Carceri e rivolte: il conto dei morti di rabbia, metadone, paura, overdose di farmaci di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 12 marzo 2020 “L’infermeria è stata devastata, hanno aperto l’armadio cassaforte dove è custodito il metadone puro in bottiglioni... poi hanno preso farmaci di tutti i tipi… Ci sono volti e immagini che non dimentico, così come i due carri funebri che sono entrati tra le urla dei famigliari e poi usciti con due bare...”: è una volontaria a raccontarmi la rivolta in carcere a Modena, con il suo tragico bilancio, nove morti. Quella stessa rivolta la sento raccontare al TG2 da Matteo Salvini, e mi viene voglia di piangere. Come se parlasse di topi di fogna… Io non sono una volontaria “tenera” che giustifica tutto e mi fa rabbia pensare a tutta quella violenza, ma poi penso anche alle vite disperate di tanti tossicodipendenti, i tossicodipendenti sono circa il 25% dei detenuti, il dato è stabile negli ultimi 5 anni, dunque, all’incirca, 15000 persone che stanno in galera, devastate dalla droga, spesso giovani, stranieri anche, lontani da casa. Conosco detenuti che non vedono la loro madre da otto, da dieci anni. Aggiungo che il 49% dei farmaci prescritti in carcere sono psicofarmaci, quindi farmaci per non pensare, per dormire, per dimenticarsi della propria vita. Mi viene in mente il messaggio che ho ricevuto in questi giorni, dopo la chiusura di tutte le attività, da un detenuto della mia redazione, Luca, anche lui tossicodipendente: “Qui tutto si è fermato, nemmeno gli agenti sanno come si svolgeranno le giornate d’ora in poi, quindi sale dentro di me un senso di angoscia, ansia, depressione, tristezza e smarrimento perché siamo in balia di eventi su cui non abbiamo il minimo controllo e questo peggiora tutto”. E mi vengono in mente le Case circondariali, e quello che segnalano anche ora i volontari impegnati su quel “fronte”: la fatica del Servizio Tossicodipendenze che ha poco personale presente in istituto, che ha pochi strumenti anche per gli italiani, figurarsi per i detenuti stranieri, le poche ore di presenza degli psichiatri e degli psicologi, in situazioni in cui il disagio psichico è sempre più diffuso, il fatto che la gran parte dei detenuti cerca, per lo più inutilmente, il lavoro, che consentirebbe almeno di avere due soldi per le sigarette e per le telefonate, e che vedono raramente gli educatori, che dovrebbero essere decisamente di più e invece sono davvero un numero esiguo e pure loro hanno pochi strumenti se non inserirli nelle rare attività formative disponibili. E non mi dimentico che in questi contesti così degradati alla Polizia penitenziaria è affidato un compito disumano, di far fronte alla rabbia crescente contro le istituzioni che spesso non hanno saputo affrontare questa emergenza vera e drammatica informando, dialogando, confrontandosi a partire dall’unico “esercizio” che ognuno di noi oggi dovrebbe imparare a fare: provare a mettersi nei panni dell’altro, a vedere le cose, come ci insegna lo scrittore israeliano David Grossman, “con gli occhi del nemico”. In questi giorni ho pensato che queste rivolte ci faranno tornare indietro di anni in quel delicato lavoro che facciamo per ridurre la distanza fra la società e il carcere: perché già si sta procedendo a creare i mostri, ci fanno vedere uomini sui tetti delle carceri, che urlano, che spaccano tutto, e ognuno si sente in dovere di condannare, di prendere le distanze, di esprimere la propria riprovazione. L’ho fatto e lo faccio anch’io con profonda convinzione, ho orrore della violenza, però penso anche allo stato di abbandono in cui versano tante galere, le giornate passate ad ammazzare il tempo, i corpi accatastati in spazi inadeguati, la perenne emergenza sovraffollamento, e ora su tutto questo la paura del virus, il senso di impotenza, la rabbia, e capisco quanta fatica si faccia a restare umani in quei luoghi, e quanto il pensiero di chi ha partecipato a queste rivolte alla fine sia stato anche quello di sballarsi fino a dimenticare, fino alla morte. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti Comunicato del Garante nazionale sulla privazione della libertà nei giorni del Covid-19 Ristretti Orizzonti, 12 marzo 2020 Un gran numero di notizie giungono da diverse fonti circa l’evolversi della situazione negli Istituti detentivi e sulla possibilità di predisporre strumenti per mettere il sistema penitenziario in grado di affrontare, almeno in termini di essenzialità, un’eventuale maggiore difficoltà sul piano sanitario. Ma, ancora oggi la difficoltà più forte è sul piano delle rivolte che si sono sviluppate nei giorni scorsi in diversi di Istituti e sul riflesso che esse stanno avendo sulla vita delle persone ristrette, anche per le conseguenti riduzioni di spazi e movimentazione delle persone detenute. La situazione è ancora grave, anche se oggi non si registrano particolari tensioni nuove rilevanti. Oltre all’impegno degli operatori penitenziari ai diversi livelli di responsabilità e, in particolare della Polizia penitenziaria, a