Un’occasione per capire chi vive il carcere di Paola Severino* Il Sole 24 Ore, 14 marzo 2020 Lo stato delle carceri italiane al tempo del coronavirus rappresenta un tema certamente trattato poco e ancora meno condiviso. La situazione di chi, ligio alle prescrizioni dettate dal Governo, vive chiuso in casa e si sente minacciato da un flagello mondiale, non è certamente idonea a stimolare alcun senso di solidarietà nei confronti di chi, per aver violato la legge, viene privato della libertà personale. Soprattutto se dallo spunto delle limitazioni ai colloqui coni familiari, a causa dell’epidemia, si passi poi a una vera e propria rivolta, con evasioni di massa, coordinate dall’esterno e connotate dall’uso di una violenza inaudita. Senonché, un maggiore approfondimento del tema può portare a considerazioni diverse. In primo luogo, proprio la nostra attuale situazione potrebbe indurci a superare l’atteggiamento con cui noi tutti releghiamo i discorsi sulla detenzione come “l’altro da sé”, di cui quindi si può far a meno di dibattere. Oggi stiamo vivendo a nostre spese il concetto di “altro da sé”, considerato che molti Paesi nei quali l’epidemia è ancora contenuta o non è stata correttamente misurata ritengono che le fonti del contagio in Europa siano state originate dall’Italia, nonostante le rilevazioni scientifiche dimostrino il contrario. E dunque citano l’epidemia come “altro da sé”, sottendendo un velato rimprovero ai propri “vicini di casa” e non ponendosi il problema di come affrontare le conseguenze di una più che probabile estensione del contagio, sentendosi in qualche modo “diversi”. Esattamente lo stesso fenomeno di rimozione avviene per il tema carcerario: perché dovrei occuparmi di un tema che riguarda un “altro da me”, un “diverso”? Ma adesso che i “diversi” siamo tutti noi italiani saremo forse un po’ più aperti a comprendere i problemi degli altri? Vi è poi un secondo motivo per cui proprio la situazione attuale dovrebbe indurre a considerare il problema della detenzione non così lontano da noi. La privazione della libertà personale cui ci stiamo responsabilmente sottoponendo ci fa avvertire quanto pesante sia il trascorrere l’intera giornata, e per giorni e giorni, nella propria abitazione, in una convivenza forzata con i nostri pur amati familiari, nell’impossibilità di incontrare amici o anche semplicemente fare un giro in città. Risulta allora forse più facile comprendere lo stato d’animo di chi trascorre 24 ore su 24 in una cella, dovendo subire una forzata convivenza con altri detenuti, nell’impossibilità di avere colloqui con i propri parenti e nel timore di poter subire il contagio da uno dei compagni di cella. Certo, questo non giustifica affatto le rivolte che ci sono state, ma ci avvicina alla sofferenza di quelli che ne hanno subito le conseguenze, astenendosi dal prendervi parte. Bene ha fatto, dunque, il Santo Padre a ricordare che la maggior parte dei detenuti è rimasta estranea all’uso della forza ed a sottolineare come il sovraffollamento carcerario, soprattutto in situazioni di emergenza sanitaria come quella che stiamo affrontando, rappresenti una pena che si aggiunge alla pena. Ed è proprio il tema del sovraffollamento carcerario quello che dovrebbe nuovamente risvegliare una attenzione troppo a lungo sopita, se non vogliamo ricadere sotto le sanzioni di Strasburgo, proprio come è accaduto già qualche anno fa, e se non vogliamo essere tacciati di trattamenti contrari al senso di umanità. La mancanza di spazio vitale non solo accentua la percezione di un rilevante pericolo di contagio, ma alimenta i venti di protesta che poi vengono cavalcati dalla criminalità organizzata. Last but not least: oggi tutti plaudiamo, meritatamente, a una moltitudine di medici e infermieri che, nonostante negli ultimi anni sia stata falcidiata dal mancato ricambio di personale ospedaliero, combatte con tutte le forze la battaglia contro l’epidemia. Ma faremmo bene a esprimere la nostra vicinanza a un altro drappello di eroi silenziosi: gli agenti di polizia penitenziaria. Bene ha fatto il ministro della Giustizia a menzionarli per primi nel suo intervento al Parlamento. Ignorati spesso dalla opinione pubblica nel loro difficile lavoro quotidiano, fatto di equilibrio tra fermezza e comprensione, gravati dalla condivisione di situazioni in cui la limitazione degli spazi di libertà condiziona e si riflette anche sulle loro stesse abitudini di vita, sono sempre pronti a intervenire quando l’emergenza lo richiede. Domenica scorsa, ad esempio, sono volontariamente rientrati in servizio molti di coloro che erano in riposo settimanale o in ferie e, tra loro, tanti giovani di recente entrati a far parte del corpo. Il tutto, senza clamore, silenziosamente e senza che nessuno se ne accorgesse. A conferma del fatto che tutto quello che ruota intorno al carcere, salvo le fiammate di attenzione per le rivolte, è “altro da sé” e va dunque ignorato, anche se è nobile. *Vicepresidente Luiss L’emergenza nelle carceri di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 14 marzo 2020 Sono gravissime le rivolte nelle carceri italiane. Esse aggiungono difficoltà alla difficoltà in cui il Paese si trova. Dopo aver rinunciato per anni ad usare ragione e preveggenza nel gestire il problema carcerario, lo Stato è ora costretto a ricorrere alla forza. E deve farlo in condizioni di emergenza generale. La violenza scatenatasi in molte carceri, con distruzioni e agenti della Polizia penitenziaria feriti, ha ora prodotto un contesto difficile per una discussione razionale su ciò che occorre fare. Vi sono misure da prendere a protezione non solo dell’insieme dei detenuti, ma anche di tutto il personale della Amministrazione Penitenziaria e di coloro che entrano ed escono ogni giorno dalle carceri (educatori, volontari, medici, detenuti semiliberi che rientrano la sera, detenuti che rientrano da un permesso, avvocati, magistrati, parenti dei detenuti, ecc.). La pericolosità di un virus estremamente contagioso è massima nella comunità carceraria, che è concentrata, ma non chiusa rispetto all’esterno. Si comprende quindi che si sia provveduto alla temporanea limitazione dei colloqui dei detenuti coni famigliari. Ma la regolamentazione delle restrizioni è stata diversamente definita nei vari decreti che si sono susseguiti, rendendo difficile la comunicazione E spiegazione ai detenuti e ai loro famigliari. Ciò mentre la televisione portava anche nelle carceri notizie allarmanti. Questa è stata la miccia che ha fatto esplodere la protesta. Ma una simile violenta e diffusa protesta non si spiegherebbe se non si considerasse lo stato delle carceri. E qui è necessario riprendere un discorso in passato presente nel dibattito politico e sociale, ma scomparso dopo l’esito delle elezioni politiche del 2018. Si tratta del ripensamento di una visione del diritto penale in esclusiva funzione carceraria e della questione connessa del sovraffollamento delle carceri. Oggi vi sono 61.000 detenuti per 51.000 posti regolamentari e 47.000 effettivi (nel carcere di Modena, ove si è avuta una delle più gravi rivolte, 568 detenuti per 370 posti). Si può ben immaginare l’effetto che fa sui detenuti il sentire alla televisione che occorre tenere sempre una distanza di almeno un metro da ogni altra persona. Tale indicazione generale è tanto più importante se si considera la vita di una pluralità di detenuti nella stessa cella: una vita promiscua, in cui i corpi si toccano, in cui l’igiene è problematica e la convivenza è pesante. Una convivenza difficile anche per la composizione sociale della popolazione detenuta. Un terzo dei detenuti è composto da tossicodipendenti (drammatica è la tragedia dei morti per overdose nel corso delle rivolte, appena è stato possibile svaligiare l’infermeria e fare incetta di metadone). Spia della situazione nelle carceri è il numero dei suicidi tra i detenuti: 67 nel 2018, 53 nel 2019, già 9 quest’anno, più di mille dal 2000. È largamente inosservato lo spazio minimo di tre metri quadri per detenuto in ogni cella, sotto il quale a livello europeo si ritiene che normalmente si dia trattamento inumano e degradante. Una condizione nota da lungo tempo, ma formalmente denunciata a partire dal 2013 dalla Corte europea dei diritti umani e dalla Corte costituzionale. Il presidente Napolitano con un messaggio al Parlamento ha scritto che “la stringente necessità di cambiare profondamente la condizione delle carceri in Italia costituisce non solo un imperativo giuridico e politico, bensì in pari tempo un imperativo morale. Le istituzioni e la nostra opinione pubblica non possono e non devono scivolare nell’insensibilità e nell’indifferenza, convivendo - senza impegnarsi e riuscire a modificarla - con una realtà di degrado civile e di sofferenza umana come quella che subiscono decine di migliaia di uomini e donne reclusi negli istituti penitenziari”. Seguirono alcuni interventi legislativi che privilegiavano soluzioni diverse e furono capaci di ridurre significativamente il numero dei detenuti in carcere. Ma poi quel numero riprese ad aumentare per tornare pressoché a quello precedente. Una iniziativa di complessivo ripensamento della legislazione penitenziaria fu presa dal Ministro Orlando nel 2015 e la commissione da lui nominata, presieduta dal professor Giostra, elaborò numerose proposte. Alcune divennero legge, ma quelle fondamentali sono rimaste sulla carta. Si era in prossimità delle elezioni e il governo di allora volle evitare riforme che pensava impopolari. Le elezioni le perse egualmente e per l’imprevidenza ora nelle carceri il terreno è propizio alle rivolte. “Sono indispensabili i domiciliari e la liberazione anticipata speciale” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 marzo 2020 Parla Emilia Rossi, del Collegio del Garante nazionale delle persone private della libertà. Non c’è più tempo, la calma che ora attraversa i penitenziari italiani è solo apparente. Mentre tutta l’Italia è in una specie di quarantena soprattutto per evitare assembramenti di persone, le carceri sono sovraffollate. A questo si aggiunge anche il problema dei posti inagibili a causa delle rivolte. L’amnistia e l’indulto è una battaglia politica, soprattutto culturale, che va fatta nel tempo. Ma ora, in questo momento di emergenza sanitaria, è impraticabile. Il Dubbio ha contattato Emilia Rossi del Collegio del Garante nazionale delle persone private della libertà. “Per decongestionare rapidamente le carceri italiane, le uniche misure efficaci sono l’applicazione della liberazione anticipata speciale, i domiciliari, la licenza per i semiliberi”, commenta la Garante. Di fatto, la causa scatenante delle rivolte, è proprio la paura del contagio all’interno delle carceri e del fatto che, appunto, sono in troppi. Proprio ieri, su Il Dubbio, è stato riportato il caso del ragazzo tunisino morto durante la rivolta del carcere di Modena: aveva una pena definitiva di due anni e gli mancavano due settimane per uscire. Tantissimi come lui stanno scontando una pena di pochissimi anni: la misura alternativa è l’unica via di uscita. Emilia Rossi fa sapere che l’autorità del Garante sta monitorando gli eventi, tutte le situazioni critiche che inevitabilmente sono aumentate dopo le rivolte. Tante, tantissime segnalazioni arrivano all’autorità, le quali saranno verificate con attenta scrupolosità. Così come stanno avviando le interlocuzioni con le varie Procure per avere informazioni circa l’apertura di indagine al fine di presentarsi come persona offesa. Parliamo dei 13 decessi collegati alle rivolte, molto probabilmente morte di overdose. Al momento non è dato sapere se le autopsie siano state fatte e i relativi risultati. Sicuramente le procure dovranno appurare, soprattutto per i detenuti morti dopo il trasferimento in altre carceri a centinaia di km di distanza, se si sia stato fatto tutto il possibile per evitare il soccorso all’ultimo momento. Ma ritorniamo alle misure deflattive urgenti. Qualcosa si sta muovendo. Diversi tribunali di sorveglianza stanno facendo compilare i moduli per fare istanza di misure alternative per chi ha una pena superiore residua non superiore ai 15 mesi. Inoltre si sta procedendo nel mandare in licenza i semiliberi fino, per ora, agli inizi aprile. In alcune regioni si sta valutando di mandare in licenza anche i detenuti in articolo 21, ovvero coloro che svolgono un lavoro esterno. “Per ora - spiega la garante Emilia Rossi - la magistratura si sta muovendo a macchia di leopardo, ma ci auguriamo che ci sia uniformità. Noi, come autorità del Garante nazionale, continuiamo il lavoro per la ricerca di possibili provvedimenti normativi e diffusione di buone prassi applicative delle norme esistenti”. Il garante nazionale è anche in attesa di una nuova convocazione della cosiddetta “Task force” voluta dal ministro della giustizia Alfonso Bonafede. Nel frattempo, si aggiunge una buona notizia. Il nuovo Direttore generale Detenuti e trattamento, Giulio Romano, in carica dal 14 febbraio scorso, ha dato il via libera per tutte le carceri italiane l’uso della posta elettronica nella comunicazione tra detenuti e familiari, e anche all’uso di Skype per le lezioni scolastiche e universitarie in videoconferenza e per lo svolgimento degli esami e dei colloqui tra docenti e studenti reclusi. Ma non solo. La possibilità del colloquio via Skype - ovviamente accuratamente controllati - viene estesa anche nei confronti dei detenuti reclusi nelle sezioni di Alta Sorveglianza. Una svolta importantissima per sopperire al divieto dei colloqui a vista per evitare il contagio da coronavirus. Ma per quanto riguarda i reclusi al 41 bis? I colloqui, così come chiarito anche dalla circolare del Dap, possono svolgersi regolarmente dal momento che avvengono con separazione completa con un vetro divisorio”. “Situazione pericolosa, svuotare le celle”, ma Bonafede non cede di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 14 marzo 2020 Dopo le sommosse, si moltiplicano le richieste e le proposte di magistrati e associazioni per diminuire il numero dei detenuti nei penitenziari. Ma dal Guardasigilli nessuna apertura (a parte l’assunzione di 1.100 nuovi agenti). Le rivolte sedate nelle carceri italiani, dopo la sospensione delle visite ai detenuti per contenere i rischi di contagio da coronavirus, hanno fatto rientrare l’emergenza di sommosse e devastazione, ma non il sovraffollamento. Né il pericolo che - qualora malauguratamente l’infezione dovesse entrare in qualche penitenziario, dove l’isolamento e le distanze di sicurezza tra detenuti sono semplicemente un’utopia - la situazione potrebbe degenerare in forme anche peggiori di quelle viste nei giorni scorsi. C’è una bomba a orologeria da disinnescare prima che esploda, insomma, come è stato detto al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede da pressoché tutti gli interventi a commento della sua informativa in Parlamento. Gli stessi partiti che sostengono il governo, esclusi i Cinque stelle, hanno chiesto interventi immediati per non farsi trovare impreparati. Ma dal Guardasigilli non è arrivato alcun segnale (a parte l’assunzione di 1.100 nuovi agenti penitenziari firmata venerdì). Nemmeno la scintilla di una nuova sommossa notturna nel carcere di Catania, che ha provocato danni alle strutture ma non alle persone, ha riacceso l’attenzione. Dal ministero non si vuole dare l’impressione di un cedimento di fronte alle violenze e alle proteste dei detenuti sfociate nell’illegalità. Tuttavia i problemi da affrontare restano. E per adesso se ne stanno facendo carico i magistrati di sorveglianza che, consapevoli tanto dell’emergenza che dei rischi futuri, hanno cominciato a prendere di loro iniziativa provvedimenti di decongestione del sovraffollamento. Per esempio concedendo le licenze necessarie a non far rientrare in carcere, di sera, i detenuti semiliberi che escono al mattino; intanto per due settimane, poi si vedrà. È successo nel Lazio, in Toscana e altrove, ma si tratta di iniziative spontanee dei giudici, assunte a normativa vigente; ancora una volta la magistratura è chiamata a risolvere i problemi che la politica non vuole o non sembra in grado di affrontare. Tanto che il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, chiamato dal ministro a far parte della task force annunciata per fronteggiare l’urgenza, commenta: “Le licenze e l’estensione della detenzione domiciliare da parte dei tribunali di sorveglianza sono un segnale positivo, ma mi auguro che ne arrivino pure sul piano legislativo”. Il Garante si è riservato di avanzare al governo una serie di proposte da attuare immediatamente per sfoltire le presenze nei penitenziari (dove ci sono oltre 11.000 detenuti in più rispetto alla capienza, ma le proteste dell’ultima settimana hanno reso inagibili circa 2.000 posti, quindi il sovraffollamento supera attualmente quota 13.000), mentre l’associazione Antigone l’ha già fatto. Tra gli interventi suggeriti c’è l’applicazione ai semiliberi della detenzione domiciliare, così come a coloro che si trovano a piede libero e per i quali dovesse intervenire, di qui in avanti, un provvedimento di esecuzione della pena divenuta definitiva. Gli avvocati dell’Unione camere penali hanno proposto al governo di intervenire con un decreto legge che conceda la possibilità di trascorrere a casa il residuo pena per coloro ai quali sono rimasti da scontare meno di due anni. Ma se si decidesse di applicare la misura anche solo a chi è rimasto un anno, si libererebbero circa 8.000 posti nelle celle. “La situazione è molto delicata; a fronte del sovraffollamento e di una elevata promiscuità c’è una ragionevole preoccupazione per il rischio di un’emergenza sanitaria dalle prospettive difficilmente immaginabili”, spiega Marco Patarnello, magistrato di sorveglianza a Roma. Secondo il quale è necessario intervenire a prescindere dalle proteste dei giorni scorsi: “Con gli autori delle rivolte è doveroso avere un polso molto fermo, ma è giusto ricordare si è trattato di una piccola parte della popolazione carceraria, la quale complessivamente ha reagito molto bene. Ora che tutto è rientrato, è il momento di fare subito qualcosa di tangibile, senza delegare come sempre alla magistratura la responsabilità di un intervento in assenza di strumenti adeguati. Non si tratta di cedere ai ricatti dei rivoltosi, ma al contrario di assumersi le dovute responsabilità rispetto ad una popolazione di detenuti che mantiene i nervi saldi”. Per il magistrato si può partire proprio dalla posizione degli avvocati: “Trovo del tutto ragionevole la proposta avanzata dalle Camere Penali, quanto meno rispetto ad un intervento legislativo di urgenza finalizzato a favorire la prosecuzione della pena in detenzione domiciliare per tutti coloro che devono ancora scontare meno di due anni, ferma restando una valutazione da parte del magistrato di sorveglianza. E poi, superata l’emergenza, è matura una riflessione razionale sulla pena e la sua esecuzione”. “I detenuti hanno paura: se il virus entra in carcere la tragedia è sicura” di Valentina Stella Il Dubbio, 14 marzo 2020 Intervista a don Vincenzo Russo, da quindici anni il cappellano del penitenziario fiorentino di Sollicciano. La grande paura del coronavirus è arrivata anche nel carcere fiorentino di Sollicciano, quando tre giorni fa il direttore Fabio Prestopino ha comunicato ai detenuti che un allievo agente penitenziario era risultato positivo al Covid-19. Alcuni reclusi hanno appiccato il fuoco nei passeggi a tavoli, sedie e materassi. La situazione è tornata quasi subito