte dappertutto, anzi. Anche i volontari non possono entrare, le attività sono tutte sospese. Noi in casa sappiamo arrangiarci, abbiamo telefoni, computer, film, soprattutto risorse personali a disposizione per impiegare il tempo. Ma per chi non ha niente di tutto questo, cosa diventano le giornate? Concentrazione di persone, in tutti i ruoli di detenuti e operatori, è anche concentrazione di rischio virus, una bomba potenziale. Cosa si poteva e si può ancora fare? Diminuire le presenze, alleggerire il rapporto tra reclusi, spazi e personale (sanitario, di vigilanza, educativo…). E potenziare veramente, in ogni istituto, le possibilità di comunicazione che le tecnologie consentono. Lo stanno chiedendo da tempo un po’ tutti quelli (magistrati, avvocati, personale penitenziario, volontari) che hanno competenza nel settore. Certo, in tempi in cui si costruiscono consensi con frasi come “devono marcire in galera”, sembra impopolare o poco populista ispirarsi alla Convenzione per i diritti dell’uomo e alla nostra Costituzione. Il carcere andrebbe riservato ai casi di effettiva necessità e pericolosità, mentre altre specie di intervento penale, già previste dalla legge, si confermano molto più efficaci nel sanare gli strappi ed evitare il ritorno all’illegalità. Dei 61.230 detenuti, circa un quarto sono tossicodipendenti, che andrebbero curati in strutture adeguate. I presunti innocenti, cioè ancora in attesa di una condanna definitiva (che per molti sarà un’assoluzione definitiva) sono 18.952. Al 31-12-19 ben 8.682 avevano da scontare un residuo di pena inferiore ad un anno, e addirittura 23.000 (quasi il 38%) inferiore a tre anni. Chi sarebbe danneggiato se, già con le norme in vigore o con una lieve estensione, molti potessero trasferirsi agli arresti o detenzione domiciliare, o se un qualche altro provvedimento desse respiro alla pericolosa compressione delle carceri? Rivolte nelle carceri, frutto del disinteresse delle istituzioni ilfriuli.it, 15 marzo 2020 Per l’eurodeputato Zullo “ciò che sta accadendo non è solo una reazione al Covid-19. Intervenire a fronte di un sistema al collasso”. L’europarlamentare Marco Zullo (M5S) interviene duramente contro la gestione del sistema carcerario da parte del Ministero e del Dap, a seguito delle proteste e delle rivolte di questi giorni: “Questi gravi atti, che hanno portato persino alla morte di 13 persone, non sono semplici reazioni alla situazione di emergenza legata al Covid-19. Per quanto esecrabili ed ingiustificabili, tali comportamenti sono il frutto di anni di disinteresse per l’intero comparto penitenziario da parte delle istituzioni e di tensioni sempre pronte a scoppiare, ancor più in situazioni di emergenza”. E aggiunge: “sono la diretta conseguenza della totale dimenticanza di un intero settore e delle vite di tutte le persone che vi gravitano attorno: detenuti, polizia penitenziaria, dirigenti, e rispettivi familiari. La scintilla, questa volta, è stata la sospensione dei colloqui con i familiari e la paura di essere in grave pericolo di contagio da Covid-19, ma le polveri che sono esplose sono fatte di sovraffollamento, di mancanza di servizi essenziali e di un sistema giustizia al collasso di cui detenuti e operatori penitenziari pagano il conto”, continua l’eurodeputato. “L’Italia, già duramente condannata dalla Corte di Strasburgo per il sovraffollamento carcerario, dovrebbe affrontare seriamente e urgentemente questo problema. A tal proposito - prosegue Marco Zullo - accolgo con favore le dichiarazioni della Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano circa le misure che intende adottare per alleggerire le carceri quanto più possibile in seguito all’emergenza Coronavirus e circa la volontà di richiedere al Ministero e al Dap che si prendano sulle spalle la responsabilità del sovraffollamento - continua Zullo - e prevedano modifiche normative in modo da alleviare la permanenza in carcere”. “Credo nell’importanza di creare, a tal fine, sinergie tra le strutture penitenziarie e le tante virtuose realtà locali. Per questa ragione, già da mesi stavo lavorando ad un progetto di reinserimento che coinvolgerà i soggetti sottoposti a misure di sicurezza. Questo, con la collaborazione della direttrice del carcere di Modena - a cui va tutta la mia solidarietà e vicinanza - e il coinvolgimento di alcune associazioni di volontariato del Distretto fortemente impegnate da anni in questo settore. Spero che il nostro lavoro possa riprendere al più presto per poi esser riprodotto in altre Regioni”. In merito alle possibili soluzioni a fronte della crisi carceraria, Zullo passa a proposte concrete: “auspico che tutti i tribunali di sorveglianza adoperino al massimo gli strumenti di legge che consentono la detenzione domiciliare a chi ha un residuo breve di pena; che la sussistenza di patologie a rischio in caso di contagio sia fatta rientrare tra le ipotesi di concessione della detenzione domiciliare e dell’affidamento ai servizi sociali; similmente, ai detenuti in semilibertà, già dunque valutati come non pericolosi, potrebbe essere concessa la possibilità di dormire a casa; così come proposto da Antigone ed altre importanti realtà. Poi, superata la situazione di crisi, si dovrà pensare ad affrontare i gravi problemi strutturali e ripensare il sistema punitivo in termini di maggiore efficacia in termini rieducativi e di risocializzazione. Senza considerare che il sovraffollamento carcerario è il frutto di una molteplicità di concause tra cui la lunghezza dei processi e una cattiva applicazione delle norme custodiali: basti pensare che un terzo dei detenuti sono soggetti sottoposti a custodia cautelare, cioè persone che attendono in carcere di essere giudicate, anche quando sarebbero sufficienti altre misure meno invasive”, conclude Zullo. Più domiciliari con i braccialetti elettronici. Ma è sempre polemica sul capo del Dap di Liana Milella La Repubblica, 15 marzo 2020 Braccialetti elettronici per diminuire la popolazione carceraria, ovviamente garantendo l’uscita solo a chi ne ha già maturato i titoli. Braccialetti che sarà il neo-commissario per l’emergenza Coronavirus Domenico Arcuri a reperire nel numero necessario. Contemporaneamente misure severe di controllo all’interno delle carceri attraverso termo-scanner e isolamento degli eventuali malati in aree specifiche. Quanto agli uffici giudiziari un’ulteriore proroga della chiusura che slitterebbe dal 22 marzo al 3 aprile (ma la data è ancora ballerina), lasciando invece ai singoli capi degli uffici (Corti di appello e Procure), previa verifica con le autorità sanitarie, ulteriori chiusure a seconda dell’emergenza virus, fino al 31 maggio, come disposto dal precedente decreto. Fatti salvi solo i processi civili urgenti (assegni di divorzio e minori) e penali (convalide di nuovi detenuti) che proseguiranno, ma solo in teleconferenza, ovunque è possibile. Il Guardasigilli Alfonso Bonafede lavora in queste ore a un nuovo decreto legge per affrontare l’emergenza Covid-19 soprattutto dopo la rivolta nelle carceri che, nello scorso week end, ha coinvolto ben 27 penitenziari, danneggiando gravemente quello di Modena, al punto da renderlo del tutto inagibile. Solo per i danni il governo stanzierà in tutto, tra 2020 e 2021, 20 milioni di euro, in due tranche da 10 milioni per ciascun anno. Ma è la novità dei braccialetti elettronici, trapelata in vista del consiglio dei ministri di domenica, quella che da un lato già solleva le proteste di Salvini - “Nessun regalo per chi ha creato sommosse, prima il governo si preoccupi di dare alle forze dell’ordine, agli eroi, mascherine, guanti e disinfettante” - e dall’altro rivela l’intenzione dell’esecutivo di procedere effettivamente a una politica che allenti la pressione numerica sulle carceri. Che, a tutt’oggi, come dice il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, hanno una popolazione di oltre 60mila detenuti, cioè diecimila in più dell’effettiva capienza. Come ha suggerito con molta insistenza il Pd, a ridosso delle rivolte, vi è una sola strada, nell’immediato, per far uscire dei detenuti, sempre con il parere favorevole dei magistrati di sorveglianza. Chi ha di fronte a sé un fine pena di pochi mesi e ha alle spalle un curriculum carcerario positivo, ed è in grado di dimostrare un’effettiva riabilitazione già avvenuta. E chi invece si trova già in una condizione di semilibertà, per cui può lasciare il carcere durante il giorno ma deve farvi rientro la sera. Già questi detenuti ammonterebbero a 5.500-6mila persone che potrebbero uscire dalle prigioni. Il braccialetto elettronico - che attualmente sfrutta un sistema Gps e quindi consente di localizzare gli spostamenti del detenuto - potrebbe ulteriormente ampliare questa platea. Ma, come sottolineano fonti ministeriali, si tratterebbe sempre di situazioni che devono passare per il via libera del magistrato di sorveglianza, e quindi da una rigorosa verifica dell’affidabilità dei soggetti interessati. Mentre Matteo Renzi insiste sempre sulla richiesta di dimissioni per l’attuale capo del Dap Francesco Basentini, proprio lo stesso Basentini ha firmato una circolare sulle misure anti Coronavirus che in realtà, a scorrerla, appare decisamente tardiva. Il direttore dei penitenziari raccomanda solo oggi ai colleghi in periferia, e a rivolte già avvenute, di procurarsi dei termo-scanner dai presidi sanitari e procedere ai tamponi, di creare aree ad hoc per quei detenuti che dovessero risultare positivi alla malattia, nonché ordina agli agenti penitenziari, pur in presenza di ammalati, di non abbandonare il luogo di lavoro per esigenze di sicurezza. Secondo quanto riferisce l’agenzia Ansa, la circolare dice che gli agenti che lavorano nelle carceri devono comunque continuare a prestare servizio anche nel caso in cui abbiano avuto contatti con persone contagiate o che si sospetti siano state contagiate, in quanto “operatori pubblici essenziali” e nell’ottica di “garantire nell’ambito del contesto emergenziale, l’operatività delle attività degli istituti penitenziari” e quindi di “salvaguardare l’ordine e la sicurezza pubblica collettiva”. Da registrare infine l’allarme lanciato da Antigone, Anpi, Arci e gruppo Abele che al governo scrivono: “I posti disponibili nelle carceri sono 50.931, cui vanno sottratti quelli resi inagibili nei giorni scorsi. I detenuti presenti, alla fine di febbraio, erano 61.230. Alcuni istituti arrivano a un tasso di affollamento del 190 per cento. Ogni giorno i detenuti sentono dire alla televisione che bisogna mantenere le distanze, salvo poi ritrovarsi in tre persone in celle da 12 metri quadri. Le condizioni igienico-sanitarie sono spesso precarie. Nel 2019 Antigone ha visitato 100 istituti: in quasi la metà c’erano celle senza acqua calda, in più della metà c’erano celle senza doccia. Spesso mancano prodotti per la pulizia e l’igiene. Con questi numeri, se dovesse entrare il virus in carcere, sarebbe una catastrofe per detenuti e operatori”. Carceri, prime (e poche) misure contro il contagio di Eleonora Martini Il Manifesto, 15 marzo 2020 Nelle carceri “si rischia la catastrofe, bisogna muoversi adesso”, è il grido d’allarme lanciato ieri dall’associazione Antigone che con Anpi, Arci e Gruppo Abele offre al governo una serie di proposte. Il pericolo che l’epidemia dilaghi tra le 61 mila persone stipate in celle sovraffollate “a volte fino al 190% della capienza regolamentare” e con scarsa igiene, con conseguenze indicibili per il sistema sanitario già al limite, inizia a diventare visibile anche agli occhi del ministro di Giustizia e del capo del Dap. Secondo indiscrezioni di Palazzo Chigi, il Guardasigilli Bonafede pur con molte riserve starebbe studiando un pacchetto di norme, da inserire nel Dpcm al vaglio oggi del Consiglio dei ministri, per velocizzate l’attivazione di quei braccialetti elettronici bloccati da più di un anno (per inadempienze dell’allora ministro dell’Interno Salvini) che permetterebbero di alleggerire il sovraffollamento dei penitenziari. Nel frattempo, mentre nelle celle è tornata una calma apparente (a Civitavecchia “da due giorni i detenuti hanno iniziato uno sciopero della fame per manifestare pubblicamente la loro sofferenza e preoccupazione”, denuncia il Garante del Lazio Stefano Anastasia) il capo del Dap Francesco Basentini ha inviato una circolare ai provveditori regionali e ai direttori degli istituti con le “indicazioni operative per la prevenzione del contagio”. Si raccomanda di: acquisire termo-scanner per misurare la febbre ai “nuovi giunti” e al personale che fa ingresso ogni giorno in carcere o comunque prendere contatti con le Asl per il monitoraggio; “favorire in ogni modo” l’utilizzo di mascherine e guanti da parte degli agenti; approntare “locali dedicati” all’interno del carcere dove mettere in isolamento sanitario eventuali detenuti positivi al Coronavirus; limitare le traduzioni e i trasferimenti solo a urgenti “motivi di salute” e per “situazioni di necessità”. I tamponi però non saranno eseguiti in massa, ma solo in presenza di “elementi specifici che lo rendano necessario”. E saranno i medici delle Asl, che servono tutta la cittadinanza, a dover recarsi in carcere per eseguirli. Per quanto riguarda la polizia penitenziaria, il Dap stabilisce che gli agenti debbano continuare a prestare servizio anche nel caso in cui “abbiano avuto contatti con persone contagiate”, anche se “esonerati dai servizi operativi a contatto con la popolazione detenuta”, in quanto “operatori pubblici essenziali” e nell’ottica di “garantire l’operatività delle attività degli istituti penitenziari” durante l’emergenza. Circolare del Dap: locali ad hoc per i malati e i casi sospetti di coronavirus ansa.it, 15 marzo 2020 Una sezione in ogni carcere dedicata ai malati e ai casi sospetti di coronavirus, dove sia garantito l’isolamento. Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini interviene con una nuova Circolare per fronteggiare l’emergenza Coronavirus nelle carceri con raccomandazioni a Provveditori e direttori degli istituti penitenziari. La circolare prevede che i detenuti in arrivo, i cosiddetti nuovi giunti siano sottoposti a triage prima dell’ingresso. E in caso di necessità vadano isolati “in apposita sezione già individuata dalla Direzione” di ogni carcere: devono stare in camera singola, “con servizi igienici a uso esclusivo”. In tali sezioni gli operatori penitenziari devono essere muniti dei necessari dispositivi: mascherine Ffp2 guanti e visiera. Dispenser con soluzioni disinfettanti devono essere presenti “in numero adeguato”, prima dell’ingresso queste sezioni. In caso di necessità di ricovero per caso sospetto di Sars-CoV2, il medico penitenziario provvederà ad informare il Direttore dell’istituto. Per quanto riguarda i detenuti già presenti in istituto, chi tra loro presenta sintomi compatibili con il Coronavirus, dovrà essere visitato dal medico presso la camera di pernottamento e non in infermeria. I suoi compagni di cella e gli altri reclusi con cui sia entrato in contatto saranno sottoposti ad accertamenti e controlli. Il tampone sarà fatto solo se necessario da personale medico o infermieristico dell’Azienda sanitaria competente, che valuterà in caso di positività se far restare il detenuto in carcere “in isolamento sanitario all’interno dell’istituto nei locali dedicati” o richiedere il ricovero in ospedale. In caso di negatività al tampone, il detenuto resterà in isolamento sanitario sino alla data definita dalle autorità sanitarie. Sono comunque vietati i contatti diretti con detenuti in isolamento sanitario: possibili solo quelli protetti (separazione completa di ambienti con vetrate e ingressi differenti) e da remoto. Gli ambienti con detenuti sospetti o contagiati dovranno essere puliti almeno una volta al giorno. Agenti restino in servizio anche se avuto contatti con sospetti Acquisire termo-scanner, cioè gli strumenti elettronici per la misurazione della febbre, o, comunque, prendere contatti con le Aziende Sanitarie Locali perché venga eseguito un monitoraggio su tutto il personale che fa ingresso nelle carceri. È la raccomandazione che il capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini rivolge a provveditori e direttori delle carceri. Ai direttori in particolare chiede anche di “favorire in ogni modo” l’utilizzo di mascherine e guanti da parte del personale di polizia penitenziaria, assicurando che l’Amministrazione “sta impiegando ogni sforzo possibile per riuscire ad ottenere, soprattutto attraverso la collaborazione della Protezione Civile, la disponibilità dei Dispositivi di protezione individuale, allo scopo di tutelare l’incolumità del personale nell’espletamento delle attività e dei servizi”. La circolare prescrive anche che il personale della polizia penitenziaria che svolge le sue funzioni presso le carceri debba continuare a prestare servizio anche nel caso in cui abbia avuto contatti con persone contagiate o che si sospetti siano state contagiate, in quanto “operatori pubblici essenziali”, e nell’ottica di “garantire nell’ambito del contesto emergenziale, l’operatività delle attività degli istituti penitenziari” e quindi di “salvaguardare l’ordine e la sicurezza pubblica collettiva”. Chi ha avuto contatti con contagiati o sospetti va però esonerato dai servizi operativi in sezione a contatto con la popolazione detenuta e dai servizi di traduzione. E, se presenta sintomi simili all’influenza o febbre, deve astenersi dall’ingresso in carcere. Se ciò dovesse accadere durante il servizio, il personale di Polizia Penitenziaria dovrà immediatamente munirsi di mascherina chirurgica, lasciare l’istituto, avvertire il proprio medico curante e l’autorità sanitaria. Bonafede e il disastro carceri: sue azioni hanno causato 13 morti, dimissioni subito di Valerio Spigarelli Il Riformista, 15 marzo 2020 Bisognerebbe segnarsi il nome: Bonafede Alfonso, occupazione ministro della Giustizia, come nei mattinali della questura. Poi, passata la bufera, rimesse a posto le cose, o magari subito, chiedere che uno dei peggiori ministri della storia repubblicana si faccia da parte. Non è infatti revocabile in dubbio che l’attuale ministro sia riuscito a dimostrarsi totalmente inadeguato sia prima che durante la crisi del coronavirus. È bene tenere il conto delle imprese del caudillo della giustizia a 5 stelle, perché, altrimenti, visto anche lo sconto che gli fanno alcuni rappresentanti di vertice dell’avvocatura, poi uno se le dimentica al momento giusto e magari ce lo ritroviamo ministro ancora per un pezzo. Bonafede è, per chi se lo fosse dimenticato, il ministro che fa sfilare un detenuto, Battisti, in manette, avanti a se stesso ai piedi della scaletta dell’aereo che ha riportato il detenuto in patria. Visto che c’è si traveste da agente della polizia penitenziaria accanto a Salvini mascherato da poliziotto. Poi manda su fb un video mentre Battisti sbriga le prime pratiche dell’arresto, con sottofondo musicale. Esibisce il suo trofeo: l’uomo in ceppi. Come in una repubblica centroafricana, e speriamo che nessuno, da quelle parti, si arrabbi per il paragone; o meglio come in una quadretto di Petrolini con lui nelle vesti di un imperatore romano della giustizia ai fori imperiali col barbaro in catene. Bonafede si intesta, licenzia, sostiene, una norma incostituzionale, oltre che scritta male, che vuole applicare retroattivamente il regime carcerario dei mafiosi anche ai condannati per reati contro la pubblica amministrazione. Pure a quelli condannati per avere fregato le penne biro in ufficio o messo 10 euro di benzina di straforo. Poi, quando la Corte gliela boccia, dice che non si è sbagliato lui, ma la giurisprudenza precedente. Bonafede introduce una norma che estende l’uso del captatore informatico dentro casa dei cittadini e un’altra che blocca la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, cose che tutto il mondo giuridico ritiene aberranti. Sulla prescrizione ha idee precise, anche se inguardabili, mentre sul dolo e la colpa è un tantino confuso. Prima arriva a dire che quando non si riesce a dimostrare il dolo allora ci si deve accontentare della colpa, come se la seconda fosse una forma attenuata del primo, poi, dopo che sui social lo massacrano di meme irriverenti e in tanti ne chiedono le dimissioni, recita a soggetto un qualche appunto degli uffici ministeriali che tenta di metterci una pezza tirando in ballo il dolo eventuale e la colpa cosciente che c’entrano come i cavoli a merenda. Nel tentativo di uscire dal pantano giuridico in cui si è immerso se ne esce dicendo che da noi gli innocenti non vanno in carcere; da noi, nel paese dove - nonostante una giurisprudenza che in tutte le maniere mette i bastoni tra le ruote di chi vuole un ristoro per aver perso ingiustamente la libertà - gli indennizzi per ingiusta detenzione ammontano, dal 1992 a oggi, a oltre 600 di milioni di euro. Veniamo ai nostri giorni. Scoppia la faccenda coronavirus e il nostro pencola tra la faccia feroce di chi vuole dimostrare che le cittadelle giudiziarie sono l’ultima ridotta della normalità e la presa d’atto che occorre chiudere baracca e burattini. Solo che come al solito non sa che fare perché gli mancano i fondamentali. E allora, orecchiando di qua e di là, alla fine fa una cosa pensando di averne fatta un’altra. Quando licenzia un decreto pasticciato annuncia urbi et orbi che, raccogliendo i suggerimenti dell’avvocatura, ha applicato la normativa sul periodo feriale dall’8 al 22 marzo. Il che dovrebbe significare che anche la decorrenza dei termini processuali è sospesa. Questione importantissima per le attività giudiziarie poiché si applicherebbe anche al deposito degli atti di appello e ai ricorsi per Cassazione. Peccato che non è vero: ha sospeso solo i termini relativi ai processi che si rinviano, cioè praticamente niente. Di nuovo sui social lo massacrano dandogli dell’incompetente, i più educati. Nello stesso provvedimento sospende i colloqui tra i detenuti e i familiari che, a parole, sostituisce con colloqui telefonici o telematici ma lo fa senza preparare il campo predisponendo la concreta possibilità che questo avvenga. Morale, i detenuti sono impossibilitati ad avere contatti con i familiari, o perlomeno così capiscono, e scoppia la rivolta nelle carceri. Muoiono tredici detenuti e il ministro di Giustizia che si affaccia su Facebook il 9 marzo fa la faccia dura, ringrazia mezzo mondo ma neppure cita i morti. Un silenzio gravissimo, che per la verità lo vede in buona compagnia, visto che affratella tutta la classe politica e i media che riportano appena la cosa senza chiedere spiegazioni. Nel decreto che pubblica, visto che c’è, scrive che i colloqui sono sospesi anche con le altre persone “cui hanno diritto i condannati, gli internati e gli imputati secondo l’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario”. Cioè, a leggere la stessa norma, i difensori. Vai a capire se era questa l’intenzione ma quando è troppo è troppo, e quindi, dopo le prime incertezze e il conseguente caos, alla fine ogni direttore fa a modo suo: dapprima in alcune carceri gli avvocati entrano in altri no, poi entrano tutti. Del resto tutti capiscono che l’8 marzo per la giustizia si legge 8 settembre. Qualcuno si organizza per i fatti suoi perché comprende che del potere politico l’unica cosa certa è l’incompetenza. Il presidente della corte di Appello di Milano prende carta e penna e sospende i termini dal 2 al 31 marzo. Dal canto loro 26 Procuratori generali chiedono di mandare a casa il personale che, pur di fronte a una attività ridotta, è comunque costretto a recarsi presso gli uffici giudiziari, cosa che non è stata regolata fin qui da chi avrebbe dovuto farlo. Basta, si potrebbe continuare, andando a ritroso, con qualche altra dimostrazione di inadeguatezza, o di dilettantismo, ma non serve la cronaca è sufficiente la storia. Dicono tutti che stiamo in guerra e abbonda la retorica patriottarda (pure troppo quando porta a non considerare che questa voglia di uomini soli al comando e di spontanea pulsione all’abbandono dei diritti democratici deve pur essere moderata altrimenti ci abitua per via sanitaria a qualcosa che assomiglia troppo a uno Stato autoritario, ma questo è un altro discorso) dunque, visto che dobbiamo stare a casa e abbiamo tempo, apriamo i libri di storia alla voce Caporetto. Allora, per vincere la guerra, ed era una guerra vera, hanno