cui va la nostra riconoscenza, vi è stato un contributo importante di connessione e di contributo alla riduzione dei conflitti da parte dei Garanti territoriali e del Garante nazionale. Secondo i dati in nostro possesso, al di là delle proteste riconducibili a mere percussioni o rifiuto del vitto, 49 Istituti sono stati coinvolti, in maniera diversa; in talune situazioni la protesta ha assunto la connotazione di una drammaticità che non si vedeva nel nostro Paese da decenni: risultano 14 morti tra le persone detenute e alcune tuttora in ospedale in condizioni precarie, 59 feriti, per fortuna nessuno grave, tra i poliziotti penitenziari. Inoltre, cinque operatori sanitari e due poliziotti sono stati trattenuti in ostaggio per otto ore a Melfi. A ciò si aggiunge la situazione, documentata anche in un video, del facile allontanarsi di ben 72 persone dall’Istituto di Foggia: 16 sono tuttora latitanti. Secondo le informazioni date al Garante nazionale fino a questo momento, tutte le morti sono riconducibili a ingestione di farmaci e/o metadone. Stiamo chiedendo informazioni alle diverse Procure circa l’apertura delle indagini in merito, al fine di proporre la presentazione del Garante nazionale come persona offesa. Ovviamente molte sezioni sono andate completamente distrutte e il Dipartimento valuta una riduzione di circa 2000 posti per lavori da eseguire con urgenza. Parallelamente, ciò ha determinato una movimentazione consistente delle persone ristrette lungo la penisola, a cui hanno corrisposto decisioni di tipo diverso delle Autorità regionali degli Istituti di arrivo circa l’accettazione delle persone trasferite (in alcuni casi rifiutate) o l’obbligatoria loro collocazione in situazione di isolamento sanitario preventivo, soprattutto se provenienti da talune aree colpite dalla maggiore diffusione del virus. La difficoltà dei trasferimenti determina altresì il fatto che tuttora permangano più di duecento persone nel distrutto Istituto di Modena e un gran numero a San Vittore senza luce e con molte suppellettili bruciate. La situazione è in evoluzione. Tuttavia è chiaro che, al di là del ripristino della normalità, occorre intervenire per ridurre la pressione che gli attuali numeri provocano sulle strutture detentive e sul senso di ansia e terrore delle persone che, nel frattempo, sentono ripetere che occorre stare a distanza di sicurezza gli uni dagli altri e che bisogna essere muniti di presidi sanitari adeguati. Sentono la concreta impossibilità dell’attuazione di tali misure in carcere, anche se ieri si è ottenuto di far inviare centomila mascherine per gli agenti e l’altro personale che entra in contatto con loro. Il Ministro della giustizia ha costituito una “task force” per seguire la situazione e proporre soluzioni che aiutino un ritorno alla normalità in condizioni tali da rasserenare e migliorare la situazione attuale (maggiori possibilità di contatti con le famiglie, nei numeri e nella durata, sanificazione degli ambienti, distribuzione di presidi sanitari, …). Nonché provvedimenti tali da non far trovare il sistema impreparato di fronte a possibili evoluzioni negative dell’epidemia. Il Garante nazionale terrà aggiornata questa informazione ogni sera, secondo la linea di trasparenza che questa Istituzione ha sempre seguito. Carcere e coronavirus: che fare? di Gian Luigi Gatta sistemapenale.it, 12 marzo 2020 Considerazioni a margine delle (e oltre le) rivolte. 1. La pandemia del Coronavirus ci ha gettato in una situazione inimmaginabile, fino a pochi giorni fa. La nostra attenzione è catturata dall’emergenza, dalle preoccupazioni e dalle ansie del quotidiano. È perfino in qualche misura non facile continuare a parlare di diritto e di sistema penale, come facciamo ogni giorno con passione sulle pagine della nostra Rivista. Sono però accaduti in questi giorni fatti che non possono passare in secondo piano, nella valutazione di chi si occupa della giustizia penale. Non mi riferisco tanto al rinvio delle udienze penali, disposto dal decreto-legge n. 11/2020, e nemmeno mi riferisco alle - pur rilevantissime - limitazioni di diritti e libertà fondamentali, per esigenza di tutela della salute pubblica, realizzate con atti del potere esecutivo e accompagnate da sanzioni penali per i trasgressori dei correlati divieti (dai tratti spesso imprecisi); sanzioni peraltro spuntate e meramente simboliche, come nel caso dall’art. 650 c.p. Per inciso: non sarà certo un reato bagatellare - e comunque la minaccia di pene, anche severe - a fermare l’epidemia. Il limitato ruolo del diritto penale, in questa fase, è a me pare solo quello della stigmatizzazione di condotte che mettono a rischio la salute di tutti (uscire di casa senza necessità, in questi giorni); una stigmatizzazione che, auspicabilmente, può servire in chiave di orientamento culturale a far comprendere la serietà della situazione che stiamo vivendo e l’importanza di attenersi alle indicazioni delle autorità, fondate su evidenze scientifiche. Il fatto più sconvolgente è a mio avviso rappresentato dalle rivolte nelle carceri italiane che - da quanto ha riferito il Ministro della Giustizia in Parlamento - hanno coinvolto circa 6.000 detenuti (il 10% della popolazione penitenziaria) e portato alla morte di 13 detenuti e al ferimento di 40 agenti della polizia penitenziaria, oltre alla devastazione di diversi istituti (come quello di Modena) e all’evasione di decine di detenuti, alcuni dei quali, come quelli fuggiti dal carcere di Foggia, sono ancora ricercati. 