sotto controllo ma le criticità restano come ci racconta don Vincenzo Russo, da quindici anni cappellano del carcere, sempre vicino agli ultimi, agli emarginati, in sintonia con Marco Pannella quando ci dice che va in carcere “per dare ed essere speranza”. Don Vincenzo, lei ha appena terminato una riunione con gli operatori. Com’è la situazione? C’è stato un picco di ribellione due giorni fa ma ora è tutto rientrato. Alla notizia delle rivolte a Salerno, Napoli, Foggia, Modena, Milano, Rebibbia, i reclusi di Firenze si sono fermati per confrontarsi, per parlarne. Hanno paura: se il virus entra in carcere, è tragedia sicura, il contagio è garantito e la terapia, intensiva o non, impraticabile. Cosa lamentano i reclusi? Tutte le circolari arrivate erano destinate a contenere il contagio, quindi volte alla prevenzione, senza indicazioni per il futuro. Occorreva dare più spiegazioni, più dettagli. A Sollicciano poi ci sono moltissimi stranieri, circa 20 etnie diverse, molti sono analfabeti. Quando è stato loro consegnato il foglio con le nuove disposizioni non lo hanno compreso. A proposito di numeri, a Sollicciano i posti regolamentari sono 494, quelli non disponibili 39, mentre la capienza è pari a 825 detenuti. Un tasso di sovraffollamento altissimo... I detenuti sono in celle dove non si rispetta il metro di distanza, lavarsi le mani è impossibile perché mancano i saponi e i disinfettanti. I detenuti sono cittadini di serie B. Sono in gabbia come topi con il rischio che un veleno, in questo caso il Covid-19, li possa uccidere da un momento all’altro. Il direttore sta lavorando ma ha poteri circoscritti. Quando hai 800 persone ammassate non puoi fare miracoli. Lei ha scritto una lettera al ministro Bonafede, per chiedergli cosa? C’è bisogno di attenzione, di informazioni e collaborazione, indicazioni su tempi e modi delle misure adottate. Occorre accelerare con gli strumenti previsti a seguito della cancellazione temporanea dei colloqui. In questo momento in carcere le attività sono sospese, quindi c’è tanto tempo per garantire ai detenuti telefonate che superino i 10 minuti. E poi i presidi sanitari vanno rafforzati, perché la situazione è molto precaria. Ma bisognerebbe anche sfoltire la popolazione detenuta? Si devono per questo attivare i tribunali di sorveglianza. Chi non riuscito fino ad ora a gestire l’emergenza, dovrebbe mettere in atto interventi in collaborazione con altre istituzioni. Il capo del Dap Basentini dovrebbe girare l’Italia e incontrare i presidenti dei Tribunali di Sorveglianza per trovare una soluzione tempestiva. Così come, terminata l’emergenza, dovrebbe sedersi al tavolo con il ministro del Lavoro affinché i detenuti, una volta tornati in società, non si trovino privi di possibilità. Fuori non si è capito che la situazione delle carceri era critica da molto prima che arrivasse il virus, ed ora è tragica. Evitare le tragedie che si possono evitare è un dovere di tutti. In che modo? Si potrebbero, per esempio, prevedere incentivi e sgravi fiscali per le aziende che danno agli ex reclusi un lavoro. È un miracolo se riesco a trovar loro qualche lavoretto. Ma la società civile, pur terminata di scontare la pena, continua spesso a trattare gli ex detenuti come reietti. Ora più che mai, visto che la narrativa politica li descrive solo come criminali... Esatto. Il ministro Bonafede nelle sue dichiarazioni, riferendosi ai detenuti, ha parlato solo di criminali. Io in carcere ci sto da tanti anni: il carcere, invece, è pieno di persone povere, fragili. Il presidente Conte nelle sue numerose comunicazioni si è rivolto a tutti gli italiani. Quindi anche a noi in carcere? Eppure né da parte sua, né da parte del ministro e persino del presidente Mattarella, c’è stato un solo riferimento ai detenuti morti durante le rivolte e alle loro famiglie. Qui tutti si impegnano a fare discorsi prettamente politici, tralasciando il fatto che nelle carceri si violano costantemente - e maggiormente adesso - i diritti non dei detenuti ma in primis di persone, molte delle quali estremamente fragili. Diciamoci le cose come stanno. Dica pure... I detenuti morti, da quello che si sa, erano tossicodipendenti. Nelle nostre carceri c’è una percentuale altissima di tossicodipendenti e molti di loro hanno aderito alla protesta, a differenza ad esempio di quelli dell’alta sicurezza. Il problema è che i tossicodipendenti non devono stare in carcere, devono esseri inseriti in altri percorsi. Io chiedo alla politica perché ancora non si sono decisi a legalizzare le droghe, perché lasciano tutto in mano alla criminalità organizzata? Loro pensano solo a dire: lo Stato non arretra. Si tratta di una strada fallimentare, sembra che vogliano stringere ancora di più il cappio. Ma devono stare attenti, perché se continuano su questa strada a ribellarsi non saranno solo i detenuti ma gli operatori tutti. Intende anche gli agenti? I reclusi non sono gli unici a vivere in cattive condizioni: vedo tanti giovani con la divisa addosso abbandonati in queste sezioni dell’inferno. Vero è che vengono pagati ma non per stare ammassati nelle caserme. I detenuti poi si sfogano con loro che rappresentano quello Stato che li sta costringendo in queste condizioni disumane. Alla fine è una guerra tra poveri quella che si scatena in carcere quando la tensione aumenta. Lei cosa dice ai detenuti? Io porto la speranza. Il dono è essere lì con loro, anche in silenzio, ma stando dalla loro parte. Certo, hanno commesso dei reati ma sono esseri umani con la nostra stessa dignità. A me hanno consigliato di non andare in carcere per i miei problemi di cuore ma io ieri sono andato lo stesso per stare accanto a loro. E alla società civile che messaggio vuole rivolgere per bene interpretare quanto sta succedendo? Voglio ricordare le parole pronunciate da Papa Francesco quando ha incontrato i detenuti a Ciudad Juarez: chi ha sofferto profondamente il dolore e ha sperimentato l’inferno può diventare un profeta nella società. Lavorate perché questa società che usa e getta la gente non continui a mietere vittime. Dalle carceri il rischio di un “girone di ritorno” del Covid-19, servono provvedimenti immediati di Emanuela Bertucci* imgpress.it, 14 marzo 2020 Sedate le rivolte, le carceri hanno smesso di interessare i media. Ma l’emergenza non cessa, il rischio di contagi all’interno delle strutture carcerarie, una volta “entrato” il virus, è quasi una certezza. E una volta innescato contagerà i detenuti, gli operatori delle case circondariali, i loro familiari, noi tramite loro in un insensato “girone” di ritorno. Non vi annoio con la “storia” dei diritti dei detenuti, che a troppi non interessa, vi racconto quello che vi preme: così facendo, il virus continuerà a dilagare. È di poche ore fa la notizia di un caso accertato di Covid-19 nel carcere di Lecce: si tratta di una donna entrata in carcere il 7 marzo con la figlia di un anno, che quindi ha presumibilmente contratto il virus fuori e lo ha “portato” nella sezione femminile della casa circondariale. Proprio ieri (a tre giorni dalle rivolte nelle carceri e all’indomani del primo agente di polizia penitenziaria positivo al Covid-19) a un mio assistito è stato notificato un ordine di carcerazione, non sospeso, per cui è stato tradotto in carcere. Nella prassi dell’esecuzione penale italiana, una volta che una sentenza è definitiva può essere eseguita in qualsiasi momento e, sempre nella prassi, i fascicoli attendono parecchio tempo sulla scrivania prima di essere “lavorati”. La sentenza di condanna era definitiva da mesi, poteva essere eseguita quindi mesi fa come fra un anno, non c’era alcuna esigenza di particolare celerità né alcun pericolo di fuga. E in una situazione carceraria in delirio, anziché posticipare i nuovi ingressi per non aggravare ulteriormente l’affollamento carcerario durante l’emergenza corona virus, viene deciso che è ben possibile consentire nuovi ingressi. Non è ovviamente l’unico. Gli appelli a gestire in qualche modo la situazione sono corali quanto inascoltati. Il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze qualche giorno fa ha - giustamente - lanciato un appello affinché si trovi una soluzione di emergenza: propone che con un provvedimento straordinario e temporaneo si conceda la detenzione domiciliare “per legge” a tutti i detenuti che hanno a disposizione un alloggio e il cui residuo di pena sia inferiore ai tre anni per un periodo di sei mesi, escludendo i reati più gravi. C’è chi propone, non per deflazionare ma per evitare ulteriore sovraffollamento, un differimento nell’emissione di ordini di esecuzione della pena in conseguenza della definitività della sentenza di condanna. Ancora, un’altra proposta suggerisce di sospendere e differire con decreto legge l’esecuzione della pena per i condannati a pene inferiori a tre anni e sottolinea che persino l’Iran - non proprio paladino dei diritti umani - lo ha fatto il 3 marzo, disponendo la detenzione domiciliare anziché in carcere per 54.000 detenuti con pene inferiori a 5 anni. La radicale Rita Bernardini e l’ex vice capo del Dipartimenti dell’amministrazione penitenziaria, Massimo de Pascalis, propongono amnistia e indulto (anche se i tempi tecnici sarebbero probabilmente eccessivamente lunghi rispetto al momento di emergenza). Il Tribunale di Sorveglianza di Milano ha predisposto delle Linee guida per agevolare l’affidamento in prova per i detenuti tossicodipendenti. Un esempio virtuoso che forse sarà seguito anche in altri distretti. Virtuoso ma insufficiente: la pandemia ci ha insegnato che le azioni per essere efficaci devono essere estese all’intero territorio nazionale, in questo caso a tutta la popolazione carceraria italiana. Quale che sia la soluzione che Governo e Parlamento decideranno di adottare, è certo che un provvedimento va preso poiché l’inerzia e il ritardo nell’assumere decisioni nette e coraggiose possono essere fatali. E il corona virus che stiamo cercando di sconfiggere con misure dure ma necessarie potrebbe ritornare a circolare dalle carceri di cui non ci siamo occupati, come in un ottuso girone di ritorno. *Avvocato, consulente Aduc Coronavirus e carcere di Giovanni Maria Pavarin giustiziainsieme.it, 14 marzo 2020 Nella sezione delle aree tematiche della Gazzetta Ufficiale denominata “Coronavirus” figurano, dal 31 gennaio 2020 ad oggi, ben 12 tra decreti legge, leggi e d.p.c.m. riguardanti le misure urgenti fin qui adottate. Il carcere fa in essi capolino solo col d.p.c.m. 25 febbraio, che si è preoccupato che i nuovi ingressi in istituto non siano occasione di contagio [lett. m) dell’art. 1). La preoccupazione è stata ribadita tal quale 5 giorni dopo [lett. h) dell’art. 4 d.p.c.m. 1 marzo 2020]. È solo il giorno successivo che il Governo interviene sopprimendo di fatto il diritto ai colloqui visivi (art. 18 legge n. 354/1975) col prevedere che gli stessi, negli istituti in allora appartenenti alla cd. “zona rossa”, fossero “svolti a distanza, mediante, ove possibile, apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria”, ovvero “surrogando” tale diritto con la possibilità di ottenere l’aumento del numero delle telefonate consentite ex art. 39 d.p.r. n. 230/2000 (art. 10, 14° comma d.l. 2 marzo 2020, n. 9) (le telefonate in esubero restano comunque assoggettate al potere discrezionale dl Direttore). Immediata deve essere stata a mio giudizio la ricaduta pratica di tale disposizione sul fronte del penitenziario, se è vero che appena sei giorni dopo il d.p.c.m. 8 marzo 2020 innesta una parziale retromarcia con la previsione secondo cui “in casi eccezionali può essere autorizzato il colloquio personale, a condizione che si garantisca in modo assoluto una distanza pari a due metri” [art. 2, lett. u)]. Molto interessante l’altra disposizione contenuta nella stessa lett. u), laddove - in relazione ai “casi sintomatici dei nuovi ingressi negli istituti penitenziari” - viene prevista la “condizione di isolamento” dagli altri detenuti “raccomandando di valutare la possibilità di misure alternative di detenzione domiciliare”. Si tratta, all’evidenza, di raccomandazione rivolta agli organi dell’Amministrazione penitenziaria, che sono legittimati a chiedere alla magistratura di sorveglianza i benefici penitenziari (art. 57 l.n. 354/1975): chiara la volontà di evitare che il virus entri in carcere e che, una volta entratovi, vi si propaghi. L’ultima parte della stessa norma concerne la raccomandazione di “limitare i permessi e la libertà vigilata o di modificare i relativi regimi in modo da evitare l’uscita e il rientro dalle carceri”: anche in questa ipotesi, evidente essendo che il Governo non può di certo “raccomandare” nulla alla giurisdizione, l’invito appare rivolto ai Direttori degli istituti, competenti a rilasciare il parere sulla concessione dei permessi premio ed a modulare il programma di trattamento dei semiliberi (art. 101 d.p.r. n. 230/2000), altro significato non potendo attribuirsi all’infelice ed atecnico richiamo alla libertà vigilata. La sera dello stesso 8 marzo la Gazzetta Ufficiale pubblicava però il d.l. n. 11/2020, il cui art. 2, 8° comma interviene ad estendere a tutti gli istituti di pena (e prima ancora che l’intero paese divenisse “zona rossa”) la norma limitativa (rectius: soppressiva) del diritto ai colloqui, ignorando però la facoltà di deroga in casi eccezionali prevista qualche ora prima dal d.p.c.m. appena richiamato. Dal che si dovrebbe far discendere, per incompatibilità del decreto-legge, fonte primaria di grado poziore e posteriore, rispetto a quella precedente e di grado inferiore (d.p.c.m.), il venir meno della facoltà concessa ai direttori degli istituti di pena di derogare in casi eccezionali alla norma impeditiva dei colloqui. Il successivo 9° comma dello stesso art. 2 contiene poi una disposizione (per la verità alquanto eccentrica) che prevede che la magistratura di sorveglianza possa sospendere la concessione dei permessi premio e della semilibertà “tenuto conto delle evidenze rappresentate dall’autorità sanitaria”. Qui si assiste ad una specie di tentativo (già leggibile in nuce nel d.p.c.m. 8 marzo 2020) del potere politico di “indirizzare” la giurisdizione: si tratta, infatti, di una norma del tutto pleonastica, evidente essendo che i magistrati di sorveglianza, facendo uso della discrezionalità loro concessa dalla più parte delle norme di ordinamento penitenziario, dispongono già del potere di sospendere la concessione dei permessi (o di non concedere la semilibertà) per motivi oggettivi (che non dipendono cioè da un giudizio di meritevolezza del condannato). Inutile però negare la “suggestione” che la norma è destinata ad operare: ci saranno, e ci sono, magistrati di sorveglianza che sospenderanno in via generalizzata i permessi premio in corso di fruizione, altri che non ne concederanno di ulteriori, altri ancora che approveranno rimodulazioni dei programmi di trattamento della semilibertà in senso oltremodo restrittivo; altri magistrati effettueranno invece valutazioni caso per caso a seconda del tasso di rischio connesso al pericolo di importare il virus all’interno dell’istituto, ad esempio consentendo ai semiliberi di pernottare presso le loro abitazioni e computando le relative ore nel montante annuo delle licenze consentite dall’art. 52 l.n. 354/1975. Va a tal proposito considerato che l’ambiente carcere non può essere considerato al riparo dal rischio epidemiologico solo perché si prevede una restrizione delle uscite: ogni giorno i detenuti, infatti, toccano cose (le merci, il cibo, i generi sopravittuari, ecc.) che vengono dall’esterno e vivono e respirano con persone (gli operatori penitenziari) che vengono dall’esterno. Si deve dunque convenire che il rischio della propagazione all’interno degli istituti del coronavirus non è direttamente correlabile né all’abolizione dei colloqui né al giro di vite dei benefici penitenziari. C’è di più: il detenuto non appare per definizione in grado di rispettare le norme comportamentali sul distanziamento sociale, essendo anzi obbligato a condividere numerose ore al giorno i propri spazi di vita con molte altre persone; del pari non è di certo applicabile ai detenuti il divieto di assembramento di cui all’art. 1, 2° comma del d.p.c.m. 9 marzo 2020, emanato quando tutta Italia è divenuta “zona rossa”. Ma tant’è: il rebound nel pianeta carcere (non propriamente popolato da fini giuristi) di tali disposizioni, assommato a mille preesistenti motivi di tensione, è sfociato negli episodi di violenza, se non in vere e proprie sommosse ed evasioni di cui i media danno ogni giorno notizia e che ci restituiscono immagini del tutte inedite e non conosciute nemmeno all’epoca del terrorismo. I preesistenti motivi di tensione sono noti a tutti: la sola parzialissima realizzazione delle riforme di sistema previste dalla legge Orlando, avendo i decreti legislativi delegati deluso le attese di molti detenuti; gli annunci “liberatori” seguiti ad alcune pronunce della Corte costituzionale e della Cedu in materia di ergastolo ostativo e di ammissibilità dell’istanza di permesso-premio anche in difetto di collaborazione con la giustizia da parte dei condannati per reati di cui all’art. 4 bis l.n. 35471975; l’inedito viaggio dei giudici della Corte costituzionale nelle carceri (con relativa regia di un film), che può aver creato un clima di fiducia nell’inizio di un costruttivo dialogo con le istituzioni; l’incremento, lento ma costante, del tasso di sovraffollamento; l’assenza di provvedimenti di clemenza da ben 14 anni; il clima sociale pervaso dallo slogan della pena effettiva e certa, che rende obiettivamente più difficoltosi i percorsi di reinserimento sociale e che disturba maledettamente tutti gli addetti al cammino rieducativo. Non sta certamente a me dare consigli, fornire ricette o indicare le possibili vie d’uscita, né alimentare le polemiche insorte tra i colleghi sulla bontà e l’opportunità dei rimedi possibili. Una sola cosa mi sembra chiara: quanto sta succedendo in questi giorni in carcere esige una risposta (quale che sia) caratterizzata dall’urgenza: solo una risposta celere e risolutiva sarà in grado di placare il clima di tensione e di far cessare definitivamente gli inauditi episodi di violenza e di morte. Solo due osservazioni: quanto alla liberazione anticipata speciale (ipotesi avanzata dall’ottimo Riccardo De Vito, uno tra i più valenti ed apprezzati colleghi della sorveglianza), ricordo (solo a chi non ne avesse memoria) che è stato proprio questo istituto a consentire al nostro Paese di salvarsi da ulteriori pesanti condanne da parte della Cedu. Quanto all’abolizione dei colloqui, il divieto ben potrebbe essere rivisto e rimodulato, prevedendo ad esempio gli opportuni controlli nei confronti di chi ha diritto di accedervi. Come magistrato mi sento solo di ricordare che il compito che la legge affida alla giurisdizione di sorveglianza è quello di dare alla pena l’unico senso possibile, che è quello della rieducazione: castigo sì, retribuzione sì, ma anche speranza nella riabilitazione e nel riscatto attraverso la costante e spesso affannosa ricerca di percorsi di reinserimento. Come magistrato mi sento solo di ricordare a me stesso che il principio della pena effettiva e certa non può essere usato come uno slogan. Esso evoca semplicemente una delle principali conquiste del moderno Stato di diritto: esso altro non significa che il principio di legalità (art. 25, 2° comma Cost.), il quale implica il divieto di punire se non in base ad una legge certa (sul reato e sulla pena) entrata in vigore prima del