sostituito il comandante. Ferri (Iv): “Bonafede inadeguato, si assuma sue responsabilità” di Paolo Comi Il Riformista, 15 marzo 2020 “Bonafede si faccia aiutare e non sottovaluti quanto sta accadendo nelle carceri”, dichiara Cosimo Ferri, magistrato, già sottosegretario alla Giustizia e ora parlamentare di Italia Viva. Onorevole, non è soddisfatto di come il Guardasigilli ha affrontato le rivolte di questi giorni? Il ministro è venuto mercoledì scorso in Parlamento per riferire su quanto accaduto. Purtroppo, dalla sua informativa non è emersa alcuna soluzione pur a fronte di 13 detenuti morti, 59 agenti feriti, maxi evasioni ed enormi danni all’interno delle strutture. Dove sbaglia il ministro? A me pare di tutta evidenza che Bonafede non sia all’altezza della situazione. In pieno allarme, quando l’Oms il 30 gennaio dichiarava l’epidemia Coronavirus, invece di portare in Consiglio dei Ministri con urgenza un pacchetto di misure per affrontare l’emergenza carcere, la priorità del ministro era la riforma della prescrizione. Veda un po’ lei. Ricordo che tutti i documenti segnalavano la pericolosità del virus nei luoghi chiusi e affollati ed era ovvio pensare che le 139 carceri italiane fossero tra i posti più esposti. Bisognava portare subito un pacchetto di proposte che toccasse sia modifiche dell’ordinamento penitenziario sia misure straordinarie organizzative. E invece non è stato fatto... Esatto, ma non solo: dopo quello che è accaduto, Bonafede ha continuato a non affrontare la situazione con la determinazione necessaria. Si ha l’impressione che brancoli nel buio. Non ha funzionato la linea di comando e la gestione è stata scaricata sui provveditori, sui direttori e sulla polizia penitenziaria. Anche lei è per le dimissioni del capo del Dap, Francesco Basentini? Non è il momento delle polemiche. Certamente, però, gli episodi a cui abbiamo assistito nelle carceri sono gravissimi, pericolosi per l’incolumità sia all’interno per i detenuti, i direttori, gli agenti di polizia penitenziaria, il personale amministrativo, i volontari, sia all’esterno se pensiamo al numero di evasi. Lei cosa avrebbe fatto? Andava organizzata all’inizio della diffusione del Coronavirus una riunione tra Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e magistratura di sorveglianza, studiare misure idonee per ridurre il sovraffollamento carcerario, organizzare sistemi diversi dal contatto fisico per garantire colloqui con i famigliari. Colloqui telefonici a mezzo Skype e controlli sanitari intensificati per chiunque entra in carcere sono soluzioni basilari ma occorre pensare anche a misure più efficaci, alternative alla detenzione per chi ne possa beneficiare. Lei ha lavorato con l’allora ministro Andrea Orlando alla riforma dell’Ordinamento penitenziario. Riforma rimasta nel cassetto. Bonafede, appena insediatosi, si è assunto la responsabilità di bloccarla, non offrendo soluzioni al problema del sovraffollamento. Adesso da dove bisognerebbe ripartire? Ovviamente ripristinare la legalità e fermare le violenze. E si accertino subito le cause dei decessi dei detenuti, a cui va il nostro pensiero. Le scene di questi giorni, però, danno l’idea di un sistema penitenziario allo sbando. Non si può consentire un’immagine del sistema penitenziario che non garantisce sicurezza, che consenta proteste violentissime e che non rispetti le limitazioni necessarie per garantire la salute. È emerso un sistema fragile, affidato esclusivamente alla professionalità e all’impegno del personale del settore penitenziario, a cui va la nostra solidarietà, ma senza una guida forte di un ministro della Giustizia che sappia affrontare questa emergenza. Vuole dire qualcosa a Bonafede? Bonafede, dopo quanto accaduto, ha scaricato tutto sui singoli direttori, su alcune circolari, sulla burocrazia. Si assuma, invece, le sue responsabilità e apra subito un tavolo di emergenza. Sos maltrattamenti in famiglia. “Il virus non fermi le denunce” di Maria Elena Vincenzi La Repubblica, 15 marzo 2020 Tutti dentro casa. E anche se le denunce di casi di violenza contro le donne in questa settimana sono diminuite, la situazione potrebbe essere esplosiva perché in certi casi la convivenza forzata può essere fatale. Si pensi a una donna costretta ventiquattro ore su ventiquattro nell’appartamento con il marito violento. Per questo l’attenzione della procura e delle forze dell’ordine rimane alta. Il dispositivo è quello d’urgenza già varato per il Codice Rosso che, però, per forza di cose è stato potenziato per rispettare tutte le regole sanitarie imposte dall’emergenza del coronavirus. Restrizioni che hanno imposto che, a queste condizioni, vengano trattati solo i casi particolarmente urgenti. La difficoltà, spiegano i magistrati, è quella di contemperare l’urgenza dettata dalle violenze con quella sanitaria. Ma, complice anche la riduzione degli altri reati, i pm continuano a lavorare a pieno ritmo. E ieri, proprio in quest’ottica, gli uffici della procura sono stati sanificati. Insomma, le vittime di violenza, questa la raccomandazione, non devono sentirsi sole. Tutto continua a funzionare a pieno regime. Non mancano però gli ostacoli. Uno dei problemi che i pubblici ministeri del gruppo, coordinati dal procuratore Michele Prestipino e dall’aggiunto Maria Monteleone, si sono trovati ad affrontare è stato quello delle audizioni protette dei minori. Non solo per il divieto di uscire di casa, ma anche per evitare loro contatti con più persone. Per questo, è stato escogitato un sistema che permette l’ascolto, già nelle aule delle forze di polizia (senza quindi l’ulteriore passaggio in tribunale), con il collegamento da remoto dei consulenti. Così anche per la misura dell’allontanamento perché in questa situazione è difficile far uscire le persone di casa. Ma anche a questo problema si è riusciti, con soluzioni diverse a seconda dei casi, a trovare una soluzione. Nonostante le difficoltà, domani si farà un incidente probatorio e nei giorni scorsi è stata eseguita una misura di custodia cautelare in carcere per prostituzione minorile. Insomma, da piazzale Clodio fanno sapere che l’attività a tutela delle donne continua. Così come continuano a funzionare i centri antiviolenza e così come continuano ad essere aperte caserme e commissariati pronti a raccogliere le denunce. Certo, c’è chi ci prova, complice la situazione, a farla franca: un uomo, portato nei giorni scorsi al Regina Coeli, ha detto di avere la febbre, probabilmente una scusa per non entrare in carcere. Ma il tampone ha dato esito negativo. È stato arrestato, solo c’è voluta qualche ora in più. Meno reati e più truffe online, il virus cambia anche la criminalità di Giuseppe Scarpa Il Messaggero, 15 marzo 2020 Gli italiani a casa propensi ad acquistare di più in rete, boom di affari per gli hacker i dati. La finta mail dell’Oms che sottrae i dati. Crollo di furti e rapine nelle città. Ai tempi del Covid-19 anche i computer corrono il rischio di essere infettati da un virus pericoloso. Un’email con importanti comunicazioni dell’Oms sul coronavirus è stata inviata sulla casella postale di diversi utenti. Si clicca per avere più informazioni e un hacker si impossessa dei dati del pc. Sequestra le informazioni e chiede un riscatto, possibilmente da pagare in criptovaluta. Truffe on line, malware inviati per controllare da remoto i pc. La mappa del crimine si modifica. E lo fa rapidamente. Come in un’altalena che oscilla da una parte all’altra, se i reati, per così dire, tradizionali, spaccio e rapine, attraversano un momento passeggero di crisi, altri criminali sfruttano l’occasione. Milioni di italiani sono a casa dietro un pc o a utilizzare, molto più del solito, lo smartphone. E allora i professionisti delle truffe online si sfregano le mani e lavorano. Una tendenza che avevano già intuito gli specialisti della polizia postale del Cnaipic che, per tamponare l’attacco degli imbroglioni del web, stanno garantendo un servizio h24 dal loro quartier generale in via Tuscolana, nella Capitale. Sono indaffarati più del solito gli specialisti della postale, impegnati a bloccare siti fasulli che vendono prodotti sanitari o finte campagne di raccolta fondi a favore degli ospedali per il Covid-19. “In questo momento la superficie d’attacco - spiega un investigatore - è molto più ampia perché si stanno moltiplicando le transazioni home banking e tutte le pratiche commerciali che si appoggiano alla rete”. Di numeri, ancora, non si può parlare perché le denunce fioccheranno, probabilmente, più numerose del solito a fine “quarantena”, quando le persone potranno uscire. Intanto, però, l’attività preventiva del Cnaipic è stata spinta ai livelli massimi. Non solo per i truffatori del web che si infilano nelle transazioni di compra-vendita, inviando mail con nuove coordinate bancarie modificate all’ultimo per dirottare i soldi di ignari compratori, ma anche per chi semina il panico. Nei giorni scorsi è stata fatta circolare una fake news, con il logo di un’agenzia di stampa, in cui si diceva che per il “contenimento biologico l’esercito controllerà le strade e soltanto un soggetto per famiglia potrà uscire”. In questo caso più che di truffatori si tratta di “matti”. Ma non per questo non rischiano di finire in cella. Il codice penale prevede una sanzione non da poco, se vengono scoperti per loro c’è il reato di “procurato allarme”: con la possibilità di finire in carcere fino a sei mesi. Sono i tribunali, o meglio i processi per direttissima, le migliori testimonianze del “cattivo momento” che vive la malavita in questi giorni di quarantena nazionale. Occorre tuttavia non abbassare la guardia, suggeriscono gli inquirenti, anche se il termometro dei reati “tradizionali” è quasi sotto lo zero. Le aule dei palazzi di giustizia, di solito affollate di piccoli e grandi spacciatori, truffatori, rapinatori, ladri e molestatori arrestati in flagranza, sono deserte. A Roma quotidianamente si registra il tutto esaurito, con quattro aule e decine di imputati che sfilano di fronte a giudici e ai vice procuratori onorari per essere giudicati. Giovedì solo una era aperta, con un magistrato e un vpo, a beneficio di un’unica persona scoperta a vendere cocaina. Stesso copione andato in scena venerdì, con l’aggiunta di un uomo che ha sfondato il vetro di un’auto per cercare di rubare qualche cosa. Il pusher, oltre all’accusa di spaccio, si è aggiudicato anche “l’inosservanza dei provvedimenti dell’autorità”, proprio per essere stato scoperto a zonzo senza un valido motivo. Vendere la polvere bianca, ovviamente, non rientra tra “le comprovate esigenze lavorative” che “autorizzano gli spostamenti”, indicati dal governo nel decreto. Eppure le forze dell’ordine si chiedono, proprio sul fronte dello spaccio, come reagiranno i tossicodipendenti nei prossimi giorni, quando finiranno le scorte. Limitati, come tutti gli italiani, nei loro movimenti, alla fine rischieranno e si riverseranno in strada? Magari saranno, invece, proprio i mercanti della droga a studiare nuove strategie per venire incontro ai loro clienti, implementando uno dei loro già collaudati metodi di vendita: la consegna a domicilio. Di certo così correrebbero un bel rischio, perché le strade deserte e le pattuglie di carabinieri, polizia e finanza, rappresentano un grande disincentivo. Ne sa qualcosa Cesare Antonio Cordì, tradito dal decreto “resto a casa”. Il 42enne boss latitante della `ndrangheta è stato arrestato venerdì a Bruzzano Zeffirio, piccolo centro della Locride, in Calabria, proprio durante uno dei controlli dell’Arma per verificare il rispetto del provvedimento emanato dal governo. Modena. I cinque detenuti sono morti per overdose di Milena Castigli interris.it, 15 marzo 2020 Si sono concluse le autopsie sui cinque detenuti morti nel carcere di Modena, dove l’8 marzo e nei giorni successivi ci sono stati gravi disordini che hanno portato a feriti e gravi danneggiamenti della struttura detentiva. I primi esiti escluderebbero come causa dei decessi la morte violenta e sembrerebbero confermare l’ipotesi del “primo minuto”, quella di overdose da farmaci. “L’esito definitivo degli accertamenti sarà disponibile nelle prossime settimane - spiega in una