2. La violenza esplosa improvvisamente nelle nostre carceri non può e non deve passare inosservata: la notizia ha fatto il giro del mondo, restituendo una pessima immagine del nostro paese, e mette a nudo una serie di problemi del carcere. Si tratta, in parte, di problemi cronici e, in parte, di problemi drammaticamente nuovi, che accomunano la condizione dei detenuti, in tutto il mondo, di fronte a una pandemia. Le rivolte sono infatti state occasionate da una miscela esplosiva, per la sensibilità (e l’instabilità emotiva) di chi vive in carcere: da un lato, la paura di contrarre il Coronavirus in ambienti chiusi, sovraffollati e con precarie condizioni igieniche; dall’altro lato, le limitazioni normativamente imposte ai detenuti per prevenire la diffusione del virus (cfr. il d.l. n. 11/2020): lo stop all’ingresso in carcere per i colloqui di familiari e persone care, (fino al 31 marzo, in Lombardia e in Veneto, fino al 22 marzo, nel resto del paese) e la possibile sospensione dei permessi premio e del regime di semilibertà. 3. Quanto ai problemi cronici, le rivolte di questi giorni ci ricordano almeno due dati. Il primo è quello del grave sovraffollamento: il 29 febbraio scorso i detenuti erano 61.230 a fronte di una capienza regolamentare pari a 50.931 posti. Con quale coerenza si vietano assembramenti nella società dei liberi quando, in carcere, si affastellano i detenuti? Per quanto tempo ancora si continuerà a chiudere gli occhi di fronte a un problema, tornato ad essere drammatico, oggi più che mai, dopo gli interventi che hanno fatto seguito alla sentenza Torreggiani? Il secondo dato, non meno preoccupante - e di immane tristezza - è quello della sovra rappresentazione dei tossicodipendenti in carcere (circa il 25% dei detenuti): persone che necessitano di cure e che nel corso delle rivolte - a quanto pare - sono arrivate in questi giorni a darsi la morte assaltando i locali delle infermerie del carcere per procurarsi il metadone, oppioide sintetico usato nella terapia sostitutiva della dipendenza da stupefacenti. 4. Quanto ai problemi nuovi, a me pare che le rivolte di questi giorni testimoniano una preoccupante fragilità del sistema penitenziario, sotto il profilo della capacità di garantire condizioni di sicurezza e di ordine pubblico all’interno e all’esterno degli istituti, messi a soqquadro da nord a sud del paese, con evasioni di massa, come a Foggia. È indubbiamente questo il problema che più ha colpito l’opinione pubblica, già scossa dalla paura del virus. E per quanti operano nelle diverse sedi (accademia compresa) per rendere più umano e aperto il carcere, episodi come quelli dei giorni scorsi sono devastanti: rischiano di compromettere un difficile lavoro, rafforzando l’idea che chi è in carcere meriti di restarci, possibilmente con porte chiuse a doppia mandata. Girare pagina rispetto a quanto accaduto, agli occhi dell’opinione pubblica, non sarà facile. C’è però un non secondario e ulteriore problema, che ha rappresentato l’occasione per le rivolte in carcere: come tutelare la salute dei detenuti, di fronte a una pandemia? E cosa fare in presenza di un contagio in carcere? Il problema è reale, come ha tra gli altri sottolineato il Garante dei detenuti: il Coronavirus può arrivare anche in carcere (di qui la misura della sospensione dei colloqui in presenza), come è già successo all’estero: in Cina, in Iran. E da noi si ha notizia per ora di almeno due agenti della polizia penitenziaria che hanno contratto il virus. Prevenire il contagio in carcere, a tutela dei detenuti e di chi vi lavora, è tutt’altro che facile per via delle condizioni di sovraffollamento e di vita nelle nostre carceri, arretrate dal punto di vista architettonico e delle condizioni igienico-sanitarie. È un problema che si pone in questi giorni da noi come altrove, come negli Stati Uniti, dove l’ex ufficiale medico del carcere più noto di New York così si è espresso: “Jails and prisons are often dirty and have really very little in the way of infection control…There are lots of people using a small number of bathrooms. Many of the sinks are broken or not in use. You may have access to water, but nothing to wipe your hands off with, or no access to soap”. Perfino lavarsi le mani può essere non facile, in carcere! I detenuti lo sanno bene, e anche questo li ha portati a comportamenti che restano in ogni caso ingiustificabili, per le modalità violente, e che danneggiano loro stessi, in primis. Che fare allora? In Iran sono stati rilasciati temporaneamente 70.000 detenuti. In una situazione di emergenza, soluzioni analoghe, limitate