fatto commesso. Per questo il carcere, per chi ha la sorte di finirci, va concepito come un trampolino di partenza verso l’inizio di una nuova vita: si tratta di un obiettivo che va perseguito con l’apertura massima alle misure alternative alla detenzione, tutte le volte - beninteso - in cui ciò sia possibile senza ledere il diritto della collettività alla sua sicurezza. Da ultimo, e sempre riguardo al sovraffollamento, si tratta solo di far alloggiare dignitosamente poco più di 60.000 persone: credo non sfugga a nessuno che l’impegno economico necessario alla risoluzione del problema pare quasi irrilevante se raffrontato alle cifre che sono state impiegate per affrontare le altre dolorose piaghe delle quali lo Stato è stato costretto ad occuparsi, impegnando importanti risorse finanziarie (penso ai terremotati, ai cassintegrati, ai malati, ai disabili, a tutti quei soggetti, insomma, nei cui confronti le parole come Stato sociale e welfare hanno ancora un senso). Strage nelle carceri, Renzi rompe il silenzio dopo la più grande carneficina di sempre di Piero Sansonetti Il Riformista , 14 marzo 2020 Una vocina, dal mondo politico, si è levata finalmente. Dico una vocina che parli della questione carceri e della strage di sabato e domenica scorsi. Finora silenzio, silenzio. Ieri - inaspettata - si è sentita la voce di Renzi. Vi giuro che non sono renziano, vengo dal vecchio Pci e chi viene dal vecchio Pci è vaccinato contro il renzismo. Però uno poi prende anche atto dei fatti: a quasi una settimana dalla morte di tredici persone durante una protesta nelle carceri italiane, il mondo politico ancora non ha trovato nulla da dire. Il Pd tace, pensa che il silenzio sia oro in questi casi. Pensa che sia il modo migliore per non perdere voti. Anche da destra non si ode un fiato, o si sentono solo le sagge e isolatissime proteste di qualche parlamentare. La destra liberale resta prudente; feroce, invece, la destra forcaiola, che grida contro i delinquenti e basta. E allora, se c’è un leader che osa finalmente sfidare il senso comune e l’assemblea delle tricoteuse, e rilascia una dichiarazione nella quale si mette dalla parte dei prigionieri (dei prigionieri, ho scritto: non dei rivoltosi), beh, come si fa a non battere le mani? Trascrivo integralmente la dichiarazione di Renzi: “Abbiamo smesso di fare polemiche, giusto. Ma non possiamo smettere di fare politica e di seguire la Costituzione. Può sembrare una questione di lana caprina, ma è una questione di civiltà politica e giuridica. Ed anche per questo dico a tutte e tutti di guardare con grande attenzione a ciò che sta accadendo nelle carceri. La civiltà di un Paese si misura dalla qualità del proprio sistema carcerario. Ci sono stati tredici morti in carcere in una settimana: chiedere che si dimetta il direttore dell’amministrazione penitenziaria è il minimo sindacale. Oggi i media parlano di altro, comprensibilmente, ma questa è una battaglia che noi non molleremo. Mai”. Se è vero, cioè se è vero che finalmente un partito, anche se un piccolo partito, si mette a disposizione della battaglia per i diritti dei prigionieri, e decide di non lasciare sole le piccole truppe radicali (le uniche, da anni, pannellianamente schierate sul campo) è comunque una gran buona notizia. Tredici morti durante una rivolta in carcere in Italia non c’erano mai stati. Sappiamo pochissime cose di loro. Il ministero non sembra affatto interessato alla questione. Non sa, il ministro, che non era mai successo. Quasi mezzo secolo fa, nel maggio del 1974, ci fu la rivolta nel carcere di Alessandria stroncata nel sangue dagli uomini del generale Dalla Chiesa. Ci furono sei morti. Cinque prigionieri e un assistente sociale. Una carneficina. Per giorni e giorni i giornali non parlarono d’altro. La lotta armata era agli albori, era in corso il sequestro Sossi, cioè la prima azione clamorosa delle Brigate Rosse (Sossi era un magistrato, fu tenuto sequestrato per tre settimane e poi liberato in cambio della promessa della liberazione di alcuni detenuti comuni che si erano dichiarati politici). Iniziavano gli anni di piombo. Il grado di violenza, anche letale, che permeava la società italiana, era infinitamente più alto di oggi. Anche i morti si contavano a centinaia ogni mese, quasi dieci volte più di adesso. La vita umana contava meno, per il senso comune, molto meno. Nella lotta politica l’omicidio era un’opzione che molti praticavano, non solo nei gruppi terroristici. Eppure quei sei morti fecero molto rumore. A quasi sette giorni dall’inizio della protesta sappiamo veramente molto poco. Al momento il garante delle carceri conosce i nomi solo di dieci vittime. Sa che sette di loro erano stranieri (quindi valevano meno?). Sa che il più giovane aveva 29 anni e il più vecchio 42. Sa che la metà di loro erano in attesa di primo giudizio, cioè, a norma di legge, completamente innocenti, erano degli innocenti affidati alle cure e al controllo dello Stato, resteranno comunque innocenti perché il processo non si svolgerà mai, e saranno a tutti gli effetti degli innocenti lasciati morire dallo Stato che li aveva presi in custodia. Sappiamo anche che una delle persone morte sarebbe dovuta uscire dal carcere tra due settimane. Sappiamo che alcune delle vittime sono morte durante il trasferimento ad altre carceri. Sappiamo che negli ultimi giorni sono stati trasferiti oltre 6000 detenuti. Sappiamo che nonostante le molto meritevoli iniziative di alcuni dirigenti delle carceri e magistrati di sorveglianza, il sovraffollamento delle nostre prigioni è a livelli inammissibili. Sappiamo di avere rivolto, insieme alle Camere penali, un appello al governo perché vari un provvedimento urgente che in pochi giorni potrebbe permettere l’uscita dalle prigioni di circa 20 mila detenuti con grado di pericolosità uguale a zero. E poi sappiamo del silenzio della politica. Barricata in casa. Terrorizzata. Renzi ha rotto questo silenzio. Qualcuno lo seguirà? Carceri, un Comitato per la verità e la giustizia Il Manifesto, 14 marzo 2020 Dopo la morte di 13 detenuti: appello alla costituzione di un Comitato che lavori da subito alla raccolta di informazioni sulle vicende di questi giorni e si propone - nel rispetto ma anche nella sollecitazione delle competenze istituzionali - di fare piena chiarezza sull’accaduto. Tredici detenuti morti. Un numero inusitato, per giunta incerto, laddove alcuni quotidiani indicano quattordici. Numeri, neppure la dignità dei nomi, per la quale si sta adoperando il Garante nazionale dei diritti delle persone private di libertà. Un numero impressionante, pur nell’eccezionalità delle circostanze in cui quelle morti si sono verificate. Viene in mente solo un unico altro episodio in qualche misura paragonabile: l’incendio nella sezione femminile del carcere torinese delle Vallette, avvenuto il 3 giugno 1989, nel quale rimasero uccise 9 recluse e 2 vigilatrici. Ma, oltre al numero, in quell’episodio furono almeno da subito chiare le cause, i media garantirono adeguate informazioni e approfondimenti, si arrivò a un processo penale. Della vicenda odierna, al contrario, colpisce l’informazione approssimativa su ciò che ha provocato quelle morti. Un’opacità mediatica e politica incomprensibile e ingiustificabile, anche tenuto nel debito conto l’emergenza sanitaria in corso con le gravi e impellenti problematiche che pone a tutti. Il ministro della Giustizia, nella sua informativa al Parlamento sui disordini che hanno scosso numerose carceri provocando ingenti danni e feriti, ha sostanzialmente sorvolato sull’aspetto più grave, vale a dire l’ingente numero delle vittime tra i detenuti, le dinamiche che le hanno provocate, le eventuali responsabilità e differenze tra caso e caso. L’unico accenno al riguardo fatto dal ministro dà anzi adito alle peggiori ipotesi, laddove ha affermato che “le cause, dai primi rilievi, sembrano per lo più riconducibili all’abuso di sostanze sottratte alle infermerie durante i disordini”, senza dettagliare i casi e senza minimamente chiarire quali siano le altre cause occorse oltre a quelle “per lo più” riferibili all’uso di sostanze. E in ogni caso, anche per le morti da farmaci, le domande sulle dinamiche del mancato soccorso durante la reazione alle rivolte e durante le traduzioni sono più che aperte. Così pure il Guardasigilli non ha dato le necessarie risposte sui rischi per i reclusi e il personale di contagio da coronavirus nelle carceri chiarendo - o smentendo - quanto riportato da notizie di stampa, secondo cui si sarebbero già registrati alcuni casi, anche nel carcere di Modena, dove particolarmente si è accesa la protesta e dove è stato così alto il numero dei decessi. Essere rinchiusi in pochi metri affollati, privi di tutto, da chiunque non può che essere percepito come un rischio enorme per la propria incolumità, come del resto è noto che in carcere ogni malattia ha infinitamente maggiori probabilità di essere contratta. Anche per questo riteniamo fuorviante adombrare per le proteste supposti piani della criminalità organizzata, anziché, pur censurando le violenze, capire le ragioni di chi si è ribellato a una situazione che non è stata gestita, di fronte alla mancanza di misure per assicurare il diritto alla salute delle persone detenute, che deve essere tutelato alla pari di tutti gli altri cittadini e cittadine. Da molto tempo il sistema penitenziario pare aver rinunciato a una visione costituzionalmente ancorata e orientata, divenendo sempre più solo un deposito di corpi, di disagio, di vite considerate “a perdere”. Appare evidente che la vita e l’incolumità di chi è recluso e reclusa sia l’ultima preoccupazione. Nel 2015-2016, il grande lavoro degli Stati generali dell’esecuzione penale, che ha fruito del generoso e qualificato impegno di centinaia di persone e suscitato ampie speranze, è stato alla fine frustrato e deluso per la scelta del governo pro tempore di rinunciare a varare le riforme allora messe a punto. Una scelta che è concausa della attuale drammatica situazione; riforme che andrebbero riprese e rapidamente varate, oltre a misure immediate di ridimensionamento del numero dei reclusi, quali quelle indicate da diverse associazioni in questi giorni. A noi pare che la tragica morte di tredici persone detenute non possa essere rimossa e nascosta. Tutti coloro che vivono nel carcere, vi lavorano o lo frequentano, i famigliari e in generale la società e la pubblica opinione, hanno diritto di conoscere ciò che è successo nei dettagli. E di conoscerlo tempestivamente: poiché occorre avere consapevolezza di quanto l’opacità, la disinformazione, l’incertezza e la paura possano provocare in chi vive rinchiuso disperazione, la quale a sua volta può innescare nuovi conflitti. Al contempo questa vicenda e lo stato generalizzato di profondo disagio e sofferenza delle carceri, che si è ora manifestato con ulteriore evidenza, vanno trasformati in occasione per ripensare la pena e la sua funzione e per riformare il sistema che la amministra. questa necessità e prospettiva, facciamo appello alle associazioni, al composito mondo del volontariato penitenziario, alla rete dei media sociali, ad avvocati e operatori del diritto, ai Garanti dei diritti delle persone private della libertà con cui per primi si intende collaborare dato il fondamentale ruolo, a tutti coloro che in modo singolo o organizzato sono impegnati in percorsi e culture improntate alla decarcerizzazione, al recupero sociale, alla depenalizzazione di condotte quali il consumo di droghe, alla tutela dei diritti umani e sociali, per costituire assieme un Comitato che lavori da subito alla raccolta di informazioni sulle vicende di questi giorni e che si proponga - nel rispetto ma anche nella sollecitazione delle competenze istituzionali - di fare piena chiarezza sull’accaduto. Per aderire: info@dirittiglobali.it Sottoscrivono: Vittorio Agnoletto, Ascanio Celestini, Franco Corleone, Giuseppe De Marzo, Alessandro De Pascale, Monica Gallo, Nicoletta Gandus, Francesco Maisto, Bruno Mellano, Moni Ovadia, Livio Pepino, Marco Revelli, Susanna Ronconi, Paolo Rossi e la Compagnia teatrale dei “Fuorilegge di Versailles”, Sergio Segio, Stefano Vecchio, Grazia Zuffa. L’associazione tra carcere e coronavirus è l’annuncio della tempesta perfetta di Adriano Sofri Il Foglio, 14 marzo 2020 Le carceri italiane hanno messo in allarme il resto del mondo. In Francia (71 mila detenuti all’inizio dell’anno) hanno formato un “Comitato di anticipazione” della crisi: nonostante il nome, non è andato oltre una riunione preliminare a un’altra riunione. Il ministero si dice consapevole, peraltro, che la questione non è se il virus entrerà nelle prigioni, ma quando. Finora l’unica misura decisa è l’assegnazione, nel carcere di Fresnes, di una cinquantina di celle dei “nuovi giunti” all’eventuale isolamento di detenuti contagiati: col risultato di aver accresciuto di altrettanto l’affollamento delle altre celle. La preoccupazione riguarda soprattutto le carceri per i detenuti in attesa di giudizio o non definitivi, le più affollate e sgangherate. La misura più suggestiva e rivelatrice è la proibizione del gel disinfettante “idroalcolico”, per impedire che i detenuti ne facciano un uso alcolico: lo bevano, invece di lavarcisi le mani. Altrettante conferme della natura di cronicari delle prigioni d’oggi. A Modena, dove si è consumata la morte di 9 giovani detenuti, quasi tutti magrebini, si è appreso che la cosiddetta popolazione carceraria era composta per il 65 per cento da stranieri, per il 35 per cento di tossicodipendenti, e per il 55 per cento da persone con problemi psichici! La carenza o la mancanza di sapone - i detenuti devono ordinarlo e comprarlo alla spesa interna - è denunciata per le carceri francesi come per quelle del Regno Unito (84 mila detenuti) e degli Stati Uniti. In Francia i colloqui coi famigliari non sono stati vietati: si è raccomandato di non venire in più persone alla volta, e di non portare gli anziani (strana idea, come se gli anziani rischiassero più di contagiare che di essere contagiati). Se non è un errore di stampa, giovedì gli agenti penitenziari francesi messi in quarantena di 14 giorni per essere stati in contatto con detenuti o persone positive erano ben 345. Alcuni sindacati propongono l’assegnazione a domicilio di detenuti con pene minori o di più di 70 anni, la sospensione dell’esecuzione per alcuni nuovi condannati. Giovedì è stato ufficialmente dichiarato un primo caso di detenuto positivo al coronavirus nel carcere belga di Mons. Negli Stati Uniti, che contano 175 mila detenuti nelle prigioni federali e 2.300.000 nell’intero paese (solo 165 mila sopra i 55 anni), c’è una gran paura per il contagio del personale e dei carcerati: “In galera non c’è un posto in cui ripararsi. Se si ammala uno, si ammalano tutti”, dice un responsabile carcerario californiano. “Quello che è successo in Italia può succedere qui”. Si fa un confronto col 1995, quando, dopo un’esplosione di rivolte, tutti i detenuti furono reclusi nelle loro celle per un lungo periodo senza poterne mai uscire, senza l’ora d’aria proverbiale: una polveriera, se l’altra volta veniva dopo le rivolte, questa volta le scatenerebbe L’associazione fra carcere e coronavirus, dicono medici ed esperti, è in tutto il mondo l’annuncio della tempesta perfetta. Carceri, di quest’emergenza si parla poco. Ora spero che il virus ci insegni a guardare oltre di Mario De Maglie* Il Fatto Quotidiano, 14 marzo 2020 Pensate a quello che stiamo vivendo ora, nelle nostre amate e sicure case, ma senza internet e le normali possibilità di svago casalinghe, senza la compagnia dei nostri cari, aggiungeteci dei perfetti sconosciuti con cui condividere degli spazi ristretti, rinunciando giocoforza a qualsiasi intimità, moltiplicatelo per mesi e anni e avrete una seppur minima idea del vissuto dei detenuti nei luoghi di reclusione. Limitiamoci a quello che, per ora, possiamo avere in comune con i detenuti, principalmente una limitazione della libertà di movimento. In molti parlano del restare a casa come se fosse scomodo ma semplice, in realtà non lo è affatto, fermo restando che è una cosa estremamente necessaria, in questo momento: va fatta. Anche solo lasciando stare le preoccupazioni economiche, stare a casa ha delle implicazioni mentali importanti e bisogna riconoscersele. Nei prossimi giorni la fatica psicologica delle limitazioni imposte si farà sentire sempre di più, è doveroso non negarla sin da adesso. Personalmente è una settimana che esco solo per fare la spesa, ieri sera mi è successo un qualcosa di improvviso ed imprevedibile, sono dovuto uscire di notte sul mio balconcino, sentivo il bisogno di un contatto con l’aria e il mondo esterno, non esagero se dico che, se avessi deciso di non farlo, probabilmente non ci sarei riuscito. Si è trattato di un momento, ma di una intensità che mi ha scosso. Quanti di voi hanno provato o proveranno, nei prossimi giorni, qualcosa di simile? Le mura, anche se domestiche, rimangono delle mura. Lavoro ormai da diverso tempo in carcere, ho dovuto giustamente fermare tutte le attività cliniche che sto portando avanti a causa dell’emergenza che stiamo vivendo, io e i detenuti con i quali svolgo i gruppi di terapia non abbiamo avuto modo di salutarci, di dirci quello che stava succedendo e di prenderne atto ed elaborare insieme il distacco obbligato, di farci coraggio reciproco rispetto alla continuità di quanto intrapreso, in certi frangenti, siamo tutti semplicemente esseri umani e i professionisti lo devono comprendere. Quando apprendo la notizia delle sommosse in diversi carceri d’Italia, non posso non pensare a quei lunghi corridoi e a quelle lunghe attese, a quei tanti ostacoli a cui le case circondariali mi hanno abituato, non posso non pensare agli uomini che lì dentro ho visto e ho provato ad aiutare, alla loro rabbia. Il sospetto di una regia dietro alle rivolte è forte, la magistratura indagherà, questo però non toglie assolutamente nulla alle condizioni carcerarie esistenti e che privano i detenuti del potersi considerare ancora persone. È facile, per chiunque, fare leva sul malcontento e il malessere dei detenuti perché è reale quanto le sbarre che li imprigionano, è urgente indagare e modificare ciò che lo crea. Io non so se andrà tutto bene nel prossimo futuro, come molti sostengono in base a un pensiero magico che comprendo - ma che non faccio mio, perché preferisco ancorarmi saldamente alla realtà attuale con le sue mille incertezze. Non so come sarà l’Europa, il mondo dopo il Covid19: so che è giusto che chi sbaglia paghi ma è ancor più giusto garantire la dignità di ogni individuo a prescindere dai suoi comportamenti per quanto gravi, in ogni tempo e in ogni luogo. Non farlo significa non saper differenziare adeguatamente il nostro agire da quello che condanniamo. Dell’emergenza umana, in corso da anni, in molti carceri, si parla troppo poco, a farlo è spesso chi vi lavora e non la società civile, il cui pensiero comune è spesso che se uno ci è finito dentro si vede che se lo meritava e non può cambiare. Io opero per il cambiamento delle persone e il loro cambiamento è anche il mio cambiamento. Se c’è una cosa che ho imparato è che ciò che può cambiare e far cambiare è la sofferenza, e in carcere la sofferenza è l’unica a girare libera per le celle senza restrizioni. Che questa emergenza ci insegni a vedere oltre le nostre mura e le nostre certezze domestiche, questa la mia speranza. *Psicologo psicoterapeuta Carceri italiane, un sistema malato da tempo di Simone Lonati lavoce.info, 14 marzo 2020 I provvedimenti dell’amministrazione penitenziaria per far fronte all’emergenza sanitaria di questi giorni hanno scatenato rivolte in molte carceri. Ma la situazione di oggi mette a nudo problematiche antiche, che ora richiedono soluzioni urgenti. La scintilla delle rivolte - Tutti gli studi sociologici spiegano che il carcere è un punto di osservazione particolare attraverso cui è possibile studiare la società e valutarne il grado di civiltà. È da questa convinzione che occorre partire per interpretare gli avvenimenti che hanno sconvolto le nostre carceri in questi giorni: in ventidue istituti sull’intero territorio nazionale sono avvenute sommosse; nelle carceri di Modena e Rieti tredici reclusi hanno perso la vita; a Foggia ne sono evasi 75; a Melfi e Pavia sei agenti penitenziari sono stati sequestrati; a Rebibbia 90 agenti della polizia penitenziaria sono rimasti feriti. La scintilla da cui sono scaturite le rivolte sono stati i provvedimenti giustamente adottati dall’amministrazione penitenziaria per far fronte all’emergenza sanitaria: interruzione dei colloqui con i familiari (rimane comunque la possibilità di fare tre telefonate alla settimana di dieci minuti e di utilizzare la piattaforma Skype), sospensione dei permessi premio, dei provvedimenti di ammissione al lavoro all’esterno, imposizione di restrizioni ai rapporti dei carcerati con il mondo esterno (viene limitato l’accesso a volontari e associazioni). Perché queste misure abbiano scatenato le inaccettabili violenze degli scorsi giorni è una domanda a cui non è possibile dare una risposta univoca. Certamente, vi è stato un difetto di comunicazione tra le autorità e la popolazione detenuta: le ragioni che giustificano le misure adottate non sono state spiegate, o comunque non sono state comprese. Anche la componente emotiva ha svolto un ruolo importante: la preoccupazione per il diffondersi dell’epidemia - che tutti noi cittadini liberi proviamo - ha inevitabilmente colpito, nelle forme più accentuate, le persone ristrette negli istituti penitenziari, improvvisamente private della possibilità di qualunque contatto con il mondo esterno. In più, chi conosce da vicino la realtà delle carceri italiane ha fin dall’inizio compreso come le violenze dei giorni scorsi siano la conseguenza di un sistema carcerario pronto a scoppiare da tempo, anche a prescindere dall’emergenza sanitaria. È quindi necessario chiedersi quali siano i numeri all’interno delle carceri italiane. Secondo i dati del ministero della Giustizia, le persone detenute in carcere in Italia sono attualmente 61.230 per una capienza regolamentare di 50.931 posti, con un tasso di sovraffollamento pari al 119 per cento. In Lombardia, regione in cui il tasso di sovraffollamento tocca il 140 per cento, gli ospiti delle carceri sono 8.720 per soli 6.199 posti. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato più volte il nostro paese per il trattamento “inumano e degradante” al quale sono sottoposti i detenuti in alcuni nostri istituti penitenziari: celle in cui lo spazio a disposizione di ciascuno è di soli tre metri quadri. Forse, è necessario chiedersi quale potrebbe essere il giudizio della Corte di Strasburgo sulle condizioni in cui sono costretti a vivere i nostri detenuti in piena emergenza sanitaria. Si pensi solo alla realtà di una cella alla luce della ormai nota prescrizione di mantenere “almeno un metro di distanza” nelle relazioni tra persone: si tratta (almeno nel 50 per cento dei casi nei 189 istituti penitenziari italiani) di ambienti chiusi per la maggior parte delle ore del giorno, popolati a volte da otto detenuti contemporaneamente, dove la promiscuità e la condivisione di umori, sudori, liquidi è inevitabile. Le misure da prendere - Di fronte a questa realtà, che rischia di aggravarsi a causa degli scontri dei giorni scorsi, è chiaro che occorrono misure specifiche e urgenti. Anche in questo caso, i numeri ci possono dare un’idea: ci sono 8.682 persone detenute che devono scontare una pena residua inferiore a dodici mesi e altre 8.146 con pene tra uno e due anni. Al di là delle proposte di amnistia e indulto - inattuabili in questo contesto politico - è necessario che il governo utilizzi la decretazione d’urgenza per organizzare una task force, composta non solo dai magistrati di sorveglianza ma anche dai magistrati ordinari per il momento sollevati dal carico delle udienze, che si occupi di valutare le istanze presentate ai sensi della legge n. 199 del 2010 (richiesta di esecuzione domiciliare delle pene) almeno per questi detenuti. Si potrebbe così garantire in tempi brevi a detenuti e personale penitenziario quella distanza di sicurezza che al momento risulta essere l’unico antidoto contro il propagarsi incontrollato dell’epidemia. Infine, un’ultima raccomandazione. L’Italia è uno dei paesi con più personale in carcere, più che in Spagna, in Francia, in Germania o nel Regno Unito, tutti paesi in cui ci sono più detenuti che da noi. Ma da noi il personale è costituito quasi esclusivamente da agenti di custodia. Psicologi sono lo 0,1 per cento, contro una media europea del 2,2 per cento, mentre medici e paramedici sono lo 0,2 per cento, contro il 4,3 per cento della media europea. Significa che nel nostro paese l’idea della pena è ancora legata, nei fatti in maniera assolutamente prevalente, alla dimensione custodiale. Eppure, l’articolo 27 della Costituzione continua ad affermare che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Mai come in questa situazione di emergenza sanitaria, psicologi e personale medico potrebbero, se non fare la differenza, certamente aiutare. Livio Pepino: “Coronavirus, occorre tutelare la sicurezza dei detenuti” di Francesco Brusa dinamopress.it, 14 marzo 2020 Mentre il Ministro Bonafede le definiva come “illegittime”, le recenti rivolte nelle carceri italiane hanno posto il problema di adottare immediatamente misure capaci di affrontare la condizione di sovraffollamento che vige nella maggior parte degli istituti penitenziari “Vogliamo i nostri diritti”, si legge sugli striscioni che i detenuti hanno srotolato dai tetti di alcune delle carceri in rivolta da venerdì 7 su tutto il territorio del nostro paese. Oppure, scandito fra il fumo del materiale dato alle fiamme, il grido: “Libertà! Libertà!”. Abbiamo parlato con l’ex-magistrato e direttore di Edizioni Gruppo Abele Livio Pepino per capire quali misure si possono e si dovrebbero adottare per tutelare il più presto possibile i diritti dei detenuti che stanno sollevando la propria protesta in seguito ai decreti governativi per contenere il contagio da Covid-19. Assieme alle norme che riguardano l’intera popolazione, infatti, per le persone che si trovano in carcere erano stati sospesi colloqui e visite e ciò ha portato, a partire da sabato 7 marzo, a un crescendo di rivendicazioni e sollevazioni in quasi 30 istituti penitenziari, con ben 14 detenuti (quasi tutti maghrebini) morti per intossicazione e overdose da metadone e/o psicofarmaci, secondo le ricostruzioni ufficiali. Il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, chiamato a riferire in aula mercoledì, ha ammesso l’esistenza di “problematiche strutturali” nelle carceri, imputando però al suo operato e alle istituzioni ben poca responsabilità per la crisi di questi giorni. Anzi, ha fortemente stigmatizzato chi, fra i protestanti (che sarebbero nell’ordine di 6.000 persone nella popolazione carceraria), avrebbe utilizzato “violenza” e le cui richieste sarebbero dunque da considerare “illegittime”. Eppure, l’emergenza relativa al sovraffollamento, alla violazione della dignità dei detenuti e al rischio di un contagio incontrollato rimane e, a oggi, non sono ancora state prese misure realmente operative. Il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha duramente condannato le rivolte nelle carceri dicendo che “non si può parlare di protesta, ma semplicemente di atti criminali”. Concorda? Il governo non è chiamato a rispondere alle rivolte, di cui al massimo si occuperà la magistratura a seconda dei casi, ma è chiamato a far fronte alla drammatica situazione delle carceri del nostro paese. Non si tratta di “cedere alla violenza”, come pretende il ministro Bonafede, bensì di mettere in atto delle misure che rispondono a principi di assoluta razionalità e necessità per alleggerire un quadro già gravemente compromesso. L’attuale emergenza dovuta alla diffusione del Covid-19 impone di risolvere al più presto la condizione di sovraffollamento che vige nella maggior parti dei nostri istituti penitenziari (nelle carceri italiane ci sarebbero 61.230 detenuti a fronte di 47.230 o 50.931 posti regolamentari, a seconda del sistema di calcolo). Come si può fare? I singoli Tribunali di Sorveglianza possono innanzitutto utilizzare in maniera più ampia di quanto fanno normalmente gli strumenti ordinari quali licenze e permessi, l’affidamento in prova ai servizi sociali, ecc. (alcuni istituti pare si stiano già muovendo in questa direzione, ndr) Si tratta però di provvedimenti legati alle richieste dei detenuti e soprattutto alle diverse valutazioni dei singoli magistrati. Occorre invece, a mio modo di vedere, un provvedimento generale adottato dal governo, che può varare con urgenza un decreto legge sulla base delle disposizioni costituzionali. Quali misure bisognerebbe adottare? Il differimento o il rinvio dell’esecuzione delle pene inferiori a una certa entità. Secondo i calcoli, in Italia ci sono circa 10.000 condannati a periodi brevi di detenzione, che è esattamente la cifra che permetterebbe di far rientrare l’emergenza del sovraffollamento. Ciò permetterebbe di intervenire in maniera tempestiva e eviterebbe di adottare soluzioni “a macchia di leopardo”. Siamo in un momento di problematicità collettiva e generale. È dunque il governo che deve assumersi la responsabilità di dire che misure del genere sono quanto mai necessarie e urgenti. Sono misure che garantirebbero una maggiore sicurezza di tutti: dei detenuti, in primo luogo, che hanno assolutamente diritto alla tutela della propria salute, nonché di tutta la comunità - dagli avvocati agli agenti di custodia - che si trova ad avere quotidianamente contatti con l’istituzione carceraria. Ora, occorre metterle in atto al più presto, per arginare il disagio che si è venuto a creare ed esploso in questi giorni, e poi da lì imbastire un ragionamento più ampio su interventi orientati al lungo periodo come amnistia e indulto i quali, però, hanno bisogno di tempi troppo lunghi per essere applicati. L’Iran ha concesso permessi a 70.000 detenuti per fronteggiare l’emergenza del virus. Come mai in Italia sembra così difficile praticare misure alternative alla detenzione? Nel nostro paese ci siamo cullati per molto tempo in una postura interna alla gestione della giustizia che è stata chiamata dagli studiosi “illusione repressiva”. Si tratta di una cultura per cui a qualsiasi fenomeno di devianza o disagio occorrerebbe rispondere con il pugno duro, dunque con la detenzione. Insomma, per un lungo periodo in Italia abbiamo risposto a un numero sempre maggiore di fenomeni, semplicemente, con più carcere per un numero sempre maggiore di persone. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: non è per caso che è scoppiato il problema del sovraffollamento. Si tratta, purtroppo, di una visione molto dura a morire e il discorso del ministro Bonafede è un chiaro esempio di dove conduca questa cultura repressiva. Abbiamo assistito a un’iniziale sottovalutazione da parte del governo dell’emergenza coronavirus e poi a una scarsa responsabilità nell’evitare di prendere decisione ferme per non perdere consenso. È evidente che, in una situazione di rischio di contagio esponenziale, istituzioni totali come quella carceraria sarebbero state fortemente coinvolte nell’epidemia. La classe politica ha invece lasciato che il Covid-19 si diffondesse, dopo aver diffuso a sua volta il morbo della repressione a tutti i costi. Non giudicate chi è in carcere, sono nostri fratelli pieni di dolore di Eraldo Affinati Il Riformista, 14 marzo 2020 “Lasciali marcire in gattabuia, professore, dopodiché nascondi la chiave, quelli sono criminali e se lo meritano”. Questo, inutile negarlo, è il comune sentire: quante volte me lo ricordavano i miei adolescenti dell’istituto professionale nella borgata romana dove ho insegnato per tanti anni quando il discorso cadeva su Cesare Beccaria e io spiegavo i suoi storici concetti sulla necessità della rieducazione a cui dovrebbe tendere la pena! Se il condannato si trasforma in un selvaggio, abbiamo perso tutti insieme a lui, dicevo: parole al vento. Anche perché quando i ragazzi tornavano a casa, i genitori facevano presto a smontare tutti i miei buoni propositi riproponendo ai loro figli la vecchia legge del taglione aggiornata secondo il canone reso immortale dal grande Giuseppe Gioachino Belli: “Si quarchiduno te viè a dà un cazzotto, / Lì callo callo tu dajene dua”. Sono stato in molte carceri a tenere conferenze e parlare coi detenuti. Le recenti rivolte nei penitenziari intasati della penisola, coi disordini e le evasioni conseguenti, mi hanno fatto tornare alla mente i tanti incontri avuti. Gente abituata a vivere gomito a gomito, nella tensione quotidiana del pensiero che torna sempre sugli stessi luoghi del triste passato, a cui viene comunicata l’emergenza dettata dal virus, coi rischi connessi. Da un giorno all’altro sono interrotte le attività consuete, i volontari non possono più entrare nell’istituto, le visite dei parenti subiscono uno stop improvviso. In tali condizioni quella che noi chiamiamo psicosi può diventare qualcosa di molto più inquietante: ciò che è accaduto nelle infermerie prese d’assalto dai rivoltosi, pronti a suicidarsi col metadone, lo dimostra appieno. Com’erano vissute quelle persone fino a poco tempo prima? Devastate dalle crisi d’astinenza, rese rabbiose dalla promiscuità coatta, costrette a una drammatica deriva dell’esistenza. Ogni volta che mi è capitato di gettare uno sguardo dietro le sbarre, ho avuto l’impressione di un’apocalisse umana, come se gli individui della nostra specie, posti in cattività, rivelassero aspetti che di norma tengono celati: voragini nelle quali tutti noi, in determinati frangenti, potremmo sprofondare. Cvetan Todorov lo diceva a proposito dei lager. Primo Levi ebbe il coraggio etico di collocare sé stesso all’interno della zona grigia. Basta poco a volte per scivolare da una parte all’altra dello steccato: una distrazione imprevedibile, una combinazione sfortunata. La mia memoria pulsa soprattutto nel ricordo di Ravìl, un condannato a morte russo che vidi tanti anni fa nella colonia penale del Lago Bianco, non distante dal Circolo Polare Artico, il quale, non sopportando la sospensione indeterminata in cui si trovava, chiese con piglio dostoevskiano di essere fucilato: prima di entrare in cella, pretesi dai gendarmi che gli togliessero le manette e lui mi ringraziò con uno sguardo lancinante, in cui c’erano dentro, mescolate l’una all’altra, ferocia e tenerezza. Ma, senza andare troppo lontano, è difficile dimenticare nel carcere di Rebibbia il giovane uomo che venne a due centimetri sotto il mio naso per dirmi come aveva ucciso la sua fidanzata, in un capannone sul litorale. O l’altro ex medico, anche lui uxoricida, il quale era passato in poche ore dalla condizione ordinaria di un professionista stimatissimo anche all’estero a quella di reietto inviso a tutti. Nelle Case circondariali dove sono stato ho percepito la forza e la fragilità, il peso tormentoso della colpa e l’ultima speranza che, come la proverbiale fiammella, non vuole spegnersi. Nessuno di quelli che ho conosciuto negava la necessità della pena da scontare. Anzi, parevano essere tutti dolorosamente consapevoli delle ragioni che li avevano condotti fin lì, arcigni e severi con sé stessi fino all’inverosimile. Erano animali umani che si rigiravano nella melma: dannati danteschi e galeotti di Van Gogh. Ma allora perché sentivo crescere in me, lo confesso, un sentimento di incredibile fraternità nei loro confronti? Come se quegli esseri umani fossero in grado di parlarmi con una frontalità e una verità altrove impossibili da trovare. Gli ergastolani dell’istituto di massima sicurezza di Arghillà, a Reggio Calabria, in grande maggioranza legati a cosche mafiose, mi regalarono un giocattolo di carta colorata con i nomi e cognomi scritti sul retro. Ricordo le ragazze della Giudecca, a Venezia, albanesi e rumene, che presentarono di fronte a un numeroso pubblico uno dei miei libri; i giornalisti prigionieri che a Padova, grazie alla guida lungimirante e preziosa di Ornella Favero, continuano a mandare avanti una rivista unica nel suo genere, dal nome che dice tutto: “Ristretti orizzonti”; i minorenni del Beccaria a Milano e quelli del Ferrante Aporti di Torino, feriti e canaglieschi, spacciatori e tossicodipendenti, ladri e rapinatori, pronti a farmi l’occhiolino prima che uscissi, quasi avessero trovato in me, visitatore occasionale, il compagno adulto che cercavano e di cui avevano bisogno. Ci sarebbe tutto un lavoro da fare con questa umanità estrema, derelitta, assetata di rapporti e contatti, non solo i detenuti, anche le guardie che spesso ne dividono le sorti: non bastano i giudici e gli avvocati. Chi, fra certi miei colleghi docenti, ha avuto la possibilità di portare le classi a dialogare coi reclusi, ha visto gli studenti trasformati, quasi avessero messo la mano sul fuoco e se la fossero scottata davvero. A volte vale più un’esperienza come questa che dieci belle lezioni dalla cattedra. La giustizia resta ferma fino al 3 aprile, ma nel nuovo Dl ancora nodi da chiarire di Errico Novi Il Dubbio, 14 marzo 2020 L’emergenza lascia i tribunali aperti solo per gli affari urgenti: non è certo però che il decreto atteso per oggi elimini tutte le incertezze segnalate dagli avvocati. L’emergenza e la giustizia: ci si potrebbe scrivere un libro. Sono due idee che non convivono. O convivono a fatica, perché i tribunali sono fra i presìdi dello Stato che è quasi impossibile chiudere del tutto. E fino alla tarda serata di ieri è sembrato irrisolto un nodo essenziale, che tiene in ansia gli operatori del diritto, gli avvocati ma anche i magistrati, e condiziona almeno un po’ anche l’efficacia delle misure anti epidemia. Nelle bozze circolate ieri c’è solo una certezza: la sospensione dei termini e il rinvio delle udienze, tranne le urgenti, slitta di netto dal 22 marzo al 3 aprile. Solo dal giorno successivo, si chiarisce in una relazione illustrativa allegata alla bozza, i capi degli uffici giudiziari potranno considerare soluzioni meno drastiche, come la chiusura degli uffici al pubblico e la ripresa modulata delle attività giurisdizionali in senso stretto. Ma appunto non è chiaro se nel rivedere il testo del decreto, per la parte relativa alla giustizia, possa essere sciolto un nodo collegato e delicatissimo: se debbano essere considerati sospesi, fino al 3 aprile, i termini di tutti i procedimenti “civili, penali, tribunali e militari”, eccezion fatta per gli urgenti, o se la sospensione riguardi solo i procedimenti per i quasi sia prevista udienza nel periodo dello stop. In alcune versioni del maxi-decreto, che interviene anche sull’estensione massiccia degli ammortizzatori sociali, non c’è traccia di una norma, di un qualsiasi passaggio che assicuri l’applicazione del regime sospensivo a qualsiasi attività giudiziaria. C’è appunto solo la nuova data del calendario: il “3 aprile” sostituisce le parole “22 marzo”. Ma fonti di Palazzo