Carceri: restiamo umani Ristretti Orizzonti, 13 marzo 2020 Dal carcere di Padova, la voce di un detenuto, Giuliano Napoli. Le mie prime impressioni a distanza di qualche ora dalle rivolte e nella tregua che sembra essersi stabilizzata nelle carceri italiane mi sembra doveroso scrivere qualcosa dal punto di vista di un detenuto, quale sono, e rimanendo nell’ambito di quello che è il mio percorso con la redazione di, che si occupa soprattutto d’informazione, a partire da dentro il carcere di Padova, esprimere qualche considerazione mi sembra il minimo in base a tutto quello che mi è stato possibile vedere e sentire attraverso i canali di comunicazione come televisione e radio. Tutto è partito da Salerno, le agenzie di stampa hanno divulgato la notizia in maniera giusta informando l’opinione pubblica di quello che stava accadendo nelle carceri. Mi ha colpito il modo critico con il quale il ministro della Giustizia si è rivolto al mondo dell’informazione, facendo pensare che vi sia una sorta di responsabilità da parte dei media per aver contribuito alla divulgazione delle notizie e di conseguenza all’escalation che ha portato molte carceri a disordini e proteste, come per cercare un colpevole a tutti i costi senza considerare le colpe dovute proprio all’inefficienza del ministero stesso, alla sottovalutazione della gravità della situazione e alla mancanza di una regia seria e preparata che affrontasse l’emergenza in modo efficace. Le notizie a riguardo delle carceri sono apparse nelle tv solo dopo che i detenuti hanno alzato la voce e non per spaccare tutto, atti questi, che sono da condannare anche da parte di noi stessi detenuti che pensiamo e crediamo nelle proteste pacifiche come quella in cui credevamo anche noi qui a Padova, per lo meno nella maggior parte dei ristretti. Qui la situazione si è placata dopo gli incontri avuti con la direzione e i magistrati di sorveglianza ai quali abbiamo chiesto rassicurazioni sui preparativi che stavano mettendo in atto nell’ipotesi che il coronavirus venga a contatto con i detenuti; abbiamo chiesto degli interventi che compensassero la chiusura dei colloqui con i familiari, che in un primo momento non sono stati molto efficaci, per esempio si dovevano fare le richieste per avere le telefonate in più e solo in seguito hanno avuto la “delicatezza” di liberare le telefonate in automatico, ma subito dopo si è presentato un altro problema, che è quello dei detenuti non abbienti che anche avendo la possibilità tecnica di chiamare tutti i giorni non hanno le risorse economiche, che non sono state stanziate in maniera urgente come avrebbe dovuto essere, ancora oggi l’amministrazione non riesce a far fronte al problema e anche per questo l’associazione Granello di senape ha messo a disposizione gratuitamente il servizio “Mai dire mail” per chi non ha risorse e altre realtà (cooperative e associazioni) hanno stanziato un piccolo fondo a cui i detenuti possono attingere per avere qualche soldo per chiamare a casa. Non è stato sin da subito garantito l’approvvigionamento di generi alimentari dall’esterno, i familiari accorsi all’istituto per depositare cibo e soldi sono stati all’inizio rimandati a casa e tutto questo ha contribuito ad alimentare il malessere tra le sbarre ma non fino a far scatenare l’inferno come in altre situazioni in altre carceri. Io personalmente ho avuto modo di confrontarmi con la direzione e con l’Ufficio comando, e devo dire che il direttore si è dimostrato sin da subito aperto a capire quelle che potevano essere le azioni da fare nell’immediatezza sbloccando l’ufficio del rilascio pacchi, “il magazzino” intasato dai pacchi ricevuti dall’esterno e che all’inizio non consegnava ai detenuti non si sa per quale motivo, in parole povere se i generi alimentari erano stati acquistati dall’alimentare sotto casa non entravano, se invece erano stati acquistati da marchi conosciuti tipo Fiorucci o Negroni passavano. Queste sono alcune delle piccole cose che in queste situazioni iniziano a creare disordini e ad aggiungere un forte senso di frustrazione e impossibilità di capire cosa sta succedendo, sia dentro che fuori dal carcere, l’impatto con l’isolamento assoluto e totale ha giocato un brutto scherzo che ha aumentato il senso di incertezza e paura, fattori insiti già di per sé nel contesto penitenziario. Tanto c’è da fare adesso, ma a parer mio bisogna prima di tutto riprendere tutto il lavoro fatto negli Stati Generali sulla riforma penitenziaria e approvare subito il nuovo Ordinamento penitenziario che era stato elaborato in quella sede, che se fosse stato approvato a suo tempo oggi non piangeremmo per 12/14 morti e 40 feriti, un disastro che doveva e poteva essere evitato. La rivolta in carcere e la miopia sulle droghe di Franco Corleone Messaggero Veneto, 13 marzo 2020 Il carcere è balzato agli onori della cronaca solo grazie alle proteste e alle rivolte in molti istituti penitenziari del nord, del centro e del sud d’Italia in seguito alle norme del decreto legge del Governo che stabiliva la soppressione dei colloqui dei detenuti con i familiari e la sospensione dei permessi e della semilibertà. Erano stati emanati provvedimenti di chiusura delle scuole e delle università, dei cinema e dei teatri; tutte le le iniziative politiche e culturali erano state annullate, era stato rinviato sine die il referendum sul demagogico “taglio” dei parlamentari ma del carcere nessuno si era preoccupato. Una distrazione eloquente di come si intende che sia fuori dalla società e dalla città la prigione. Il problema è che chi si dovrebbe occupare di una istituzione totale che però non è chiusa e sigillata non sa nulla della storia del carcere, delle dinamiche che si innescano in relazione alle informazioni che giungono da fuori (si parla non a caso di radio carcere) e delle necessità e delle risposte da dare alle domande legittime e spesso angosciate. Il detenuto sa di essere in balia di altri, di non avere possibilità di decisione sulla sua vita; è realmente prigioniero e la paura che oggi è vissuta dai cittadini in “libertà” in una condizione paragonabile allo stato di guerra si trasforma inevitabilmente in disperazione. Le conseguenze sono gli atti di distruzione delle suppellettili delle celle e la devastazione dei locali e la presa non dell’armeria, ma dell’infermeria alla ricerca dei farmaci. Tredici morti di questa tragedia che ci ha riportato indietro di cinquant’anni con i detenuti sui tetti di San Vittore pare non turbino nessuno mentre dovrebbero interrogare le coscienze di tutti noi e soprattutto dei responsabili di un fallimento sesquipedale. Se, come sostengo, siamo di fronte a una Caporetto del ministro della Giustizia pro tempore e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria è bene che si proceda subito a una rimozione come avvenne a Cadorna. Il sovraffollamento ha ripreso a mordere; a fine febbraio erano presenti nelle carceri italiane 61.230 detenuti (2702 donne e 19.899 stranieri) rispetto a una capienza di meno di cinquantamila posti. In Friuli Venezia Giulia la capienza è di 479 posti e i presenti sono 663 (23 donne e 236 stranieri); ci sono almeno 184 persone in esubero che sono concentrate a Udine e Tolmezzo, infatti nel capoluogo sono detenuti 153 persone con una capienza di 90 posti e nel carcere in Carnia 225 presenze con 149 posti. Sono certo che il Presidente del Tribunale di Sorveglianza Giovanni Pavarin metterà in atto tutte le misure per far uscire dal carcere tutti coloro che ne hanno titolo, dai semiliberi agli over 65 anni con problemi cardiaci o respiratori e che saranno valutati con sagacia i detenuti ammissibili alla detenzione domiciliare o all’affidamento in prova. Contrariamente a una triste vulgata, il carcere va utilizzato come extrema ratio, e quindi va riservato per gli autori di delitti contro la persona o di gravi reati e non come discarica sociale. Questa emergenza deve convincere che non devono entrare e stare in carcere persone dichiarate tossicodipendenti che sono oltre il 30%, in cifra assoluta pari a circa 17.000 persone e che va rivista la legge antidroga che per violazione dell’art. 73 del Dpr 309/90 riguardante la detenzione e il piccolo spaccio di sostanze stupefacenti vede la presenza di oltre il 35% dei detenuti, cioè più di 21.000 persone. Una questione sociale riempie le patrie galere per oltre la metà delle presenze! Un quadro completo si può leggere nel Decimo Libro Bianco redatto dalla Società della Ragione e presentato a luglio dello scorso anno anche a Udine e mi piace ricordare che i dossier precedenti li illustrammo con la presenza di Maurizio Battistutta, garante dei detenuti di Udine, scomparso tre anni fa e i cui scritti assai attuali si possono leggere nel volume Via Spalato. Nonostante questo dato macroscopico solo tre settimane fa la ministra dell’Interno Lamorgese annunciava che sarebbe stata predisposta, di concerto con il ministero della Giustizia “una norma per superare l’attuale disposizione dell’art. 73 comma cinque che non prevede l’arresto immediato per i casi di spaccio di droga” e per prevedere la “possibilità di arrestare immediatamente con la custodia in carcere coloro che si macchiano di questo reato”. Un ministro dell’Interno che si rispetti dovrebbe conoscere i dati e dovrebbe dire la verità e cioè che la proposta di una stretta repressiva si riferisce a una norma già presente nella legge proibizionista del 1990 concernente i fatti di lieve entità. Letta oggi questa appare più che una provocazione un errore politico gravissimo. La propaganda e la demagogia accecano. Ho curato recentemente una ricerca che dimostra inoppugnabilmente che già oggi, contro la legge, troppe persone vengono rinchiuse in carcere per una scorretta applicazione del comma 5 dell’art. 73 già ricordato. La riforma che è urgente è quindi di segno esattamente contrario a quello proposto in maniera sgangherata. Per sanare le ferite di questi giorni ci vuole intelligenza e non imboccare la strada della repressione. Occorre invece riprendere i contenuti improvvidamente messi da parte dal ministro Bonafede degli Stati Generali sulla pena e sul carcere. Non deve sembrare una provocazione. Dalla crisi si esce con l’affermazione dei principi della Costituzione e con leggi che realizzino diritti e garanzie a cominciare dalle condizioni minime di vita. La decenza e la dignità richiedono che il lavandino nelle celle non sia accanto alla tazza del cesso e usato da tre, quattro o cinque persone. E se vogliamo essere credibili non possiamo chiedere a tutti i cittadini di stare a più di un metro di distanza per ridurre il rischio di contagio e invece con lampante contraddizione ammassare corpi ristretti in uno spazio di pochi metri quadri. Anche ai detenuti va data una informazione chiara e comprensibile sui rischi per la salute, e va garantito dal servizio sanitario a tutti gli operatori, dalla polizia penitenziaria agli educatori, dai volontari ai famigliari le condizioni di prevenzione della diffusione del virus: misurazione della temperatura all’ingresso, distributori di liquidi disinfettanti e controlli con tamponi nei casi sospetti. L’aumento delle telefonate e l’uso di skype sono un altro segno di rispetto dei sentimenti e del timore dell’abbandono. Azioni di riduzione del danno ma con una avvertenza. Dopo l’emergenza non si potrà tornare alle vecchie abitudini. Il cambiamento deve cominciare nel fuoco della difficoltà, certo non è un buon segno che il Provveditore Sbriglia sia andato in pensione e non sia stato sostituito e così i lavori di ristrutturazione nel carcere di Udine sono fermi e il carcere di San Vito rimane un miraggio. Magistrati di sorveglianza e Garanti impegnati per ridurre il sovraffollamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 marzo 2020 Tante le iniziative per decongestionare le carceri italiane. In attesa che venga sottoscritto un nuovo decreto dove dovrebbe finalmente mettere in chiaro cosa fare o no nelle carceri italiane, ci sta pensando la magistratura di sorveglianza a trovare modi per decongestionare gli istituti penitenziari ai tempi del coronavirus. D’altronde, in alcuni casi, le rivolte sono rientrate grazie alla mediazione di alcuni presidenti dei tribunali di sorveglianza. Su Il Dubbio di ieri abbiamo parlato di Antonietta Fiorillo, la presidente del tribunale di sorveglianza, la quale ha calmato gli animi dei rivoltosi del carcere di Bologna accogliendo richieste relative a misure alternative e incremento dei servizi con operatori. Qualcosa infatti si sta muovendo. A Roma c’è la presidente del tribunale di sorveglianza Maria Antonia Vertaldi che ha disposto una licenza di quindici giorni per tutti i detenuti in semilibertà. Ma non solo. La Vertaldi ha chiesto a tutti gli Istituti penitenziari di monitorare i detenuti con età superiori ai 65 anni che presentino patologie in corso di tipo respiratorio o cardiologico. Una grande azione di responsabilità che forse potrebbe essere recepito dai tribunali di sorveglianza di altre regioni. A comunicare l’azione della magistratura romana è stato il garante regionale dei detenuti Stefano Anastasìa, che ha parlato della necessità di ridurre il sovraffollamento all’interno delle carceri perché “in queste condizioni non è possibile garantire le norme sanitarie richieste al resto della popolazione”. Ma di vitale importanza è il ruolo dei garanti. Lo stesso Anastasìa ha ricordato che “in questo momento così delicato serve il massimo sforzo di coordinamento tra le istituzioni e gli operatori sul campo per riportare serenità nel mondo penitenziario e assicurare le misure necessarie alla prevenzione della diffusione del coronavirus in carcere”. Ha infatti aggiunto che “per questo, pur nella delicatezza del frangente, lunedì scorso abbiamo tenuto una prima riunione, presso il Tribunale di sorveglianza di Roma, con la Presidente Vertaldi, il Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria Carmelo Cantone, il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma e il sottoscritto”. Anche in Campania qualcosa si è mosso in questa direzione. Il garante regionale Samuele Ciambriello, nei giorni convulsi della rivolta di Poggioreale, ha annunciato ai familiari dei detenuti che, da una interlocuzione col Tribunale di sorveglianza, ai detenuti in semilibertà verranno concessi i domiciliari. Detto fatto. È avvenuto anche al carcere di Secondigliano, tanto da chiudere i padiglioni dei semiliberi perché mandati ai domiciliari. C’è Giovanna Di Rosa, presidente del tribunale di sorveglianza di Milano, la quale si è impegnata a scrivere una lettera al ministro della giustizia Alfonso Bonafede per sollecitare modifiche normative utili a ridurre il sovraffollamento nell’istituto di pena. Lei stessa ha avviato, come già riportato su Il Dubbio, una intesa con i Sert per potenziare gli affidamenti terapeutici e le misure alternative, anche con un tavolo che si è costituito con le direzioni del carcere, il provveditorato regionale e la Regione Lombardia. Il ruolo del Garante nazionale, quelli regionali e della magistratura di sorveglianza, con il sostegno dell’avvocatura e di una parte della politica, sta diventando di vitale importanza per salvaguardare il diritto alla salute dei detenuti, proprio in questo periodo dove l’ansia e l’angoscia assale il mondo libero. Figuriamoci il mondo ristretto tra le quattro mura. “Sì alla detenzione domiciliare: non è un atto di clemenza” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 marzo 2020 Massimo De Pascalis, già Vicecapo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ha diretto diversi istituti di pena, come Rebibbia Nuovo Complesso e Spoleto. In questo delicato momento avanza una proposta per fronteggiare l’emergenza coronavirus in carcere, ossia prevedere immediatamente la detenzione domiciliare per coloro che hanno residui di pena inferiori ai due anni. Dottor De Pascalis, prima di arrivare alla soluzione, partiamo dalle cause... Quanto è accaduto non può essere presentato come qualcosa di imprevedibile. Da quando è iniziata l’emergenza si è parlato di tutto tranne che di carcere, come se fosse una zona franca. Ancora prima delle rivolte, riflettevo sul fatto che non si stava affrontando, all’interno del già complicato quadro nazionale, il serio problema del carcere al tempo del coronavirus. Mi chiedevo se la politica, se il governo non avessero dovuto già adottare dei provvedimenti, tenendo conto del sovraffollamento che, come ricorderete, è diminuito durante quei brevi periodi in cui sono stati concessi amnistia e indulto. Il sovraffollamento non può garantire nei reparti adeguate condizioni igienico sanitarie, per chi ci lavora e per chi ci vive. Neanche l’esecuzione penale ordinaria si affronta bene con il sovraffollamento, figuriamoci una emergenza sanitaria come questa. Eppure la tutela del diritto alla salute riguarda tutti, senza distinzione alcuna. Se lei quindi fosse ancora al Dap cosa proporrebbe per arginare la crisi di questi giorni e quella che potrebbe susseguirsi? Si deve assolutamente e urgentemente capire che la detenzione domiciliare non è un atto di clemenza. Essa è disciplinata dal nostro ordinamento penitenziario. Si tratta tuttavia di un procedimento istruttorio assai complesso che deve fare i conti con le lungaggini delle procedure giurisdizionali che caratterizzano tutto il nostro ordinamento giuridico. Ma ora siamo in emergenza, quindi che si fa? Per questa ragione ho proposto in questa particolare fase che sia il governo con un proprio provvedimento a riconoscere la detenzione domiciliare a tutti i detenuti con residuo di pena inferiore a due anni, a condizione che abbiano già fruito della liberazione anticipata o di permessi premio e, considerato quanto sta accadendo nelle carceri, che non abbiano partecipato alle azioni violente, alle sommosse o alle rivolte. Di che numeri parliamo? Facendo un po’ di conti, potrebbero andare in detenzione domiciliare poco più di 10.000 detenuti per i quali è stata già riconosciuta la partecipazione all’opera rieducativa. Si tratta di un provvedimento necessario per tutelare la salute pubblica nei penitenziari, per tutelare la salute di tutti. Ma a dirlo non devo essere io, ma la politica che deve anche spiegarne le ragioni e farle comprendere all’opinione pubblica e al personale, che non deve percepirlo come una concessione ai reclusi, ma come un atto dovuto. Non posso credere che gli agenti di polizia penitenziaria, che conosco molto bene per il grande valore umano e professionale, non riuscirebbero a capirne l’importanza. Non comprendo invece questo silenzio, queste solite frasi di routine: sarebbe bene che si facesse una conferenza stampa a livello nazionale per spiegare i motivi dell’ipotetico provvedimento. Cosa accadrebbe nel momento in cui anche tra la popolazione detenuta ci fosse il paziente zero? Sarebbe una situazione difficilissima da combattere. Anche per una tale eventualità, la deflazione dell’attuale sovraffollamento sarà utile non solo perché consentirebbe di recuperare condizioni igienico sanitarie più adeguate rispetto alle reali esigenze di una comunità chiusa e un monitoraggio più efficace delle medesime, ma soprattutto aprirebbe alla possibilità di svuotare alcuni istituti penitenziari o reparti detentivi per destinarli ad ospitare esclusivamente detenuti contagiati in quarantena. Però l’impressione è che si voglia usare il pugno duro, difficile che questo governo metta in atto il provvedimento da lei suggerito... Voler rimuovere il problema coronavirus in carcere mostrando la forza è pura follia. Il contagio in carcere è ancora più grave del contagio nelle città. Non mi sorprendono i timori che la politica sta esprimendo a tale riguardo, ma, per dirla alla Manzoni, i vari don Abbondio che, con l’incarico di consulenti, la consigliano, tanto a pagarne le conseguenze sono sempre gli altri. La ricetta dei penalisti per svuotare le carceri di Marianna Rizzini Il Foglio, 13 marzo 2020 I disordini nelle carceri all’annuncio dei provvedimenti restrittivi per il contenimento del coronavirus, ma anche il problema precedente e sottostante: le carceri sono sovraffollate, scoppiano quasi, e da tempo la politica è chiamata a occuparsene. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, dopo la rivolta, è andato a riferire in Parlamento, ma le sue parole non hanno convinto (al ministro sono arrivate critiche decise e trasversali da Italia viva e Forza Italia, ma anche il Pd ha chiesto ulteriori chiarimenti). Intanto l’Unione delle camere penali, due giorni fa, ha inviato a Bonafede una lettera aperta per chiedere, vista “l’estensione a tutto il territorio nazionale di regole cogenti per evitare il contagio”, un intervento capace di “dilatare, quantomeno fino al 3 aprile 2020, la disciplina di sospensione dei termini processuali e di rinvio delle udienze calendarizzate. Non è infatti pensabile, quali che possano essere le pratiche eventualmente adottate nei diversi distretti, che avvocati e parti siano costretti alla mobilità nel territorio, incompatibile con le linee guida emanate a tutela della salute pubblica”. E ieri, in collaborazione con il quotidiano il Riformista, l’Unione camere penali ha lanciato una petizione per chiedere l’immediata adozione di un decreto legge in materia. Dice infatti Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Ucpi, che “qualcosa si potrebbe fare subito: ci sono in carcere ottomila detenuti che hanno ancora da scontare una pena della durata compresa tra un giorno e un anno, e altri ottomila che devono scontare una pena fino a due anni. Per questo chiediamo l’adozione immediata di un decreto legge che preveda la prosecuzione dell’espiazione della pena in detenzione domiciliare per soggetti con pena residua non superiore a 24 mesi e per detenuti di età superiore ai 70 anni, se possono indicare un domicilio idoneo, e l’aumento del tetto di pena, residua e non, per la concessione di misure alternative alla detenzione”. A chi teme che in questo modo si abbia una sorta di sconto di pena, Caiazza risponde che non si tratta di una “liberazione prima dei termini”, ma appunto di un modo per alleggerire le carceri stracolme finendo di scontare il periodo che resta presso la propria abitazione, tanto più ora che sussistono rischi per la salute dei detenuti e degli operatori. “Abbiamo una bomba pronta a esplodere, vista la situazione nelle carceri”, dice Caiazza, “per questo chiediamo un’assunzione di responsabilità”. Carceri, l’Italia ignora l’Onu e i diritti dei detenuti Il Riformista, 13 marzo 2020 L’Italia non ha accolto nessuna delle raccomandazioni dell’Onu sul rispetto dei diritti umani nelle carceri. Lo rende noto Nessuno tocchi Caino, che con il Partito Radicale era presente ieri a Ginevra dove si è tenuta la discussione sul processo di revisione periodica universale, cioè quella valutazione che le Nazioni Unite fanno sullo stato di recepimento e rispetto dei diritti umani nei vari Paesi. Il problema delle carceri era emerso con decisione durante la discussione e infatti, fa sapere Nessuno tocchi Caino, “paesi come Austria, Danimarca, Germania, Repubblica di Corea, Russia e Zambia avevano rivolto raccomandazioni all’Italia affinché il regime detentivo italiano sia migliorato e adeguato agli standard internazionali sui diritti umani, sia affrontato il problema del sovraffollamento e adottata una riforma che migliori le condizioni materiali, riduca la custodia cautelare ed aumenti il ricorso alle misure alternative, e sia assicurata la difesa legale agli stranieri. Ci si aspettava che ci fossero anche queste tra le raccomandazioni accolte dal nostro Paese, tanto più in un momento di rischio epidemia in carceri sovraffollate. Invece sono cadute nel vuoto”, dice Elisabetta Zamparutti, tesoriera dell’associazione ed ex componente il Comitato europeo prevenzione della tortura. Nel corso della discussione, Nessuno tocchi Caino ha sollevato il problema del recepimento della sentenza della Corte europea dei diritti umani nel caso Viola vs. Italia in materia di ergastolo ostativo. La Corte di Strasburgo aveva bocciato il divieto previsto dall’articolo 4bis del nostro ordinamento penitenziario di concedere la liberazione condizionale agli ergastolani ostativi che non collaborino con la giustizia, giudicandolo “inumano” e “degradante” e aveva riconosciuto questo come un problema strutturale. “Al Comitato diritti umani dell’Onu - ricorda Zamparutti - pende peraltro un ricorso collettivo di 252 ergastolani ostativi curato, per conto di Nessuno tocchi Caino, dall’avvocato Andrea Saccucci”. Una bomba virale a orologeria di Valentina Stella Left, 13 marzo 2020 Le carceri italiane sono sovraffollate da anni, ci sono anche nove detenuti in una cella, denuncia Rita Bernardini del Partito radicale: “Se il Covid-19 si diffondesse la situazione sarebbe insostenibile, per questo si sentono in grave pericolo”. In questa difficile situazione di emergenza che il nostro Paese si trova a dover fronteggiare a causa del Covid-19, c’è una fetta di popolazione che forse più di altre percepisce il pericolo: è quella degli oltre 60mila detenuti che in questo momento si trovano in carceri sovraffollate - anche 9 in una cella - e che nel momento in cui scriviamo hanno dato vita a numerose rivolte perché è stato impedito loro, per ragione di sicurezza sanitaria, di avere colloqui con i familiari. Nel carcere di Modena ne sono morti addirittura tre e due agenti penitenziari sono stati presi in ostaggio nell’istituto di Pavia. Ci saranno indagini e approfondimenti ma intanto c’è una doppia emergenza oltre le mura che ci dividono dai reclusi. Ne parliamo con Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino e membro del consiglio generale del Partito Radicale. Sei detenuti nel carcere di Modena sono morti. Mentre scriviamo non si conoscono le cause. Che giudizio dà di questo gravissimo episodio? Con tutta la popolazione penitenziaria - sia detenuti che personale - occorre parlarci e purtroppo questo non è stato fatto. I detenuti si sono trovati all’improvviso con misure molto restrittive e senza capirne il senso. Purtroppo negli ultimi tempi questa capacità di parlare con la popolazione detenuta è andata via via perdendosi. Mi auguro che in questa fase siano utilizzati i garanti e i direttori per parlare con i reclusi e spiegare esattamente le misure e come possano essere salvaguardati i diritti residui, visto che i colloqui non ci sono più. Pensando a queste rivolte non può non venirmi in mente il sacrificio della nonviolenza fatto da migliaia di detenuti durante gli Stati generali dell’esecuzione penale su sollecitazione di Marco Pannella: di questo patrimonio purtroppo non si è fatto tesoro. Le misure di contenimento della popolazione detenuta non sono state adottate. Adesso la popolazione è ancora in aumento: entrano gli arrestati ma non esce nessuno. In molti istituti di pena ci sono state rivolte. E degli agenti della penitenziaria presi in ostaggio. Queste azioni sono da condannare? Ovviamente siamo alla presenza di reati che vanno perseguiti. Ho cercato di diffondere questo messaggio: queste rivolte sono contro i detenuti, essi si auto-danneggiano perché sono le prime vittime. Se pensiamo a misure che potrebbero essere adottate in queste momento, come la detenzione domiciliare, i primi ad essere esclusi sono proprio i detenuti che hanno partecipato alle rivolte. E comunque la violenza è sempre da bandire. Ho consigliato persino ai familiari che stanno facendo manifestazioni davanti alle carceri di assumere condotte responsabili se davvero vogliono bene ai loro congiunti. Queste manifestazioni sono da scongiurare perché alimentano lo stato di paura. Dobbiamo essere tutti responsabili e limitare al massimo i contatti umani. Nel decreto legge si prevede che dal 9 marzo e sino al 22 marzo 2020, i colloqui con i congiunti o con altre persone cui hanno diritto i condannati, gli internati e gli imputati, sono svolti a distanza, mediante, ove possibile, apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria e minorile o mediante corrispondenza telefonica, che può essere autorizzata oltre i limiti della normativa vigente. Che giudizio dà? Non tutte le carceri sono attrezzate per utilizzare ad esempio Skype. Anche sulle telefonate, volendone aumentare il numero occorre fare chiarezza: non tutti gli istituti di pena sono attrezzati per consentirne molte. C’è una fascia di detenuti molto povera che non hanno a disposizione i mezzi: a loro bisognerebbe pagare le telefonate. E poi mi chiedo cosa succede per i detenuti in 41bis: per loro l’unico colloquio mensile è stato cancellato e sostituito dalla telefonata da fare dall’interno del carcere: i parenti potranno dunque entrare? Inoltre, si legge nel decreto, tenuto conto delle evidenze rappresentate dall’autorità sanitaria, la magistratura di sorveglianza può sospendere, nel periodo compreso tra la data di entrata in vigore del decreto ed il 31 maggio 2020, la concessione dei permessi premio e del regime di semilibertà… Io prevedrei invece la detenzione domiciliare. È chiaro che non possono entrare ed uscire dalle carceri continuamente ma sarebbe anche necessario che agli agenti fosse misurata la temperatura, perché potrebbero essere loro il veicolo del virus. L’emergenza sanitaria dunque può essere l’occasione per intraprendere quelle decisioni e quei provvedimenti che chiedete come Partito Radicale da tempo per carceri più umane? Amnistia e indulto sono provvedimenti necessari. Comunque qualcosa va fatto: sono tanti gli strumenti. Per esempio introdurre nuovamente la liberazione anticipata speciale che consentirebbe ai detenuti di usufruire di uno sconto di pena in questa situazione emergenziale. Dopo di che le misure alternative con provvedimenti di legge ad hoc. La detenzione domiciliare potrebbe essere data anche nei casi più difficili, dove potrebbero essere utilizzati i braccialetti elettronici… Qui c’è uno scandalo: i braccialetti non ci sono anche se con essi i magistrati di sorveglianza sarebbero più propensi a dare le misure alternative. Non ci sono nonostante Fastweb abbia vinto una gara da oltre un anno: né Salvini né Lamorgese hanno fatto il collaudo e il controllo a distanza. E non dimentichiamo che ci sono circa 16mila detenuti che hanno un residuo di pena sotto i due anni: a loro potrebbe essere concessa senza problema la misura alternativa al carcere. Lei è in contatto con molti detenuti. Ci può partecipare qualche racconto relativo alle paure di questi giorni? I timori provengono da tutta Italia, non solo dalle carceri sovraffollate. Ma soprattutto dal sud: la questione è stata amministrata meglio al centro Nord. Alcuni direttori mi hanno detto che mancano indicazioni precise sui colloqui, sulla sanificazione dei luoghi. Questo crea preoccupazione anche nei familiari. Fino a domenica non si sapeva neanche se potevano portare i pacchi: è possibile farlo. Questo per i detenuti è fondamentale. A me arrivano telefonate di persone che hanno congiunti malati in carcere anche gravemente. Sono tantissimi che si trovano soprattutto all’alta sicurezza e al 41bis, con carcere. malattie terminali molto gravi, con difese immunitarie basse. Ha mandato un WhatsApp al ministro Bonafede: “Caro Alfonso ricevo telefonate allarmate di familiari di detenuti e direttori di carceri... Facciamo qualcosa?”. Le ha risposto e se sì cosa? Non siamo riusciti a parlarci, l’ho invitato a Radio Radicale ma non è voluto intervenire direttamente. Alla fine ha parlato il capo del Dap, Francesco Basentini… Credo che le carceri siano state messe all’ultimo posto nei pensieri del governo. Invece sono luoghi “esplosivi”: se si diffonde, come ha detto anche Basentini, il virus nelle carceri, la questione diventa veramente preoccupante. Carcere, il Dap rompe il tabù: “I detenuti potranno utilizzare mail e Skype” di Eleonora Martini Il Manifesto, 13 marzo 2020 Quasi tutti nordafricani i detenuti morti con il mix di farmaci rubati durante le rivolte. Straniero il 64,9% dei reclusi a Modena, tossicodipendente il 35%, e il 55% con problemi psichici. È tornata la calma apparente, dopo le rivolte e le proteste scoppiate domenica a proseguite a singhiozzi e con modalità e intensità diverse in una cinquantina di istituti penitenziari italiani a causa delle restrizioni imposte per prevenire l’epidemia nelle celle. A parte qualche “battitura” e qualche recluso ad Avellino che si è rifiutato di rientrare in cella, mentre a Foggia si cercano ancora sei evasi latitanti, per il resto si cerca di tornare ad una normalità che di normale non ha nulla. Fortunatamente, nella tragedia che si è sfiorata - e consumata con 13 detenuti morti, in totale - è scaturita la prima azione positiva del Dipartimento di amministrazione penitenziaria: il nuovo Direttore generale Detenuti e trattamento, Giulio Romano, in carica dal 14 febbraio scorso, ha rotto un tabù comunicando ieri ai direttori degli istituti penitenziari il primo via libera all’uso della posta elettronica nella comunicazione tra detenuti e familiari, e anche all’uso di Skype per le lezioni scolastiche e universitarie in videoconferenza e per lo svolgimento degli esami e dei colloqui tra docenti e studenti reclusi. “Durerà per il solo periodo di emergenza Covid19, ma - commenta il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia - è la fine di un tabù: finalmente i detenuti entrano nel mondo digitale”. Una novità che sicuramente alleggerirà almeno in parte il senso di oppressione e morte che si può respirare dentro le celle in questi tempi bui. Ecco perché il tuttora capo del Dap Francesco Basentini ha avvertito con una circolare provveditori regionali, direttori e comandanti delle carceri: “Allo stato non è possibile escludere una ripresa delle agitazioni”. E ha raccomandato loro massima attenzione per prevenire altri disordini e “rendere impossibile che si verifichino ancora episodi di danneggiamento che possono compromettere le strutture dell’amministrazione”. Sui 13 morti - 9 a Modena, 3 a Rieti e uno a Bologna, non due come erroneamente comunicato dal Garante dei detenuti, tutti sembrerebbe per overdose di metadone e farmaci rubati dagli ambulatori durante le rivolte - è calato invece il silenzio delle istituzioni ma anche del mondo del volontariato carcerario, in attesa che a stabilire certezze sui decessi sia la magistratura. Eppure le ipotesi dal sapore complottistico si fanno largo nelle piazze virtuali. Ma non c’è alcun bisogno di immaginare altre violenze, dietro quelle morti che di per sé già mostrano tutta la violenza di un regime che non cura, non “rieduca”, non costruisce le condizioni per prevenire le recidive. Secondo Elia De Caro, responsabile Antigone dell’Emilia Romagna, le vittime di Modena e Bologna sarebbero tutti giovani nordafricani (secondo il Garante nazionale dei detenuti, solo una vittima è italiana e ben tre erano in attesa del primo grado di giudizio; il più giovane aveva 29 anni e il più adulto 42). Nella casa circondariale di Modena, dove ora sono rimasti 200 detenuti, nutriti con pasti che vengono da fuori perché non ci sono più cucine né servizi, prima della rivolta di domenica il 64,9% dei reclusi era straniero, il 35% tossicodipendente, il 55% in osservazione psichiatrica e non c’era un’”articolazione per la salute mentale”. Il Dirigente medico del Ser.D. di Bologna, Salvatore Giancane, non si stupisce che si tratti di detenuti nordafricani perché, dice, “generalmente sono poliassuntori di sostanze, quindi senza tolleranza agli oppiacei, quelli più a rischio di morte con il metadone”. L’effetto letale può avvenire “tra le 5 e le 12 ore dopo l’assunzione”. Potrebbe essere una spiegazione al fatto che quattro rivoltosi sono morti dopo il trasferimento in altri istituti. “Probabilmente quando sono stati caricati sui cellulari non presentavano sintomi preoccupanti, soprattutto se oltre agli agenti in quei momenti non erano presenti medici. Giunti a destinazione hanno iniziato a stare male, in qualche caso sono morti nel sonno (favorito dall’effetto del metadone stesso), in qualche caso (come ad Ascoli) se ne sono accorti. Dalla