a singoli istituti o generalizzate, sarebbero ragionevoli, in chiave deflazione penitenziaria. Invocare l’indulto o l’amnistia, come è stato fatto nei giorni scorsi - anche da parte dei detenuti in rivolta - non è però a mio avviso una soluzione politicamente percorribile, tanto più dopo le rivolte; e si tratterebbe comunque di una soluzione non adottabile in tempi brevi. Si potrebbe pensare, facendo leva sulle misure alternative (la detenzione domiciliare), a misure urgenti per ridurre la popolazione penitenziaria entro i limiti dei posti disponibili in carcere (in questa direzione va una proposta dell’Unione delle Camere penali Italiane) oppure, forse più realisticamente, nell’attuale quadro politico, a una liberazione anticipata speciale (che secondo la stampa sarebbe allo studio del Ministero), oppure anche solo a una disciplina che introduca, transitoriamente, permessi di uscita dal carcere, con previsione di permanenza presso il domicilio (per chi ne disponga); permessi che potrebbero essere concessi anche in vista di un periodo di quarantena (dove trascorrerlo altrimenti? Non negli ospedali, già al collasso, non in carcere, per quanto si è detto). Si tratta insomma di pensare a come affrontare un problema che, purtroppo, può presentarsi da subito. Una riflessione in tal senso è opportuna, e il senso di queste righe è appunto quello di stimolarla, assieme a quanti - come Ornella Favero, Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti orizzonti - già l’hanno meritoriamente fatto. Perché chi si occupa del sistema penale non può e non deve dimenticarsi del carcere: anche quando i pensieri sono altrove e il carcere, drammaticamente come in questi giorni, fa di tutto per allontanarsi dalla società civile. Il carcere è un posto insalubre e chi ci vive dentro ha giustamente paura di Elton Kalica Ristretti Orizzonti, 12 marzo 2020 Le strade vuote e le serrande abbassate ci hanno abituato ormai ad una quotidianità collettivamente accettata di divieti che trovano legittimità nella serietà della minaccia e nell’istinto di autoconservazione. La tentazione di uscire di casa è grande e le istituzioni continuano ad utilizzare i media per invitarci a stare in casa e minacciare i disubbidienti. A osservare questa realtà dall’interno di una cella, magari sovraffollata, credo sia naturale essere assaliti dalla paura di essere contagiati. Il carcere è vissuto da tutti (detenuti e operatori) come un luogo ostile. Ma soprattutto ha tutte le caratteristiche di quelle circostanze che siamo invitati ad evitare: vi è una promiscuità maggiore di un qualsiasi trasporto urbano negli orari di punta, in spazi minori rispetto a qualsiasi bar del centro. Proprio in forza di queste circostanze a rischio contagio, chi vive e lavora in carcere ha cominciato da subito a manifestare una comprensibile paura. Soprattutto gli agenti che devono perquisire i detenuti che entrano ed escono dalla sezione, e poi devono scrutare attraverso gli spioncini delle celle respirando la stessa aria dei detenuti. L’amministrazione penitenziaria doveva dare un segnale di attenzione e preoccupazione a chi lavora a stretto contatto con i reclusi, quindi, ritenendo che il pericolo dentro arriva dai familiari e dai volontari, prima sospende ogni attività scolastica, culturale, sportiva e ricreativa e poi i colloqui con i famigliari. In alcune carceri si interrompono le uscite dei detenuti con i permessi e dei detenuti ammessi al lavoro esterno. La serietà della minaccia sanitaria ha portato i detenuti ad accettare i divieti in un primo momento. Erano convinti che l’emergenza sarebbe durata poco. Ma poi capiscono che non è così. Chi aspettava i volontari per avere dei contatti umani, ma anche per avere qualche risorsa per telefonare, si sente privo di tutto. Si guardano alla tivù i notiziari con lo stesso coinvolgimento delle persone libere: ogni starnuto di un compagno vicino viene visto con sospetto e nessuno vuole avere in cella un nuovo arrivato. Fino al sette marzo, quando i sessantun mila detenuti e i trentatremila agenti guardano la notizia che parla di un giovane agente, in servizio al carcere di Vicenza, finito in coma farmacologica a causa del coronavirus. Da quel momento in poi il carcere entra in un clima di paura e di rabbia. La domanda che tutti si pongono è la stessa: se non fosse finito in coma, si sarebbe saputo dell’agente malato? Quanti ce ne sono ancora di agenti contagiati? E quanti detenuti? Possibile che non si sia ancora infettato nessuno? Oppure si tiene tutto nascosto? Di una cosa i detenuti però sono sicuri: tenere fuori i famigliari e i volontari è stata una misura poco utile. La notte che anticipa l’otto marzo scorre lenta e cova una miscela di rabbia e paura condivisa tra agenti e detenuti. Sono troppi gli agenti che entrano ed escono tutti i giorni da quelle mura dove è impossibile evitare il contatto tra di loro e tra loro e i detenuti. Insieme guardano il tempo scorrere inesorabile aspettando un altro giorno di una convivenza ineluttabile sigillata da quell’ordine