nota il procuratore aggiunto Giuseppe Di Giorgio - ma il primo esame da parte del consulente incaricato ha riscontrato l’assenza, nel meccanismo causale dei cinque decessi, di fattori riconducibili a lesioni da azioni traumatiche. Sono stati effettuati i prelievi di liquidi biologici e di tessuti per i necessari approfondimenti chimico-tossicologici mirati a verificare l’ipotesi più plausibile, che si conferma essere quella di natura tossicologica”. La violenta protesta - che ha coinvolto principalmente le carceri di Modena e Foggia e altre 25 strutture penitenziarie italiane - era scaturita in seguito alla decisione di sospendere i colloqui tra detenuti e familiari per contenere il rischio contagio da Coronavirus. Rieti. Cosa insegna la rivolta in carcere di Massimo Palozzi formatrieti.it, 15 marzo 2020 Il Covid-19 è appena arrivato in città, ma ha già fatto le prime vittime. Sono i quattro detenuti morti e i sei ricoverati in condizioni gravissime a seguito della rivolta scoppiata lunedì e proseguita per i successivi due giorni nel carcere di Vazia, in concomitanza con altre decine di istituti di pena. A Rieti il bilancio è stato particolarmente grave, tanto per i costi umani quanto per le devastazioni alle infrastrutture e agli arredi (secondo solo alle sette vittime di Modena). Si tratta di un effetto collaterale dell’emergenza coronavirus tutto sommato inatteso, in considerazione del basso livello di pericolosità dei ristretti e della marginalità rispetto al circuito carcerario nazionale. Quella nostrana è infatti una “casa circondariale”, in cui sono cioè detenute persone in attesa di giudizio o condannate a pene inferiori ai cinque anni o con un residuo infraquinquennale. La contemporanea esplosione di violenza in tanti istituti lascia ragionevolmente supporre che dietro ci sia stata una regia. Questa emergenza nell’emergenza ha in ogni caso collocato l’intero sistema di fronte alle sue reali capacità di tenuta. E nel suo piccolo, anche il microcosmo reatino è stato messo alla prova nel primo vero stress test a cui viene sottoposto. Il penitenziario di Vazia è stato inaugurato appena undici anni fa, nel 2009, ed è uno dei più nuovi nell’obsoleto panorama italiano. Ha preso il posto dell’anacronistico istituto di Santa Scolastica, ricavato in uno storico complesso di via Terenzio Varrone, che non disponeva nemmeno della sezione femminile. La sua costruzione non fu né facile né rapida. Il decisivo impulso politico arrivò alla fine degli anni Novanta, incontrando però l’onda lunga di una resistenza di merito fondata sulla preoccupazione che sarebbe stato un “supercarcere” destinato ad ospitare numerosi detenuti, tra i quali pericolosi criminali. Si temeva che la loro presenza avrebbe attirato la frequentazione di parenti, amici e sodali potenzialmente legati ad ambienti malavitosi anche di spessore e capaci quindi di estendere la loro sinistra influenza su un territorio fondamentalmente sano. L’idea di base era al contrario costruire una struttura dimensionata alla realtà locale, che non avesse un grosso impatto sociale e che al contempo liberasse il vecchio complesso ormai sorpassato e difficile da gestire (si pensi solo alle difficoltà della semplice traduzione dei detenuti), dando pure un po’ di linfa all’economia, posto che l’edilizia penitenziaria era di fatto l’unica prospettiva praticabile per ottenere a Rieti un’opera pubblica di qualche consistenza. L’ipotesi supercarcere non fu in realtà mai presa in considerazione e i successivi passaggi hanno infatti determinato, dopo una lunga sospensione, la realizzazione di una struttura al livello più basso nella gerarchia delle tipologie in cui sono suddivisi gli istituti secondo la gravità delle condanne. A dispetto della sua breve vita, il carcere reatino è stato comunque più volte al centro di segnalazioni da parte sia di osservatori esterni sia, soprattutto, dei sindacati che da tempo lamentano condizioni di estrema difficoltà collegate al sovraffollamento e agli scarsi mezzi in termini di dotazioni umane e strumentali. Catania. Emergenza sanitaria, alta tensione anche nel carcere di Piazza Lanza di Ivana Zimbone Quotidiano di Sicilia, 15 marzo 2020 Arrivano le mascherine ma solo per gli agenti. Per i detenuti predisposte camere di isolamento. L’emergenza sanitaria per il Coronavirus ha indirettamente causato gravi rivolte nelle carceri. Anche all’istituto di piazza Lanza incendi e tentativi di evasione, seguiti dalla mediazione dell’amministrazione. Intanto si distribuiscono le mascherine, ma solo al personale. Sono circa le 22 di giovedì 12 marzo e dalle abitazioni limitrofi al carcere di piazza Lanza si sente grande frastuono, urla e puzza di bruciato. Le pattuglie arrivano a circondare la zona, il parcheggio riservato al personale si riempie con i rinforzi. Alcuni detenuti, in dialetto siciliano, sembrano dissuadere i ribelli: “Meglio star buoni o qui sono botte per tutti”. Altri gridano tra le sbarre di “aver bisogno di cure, di stare morendo”. C’è chi tenta di evadere dalla cella e, per tutta la notte, le forze dell’ordine continuano fare la ronda attorno al carcere, tra gli schiamazzi messi in sordina. A Catania “un’ottantina di detenuti ha protestato battendo le gavette contro i blindi e le inferriate di cancelli e finestre. Poco dopo la protesta è sfociata in disordini, culminati con la rottura dei cancelli con le brande - usate come ariete - e con la distruzione e l’incendio di alcune suppellettili. La contestazione ha riguardato le misure per il contenimento del Coronavirus all’interno degli istituti”, ha dichiarato l’ufficio stampa della casa circondariale. “Le proteste nelle carceri italiane, messe in moto da detenuti comuni, si sono dirette principalmente contro il divieto dei colloqui per il contenimento della diffusione del virus. A Catania, i comportamenti sono stati moderati grazie alla grande capacità di dialogo dell’amministrazione. Quello di piazza Lanza è il primo carcere d’Italia a essersi auto-fornito di mascherine. Questa notte gli agenti in servizio - e non - hanno raggiunto la sede spontaneamente appena saputo dell’accaduto, senza nemmeno richiesta. Fino al 22 marzo permarranno le disposizioni nazionali sui divieti, dopo si stabiliranno le regole per far ripartire i colloqui. Ma rimane valido, per i detenuti di tutto il territorio nazionale, l’aumento del numero delle telefonate e la possibilità di colloquio via Skype”, chiosa Domenico Nicotra, segretario generale aggiunto del sindacato della polizia penitenziaria Osapp. “La mediazione del direttore - Elisabetta Zito - e del comandante della Polizia penitenziaria dell’istituto - Francesco Salemi - ha convinto i detenuti a desistere da ulteriori azioni turbative dell’ordine e della sicurezza; così, dopo aver ripulito i danni da loro stessi provocati, i manifestanti sono tornati nelle loro stanze”, ha continuato l’ufficio stampa. E intanto al via la distribuzione delle mascherine anti-contagio, ma “solo per il personale”. Il Prap di Palermo ne ha ricevute 9.500 che si preoccuperà di dividere ai diversi istituti. A queste se ne aggiungono altre 650, destinate alle scuole di polizia penitenziaria e al Dipartimento di giustizia minorile. “Per i carcerati sono state predisposte camere di pernottamento per quelli in isolamento preventivo e camere per possibili positivi al contagio”, aggiunge l’addetto alla comunicazione. Di fatto, l’amministrazione teme la massiccia distribuzione delle mascherine perché potrebbero creare ulteriore allarmismo e possibili nuove rivolte. Reggio Calabria. Nursind: “nuovo incremento di detenuti ad alta assistenza sanitaria” di Danilo Loria strettoweb.com, 15 marzo 2020 Marrari: “in piena emergenza Covid-19 non è possibile abbandonare il personale sanitario e i detenuti degli Istituti Penitenziari della nostra provincia. Dopo mesi e mesi di battaglie, di solleciti e di vane rassicurazioni da parte dei Dirigenti Aziendali, l’ASP dimentica il suo personale in una situazione infuocata e pronta ad esplodere”. “In piena emergenza Covid-19 non è possibile abbandonare il personale sanitario e i detenuti degli Istituti Penitenziari della nostra provincia. Dopo mesi e mesi di battaglie, di solleciti e di vane rassicurazioni da parte dei Dirigenti Aziendali, l’ASP dimentica il suo personale in una situazione infuocata e pronta ad esplodere”. È quanto scrive in una nota il Coordinatore Regionale del Cgs Nursind Calabria, Dr. Vincenzo Marrari. “Già a fine febbraio u.s., l’Area Sanitaria del carcere di Reggio Calabria-Arghillà ha avviato, di concerto con la Direzione d’Istituto, un protocollo sanitario di emergenza, condiviso tempestivamente con i detenuti che hanno compreso l’importanza del momento e ne hanno sostenuto i contenuti ed accettato le conseguenze. Ma, oggi, giungono ulteriori allarmanti notizie, legate al recente incremento ad Arghillà della popolazione detenuta ad alta assistenza sanitaria. Come potrà essere garantita l’adeguata assistenza? Come si potrà avviare il turno infermieristico notturno senza personale? Come potranno, quattro infermieri, in servizio gestire tutte le attività ordinarie e di emergenza? Chi fornirà i necessari Dpi che a brevissimo saranno terminati? Non è più possibile aspettare questo silenzio dell’ASP di Reggio Calabria. Il Nursind, conscio che in questo grave momento storico sia necessario garantire la presenza del personale in servizio, fa presente che non intende assolutamente promuovere giornate di sciopero che possano ritorcersi contro l’assistenza sanitaria prestata ai detenuti, ma auspica che in questa perdurante criticità vi siano interventi concreti da parte dei vertici dell’Azienda Sanitaria, volti ad integrare la forza lavoro necessaria per poter fronteggiare questa emergenza; senza dover prontamente denunciare il tutto all’A.G.”, conclude. Reggio Calabria. Il Garante: “Tempestivi i provvedimenti adottati a seguito del coronavirus” ildispaccio.it, 15 marzo 2020 “Il grado di civiltà di un popolo si misura con l’attenzione e le cure che rivolge alla propria parte più debole, riconoscendola come propria e cercando di recuperarla alla funzione complessiva del corpo. Con ciò non penso al virus che attualmente imperversa in ogni parte del paese ma, a quella parte più antica che trasforma il malessere in trasgressione delle regole e per questo motivo si trova ristretta in luoghi di detenzione a meditare e fare ammenda per i propri errori. Come ufficio del Garante Metropolitano, eravamo intervenuti nei giorni scorsi, per sottolineare come per allentare le tensioni provocate dall’emergenza “coronavirus” che ha creato sommosse in alcune carceri del territorio italiano, fosse necessario fornire ai detenuti alternative ai colloqui con i familiari, aumentando il numero di telefonate e le video chiamate oltre che, valutare la possibilità per i semiliberi e per chi usufruisce dei benefici dell’art. 21 (lavoro esterno) di non rientrare in cella la sera ma, di poter dormire nel proprio domicilio fino a che l’emergenza non sarà passata. In questo la sensibilità del Tribunale di Sorveglianza e dei direttori delle carceri ha accolto, quand’anche non l’abbia preceduta, la richiesta di questo ufficio del Garante Metropolitano e di ciò rendiamo merito alla saggezza di chi ha reso possibili siffatti provvedimenti”. Lo afferma in una nota Paolo Praticò, garante metropolitano dei detenuti di Reggio Calabria. Padova. Il Sinappe lamenta le condizioni precarie in cui agenti si trovano a operare di Serena De Salvador Il Gazzettino, 15 marzo 2020 Mascherine filtranti mai arrivate, controlli minimi, personale ridotto all’osso e il costante rischio di trovarsi nuovamente in un’esplosione di violenza. Dopo la rivolta la scorsa settimana in un braccio della Casa di reclusione del Due Palazzi, la Polizia penitenziaria lamenta ancora le condizioni precarie in cui i suoi agenti si trovano a operare. Lo fa attraverso la sezione locale del sindacato Sinappe, che accoglie le richieste avanzate dalla segreteria nazionale al premier Conte e ai vertici dell’amministrazione penitenziaria, ma lo fa anche mettendo sul tavolo l’ipotesi di un’integrazione dell’esercito per garantire un più capillare controllo del penitenziario. “La situazione è a rischio, sia dal punto di vista di nuove rimostranze, sia per l’emergenza Coronavirus in sé”, spiega il segretario regionale Mattia Loforese. Da un paio di giorni 20 carcerati si trovano in isolamento preventivo in una sezione distaccata. Quindici sono quelli trasferiti a Padova dopo la feroce guerriglia avvenuta a Modena, altri cinque sono rientrati da un permesso che li ha visti soggiornare nel Milanese. Nessuno mostra sintomi di contagio, ma il Due Palazzi non può permettersi di rischiare che il virus penetri nel penitenziario dove il sovraffollamento è una piaga quotidiana. “Poco è cambiato nonostante le disposizioni del Ministero. I colloqui dei detenuti con familiari sono stati sospesi e questo il pretesto usato per dare il via alla rivolta. Ora non possono più ricevere neanche i pacchi da fuori, dal momento che per portarli le persone dovrebbero uscire di casa e non potrebbero consegnare nulla che i detenuti non abbiano già a disposizione - prosegue Loforese - Di fatto però le misure per tutelare la salute degli agenti sono irrisorie: ci sono state fornite mascherine di carta senza filtri, mentre sui siti e i social della polizia penitenziaria campeggiano video e informazioni su come indossare e utilizzare quelle filtranti ad alta sicurezza che ci avevano promesso e non sono mai arrivate”. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha diramato nuove disposizioni per le carceri invitando a sospendere tutte le attività non strettamente necessarie: “L’ottica sarebbe chiudere gli uffici tagliando il possibile, peccato sia già la nostra abituale situazione visto che siamo sotto organico in modo drammatico. Avevano promesso l’arrivo di nuovi agenti appena formati, ma pare che a Padova non ne spettino”, prosegue Sinappe. La sezione locale del sindacato chiede l’incremento di risorse e l’invio di mascherine e protezioni, appoggiando anche le richieste del segretario generale Roberto Santini che si è rivolto al Governo dopo la notizia che anticipava lo stanziamento di fondi tra 2020 e 2021 per il ripristino dei penitenziari dopo le recenti rivolte: “Non basta ristrutturare, bisogna creare carceri nuove, moderne, con investimenti nelle strutture ma anche verso gli agenti. Vogliamo strumenti operativi efficaci e i taser, che gli straordinari siano retribuiti anche oltre il limite individuale in questi tempi d’emergenza”, si legge nella nota a cui Loforese unisce una provocazione: “A Padova ci sono tante caserme e soldati. Perché non indire un tavolo tecnico sulla sicurezza e pensare di affidare a loro il controllo dell’esterno del Due Palazzi mentre la penitenziaria potrebbe concentrarsi al massimo sull’interno?”. Pordenone. Il cappellano: “allarme contagio, fa paura trovarsi rinchiusi in celle sovraffollate” Il Gazzettino, 15 marzo 2020 “Cosa si pensa, in genere per la sollevazione e la violenta protesta di alcuni detenuti in alcune carceri d’Italia? Lo sgomento ci assale al vedere quanto la cronaca ci fornisce: violenza e distruzione. Così sono visti e poi memorizzati i carcerati. Chi non possiede informazioni altre e non ha occasione di vedere da vicino e praticare carceri, carcerati e agenti di Polizia penitenziaria non sa e non riesce neppure ad immaginare come si possa vivere dentro”. A parlare don Piergiorgio Rigolo, il cappellano del carcere di Pordenone. C’è subito da dire che al Castello non c’è stata una protesta violenta, ma il sacerdote spiega le ragioni dei carcerati. “Nell’attuale coincidenza di notizie allarmanti su un virus che fa paura a molti trovarsi rinchiusi in celle sovraffollate, sentire l’indicazione di dover rispettare almeno un metro di distanza gli uni dagli altri; sentire che il virus aggredisce e ammala più facilmente persona anziane e indebolite da un passato di tossicodipendenza e alcolismo; vedersi improvvisamente privati da abituali e sobri incontri con famigliari e volontari; sentirsi soli e in pericolo, può davvero far perdere il controllo di sé e, senza volerla legittimare, adoperare la protesta violenta cercando di attirare l’attenzione degli italiani per soluzioni alternative. Del resto - spiega don Rigolo - un ambiente disumano non può insegnare ad essere umani. Certo l’obiettivo di recuperare un vivere al di fuori di sistemi di violenza è proprio di agenti, psicologi, medici e volontari soprattutto. Conoscessimo sistemi rieducativi efficaci e in grado di garantire i risultati desiderati, tutti e dovunque si cercherebbe di applicarli. Quanti conoscono da vicino carcerati, agenti, educatori e psicologi, sanno quanto risulti difficile favorire il cambio di comportamenti e di stili di vita. Credo che incontrare mogli e figli per un detenuto può diventare una scuola di responsabilità ed un serio impegno per cambiare vita e reimparare ad amare figli e moglie e parenti, e ricomporre tessuti sfilacciati nei rapporti quotidiani. Cosa potrebbe favorire una detenzione efficace? - una frequentazione con i famigliari; - incoraggiare incontri e colloqui con i volontari; - l’applicazione della Legge Gozzini che prevede possibili alternative alla detenzione in carcere: la detenzione domiciliare per gli ultimi due anni della pena, affidamento in prova ai Servizi Sociali, obbligo di firma, programmi di semilibertà (lavoro esterno di giorno e ritorno in cella per la notte) - poter telefonare frequentemente ai famigliari, particolarmente ai figli”. Venezia. Le detenute fanno una colletta a favore dell’ospedale dell’Angelo di Mestre di Nicola Munaro Il Gazzettino, 15 marzo 2020 Siamo le donne che ai vostri occhi fanno parte dell’ultimo ceto sociale, donne che hanno sbagliato ma stanno anche pagando per i loro errori, donne che lì fuori, come tutti voi, hanno una famiglia”. Sono 71 donne del carcere femminile della Giudecca. Che hanno messo mano al proprio gruzzoletto di soldi e hanno messo insieme quello che avevano. Il risultato sono stati 110 euro da donare al reparto di Terapia Intensiva dell’ospedale dell’Angelo di Mestre, uno degli avamposti veneziani nella lotta al coronavirus. Quella che loro, in una lettera deputata ad accompagnare la donazione all’Angelo, chiamano “protesta pacifica” chiude una settimana nella quale le carceri del Veneto e d’Italia - Venezia compresa - hanno ribollito miscelando paura del contagio e sovraffollamento. Alla Giudecca, nulla di tutto questo, se non la richiesta di indulto o amnistia data dalla preoccupazione di trovarsi di fronte all’ingresso di Covid-19 tra le celle del penitenziario. Poi la voglia di essere utili, di sentirsi parte della società. Recluse, sì. Escluse, no: “è un problema che purtroppo riguarda tutti, chiediamo la collaborazione di tutte le carceri d’Italia”, scrivono. Loro che poco hanno e tanto hanno donato. A firmare la lettera e partecipare alla raccolta soldi c’erano anche nomi passati sulle colonne della carta stampata per i loro crimini. Firma la lettera e dona parte dei propri soldi, Manuela Cacco, la tabaccaia di Camponogara condannata (manca la Cassazione) per aver partecipato all’omicidio di Isabella Noventa, la segretaria padovana uccisa tra il 15 e il 16 gennaio 2016 dall’ex fidanzato Freddy Sorgato e dalla sorella Debora Sorgato. C’è poi Susanna Lazzarini, detta Milly, giudicata responsabile dell’omicidio di due anziane: Francesca Vianello e Lidia Taffi Pamio (giudizio su cui pende la Cassazione). E ancora Lisa Tamburlin, 22enne originaria di Quero, rapinatrice di vecchiette, tra cui una novantenne rapinata a Marghera; Angelica Cormaci (assieme a Patrizia Armellin) accusata dell’omicidio di Paolo Vaj a Vittorio Veneto e Laura De Nardo, la cosiddetta mantide di Conegliano, che commissionò a due killer l’omicidio di Eliseo David, facoltoso ottico. Civitavecchia. Detenuti in sciopero della fame, il Garante sollecita un intervento del Ministro civonline.it, 15 marzo 2020 Il garante dei dentenuto del Lazio, Stefano Anastasia, interviene a due giorni dallo sciopero della fame che vede coinvolti i detenuti della casa circondariale di Civitavecchia, “che manifestano pubblicamente la loro sofferenza e preoccupazione - spiega - per le condizioni di detenzione e l’impossibilità di rispettare adeguatamente le norme igienico-sanitarie per la prevenzione del #coronavirus, nonostante la disponibilità e l’attenzione del personale penitenziario e di quello sanitario”. Nell’istituto i reclusi siano 532 per 311 posti regolamentari. “Prima con la direttrice, poi con la magistrata di sorveglianza in videoconferenza - aggiunge Anastasia - abbiamo valutato tutte le soluzioni possibili per la urgente riduzione della popolazione detenuta”. “La Direzione dell’istituto ha già raccolto i nominativi di tutti coloro che sono nei limiti di pena per godere di alternative al carcere e qualcuno, proprio ieri, ha cominciato a uscire” racconta. “Ma - prosegue il Garante - è una corsa contro il tempo a cui i detenuti di Civitavecchia ci chiamano pacificamente e responsabilmente”. “A legislazione vigente si può fare qualcosa, ma non tutto. Serve una iniziativa urgente del Governo - sottolinea Anastasia che aggiunge - il Ministro Bonafede venga a parlare con questi detenuti, per rendersi conto personalmente della situazione e della urgenza di un intervento legislativo”. Bergamo. Presto a disposizione dei detenuti 8 computer per i “colloqui telematici” bergamonews.it, 15 marzo 2020 Il sindaco Gori in visita ai detenuti. La ditta Globo, fornitrice del Comune di Bergamo, nella serata di venerdì 13 marzo ha donato e installato otto computer con i quali sarà possibile realizzare dei “colloqui telematici” tra i detenuti e i loro familiari. Il sindaco di Bergamo Giorgio Gori ha fatto visita ai detenuti della Casa circondariale di via Gleno, li ha incontrati e ha ascoltato le loro richieste dopo le proteste dei giorni scorsi. In serata la ditta Globo, fornitrice del Comune di Bergamo, nella serata di venerdì 13 marzo ha donato e installato otto computer con i quali sarà possibile realizzare dei “colloqui telematici” tra i detenuti e i loro familiari. Ecco il resoconto della giornata narrato dallo stesso sindaco. “Ho trovato un momento di pausa e vorrei dedicarlo a chi sta in carcere. Ai detenuti e chi lavora per la loro sorveglianza. C’è in generale il rischio di dimenticarcene e a maggior ragione in questi giorni difficili in cui, paradossalmente, ognuno di noi sperimenta cosa possa voler dire - con tutte le differenze del caso - trovarsi reclusi. Noi stiamo chiusi nelle nostre case e usciamo solo per necessità. Ai detenuti, a causa dell’epidemia, sono state sospese le visite. È stato deciso a loro tutela - è facile immaginare le conseguenze se il virus dovesse penetrare dentro le mura di un carcere - ma molti hanno reagito male. Molti di loro hanno mogli o mariti e figli a casa e sono preoccupati, come tutti. Nelle carceri di diverse città hanno reagito molto male, ci sono state violenze e purtroppo diversi morti. Non a Bergamo, per fortuna, dove i detenuti hanno scelto la via del dialogo con le autorità di sorveglianza. E anche per questo - per esprimere loro l’apprezzamento per questa scelta di condotta pacifica e costruttiva - mi sono reso disponibile ad incontrarli. Mi hanno accolto in una saletta, alla presenza della Direttrice della Casa Circondariale e del personale di sorveglianza: una quindicina di detenuti in rappresentanza delle diverse sezioni. Mi hanno letto e consegnato due documenti, uno indirizzato alle istituzioni politiche e in primo luogo al Ministro della Giustizia Bonafede, l’altro - contenente alcune istanze più puntuali - al Presidente del Tribunale di Sorveglianza. Ne hanno spiegato il contenuto, mostrando di capire bene l’emergenza a cui tutti stiamo facendo fronte e le ragioni delle restrizioni a cui sono stati sottoposti. Ma mi hanno chiesto attenzione, e riconoscimento del loro essere cittadini come gli altri, con la loro umanità e il loro diritto alla salute. Chiedono che il Tribunale di Sorveglianza applichi le disposizioni - vigenti - che ad alcuni di loro consentirebbero di tornare a casa, o di scontare la pena ai domiciliari. Non mi addentro in questo campo, che non mi compete. Ma voglio ringraziarli per la cortesia con cui mi hanno accolto e per il senso di responsabilità