stampa locale risulta anche se ne siano accorti gli agenti che stavano trasferendo due detenuti a Trento, che proprio per questo si sono fermati a Verona”. “Il metadone in carcere - conclude il dott. Giancane - è stata una conquista di civiltà, non vorrei che da qui si progettassero passi indietro”. Piccola posta di Adriano Sofri Il Foglio Quotidiano, 13 marzo 2020 Nel minuzioso elenco di locali che devono restare chiusi per far fronte al contagio non ci sono le prigioni: naturalmente, le prigioni sono chiuse per definizione. Dentro, 63 mila persone aspettano l’ingresso del contagio, ammesso che non sia già avvenuto. Come stare sotto una diga colossale su cui si guardino precipitare le frane e spalancarsi le crepe. Come una Longarone avvisata della rovina, e impedita di evacuare la valle. Se succederà - temo che succeda, è logico prevedere che possa succedere, sarebbe una fortuna inspiegabile se non succedesse - le autorità competenti dovranno risponderne penalmente. Sarà difficile imputare qualche carcerato di tentata evasione, quando venisse il tempo di imputare i carcerieri per omicidio premeditato o strage. Parole troppo forti? Spero che sia così. In questi giorni mi sono ricordato - il mio corpo se n’è ricordato - di una sensazione peculiare di chi sta in galera: la consapevolezza che chiunque sappia dove lui, o lei, si trova in ogni momento della sua giornata. In che città, in che strada, in che carcere, in che cella. È uno dei modi più singolari e inquietanti di avvertire la privazione della libertà. Il cui primo significato è la libertà di movimento. Ora pressoché tutti, costretti a una reclusione domestica che è peraltro, per chi abbia casa e conviventi amati, un meraviglioso privilegio, pressoché tutti possono provare quella sensazione. Tutti sanno dove stanno tutti, stanno a casa loro: il panopticon universale. La tracciabilità cui già ci stavamo tristemente assuefacendo, pedinati da noi stessi, dai nostri telefoni intelligenti, è improvvisamente universale. Come se - provvisoriamente, si assicura, e per una causa di forza maggiore - tutti facessero esperienza della carcerazione. Ma i liberi che restano a casa lo fanno per difendersi dal contagio; i detenuti delle carceri non hanno un angolo in cui rifugiarsi per sventare il contagio che incombe. Qualcuno dei liberi ne ricaverà una ulteriore soddisfazione per la differenza fra lui e “i delinquenti”. Qualcun altro forse, al contrario, riuscirà a sentire un’affinità, l’insinuazione di una solidarietà da animali in trappola. “Carceri, no all’indulto”. Intervista al sottosegretario alla Giustizia, Ferraresi di Davide Manlio Ruffolo La Notizia, 13 marzo 2020 Indulto e amnistia non portano da nessuna parte, bisogna investire nel sistema penitenziario. Il sottosegretario alla Giustizia, Vittorio Ferraresi, non ha dubbi. Nelle carceri italiane ì detenuti sono in rivolta, protestano per le limitazioni ai colloqui con i familiari e per il timore di infettarsi; com’è adesso la situazione? “Al momento, dopo le proteste e le rivolte, la situazione è rientrata in praticamente tutti gli istituti ed è sotto controllo, grazie soprattutto alla Polizia penitenziaria e a tutti gli appartenenti dell’Amministrazione penitenziaria, alle forze dell’ordine e alla magistratura”. C’è chi sospetta che dietro le sommosse simultanee ci sia una regia comune, è un’ipotesi plausibile? “Diciamo che avere seimila detenuti che, quasi contemporaneamente e in tutta Italia, hanno dato luogo a proteste e rivolte violente, qualche dubbio lo crea. In più abbiamo visto associazioni sollecitare, incentivare e inneggiare alle rivolte quindi è un’ipotesi assolutamente plausibile. Per questo alcune situazioni sono sotto la lente della magistratura”. L’opposizione invoca misure drastiche, Salvini chiede “il pugno di ferro”: è la soluzione per placare gli animi? “Il pugno di ferro lo si doveva usare nelle assunzioni che in questi decenni sono venute meno per via dei mancati investimenti dei governi di cui la Lega ha fatto parte negli scorsi decenni. in questo momento è chiaro che deve essere mantenuta la fermezza rispetto a episodi violenti inaccettabili. Ci siamo mossi per garantire la salute dei detenuti e dei loro cari. In previsione della sospensione dei colloqui nei penitenziari, abbiamo permesso più telefonate e predisposto colloqui audio-visivi. Abbiamo fatto tutto il possibile per evitare i contagi e stiamo predisponendo tamponi per tenere la situazione sotto controllo. La gran parte dei detenuti ci sono venuti incontro, capendo il momento del Paese, altri evidentemente no, e hanno posto in essere violenze e atti criminali a cui lo Stato deve opporsi con fermezza “. C’è chi punta il dito contro il sovraffollamento carcerario; c’è un nesso di causalità con le recenti rivolte? “Si tratta di un problema atavico che deriva da decenni di incuria in termini di edilizia penitenziaria, di assunzione del personale e di politiche rieducative. Noi siamo intervenuti subito su questi tre punti, ma la situazione che ci siamo trovati davanti non è buona. Tuttavia non credo che queste rivolte siano dovute al solo problema del sovraffollamento”. Intanto detenuti e avvocati invocano indulti di massa per svuotare le carceri. Il ministro Bonafede ha risposto “no”, condivide la linea del Guardasigilli? “Certo che la condivido. Come abbiamo visto negli anni precedenti, indulto e amnistia non portano da nessuna parte. Bisogna migliorare le condizioni di vita all’interno degli istituti, avere più posti detentivi, potenziare la possibilità di lavorare all’interno e all’esterno dei penitenziari e assumere agenti di Polizia penitenziaria. Al momento abbiamo già finanziati e in parte assunto più di 2.500 agenti e presto ne arriveranno altri, oltre a più di 200 milioni di euro investiti per l’edilizia penitenziaria”. Ma c’è chi chiede le dimissioni del ministro e del capo del Dap... “In questo momento di emergenza, questi sono comportamenti da irresponsabili e da sciacalli. Non accettiamo che chi ha creato queste problematiche ora ci venga a puntare il dito contro. Ci aspettiamo responsabilità per un momento non facile per l’intero Paese dovuto all’emergenza del Coronavirus e a queste rivolte, ma che può essere superato se restiamo uniti”. Subito misure sul sovraffollamento delle carceri. Senza illudere con amnistia o indulto di Walter Verini huffingtonpost.it, 13 marzo 2020 Nell’incubo collettivo che stiamo vivendo, la situazione delle carceri - drammaticamente esplosa - continua a rimanere incandescente. E richiede interventi urgenti. Immediati: perché è giusto e per la sicurezza - intesa anche come tutela della salute - degli agenti di polizia penitenziaria e di chi lavora negli istituti di pena. Per quella delle persone detenute. E quindi per la sicurezza di tutta la collettività. Ma anche proprio per evitare che filiere di organizzazioni criminali possano spadroneggiare all’interno delle carceri, soffiando sul fuoco, “guidando” rivolte, come è possibile sia avvenuto. Occorre togliere loro il brodo di coltura nel quale rabbia, mancanza di dignità, disperazione, sovraffollamento sono la miccia perennemente accesa. È evidente, non da oggi, come l’attuale guida del Dap non abbia garantito come sarebbe stato necessario la tenuta del sistema. Che però, va detto, ha problemi strutturali, aggravati negli ultimi due anni. Cambiare la guida del Dap si può fare. Probabilmente sì dovrà. (E intanto magari si riempia subito la casella vacante del vicecapo). Ma brandire la richiesta di “teste” come fanno le forze della destra forcaiola senza mettere in discussione le cause strutturali è semplicemente ipocrisia. Da chi dirige il Dipartimento ci aspettiamo, innanzitutto, parole chiare su cosa sia successo. Sul perché la catena di comando non abbia funzionato. Se e quali sono state le sottovalutazioni e le responsabilità di queste. E parole di garanzia sulle misure per evitare il ripetersi di violenze, devastazioni, atti criminali, fughe ed evasioni. Abbiamo oggi la certezza che immagini allucinanti come quelle nel carcere di Foggia o in qualunque altro non si vedano più? E sarà giusto anche trarre le conseguenze ed adottare misure per restituire autorevolezza ed efficacia alla catena di comando. Il cui vertice è anche il riferimento delle donne e degli uomini della polizia penitenziaria, che ogni giorno lavorano in condizioni difficilissime. Occorrono al più presto misure contro il sovraffollamento. Subito. Anche per l’emergenza e la prevenzione sanitaria. Se ci fosse bisogno, Dio non voglia, di mettere in quarantena detenuti a tutela di se stessi, della popolazione carceraria, degli agenti di custodia, dove sarebbero gli spazi? Muoversi subito, dunque, per attuare al meglio i protocolli di sicurezza. Chi agita il tema di provvedimenti come amnistia e indulto (mi riferisco a chi lo fa in buona fede) a nostro parere sbaglia due volte. La prima, perché si creano illusioni, aspettative destinare a alimentare pericolosamente delusioni, frustrazioni, ulteriore rabbia. La seconda, perché i provvedimenti potrebbero ipoteticamente riguardare migliaia e migliaia di persone, tanta parte delle quali priva di relazioni, residenza, domicilio, occasioni di lavoro. Una bomba sociale, aggravata dal periodo di emergenza sanitaria che stiamo vivendo. Una bomba che, tra l’altro - per il solo essere maldestramente evocata - sta dando fiato in queste ore ai fautori del “buttiamo via la chiave”. Ma altri provvedimenti immediati si possono adottare. Li decida il ministro Bonafede, condividendoli con la cabina di regia operativa - della quale fa parte anche il Garante dei detenuti Palma - istituita accogliendo la proposta del Pd. Mentre si adottano misure nei confronti dei veri responsabili dei disordini e delle azioni criminali, si potrebbe consentire ai detenuti in semilibertà che escono per andare al lavoro di dormire al domicilio. Così come si potrebbe tenere conto della buona condotta e delle relative relazioni di Direttori e magistrati di sorveglianza per far scontare ai domiciliari gli ultimi mesi di coloro che sono nell’imminenza del fine pena. Si potrebbe intensificare subito l’utilizzo dei braccialetti elettronici. Sono ipotesi di lavoro da verificare e decidere. Insieme ad altre. Potrebbero allentare la tensione, liberare spazi oggi oltre il limite dell’umano. Dare risposte alla stragrande maggioranza della popolazione carceraria che non ha partecipato ai disordini e alle devastazioni. Sono stati giustamente sospesi i colloqui, ma è necessario garantire effettivamente (non solo con circolari burocratiche, ma con il dialogo, l’informazione) più telefonate, più collegamenti Skype. E insieme a questo, subito più agenti, più psicologi, più mediatori culturali. E magari si nominino direttori effettivi e a tempo pieno nelle decine di istituti in cui dirigono “a scavalco”. Ecco, dopo le rivolte, le morti, le devastazioni, nessuno deve dire “siamo tornati alla normalità” se normalità significa migliaia di persone in più della capienza, persone ammassate in pochi metri quadrati. Per questo ieri in Parlamento abbiamo letto un brano della “fotografia” cruda fattaci da Luigi Manconi in questi giorni. Oltre il dramma dell’emergenza sanitaria, il tema di una pena certa, ma tesa alla rieducazione e al reinserimento nella società va riproposto, rilanciato e attuato. Pene alternative per reati di non grave allarme sociale, messa alla prova, detenzione in carceri nelle quali si rispetti la dignità sono questioni non più eludibili. Investire in umanità non è solo un dovere costituzionale e di civiltà. Significa anche investire nella sicurezza di tutti: chi esce da una pena con un trattamento adeguato, con un diploma in mano, con un lavoro appreso, ha pagato il suo debito con la società e difficilmente torna a delinquere. Il Garante nazionale sulla privazione della libertà nei giorni del Covid-19 garantenazionaleprivatiliberta.it, 13 marzo 2020 Situazione carceri - Oggi è stata una giornata di calma relativa negli Istituti. Permangono, tuttavia, una serie di problemi legati ai disordini e alle violenze dei giorni scorsi. Il Garante sta approfondendo la situazione delle oltre 1500 persone trasferite o in corso di trasferimento a seguito dei disordini. Rispetto a un campione (di 65 persone) di criticità riscontrate a seguito degli eventi, su cui il Garante ha fatto uno specifico approfondimento, è emerso che in tredici casi è stata predisposta la visita in ospedale; due persone sono ricoverate e una è in rianimazione. Stiamo lavorando all’estensione del campione. Da un più accurato esame, il numero dei decessi collegati agli eventi è risultato di 13 (nella comunicazione di ieri era stato erroneamente inserito il caso di una persona ristretta a Bologna che invece abbiamo appurato essere stata ricoverata in rianimazione e successivamente essersi ripresa). L’identità delle tredici persone è terreno attuale di azione di indagine del Garante anche in considerazione del fatto che l’inserimento dei dati nell’Istituto di Modena si è fermata al momento degli incidenti; presumibilmente per il danneggiamento del sistema. Al momento abbiamo l’identificazione certa - da parte nostra, mentre siamo certi che le autorità inquirenti abbiano tutte le informazioni in proposito - soltanto di dieci persone: solo una è italiana e ben tre erano in attesa del primo grado di giudizio; il più giovane aveva 29 anni e il più adulto 42. Un quadro più completo sarà fornito domani. Ovviamente, come in casi simili, il Garante nazionale ha avviato l’interlocuzione con le Procure (di Modena, Rieti, Parma, Alessandria, Verona, Bologna) per avere informazioni circa l’apertura di indagine al fine di presentarsi come persona offesa ai sensi dell’articolo 90 c.p.p. In questo triste contesto, dobbiamo segnalare oggi un suicidio (il dodicesimo dall’inizio dell’anno) avvenuto nell’Istituto di Novara: ancora una volta si tratta di un giovane straniero, egiziano, senza fissa dimora. Sono molte le segnalazioni che stanno arrivando al Garante nazionale da parte di familiari che hanno difficoltà ad avere contatti con i propri congiunti a causa dell’interruzione dei colloqui e del non pieno funzionamento del sistema delle telefonate e delle video telefonate. Il Garante ha chiarito all’Amministrazione penitenziaria che la possibilità di video-telefonate, in quanto sostitutiva di colloqui visivi diretti, è naturalmente estesa a tutti le persone detenute indipendentemente dal livello di sicurezza del circuito di appartenenza (nel numero previsto per tale circuito). Tale previsione è ancor più importante ora che i movimenti lungo la penisola sono soggetti a forte limitazione. Certamente i colloqui che avvengono con separazione completa per vetro divisorio non hanno ragione di essere limitati su base di possibile contagio diretto. Il Garante nazionale ha predisposto uno schema di comunicazione con tutti i Garanti territoriali per la condivisione delle informazioni relative allo svolgersi degli eventi nei diversi Istituti penitenziari per adulti e per minori, per quanto attiene sia i provvedimenti adottati localmente dopo il decreto-legge dell’8 marzo, sia le malaugurate ipotesi di presenza di contagio. Continua il lavoro per la ricerca di possibili provvedimenti normativi e diffusione di buone prassi applicative delle norme esistenti, volti alla riduzione dell’incidenza dell’affollamento sulla difficile situazione attuale, in attesa di una nuova convocazione della cosiddetta “Task force”. Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) - il Garante nazionale ha avviato una interlocuzione con il Ministero dell’interno sulle persone trattenute nei Cpr il cui termine di trattenimento sia prossimo alla scadenza. A seguito dell’emergenza Covid-19, infatti, diversi Paesi hanno disposto il blocco dei voli da e per l’Italia, interrompendo quindi anche quelli di rimpatrio forzato. Pertanto, il Garante nazionale ha chiesto di valutare la necessità di una cessazione anticipata del trattenimento di coloro che, essendo in una situazione di impossibile effettivo rimpatrio, vedono configurarsi la propria posizione come “illecito trattenimento” ai sensi della stessa Direttiva rimpatri del 2008. Quarantena - Con nota del Sottocomitato per la prevenzione della tortura (Spt) delle Nazioni Unite, a firma del suo Presidente, Sir Malcom Evans, è stato confermato ai Meccanismi nazionali di prevenzione (Npm) dei Paesi che hanno ratificato il Protocollo opzionale alla Convenzione Onu contro tortura e trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti (Opcat), e quindi per l’Italia al Garante nazionale, che la quarantena forzata su base sanitaria ricade nell’ambito del mandato loro istituzionalmente affidato. Ovviamente il Sottocomitato invita a valutare le modalità di visite e monitoraggi in strutture a ciò destinate, al fine di non interrompere la quarantena stessa e di non porre così in pericolo la complessiva sicurezza sanitaria. Precisa comunque che tale monitoraggio dovrà essere condotto e che ragioni di sanità collettiva non possono ridurre i diritti fondamentali delle persone poste in tale situazione, né gli obblighi degli Organi di controllo. Residenze sanitarie per anziani (Rsa) - Viste le limitazioni previste alla lettera q) del Dpcm dell’8 marzo 2020, che prevede che “l’accesso di parenti e visitatori a strutture di ospitalità e lungo degenza, residenze sanitarie assistite (Rsa), hospice, strutture riabilitative e strutture residenziali per anziani autosufficienti e non, è limitato ai soli casi indicati dalla direzione sanitaria della struttura che è tenuta ad adottare le misure necessarie e prevenire le possibili trasmissioni di infezione”, il Garante nazionale, pur ritenendo le restrizioni opportune al fine di prevenire la diffusione della pandemia, manifesta la propria preoccupazione in merito alle ripercussioni che tali limitazioni possono avere all’interno delle strutture per persone con disabilità e anziane, se non opportunamente monitorate e controllate. La situazione espone, infatti, a elevato stress sia gli ospiti che gli operatori. Questo comporta un incremento del rischio di comportamenti conflittuali, di maltrattamento o di abuso degli strumenti di contenzione. Il Garante nazionale sta studiando collaborazioni e modalità di vigilanza di comportamenti inaccettabili di questo tipo. Il Garante ha comunque richiamato l’attenzione nel merito di coloro che operano nel settore socio-sanitario e socio-assistenziale, raccomandando a tutte le Direzioni delle strutture e alle Autorità regionali di controllo di vigilare sulle strutture con massima attenzione, data la drastica riduzione del controllo informale esercitato dalla comunità esterna conseguente alle restrizioni all’accesso. L’ispettore dei cappellani: la violenza è un errore, tornate sui vostri passi di Massimo Filipponi gnewsonline.it, 13 marzo 2020 “Avete certamente portato all’attenzione della Nazione le vostre difficoltà, le vostre sofferenze, ma lo avete esternato in una modalità sbagliata”. Queste le parole di don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri, che si è rivolto a tutti i detenuti attraverso una lettera aperta. “Ora è il momento di ritornare in voi stessi, placando la rabbia e facendo prevalere il dialogo e la responsabilità comune - aggiunge don Grimaldi -. In questo momento di grande smarrimento per il nostro Paese, la sofferenza che tutti stiamo vivendo ci invita a una grande responsabilità per poter affrontare insieme questo tempo di paura e di angoscia”. In un altro passaggio della lettera l’ispettore generale dei cappellani delle carceri osserva: “Proprio davanti alle continue manifestazioni di violenza avvenute in diverse carceri italiane, mi sono chiesto come fosse possibile che una violenza così incontrollata sia esplosa, con rabbia, tra le mura delle carceri. Sicuramente alla base ci sono le valide ragioni delle richieste che da tempo non vengono ascoltate e alle quali non si è data pronta risposta. Sappiamo tutti che le lentezze burocratiche uccidono la speranza”. “Nelle carceri ci sono tantissime persone che lavorano per voi, per il vostro bene, che aiutano ad affrontare quotidianamente il vostro disagio - spiega don Grimaldi. Loro sono i vostri compagni di viaggio e tra questi vi sono i cappellani e tutto il mondo del volontariato che ogni giorno vi incontra e profonde ogni sua energia con amore per donarvi la carezza di Dio Padre che non giudica, ma guarisce e perdona”. “Molti di voi non sono stati, in questa occasione, strumento di Pace e di mitezza, ma si sono lasciati travolgere da una spirale di violenza senza precedenti; hanno distrutto e mandato in macerie i sacrifici di molti, tradendo la fiducia di coloro che vi accompagnano nel reinserimento futuro. Con violenza incontrollata sono stati distrutti l’ambiente e i luoghi di lavoro o di aggregazione - rileva ancora il capo dei cappellani-. Con la violenza non si va molto lontano”. “Oggi, in molte carceri, ci sono i resti di macerie che hanno creato una voragine di sfiducia e aumentato nelle persone, fuori e dentro le mura, la diffidenza verso di voi - dice ancora -. Alcuni vostri compagni hanno trovato la morte mentre, anche tra gli agenti di polizia penitenziaria, si sono registrati diversi feriti. In questo momento, come sacerdote e a nome dei vostri cappellani, vorrei dirvi con forza e con passione: “Ritornate sui vostri passi! Siate uomini e donne responsabili, attendete le risposte con pazienza. Superate questo momento di delusione e di sconforto per tutti con un gesto di vera riconciliazione, offrendo la vostra volontà, la vostra disponibilità anche a riparare ciò che avete distrutto”. “Al Governo - conclude l’ispettore dei cappellani - chiedo di spalancare lo sguardo di Misericordia affinché possa ascoltare il vostro grido di dolore e possa darvi risposte equilibrate, per superare pacificamente la crisi e l’emergenza che tutti stiamo vivendo”. Il carcere insostenibile di Francesca Vianello rivistailmulino.it, 13 marzo 2020 Di fronte alle condizioni in cui versa ormai da tempo il sistema penitenziario, afflitto da rinnovate condizioni di sovraffollamento, carenza di operatori e di risorse dedicati, inottemperanza alle principali direttive sulla tutela dei diritti, non è difficile comprendere le proteste di questi giorni. Sia quelle dei detenuti rinchiusi nelle sezioni abbandonate, dopo la chiusura delle attività, l’espulsione dei volontari e l’interruzione dei colloqui con le famiglie, sia quelle degli operatori esasperati e impotenti di fronte a una situazione diventata insostenibile. La recente esplosione di veri e propri episodi di violenza non può che drammatizzare le posizioni di entrambe le parti: far uscire dal carcere più detenuti possibile, per chi auspica un indulto o un’amnistia; chiudere tutti dentro alle celle, revocando semilibertà e lavoro all’esterno, per chi rivendica il pugno forte. Stiamo parlando di un sistema abbandonato dalla politica - trascorso l’entusiasmo degli Stati generali sull’esecuzione della pena e l’illusione di una riforma - che dopo un lungo periodo di relativa deflazione ha visto nuovamente aumentare la popolazione detenuta fino a superare la capienza disponibile. È quindi comprensibile che con l’occasione drammatica dell’attuale emergenza sanitaria si susseguano appelli e rivendicazioni da diverse parti: da chi, da osservatore attento delle condizioni di detenzione come le Camere penali, i Giuristi democratici o noti esponenti dei Radicali italiani, denuncia lo stato di abbandono del sistema penitenziario e chiede misure immediate di deflazione, a chi denuncia le condizioni di lavoro e di sicurezza in cui si trovano gli operatori, come le organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria. I dati ci restituiscono un sistema disastrato e abbandonato a sé stesso: un terzo della popolazione detenuta nel nostro Paese si trova in custodia cautelare, in una situazione di attesa, dentro istituti circondariali particolarmente sovraffollati e deteriorati, in condizioni di promiscuità assoluta, senza attività e senza lavoro. Più di ottomila persone condannate hanno una pena residua di meno di un anno; altre ottomila tra uno e due anni; altre seimila tra due e tre anni: complessivamente, più della metà dei 41 mila detenuti con almeno una condanna definitiva deve scontare una pena o un residuo pena di non più di tre anni. Sono tutte persone che potrebbero legittimamente avere accesso a misure alternative alla detenzione, all’affidamento in prova al servizio sociale, alla detenzione domiciliare o alla semilibertà (oggi estendibili fino ai quattro anni di pena) oppure a una nuova estensione della libertà speciale anticipata; persone che fra qualche tempo usciranno comunque e che potrebbero essere più proficuamente accompagnate all’esterno attraverso le misure che la legge già mette a disposizione. Non c’è dubbio che il sistema sconta diversi problemi: una legislazione penale carcerocentrica, un allarme sociale cavalcato politicamente, un tessuto sociale del tutto impreparato ad accogliere. Probabilmente questo è il momento meno opportuno per far breccia nell’opinione pubblica, già spaventata, arrabbiata, e nervosa per l’epidemia in corso. Ma almeno sulla situazione sanitaria dovrebbe essere facile convergere: l’emergenza, assieme al Paese tutto, affligge anche questo carcere, popolato da donne e uomini che vivono a stretto contatto e in situazione promiscua, in condizioni personali e di salute vulnerabili e con un accesso limitato ai servizi medici. Sullo sfondo delle rivendicazioni umanitarie e di quelle politiche, come non riconoscere l’impellenza della prevenzione, della riduzione del rischio di contagio, della messa in sicurezza immediata? Aspettando condizioni più favorevoli, va riconosciuto che le proposte di Antigone per fronteggiare l’emergenza legata al diffondersi del Coronavirus costituiscono il minimo indispensabile: affidamento in prova e detenzione domiciliare estese senza limiti di pena a tutti coloro che hanno problemi sanitari tali da rischiare aggravamenti a causa del virus; detenzione domiciliare per tutti coloro che già fruiscono della semilibertà. La prima proposta fa valere un principio minimo di salvaguardia della salute in una condizione in cui il sistema non è in grado di tutelare gli elementi più fragili e vulnerabili della popolazione detenuta (contenendo peraltro il rischio di successive e legittime richieste di risarcimento da parte di chi vedesse aggravarsi la propria situazione in virtù dell’inapplicabilità, in carcere, delle disposizioni ministeriali). La seconda conterrebbe il rischio di contagio legato all’andirivieni di chi trascorre la propria giornata fuori e rientra la sera per dormire in carcere, oltre a ridurre le presenze rendendo disponibili le sezioni attualmente riservate ai semiliberi. Il potenziamento degli strumenti di comunicazione con le famiglie e l’estensione dei tempi delle telefonate non sono secondari, andando a contenere la preoccupazione per i propri cari e la sensazione di isolamento e abbandono, che non possono che inasprire gli animi e condurre alla disperazione. Le notizie di cronaca sono significative in questo senso: secondo la maggior parte dei testimoni (funzionari, volontari, familiari) esplosioni di rabbia e di violenza appaiono legate alla condizione di estremo sovraffollamento (diecimila detenuti in più rispetto alla capienza prevista), allo stato di tossicodipendenza (quasi un terzo della popolazione detenuta ne soffre, per lo più giovane, straniera), alla sensazione di isolamento e perdita totale del controllo sulla situazione. Ricordiamo che il carcere non è abitato solo dai detenuti: migliaia di poliziotti penitenziari e centinaia di funzionari giuridico pedagogici continuano ad entrare ogni giorno, in condizioni insalubri, senza adeguati dispositivi di prevenzione, in una tensione crescente e ardua da gestire. Quando sarà superata l’emergenza sanitaria sarà necessario ritornare più forte di prima a chiedere l’attenzione della politica e un atteggiamento razionale da parte dell’opinione pubblica, che oggi è spaventata, arrabbiata, verosimilmente assai poco disponibile all’ascolto. Riprenderemo in mano i dati, quelle ventimila persone all’interno dei nostri istituti con pene o residui pena inferiori ai tre anni, e ricorderemo che queste persone, piaccia o meno, presto usciranno. Che senso può avere la chiusura che finora si è registrata nei loro confronti? Non sarebbe meglio lavorare nel progressivo e responsabile accompagnamento di queste persone all’esterno, invece che condurle a fine pena alla porta del carcere con il vestito che hanno addosso e un biglietto dell’autobus in mano, abbandonate a se stesse o, nel migliore dei casi, alle proprie famiglie? C’è chi sostiene che sia la pena finalizzata al reinserimento sociale ad esigerlo, qualcun altro è spinto da motivazioni religiose che fanno appello al perdono e alla clemenza, altri sono spinti da valutazioni economiche (che senso ha tutto questo investimento di risorse nel carcere chiuso per chi rientrerà presto in società?), ma è soprattutto chi è interessato alla propria sicurezza che dovrebbe rifletterci. A fronte di tassi di recidiva che si attestano in Italia attorno al 70%, le ricerche ci dicono che la fruizione delle misure alternative garantisce ovunque tassi decisamente inferiori (intorno al 20%). Tredici morti e un gran silenzio: come nelle dittature sudamericane di Piero Sansonetti Il Dubbio, 13 marzo 2020 Tredici morti nelle prigioni italiane. La cifra è incerta, forse sono di più. I nomi fino a ieri nemmeno li conoscevamo. Sono passati quattro giorni dalla strage. Ieri, sembra, i nomi sono stati consegnati al garante dei detenuti. Il quale, probabilmente, si costituirà parte civile, se ci saranno dei processi. Pare che esista una relazione del Dap ma non si sa chi la possiede. La stampa non ha avuto neanche l’ombra di una notizia. Per la verità non l’ha neanche pretesa. Neppure il Parlamento ha ricevuto informazioni. Neppure il Parlamento, sembra, le ha pretese. Tredici persone sconosciute sono sparite e ora giacciono al camposanto. Tredici morti sono una quantità spaventosa. Succedeva negli anni Settanta, quando c’erano le grandi stragi: Piazza Fontana, Brescia, l’Italicus. In quelle occasioni era tutto il Paese a sollevarsi, a gridare, a entrare in lutto, a pretendere (seppure inutilmente) la verità. Questa volta i tredici morti erano tutti in carcere. Nelle mani dello Stato. Consegnati alla custodia dello Stato. Possibile che una strage così non susciti un moto formidabile di indignazione e una richiesta assillante di chiarimenti? Mi ricordo che una ventina d’anni fa ero a Genova nelle giornate terribili del G8. Fu ucciso un ragazzo di poco più di vent’anni. Abbattuto da un colpo di pistola sparato da un carabiniere. Successe il pandemonio, giustamente, anche in Parlamento. Naturalmente ci si divise. Una parte dello schieramento politico difese la polizia e il ministro dell’Interno e gettò tutta la colpa sui dimostranti, e anche sul ragazzo - si chiamava Carlo Giuliani - che aveva attaccato una camionetta dei carabinieri. Un’altra parte, e tutta la stampa internazionale, si scagliarono contro il governo, il Pds, che era allora il partito dell’opposizione di sinistra, parlò di “macelleria messicana”. Ci si divise, ma non si restò in silenzio. Si scatenò una furiosa battaglia politica. L’altro giorno, in Parlamento, nessuna battaglia. Frasi fatte. Nessuna spiegazione, nessuna protesta dell’opposizione. Nessuna autocritica del governo. Sembrano tutti concordi sul fatto che le morti siano avvenute per l’effetto dell’assalto alle farmacie, e quindi mettiamoci una pietra sopra, come si faceva in alcuni paesi latinoamericani al tempo delle dittature (e in parte si fa ancora). Dicono: erano drogati, erano gentaglia in astinenza perché - interrotte le visite delle famiglie - si era interrotto il flusso illegale di droga nelle celle. Sono tutti morti di overdose. Praticamente suicidi. Non so se è così. Non so se è così per tutti e tredici. In ogni caso vorrei capire alcune cose, che magari hanno anche una spiegazione, ma occorrerebbe che questa spiegazione fosse fornita al pubblico. Intanto vorrei sapere come mai se questi detenuti erano in overdose e in agonia si è deciso di trasferirli. Alcuni di loro risulta che siano morti durante il trasferimento. Qualcuno addirittura dopo il trasferimento. Si trasferisce un moribondo? Non è meglio portarlo in ospedale? Seconda domanda. È vero che le tredici vittime della rivolta sono tutte straniere? È questa la ragione del silenzio? È ormai definito e pacifico che comunque la vita di uno straniero non ha lo stesso valore, né umano né giuridico né mediatico, della vita di un italiano? Terza domanda. Se davvero, come in realtà è abbastanza probabile, le infermerie erano l’obiettivo della rivolta, almeno in alcuni di questi carceri, e se il motivo dell’assalto era procurarsi metadone da parte di prigionieri tossicodipendenti, oso chiedere: ma qui in Italia è considerata cosa normale, trovandosi di fronte a una persona evidentemente e pesantemente tossicodipendente, sbatterla in una cella anziché in una struttura adatta, in grado di aiutarla, di curarla? E questo comportamento - se effettivamente è così - è considerato compatibile con l’articolo 27 della Costituzione? Poi ci sono le domande più generali che riguardano la politica carceraria di questi ultimi governi. Bisogna dire che il passaggio dal “verde” al “rosso” non ha cambiato molto. La linea resta la stessa, a dispetto del fatto che le truppe “rosse” di Zingaretti hanno sostituito quelle “verdi” di Salvini. Sembra quasi una maledizione: ormai su tutto ciò che riguarda la repressione la cloche è in mano esclusivamente ai 5 Stelle. Le domande generali riguardano la costituzionalità del carcere, almeno del carcere come funziona adesso. E in particolare il problema del sovraffollamento, che rende del tutto illegali le nostre prigioni. Non volete l’indulto, perché temete di perdere qualche voto? Ho capito. Almeno prendete in considerazione le proposte ragionevolissime che abbiamo avanzato ieri, insieme alle Camere Penali, e che potrebbero portare in pochi giorni alla liberazione di circa 20 mila detenuti, e alla attenuazione del fenomeno ormai dilagante delle celle-carnaio. Carceri, le rivolte in una situazione già esplosiva di Luigi Fadalti* Il Gazzettino, 13 marzo 2020 Il Decreto Legge n. 9, entrato in vigore il due marzo scorso, all’art. 10, co. XIV stabilisce che “sino alla data del 31 marzo 2020 i colloqui con i congiunti o con altre persone cui hanno diritto i condannati, gli internati e gli imputati sono svolti a distanza, mediante, ove possibile, apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria e minorile o mediante corrispondenza telefonica”. Ne è seguita una rivolta violenta in almeno 27 istituti penitenziari, anche per la comprensibile preoccupazione che in un ambiente ristretto possa diffondersi in modo incontrollato l’epidemia da coronavirus. Le reazioni della politica sono state puramente e semplicemente isteriche e, soprattutto, non hanno considerato che la situazione nelle carceri è esplosiva da almeno 20 anni. Pertanto, senza invocare gli storici principi affermati da Voltaire e da Beccaria, autori, peraltro, sconosciuti ai più, è necessario approcciarsi al tema con un’esatta conoscenza dei dati. Al 29 febbraio 2020 i detenuti in Italia sono 61.230 a fronte di una capienza di 50.931: restando vicino a noi, a titolo di esempio, a Treviso sono 205 laddove dovrebbero essercene 141; a Venezia, 275 quanto invece dovrebbero essere 159; a Padova Nuovo Complesso 593 invece di 438; sempre a Padova Casa Circondariale 215 in luogo di 171; a Vicenza 405 al posto di 286; a Verona 511 su una previsione di 335. Dai dati del rapporto Space, che fotografa la situazione del sistema penitenziario negli Stati membri del Consiglio d’Europa, al 31.01.2018 risulta che in Italia, per ogni 100 posti disponibili, nelle carceri ci sono 115 detenuti e che tra il 2016 e il 2018 la popolazione carceraria