Chigi assicurano che “il problema sarà superato” e che “la sospensione varrà per tutto, a parte i procedimenti civili urgenti, quelli in cui per esempio il differimento dell’udienza potrebbe compromettere il diritto che si chiede di tutelare, e a parte ovviamente le udienze del settore penale che riguardano persone detenute”. Eppure rischia di essere necessaria, anche in termini di sicurezza pubblica, una norma che renda il tutto esplicito, come aveva segnalato due giorni fa il presidente del Cnf Andrea Mascherin. L’incognita rischia di essere paradossalmente favorita da un passaggio della relazione illustrativa che accompagna il ddl di conversione del decreto precedente, il numero 11 dell’8 marzo scorso: in quel documento si afferma in modo esplicito che la sospensione dei termini riguarda qualsiasi procedimento. Il periodo dall’8 al 22 marzo sarebbe quindi da intendersi come assimilato alla sospensione feriale agostana, quando gli orologi della giustizia smettono di girare. Ora, tra i tecnici che ancora stamattina affineranno il maxi provvedimento da deliberare poi in Consiglio dei ministri, e colmo di misure per ogni settore della vita pubblica, potrebbe prevalere l’idea per cui quella relazione illustrativa, pur priva di concreto valore normativo, equivalga comunque a un atto di interpretazione autentica impossibile da ignorare. I giudici che dovranno decidere se i termini per presentare un qualsiasi atto in qualsiasi procedimento, civile o penale, secondo tale ottica, ora dovrebbero per forza tenerne conto. L’Ocf sostiene che “nonostante le udienze sospese, molti colleghi sono costretti a lavorare ugualmente, come del resto il personale degli uffici giudiziari, e che come sempre la decisione è affidata al giudice di turno”. Appello alla chiarezza viene rivolto anche dall’Unione nazionale Camere civili, che pure, come l’Ocf, vede accolto l’appello dell’intera avvocatura per l’allungamento fino al 3 aprile del “periodo cuscinetto” (sempre che il coronavirius non imponga di allungarlo ancora). Così come va rilevato, per tutti i professionisti, l’imminente differimento dei termini del 16 aprile, che riguardano anche il saldo Iva, voluto dal Mef. In campo penale viene disposto il ricorso alle notifiche digitali per avvisare le persone sottoposte a procedimento dei rinvii in arrivo. Andrà a rilento anche il lavoro degli ufficiali giudiziari che notificheranno solo “gli atti esecutivi urgenti”. Tutto il personale della giustizia, a via Arenula e in periferia, sarà indirizzato verso lo smart working, con misure anche per limitare gli spostamenti dei pendolari. Viene previsto un “contributo” di 700 euro per i magistrati onorari, fino a un massimo di 3 mesi, resta sospesa l’attività della giustizia contabile, con effetto anche sulle “fasi istruttorie e preprocessuali”. Fino al capitolo carceri, con 10 milioni stanziati dal maxi decreto in arrivo oggi per “ripristinare le strutture” danneggiate nel corso delle tragiche vicende dei giorni scorsi. Il ministro della Giustizia Bonafede chiude in anticipo la formazione per 1.100 nuovi agenti penitenziari, “risorse giovani che daranno una boccata d’ossigeno”, e all’intero corpo in servizio negli istituti di pena diffonde 97mila mascherine. Resta però un’ombra analoga a quella che riguarda i termini della giustizia civile e penale anche in campo amministrativo: fino a ieri sera le bozze del decreto non contenevano riferimenti a Consiglio di Stato e Tar. Possibile, in realtà, che oggi il premier Conte accolga le sollecitazioni convergenti venute dal presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi e dall’avvocatura, con l’Unaa che ieri ha inviato al presidente del Consiglio una lettera dettagliata, in cui suggerisce la stessa possibile formulazione tecnica delle misure. Non solo riguardo all’estensione esplicita del regime sospensivo agli atti endoprocessuali, ma anche in materia di definizione monocratica delle azioni cautelari. La stessa Associazione tra i magistrati del Consiglio di Stato chiede di adottare “misure organizzative urgenti” oltre a quelle già confermate ieri. Tutta la giustizia fatica a tenersi a galla, nonostante gli sforzi, in una fase così drammatica. Il ministro Bonafede ha un chiodo fisso: più manette per tutti di Paolo Guzzanti Il Riformista, 14 marzo 2020 Antropologicamente, parla quell’italiana di chi non l’ha mai appreso come madrelingua, ma soltanto attraverso i corsi che usano come materiale didattico verbali, sentenze, ricorsi, sub iudice e crede realmente che esista una categoria del pubblico impiego denominata anche dalla Treccani come quella degli Addetti ai Lavori. Si riferisce sempre, senza l’ombra di un ammiccamento di distanza ironica, agli Addetti ai Lavori. Questo sprout antropologico deriva in Italia da alcune nicchie del Neolitico, epoca eroica in cui gli umani smisero con riluttanza di usare clave e saccheggi per esaminare la possibilità di creare un orto, allevare due capre e creare utensili. Non è questione di destra o sinistra: questa conformazione - peraltro vincente della sopravvivenza umana - si è imposta geneticamente attraverso l’uso del Pugno Di Ferro ed espressioni succedanee fra cui i famosi Addetti Ai Lavori cui il ministro fa riferimento totemico ma come se parlasse di creature reali. Alfonso Bonafede è daltonico. Non nel senso di chi non vede i colori, ma di chi non vede la differenza fra colpa e dolo. Gli adulti non gli permisero mai di difendersi dicendo “Non l’ho fatto apposta”. L’hai fatto sempre apposta - gli rispondevano gli adulti umiliandolo: sei colpevole specialmente quando non lo sai. Come il Franti del libro Cuore commentato da Umberto Eco, che colpa può avere? Certo, almeno, Franti sorrideva imbarazzato. Una debolezza cui lui non ha mai ceduto. È convinto - diversamente da Rousseau di cui usa solo la piattaforma - che ogni essere umano sia un criminale nato da trattenere in appositi arredi urbani distinti almeno idealmente tra Domiciliari e Carcerari. Pensa - e con sfrenato coraggio afferma facendosi you-tubare da Vespa in uniforme d’ordinanza con grisaglia cravattone celestone, pochette senza pizzi e sguardo sbirro (e che vale la pena ricordare, stampare, incorniciare e appendere) che: “Quando del reato non si riesce a dimostrare il dolo, diventa un reato colposo”. La cosa di lui più ammirevole è che non ha mai capito perché questa sua frase abbia provocato un putiferio e perché ogni persona dotata di buon senso e di leggere infarinatura giuridica, ne abbia chiesto le immediate e irrevocabili dimissioni. Lui, Bonafede di nome e di fatto, c’è rimasto male. Noi pensiamo che il suo candore meriti protezione come ogni biodiversità. E che, d’altra parte, come ogni evento non positivo - tipo ponte Morandi e Coronavirus - debba essere considerato anche come una opportunità. Con le carceri ha saputo mostrare sia la dura madre - che è una frattaglia del sistema nervoso centrale - che il pugno duro, che è una frattaglia politica. Ed è un vero peccato che non sappia esprimersi in modo adeguato per spiegare ogni azione e decisione. Ma semmai un giorno tale evento accadesse, tutti ci sentiremmo arricchiti così come accadde quando la stele di Rosetta ci permise di decifrare senza scampo tutte le cazzate che dicevano gli antichi egizi. Egli è refrattario alla penetrazione di ogni genere di sentimento, come caratteristico della sua linea evolutiva. E dunque gli è completamente rimbalzata ogni implicazione umana, umanitaria, civile, psicologica, cristiana o di altra dottrina che includa sia pure in via ipotetica la capacità di sapersi mettere con i piedi nelle scarpe altrui, infilare sia pure in tono minore un “ma”, un qualsiasi segno di multilateralità di quella che da anni la psichiatria chiama Intelligenza Emotiva. Bonafede viene dalla linea dei migliori surviver del Pliocene quando infatti non esisteva l’umanità. In un ambiente copiato dai film di Harry Potter in cui lo si distingue dalle altre enciclopedie allineate e dalle enormi porte azteche scolpite dagli schiavi Atlacatl come prede di Carlo V dalle Americhe, egli ha letto un frammento della Scrittura delle Procure e Delle Polizie in cui, con pochissimi inciampi fonetici e senza mai dar luogo al fenomeno detto dell’espressione, ha pronunciato un intero salmo della Restauratio Ordinis: il “Covid Carcerorum” retto, anzi appeso, ad un unico “Innanzitutto”. È un testo che risente di arcaismi perduti dai tempi di un altro siciliano di ferro, Mario Scelba ministro dell’Interno e della Celere in Guerra Fredda e Antisindacale, e tuttavia uomo di rara apertura umana. Bonafede officiò il tema della sciagurata sanguinosa disperata e sgraziata ribellione spartachista dei prigionieri dei più feroci istituti di pena d’Europa sanzionati in sede giuridica internazionale come luoghi di tortura e di inflizione, dicendo: “Innanzitutto, i cittadini sappiano che se molti di questi disordini sono rientrati, è stato grazie alla professionalità, all’abnegazione e al paziente lavoro delle donne e degli uomini della polizia penitenziaria, ai quali si sono uniti gli importanti rinforzi delle forze dell’ordine. Nonché grazie a tutto il personale dell’amministrazione penitenziari, a partire dai direttori delle carceri e dai provveditori. Si tratta di autentici servitori dello Stato a cui deve andare il plauso di tutti i cittadini”. Ognuno vede, tranne il ministro, l’innocua perentorietà del pistolotto: quanto ai servitori dello Stato, i cittadini non hanno certo bisogno della sua certificazione per capire che si tratta di eccellenti e sventurati servitori dello Stato, condannati anche loro a vivere e fronteggiare una situazione infetta, rischiosa, incerta, mal remunerata e comunque estranea al principio secondo cui i detenuti non dovrebbero scontare una pena ma percorrere un cammino, eccetera eccetera. A lui, il ministro, sarebbe toccato dire altro ai cittadini che lo hanno in qualche misterioso modo spinto sullo scranno del ministero: avrebbe dovuto spiegare perché - essendo la situazione sanitaria e della paura connessa all’infezione, molto prevedibile - non avesse emanato per tempo le direttive necessarie a far fronte alla prevedibile tragedia. Ma naturalmente non lo potrà spiegare mai perché non ha saputo far altro che sbalordirsi, affidandosi a Santa Rosalia e poi con un idrante innaffiare con parole banali, retoriche, insignificanti e caporalesche gli agenti, i dirigenti e tutti colto che hanno fronteggiato una situazione marcia. Una situazione che comunque avrebbe richiesto una materia prima come l’intelligenza immaginativa. L’arte di calcolare per tempo le conseguenze dalle premesse, di capire che tra i fattori dell’ingegneria di governo ci sono anche fattori al ministro ignoti, come la fragilità, la rabbia cieca, l’ira, la frustrazione e la pena infinita dell’istituto delle pene. L’età di 86 anni non esclude il carcere di Annamaria Villafrate studiocataldi.it, 14 marzo 2020 La Corte di cassazione respinge l’istanza di detenzione domiciliare per il condannato di 86 per atti sessuali con minore se non è inabile, anche solo parzialmente. La Corte di Cassazione, con sentenza n. 8585/2020 respinge definitivamente la richiesta di detenzione domiciliare avanzata da un detenuto di 86 anni. Non rileva infatti l’età ai fini della concessione della detenzione domiciliare, occorre che il condannato presenti condizioni di salute talmente gravi da cagionare uno stato d’inabilità anche solo parziale dello stesso. Il Tribunale di sorveglianza rigetta la richiesta di un detenuto condannato per il reato continuato di atti sessuali con minore di 14 anni, finalizzata alla concessione della detenzione domiciliare. Dalla sentenza emerge che la condotta criminosa ripetuta più volte è stata commessa in danno di un minore privo della figura paterna, anche se il condannato ha negato i fatti. Emerge inoltre dalla relazione medica che l’uomo non è affetto da una patologia grave, per cui mancano i requisiti per ammettere la misura. La totale mancanza di rivisitazione critica dei fatti commessi inoltre, comporta un pericolo attuale di recidiva, che non può essere contenuto con misure alternative. Ricorre in Cassazione il difensore del condannato sollevando i seguenti motivi di ricorso. Con il primo deduce vizio di legge della sentenza nella parte in cui nega la detenzione domiciliare stante la documentata età avanzata e l’inabilità del condannato. Con il secondo deduce violazione di legge e difetto di motivazione del provvedimento nella parte in cui omette la valutazione dell’età avanzata in relazione alla detenzione, la lontananza dei fatti di reato e l’assenza di altri reati. Con il terzo, in ragione dell’età avanzata del condannato, il difensore ritiene che la detenzione sia contraria al senso di umanità. Con il quarto infine prospetta questione d’illegittimità costituzionale dell’art. 47 dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui non dispone l’incompatibilità presunta della detenzione per gli ultrasettantenni. Il Procuratore Generale chiede il rigetto del ricorso, il difensore dell’imputato deposita memoria in cui fa presente la successiva reiezione da parte del Tribunale di sorveglianza dell’istanza con cui si chiede la detenzione domiciliare. La Cassazione, con sentenza n. 8585/2020 respinge il ricorso per le ragioni che si vanno a esporre. Il primo motivo è generico. Nella memoria non viene esposta con sufficiente specificità l’inabilità del condannato, ricoverato in ospedale per broncopolmonite e insufficienza renale. Il secondo è manifestamente infondato. L’età è condizione di concedibilità della detenzione domiciliare speciale se il condannato è parzialmente inabile. La norma non autorizza soluzioni interpretative come quella proposta dal difensore, secondo cui se l’età anagrafica è ancora più avanzata, come nel caso di specie in cui il condannato ha 86 anni, si verificherebbe un automatismo d’inabilità parziale. Infondati anche il terzo e il quarto motivo del ricorso perché la detenzione di una persona in età avanzata non è da considerare automaticamente una condizione inumana e degradante, visto che gli istituti di detenzioni sono attrezzati per fare fronte a eventuali bisogni assistenziali. Lo dimostra il fatto che, come riportato nel ricorso il condannato, è “allocato nel centro clinico del carcere dall’inizio della sua detenzione”. Sul contrasto con l’art. 3 della Costituzione per la disparità di trattamento previsto per l’ultrasettantenne in custodia cautelare rispetto al soggetto che deve scontare la pena detentiva, pare dimostrare in realtà il regime di favore per quest’ultimo. La pronuncia inoltre ha evidenziato le logiche e i diversi obiettivi delle due misure, la prima finalizzata a tutelare la collettività, la seconda invece alla rieducazione del condannato e a un trattamento non contrario al senso di umanità. Infondata anche la questione d’illegittimità costituzionale dell’art. 47 dell’ordinamento penitenziario per violazione degli artt. 3 e 27 Costituzione. La legge prevede il divieto di detenzione intramuraria se con l’età superiore a 70 anni concorre una condizione d’inabilità anche parziale, che dia vita a una situazione d’incompatibilità con il regime carcerario. Più dell’età rileva la condizione di salute del carcerato, che deve essere particolarmente grave, tanto da richiedere continui contatti con i presidi sanitari. Alla luce di dette considerazioni non emerge che nel caso di specie sussistano condizioni personali tali da far ritenere che il condannato stia espiando la pena detentiva in un contesto contrario ai principi di uguaglianza e umanità. Modena. “Carcere di Sant’Anna: ora non fermiamo il dialogo” Gazzetta di Modena, 14 marzo 2020 L’associazione Carcere-Città: “La scelta di violenza e morte ha riguardato pochi. Oggi si vedono le reali condizioni di vita”. “Ci sembra che il ministro di Grazia e Giustizia, impegnato a riaffermare astratti principi di legalità, come del resto facciamo noi tutti, non metta in campo le risorse necessarie per favorire quelle azioni rieducative che la nostra Costituzione esige e che renderebbero la vita detentiva più dignitosa”. Con queste parole Paola Cigarini e l’associazione “Carcere-Città” - che da molti anni si occupa di tenere unite la realtà dei detenuti di Sant’Anna e Modena - commenta amaramente le parole del ministro Alfonso Bonafede sulla tragica rivolta che ha portato a nove morti e numerosi feriti, alcuni dei quali gravi. “Carcere Città” non nega che ci siano anche gravi responsabilità da parte di gruppi di giovani detenuti che di fatto hanno avuto un esito mortale, quasi suicidario, ma chiede di non interrompere in questo momento difficile il legame coi modenesi e chiede alla politica di non fermarsi all’indignazione ma di fare la sua parte per la gestione dei detenuti. Non esiste, secondo l’associazione dei volontari, una spiegazione unica di quanto è accaduto. Non basta il panico per paura del detenuto in isolamento scoperto positivo al Covid-19, né il sovraffollamento, né le tensioni interne tra carcerarti. Spiegano: “In questo contesto il coronavirus ha messo a nudo la condizione carceraria, l’ha riportata indietro a prima della Legge Gozzini. I fragili vivono in ogni contesto, ma in carcere più che altrove. Lì si assommano povertà, condizioni di solitudine totale, tossicodipendenza, anzianità, malattia mentale e, senza distinzione, un vincolo di totale dipendenza che impedisce l’assunzione di responsabilità. E così, in una domenica pomeriggio ancora più vuota degli altri giorni è arrivata la rottura, l’andare incontro alla morte non per la libertà, ma per il solo rifiuto di questo vuoto e dell’angoscia che ne deriva”. Questo “andare incontro alla morte” attraverso l’abuso di sostanze stupefacenti rubate in infermeria non riguarda però tutti i detenuti coinvolti nella rivolta: molti, rimasti n disparte, lo sono stati loro malgrado. “Bisogna dire che questa scelta di morte non ha riguardato tutta la popolazione carceraria: non sappiamo quante persone abbiano partecipato alla rivolta, ma è certamente una minoranza, anche se significativa. Nostro dovere è rivolgerci agli altri e ai sopravvissuti per rigettare le basi di un cammino di responsabilità, perché solo così è possibile la libertà”. “A questo - aggiunge “Carcere-Città” - si sommano le responsabilità di chi crede poco nelle misure alternative al carcere per le persone che hanno i requisiti per accedervi e non ne facilita la fruizione”. “Purtroppo, una società forte di pregiudizi e condizionamenti, difficilmente si sforza di riflettere sul ruolo della pena ma preferisce istintivamente carceri lontane e chiuse; lo chiede una parte abbondante della popolazione come del resto anche alcuni sindacati di polizia”. Conclude “Carcere Città”: “Noi volontari abbiamo invece maturato nel corso degli anni la netta consapevolezza che solo l’aumento significativo del rapporto tra le persone detenute e il mondo esterno può aiutarle ad assumere responsabilità e a rialzarsi. E solo allargando l’attenzione il più possibile anche a chi non conosce la realtà carceraria è possibile andare verso un dialogo che non escluda nessuno”. Milano. Il Garante individua cinque mosse per disinnescare le tensioni nelle carceri Redattore Sociale, 14 marzo 2020 Il Garante dei detenuti di Milano scrive al Garante Nazionale. Ripristinare i colloqui (una persona alla volta), più telefonate tra reclusi e familiari, permettere a semiliberi e ammessi al lavoro esterno di uscire, emanazione di un decreto legge che scarceri automaticamente detenuti con pena inferiore a tre anni. “È inumano ora