sociale che li ha portati dentro quelle mura, una parte in punizione e l’altra per lavorare. La mattina dell’otto marzo è iniziata con la battitura delle inferriate in molte carceri e ha proseguito con rivolte in cui alcuni detenuti hanno tentato di prendere il controllo di alcune carceri bruciando e devastando tutto per renderle un posto inagibile. Quell’otto marzo le proteste ci hanno offerto le immagini di detenuti saliti sui tetti, del fumo che esce dalle sbarre delle celle e di detenuti in fuga. Ormai sono quattro giorni che in tutte le carceri, con più o meno coinvolgimento, molti detenuti protestano. Chiedono un provvedimento d’indulto per ridurre le pene a tutti o perlomeno un’amnistia perché possano uscire almeno quelli accusati di reati che prevedono pene minime. Chiedono l’applicazione degli arresti domiciliari per chi è in attesa di giudizio e ha una casa, o l’affidamento alle comunità di recupero per chi è tossicodipendente. Richieste che trovano comprensione soltanto da parte di chi conosce da vicino la realtà del carcere. Le associazioni degli avvocati, dei giuristi, degli accademici fanno appello al governo chiedendo di considerare la necessità di una riduzione della popolazione detenuta in carcere utilizzando altre forme di espiazione pena. Ma fuori, nella società, la situazione è un’altra: parlano solo di devastazioni, di fughe, di morti per overdose e di criminalità organizzata che tirerebbe le fila a livello nazionale di una protesta che rivendica provvedimenti, di cui non potrebbe neppure beneficiare. L’infrazione più grave che si può fare all’interno di un carcere è il mancato rientro in cella. Un tale comportamento, se messo in atto da un individuo, produce un protocollo d’intervento che giustifica l’utilizzo di ogni mezzo coercitivo utile a riportare il detenuto nella propria cella. Quando il mancato rientro vede protagonisti più detenuti si coinvolgono le varie forze dell’ordine per circondare il carcere e per aiutare la polizia penitenziaria a riportare i detenuti in cella. A quel punto iniziano le trattative perché i detenuti rientrino spontaneamente in cella. Quando questo non funziona si interviene con la forza. Per capire cos’è successo realmente dobbiamo aspettare che dalle macerie di questi giorni si cominci a riflettere su quello che questa tragedia ci può insegnare e che i detenuti comincino a scrivere e a raccontare. Per ora possiamo prendere atto che, in una dinamica di ristrettezze e promiscuità, il carcere rimane un ambiente insalubre, dove agenti e detenuti hanno un’altissima probabilità di essere contagiati. Di sicuro, il divieto di disporre di quel minimo di conforto offerto dal colloquio con i famigliari o dalla presenza di insegnanti e volontari è apparso poco efficace quando si è capito che il vero pericolo è quello di essere contagiati dalle persone recentemente arrestate e dal numeroso personale di custodia che ogni sei ore si dà il cambio nei vari reparti del carcere. Io credo che chiunque fosse oggi in carcere e avesse ancora pochi anni da scontare, farebbe di tutto per andare via da lì e scontare chiuso in casa il resto della pena. Prima che in carcere scoppi ormai l’inevitabile pandemia. Sospensione della pena per tutti detenuti malati e anziani osservatoriorepressione.info, 12 marzo 2020 Appello di associazione e singoli per un provvedimento immediato di sospensione della pena per tutte le persone detenute ammalate ed anziane. A Papa Francesco, Al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Al Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, Al Ministro della Sanità Roberto Speranza, Al capo del Dap Franco Basentini, Al Garante Nazionale Mauro Palma, Ai Parlamentari della Repubblica, Ai Senatori della Repubblica, Al Capo della Protezione Civile Angelo Borrelli Vista la drammatica emergenza sanitaria che sta colpendo la popolazione tutta riteniamo che le misure di prevenzione adottate rispetto alla popolazione detenuta siano assolutamente inadeguate a fronteggiare i rischi connessi ad un contagio che metterebbe a rischio oltre 61.000 persone. Va tenuto conto che tra la popolazione detenuta il 50% circa ha una età compresa tra i 40 e gli 80 anni, oltre il 70% presenta almeno una malattia cronica e il sistema immunitario compromesso. È del tutto evidente che la diffusione del virus all’interno delle carceri assumerebbe dimensioni catastrofiche. Limitare o proibire i colloqui familiari, l’accesso dei volontari e i permessi di uscita non mette al riparo dal rischio contagio. Quello che si è creato, e che va crescendo di ora in ora, è un clima di paura e insicurezza tra la popolazione detenuta, i familiari e il personale penitenziario che comunque è obbligato a garantire il servizio. Gli istituti penitenziari sono a tutti gli effetti luoghi pubblici, sovraffollati e promiscui con un via vai continuo di personale e fornitori che potrebbero diventare veicolo di contagio e scatenare una vera epidemia, pertanto non bisogna dimenticare che la popolazione detenuta, al pari del resto della popolazione, è tutelata