italiana è aumentata del 7,5%. Inoltre, in Italia i detenuti in attesa di un primo giudizio o di una sentenza definitiva sono il 34,5% contro una media europea del 22,4%: i condannati per reati legati alla droga sono il 31,1% rispetto ad una media europea del 16,8% (e si veda perché e di cosa sono morti 12 detenuti). A ciò si aggiunge una grave carenza di personale di polizia e degli altri ruoli dell’amministrazione penitenziaria. La polizia penitenziaria, nel 2016, ha subito un taglio lineare del proprio organico da 45.000 a 41.000 unità: inoltre il personale effettivamente in servizio è inferiore di 5.000 uomini anche rispetto al nuovo organico previsto (36.000 su 41.000). Lo stesso dicasi per il personale dei ruoli psico-pedagogici, dei ruoli amministrativi e di tutti gli altri profili dell’amministrazione penitenziaria: a tacere, poi, del personale medico e paramedico. Negli istituti c’è in media un educatore ogni 80 detenuti e un agente di polizia penitenziaria ogni 1,8 detenuti, ma in alcune realtà si arriva a 3,8 detenuti per ogni agente (Reggio Calabria) o a 206 detenuti per ogni educatore (Taranto). Si suicidano i detenuti, ma anche il personale che lavora in carcere: solo negli ultimi tempi si sono suicidati cinque poliziotti e un dirigente penitenziario. Al 31 dicembre 2019 risultano detenute 986 persone con un’età superiore ai 70 anni; al 30 giugno 2019 vi sono 6.216 detenuti con una pena residua da espiare non superiore a tre anni e 7253 con una pena residua non superiore a cinque anni. Tutti i dati citati provengono da fonti del Ministero della Giustizia. La conclusione è abbastanza semplice: invece di parlare di amnistia e indulto (che richiedono un iter parlamentare lungo e maggioranze qualificate) sarebbe sufficiente intervenire con un Decreto Legge sul vigente Ordinamento Penitenziario prevedendo, a titolo di esempio, che gli ultrasettantenni e coloro i quali hanno un residuo da espiare non superiore a quattro anni siano posti, senza alcuna valutazione discrezionale e quindi in modo automatico, previo il solo accertamento della disponibilità di un luogo idoneo ad accoglierli, alla detenzione domiciliare. Tutto ciò eccettuando, come ovvio, i soli responsabili di reati particolarmente gravi. Con questa semplice e veloce misura si alleggerirebbe la popolazione penitenziaria di almeno 7.000 unità. L’approccio politico, invece, è stato sinora all’insegna degli slogan. Va osservato, però, che ove vi è stato un intervento ispirato alla ragionevolezza, come ha fatto il magistrato di sorveglianza di Padova, lo schiamazzo è divenuto un dialogo. Non si cede alla minaccia approcciando razionalmente un problema reale: semmai si opera tardivamente, ma efficacemente. *Avvocato Benefici penitenziari, la stretta passa i filtri della Consulta di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 marzo 2020 Corte costituzionale - Sentenze 50 e 52 del 2020. La Corte costituzionale torna a pronunciarsi sulla legittimità dei presupposti per l’accesso ai benefici penitenziari. E lo fa con due sentenze, depositate ieri e scritte entrambe da Nicolò Zanon, che riprendono, dopo la pronuncia del dicembre scorso sull’ergastolo ostativo, il tema dei reati inseriti nella lista dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario e della sua forza preclusiva rispetto alle alternative alla detenzione. Con la prima sentenza, la 50, la Corte, chiamata in causa dalla Cassazione, ha considerato infondate le questioni di legittimità poste sulla inapplicabilità della detenzione domiciliare ai condannati per rapina aggravata. A non convincere la Corte c’era la presunzione assoluta dell’inadeguatezza della detenzione domiciliare come strumento per il trattamento del condannato e la prevenzione di nuovi reati, presunzione a sua volta collegata a una valutazione di marcata pericolosità del soggetto che ha commesso uno dei reati elencati nell’articolo 4 bis. La Consulta però osserva che il soggetto al quale è impedito l’accesso alla detenzione domiciliare sconta un presupposto negativo “rafforzato” e cioè il fatto di non trovarsi neppure nelle condizioni utili per essere affidato in prova ai servizi sociali. Una situazione, quest’ultima, che non dipende dall’entità delle soglie di pena “ma necessariamente consegue (come nel caso di specie) alla valutazione giudiziale, effettuata in concreto, che ha concluso per l’impossibilità di contenere il rischio della commissione di nuovi reati, anche ricorrendo alle puntuali e tipiche prescrizioni della misura dell’affidamento”. In definitiva, il soggetto interessato dalla preclusione oggetto delle censure della Cassazione non è solo l’autore di un determinato reato ma, in ciascun caso concreto, è persona dalla pericolosità che non può essere contenuta attraverso i presìdi tipici dell’affidamento in prova. Con la sentenza 52, invece, la Corte considera infondata la questione posta sulla legittimità dell’inserimento nell’elenco dei reati ostativi dell’articolo 4 anche del sequestro di persona accompagnato però dall’attenuante della lieve entità del fatto. La Consulta ricorda come la previsione di attenuanti, anche diverse da quelle della lievità del fatto, permette di adeguare la pena al caso concreto, ma non riguarda necessariamente l’oggettiva pericolosità del comportamento descritto dalla fattispecie astratta. In ogni caso, anche la concessione dell’attenuante è rilevante per la determinazione della pena proporzionata al caso concreto, mentre, nella logica del 4 bis, non risulta invece idonea a incidere, da sola, sulla coerenza della scelta legislativa di ricollegare al sequestro con finalità estorsive un trattamento più rigoroso in fase di esecuzione, indipendentemente dalla pena inflitta. Del resto, gli elementi che giustificano il riconoscimento dell’attenuante (natura, specie, mezzi, modalità o circostanze dell’azione, oppure particolare tenuità del danno o del pericolo) non sono necessariamente in contraddizione, osserva la sentenza, con l’adesione o la partecipazione del condannato a pericolose organizzazioni criminali. I docenti in servizio presso le carceri hanno diritto ad una indennità di Laura Biarella orizzontescuola.it, 13 marzo 2020 Secondo la Corte di Cassazione (Ordinanza 10 marzo 2020, n. 6751), i docenti di ruolo dipendenti del Miur, che prestano il proprio servizio presso le scuole istituite all’interno del carcere, hanno diritto alla indennità prevista dalla Legge n. 65 del 1983, nella misura scandita dall’articolo 2, e non anche a quella prevista dall’articolo 1, riservata al personale dipendente dal Ministero della Giustizia. La vicenda - La Corte d’Appello aveva riformato la sentenza del Tribunale e, per l’effetto, rigettato la domanda proposta da alcuni docenti di ruolo del MIUR in servizio nelle scuole istituite presso gli istituti di detenzione e di pena, per il pagamento, nei limiti della prescrizione quinquennale, della indennità di servizio penitenziario, prevista dall’art. 1 della L. n. 65/1983. Premesso che i docenti percepivano la indennità penitenziaria (nella misura prevista dall’art. 2 della L. n. 65), il giudice d’appello osservava che l’art. 1 si riferiva al “personale civile di ruolo e non di ruolo degli istituti di prevenzione e di pena del Ministero di Grazia e Giustizia” e non anche al personale dipendente da altre amministrazioni. La specificazione dei destinatari era ribadita dalla tabella indicativa degli importi della indennità. I docenti hanno adito la Corte di Cassazione, che tuttavia ha respinto le doglianze. L’indennità dell’art. 2 è riservata ai dipendenti del Ministero Giustizia - Secondo i docenti, essi stessi sarebbero stati beneficiari della indennità di cui all’articolo 2 della L. n. 65/1983, identificandosi in dipendenti che prestano servizio presso gli uffici del Dipartimento della amministrazione penitenziaria (Dap) dislocati al di fuori degli Istituti penitenziari, mentre i soggetti che operano all’interno degli Istituti di Prevenzione e di pena sarebbero destinatari della indennità di cui all’articolo 1, essendo esposti al rischio permanente che giustifica tale indennità. La Cassazione è di diverso avviso, osservando che il riferimento dell’art. 1, comma I, della L. n. 65/1983 al “personale civile di ruolo e non di ruolo degli istituti di prevenzione e di pena del Ministero di grazia e giustizia” presuppone la dipendenza dal Ministero della giustizia e non da altra Amministrazione dello Stato, come nella specie, dal Miur. La legge n. 65/1983, all’art. 2, disciplina, invece, in maniera autonoma, l’indennità per gli agenti di custodia, gli appartenenti al personale civile dell’amministrazione giudiziaria del Ministero della Giustizia e per “il personale delle altre amministrazioni dello Stato che prestino servizio presso gli uffici ed istituti centrali e periferici dell’Amministrazione penitenziaria”. Per l’effetto tale legge circoscrive la platea dei destinatari della indennità di cui all’articolo 1 ai dipendenti del Ministero della Giustizia che prestano servizio negli Istituti di prevenzione e di pena, al contempo prevedendo una diversa indennità per il personale delle altre amministrazioni dello Stato. Il mancato adeguamento dell’importo - Inoltre, sempre secondo gli stessi docenti, l’art. 2 della L. n. 65/1983 non prevede alcun meccanismo di adeguamento degli importi economici, della relativa indennità, al mutato potere d’acquisto della moneta, mentre la indennità di cui all’articolo 1 era stata aggiornata più volte (ad esempio tramite la legge 16 ottobre 1991 n. 321) e meccanismi di adeguamento periodico erano previsti per altre indennità, ad esempio le indennità corrisposte ai docenti in servizio all’estero. La Cassazione non condivide la tesi esposta dai docenti, rilevando che la posizione dei dipendenti civili di ruolo e non di ruolo dell’amministrazione penitenziaria non è equiparabile, in ragione del diverso status giuridico, con quella degli insegnanti che prestano la propria opera d’insegnamento all’interno degli istituti di prevenzione e pena, dipendenti dal Miur, precisando, infine, che la peculiarità dello svolgimento della docenza all’interno di un luogo di detenzione è stata valutata con il riconoscimento di una particolare indennità, che non viene attribuita agli altri insegnanti. Droghe “leggere”: la detenzione di 35 grammi non può giustificare l’arresto di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 13 marzo 2020 Non scatta l’arresto con la detenzione di 35 grammi di sostanze stupefacenti cosiddette “leggere”. Il possesso, dunque, di quantità ridotte di marijuana e hashish (25 e 10 grammi) non comporta come conseguenza il carcere. Lo precisa la Cassazione con la sentenza n. 9733/2020. La tesi della Procura - La contestazione del Sostituto procuratore di Brindisi deduce l’erronea applicazione degli articoli 391, comma 4, e 381, comma 4, del Cpp, evidenziando a differenza di quanto ritenuto dal Gip, che l’arresto doveva essere ritenuto legittimo, avendo la polizia giudiziaria ragionevolmente considerato la pluralità delle sostanze detenute dall’imputato e il possesso da parte di questi degli strumenti normalmente utilizzati per il confezionamento dello stupefacente, da ciò desumendosi che il soggetto fosse un detentore non episodico di droghe. I Supremi giudici, invece, hanno ritenuto che già il Gip avesse verificato la configurabilità dei requisiti della gravità del fatto e della pericolosità dell’arrestato, escludendoli entrambi in quanto l’imputato era incensurato dedito a un’onesta attività lavorativa, avendo egli peraltro spontaneamente consegnato la non eccessiva droga in suo possesso. La conclusione della Cassazione - In applicazione a tale interpretazione deve ritenersi che l’apparato argomentativo con cui è stata esclusa la sussistenza della gravità del fatto e della pericolosità dell’indagato non presenta vizi di legittimità, “avendo il gip operato una disamina non irrazionale delle risultanze investigative delineate nel verbale di arresto, esaurendosi le doglianze articolate nel ricorso in una differente valutazione sull’esistenza dei requisiti di legittimità dell’arresto, che sottende considerazioni di merito non suscettibili di trovare ingresso in Cassazione”. Abruzzo. “Nelle carceri mancano sapone e mascherine” Il Centro, 13 marzo 2020 La segnalazione dell’associazione “Voci di dentro” che fa il punto in Abruzzo dove la protesta è civile. Nelle carceri abruzzesi mancano saponi e prodotti per l’igiene. L’appello arriva dall’associazione “Voci di dentro”, che invita “ad adottare misure idonee per prevenire il contagio da Covid-19. In attesa di azioni di buon senso, quali indulto, ricorso alla 199 e domiciliari per anziani e malati, richieste ormai condivise da molti contro il rischio di contagi all’interno delle carceri”, evidenzia “Voci di dentro”, “è opportuno far notare come, nella casa circondariale di Chieti, che conta oltre 150 detenuti in una struttura che ne può contenere solo 79, il dialogo tra detenuti e direzione sta dando i primi frutti. A tutti sono stati concessi 10 minuti di telefonate al giorno e, per le persone più anziane e malate, almeno una decina, è stata fatta richiesta alla magistratura per un provvedimento di invio ai domiciliari. Al momento, per un detenuto che ormai era in scadenza termini è stata autorizzata la detenzione domiciliare; per gli altri la direzione è in attesa della decisione della magistratura”. L’associazione informa come “da parte dei detenuti sia ancora in corso lo sciopero della fame e la battitura notturna delle inferriate dalle 20 alle 21 e dalle 22 alle 22,30. Una protesta pacifica preceduta da un momento di silenzio per le vittime, finalizzata ad ottenere misure alternative per tutti i detenuti sotto i termini di legge, la chiusura delle sintesi comportamentali, l’utilizzo di skype e telefonate quotidiane ai familiari per sopperire alla sospensione dei colloqui - richiesta quest’ultima già ottenuta - fornitura di acqua potabile, chiusura ad agenti e addetti ai lavori interni al penitenziario per tutta la durata dello stop ai colloqui e, in subordine, l’accesso ai familiari alle stesse condizioni degli agenti penitenziari (con mascherina e controlli medici), nessuna ritorsione per chi partecipa allo sciopero”. “Stiamo seguendo quotidianamente la situazione a Chieti e nel carcere di Pescara”, afferma ancora l’associazione Voci di dentro, “e ribadiamo la contrarietà ai trasferimenti di detenuti da un carcere all’altro, oltre a ribadire la necessità di una liberazione anticipata retroattiva, del blocco dei nuovi ingressi per reati minori, pregressi e cumuli di pena, dell’indulto per tutti i detenuti con pene inferiori ai tre anni e la liberazione da nove carceri italiane di 59 bambini e di 54 mamme”. “Nel carcere di Chieti”, conclude l’associazione, “mancano i prodotti per l’igiene, invitiamo, pertanto, enti, associazioni e aziende del comune a portare direttamente in carcere, saponi, detersivi e disinfettanti, specificando in portineria la dicitura offerta con Voci di dentro per i detenuti di Chieti”. Prevenire il contagio all’interno del carcere, oltre che aiutare chi si trova detenuto significa evitare casi di coronavirus dentro le celle. Roma. Missione: salvare i detenuti, i primi cinquanta vanno a casa di Sergio D’Elia* Il Riformista, 13 marzo 2020 La direttrice della Terza Casa Circondariale di Rebibbia, Annamaria Trapazzo, ha letto i fascicoli di tutti e ha fatto sì che chi è in regime di semilibertà possa stare a casa per quindici giorni rinnovabili. In attesa di un decreto, queste iniziative sono fondamentali. Mentre il governo si mostra incapace di decidere come porre seriamente e tempestivamente rimedio al rischio di contagio e alla sofferenza nell’unico luogo in Italia dove non deve valere la misura cautelare di “rarefazione sociale” essendo al contrario tollerato - contro le più elementari leggi della fisica e dei diritti umani - un sovraffollamento del centoventi per cento rispetto alla sua capacità di carico, come al solito, tocca a chi opera sul campo supplire alle mancanze della politica e dell’amministrazione. Annamaria Trapazzo dirige da un anno la Terza Casa Circondariale di Rebibbia, circa 80 detenuti, di cui una cinquantina ai-rimessi alla semilibertà o al lavoro esterno. I detenuti raccontano che alle sette di mattina è già al lavoro perché non ama affidare nulla al caso e non vuole farsi cogliere alla sprovvista né dalle avversità né dalle opportunità offerte dal caso. Il suo obiettivo è sgombrare il più presto possibile un settore del carcere da adibire alla quarantena nella malaugurata evenienza di un contagio. La sua missione è alleggerire il peso della detenzione sulla vita dei detenuti e il peso dei detenuti sulla struttura di detenzione. La sua formazione giuridica la porta a mantenere l’equilibrio tra due principi fondamentali: il diritto alla salute e il diritto alla libertà. Il decreto del Presidente del Consiglio dell’8 marzo, in cui si raccomanda di “valutare la possibilità di misure alternative di detenzione domiciliare”, non era ancora stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale quando lei aveva già iniziato a elaborare il suo progetto, a un tempo, di prevenzione e liberazione: adottare una variazione del programma di trattamento dei detenuti in semilibertà ‘in modo da evitare l’uscita e il rientro dalle carceri”, come è scritto nel decreto. È andata al Tribunale di Sorveglianza per concertarlo col Presidente. È già tanto che non l’abbiano presa per pazza, perché il regime di semilibertà non prevede il pernottamento fuori dal carcere. Venerdì scorso i detenuti l’hanno vista all’opera sui loro fascicoli, sabato e domenica ha “precettato” il personale competente per studiarli e suddividerli: da una parte i detenuti che possono uscire per scontare presso il proprio domicilio una pena, anche residua, inferiore a due anni; dall’altra quelli da eventualmente scarcerare con l’affidamento in prova al servizio sociale o con la liberazione condizionale. Per esporre e condividere il piano di decarcerizzazione, lunedì