tenere i detenuti nelle attuali condizioni”: Francesco Maisto, garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Milano scrive al Garante Nazionale, Mauro Palma, per indicare quali sono i provvedimenti che potrebbero disinnescare le tensioni nelle carceri. Provvedimenti da chiedere al Governo. In particolare “dobbiamo operare” perché siano di nuovo concessi i colloqui in carcere, anche se con le precauzioni che erano già state adottate negli istituti penitenziari di Milano: ossia colloqui con una sola persona alla volta. Bisogna poi aumentare “in numero e in durata” le telefonate tra detenuti e famigliari. Per Francesco Maisto inoltre bisogna ridurre il numero dei reclusi. E suggerisce di “mettere in licenza al massimo dei giorni i semiliberi”, di permettere agli “articoli 21” (i detenuti che sono ammessi al lavoro esterno) di uscire dal carcere “previo triage”. Il garante dei detenuti di Milano ritiene infine che sarebbe necessaria l’emanazione di un decreto legge sulla falsariga della legge 199 del 2010, che permetterebbe una scarcerazione automatica dei detenuti con pena inferiore ai tre anni. Milano. Coronavirus, pronte linee guida per favorire la concessione di misure alternative Il Sole 24 Ore, 14 marzo 2020 Sono pronte le “linee guida” per la “formulazione di programmi terapeutici provvisori domiciliari” e, se possibile, anche in comunità, per i detenuti delle carceri milanesi e per il “relativo controllo sul territorio”, data “l’emergenza sanitaria determinata dal Coronavirus e dai successivi disordini verificatisi all’interno degli istituti”. Lo si legge in un documento che ha fissato le procedure per concedere, valutate una serie di condizioni, gli affidamenti ai detenuti, redatto dal Tribunale di Sorveglianza di Milano e dalla Direzione del Serd Medicina penitenziaria. Nei giorni scorsi, quando era esplosa una rivolta a San Vittore, il presidente della Sorveglianza Giovanna Di Rosa aveva spiegato che il Tribunale si era attivato per “liberare” le carceri “il più possibile” e, visto il problema di sovraffollamento acuito dall’emergenza sanitaria, aveva avviato “intese con il Sert per potenziare gli affidamenti terapeutici e le misure alternative”. Tra i punti delle linee guida la valutazione “accurata” delle condizioni di salute dei detenuti: con “patologie simil-influenzali” non si può “accedere al programma” di affidamento. “Quanto predisposto nelle sintetiche linee guida - si legge nel documento - tiene in considerazione l’eccezionale momento di emergenza sanitaria e le problematiche inerenti l’ordine pubblico che si sono venute a creare”. E vengono elencate “le linee di attività prioritarie per la redazione della relazione terapeutica necessaria alla concessione del beneficio e i parametri essenziali relativi al controllo sul territorio”. Il programma terapeutico “verrà poi rivalutato in camera di consiglio, tenendo in considerazione la possibilità di convertirlo in una diversa modalità”. Tra le indicazioni il fatto che “va effettuata un’accurata e completa valutazione medica che ricerchi anche la presenza di sintomi respiratori (febbre, tosse, difficoltà respiratoria) riconducibili a patologie simil-influenzali. In caso di positività non si può accedere al programma”. Per i detenuti “che assumono terapie farmacologiche di rilievo, e per l’utenza con patologie psichiatriche e/o in doppia diagnosi non è possibile predisporre il programma”. I detenuti in affidamento “avranno un programma terapeutico che prevede colloqui telefonici, visite con una frequenza minore rispetto ai consueti programmi e verrà modulato in base alla gravità del caso e alla capienza dei Servizi”. I colloqui di persona “saranno riservati a circostanze specifiche che li rendano indispensabili, secondo valutazione del Serd. titolare del caso”. Intanto, la Camere penale milanese spiega “che molti Serd interni alle carceri stanno predisponendo domande” di affidamento “per i detenuti” e che “analoghe linee guida stanno per essere predisposte per le domande” al Tribunale e all’ufficio gip, oltre a quelle della Sorveglianza. Lecce. Primo caso di positività nel carcere, si tratta di una detenuta entrata il 7 marzo di Francesco Oliva corrieresalentino.it, 14 marzo 2020 Primo caso di contagio al Coronavirus nel carcere di Borgo “San Nicola”. Una detenuta è risultata positiva al primo tampone e sarà a breve trasferita agli Infettivi del “Vito Fazzi”. Si tratta di una 29enne, originaria di Melissano, arrivata nel Salento da poco. Entrata il 7 marzo (con la figlia di 1 anno) dopo pochi giorni ha iniziato a manifestare i primi sintomi, febbre e tosse. E solo in quella occasione ha riferito di essere entrata in contatto con alcuni soggetti a loro volta residenti nelle zone “focolaio” della provincia milanese. Sono stati immediatamente allertati i servizi sanitari, intensificata la vigilanza medica ed ulteriormente innalzate tutte le misure di cautela nella gestione dei soggetti con sospetta infezione da Covid-19. Nessun contatto, specifica in una nota la Direzione carceraria, è stato permesso alla detenuta con le altre recluse né prima l’insorgenza dei sintomi né dopo. Come prevede il protocollo è stata inizialmente trasferita nella Sezione nido. Sottoposta al tampone, risultata positiva, è stata trasferita presso il reparto Malattie infettive del “Vito Fazzi” di Lecce, con la bimba a cui sarà effettuato il test. Da qualche giorno la direzione del penitenziario leccese sta provvedendo ad isolare i nuovi arrivati per 14 giorni in una sezione separata, mentre tutti i soggetti che evidenziano sintomi sospetti vengono trattati in osservazione in un altro reparto separato. Si attende l’effettiva positività dagli esiti del secondo tampone. “Da quel che ci è dato sapere” commenta l’avvocato Maria Pia Scarciglia, presidente Associazione Antigone Puglia, “è il primo caso di contagio nelle carceri italiane. Le condizioni della donna sembrerebbero buone. Ci auguriamo che venga curata e monitorata con la giusta assistenza. La preoccupazione ora è su come verrà messa in quarantena l’intera sezione, quali persone cono state in contatto con questa donna, in particolare con tutti gli agenti di polizia penitenziaria”. Nei giorni scorsi le carceri italiane, potenziale focolaio di contagi, erano diventate delle polveriere con rivolte e sommosse anche piuttosto violente per ottenere l’amnistia, lamentando la paura del contagio del Coronavirus. In altri penitenziari, invece, la protesta è stata dettata da una serie di restrizioni ai colloqui con i parenti per combattere l’emergenza. Non sono mancati i morti come nel carcere di Modena dove sono deceduti 9 detenuti e 3 in quello di Rieti. A Foggia, invece, la rivolta è sfociata in un’evasione da film con decine e decine di detenuti fuggiti. In molti sono stati rintracciati; altri si sono costituiti (come è accaduto per due salentini); altri ancora, infine, sono ancora ricercati. Dai tumulti il carcere di Borgo “San Nicola” è stato toccato solo marginalmente e nei giorni scorsi è stata anche annullata la manifestazione dei familiari dei detenuti recependo le direttive del decreto governativo “io resto a casa” ed evitando cosi affollamenti e proteste pericolose per la salute. “Ancor prima delle rivolte” precisa l’avvocato Scarciglia, “i tribunali di Sorveglianza di Roma, Napoli, Bologna e Palermo sono al lavoro da poco tempo insieme a tutti gli operatori della giustizia e anche con i garanti territoriali per depositare le istanze di detenzione domiciliare per smaltire il carico di questi giorni in carcere. Questo è sicuramente un lavoro che andava fatto già da prima ma si sta facendo adesso e lo accogliamo positivamente individuando i percorsi migliori della misura alternativa a quella detentiva per ogni detenuto. L’accelerata è arrivata dopo le rivolte e i vari tribunali stanno adottando le misure di semilibertà con la possibilità di passare la notte nei propri regimi senza tornare in carcere dopo aver espletato l’attività lavorativa”. E poi un messaggio alla politica: “Non si copra dietro alle rivolte che è stato un episodio gravissimo e da noi giudicato inaccettabile. Ora è il momento di fare delle scelte. bene l’apertura alle email, a skype ma bisogna sfoltire e consentire a chi è detenuto di uscire anche in semilibertà”. Monza. I detenuti si impegnano a evitare proteste e sommosse di Sarah Valtolina ilcittadinomb.it, 14 marzo 2020 In un momento particolarmente teso e di incertezza anche tra la popolazione carceraria, con proteste sfociate in sommosse nei giorni scorsi in diverse città, la casa circondariale di Monza diventa un modello: I detenuti hanno sottoscritto un documento ufficiale, firmato all’unanimità, con il quale si impegnano a evitare in ogni modo proteste e sommosse. I detenuti della casa circondariale di Monza hanno sottoscritto un documento ufficiale, firmato all’unanimità, con il quale si impegnano a evitare in ogni modo proteste e sommosse. A riferirlo è il direttore dell’istituto, Maria Pitaniello, che invierà il testo del documento anche al Ministero. Un gesto di responsabilità e di distensione in un momento particolarmente teso e di incertezza anche tra la popolazione carceraria. “Hanno compreso che le violenze a cui stiamo assistendo nelle carceri in questi giorni sono solo manifestazioni controproducenti”, ha ribadito il direttore che ha aggiunto che si sta facendo tutto il possibile in questi giorni per assecondare le richieste dei detenuti. Sospesi già da settimana scorsa i colloqui con i famigliari, i contatti possono avvenire ora solo via skype. È stato anche raddoppiato il numero delle telefonate che ogni ristretto può fare ai propri famigliari. Tutti possono contattare telefonicamente i propri parenti a giorni alterni, mentre già nei prossimi giorni verrà posizionata almeno un’altra postazione skype per poter rispondere alle tante richieste. “Fino alla scorsa settimana le domande per la videochiamata erano appena una ventina - spiega il direttore del carcere di Monza, Maria Pitaniello - Ora che le richieste sono notevolmente aumentate dovremo necessariamente incrementare il numero delle postazioni al più presto”. “I detenuti così come i loro parenti si sono mostrati molto ragionevoli - continua il direttore - hanno compreso che il pericolo arriva dall’esterno e che quindi dobbiamo in tutti i modi tutelare la loro salute e quella degli operatori del carcere”. Dallo scorso lunedì le udienze di convalida si svolgono direttamente all’interno del carcere in videoconferenza, mentre per tutti i visitatori è stato previsto un triage all’ingresso. A tutti i nuovi giunti viene consegnata una mascherina chirurgica e lo stesso avviene per chi mostra sintomi influenzali anche deboli come un semplice raffreddore. Anche in tribunale, con una nota ufficiale, il presidente Laura Cosentini richiama al “buon senso” e allo “spirito di collaborazione di tutti”, per superare il momento di “indubbia difficoltà legata al periodo”, all’emergenza Coronavirus, che ha toccato da vicino anche gli uffici giudiziari brianzoli. Un magistrato dell’ufficio esecuzione e fallimenti, infatti, è risultato positivo lo scorso fine settimana (ha cominciato a stare a casa giovedì), e tutta la terza sezione ha scelto l’isolamento volontario da lunedì, dopo la riunione collegiale avvenuta mercoledì scorso. Stessa scelta operata da un pubblico ministero che ha fatto udienza con il giudice ammalato. Sabato e domenica, personale specializzato ha provveduto alla bonifica dei locali, soprattutto nella sede di via Vittorio Emanuele, caratterizzata da spazi e corridoi molto angusti. A prescindere da questo sviluppo, comunque, già dall’esplosione dell’emergenza l’attività di procura e tribunale ha subito restrizioni, fattesi col passare dei giorni sempre più rigide. Assicurati i procedimenti civili in determinate materie fino al 15 marzo, e rinvio per le restanti udienze. Procura chiusa e processi penali ridotti ai minimi termini. Si celebrano udienze di convalida del fermo o dell’arresto, processi con detenuti (non sempre), incidenti probatori e in generale procedimenti “con carattere di urgenza”, previa comunicazione alle parti. Rinvio in massa per il resto. Treviso. Proteste nelle carceri, niente violenza ma tanta tensione di Annalisa Milani lavitadelpopolo.it, 14 marzo 2020 Spiega il cappellano don Giuseppe Zardo: “Chi si trova recluso e apprende, attraverso la televisione, i dati della crescita del contagio e dei decessi, vive la terribile sensazione di essere con le spalle al muro, anche perché tutto si aggiunge al problema del sovraffollamento cronico delle carceri italiane”. Anche nel carcere circondariale di Santa Bona a Treviso, domenica sera 8 marzo, si è temuta una rivolta, sull’onda delle manifestazioni di protesta che si stavano tenendo nelle carceri in tutta Italia: pentole e posate sbattute sulle inferriate e si è temuto il peggio. Da quarant’anni non accadeva nulla del genere nel sistema penitenziario italiano. Il motivo scatenante sono state le nuove disposizioni da seguire a causa del coronavirus, in particolare la soppressione dei colloqui “a vista”, oltreché la distanza di un metro da tenere. Qualcuno, nell’emergenza che stiamo vivendo, dirà che questi non sono problemi, ma come ci dice don Piero Zardo, cappellano del carcere di Treviso, apprezzato punto di riferimento umano da vent’anni all’interno della struttura circondariale: “Sono appena stato lì, non ci sono state violenze, ma la situazione è pesante e si avverte molta tensione. Chi si trova recluso e apprende, attraverso la televisione, i dati della crescita del contagio e dei decessi, vive la terribile sensazione di essere con le spalle al muro, anche perché tutto si aggiunge al problema del sovraffollamento cronico delle carceri italiane”. Don Piero continua a descrivere la situazione di un carcere che oggi conta dalle 200 alle 210 persone, dove gli spazi sono angusti e spesso manca proprio il respiro, il fiato si fa corto, i letti sono a castello, e chi dorme sulla branda superiore sbatte la testa contro il soffitto. È il luogo dell’asfissia, dell’aria viziata, dove la doccia, il water, il lavandino e la dispensa si sovrappongono e si mescolano per rispondere ai bisogni primari. Don Piero sostiene, quindi, che la tensione non fosse dovuta alla soppressione dei colloqui, perché da un po’ di tempo si erano avviati più colloqui via skype e via telefono. La conferma ci viene data anche dal direttore dott. Alberto Quagliotto, che domenica sera aveva percorso con il comandante tutti i bracci del penitenziario, parlando di persona e ascoltando i bisogni e le criticità e creando un comitato. Si tiene la linea del dialogo e questa pare abbia avuto l’effetto immediato di far emettere da parte dei carcerati di Treviso un comunicato stampa che così dichiara: “Con la presente i detenuti della C.C. di Treviso vogliono innanzitutto dichiarare la dissociazione dagli atti vandalici perpetrati nelle carceri italiane a opera degli occupanti”. Si continua con note di solidarietà per chi è colpito dal coronavirus, ma poi si mettono in luce le problematiche croniche di tante strutture penitenziarie, compresa Treviso: il sovraffollamento, le celle senza acqua calda, senza docce in stanza, spazi molto ridotti (meno di 3 metri a persona), la carenza di personale addetto alla custodia, una sala colloqui che può ospitare al massimo 10 detenuti all’ora, personale ridotto nel reparto infermeria e la mancanza di farmaci. Il comunicato chiude con la speranza che l’epidemia si sconfigga e presto si possa tornare alla normalità per continuare la battaglia, portata avanti da alcuni parlamentari, affinché “una riforma della Giustizia venga accolta, per darci la possibilità di essere persone nuove, uomini, una volta terminata la pena”. Alcune parole nel comunicato dei detenuti di Treviso possono apparire retoriche, ma c’è da ricordare che il degrado della condizione carceraria non riguarda solo i carcerati, ma tutti. Non c’è bisogno di ricorrere a Dostoevskij per riconoscere che il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni e che se i diritti della persona non vengono tutelati in qualunque segmento della organizzazione sociale, ne patiremo tutti. Roma. I detenuti possono parlare via Skype con i parenti di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 14 marzo 2020 Iniziativa a Rebibbia e Regina Coeli grazie al nuovo collegamento wi-fi disponibile all’interno dei due istituti penitenziari. A Velletri e Rieti, dove è stato chiuso un reparto, si contano i danni. I sindacati: adesso per gli agenti più igiene e sicurezza sul lavoro. Un reparto chiuso a Rieti, danni gravi ad altri due a Velletri. In ripristino la situazione a Rebibbia - dove gli incendi dolosi hanno coinvolto due piani di un edificio - mentre a Regina Coeli la protesta dei detenuti è stata breve e ha provocato poche conseguenze materiali, anche se l’attenzione rimane alta, come dappertutto. A due giorni dalla fine dei tafferugli anche nelle carceri del Lazio, come a Frosinone e Cassino, si traccia il bilancio di quanto accaduto, a partire dai tre reclusi deceduti proprio a Rieti per aver assunto metadone sottratto dall’infermeria nel corso degli incidenti. Una situazione che preoccupa ancora, visto che l’emergenza coronavirus è appena cominciata ed è stata proprio questa la causa scatenante della protesta - a tratti violenta - dei detenuti. L’intervento delle forze dell’ordine ma anche in certi casi la mediazione di direttori degli istituti insieme con l’intervento dei magistrati hanno consentito di far rientrare l’ondata di rabbia che rischiava anche nel Lazio di causare conseguenze gravissime come quelle di Modena o Foggia. Nei giorni scorsi a Rebibbia e a Regina Coeli, grazie all’arrivo degli accessi internet con le connessioni wi-fi, come quella di Unidata, alcuni reclusi hanno potuto parlare via Skype con i parenti, anche per tranquillizzarsi a vicenda su quello che accade dentro il carcere e a casa. Adesso però ci sono da riparare i danni nelle carceri coinvolti negli scontri. Secondo Massimo Costantino, segretario generale aggiunto della Cisl Fns, “finite le proteste restano le macerie, e a farne le spese è il personale della polizia penitenziaria, i direttori e anche le altre figure che lavorano nel carcere. Adesso gli agenti devono assicurare il servizio in scarse condizioni di igiene e sicurezza, in ambienti contaminati dagli incendi ma anche con immaginabili rischi per la salute. Ecco perché - conclude il sindacalista - chiediamo interventi per tutelare il personale”. Sempre secondo Costantino, sono “necessari interventi non solo a Rebibbia Nuovo Complesso, ma anche a Frosinone e a Velletri, per garantire le misure igieniche e di sicurezza sul luogo di lavoro, laddove si sono verificati i danneggiamenti”. Teramo. Castrogno, per i detenuti ci sono colloqui via Skype con i familiari Il Centro, 14 marzo 2020 Quando la paura si trasforma in rabbia tutto diventa più difficile. Il direttore del carcere di Teramo Stefano Liberatore lo sa bene. Lui che da vent’anni gira i penitenziari italiani con esperienze a Sulmona, Brescia, Cremona e l’Opera di Milano di emergenze ne ha viste tante. La recente rivolta scoppiata negli istituti italiani, in particolare dopo la sospensione dei colloqui con i familiari per l’emergenza coronavirus, nei giorni scorsi ha sfiorato anche il penitenziario teramano con la protesta dei detenuti che hanno battuto oggetti contro le grate delle finestre. A Castrogno il direttore ha autorizzato i colloqui via Skype tra detenuti e familiari e ha deciso di dare la possibilità