dalla Costituzione e dalle carte internazionali dei diritti umani. Chiediamo che si intervenga con un provvedimento immediato di sospensione della pena per tutte le persone detenute ammalate ed anziane; chiediamo che il Parlamento vari una amnistia urgente per la rimanente popolazione detenuta. Adesioni Associazione Yairaiha Onlus, Osservatorio Repressione, Associazione Liberarsi, Associazione Bianca Guidetti Serra, Rifondazione Comunista, Associazione Memoria Condivisa, Associazione Il Viandante, Associazione Lasciateci Entrare, Ass. Culturale Papillon-Rebibbia, sezione Bologna, Associazione Fuori dall’Ombra, Comune-info, Giuristi Democratici, Federazione dei Verdi Foggia, Associazione Voci di dentro (CH), Comitato Provinciale Acqua Pubblica Torino. Pasquale Abatangelo, Yasmine Accardo, Giorgio Vianello Accoretti, Alessia Acquistapace, Laura Acquistapace, Damiano Aliprandi, Angela Antonia Aiello, Ilario Ammendolia, Giorvanni Arcuri, Mario Arpaia, Elisabetta Aritzu, Claudia Atzeni, Gennaro Avallone, Sonia Avenoso, Umberto Baccolo, Luisa Barba, Tiziana Barillà, Michela Balzamo, Lucio Barone, Angela Bernardini, Beppe Battaglia, Michela Becchis, Sandra Berardi, Valeria Bernabucci, Caterina Berretta, Domenico Bilotti, Donato Bisceglia, Monica Bizaj, Marco Boato, Anna Bolognesi, Francesco Bogliani, Simona Bombieri, Domenico Bruno, Adriano Bulla, Fortunato Cacciatore, Caterina Calia, Paola Calonico, Caterina Aurelia Cama, Francesca Cama, Lanfranco Caminiti, Rosy Canale, Carlo Cappellari, Annamonica Capezzera, Giovanni Carbone, Donato Cardigliano, Gabriella Carnino, Sergio Castiglione, Pietro Junior Catanzaro, Francesca de Carolis, Claudia Chierchia, Angela Chiodo, Marco Clementi, Maria Rotonda Chianese, Franco Cilenti, Maurizio Ciotola, Rosalba Ciranni, Francesco Cirillo, Valentina Colletta, Sissi Contessa, Edoardo Corasaniti, Marianeve Costa, Ilenia Cotardo, Nicoletta Crocella, Gioacchino Criaco, Francesca Crisafulli, Simonetta Crisci, Aurora D’Agostino, Nicola D’Amore, Giuseppina D’Elia, Nunzio D’Erme, Angela De Angelis, Maria Carmela De Angelis, Pasquale De Angelis, Elisabetta Della Corte, Lucrezia Della Vecchia, Maria Valeria Della Mea, Martina Del Villano, Stefania Del Villano, Antonella Dalmazio, Dario Desto, Domenica De Angelis, Mario Eustachio De Bellis, Immacolata De Masi, Donatella Diamanti, Renato Di Caccamo, Delio Di Blasi, Ila Di Fiore, Antonio Di Ruggiero, Italo Di Sabato, Giuliana Falaguerra, Sergio Falcone, Jenny Federigi, Alessandro Fo, Eleonora Forenza, Gianfranco Fornoni, Gabriella Fragiotta, Francesca Frasca, Giuseppe Frasca, Stefania Frasca, Marco Frigerio, Gian Paolo Galasi, Biagio Garofalo, Emanuela Garofalo, Fabio Garofalo, Toni Germani, Andreina Olga Ghionna, Yvonne Graf, Antonio Greco, Daria Gigliotti, Serena Gigliotti, Valerio Guizzardi, Angelina Gullì, Domenico Hanaman, Marta Imbriani, Pietro Ioia, Maria Jerino, Giuseppe Lanzino, Melissa Lapetina, Emilia Latempa, Chiara Lazzerini, Giuseppe Lentini, Luca Leone, Agostino Letardi, Simoneta Lilliu, Laura Longo, Francesco Lo Piccolo, Domenico Losquadro, Raffaella Mangano, Donatella Marchese, Melissa Mariani, Cristina Marino, Peppe Marra, Cristina Martella, Irene Martinengo, Francesca Nesci, Emanuela Milzani, Federica Minetto, Rosa Monicelli, Deborah Morano, Sarah Mounir, Carmelo Musumeci, Michela Noberasco, Bruna Nocera, Giampiera Nocera, Marco Noris, Sante Notarnicola, Maurizio Nucci, Nadia Pagani, Grazia Paletta, Salvatore Palidda, Diana Paoli, Pamela Pappaletto, Chiara Pardo, Andrea Perissi, Valentina Pascarella, Alessandra Pepe, Antonio Perillo, Beatrice Perotti, Caterina Pino, Giuliana Pino, Carla Pino, Mario Pino, Maria Teresa Pintus, Antonino Pititto, Francesca Polito, Mario Pontillo, Anna Portente, Claudio Ranieri, Paolo Rausa, Roberto Renzoni, Vittorio da Rios, Luigi Romano, Stella Romano, Vincenzo Romano, Pupa Rossi, Giovanni Russo Spena, Roberta Salardi, Nino Santisi, Andrea Santoianni, Orlando Sapia, Daniera Sartori, Giuliana Sano’, Mario Taddeucci Sassolini, Vincenzo Scalia, Antonietta Scotti, Maria Elena Scandaliato, Antonella Sangiorgio, Annamaria Santoro, Nicla Scatizzi, Annalisa Senese, Mammino Sharon, Claudio Secchiati, Mariagiovanna Silvano, Vera Silveri, Fabio Sinopoli, Francesca Sinopoli, Ilaria Solla, Lisa Sorrentino, Mario Spada, Giovanna Sposato, Veronica Sposato, Fabio Sulpizio, Francesco Suriano, Olivia Tersigni, Manola Testai, Giusy Torre, Elisa Torresin, Carmen Veneruso, Stefano Veneziano, Carla Ventre, Giulia Villabruna, Annamaria Vitale, Antonio Vitale, Chiara Vitale, Natalina Vitale, Teresa Vitale, Francesca Volpintesta, Ilaria Zampatori, Stefania Zani, Sonia Zanotti Rivolta nelle carceri: sotto accusa il responsabile dei penitenziari di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 12 marzo 2020 Il Pd chiede accertamenti e Italia viva la rimozione di Francesco Basentini, ex procuratore aggiunto di Potenza chiamato a capo dell’amministrazione penitenziaria da Bonafede che però non annuncia provvedimenti. Il contagio delle carceri in subbuglio finisce per