a mezzanotte ha convocato i detenuti che ammettono: “La vediamo sempre in sezione, la sua presenza fisica e il suo sostegno sono per noi importanti, soprattutto in situazioni difficili come queste, in cui abbiamo la sensazione che nessuno si prenda cura di noi”. Annamaria Trapazzo vuole mostrare che invece lo Stato è presente, che sta lavorando per loro. Il dialogo coi detenuti è una sua pratica costante, la chiave di volta per evitare disagi, proteste o violenze, perché il bisogno esistenziale prioritario di un detenuto è quello di essere riconosciuto, ascoltato e sostenuto. Per questo i detenuti hanno deciso di collaborare, di affidarsi a lei e attendere con pazienza, convinti che stava puntando al loro stesso obiettivo. Così, mercoledì pomeriggio, per nulla imprevisti, sono arrivati i primi provvedimenti dei magistrati di sorveglianza: in attesa di decisioni, provvedimenti e tempi migliori, tutti i detenuti semiliberi sono andati a casa per 15 giorni con possibile rinnovo della licenza. In una sezione di 50 persone sono rimasti solo in quattro, detenuti ammessi al lavoro esterno che per legge non possono usufruire di licenze, ma anche per questi la direttrice è già all’opera. Li ho sentiti alcuni di quelli mandati a casa, felici della licenza e fieri della loro Direttrice, delle tre educataci, del Garante e dei magistrati di sorveglianza che con lei hanno collaborato. Dal timido spiraglio fatto intravedere dal decreto, la direttrice della Terza Casa ha aperto un varco più grande che indica una via possibile per tutti i direttori e i magistrati di sorveglianza italiani. Alcuni, come la Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, Giovanna Di Rosa, stanno studiando le misure per alleviare il carico intollerabile del sovraffollamento carcerario. Altri, come Fabio Gianfilippi, magistrato di sorveglianza a Spoleto, di fronte al blocco degli spostamenti in tutta Italia imposto dal governo per il pericolo di contagio, hanno scelto una linea di apertura di credito nell’opera di reinserimento che i detenuti potranno vantare in futuro: la liberazione anticipata è accordata anche a chi non è in prossimità del fine pena; i permessi premio, il lavoro esterno e la semilibertà possono essere concessi a chi li merita già oggi, anche se diventeranno esecutivi alla fine dell’emergenza. Sembra poco, ma per un detenuto è il segno di un’attenzione alla sua persona, il riconoscimento della sua esistenza, la percezione che lo Stato non li ha abbandonati, che l’ordinamento penitenziario non è stato del tutto sospeso. La licenza di stare a casa per 15 giorni concessa a tutti i semiliberi della Terza Casa di Rebibbia non è la soluzione strutturale di “rarefazione sociale” che solo l’amnistia e l’indulto offrirebbero al problema del sovrannumero di fascicoli nei tribunali e di esseri umani nelle carceri. Perché il meglio non sia nemico del bene, come Nessuno tocchi Caino, con Rita Bernardini ed Elisabetta Zampartini abbiamo proposto anche una moratoria dell’esecuzione penale, sia degli ordini di esecuzione pena che dell’esecuzione della pena stessa, volta a ridurre drasticamente i numeri della popolazione carceraria. La storia delle cinquanta licenze concesse a Rebibbia è solo una boccata d’aria per detenuti e operatori della Terza Casa, ma racconta di un’aria diversa che è un’epopea di civiltà, umanità e ragionevolezza al cospetto della furia cieca delle Erinni giustizialiste, sorde all’ascolto e mute di parola, che popolano la nostra società e agitano il nostro tempo con il loro cupo mormorio che accusa, maledice, incute timore e invoca vendetta. Comunque, vale anche per loro il nostro dire “Nessuno tocchi Caino” e “Spes contra Spem”, rivolto allo Stato, al Potere che cede, degrada alla aberrante, violenta logica per la quale, nel nome di Abele, diventa esso stesso Caino, uno Stato-Caino da convertire dal male al bene, dalla violenza alla nonviolenza, dagli stati di emergenza in cui a emergere è lo Stato, agli stati di emergenza in cui a emergere è la coscienza e lo Stato di Diritto. *Segretario Nessuno tocchi Caino Modena. Uno dei detenuti morti nella rivolta sarebbe uscito fra due settimane di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 marzo 2020 Si tratta di un tunisino di 35 anni che non risulterebbe in carico al Sert. Sono nove i morti del carcere emiliano. Parlano di overdose, la verità la dirà l’autopsia. Nove morti, ancora senza nome e la maggior parte tunisini e moldavi. Parliamo dei detenuti che erano ristretti nel carcere di Modena, teatro di una grande rivolta che ha portato all’inagibilità di alcune sezioni. L’ipotesi più plausibile è quella della morte per overdose, a causa dell’assalto al metadone razziato in infermeria. Ma, almeno finora, ancora non si conoscono i risultati delle autopsie. Quello che si è potuto finora accertare è che sono cinque i reclusi ritrovati già morti sul posto. Ma gli altri? Erano ancora vivi, tanto da essere stati trasferiti - assieme agli altri detenuti - in alcune carceri italiane distanti anche oltre un centinaio di chilometri. Il dramma è che erano giunti in condizioni già critiche. Alcuni ad esempio sono stati portati nel carcere di Alessandria a quasi due ore di viaggio dal penitenziario di Modena. Il carcere lombardo si è ritrovato a dover soccorrere tre detenuti che stavano già malissimo per overdose. Due sono riusciti in extremis a salvarli, mente uno di loro purtroppo non ce l’ha fatta. Un altro è invece morto al carcere di Parma, a quasi un’ora di distanza da Modena, dopo essere stato portato in rianimazione. Era un giovane moldavo, classe 1988. Un altro ancora di quarant’anni è, invece, morto al carcere di Ascoli Piceno, dopo aver affrontato un viaggio di quasi cinque ore. Un altro ancora è morto mentre era ancora sul pullman del trasferimento, davanti al carcere di Verona. Quasi un’ora e mezza di viaggio. C’è da dire che la direttrice del carcere di Modena ha assicurato che - prima di essere trasferiti - tutti i detenuti sono stati visitati presso il presidio sanitario allestito nel piazzale. Ma a quanto pare, purtroppo, non è stato sufficiente. I sintomi caratteristici dell’overdose da metadone sono spasmi muscolari, spasmi gastro-intestinali, cianosi, rallentamento del battito cardiaco, forte calo della pressione sanguigna, senso di disorientamento. Se non presi subito in tempo, si rischia la morte. Come detto, anche se i risultati dell’autopsia ancora non si conoscono, quasi tutti i detenuti del carcere di Modena risultano morti per overdose o comunque intossicazione da farmaci. Tra i cinque morti rinvenuti già morti al carcere modenese, Il Dubbio è a conoscenza del caso di uno di loro. Si tratta di un tunisino nato nell’84 che stava scontando poco più di due anni di carcere per piccolo spaccio. Una pena che poteva essere scontata attraverso una misura alternativa, purtroppo, come accade spesso soprattutto per gli stranieri, non avendo un vero e proprio domicilio, non ha avuto la possibilità di potervi accedere. Non risulta, almeno per il momento, che il ragazzo fosse in carico dal Sert, perché si sarebbe dichiarato non tossicodipendente. Saranno comunque i risultati dell’autopsia scioglieranno ogni dubbio. I suoi genitori vivono in Tunisia e ancora attendono la verità, ma soprattutto le spoglie del loro figlio per poterlo piangere. La storia lascia anche una grande amarezza. Se non fosse morto, il ragazzo avrebbe finito di scontare la pena tra due settimane. Napoli. Muore detenuto di Poggioreale, l’appello della famiglia: “Verità sul decesso di Luigi” di Antonio Sabbatino internapoli.it, 13 marzo 2020 Detenuto nel carcere di Poggioreale muore in ospedale dopo alcuni giorni di agonia a seguito di un malore, la sorella denuncia: “Ci hanno comunicato tutto con notevole ritardo e non sappiamo cosa sia successo né quali sia la causa del decesso. Per questo, vogliamo sapere la verità”. Protagonista suo malgrado della vicenda è Luigi Pesce, 54 anni, detenuto dallo scorso giugno al Padiglione Salerno del Giuseppe Salvia a seguito di una condanna a 5 anni e 6 mesi per detenzione di stupefacenti e un tentativo di corruzione agli agenti che l’avevano bloccato. Contattata da InterNapoli.it Cristina Pesce, la sorella di Luigi, originario del Borgo di Sant’Antonio Abate, ha tanti dubbi e vuole vederci chiaro sulla fine di suo fratello. “Sappiamo poco o nulla su quello che è accaduto a Luigi ed ora, oltre al dolore della sua morte, abbiamo l’angoscia dovuta ad una certa mancanza di spiegazioni dettagliate”. Cos’è che non torna alla famiglia, perché dice di essere all’oscuro di tanti particolari? A riassumere le cose, fornendo la sua versione dei fatti, è la stessa Cristina Pesce. “Abbiamo soltanto appreso che nella mattinata di mercoledì della scorsa settimana Luigi è stato portato all’ospedale Cardarelli a seguito di un malore (forse una embolia o un ictus ndr) e si è reso necessario il ricovero. Però sapete quando ci è stato riferito dell’accaduto? Soltanto la sera, dopo diverse ore, quando le forze dell’ordine sono venute da me a casa”. Luigi Pesce è poi morto nelle prime ore del mattino di sabato per l’aggravarsi delle sue condizioni. “Il giovedì, il venerdì e il sabato, giorno della morte, sia io che mia figlia, la nipote di Luigi, ci siamo recate al Cardarelli per sapere come stesse mio fratello ma in tutto questo tempo non siamo riusciti a vederlo neppure una volta” continua Cristina. Ma non è tutto perché anche in questo caso la notizia del decesso di Luigi Pesce sarebbe arrivata in ritardo ai congiunti stando a quanto dice Cristina. “Anche in questo caso non ci hanno avvisato subito e quando l’hanno fatto non è che le incertezze siano svanite, tutt’altro e quindi ribadisco la richiesta: cosa è successo? Luigi come è morto?”. Il 54enne nei giorni antecedenti alla morte sarebbe stato sottoposto agli esami per attestare una eventuale infezione da Coronavirus (che ha interessato anche alcuni medici del Cardarelli). “Ma l’esito è stato negativo e quindi mio fratello non è morto per quello. Lui soffriva di epilessia e ai bronchi però non se ciò sia riconducibile alle cause della morte”, risponde Cristina. Una precisazione, visto il particolare momento e la delicatezza della vicenda: la storia si sarebbe sviluppata interamente nei giorni precedenti la rivolta che ha visto protagonisti, soprattutto da domenica scorsa in poi, migliaia di detenuti in diverse carceri italiane compresi quelli del Giuseppe Salvia di Poggioreale e dunque una possibile spiegazione della mancata comunicazione alla famiglia di Luigi Pesce come conseguenza del caos delle rivolte andrebbe almeno per il momento esclusa. Sul corpo di Luigi Pesce è stata disposta l’autopsia il cui esito sarà, come spesso accade, determinate per conoscere la verità. “L’attendiamo con trepidazione, in questo modo contiamo di fugare ogni dubbio. Avremmo voluto anche far effettuare un’autopsia di parte ma le risorse per chiamare un medico non ci sono. Resta l’amarezza per questa mancanza di comunicazione” aggiunge Cristina che con la famiglia ha nominato come proprio legale l’avvocato Raffaele Imparato. Bologna. Rivolta alla Dozza: “Situazione è al limite, chiudere la sezione giudiziaria bolognatoday.it, 13 marzo 2020 Comunicato congiunto dei sindacati della polizia penitenziaria: tutte le sigle chiedono misure urgenti. Muri bruciati, finestre rotte. “Così non si può andare avanti”. Sono categorici i sindacati della polizia penitenziaria, che in una lettera a firma congiunta di tutte le sigle Sappe, Uil-Pa, Sinappe, Fns Cisl, Fsa cnpp, Fp Cgil, chiedono a gran voce la chiusura del reparto che nei giorni scorsi ha dato il via alla rivolta, costata la morte di un detenuto, e il ferimento di altri carcerati e agenti. “Oggi, più che mai, non è possibile poter continuare a far operare, in quella struttura” chiosano i penitenziari, nella missiva inviata al prefetto, al sindaco e alle autorità carcerarie. Dentro la sezione giudiziaria - ove sono reclusi gli imputati in attesa di giudizio e i condannati a pene brevi “è stato incendiato di tutto, saccheggiato ambulatori sanitari dove gli stessi ristretti si sono impossessati di siringhe, attrezzature mediche atti ad offendere (Bisturi, forbici…) ed una grandissima quantità di medicinali e psicofarmaci”. Venendo ai detenuti la situazione è descritta come fortemente esplosiva: “Allo stato attuale i detenuti nel reparto giudiziario sono chiusi H24, non hanno telefoni per poter effettuare colloqui telefonici con le proprie famiglie, non ci sono ambulatori medici”. Inoltre, “gli agenti, che sono le vere vittime di questa rivolta, sono costretti a lavorare in ambienti insalubri ed all’aperto senza suppellettili e senza strumentazioni. Tutto ciò, e ne siamo certi, contribuirà ad aumentare seriamente i rischi di nuovi disordini e di aggressioni al personale”. Per tali ragioni, i sindacati della polizia penitenziaria chiedono “con urgenza, l’immediata chiusura del Reparto Giudiziario al fine di intervenire per mettere in sicurezza l’Istituto, informandovi sin da ora che, per tutto quello che accadrà nei prossimi giorni, ne sarete i diretti responsabili”. Milano. Rivolta nelle carceri, un viaggio tra droga, dipendenza e disperazione di Francesco Floris affaritaliani.it, 13 marzo 2020 Cella Casa circondariale di San Vittore sono stati registrati due casi di overdose mentre una rivolta a Opera sarebbe stata sedata sul nascere. Le versioni ufficiali fornite dall’amministrazione penitenziaria vertono tutte su un punto. Le rivolte a cascata in tutta Italia (Milano, Roma, Siracusa, Rieti, Foggia, Aversa, Prato, Melfi, Alessandria, Bologna, Reggio Emilia, Modena, Napoli, Salerno, Palermo, Santa Maria Capua Vetere, Frosinone, Cassino, Lecce, Bari, Vercelli, con 12 morti e decine fra evasi e catturati in seguito) sono state motivate dalla necessità di molti detenuti di approvvigionarsi di metadone, assaltando le infermerie e le farmacie interne. C’è anche chi ha voluto malignamente leggere in questa necessità una connessione con la sospensione dei colloqui con familiari o altre persone che condannati, imputati e internati hanno diritto ad avere a causa del coronavirus. Sospensione che avrebbe portato a una “carenza” di sostanze negli istituti. A Milano nella casa circondariale di San Vittore sono stati registrati due casi di overdose mentre una rivolta a Opera sarebbe stata sedata sul nascere. Le foto scattate mostrano sul tetto di San Vittore detenuti stranieri mentre trattano con vigili del fuoco, agenti penitenziari e il procuratore aggiunto di Milano Alberto Nobili. Ma quali sono i numeri della dipendenza dietro le sbarre e in particolare nella casa circondariale del centro città? Le statistiche elaborate dall’ufficio innovazione del Tribunale di Milano, su dati della cancelleria, e che si riferiscono alla sezione “Direttissime” che ogni mattina al piano terra del Palazzo di Giustizia nelle aule A1-A2-A3 si occupa degli arresti in flagranza, parlano nel 2018 di 2.251 procedimenti che si sono conclusi con una misura cautelare detentiva in attesa di processo per 2.786 persone (a volte sono presenti più persone per un fascicolo, come nel caso di un furto con “palo”). I reati contestati sono sempre la stessa manciata di illeciti estratti dal codice penale: art. 337, resistenza a pubblico ufficiale; 385, evasione (dai domiciliari); 582, lesioni personali, il 5 per cento dei fascicoli; un 30 per cento è fatto dagli articoli 624 e 625, furto e furto aggravato; 628, rapina. E infine c’è la galassia dei reati connessi alla droga: è l’articolo 73 del Testo unico stupefacenti che punisce chi coltiva, trasforma, trasporta o spaccia droghe. Da solo l’articolo 73 ha costituito il 35,6 per cento del lavoro che magistrati, avvocati, poliziotti e operatori dei servizi sociali hanno dedicato ai nuovi procedimenti chiusi con misura detentiva. In totale 803 fascicoli, dove in un terzo dei casi la persona a processo ha fra i 20 e i 25 anni. E di questi 618, il 76,9 per cento, con indagati stranieri. Numeri crudi che non raccontato però tutta la realtà. L’esperienza e le storie alla sezione “Direttissime” mostrano plasticamente un altro fatto: chi spaccia, ma anche chi commette piccoli furti, rapine, aggressioni in strada, in molti casi lo fa per procacciarsi a sua volta il denaro con cui comprarsi le dosi e alimentare la propria dipendenza. Per questo a Milano è attivo dal 1995 il Sert Tribunale che si affianca ai Sert di San Vittore, Bollate e Opera e ai progetti di recupero interno al carcere come “La Nave” (San Vittore) e “La Vela” (Opera). È il primo presidio in Italia dedicato alle dipendenze dentro a un Palazzo di Giustizia. A cui sono seguiti quelli di Padova, Roma, Catania, Reggio Calabria (chiusi per mancanza di fondi dopo la sperimentazione) e Genova. È nato all’epoca dalle intuizioni dell’allora Direttore del servizio dipendenze della Asl di Milano, lo psicoterapeuta Dario Foà, con la collaborazione dell’avvocato Vito Malcangi, della giudice Nicoletta Gandus e dell’ex magistrato di sorveglianza Francesco Maisto che oggi è il Garante cittadino dei detenuti. Il Sert Tribunale ogni anno intercetta circa 600 tossicodipendenti o consumatori che sono finiti nei guai con la giustizia. Qui si prova a mettere in pratica quanto previsto dal Testo unico stupefacenti, il Dpr 309/90, vera e propria Bibbia per operatori, psicologi, assistenti sociali del settore. Gli articoli 89, 90 e 94 di quella legge prevedono alternative terapeutiche alla carcerazione, per persone con problemi di dipendenza appena arrestate o condannate. Così quando al mattino gli operatori scendono nelle celle di sicurezza e incontrano arrestati che ammettono di far uso di droghe (un’eventualità meno frequente di quanto ci si aspetti, anche per persone visibilmente in stato di alterazione), parte una filiera: chiamata alla famiglia, telefonata al servizio territoriale e infine breve relazione redatta per il magistrato. Di quei 600 tossicomani, intercettati una forbice fra i 200 e i 250 ottengono i domiciliari e frequentano il Sert della