ai reclusi di fare una telefonata al giorno per parlare con i familiari. “Abbiamo cinque postazioni”, spiega Liberatore, “e da queste i detenuti che vogliono possono fare collegamenti via Skype con i familiari. È un contatto visivo che certamente aiuta a farli sentire meno soli in una situazione come questa in cui le paure si fondono con le incertezze. Questo momento è un banco di prova per tutti noi”. Anche nel penitenziario teramano, come in tutti quelli italiani, sono state attivate le misure sanitarie di sicurezza con un container allestito all’esterno. “Tutta la gente che entra dall’esterno usa mascherine e guanti”, continua Liberatore, “abbiamo fornito presidi a tutti e il fatto che siano indossati contribuisce a rassicurare notevolmente i detenuti. È importante che in questo momento venga rassicurati perché altrimenti non si riesce a contenere la protesta. Parlo continuamente con loro, così come è stato fatto nei giorni scorsi”. Nei giorni scorsi, infatti, quando a livello nazionale è scoppiata la violenta rivolta in molte carceri italiani con fughe e morti, a Castrogno, oltre che a battere oggetti sulle grate, qualcuno ha dato fuoco a un materasso nel reparto femminile generando attimi di tensione che, come sempre accade negli istituti di pena, hanno visto in prima linea gli agenti di polizia penitenziaria. Bergamo. L’annuncio di Gori: computer in carcere per videochiamate tra detenuti e parenti primabergamo.it, 14 marzo 2020 L’annuncio di Gori: computer in carcere per videochiamate tra detenuti e parenti. “Nelle prossime ore faremo recapitare alla casa circondariale otto computer, regalati dal nostro fornitore Globo, con i quali sarà possibile realizzare dei colloqui telematici tra i detenuti e i loro familiari, sperando che questo brutto momento finisca presto”. Ad annunciarlo è il sindaco di Bergamo Giorgio Gori sulla propria pagina di Facebook, a due giorni di distanza dalla visita in carcere per ascoltare le istanze degli ospiti della struttura di via Gleno. Se in molte carceri italiane erano scoppiati tumuli dopo l’entrata in vigore delle ulteriori limitazioni arginare i contagi da Coronavirus, in cui si protestava contro il divieto di vista da parte dei parenti e si chiedevano adeguate misure per proteggersi dal Covid-19, a Bergamo i detenuti hanno invece scelto la via del dialogo con le istituzioni. Per questa ragione il sindaco Gori ha voluto esprimere la propria vicinanza e attenzione verso le richieste che gli sono state sottoposte, pubblicando questo lungo messaggio: “Ho trovato un momento di pausa e vorrei dedicarlo a chi sta in carcere. Ai detenuti e chi lavora per la loro sorveglianza. C’è in generale il rischio di dimenticarcene e a maggior ragione in questi giorni difficili in cui, paradossalmente, ognuno di noi sperimenta cosa possa voler dire - con tutte le differenze del caso - trovarsi reclusi. Noi stiamo chiusi nelle nostre case e usciamo solo per necessità. Ai detenuti, a causa dell’epidemia, sono state sospese le visite. È stato deciso a loro tutela - è facile immaginare le conseguenze se il virus dovesse penetrare dentro le mura di un carcere - ma molti hanno reagito male. Molti di loro hanno mogli o mariti e figli a casa e sono preoccupati, come tutti. Nelle carceri di diverse città hanno reagito molto male, ci sono state violenze e purtroppo diversi morti. Non a Bergamo, per fortuna, dove i detenuti hanno scelto la via del dialogo con le autorità di sorveglianza. E anche per questo - per esprimere loro l’apprezzamento per questa scelta di condotta pacifica e costruttiva - mi sono reso disponibile ad incontrarli. Mi hanno accolto in una saletta, alla presenza della Direttrice della Casa Circondariale e del personale di sorveglianza: una quindicina di detenuti in rappresentanza delle diverse sezioni. Mi hanno letto e consegnato due documenti, uno indirizzato alle istituzioni politiche e in primo luogo al Ministro della Giustizia Bonafede, l’altro - contenente alcune istanze più puntuali - al Presidente del Tribunale di Sorveglianza. Ne hanno spiegato il contenuto, mostrando di capire bene l’emergenza a cui tutti stiamo facendo fronte e le ragioni delle restrizioni a cui sono stati sottoposti. Ma mi hanno chiesto attenzione, e riconoscimento del loro essere cittadini come gli altri, con la loro umanità e il loro diritto alla salute. Chiedono che il Tribunale di Sorveglianza applichi le disposizioni - vigenti - che ad alcuni di loro consentirebbero di tornare a casa, o di scontare la pena ai domiciliari. Non mi addentro in questo campo, che non mi compete. Ma voglio ringraziarli per la cortesia con cui mi hanno accolto e per il senso di responsabilità testimoniato dai loro comportamenti e dalle loro parole. Nelle prossime ore faremo recapitare alla casa circondariale di via Gleno otto computer, regalati dal nostro fornitore Globo, con i quali sarà possibile realizzare dei “colloqui telematici” tra i detenuti e i loro familiari, sperando che questo brutto momento finisca presto”. Non conosciamo la responsabilità individuale, abbiamo sempre bisogno di un uomo forte di Iuri Maria Prado Il Riformista, 14 marzo 2020 Fanno bene i pochissimi che lo denunciano, ma davvero non sorprende che questa unanime pretesa di salvazione precipiti nella solita ricetta: cioè il conferimento del potere a Uno che ci salvi. Perché il desiderio di autoritarismo pubblico è negli italiani irresistibile. E naturalmente insorge e si diffonde quando e quanto più ci sarebbe bisogno semmai del contrario, e cioè dell’affermazione delle responsabilità personali, dell’autonoma capacità di giudizio e di decisione. Da quando è scoppiata quest’epidemia, e con brama crescente nell’aggravarsi della crisi, il desiderio degli italiani di essere sottomessi a una guida simbolicamente imperativa ha perso i già deboli freni per cui si segnala questa connaturata propensione nazionale al cedimento del criterio individuale in favore dell’imposizione autoritaria. E di qui la richiesta, l’appello a che la società e la politica si incurvino nell’affidamento fideistico di ogni potere a questo o quel campione capace di risolvere tutto, di proteggerci tutti, di salvarci tutti. Può essere un esperto di manette, un virologo fisso in tivù, un organizzatore di soccorsi ai terremotati, non importa: chiunque va bene se si tratta di sfamare quel desiderio inesausto di rinuncia a qualsiasi libertà responsabile ripagata con un simulacro d’ordine che tranquillizza la massa e la fa riposare mentre Lui se ne prende cura. E questo diffuso reclamare l’incoronazione dell’uomo giusto capace di risolvere le cose non ha nulla a che vedere con la legittima aspettativa che al posto di comando stia qualcuno dotato di competenza, per la semplice ragione che per risolvere qualsiasi crisi notevole non esiste “una” competenza. Se c’è una guerra non cessa di essere importante tutto il resto, la scuola, l’economia, la produzione industriale, ed è per questo che se c’è una guerra i militari fanno la guerra ma non governano il Paese, che deve vivere non ostante la guerra. Così come se c’è un’epidemia non si manda al governo un virologo, che applicando la sua scienza magari ferma il virus ma uccide il Paese. Tutto questo, in realtà, è almeno oscuramente compreso anche da quelli che appunto reclamano quella soluzione spiccia. E infatti è altro ad adunare la società italiana sotto al balcone insopportabilmente vuoto, coi politici di destra e di sinistra non casualmente uniti in prima fila: è l’ansia comune di incaricare qualcuno che ci assolva dalla nostra libertà. Qualcuno che ci “liberi” dalla nostra libertà, questo peso insopportabile. E ancora non casualmente quest’ansia è disponibilissima a sciogliersi, a trovare finalmente appagamento nell’accettazione incondizionata di divieti tanto più duri, di limitazioni tanto più stringenti, di imposizioni tanto più gravose. Perché il cosiddetto uomo forte non è mai desiderato affinché dia libertà: ma affinché la tolga. E quando in una società la libertà viene a mancare non è quasi mai perché uno, con la forza, l’ha tolta ai più, ma praticamente sempre perché i più, senza sforzo e spesso con desiderio, vi hanno rinunziato. Come il popolo italiano ben saprebbe se non si raccontasse d’aver perso la libertà chissà per quale forza estranea, facendo poi finta d’essersela riguadagnata da sé. Tutto questo per dire che non c’è bisogno che qualcuno ci dica come comportarci per meglio convivere con i pericoli di questa malattia? No davvero. Ma non è questo che comunemente si chiede quando dappertutto si solleva quell’istanza di investitura risolutrice. E la pretesa unicità della posizione italiana ai tempi del Coronavirus sta molto meno nelle statistiche sui contagiati e le vittime che in quest’altro segno distintivo nazionale: l’eterna, voluttuaria disponibilità a sottomettersi al comando illiberale. Coronavirus, esercito e forze dell’ordine in allarme: serve un piano contro caos e disordini di Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian L’Espresso, 14 marzo 2020 Dopo l’emergenza sanitaria e quella economica, il governo teme possa scoppiare anche quella della sicurezza pubblica, come successo delle carceri. Così militari e polizia presto potrebbero essere chiamati a pattugliare le strade e a distribuire cibo e medicine. E anche i servizi segreti sono allertati. Ecco di cosa discutono i vertici delle forze armate. Nel governo, ormai, la legge di Murphy la temono tutti: “Se qualcosa può andare male, lo farà”, dice il paradosso. Tutti sperano che le nuove misure di contenimento possano contrastare l’epidemia di Covid 19, ma è certo che il principio della proporzionalità graduale invocata inizialmente dal premier Giuseppe Conte (e da tutta la catena di comando del potere, tranne poche inascoltate eccezioni) si è dovuto arrendere alla forza del coronavirus e agli effetti devastanti della sua diffusione. Il pessimismo della ragione, fino a una settimana fa considerato nemico pubblico numero uno, è dunque diventato motore principale delle decisioni dello Stato. Così, dopo la trasformazione dell’Italia in un’enorme zona rossa, con limitazione dei movimenti di tutti i cittadini e chiusura di attività commerciali, membri dell’esecutivo e alcuni leader politici sentiti dall’Espresso temono che, se i comportamenti degli italiani non dovessero modificarsi presto nel segno della responsabilità, bisognerà prendere altre misure estreme. “Perché” spiegano “all’emergenza sanitaria ed economica rischierebbe di aggiungersi quella altrettanto drammatica dell’ordine pubblico. Dunque è necessario prepararsi in tempo, e cominciare a pensare piani d’azione per le forze dell’ordine e, nel caso, per l’esercito”. La rivolta delle carceri è stato solo un antipasto di quello che potrebbe accadere in caso di diffusione incontrollata dell’agente patogeno. Nelle regioni, il timore è che un’escalation dell’epidemia crei disordini. Negli ospedali, nei supermercati, nelle piazze. Senza contare lo spettro dello sciacallaggio, che si ripresenta a ogni calamità. “Bisogna essere pronti ovunque e cercare di coinvolgere maggiormente i militari”, spiega una voce autorevole da Palazzo Chigi. “Senza allarmare la popolazione, ma senza farsi trovare impreparati per l’ennesima volta”. Nessuno dei politici sentiti dall’Espresso ha il coraggio di invocare il modello autoritario cinese (che alla quarantena volontaria di 60 milioni di persone ha affiancato un pattugliamento strada per strada di soldati, poliziotti e blindati). Ma tutti, a taccuino chiuso, dicono che serve un salto di qualità nel controllo del territorio. Non solo perché le norme dei decreti del governo vengano davvero rispettate, ma anche per creare reti di sicurezza in ogni città. Il tema è delicatissimo, e finora nessuno (tantomeno Conte) vuole prendersi la responsabilità storica di militarizzare le strade e, di fatto, congelare per qualche settimana i diritti civili degli italiani. Per una democrazia liberale, sarebbe un precedente spartiacque. “Ma è evidente a tutti che bisogna bloccare l’epidemia ad ogni costo. E che finora parte della popolazione non sembra aver recepito il pericolo reale. Il rischio è che, peggiorasse la situazione, l’anarchia possa prendere il sopravvento. Non possiamo permettercelo”. Ad ora nei cassetti dell’Esercito, dei Carabinieri della Guardia di Finanza e della Polizia non c’è alcun piano d’intervento. Né nei singoli corpi, né al Coi, il Comando operativo di vertici interforze. I dispositivi di emergenza per catastrofi varie sono appannaggio della Protezione civile, che non si occupa però dell’ordine pubblico. D’altro canto nessuno aveva previsto epidemie o rischi biologici di entità simili al Covid-19. Dunque, la strategia d’azione è tutta da costruire. In genere, esiste un piano operativo per ogni situazione estrema. Chi ha il compito di gestire l’ordine pubblico è preparato al peggio: attacchi nucleari, batteriologici, nucleari, guerre, calamità naturali, terremoti, cataclismi vari ed eventuali. Esistono piani riservati nelle prefetture di ogni provincia che stabiliscono le linee operative delle forze dell’ordine in coordinamento con i reparti sanitari e gli altri attori sul territorio. Sono i piani di difesa civile e quelli sugli attacchi esterni denominati Nbcr (nucleare, batteriologico, chimico, radiologico). Protocolli calibrati sulle diverse province in base alla presenza di particolari obiettivi sensibili: la presenza di aziende chimiche, la mappatura dei presidi sanitari, le aree sicure dove far confluire la popolazione. Scenari da fine del mondo, insomma. Da film come “The day after”. Eppure nessuno aveva mai immaginato di doversi confrontare con un’emergenza sanitaria da coronavirus, che ha un impatto su una scala infinitamente maggiore di un attacco terroristico o incidente biologico. L’epidemia, soprattutto, pone profili di ordine pubblico mai ipotizzati prima, soprattutto con l’innescarsi di una fobia strisciante, fomentata sia dalla paura, sia da notizie false diffuse sui social network, e da un’informazione istituzionale a volte contraddittoria e confusa. Ecco perché in questo contesto di rischio psicosi, il ruolo delle prefetture assume sempre più peso. Sono, infatti, i prefetti e i funzionari che lavorano negli uffici del governo territoriale i deputati alla gestione dell’ordine pubblico. Le istituzioni centrali più vicine al cittadino. In prima linea nel contenimento delle azioni che possono turbare il vivere civile delle nostre comunità. Gli strateghi che coordinano tutte le forze dell’ordine delle zone di competenza. “Da settimane i colleghi, unitamente a tutto il restante personale disponibile, stanno puntualmente supportando l’azione di coordinamento dei Prefetti sul campo”, chiarisce Antonio Giannelli, presidente del Sinpref, il sindacato dei funzionari prefettizi. Perciò, continua Giannelli, “siamo pronti a ogni sforzo straordinario che, anche per sopperire le carenze di personale che si registrano in tante Prefetture, contempli una mobilitazione di tutti i colleghi disponibili. Bisogna operare però un’adeguata turnazione e preservare la loro salute, assicurando la massima efficienza operativa all’intero dispositivo d’intervento”. Polizia, carabinieri, finanzieri potrebbero essere presto usati sulle strade, sia per operare maggiori controlli sui cittadini sia per intervenire dove necessario. I numeri delle forze disponibili, però, sono preoccupanti. Anche analizzando quelli delle prefetture della prima zona rossa (quella di Codogno e dintorni), si evidenzia una carenza di personale - come quello dirigenziale - che si aggira intorno al 50 per cento. Un fatto grave, perché mancano le teste per mettere in atto strategie. A Lodi, il primo focolaio italiano del Covid-19, la pianta organica, oltre al prefetto, contempla sei funzionari: ce ne sono solo tre. Stesso numero a Piacenza. A Pavia affiancano il prefetto solo due funzionari. Il resto del Paese non fa eccezione. E se organici ridotti possono passare inosservati in tempi di quiete, all’epoca del panico da coronavirus può diventare un serio problema. Soprattutto perché pure i prefetti si ammalano. Come a Lodi, a Brescia, a Modena e Bergamo, dove sono risultati positivi al test. E se si dovessero ammalare o quarantenarsi pure i vicari e i capi del gabinetto prefettizio, avremmo i luoghi da cui passano le decisioni strategiche per l’ordine pubblico completamente sguarnite. Certo, potranno continuare a coordinare a distanza, con videoconferenze. Ma anche questo non è scontato che si possa fare in prefettura, dove spesso manca l’attrezzatura per collegarsi con gli uffici prefettizi fuori dai capoluoghi di regione. “Siamo rappresentanti del governo sul territorio, per governare però ci vogliono mezzi e risorse”, è lo sfogo di uno dei prefetti di un capoluogo di regione. Prefetti e funzionari che in queste condizioni si trovano ora a gestire situazione potenzialmente esplosive. I piani d’intervento rapido non esistono nemmeno per le carceri. I detenuti hanno organizzato sommosse in decine di strutture sparse per mezzo Paese, da Nord a Sud: Venezia, Milano, Modena, Bologna, Roma, Rieti, Napoli, Melfi, Palermo. Ci sono stati morti e feriti. La miccia delle rivolte è stato il provvedimento che ha limitato i colloqui e le visite con i familiari nei penitenziari per evitare i contatti con l’esterno e la possibilità di far entrare il Covid-19 nelle strutture. Un contagio trasformerebbe - come già accaduto in Cina - le prigioni in un focolaio difficile da domare. I luoghi sono potenzialmente facili da infettare: celle piccole, promiscuità e precarie condizioni igieniche amplificherebbero l’epidemia, trasformandola in una catastrofe. Anche perché mancano strutture sanitarie idonee a un’emergenza di questo tipo. Un documento del 2011 firmato dall’allora capo del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria detta le linee operative per intervenire in situazioni critiche che potrebbero verificarsi nelle carceri: rivolte, sequestri di persona, atti collettivi di autolesionismo. Nessun accenno, però, ad una eventuale crisi sanitaria. L’assenza di direttive chiare è confermata all’Espresso da chi domenica scorsa ha partecipato al contenimento della rivolta del carcere di Modena, quella più tragica: sette morti, struttura devastata, ufficio matricole raso al suolo con tanto di fascicoli personali dei singoli detenuti bruciati. “Sappiamo cosa fare durante gli eventi sportivi, nelle rivolte dei centri di accoglienza dei migranti, ma non abbiamo mai ricevuto alcuna direttiva su come comportarci nella gestione dell’ordine pubblico in eventi conseguenza di un’emergenza sanitaria”, ci spiega uno degli agenti intervenuti per sedare la rivolta nel carcere di Modena, dove si sono contati nove morti. L’ultima protesta, questa pacifica, è avvenuta nel carcere di Campobasso, martedì mattina. Qui come in altri istituti i detenuti hanno scritto una lettera chiedendo alle autorità di mettere in campo un piano di prevenzione della diffusione del coronavirus nelle prigioni. Oltre a chiedere pene alternative, su un punto i reclusi sono d’accordo: garantire il presidio sanitario per tutte le 24 ore “vista la presenza di detenuti d’età avanzata e con già gravi patologie pregresse”. Richieste, come quelle della costante presenza di medici, legittime. Altre, invece, più strumentali, come la richiesta dell’indulto e dell’amnistia. Alcuni sindacalisti, per esempio, fanno notare che la contemporaneità delle rivolte escluda la spontaneità da queste dimostrazioni. Il sospetto è che ci possa essere la mano dei clan, che