testimoniato dai loro comportamenti e dalle loro parole. Nelle prossime ore faremo recapitare alla Casa Circondariale di via Gleno otto computer, regalati dal nostro fornitore Globo, con i quali sarà possibile realizzare dei ‘colloqui telematici’ tra i detenuti e i loro familiari, sperando che questo brutto momento finisca presto”. Livorno. Emergenza coronavirus, intervista al cappellano del carcere di Chiara Domenici lasettimanalivorno.it, 15 marzo 2020 Nei giorni scorsi la cronaca ha raccontato di ribellioni e gravi tafferugli in alcune carceri italiane, scoppiate in seguito all’emergenza Coronavirus e alla restrizione dei colloqui con i parenti in visita ai detenuti. Abbiamo intervistato don Francesco Fiordaliso, cappellano del carcere di Livorno per sapere come i detenuti delle Sughere stanno affrontando questo momento di emergenza. Don Francesco come si vive nel carcere la paura del contagio? Prima di tutto, vorrei premettere che sono solo pochi mesi che ho cominciato questa avventura del servizio come cappellano all’interno del carcere di Livorno, per ora mi sto rendendo conto che il carcere è una realtà articolata, complessa e, sicuramente, interessante, ma ancora mi sento un novellino, ancora non so se ho capito bene le varie dinamiche e se sono in grado di dire realmente l’aria che tira oggi in carcere. Diciamo che ho contatti e colloqui con molti dei ragazzi (io li chiamo così), in diversi partecipano alla Messa e chiedono di parlare con me, con molti di loro c’è un rapporto di confidenza e fiducia, anche con coloro che hanno altre esperienze religiose, però mi sembra ancora insufficiente per avere un’idea completa della realtà del carcere. Dico questo perché non ho la pretesa di dire come si vive in carcere a Livorno questo periodo, posso dire come la vivono quelle persone con cui ho maggiore conoscenza e confidenza, non posso parlare del carcere in assoluto, posso solo raccontare il mio punto di vista che, anche se non è completo, però qualche cosina mi fa vedere. Premesso questo, i ragazzi vivono questo periodo particolare del nostro paese da una parte con un senso di incredulità, non riescono a credere che le persone non possano uscire di casa, che i negozi siano chiusi, che, chi non è in carcere, debba essere limitato nella propria libertà; in genere, per i detenuti, le persone che non sono in carcere hanno la fortuna di godere sempre di grandissime libertà che invece a loro sono negate per questo non riescono a credere che per paura del contagio la gente non sia libera di andare in giro, fanno fatica a capire perché le attività in carcere siano state sospese, perché le persone non possano incontrarsi liberamente. Dall’altra parte però, in diversi, hanno capito la pericolosità di questo virus e si rendono conto che, qualora il virus entrasse in carcere, in poco tempo sarebbero tutti contagiati, per questo hanno accolto le restrizioni, in particolare la sospensione dei colloqui con i parenti, come un provvedimento a loro tutela. Inoltre, il poter sostituire i colloqui con le telefonate ha alleviato la sofferenza di non poter vedere i propri cari. In altre carceri italiane la situazione si è fatta molto drammatica nei giorni scorsi, come hanno reagito i detenuti di Livorno? Come ho detto, non sono un esperto di vita carceraria, però bisogna capire che la vita in carcere non è facile, il tempo non passa mai, lo spazio è ristretto e la privacy è un sogno, per questo motivo certe opportunità, anche piccole, sono accolte dai ragazzi come possibilità di respiro, di pensare ad altro, di avere possibilità di uno sfogo. Così, per loro, entrare in contatto con altre persone è un’opportunità meravigliosa, stringere una mano, dare un abbraccio è un’occasione di contatto umano, è un modo per sentirsi ancora considerati come persone, avere contatti con il mondo esterno li aiuta a sopportare il dover stare chiusi. In realtà, questa cosa mi ha colpito da subito, fin dai primi giorni che frequentavo il carcere, i ragazzi hanno sempre cercato con me una stretta di mano, un abbraccio, un rapporto di vicinanza, mi colpiva questo cercare sempre la mia mano per stringerla, anche solo se ci incontravamo in corridoio. È interessante questa voglia di contatto perché li fa sentire capaci di umanità, li fa sentire considerati come persone, li fa sentire accolti. Capite bene che, in questo periodo, non poter dare la mano, non poter scambiare un abbraccio è una limitazione pesante per loro. Anche il non poter vedere i propri cari è un peso, perché li fa sentire ancora di più lontani, esclusi. Teniamo anche presente che, dai primi di marzo, ogni attività e ingresso esterni, escluso il personale, sono sospesi e quindi sentono ancora di più il distacco con la realtà esterna, anche alcuni servizi di assistenza messi in atto dalla Caritas sono rallentati e questo mette a dura prova la pazienza dei ragazzi. A me è stata concessa dall’amministrazione carceraria la possibilità di continuare ad incontrare i ragazzi, ad ascoltarli e ad accogliere i loro bisogni e i loro sfoghi, però la situazione è dura. Però, per quanto sia difficile, la situazione in carcere a me sembra tranquilla, non mi sembra che ci siano stati particolari episodi, i ragazzi sembrano aver capito e accettato questa situazione, capiscono che non è bella ma che anche loro devono fare la propria parte, alcuni con cui ho parlato hanno anche espresso il proprio rammarico per quanto successo in altre carceri riconoscendo che la violenza non è mai portatrice di bene, anzi peggiora ancora di più le cose. Altri hanno chiesto di pregare per le persone fuori esposte al contagio, e altri ancora mi hanno detto che pregano ogni sera per i propri cari ma anche perché questa situazione possa risolversi prima possibile E il personale di sicurezza? Come vive questi giorni? È chiaro che tutti quanti sentiamo la responsabilità di tenere al sicuro i ragazzi e evitare loro un contagio che sarebbe terribile, per questo sono aumentati i controlli, sono limitati i contatti, anche i movimenti all’interno del carcere sono più complicati, però sto notando che il personale ha comunque con i ragazzi un rapporto che cerca di comprendere le loro difficoltà e, per quanto possibile, cerca di venire loro incontro per alleviare questa situazione di difficoltà e limitazione che, in un ambiente già limitante di per sé, come il carcere è chiaramente sentito come maggiormente pesante. Bolzano. Sex offender e psicoterapia, l’Associazione “Contras-ti” nella rete nazionale Di Andrea Bellgamba Corriere dell’Alto Adige, 15 marzo 2020 Gli psicologi Berti e Fabbrici: “L’obiettivo è abbassare il tasso di recidività”. “Contras-ti” è un’associazione con sede a Bolzano in via Rosmini 28, che si occupa a livello nazionale di sex offender. Franca Berti, Garante dei detenuti per l’Alto Adige Claudio Fabbrici, psicologo e psicoterapeuta, sono i responsabili per il nord-est. Quando è nata l’idea di creare l’associazione? Fabbrici: “Lavoriamo in questo settore da molto e tre anni fa abbiamo deciso di creare un gruppo di lavoro eterogeneo composto da magistrati, avvocati, psicologi, criminologi e psicoterapeuti. La sezione bolzanina è nata in collaborazione con la camera penale del tribunale. Qual è l’obiettivo che vi prefiggete? F.: “Cambiare la cultura. Dobbiamo passare da una logica punitiva a quella della terapia con l’intento di abbassare la recidiva. I casi ci vengono segnalati dagli avvocati di volta in volta e le persone vengono seguite prima, durante e dopo il processo. Molti decidono di intraprendere questo percorso attirati da uno sconto di pena, ma sarebbe fondamentale che la terapia proseguisse anche dopo il periodo detentivo, quando non c’è più l’obbligo, ma solo il 10% circa delle persone prosegue. Se i sex offender vengono lasciati a loro stessi la percentuale di recidiva si attesta attorno al 50%, se seguiti cala fino al 7%.”. La segnalazione dell’autorità giudiziaria al supporto psicologico è obbligatoria? Berti: “No, è a discrezione del magistrato. Sono gli avvocati a contattarci, anche per interesse verso uno sconto di pena. Col solo carcere i problemi si risolvono, ma in maniera temporanea. Quando i sex offender tornano in libertà lo fanno con un rinnovato desiderio di colpire. Possiamo affermare che il solo carcere, senza un’adeguata terapia, non è efficacie. La casa circondariale di Bollate, a Milano, è l’unica che attualmente affianca stabilmente la reclusione alla terapia”. Come si sviluppa la terapia? F.: “Tutti i sex offender attivano dei meccanismi di autodifesa, minimizzando l’accaduto. La terapia si basa sull’attacco a questa negazione e renderli consapevoli del reato e del perché lo hanno commesso. Durante le sedute è spesso utile leggere gli atti, far prendere coscienza dei fatti e dei danni arrecati. Spesso lo si fa in sedute di gruppo, che noi svolgiamo presso la casa don Girelli-Casa San Giuseppe. Questo perché la reazione in pubblico è particolarmente forte”. Si può guarire da una patologia del genere? B.: “No. I sex offender devono essere messi nelle condizioni di capire quando stanno per commettere un reato. Devono scattare in loro dei campanelli di allarme che li portino a rivolgersi al terapeuta per bloccare sul nascere il desiderio. Dobbiamo indurre i sensi di colpa e far comprendere quanto ha sofferto la vittima. Importantissimo è l’autocontenimento, non avvicinare più ragazzini o persone che hanno figli o fratelli piccoli. Chi ha questa patologia deve capire che è in continuo pericolo di ricadere in tentazione. In Alto Adige quanto è diffusa questa problematica? B.: “Abbastanza. Qui, soprattutto nelle valli, abbiamo il grosso problema degli incesti, una pedofilia intrafamiliare, commessa verso figli o fratelli, con dietro la motivazione che debbano essere gli adulti ad avviare i minori alla sessualità. L’attrazione sessuale verso i minori è legata ad altri aspetti caratteriali? B.: “Tutti i soggetti che si macchiano di reati del genere hanno delle grandi difficoltà sociali, disprezzano le regole ma non solo. Non riescono ad avere un rapporto alla pari con coetanei, una cosa che li stressa particolarmente. Per loro il rapporto coi minori è rivitalizzante. Molti soggetti hanno una grave immaturità sessuale. Non sono in grado a relazionarsi con gli adulti. Non riescono ad avere un rapporto sessuale, temono il giudizio dell’altro, mentre il ragazzino può essere dominato e sono loro a guidare il rapporto, quindi si sentono più a loro agio”. È finita la finzione dei leader che fanno miracoli di Marco Pollini L’Espresso, 15 marzo 2020 Persone costrette a casa, persone che si siedono distanti, persone che si salutano da lontano. Mani lavate in continuazione, mani tenute prudentemente distanti dal viso. E poi città isolate, scuole chiuse, strade deserte. In pochi giorni la maledizione del coronavirus ha cambiato il nostro modo di vivere. E la politica che fino a qualche attimo prima era stentorea, assertiva, fintamente sicura di sé e delle proprie parole d’ordine s’è trovata d’un tratto a rincorrere la cronaca sanitaria cercando di fare eco come poteva ai suoi imperativi. Forse dietro questi cambiamenti di costume - si spera provvisori c’è anche il disvelarsi di nuovi rapporti di forze e nuove necessità pubbliche. Nessun leader politico ha mai immaginato davvero che la sua opera di pianificazione avrebbe modificato più di tanto il costume e la vita dei suoi elettori. Ma ha lungamente fatto finta di crederlo. E così ci si è prodigati, un po’ tutti, a promettere miracoli assicurando che la somministrazione delle proprie pozioni avrebbe inevitabilmente prodotto effetti prodigiosi. Ora però quella finzione viene meno. E ci si comincia a rendere conto che i grandi cambiamenti hanno un driver che non è quasi mai azionato dagli uomini di partito e di governo. Mentre la politica pretende di guidare evocando l’idea del comando, la quotidianità delle persone prende forma intorno ad altro. È l’imprevisto della vita che sottomette a sé la troppa prevedibilità delle strategie pianificate nei nostri fragili ambulacri del potere. Un virus cambia oggi il paesaggio sociale. Come in passato altre novità - scientifiche, tecnologiche, produttive - hanno cambiato (per fortuna