coinvolgere il capo dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini, l’ex procuratore aggiunto di Potenza chiamato dal ministro della Giustizia Bonafede a governare le prigioni d’Italia. Dall’interno della maggioranza di governo i renziani di Italia viva ne chiedono l’immediata rimozione, Leu ne sottolinea “ritardi, indecisioni e balbettii”, il Pd chiede accertamenti. Tre partiti su quattro, nella sostanza, lo sfiduciano dopo le rivolte di cui ieri è stata aggiornata la contabilità: tredici morti (“come neanche nelle carceri degli anni di piombo”, accusa il Garante dei detenuti di Milano Francesco Maisto) e nuove sollevazioni nel carcere fiorentino di Sollicciano, apparentemente sedate. Ma il Guardasigilli, per adesso, non annuncia provvedimenti nei confronti del responsabile delle carceri. Nel bilancio dei disordini, prima dei morti annota gli “oltre quaranta feriti della polizia penitenziaria, a cui va tutta la mia vicinanza e l’augurio di pronta guarigione”, e afferma con solennità: “Fuori dalla legalità e addirittura nella violenza non si può parlare di protesta; si deve parlare semplicemente di atti criminali”. Riferisce che nelle rivolte sono state coinvolti circa 6.000 detenuti in oltre venti istituti, “in quasi tutte le regioni d’Italia”, ma solo una minoranza di essi hanno dato vita alle violenze, in particolare a Napoli, Modena e Foggia. “È giusto - spiega - ascoltare le rivendicazioni che arrivano dai detenuti che rispettano le regole e dimostrano di seguire un percorso di rieducazione vero. Ma dobbiamo anche avere il coraggio e l’onestà di dire che tutto questo non ha nulla a che fare con gli incendi, i danneggiamenti, le devastazioni, addirittura le violenze”. E conclude: “Lo Stato italiano non indietreggia di un centimetro di fronte all’illegalità”. A parte i Cinque stelle, però, e a parte la solidarietà di tutti alla polizia penitenziaria, nessuno è completamente d’accordo con il ministro. Né sul giudizio sulle rivolte, né sulle contromisure rispetto a un sistema carcerario in sempre maggiore sofferenza messa in evidenza dalle misure anti-contagio per l’emergenza coronavirus. La scintilla che ha fatto scattare le proteste, infatti, al di là di presunte “regie occulte” su cui anche alcune Procure stanno svolgendo indagini, è stata la sospensione temporanea dei colloqui tra i detenuti e i loro familiari per evitare il pericolo che il contagio entri anche negli istituti di pena. Si va dal Pd che chiede altre misure per alleggerire il sovraffollamento (per esempio concedere subito la liberazione anticipata a chi ha pochi mesi da scontare) alle opposizioni (Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia) che invocano le dimissioni del capo del Dipartimento e, a ruota, dello stesso Bonafede. Fino ai radicali che accusano: “I problemi del carcere non sono causati né dai detenuti né dagli agenti penitenziari, ma dallo Stato che viola la Costituzione, i trattati internazionali sottoscritti, le proprie leggi”. Insoddisfatti e “delusi” anche i sindacati della polizia penitenziaria. Sebbene le rivolte sembrino rientrate, quindi, l’emergenza carceri continua. E se possibile peggiora, visto che con i disordini che hanno devastato alcuni istituti ci sono 2.000 posti disponibili in meno, che fanno salire a oltre 12.000 i detenuti in sovrannumero rispetto alla capienza delle prigioni. Con le “misure minimali” proposte non solo dal Pd, ma anche dall’Associazione Antigone, dall’Unione Camere penali e che potrebbero essere ufficialmente proposte, a breve, dal garante nazionale dei detenuti, potrebbero “liberarsi” 1.060 posti se si concedesse ai semiliberi di non rientrare in cella la sera, e altri 3.785 se venissero liberati subito i condannati che finiranno di scontare la pena entro i prossimi sei mesi. La parola passa nuovamente al ministro Bonafede, che dovrebbe anche decidere il destino del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Probabilmente dopo avere svolto ulteriori verifiche dopo la gestione della crisi che ha portato alle sommosse. Giovanni Bianconi Basentini: “Per ricostruire le carceri, serve collaborazione” di Marco Grieco interris.it, 12 marzo 2020 Il capo del Dap chiarisce la dinamica che ha portato alla drammatica rivolta nelle carceri. “Non c’è più tempo” è il mantra che rimbomba da Palazzo Chigi a via Arenula, e che evoca un’emergenza dentro l’altra. Perché oggi, ad allarme rientrato, delle rivolte nelle prigioni italiane non restano che pochi focolai. Ma il bilancio è pesante: 12 morti per overdose, 8 detenuti in fuga nel foggiano, 600 posti letto distrutti, 20 milioni di euro di danni. E così quella che sembrava un’emergenza esclusivamente sanitaria ha invaso altri aspetti del sistema, quelli che rivelano un’Italia fragile, come il sistema penitenziario. Si calcola che nel Paese almeno 10mila detenuti siano oltre la capienza consentita dalle attuali carceri. Strutture che, a loro volta, sono fatiscenti, e lo dimostra la multa da cento milioni di euro comminata dalla Cedu di Strasburgo dopo la sentenza Torreggiani