zona in cui vivono. Chi è più escluso da questo meccanismo sono proprio gli indagati o i condannati stranieri: nel primo caso perché raramente possono indicare un domicilio o una residenza stabile dove essere messi ai domiciliari e seguire un programma terapeutico. Nel caso dei condannati che vengono seguiti dall’Ufficio esecuzione penale esterna che supervisiona la vita di oltre 8 mila detenuti in regione (circa 2.500 su capoluogo e hinterland) perché i posti in comunità terapeutica sono limitati e le strutture accreditate mediamente destinano il 30 per cento degli spazi a chi arriva dal tribunale e dall’area penale per evitare di trasformarsi in succursali del carcere. Anche qui la fotografia è solo sfocata: le domande rivolte dagli operatori in Tribunale a chi si trova nelle celle di sicurezza non sono uguali alle dichiarazioni fornite in fase di matricolazione all’ingresso in un istituto penitenziario. Che a loro volta sono diversi dai questionari interni al carcere o dai dati sulle dipendenze raccolti da personale che in alcune regioni è qualificato, in altre è solo personale sanitario standard “prestato” al mondo penitenziario. Come del resto non esiste solo un grado zero della dipendenza (il non consumatore) e un grado 100 (il tossicodipendente) ma decine di sfumature, come nel caso di chi fa uso saltuario di cocaina e magari in un’occasione commette uno o più reati in stato di alterazione. Le overdose verificatesi in questi giorni sono un ulteriore punto interrogativo: l’esperienza dei Sert insegna che il tossicodipendente abituale, seppur in astinenza, conosce i dosaggi talvolta meglio dei medici. Il consumatore saltuario no. A San Vittore la rivolta è partita dal terzo e quinto raggio, secondo la ricostruzione di Business Insider presente sul luogo, ma alla devastazione non è scampata “La Nave”, unanimemente riconosciuto fra i migliori reparti milanesi e d’Italia e resta da capire se gli “interni” abbiano contribuito ai fatti. La dipendenza in carcere è uno dei problemi più pregnanti dell’intera amministrazione giudiziaria, penitenziaria e dai servizi sociali e sanitari. Che va di pari passo con il diritto alla cura dietro le sbarre, sia dalle dipendenze che da altre patologie, ulteriore fattore che ha spinto le sommosse di questi giorni nella convinzione di essere stati abbandonati dallo Stato di fronte al rischio Coronavirus. Il 3 e 4 ottobre 2019, alla Asst Santi Paolo e Carlo, azienda sanitaria che gestisce metà dei Sert cittadini e tutta la sanità penitenziaria con un budget annuale di 50 milioni di euro, si è tenuto il congresso nazionale della Società Italiana di Sanità Penitenziaria (Simspe) con ospiti come il vice capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap), Lina Di Domenico, e la Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, Giovanna Di Rosa. “C’è da chiarire un equivoco ideologico prima di qualunque ragionamento - ha detto in apertura il Garante dei detenuti Francesco Maisto -. C’è chi pensa che in carcere si debba essere curati meglio che all’esterno, proprio per le privazioni già presenti. Chi dice che i trattamenti devono essere identici in termini di efficacia rispetto alle persone libere. E chi invece è convinto che l’aver commesso reati ed essere stati privati della libertà personale non sia abbastanza e che l’assenza o la carenza di cure siano come delle pene accessorie ulteriore, meritate”. “Noi magistrati di sorveglianza siamo obbligati a scarcerare per permettere alle persone di curarsi e se devo scegliere continuerò a farlo” ha detto Giovanna Di Rosa in un confronto faccia a faccia con gli operatori di sanità penitenziaria. Sanità penitenziaria che, secondo le parole del Direttore Generale dell’Asst, Matteo Stocco, vive carenze di personale drammatiche, con concorsi che vanno deserti e che dovrebbe essere incentivata con contratti di lavoro migliorativi. In queste ore la Presidente del Tribunale di Sorveglianza ha parlato di “intese con i Sert per potenziare gli affidamenti terapeutici e per potenziare le misure alternative anche con un tavolo che si è costituito con le direzioni degli istituti, il Provveditorato regionale e Regione Lombardia” per “liberare” le carceri “il più possibile”. Ma anche qui ci sono contraddizioni: i Sert sono presidi di cura che pur avendo funzioni di controllo sociale, peraltro crescenti negli anni a detta degli stessi addetti ai lavori, non possono essere intesi o sostituirsi alla detenzione. Foggia. Dopo la rivolta trasferiti da 107 detenuti di Luca Pernice Corriere del Mezzogiorno, 13 marzo 2020 Il provvedimento dopo l’evasione di massa dei giorni scorsi. Sono ancora sei i ricercati. Sono stati 107 i detenuti del carcere di Foggia che, ieri, sono stati trasferiti ad altri istituti di pena della penisola. Tra quelli trasferiti anche alcuni detenuti che si sono resi protagonisti della protesta di lunedì scorso che ha causato l’evasione di 72 persone. Sono ancora sei i latitanti sui quali si sta concentrando l’attenzione della procura e delle forze di polizia con controlli e perquisizioni anche in altre regioni. Tra questi Cristoforo Aghilar il 36enne che ad ottobre scorso ad Orta Nova ha ucciso la madre della ex fidanzata; Francesco Scirpoli ritenuto vicino alla criminalità organizzata del Gargano e il barese Ivan Caldarola il figlio di Lorenzo, ritenuto il numero due clan degli Strisciuglio, e di Monica Laera la donna che, il 9 febbraio del 2018, ha colpito con un pugno in faccia l’inviata del Tg1 Mariagrazia Mazzola. Gli altri tre ricercati sono un sanseverese, un macedone ed un cerignolano. Prima del trasferimento gli investigatori avevano eseguito perquisizioni in tutti i locali del carcere foggiano trovando droga e telefoni cellulari: stessi telefonini forse utilizzati dai detenuti per filmare l’inizio della protesta all’interno delle loro celle. Il trasferimento dei detenuti è avvenuto con l’impiego di 250 agenti di polizia penitenziaria e con un cordone, all’esterno del carcere, di 150 uomini della polizia di Stato, carabinieri e guardia di finanza. “Una volta finita l’emergenza del coronavirus - spiega Federico Pilagatti, il segretario nazionale del Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria - bisogna interrogarsi sul perché in un carcere come Foggia, i detenuti decidono di mettere a ferro e fuoco ogni cosa ed evadere in massa, come se fosse un gioco e la cosa più facile del mondo. Da tempo il sindacato chiedeva anche l’avvicendamento del responsabile della sicurezza del carcere di Foggia, poiché le avvisaglie di una situazione sfuggita di mano erano chiare come il sole, e con la sicurezza praticamente inesistente tanto che il ritrovamento di telefonini e droga in quantità erano continui”. Monza. Il patto dei detenuti: “In questo carcere non ci saranno rivolte” di Rosella Redaelli Corriere della Sera, 13 marzo 2020 Prendono le distanze dalla violenza, la rivolta, i disordini scoppiati nei giorni scorsi in diverse carceri italiane, da Modena a Foggia, da Milano a Palermo. I 660 detenuti della Casa Circondariale di Monza lo hanno messo nero su bianco, sottoscrivendo all’unanimità una lettera in cui si impegnano “ad evitare in ogni modo proteste e sommosse”. “E una lettera di impegno che invierò al Ministero - spiega la direttrice Maria Pitaniello. I detenuti scrivono le loro paure, il disagio di non poter vedere i famigliari, chiedono che si prendano in esame misure alternative, ma si sono dissociati da quello che hanno visto accadere in altri istituti”. Una presa di posizione importante, un gesto di responsabilità che la direttrice vede come il risultato di un grande lavoro di dialogo in atto da sempre, ma ancora di più in questi giorni di emergenza: “E stato importante organizzare un incontro con il magistrato di sorveglianza e con la direttrice sanitaria, l’infettivologa Libera Maria Vaira - spiega la direttrice. A quel punto, tutti hanno capito che le misure prese, soprattutto l’impossibilità di incontrare i propri famigliari, sono necessarie per la tutela della salute di chiunque: dei detenuti, ma anche della polizia penitenziaria, del personale amministrativo”. La direttrice non nasconde le difficoltà di gestire un carcere pensato per 400 detenuti che attualmente ne ospita 660: “Siamo in affanno, come qualsiasi istituto di pena italiano, ma non ci facciamo travolgere. È normale aver paura di ciò che non si conosce ed è normale che i detenuti si sentano impotenti davanti a questa situazione. Abbiamo per questo trovato soluzioni alternative alle visite dei parenti come le videochiamate via Skype. Fino ad un mese fa, avevamo solo una quindicina di richieste, in pochi giorni ne sono arrivate quaranta e stiamo predisponendo una nuova postazione. Inoltre abbiamo dato più possibilità di telefonare a casa con la scheda telefonica ampliando gli orari dalle 9 di mattina alle 9 di sera e sono riuscita ad attivare lo smart working per un detenuto in regime di semi libertà”. In un momento in cui il lavoro esterno e le tante attività promosse dal carcere con le associazioni del territorio vengono meno, un aiuto importante arriva invece dalla scuola del carcere il cui dirigente, Claudio Meneghini, ha deciso di trovare strade nuove per la didattica a distanza non potendo usufruire del web. “Da tre settimane - spiega Giovanna Canzi, docente di italiano e coordinatrice di plesso - non possiamo entrare in carcere ed incontrare i nostri alunni, ma abbiamo deciso di far sentire comunque loro la nostra vicinanza. Prepariamo e stampiamo il materiale didattico, ma anche racconti e poesie da consegnare in portineria perché sia recapitato ai singoli alunni”. La coordinatrice ha lanciato anche un appello a scrittori, poeti, giornalisti, fotografi perché contribuiscano inviando dei loro scritti (all’indirizzo email: giovanna.canzi@cpia.edu.it). “In un giorno abbiamo avuto l’adesione già di moltissimi - spiega Canzi. Da Alberto Cristofori, che a gennaio aveva tenuto una lezione sulla Divina Commedia in carcere, al poeta Alberto Casiraghy che ha inviato degli aforismi e poi la scrittrice per ragazzi Bianca Pitzorno, gli scrittori Marina Mander, Elena Rausa, Matteo Cataluccio, Filippo Tuena hanno voluto inviare un loro contributo che stamperemo e consegneremo in “pacchetti letterari” per i nostri studenti”. Catania. Coronavirus, protesta notturna in carcere Quotidiano di Sicilia, 13 marzo 2020 Lenzuola bruciate, Volanti e l’urlo di un detenuto di piazza Lanza: “Non siamo animali! Stiamo morendo!”. Protesta la notte scorsa nel carcere di piazza Lanza a Catania: circa ottanta detenuti hanno urlato, fatto rumore e appiccato il fuoco a lenzuola, con le fiamme che si vedevano dall’esterno di una finestra del secondo piano della struttura. La contestazione, iniziata poco prima di mezzanotte, legata alle restrizioni imposte per il contenimento del Covid-19, è durata alcune ore ed è rientrata dopo una “mediazione” con la direzione e il capo della polizia penitenziaria dell’istituto. All’esterno del carcere, per precauzione, sono stati schierati polizia e carabiniere e bloccate le strade di accesso. Sulla vicenda è intervenuto il comitato Reddito-casa-lavoro che afferma di avere registrato il grido d’allarme lanciato da un detenuto “non siamo animali, abbiamo bisogno di cure, stiamo morendo”. “Il rischio di contagio nelle carceri - aggiunge il comitato - in questo momento è altissimo per via del sovraffollamento e condizioni igienico-sanitarie precarie. Il governo non può continuare a minimizzare, le conseguenze potrebbero essere irreversibili. La salute e la sicurezza devono venire prima di tutto, nei penitenziari così come all’esterno delle carceri”. “Il governo - conclude la nota - deve redigere subito un decreto di amnistia o trasformare in domiciliari le pene i reati minori”. Alessandria. Rivolta nel carcere di San Michele, più di venti detenuti indagati alessandriaoggi.info, 13 marzo 2020 La procura di Alessandria ha aperto un’inchiesta per le rivolte avvenute nel carcere di San Michele lo scorso fine settimana. Non un fascicolo contro ignoti come in altre città d’Italia dove, analogamente, ci sono stati tafferugli violenti tra domenica e lunedì. Il procuratore Enrico Cieri, infatti, ha fatto sapere che sono state identificate le persone che si ritiene abbiano dato il via alla rivolta. “Stiamo aspettando gli atti dal carcere per individuare le ipotesi di reato. I nomi nel registro degli indagati potrebbero essere tra i venti e i trenta” ha riferito Cieri. I fatti sono avvenuti domenica sera: intorno alle sei i Vigili del Fuoco di Alessandria erano accorsi per un incendio che si era sviluppato in due piani dell’istituto penitenziario di San Michele, frutto della protesta da parte dei detenuti per le nuove disposizioni legate al coronavirus. La protesta aveva provocato ingenti danni in due sezioni. Sul posto erano arrivate anche diverse ambulanze. L’incendio era stato poi spento intorno alle otto. Un episodio, quello di domenica, nato sull’onda del subbuglio che aveva interessato ben 27 carceri in tutta Italia, da Nord a Sud, con i detenuti che protestavano per lo stop alle visite dei familiari, misura prevista contro diffusione Covid-19. Già sabato il carcere di San Michele era stato interessato da disordini e tensioni così come il “Don Soria” di Alessandria, con alcuni detenuti che avevano dato fuoco alle lenzuola e alle coperte per protestare contro la sospensione dei colloqui, provvedimento deciso a fronte dell’emergenza coronavirus, mitigato dall’aumento della possibilità di effettuare telefonate ai propri cari e parenti. Come detto, sabato mattina la protesta aveva riguardato il carcere di San Michele. Tre agenti della Polizia Penitenziaria erano intervenuti per riportare la calma ed erano rimasti feriti. Uno aveva riportato la frattura di un braccio. In serata la stessa cosa era avvenuta anche nel carcere Cantiello e Gaeta di Alessandria, in piazza Don Soria. Anche in questo caso erano stati appiccati degli incendi dai detenuti usando coperte e lenzuola. Ad Alessandria è stata, inoltre, aperta un’altra inchiesta in collegamento con la procura di Modena, per la morte di un trentunenne che, dal penitenziario emiliano, devastato domenica, era stato assegnato al San Michele. Sceso dal bus, il giovane era deceduto, pare, per overdose da psicofarmaci sottratti dall’infermeria modenese. Avellino. Coronavirus, dal carcere di Bellizzi le richieste dei detenuti di Andrea Fantucchio irpinianews.it, 13 marzo 2020 Il coronavirus fa paura anche ai detenuti, che temono, in caso di contagio, di rimanere isolati dall’esterno. Il responsabile regionale dell’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali, l’avvocato Giovanna Perna, ha incontrato questa mattina (12 marzo) le delegazioni dei detenuti del carcere di Bellizzi Irpino. Per venire in contro alle istanze dei rappresentanti dei carcerati e per rispettare le direttive governative, si sta allestendo una tenda “pre-triage” per filtrare i casi sospetti. Sia il garante dei detenuti, Carlo Mele, che l’avvocato Perna, stanno cercando di gestire una situazione complessa che, fino a questo momento, non ha generato tensioni (come è invece accaduto in numerose carceri italiane). Altro problema da evitare è il sovraffollamento. Ecco perché è stato redatto un documento per invitare i magistrati di Sorveglianza ad adottare misure straordinarie. Si è richiesto, contestualmente, di concedere la detenzione domiciliare ai detenuti vicini alla scadenza della pena. Queste richieste seguono la scia di altre già avanzate e accolte in altri istituti penitenziari, in particolar modo quelli lombardi. Se infatti il virus dovesse contagiare anche un solo detenuto, si rischierebbe il caos. Brescia. Incontro tra la Garante e una delegazione dei detenuti e operatori penitenziari lavocedelpopolo.it, 13 marzo 2020 I detenuti, dimostrando forte senso di responsabilità e comprensione dei nuovi limiti loro imposti, non hanno in alcun modo tentato di strumentalizzare la situazione, al contrario mostrando una sincera volontà collaborativa per il mantenimento del massimo livello possibile di normalità all’interno dell’Istituto. Nella mattinata di martedì 10 marzo si è svolta nel teatro della Casa Circondariale Nerio Fischione una proficua riunione tra una delegazione di detenuti, la Direttrice Francesca Paola Lucrezi, la Comandante Letizia Tognali, alcuni agenti di polizia penitenziaria e la Garante Luisa Ravagnani per affrontare le problematiche emerse a seguito delle modifiche trattamentali imposte all’interno degli istituti per prevenire la diffusione del Covid-19 e le possibili prospettive nel breve periodo. I detenuti, dimostrando forte senso di responsabilità e comprensione dei nuovi limiti loro imposti, non hanno in alcun modo tentato di strumentalizzare la situazione, al contrario mostrando una sincera volontà collaborativa per il mantenimento del massimo livello possibile di normalità all’interno dell’Istituto. Comprensibilmente e profondamente preoccupati per la salute dei propri cari all’esterno, hanno sentito inoltre il bisogno di far giungere a tutta la collettività esterna la loro solidarietà e vicinanza per quanto sta accadendo, riservando un pensiero speciale a tutte le persone - detenuti e operatori penitenziari - coinvolte negli scorsi giorni nei ben noti e tristi accadimenti che hanno sconvolto la vita di alcuni Istituti di pena italiani e portato, purtroppo, alla morte di nove detenuti. Fortemente convinti che questo difficile momento si possa superare solo attraverso il rispetto reciproco e la costante collaborazione con le istituzioni per la tutela della salute di tutti, i detenuti di Nerio Fischione auspicano che gli episodi degli ultimi giorni non si ripetano e si trovino al più presto, nei luoghi dove vi sia la necessità, piani di comunicazione efficaci come sta accadendo per loro a Brescia. In ogni caso, l’Amministrazione Penitenziaria nella sua interezza, la Magistratura di Sorveglianza e ovviamente la Garante, sono consapevoli che il profondo senso civico messo in campo dai detenuti non possa