spesso in meglio) il nostro modo di stare al mondo. Mentre la politica e i suoi governi si sono limitati il più delle volte a correggere e limare le conseguenze di tutte queste diavolerie. Senza quasi mai averle determinate. Così, non per caso, in questi ultimi giorni il linguaggio dei leader si è fatto improvvisamente più sorvegliato. Abbandonati certi toni solenni e perfino gladiatori di chi pensava di disporre in prima persona dei destini del proprio paese, i capifila della politica italiana hanno preso a muoversi quasi impauriti, col timore reverenziale che si riserva a forze molto più possenti di ognuno di loro. Si respira da quelle parti quasi una involontaria sobrietà che sembra fare da contrappunto alla drammaticità del momento. C’è del buono, in tutto questo. Se ora la politica prende atto dei limiti del suo potere e smette di illudersi di avere nelle proprie mani destini troppo cruciali, forse è la volta che impara a rendersi più utile. Non perché sposti le montagne, compito che non è mai stato il suo. Ma perché traccia qualche passaggio di attraversamento tra una montagna e l’altra. E nel farlo dà una mano a chi in mezzo a quelle montagne vorrebbe muoversi con qualche sicurezza e qualche libertà in più. Come dimostra la cronaca di questi giorni una larga parte del nostro destino collettivo non è più da tempo nelle mani della guida politica del paese. Né di chi la esercita, né di chi si propone di conquistarla. Ma l’autorevolezza della politica non può consistere nel rivendicare un potere irraggiungibile. Consiste semmai nel predisporre regole che siano argini e limiti al potere altrui. Se il sentimento di paura che attanaglia i potenti del paese in questi giorni si tradurrà in un esercizio di modestia ne avremo guadagnato qualcosa. Chi fa politica potrà così liberarsi di una finzione a cui riesce sempre più difficile credere. E chi dalla politica si aspetta qualcosa (qualcosa, non tutto) potrà magari un giorno o l’altro dirsi meno insoddisfatto dei suoi esiti. Si tratta di essere più forti di un virus e più deboli delle proprie stesse illusioni. Siria. Assad perde, Assad vince. Il lungo inverno siriano di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 15 marzo 2020 Il 15 marzo di nove anni fa il vento delle “primavere arabe” investì anche Damasco Il regime reagì con durezza scatenando un conflitto che, nei successivi scenari, non è ancora finito. L’inizio delle rivolte - esattamente il 15 marzo 2011 - non fu molto diverso da altre rivolte già osservate in passato. Le folle scesero nelle strade di Damasco e dintorni a metà marzo. Il regime, come al solito, reagì con il pugno di ferro. Bombe, cecchini, torture. La repressione durissima apparve sproporzionata rispetto agli slogan delle piazze, composte in maggioranza da studenti e giovani, che chiedevano per lo più democrazia e la fine della dittatura e del nepotismo. Non molto diverso da ciò che era accaduto per esempio ad Hama nel gennaio - febbraio 1982, quando i carri armati inviati da Damasco spararono sulla popolazione, i caccia bombardarono e interi quartieri vennero rasi al suolo. Ancora oggi resta sconosciuto il numero preciso dei morti tra le organizzazioni legate ai Fratelli musulmani e tra i civili, sebbene la cifra più accettata si aggiri intorno ai 20 mila in poche settimane. La differenza questa volta fu che le manifestazioni continuarono. Anzi, all’inizio dell’estate cominciarono a organizzarsi militarmente. Che cos’era cambiato nel frattempo? La diffusione dei social media aveva permesso di fare conoscere al mondo i fatti e coordinare le piazze tra gli attivisti; la corruzione e le ingiustizie elette a sistema tra i ranghi del governo baathista avevano raggiunto soglie insopportabili; la speranza di poter replicare i successi delle rivolte in Tunisia e in Egitto, con le defenestrazioni di Zine El-Abidine Ben Ali e di Hosni Mubarak, aveva aumentato l’eccitazione. La novità insomma - in quei mesi carichi di sogni per “primavere” mediorientali e nordafricane che si annunciavano epocali - era che forse finalmente si potevano davvero cambiare le cose e i popoli conquistavano consapevolezza. Era il vento impetuoso delle “primavere arabe”: più tardi tanto vituperate, ma in quel momento cariche di promesse e ottimismo. Bashar Assad aveva ereditato undici anni prima da suo padre Hafez il sistema della dittatura, con il suo esercito e soprattutto il potentissimo servizio segreto interno dominato dalla minoranza alawita, la stessa della famiglia presidenziale, che aveva cooptato come fedeli alleati i maggiorenti della comunità cristiana. Durante le prime settimane la maggior parte degli attivisti delle rivolte non pretendeva il cambio di regime. Nonostante la nomenklatura siriana li abbia accusati di essere “agenti stranieri corrotti”, chiedevano sostanzialmente graduali riforme politiche, il cambiamento democratico della Costituzione, libere elezioni monitorate da osservatori internazionali. Eppure, già il 6 marzo il braccio armato della polizia aveva colpito senza pietà lasciando capire nei fatti quanto fosse ostile a qualsiasi compromesso sostanziale. Una quindicina di allievi del liceo di Daraa, nel sud-ovest del Paese presso il confine con la Giordania, avevano scritto sui muri slogan in favore delle sommosse. Catturati e identificati, erano stati torturati in cella. Il cadavere di uno di loro, il quattordicenne Hamza al Khataeb, era stato consegnato alla famiglia con i genitali strappati. C’era in realtà poco di nuovo. Gli abusi sessuali sono sempre stati una “specialità” dei carcerieri siriani. Ma ora la foto del cadavere sfigurato venne postata su internet, diventando un motivo ulteriore di rabbia popolare. Tra la fine dell’estate e l’inizio del 2012 lo scontro si fece ancora più violento. Cuore delle sommosse erano Homs, Hama, i villaggi sulla dorsale montuosa che corre parallela alla costa, le periferie di Damasco, le regioni di Idlib e Aleppo. Cresceva però anche l’elemento settario religioso: tanti sunniti (che rappresentano la maggioranza della popolazione) si unirono alle rivolte contro la minoranza alawita, setta sciita tradizionalmente legata all’Iran e alle milizie libanesi dell’Hezbollah. Già a metà del 2012 le unità di Hezbollah si posero a fianco dei soldati di Bashar praticamente su ogni fronte. Crebbe il numero di effettivi dell’esercito regolare pronti a disertare pur di non dover sparare nelle piazze. Alcuni scapparono con le armi in mano. Nacque allora il cosiddetto “Free Syrian Army”, una sorta di forza armata dell’opposizione che cercava di proporsi come alternativa radicale alla violenza del regime con una catena di comando gerarchica e unificata. Il progetto per qualche mese parve reggere. Tuttavia, ben presto si vanificò nella miriade di contrasti interni e nel carattere localistico dei conflitti. Era ormai guerra civile aperta, complicata dalla presenza di guerriglieri stranieri e interferenze di altri Paesi. Sul vento genuino della lotta di liberazione contro la dittatura si innestò quello fanatico e intollerante della guerra di religione. Dal confine turco nord-occidentale cominciarono ad arrivare i volontari stranieri jihadisti, molti si accamparono sotto la bandiera nera di Al Qaeda: presto sarebbero diventati i ranghi fondatori dell’Isis siriano grazie agli aiuti di qualche principe saudita e del Golfo. Tra questi: talebani afghani e pakistani, estremisti del Fis algerino, palestinesi di Hamas, miliziani ceceni, rivoltosi tunisini e marocchini. Avevano armi e soldi: l’internazionale islamica irruppe sulla scena. La sfida si fece spietata. Tutto fu permesso, dal ricorso alle armi chimiche agli attacchi deliberati contro ambulanze, medici, cliniche, scuole e ospedali. Gli agenti del regime trattarono allora con i capi dei gruppi islamici, compresi elementi di Al Qaeda, rinchiusi nel grande carcere di Sadnaya, non distante dalla capitale. L’accordo fu presto concluso: sarebbero stati liberati. In cambio avrebbero eliminato gli elementi moderati dalla rivoluzione. In questo modo le opposizioni vennero criminalizzate e gli Stati Uniti, assieme agli alleati della Nato, persero i loro interlocutori e la motivazione stessa per intervenire in difesa della rivoluzione. “Se mi cacciate, il mio posto verrà preso da Al Qaeda”, ripetè Assad ai pochi giornalisti occidentali che accettò d’incontrare. Il suo piano era coadiuvato dagli uomini della famigerata Shabiha, la forza paramilitare fedele al regime incaricata dei “lavori sporchi”: rapiva, assassinava, violentava. A documentare la gravità delle violenze arrivarono nell’agosto del 2013 le 53.275 foto diffuse da Caesar, fotografo siriano impiegato dai servizi segreti interni. A detta di Human Rights Watch, le immagini dei corpi straziati, deceduti per fame, castrati, gli occhi strappati, erano quelle di almeno 6.876 desaparecidos, in maggioranza giovani uomini, finiti nelle mani della polizia segreta. Presto l’attenzione e l’orrore della comunità internazionale furono però distolti dalle riprese dei prigionieri decapitati in piazza dai fanatici dell’Isis, prima nella regione di Raqqa e poi a Mosul, quando nel giugno 2014 la guerriglia islamista irruppe dalla Siria nell’Iraq settentrionale. Fallirono così i tentativi di mediazione dell’Onu. La comunità internazionale rimase perlopiù a guardare. L’Europa non si mosse. Il precedente fallimentare della guerra in Iraq e soprattutto in Libia paralizzava qualsiasi progetto di intervento della Nato. I moniti delle “linee rosse”, annunciate da Barak Obama per l’azione Usa nel caso Bashar avesse utilizzato le armi chimiche contro la sua gente, vennero presto rinnegati. Tuttavia, nell’autunno 2014 gli Stati Uniti scelsero per la prima volta di operare militarmente con le forze curde accerchiate nella cittadina frontaliera di Kobane. Fu l’inizio della fine di Isis: tra ottobre e dicembre 2014 perse oltre 10 mila uomini, il fior fiore dei suoi volontari (allora circa 50 mila), per lo più bombardati dai droni Usa sui cento chilometri di strada tra Raqqa e Kobane. Fu allora che la Turchia di Erdogan scese in campo per evitare la nascita di un’entità autonoma curda in Siria che potesse fare da puntello ai curdi autonomisti in Turchia, ma anche per evitare la ripresa del flusso di profughi sunniti siriani verso nord. In quel contesto Vladimir Putin, in piena coerenza con la tradizione russa di appoggio a Damasco per garantirsi le basi della marina tra Latakia e Tartus, decise di accrescere il sostegno a Bashar. La svolta fu nel 2015: grazie agli aiuti iraniani e alla copertura dei Mig di Mosca, l’esercito siriano, che solo l’anno prima pareva destinato alla sconfitta, riguadagnò terreno, si consolidò a Damasco, Homs, Hama, Palmira, mirò a riprendere Aleppo. Il Paese era ridotto in rovina, l’economia al collasso. I morti superavano il mezzo milione; i profughi all’estero, perlopiù in Turchia (alla volta dell’Europa), Giordania e Libano, erano oltre sei milioni, altrettanti gli sfollati interni. I tragici sviluppi della crisi nelle ultime settimane sono oggi la diretta conseguenza dello scenario definito tra il 2017 e la sconfitta di Isis nel 2019 nelle sue ultime roccaforti lungo la valle dell’Eufrate. A fronte della marginalità delle forze Nato, e con circa 600 soldati americani attestati nelle aree petrolifere della provincia curda del Nord-Est, Assad appare determinato a riprendere il controllo del Paese grazie al contributo iraniano e soprattutto russo. I curdi stanno trattando la resa a Bashar. A contrastarlo c’è soltanto l’esercito turco, attestato nella regione di Idlib assieme alle milizie jihadiste sunnite figlie della rivoluzione del 2011 e radicalizzate da nove anni di guerre. I recenti accordi tra Erdogan e Putin per garantire nuove regole sul cessate il fuoco appaiono però estremamente fragili. L’ultimo tragico capitolo del lungo inverno siriano - anche la violenza del clima ha contribuito nei mesi scorsi al disastro umanitario - sarà scritto nelle prossime settimane. Afghanistan. Ecco la prigione delle donne che hanno ucciso i mariti di Viviana Mazza Corriere della Sera, 15 marzo 2020 Negli stanzoni con i letti a castello dalle fantasie sgargianti, nel cortile dove lavano vestiti