nelle carceri hanno un potere enorme. Un’ombra sui disordini che si nasconde dietro il pericolo epidemia. A Foggia sono evasi in 23. Tra questi un gruppo di affiliati alla mafia foggiana. Motivo in più, chiedono gli esperti, per far presto, e rafforzare gli uffici delle prefetture con professionisti in grado di leggere in anticipo l’evolversi dei fenomeni. L’Esercito, finora, su richiesta del ministero della Difesa guidato dal dem Lorenzo Guerini è intervenuto nell’emergenza mettendo a disposizione immobili e caserme (per eventuali quarantene, come nel caso della Cecchignola a Roma e il presidio Riberi a Torino), ospedali militari (il Celio, sempre nella Capitale) e una quarantina tra medici e infermieri militari. Il capo dello Stato maggiore, il generale Enzo Vecciarelli, è però pronto - nel caso di una richiesta del governo - a intervenire anche nel campo dell’ordine pubblico. All’inizio dell’emergenza coronavirus molte riunioni del Coi, a cui partecipano anche i capi dei carabinieri e della Finanza, sono state incentrate sul tema - sacrosanto - di come proteggere dall’infezione i nostri uomini in armi. Una questione posta anche dai sindacati di polizia, e che ha preoccupato le varie amministrazioni: possibili profili penali e cause civili di magistrati e dipendenti sono incubo di ogni datore di lavoro. Ora che l’emergenza è diventata drammatica, qualche generale a quattro stelle spinge per disegnare strategie operative, in modo da essere pronti a impiegare i soldati sul campo in caso di necessità. Anche perché, tra le missioni della Difesa, c’è “il concorso nelle attività di protezione civile su disposizioni del governo, concorso alla salvaguardia delle libere istituzioni e il bene della collettività nazionale nei casi di pubbliche calamità”. Nelle prime aree dei focolai lodigiani e padovani, 500 uomini di circa sono stati usati per presidiare una cinquantina di valichi. Ora l’ipotesi è quella di usare, nell’emergenza coronavirus, un numero di forze assai maggiore, sul modello “Strade sicure”. L’operazione voluta dal governo Berlusconi nel 2008 e ancora in vigore, ha permesso il dispiego di militari e mezzi dell’Esercito per il contrasto alla criminalità e al terrorismo. Che nel corso del tempo sono stati impiegati anche per emergenze eccezionali, dalla Terra dei Fuochi ai terremoti in Umbria e ad Ischia, passando per l’Expo fino al Ponte Morandi. Oggi gli uomini in campo sono poco più di 7.500, ma in realtà (tra turni e quelli che stanno facendo i corsi di preparazione) il numero di soldati interessati a “Strade sicure” sono circa 22 mila (l’equivalente di una divisione) oltre a 1.200 mezzi tra jeep, Lince e autotrasporti. I militari - carabinieri esclusi - sono parificati ad agenti di pubblica sicurezza, e tra pattugliamento, vigilanza di obiettivi sensibili (dalle stazioni agli aeroporti fino alle ambasciate), hanno compiuto in quasi dodici anni cinque milioni di controlli, 51 mila tra fermi, denunce e arresti, oltre a sequestrare armi, 14 mila autovetture, e due tonnellate di narcotici. Ora, nell’Italia squassata dal virus, non è impossibile che venga messa in piedi un’operazione parallela a quella di “Strade sicure”. O che gli stessi uomini vengano dirottati per fronteggiare l’emergenza, naturalmente con nuove regole d’ingaggio. In particolare, per il pattugliamento di strade, da intendere come presidi mobili o statici che facciano da deterrente a chi viola le regole del decreto che vuole gli italiani “tutti a casa”. Ingaggio che potrebbe prevedere, ovviamente, interventi anche in caso di problemi di ordine pubblico. Non solo: l’Esercito, che è distribuito capillarmente sul territorio nazionale, potrebbe essere utilizzato anche per distribuire cibo e medicine a coloro che non riuscissero a procurarselo da solo. Mentre non è impossibile che, in caso di successo nel contenimento nazionale dell’epidemia, in futuro i militari potrebbero essere usati per controllare arrivi di stranieri da zone focolaio. Esercito, ma soprattutto Polizia e carabinieri, potrebbero essere impiegati anche su un altro fronte. Quello dei trasporti eccezionali (nel caso di blocco di quelli pubblici) e quello del controllo dei negozi alimentari. La calca davanti ai supermercati è considerato segnale preoccupante dalle autorità. I cittadini che corrono negli alimentari per paura di trovare gli scaffali vuoti, terrorizzati nonostante le rassicurazioni del governo sulla possibilità di fare sempre la spesa, hanno colpito. La folla incontrollata è una minaccia alla sicurezza. Persino le star del calcio sono state immortalate nella notte in coda e con carrello al seguito per stipare scorte. E così anche i templi del consumo potrebbero diventare luoghi da sorvegliare. Anche perché con le strade vuote, come nel dopo terremoti, spesso compaiono gli sciacalli, pronti ad approfittare delle sciagure collettive. Criminali che oggi vivono anche sul web. A questi ultimi sta dando la caccia la Guardia di Finanza: nel mirino gli sciacalli del coronavirus che vendono disinfettanti e mascherine a prezzi esorbitanti nell’ordine di 400 euro a pezzo. Anche i servizi segreti sono, ovviamente, allertati. Aisi e Aise non hanno competenze specifiche sulle epidemie, ma è noto che l’intelligence ha il compito di “ricercare ed elaborare nei settori di competenza tutte le informazioni utili alla difesa dell’indipendenza, dell’integrità e della sicurezza della Repubblica”. L’Aise, la nostra agenzia per la sicurezza esterna, ha certamente capacità sulle minacce Nbcr, ma in caso di epidemie nessun piano è stato mai approntato. Ad oggi, il governo ha chiesto si nostri servizi di ottenere informazioni sulle ditte straniere che si stanno accalcando per venderci materiale sanitario, mascherine e ventilatori. Per capire se sono aziende serie, se i prodotti sono di qualità e a prezzi congrui. Qualcuno, a Palazzo Chigi, vorrebbe pure che le nostre barbe finte lavorassero per capire chi, nel mondo, si sta avvicinando maggiormente a farmaci antivirali efficaci contro il Covid 19 e al vaccino. In modo da essere pronti ad acquistare prima di tutti le scorte necessarie. In un vecchio incontro presso gli 007 dell’allora Sisde, l’attuale direttore scientifico dell’ospedale Spallanzani di Roma, alla fine di una conferenza sui come controllare una minaccia biologica terroristica, fu chiarissimo: “Per affrontare il bioterrorismo occorre un’integrazione di tutte le forze dello Stato, civili e militari, in grado di acquisire informazioni, decidere gli interventi da adottare”, spiegò. “Senza l’integrazione di attività e competenza si rischia di fare come la storiella di Ognuno, Qualcuno, Ciascuno e Nessuno: “C’era un lavoro importante da fare: Ognuno era sicuro che Qualcuno lo avrebbe fatto, Ciascuno avrebbe potuto farlo ma Nessuno lo fece. Finì che Ciascuno incolpò Qualcuno perché Nessuno fece quello che Ognuno avrebbe potuto fare”. Speriamo che il paradosso non diventi realtà. Migranti. La precarietà dei Cpr e l’emergenza coronavirus di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 marzo 2020 Il Garante ha chiesto di valutare la cessazione anticipata per chi non può essere rimpatriato. La pandemia coronavirus, per quanto riguarda il divieto degli assembramenti di persone per evitare il contagio, non è in agguato solamente nei penitenziari sovraffollati. Ci sono anche altri luoghi dove è privata la libertà e che devono essere monitorati il più possibile per salvaguardare le persone senza però ledere i diritti fondamentali. È il caso dei centri di permanenza e rimpatrio per i migranti dove c’è un numero elevato di persone che vive in condizioni di promiscuità, spesso in condizioni sanitarie precarie ed in assenza di adeguati presidi sanitari interni ai centri. Per questo motivo il Garante nazionale delle persone private della libertà ha avviato una interlocuzione con il ministero dell’interno sulle persone trattenute nei Cpr il cui termine di trattenimento sia prossimo alla scadenza. A seguito dell’emergenza Covid-19, infatti, diversi Paesi hanno disposto il blocco dei voli da e per l’Italia, interrompendo quindi anche quelli di rimpatrio forzato. Pertanto, il Garante nazionale ha chiesto di valutare la necessità di una cessazione anticipata del trattenimento di coloro che, essendo in una situazione di impossibile effettivo rimpatrio, vedono configurarsi la propria posizione come “illecito trattenimento” ai sensi della stessa Direttiva rimpatri del 2008. Nel frattempo c’è infatti un appello sottoscritto da La Campagna Lasciatecientrare, Asgi, Lunaria, Actionad Italia e altre associazioni con decine di avvocati e operatori sociali per chiedere di fermare gli ingressi nei Centri per il rimpatrio. “In considerazione della diffusione del virus - c’è scritto nell’appello - nonché della circostanza che i Centri sono, necessariamente e quotidianamente, frequentati da persone che vivono all’esterno (dal personale di polizia e dell’esercito, al personale degli enti gestori, ai mediatori, agli operatori, ai giudici e avvocati), e che non può certo ridursi o evitarsi tale afflusso, nonché del fatto che per quanto a conoscenza degli scriventi (e sulla base delle informazioni diffuse) il pericolo di contagio proviene anche da soggetti asintomatici, anche le misure eventualmente adottabili (autocertificazioni, uso di mascherine, mantenimento della distanza di almeno un metro tra trattenuti e altre persone) non appaiono idonee a scongiurare il rischio che avvengano contagi all’interno. Peraltro, tra i trattenuti non sarebbe certo ipotizzabile, per i limiti strutturali propri dei Centri, ipotizzare l’applicazione delle misure (distanze, misure igieniche, uso di mascherine) previste dalle disposizioni e raccomandazioni nazionali di tutela sanitaria”. L’autorità del Garante nazionale vigila anche sulle residenze sanitarie per anziani. Viste le limitazioni previste alla lettera q) del Dpcm dell’ 8 marzo 2020, che prevede che “l’accesso di parenti e visitatori a strutture di ospitalità e lungo degenza, residenze sanitarie assistite (Rsa), hospice, strutture riabilitative e strutture residenziali per anziani autosufficienti e non, è limitato ai soli casi indicati dalla direzione sanitaria della struttura che è tenuta ad adottare le misure necessarie e prevenire le possibili trasmissioni di infezione”, il Garante nazionale, pur ritenendo le restrizioni opportune al fine di prevenire la diffusione della pandemia, ha manifestato la propria preoccupazione in merito alle ripercussioni che tali limitazioni possono avere all’interno delle strutture per persone con disabilità e anziane, se non opportunamente monitorate e controllate. La situazione espone, sottolinea il Garante, a elevato stress sia gli ospiti che gli operatori. Questo comporta un incremento del rischio di comportamenti conflittuali, di maltrattamento o di abuso degli strumenti di contenzione. Il Garante nazionale sta studiando collaborazioni e modalità di vigilanza di comportamenti inaccettabili di questo tipo. Coronavirus, il governo non dà indicazioni per assistere i profughi di Serena Chiodo Il Manifesto, 14 marzo 2020 Gianfranco Schiavone (Asgi): “Molti operatori non sanno come comportarsi di fronte a questa nuova emergenza sanitaria”. “Il governo si è di fatto scordato di migliaia di persone”. Gianfranco Schiavone, vice presidente dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), presidente del Concorso italiano di solidarietà di Trieste e membro del Forum per cambiare l’ordine delle cose, commenta così la situazione dei tanti - richiedenti asilo ma anche operatori - “che non sanno come comportarsi di fronte alla colpevole assenza di indicazioni” sull’emergenza creata dal coronavirus. Lo raggiungiamo telefonicamente mentre lavora presso l’ufficio di Trieste: “Non ce la sentiamo di chiudere, perché qui continuano a arrivare persone dalla rotta balcanica che devono poter accedere alla procedura di protezione e accoglienza. E noi come sportello di primo accesso dobbiamo garantire questa possibilità, rispettando la legge e naturalmente tutte le procedure necessarie”. Quanto succede a Trieste però non si replica sull’intero territorio nazionale, dove invece si evidenziano forti mancanze di tutela a fronte di una grave assenza istituzionale. “Sarebbe stata necessaria una circolare ministeriale con indicazioni concrete su come rispettare i principi fondamentali delle normative in materia di asilo, in modo naturalmente compatibile con la situazione. Ma non è mai arrivata”. E così capita che si blocchino situazioni non rimandabili, come le richieste di protezione e quelle di accoglienza, profondamente legate perché senza la prima non si può accedere alla seconda, con il serio rischio di rimanere senza un tetto. “Si sospenda tutto quello che può attendere, come le verbalizzazioni o i colloqui in Commissione: si ritarderà tutto purtroppo, ma si può aspettare. Ma non è possibile bloccare le richieste di protezione e accoglienza, su cui ci si può organizzare pensando a modalità differenti”. A Trieste ad esempio si procede in accordo con la questura che, sospendendo le verbalizzazioni, registra la persona e rilascia un’attestazione indicante la richiesta di protezione, con cui si accede direttamente all’ accoglienza. Un accordo reso possibile anche dal fatto che “non ci troviamo in un territorio dove l’accoglienza è frammentata. Si pensi alle zone dove invece operano molti enti: senza indicazioni e con le prefetture chiuse, è il caos”. Proprio per questo Schiavone sollecita il governo a dare “istruzioni operative a tutti gli uffici periferici, sia alle questure, responsabili delle richieste di protezione, sia alle prefetture, referenti di quelle per l’accoglienza”. Emerge anche un’altra grande questione, ossia la fuoriuscita di molte persone dall’accoglienza per effetto dell’eliminazione della protezione umanitaria prevista dai decreti sicurezza. Anche in questo caso, persone non considerate dal decreto presidenziale legato all’emergenza Covid-19. In generale ci troviamo criticità da tempo denunciate, ma mai affrontate dalle istituzioni: è il caso dell’accoglienza dei richiedenti asilo, concentrata in grandi strutture collettive, ancor più dopo i tagli e le politiche del governo precedente - che da questo punto di vista non ha trovato alcuna discontinuità con quello attuale. “Parliamo di strutture con capienza anche di trecento posti, che faticano a rispettare le indicazioni, con conseguenze facilmente prevedibili non solo in termini di contagio, ma anche di impatto sul sistema sanitario”. Problemi noti, ma finora nascosti dalle istituzioni, che gravano su varie fasce di popolazione marginalizzata ed esclusa, ora rischiano di esplodere con forza. Oltre ai richiedenti asilo, la questione interessa in generale i “servizi di bassa soglia, ad esempio per persone senza fissa dimora”, sottolinea Schiavone, facendo riferimento a tutte quelle situazioni che possono riguardare anche cittadini italiani in condizioni di necessità, dove da sempre “si deroga su tutto: lo spazio personale, le norme igieniche, a volte anche le misure di sicurezza”. Da parte del governo non è arrivata neppure una provvisoria disposizione per autorizzare i comuni e la protezione civile a fornire strutture e ripari per non lasciare nessuno per strada. “Il governo non ha pensato alle migliaia di persone che si trovano in una condizione per cui non possono scegliere di restare a casa. Si dovrebbe disporre l’ampliamento dei servizi di bassa soglia, prevedendo una copertura di spesa”. Doveva essere fatto subito. Invece, non solo nei decreti migliaia di persone non esistono, ma ancora adesso la reazione politica di fronte alle esigenze sollevate è inesistente. Una responsabilità politica grave, “ancora maggiore se si pensa che abbiamo un governo di centro-sinistra”, fa notare Schiavone. Bahrein. Allarme coronavirus, rilasciati 1.500 detenuti sicurezzainternazionale.luiss.it, 14 marzo 2020 La diffusione del coronavirus ha sollevato disordini e preoccupazioni anche all’interno delle carceri. Il Bahrein, precedentemente condannato per le condizioni delle proprie prigioni, ha agito rilasciando 901 detenuti. La decisione è giunta il 12 marzo, attraverso un’ordinanza reale del re Hamad bin Isa Al Khalifa, il quale ha concesso la grazia a 901 prigionieri, mentre altri 585, già a metà del periodo di detenzione previsto, sconteranno il resto della sentenza in centri riabilitativi o all’interno di programmi di formazione. Secondo il Bahrain Institute for Rights and Democracy (Bird), si tratta di una delle maggiori amnistie messe in atto dal Regno sin dalle rivoluzioni del 2011 contro la monarchia. Questa volta, l’obiettivo cardine dell’ordinanza è contenere la diffusione del coronavirus, che in Bahrein ha registrato almeno 189 casi positivi. È lo stesso decreto a parlare di “motivi umanitari”, nel quadro dell’emergenza sanitaria in corso. Tuttavia, il ministro dell’Interno, Sheikh Rashid bin Abdullah al-Khalifa, ha affermato che dietro la decisione di rilascio vi è stato un esame approfondito, volto a comprendere i detenuti in grado di soddisfare specifiche condizioni oggettive e legali. I criteri volti a determinare l’amnistia per motivi umanitari, è stato affermato, sono stati stabiliti tenendo conto altresì di disposizioni di legge e accordi internazionali in materia di diritti umani, così come dell’età o delle condizioni di salute dei detenuti, alcuni dei quali necessitano di cure speciali. Circa i detenuti stranieri, poi, è stato loro concesso di continuare a scontare il resto della pena nei propri Paesi di origine. La diffusione del coronavirus ha causato disordini nelle carceri a livello internazionale. Tale fenomeno ha riguardato altresì l’Iran, dove il 9 marzo, il capo della magistratura, Ebrahim Raisi, aveva riferito che circa 70.000 prigionieri erano stati temporaneamente rilasciati a causa dell’epidemia. Il rilascio è stato consentito solo alle condanne a meno di 5 anni. In tale quadro, secondo quanto riferito dal quotidiano arabo al-Arabiya, l’11 marzo, quattro parlamentari iraniani hanno inviato una lettera al Ministro della Sanità iraniano, chiedendo di concedere il rilascio per i prigionieri politici detenuti nelle carceri del Paese. Tale richiesta si aggiunge a quella di Javaid Rehman, il relatore speciale dell’Onu per i Diritti Umani, il quale ha esortato il governo di Teheran a rilasciare temporaneamente tutti i prigionieri, viste le difficili condizioni in cui versa il Paese a causa della diffusione del coronavirus. La mossa del Bahrein, tuttavia, giunge dopo le numerose denunce presentate dalle organizzazioni per i diritti umani contro il Regno, a causa delle condizioni e delle pratiche subite dai prigionieri. Secondo l’organizzazione non governativa statunitense Freedom House, il Bahrein rappresenta uno degli Stati più repressivi del Medio Oriente, in cui torture, esecuzioni illegali e abusi dei diritti umani vengono spesso praticati ma non denunciati. È stata altresì l’organizzazione Human Rights Watch (Hrw) ad affermare come, sin dal 2010, siano numerosi gli attivisti dell’opposizione arrestati e sottoposti a torture, dopo essersi ribellati alla monarchia. È stato dichiarato che le autorità hanno dimostrato una politica di tolleranza zero per qualsiasi pensiero politico libero e indipendente e hanno imprigionato, esiliato o intimidito chiunque criticasse il governo. Nel mese di ottobre 2019, Hrw ha altresì denunciato la mancanza di cure mediche o di assistenza alle persone più anziane. Si tratta di un fenomeno segnalato anche all’interno delle carceri femminili.