essere l’unico strumento su cui puntare per affrontare l’emergenza: c’è la necessità di ampliare in tempi brevi il numero delle misure alternative applicabili, in accordo con la normativa vigente, al fine di permettere a chi ha i requisiti, di poter uscire dal carcere e ridurre, seppur non di quanto ce ne sarebbe bisogno, il sovraffollamento dell’istituto. Parte fondamentale di questo obiettivo è senza dubbio la consolidata rete di housing gestita dalle coop sociali e dalle organizzazioni di volontariato penitenziario bresciano che, con il prezioso aiuto degli agenti di rete, sta lavorando al fine di aumentare il numero di alloggi disponibili per la gestione delle misure alternative che saranno applicate in questa speciale circostanza e i servizi da riservare all’accoglienza dei detenuti che ne usufruiranno. L’intenso impegno dei detenuti e del personale penitenziario (civile e di polizia) per la creazione di un positivo modello di gestione delle emergenze che veda tutti impegnati, senza contrapposizione di ruoli, per il raggiungimento del medesimo, prezioso, obiettivo merita senza dubbio di trovare, specialmente in un momento così difficile, aiuto esterno. Mi conforta il fatto che non si tratti di una sfida nuova per Brescia, dal momento che in ambito penitenziario la città è da sempre portata a sfruttare al meglio le possibilità accordate dalla normativa vigente senza aspettare eventuali modifiche normative che, se anche migliorative, potrebbero arrivare in ritardo. Milano. Il virus nelle celle: “Sospese scuola e teatro, distrutta la nostra piccola normalità” di Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 13 marzo 2020 Non c’è più la scuola, né il teatro. Manca il poter trascorrere delle ore in biblioteca o anche frequentare corsi sportivi. Il timore del contagio da coronavirus irrompe negli istituti penitenziari e distrugge la quotidianità dei detenuti, quella che si sono costruiti dentro le mura carcerarie. La sospensione delle attività per impedire che qualcuno possa portare dentro il virus ha un effetto devastante sulla vita dei carcerati. Lo sa bene Martina, una delle detenute di San Vittore, a Milano. In passato ha partecipato a un progetto portato avanti da Jo Squillo che in quell’istituto ha trascorso quattro mesi per dare vita al docu-film “Donne in prigione” si raccontano. Martina, con le altre detenute, ha scritto anche una canzone Rinascita ed è a Jo Squillo che ha inviato un’email per raccontare la loro condizione in questo momento di allarme. “Dopo un tristissimo 8 marzo - scrive Martina - possiamo dirti che ci sentiamo distrutte come donne, mamme, figlie, compagne e ovviamente detenute. Quello che possiamo dirti è che qui la situazione è soffocante e drammatica”. Le donne di San Vittore - come avvenuto anche nella maggior parte delle carceri femminili - non hanno partecipato alle proteste dei giorni scorsi diffuse in28 istituti penitenziari, dopo che è stata comunicata la sospensione dei colloqui. “Noi detenute della sezione femminile - continua Martina- ci dissociamo da ogni forma di protesta violenta, ma non dai motivi della protesta stessa. Non abbiamo la possibilità di incontrare i nostri affetti, non abbiamo più alcuna attività trattamentale, non abbiamo più la nostra piccola normalità”. Questa detenuta vuol e quello che molti stanno chiedendo: Le proteste a San Vittore Ansa la possibilità di accedere a pene alternative per chi ha finito di scontare quasi tutta la pena. Ed è la stessa richiesta che un’ottantina di detenute del carcere femminile di Rebibbia, alle quali mancano meno di sei mesi da scontare, hanno già avanzato al magistrato di sorveglianza. “Quello svolto a San Vittore - spiega Jo Squillo - è stato un progetto partito diversi anni fa. Quattro mesi con le detenute e ho capito tante cose, anche che le donne finite in cella vogliono pagare, vogliono essere riabilitate. Ed è questo il vero senso del carcere”. Poveri e senza dimora, ecco le vittime collaterali dell’emergenza Covid di Rocco Vazzana Il Dubbio, 13 marzo 2020 I decreti restrittivi mettono in crisi mense e ricoveri notturni. Non solo persone intubate negli ospedali e cittadini rinchiusi in casa terrorizzati dal contagio. Il Coronavirus rischia di mietere altre vittime invisibili: i poveri. Emarginati, senza fissa dimora, migranti sono i più esposti al pericolo, indipendentemente dal contagio. Per rendersene conto basta fare un giro tra le mense Caritas e nei ricoveri notturni, strutture al collasso, che i decreti restrittivi imposti giustamente dal governo hanno reso di difficile accesso. “Abbiamo raggiunto un accordo per continuare a distribuire i pasti”, ci spiegano dall’ufficio Comunicazione della Caritas romana, “ma dopo l’ultimo decreto non possiamo più servirli all’interno delle nostre strutture”. Quasi impossibile garantire il rispetto delle norme sulla distanza di sicurezza tra un commensale e l’altro, l’unica alternativa è preparare delle porzioni preconfezionate da consumare in strada, facendo comunque attenzione a evitare assembramenti al momento della distribuzione. “Chiediamo in continuazione di rimanere a un metro di distanza, ma è davvero complicato. Chi ha la fortuna di avere un’abitazione torna a mangiare a casa, agli altri non resta che rimanere all’aperto”. Sì, all’aperto, dove la maggior parte degli avventori è già abituata a vivere. Ed è proprio questa esposizione al rischio quotidiano che rende i senza fissa dimora, spesso vittime di un sistema immunitario già fragile, i più vulnerabili di fronte a un eventuale contagio, attivo e passivo. Una popolazione sommersa che solo a Roma conta quasi 8 mila persone. E tra i danni collaterali dei decreti emergenziali c’è la chiusura dei bar e delle rosticcerie, dove chi non ha niente riusciva a ottenere cibo gratuito a fine serata, una rete di protezione sommersa ma indispensabile. Le organizzazioni di volontariato fanno i salti mortali per garantire i servizi essenziali alle persone in difficoltà, ma gli stessi utenti sembrano smarriti e non affollano più le mense come prima. Nella sola struttura di Colle Oppio, al centro della Capitale, abituata a servire circa 500 pasti a pranzo, da qualche giorno non si presentano “più di 400 persone, ma anche qualcosa in meno”. Numeri in calo anche alle Caritas di Ostia e di Via Marsala, alle spalle della stazione Termini. “Alcuni hanno probabilmente paura del contagio ed evitano di venire”, è una delle spiegazioni. Non l’unica, però, perché la diffusione del Covid ha imposto la chiusura dei centri d’ascolto, il primo presidio sul territorio, spesso l’unico, nella lotta al disagio sociale. È al centro d’ascolto che i cittadini si rivolgono per accedere ai servizi della Caritas: pasti, beni di prima necessità, a volte semplice conforto. Diretta conseguenza della serrata: lo stop agli ingressi nei centri d’accoglienza, a cominciare dall’ostello “don Luigi Di Liegro”, oltre 200 posti letto. “Non possiamo accettare nuove richieste e abbiamo bloccato le uscite. A chi è dentro chiediamo di non andare all’esterno per rispettare le regole sull’emergenza”. Niente turn over per avere un tetto sulla testa, dunque, chi rimane fuori deve provare a bussare ad altre porte. Ma i problemi provocati dal virus non finiscono qui per chi vive senza protezioni economiche e sociali. Oltre alle mense e ai ricoveri, infatti, rischia di andare in tilt il sistema dei “giri notturni” per offrire beni di prima necessità e assistenza medica ai clochard. “I volontari stanno diminuendo”, spiegano ancora dalla Caritas, comprendendo le paure di chi non se la sente di esporsi al rischio contagio. L’esercito spontaneo degli aiutanti notturni è infatti composto da molti over 60, pensionati altruisti ma consapevoli di rientrare tra le fasce generazionali più vulnerabili. Per scongiurare il peggio interviene direttamente la Santa Sede, che ieri ha donato 100mila euro alla Caritas Italiana per un primo significativo soccorso. “Tale somma vuol essere un’immediata espressione del sentimento di spirituale vicinanza e paterno incoraggiamento da parte del Santo Padre verso tutti quei servizi essenziali a favore dei poveri e delle persone più deboli e vulnerabili della nostra società”, si legge su una nota del Vaticano. Ma a prendersi cura degli ultimi c’è anche la comunità di Sant’Egidio, presente su tutto il territorio nazionale, con programmi di assistenza di ogni genere. “Ci prendiamo cura dei senza fissa dimora ma anche degli anziani che non possono uscire di casa: li contattiamo telefonicamente per vedere se hanno bisogno di qualcosa e se è necessario portiamo a casa farmaci o la spesa”, spiega Roberto Zuccolini, portavoce della Comunità. Per il momento Sant’Egidio non ha subito gravi traumi dall’entrata in vigore dei decreti. Mense e ricoveri continuano a funzionare a pieno ritmo. “Per la distribuzione dei pasti siamo riusciti a distanziare bene i tavoli, abbiamo imposto un lavaggio accurato delle mani prima dell’ingresso in sala, e noi continuiamo a svolgere il nostro servizio con le mascherine al volto”, dice ancora Zuccolini. A pieno ritmo anche i centri per lo smistamento dei pacchi alimentari e dei generi di prima necessità, grazie alla presenza assidua dei volontari, magari spostati a gestire l’emergenza ma provenienti da altri progetti. E chi non trova un tetto all’Ostello della Caritas può sempre bussare alle porte della chiesa di San Callisto, a Trastevere, dove la Comunità di Sant’Egidio organizza d’inverno l’accoglienza contro il freddo. “In tre anni sono passate tantissime persone dalla Chiesa che a sera si trasforma anche in una piccola mensa, prima di diventare ricovero notturno”, racconta il portavoce Zuccolini. “L’unica differenza rispetto a prima è che abbiamo distanziato ulteriormente i letti, con misure igienico sanitarie più stringenti, ma funziona bene. Almeno a Roma. Che io sappia solo a Pescara abbiamo dovuto chiudere un ricovero notturno”, spiega. “Ma lasciare la gente in strada non è un bene. La nostra azione aiuta anche a contenere il virus, perché oltre a fornire un tetto informiamo le persone che si rivolgono a noi e imponiamo norme igieniche”, conclude Zuccolini. La lotta all’esclusione e quella al contagio non possono che andare di pari passo. Grecia. Duemila euro per tornare a casa, l’offerta dell’Europa ai migranti Il Manifesto, 13 marzo 2020 La proposta del commissario agli Affari interni Johansson ai quanti si trovano sulle isole. Duemila euro per tornare a casa. È quanto l’Unione europea promette ai migranti che si trovano a vivere nell’inferno dei centri profughi sulle isole dell’Egeo. Ad annunciarlo è stata ieri il commissario europeo per gli Affari interni Ilva Johansson al termine della sua visita in Grecia, dove ha incontrato il premier Kyriakos Mitsotakis. Si tratta, però, di un’offerta a tempo limitato e riguarderà solo coloro che sono arrivati nel Paese prima del 1 gennaio 2020. “Per un periodo di un mese offriremo l’opportunità ai migranti che oggi si trovano nei campi delle isole greche di aderire al programma di rimpatrio volontario nel loro Paese di origine”, ha spiegato Johansson. Non si tratta di una novità. Da tempo l’Oim organizza rimpatri volontari dei migranti sia dalla Libia che da altri Paesi offrendo denaro. Generalmente si tratta di piccole somme che nei Paesi dai quali provengono i migranti possono però rappresentare un’occasione per avviare un’attività. I duemila euro offerti adesso dall’Unione andranno a sommarsi ai 370 offerti già oggi dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) a quanti aderiscono al programma di rimpatri. E sempre l’Oim si occuperà dei viaggi di ritorno dalla Grecia in collaborazione con l’agenzia europea per le frontiere Frontex. I rimpatri si aggiungeranno inoltre ai 10 mila trasferimenti sulla terraferma decisi da governo greco per decongestionare i campi delle isole. Intanto sembra procedere il programma di trasferire alcuni delle migliaia di minori presenti nei campi profughi. Si tratta di 1.600 bambini che necessitano di cure e minori di 14 anni non accompagnati per i quali sette Stati si sono detti disponibili ad aprire le proprie porte. L’iniziativa è nata nell’ultimo vertice dei ministri dell’Interno dell’Unione su iniziativa del tedesco Horst Seehofer e prevede la creazione di un gruppo di “Paesi volenterosi” che accettano di accogliere almeno i minori, sottraendoli così alle condizioni di vita disumane in cui sono costretti a vivere sulle isole Secondo Save the Children su 10 migranti almeno 4 sono bambini e quelli soli sarebbero almeno 5.000. La crisi dei migranti ha fatto rialzare notevolmente la tensione tra Grecia e Turchia. Due giorni fa le forze speciali di Ankara hanno sparato contro un mezzo militare greco al valico di Evros, lungo il confine terrestre, mentre nei pressi dell’isola di Kios una nave turca ha speronato una motovedetta ellenica. Ieri, invece, lo Stato maggiore dell’esercito di Atene ha accusato due F-16 turchi di aver violato lo spazio aereo greco sorvolando l’isola di Strongyli, nell’Egeo meridionale. Per Mitsotakis la Grecia si troverebbe a far fronte a “una minaccia asimmetrica” da parte della Turchia ai suoi confini terrestri e marittimi. Tutte vicende che di certo non rendono più semplice il lavoro diplomatico con cui si cerca di trovare una soluzione alla crisi dei migranti provocata da Erdogan. Martedì il presidente turco incontrerà la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Emmanuel Macron. Anche se i due leader europei hanno atteggiamenti diversi nei confronti di Erdogan. L’incontro servirà comunque a preparare il terreno per il nuovo vertice Turchia-Ue previsto per il 26 marzo a Bruxelles nel quale dovrebbero essere presentati anche le conclusioni del lavoro comune che in questi giorni l’alto rappresentante della politica estera dell’Ue Josep Borrell ha svolto con il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu su come mantenere l’accordo sui migranti siglato nel 2018. Grecia. Il Coronavirus arriva tra i profughi di Lesbo, rischio strage di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 13 marzo 2020 Anche sull’isola di Lesbo si sarebbe verificato il primo caso sospetto di coronavirus. A riportare la notizia sono i media locali, secondo i quali ad avere i sintomi della malattia sarebbe una donna di 40 anni. Secondo il quotidiano Ekathimerini la donna di recente era stata in Egitto ed Israele in vacanza, mentre secondo la rete No Borders, che monitora le condizioni dei migranti sull’isola, la donna sarebbe impiegata in un supermercato e per questo sarebbe entrata in contatto con molte persone. Il caso rende ancora più preoccupante la situazione già tesa sull’isola, dove vivono anche 20 mila migranti e rifugiati in centri sovraffollati e in condizioni igieniche al limite. “Al momento non ci sono indicazioni o prove che portino a dover considerare i richiedenti asilo in qualsiasi parte d’Europa come un rischio per la salute”, afferma Carlotta Sami, portavoce per il Sud Europa dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). L’Agenzia Onu, prosegue la portavoce, “ha sempre affermato che gli Stati hanno il diritto legittimo di gestire i propri confini”. “Pertanto le misure di controllo delle frontiere possono comprendere misure per accertare l’identità e controllare le condizioni di salute di ogni richiedente asilo”, chiarisce Sami. “Tuttavia - aggiunge la responsabile - tali misure non dovrebbero minare o limitare il diritto a chiedere asilo e devono quindi rispettare il principio di non respingimento. Vi possono essere delle restrizioni, ma oltre ad essere proporzionate, devono essere previste solo per motivi di sicurezza e ordine pubblico”. “La situazione preoccupante - rimarca Sami - è legata all’eccessivo sovraffollamento nell’isola. Sono settimane, anzi mesi che chiediamo di trasferire tutte le persone su terraferma. Sulla terraferma - aggiunge - le oltre 20 mila persone presenti potrebbe vivere in strutture dignitose. Ribadiamo il nostro appello anche oggi”. Il caso, adesso, è stato confermato e le associazioni che si stanno occupando dei migranti assiepati nei campi profughi di Lesbo sono davvero preoccupate. Se il contagio non fosse isolato e se si dovesse diffondere in qualche modo tra i migranti che si trovano ammassati sulle coste dell’isola greca, ci sarebbe un effetto devastante. Nel campo di Moria, ci sono 20mila persone all’interno di una tendopoli che non ha acqua, figuriamoci il sapone per prevenire il contagio. Alla vergogna del campo di Lesbo, dove vivono in condizioni disumane migliaia e migliaia di migranti, ora si aggiunge un’altra sconvolgente rivelazione: il governo greco sta imprigionando i migranti in isolamento in un sito segreto, situato nel Nord-Est del Paese, prima di espellerli in Turchia senza che possano presentare richiesta di asilo o parlare con un avvocato. È quanto denuncia il New York Times, sottolineando come Atene stia cercando in questo modo di scongiurare la crisi del 2015, quando più di 850.000 persone prive di documenti riuscirono ad entrare nel Paese, per poi proseguire verso l’Europa Il Nyt è venuto a conoscenza del sito da informazioni raccolte sul terreno e dall’analisi delle immagini satellitari. Diversi migranti hanno raccontato al quotidiano americano di essere stati catturati, privati dei beni, picchiati ed espulsi dalla Grecia senza aver avuto la possibilità di presentare richiesta di asilo o di parlare a un avvocato. Tramite incroci di informazioni, descrizioni, dati e coordinate satellitari, il New York Times è riuscito a localizzare il centro di detenzione, che si trova nei terreni agricoli tra Poros e il fiume Evros. La Grecia è firmataria della Convenzione europea sui rifugiati ed è quindi illegale rifiutarsi di accogliere una domanda d’asilo o rimpatriare dei richiedenti asilo in Paesi in cui corrono dei rischi. Secondo Eleni Takou, vicedirettore e responsabile della Ong HumanRights360, ogni giorno emergono testimonianze e vittime dei cosiddetti “push-back”, i respingimenti di migranti alla frontiera al di là del fiume Evros.