e pentole, o giocano a pallavolo: una fotografa iraniana-canadese ha seguito i giorni delle uxoricide detenute in un carcere-modello. L’acqua scorre dal rubinetto. Parisa, con i capelli raccolti indietro, è china sulla sua bambina in pannolino che strilla mentre le fa il bagnetto in una bacinella di plastica. Quest’immagine potrebbe essere stata scattata ovunque, ma è straordinario che venga da un carcere in Afghanistan. La fotografa iraniana-canadese Kiana Hayeri solleva il burqa azzurro in cui spesso le donne afghane vengono ritratte, guadagnandosi la fiducia che le permette di accostarsi alla vita delle detenute e delle guardiane della prigione femminile di Herat. Storie drammatiche All’inizio Hayeri arriva con un uomo come accompagnatore, ma una guardia le bisbiglia di tornare da sola. La fotografa lo farà, ripetutamente, per una decina di giorni. Non le è permesso passare la notte dentro, ma le offrono il tè, osserva le carcerate che, in cambio di qualche soldo, badano ai figli delle guardiane, provano nuove acconciature, rompono insieme il digiuno del Ramadan negli stanzoni con i letti a castello allineati e decorati con fantasie sgargianti. La maggior parte del tempo lo passano in cortile, ad appendere il bucato, sfregare pentole, giocare a pallavolo. Parisa è un’assassina. Due anni fa ha ammazzato il marito, come una ventina delle 119 detenute che vivono con i loro 32 bambini in questa prigione-modello, gestita con l’aiuto di Ong locali, in una provincia a lungo affidata ai soldati italiani nella missione della Nato. Parisa non è pentita. “Non potevo vivere un altro giorno con lui”. Moltissime donne afghane sono costrette dalle famiglie a sposarsi giovanissime - lei a 16 anni - con uomini assai più anziani, criminali, combattenti, tossicodipendenti (o tutte e tre le cose insieme). In un Paese che, dopo oltre tre decenni di guerra, è assuefatto alla violenza domestica, era routine per Parisa che il marito la legasse e le battesse mani e piedi con un bastone di legno. In due occasioni “per darle una lezione” le ha sparato, ma l’ha mancata. Una volta si è accordato per vendere un rene della moglie: l’ha portata in ospedale, ma il gruppo sanguigno non combaciava con il compratore, perciò l’ha picchiata. Una sera Parisa si è chiusa a chiave in camera da letto, ha caricato il fucile del marito e ha aspettato. Quando lui ha cominciato a inveire fuori dalla porta, lei ha sparato. I proiettili hanno fatto breccia attraverso l’uscio, in pochi minuti è morto. Nel 2016, ben prima del recente controverso accordo di pace tra l’America e i talebani, l’atmosfera da fine di un’era si sentiva già a Kabul. Un’avvocata, Latifa Sharifi, ci raccontò che dalla caduta del regime fondamentalista nel 2001 ci sono stati cambiamenti sulla carta, innanzitutto la legge sull’eliminazione della violenza contro le donne che sanziona lo stupro, le percosse alla moglie, i matrimoni forzati e precoci, e proibisce il controllo della famiglia sulla scelta del coniuge. Ma la stragrande maggioranza dei casi non finisce mai in tribunale: la polizia, i procuratori e i giudici continuano a seguire le loro interpretazioni della sharia, e comunque gli stessi tribunali spesso decidono in base alle mazzette che ricevono. Il divorzio? “Devi provare che lui ti picchia, ma alcune madri, quando scoprono che i figli dopo i sette anni e le figlie dopo i nove restano col padre, preferiscono sopportare le botte”. L’avvocata le aiutava e, per questo, riceveva minacce di morte di cui non osava parlare nemmeno al marito, per timore che non le permettesse più di lavorare. Le auto-immolazioni - darsi fuoco - per tante vittime di violenza restano l’unica ribellione. Molte nel carcere di Herat hanno provato a togliersi la vita. La fotografa si chiede cos’è che, invece, fa scattare l’istinto di sopravvivenza, che trasforma la paura in rabbia. Parisa ha 22 anni, resterà dentro fino ai 36, ma ha i figli con sé: Fatima, un anno, e Mohammed di 3. Sembra assurdo, ma in prigione ha trovato, se non la pace, una forma di libertà, per sé e per loro. Parisa e le altre provano “speranza”, ha spiegato Hayeri al New York Times, che per primo ha pubblicato le immagini. Alcuni bambini, nati nel carcere, non hanno mai visto il mondo fuori. Le madri li guardano crescere, dopo i cinque anni li mandano dai parenti o in orfanotrofio per farli studiare. Parisa aveva lasciato che Mohammed andasse a trovare i suoceri: quando loro hanno cercato di sottrarle il bambino, si è battuta per rivendicarne la custodia, ottenendo che lo riportassero da lei. Le madri di adolescenti si illuminano in viso: mia figlia ha vinto una borsa di studio, il mio è arrivato a piedi in Germania. Le loro storie ci ricordano Yalda, una madre incontrata quattro anni fa in un centro di detenzione temporaneo di Kabul. In uno stanzone assai più derelitto (poche prigioni afghane, conferma la fotografa, sono come quella di Herat), sedici donne aspettavano il verdetto con i figli piccoli al loro fianco. “Tre danzavano, due hanno bevuto vino e si sono azzuffate, due adultere...”: elencava allora la direttrice scorrendo le accuse sul registro. Anche a Herat metà delle condanne sono per crimini “morali”, come la fuga da casa o i rapporti sessuali fuori dal matrimonio (vale pure in caso di stupro), verificati praticando “test di verginità” malgrado i dinieghi ufficiali. Quella donna di 32 anni, Yalda, ci raccontò che il marito beveva, la picchiava, le rubava i soldi. È stato quando lui ha cominciato a molestare le due figlie adolescenti che ha detto basta e ottenuto il divorzio. Allora lui ha presentato in tribunale una foto che la ritraeva con un altro uomo (un fotomontaggio, giurava Yalda): è stata condannata a 13 anni per adulterio. Dopo la caduta dei talebani, i signori della guerra che hanno preso il potere si sono dimostrati spesso uguali ai talebani, e i governi occidentali poco disposti a condurre una battaglia culturale. Non tutte le conquiste sono illusorie, ma molte sono fragili e reversibili. Eppure, non sottovalutate la resilienza delle afghane. Da queste parti, si dice che le donne possono lasciare la casa soltanto in un’occasione: quando è tempo di avvolgerle nel sudario. Parisa e le altre hanno trovato un’altra via d’uscita: in manette. Mali. Liberato Luca Tacchetto, in fuga con Edith travestiti da Tuareg di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 15 marzo 2020 Assieme alla canadese Edith Blais era stato sequestrato in Burkina Faso nel dicembre 2018. Luigi Di Maio parla con il padre e pianifica il rientro in Italia del giovane architetto. Sono tornati liberi dopo un anno e tre mesi di sequestro Luca Tacchetto e la sua compagna Edith Blais, i due volontari rapiti il 16 dicembre 2018 in Burkina Faso. Veneto di Vigonza lui, 31 anni, e canadese lei, 35 anni, partiti insieme dall’Italia un mese prima di scomparire, sono riapparsi venerdì sera in Mali, nella città di Kidal, in una base delle Nazioni Unite. La versione ufficiale fornita dal capo della missione dell’Onu nel Paese africano, Mahamat Saleh Annadif, dice che sono riusciti a fuggire dalla prigione in cui si trovavano rinchiusi; erano vestiti da tuareg, la popolazione nomade del deserto del Sahara, hanno fermato una macchina e si sono fatti accompagnare nella base di Minusma, la forza di pace locale dell’Onu. Le immagini del dopo-liberazione li ritraggono in abiti civili (con le magliette dell’organizzazione), i volti sorridenti, lui con la barba folta ma i capelli tagliati da poco, lei con le treccine lunghe e ben curate. Dopo un lungo negoziato condotto dai rappresentanti dell’Aise, l’agenzia di intelligence per l’estero, con le autorità canadesi, Tacchetto è salito in serata su un aereo governativo diretto in Italia, Edith Blais invece è partita per il Canada. Oggi Luca sarà interrogato dal sostituto procuratore di Roma Sergio Colaiocco, che conduce l’inchiesta per sequestro di persona a scopo di terrorismo, e consegnerà al magistrato e ai carabinieri del Ros il racconto dei quindici mesi in cui è rimasto ostaggio, fino alle modalità del rilascio. In un primo momento sembrava che gli ostaggi fossero stati liberati nell’ambito di un’operazione militare di Minusma, poi è stata accreditata la tesi della fuga, ma non è da escludere che per la liberazione dei due ragazzi sia stato pagato un riscatto. In questi lunghi mesi le trattative sono state condotte soprattutto dai canadesi, che a differenza dell’Italia hanno una rappresentanza diplomatica in Mali, e un anno fa l’allora ministra degli Esteri del canada (oggi vice-premier) Chrystia Freeland, aveva detto: “Ci sono cose che sappiamo ma non possiamo condividere, perché non vogliamo mettere in pericolo Edith”. In seguito altri segnali erano arrivati, compresa la prova che gli ostaggi fossero ancora in vita. Fin da subito si era ipotizzato che dal Burkina Faso - dove furono sequestrati all’indomani di una cena e di una serata danzante trascorsa a Bobo-Dioulasso, in Burkina Faso, in compagnia di un pensionato francese loro amico - Luca e Edith fossero stati trasferiti in Mali. Erano diretti in Togo, dopo essere partiti da Vigonzo, in provincia di Padova, e aver attraversato Francia, Spagna, Marocco, Mauritania e Mali; il loro obiettivo era di fare i volontari in una missione, ma il viaggio è stato interrotto dalla banda di sequestratori. Nella zona di confine tra i due Stati e il Niger opera un cartello chiamato Jnim (Jama’a Nusrat ul-Islam wa al-Muslim), sigla di ispirazione jihadista che raccoglie militanti islamisti ispirati ad Al Qaeda e all’Isis, a cui si sarebbero uniti anche bande ribelli del Mali e gruppi tuareg. La stessa organizzazione che ha rapito o gestito il sequestro della coppia potrebbe aver preso in Niger, il 18 settembre 2018, padre Pierluigi Maccalli, missionario italiano scomparso una settimana dopo essere rientrato in Africa. E forse Nicola Chiacchio, un altro connazionale sparito nella stessa zona, che stava attraversando per motivi turistici. A Tacchetto gli inquirenti italiani chiederanno se durante la sua prigionia ha visto o sentito qualcosa che abbia a che fare con gli altri due italiani spariti in quell’area. Poi potrà tornare nella sua Vigonza, dove lo aspetta la famiglia che però è sottoposta alle restrizioni per l’emergenza coronavirus, che proprio in Veneto ha fatto registrare molti contagi. Il padre Nunzio è stato sindaco del paese, e quello attualmente in carica, Innocente Marangon, ieri ha commentato: “Siamo tutti emozionati, ma non potremo festeggiare, questa grande notizia non deve generare il contrario di ciò che dobbiamo fare, cioè rimanere a casa”. Lo stesso spirito espresso dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio: “Una buona notizia in questo momento di difficoltà per il Paese”. Brasile. Le domande senza risposta sull’omicidio di Marielle Franco: chi lo ordinò? E perché? di Riccardo Noury Corriere della Sera, 15 marzo 2020 Due anni dopo l’omicidio di Marielle Franco, consigliera del municipio di Rio de Janeiro, e del suo autista Anderson Gomes, avvenuto la notte tra il 14 e il 15 marzo 2018, Amnesty International ha ricordato che questo crimine resta irrisolto ed è diventato un caso esemplare dell’impunità che asseconda la violenza contro i difensori dei diritti umani in Brasile. Il 13 marzo 2019 Amnesty International e la famiglia di Marielle Franco avevano incontrato il governatore di Rio de Janeiro, Wilson Witzel, e il capo della procura generale Eduardo Gussem. Questi avevano promesso passi avanti verso la conclusione delle indagini garantendone velocità, indipendenza e trasparenza. Ma è successo esattamente il contrario. L’ultimo anno è stato caratterizzato dall’assenza di informazioni ufficiali e da una ridda di fughe di notizie. Quello che si sa di certo è che i due uomini arrestati un anno fa e sospettati di essere gli esecutori materiali del duplice omicidio saranno processati da una giuria popolare. In questi due anni, 983.000 persone di ogni parte del mondo hanno partecipato alla campagna di Amnesty International per la verità e la giustizia. Una campagna che andrà avanti fino a quando non arriveranno le risposte alle due domande: “Chi ha ordinato l’omicidio di Marielle Franco? E perché?”.