per via di soli 3 metri a detenuto. Queste ad altre criticità fanno parte della trama complessa del sistema penitenziario. “Nella protesta, non si parla di violenza, ma di atti criminali” ha ribadito il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, nella relazione alla Camera di ieri pomeriggio. Le forze politiche chiedono chiarezza, le procure stanno indagando su un’eventuale regia esterna che abbia coordinato tutto. Per il Capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, Francesco Basentini, non è il tempo delle ipotesi. Ora si tratta di agire, procedendo alla sicurezza dei detenuti e delle strutture che li ospitano. Come risponde a chi chiede le sue dimissioni da capo del Dap? “Semplicemente non rispondo”. Cosa ha scatenato il caos nelle carceri del Paese? “Il perché di ciò che è successo ha sicuramente un ordine di ragioni, ha dei contenuti apparenti ed altri che ‘non sono emersi’. Attenendoci alla ragione manifestata dai detenuti, si è trattato di una preoccupazione di contagio all’interno delle strutture penitenziarie”. A proposito di questo, quali provvedimenti sono stati adottati dal Dap? “Il 22 febbraio scorso è stata emanata la prima circolare in cui si davano precise disposizioni in cui si richiamano le disposizioni dalla Protezione Civile e del Ministero delle Salute. La seconda circolare è stata emanata il 25 febbraio scorso ed era decisamente più rigorosa: in essa, sempre a tutela della salute dei detenuti e del personale penitenziario, si ponevano accorgimenti che non inficiavano in nessun modo i diritti dei detenuti. Non si faceva nessun intervento sui colloqui, sui trattamenti, sulla sospensione dei permessi”. Il 26 febbraio è stata emessa l’ennesima circolare, in sinergia con i provvedimenti del governo, in cui il Dipartimento ha avuto il ‘coraggio’ di prendere una serie di misure per prevenire il contagio. Con questa circolare si raccomandava tutti i provveditori e gli operatori penitenziari di informare i detenuti sulla situazione e sulle cautele necessarie da tenere. Inoltre si diceva di ‘comunicare, dialogare con detenuti’ e ‘concordare con essi le azioni da adottare per limitare il rischio di contagio’. In buona sostanza, l’idea era quella di trovare il consenso dei detenuti per poter intervenire, in mancanza di una norma, sulle modalità di esercizio dei loro diritti. La politica del Dap è stata sempre quella di trovare una soluzione assieme ai detenuti”. La rivolta nel carcere di Poggioreale Cosa è accaduto l’8 marzo, quindi? “Le idee sviluppate nei nostri provvedimenti sono state ratificate nei provvedimenti del Governo. Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8 marzo 2020, il Governo raccomanda di sostituire i colloqui visivi con quelli a distanza e di poter agevolare, attraverso la magistratura di sorveglianza, i provvedimenti di concessione della detenzione domiciliare. Con decreto legge dell’8 marzo del 2020, le stesse proposte trovano collocazione nella norma d’emergenza”. Qual è il suo commento per le morti di overdose, invece? “Nelle nostre carceri, abbiamo un’alta percentuale di detenuti tossicodipendenti. Secondo quanto emerge dalle prime evidenze acquisite, una delle prime cose fatte dai detenuti, in occasione delle rivolte, è stata quella di prendere possesso dei locali infermeria, dove ci sono metadone e psicofarmaci. Una parte di loro ne avrebbe fatto uso smodato procurandosi uno stato di overdose. Il dramma di Modena si è ripetuto esattamente a Rieti: stessa modalità. Ritengo che su tali decessi gli accertamenti di indagine della magistratura requirente serviranno a ricostruire l’esatto accadimento dei fatti. Questi episodi non mostrano la fragilità del sistema penitenziario? “Più che di fragilità, parlerei di complessità di un sistema su cui, a livello strutturale e organico, per anni non si è investito. Una delle criticità più serie deriva dall’assistenza sanitaria. La sanità pubblica è già in difficoltà: chi vive in una condizione di assembramento obbligato, si sente preoccupato. L’occasione è stata utile per far emergere una serie di carenze e una voglia di libertà dei detenuti”. Come intendete procedere? “Adesso dobbiamo lavorare per ripristinare la sicurezza degli ambienti e ricostruire un clima di serenità. Abbiamo seri problemi per l’utilizzabilità di strutture. Modena è inutilizzabile, aveva 500 posti detentivi. Il mio auspicio è che si lavori per garantire la sicurezza nelle carceri, si continui a lavorare per incentivare la prevenzione dal contagio, ma occorre il contributo di tutti e soprattutto degli stessi detenuti. Una parte consistente di essi non ha preso parte alle proteste. C’è una stragrande maggioranza che ha manifestato dissenso in maniera accettabile, senza l’uso della violenza. C’è bisogno della collaborazione buona di questi detenuti. Muoviamoci con senso di responsabilità e dovere”. Finite le proteste restano le macerie di un sistema penitenziario già in crisi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 marzo 2020 Il drammatico bilancio è di quindici detenuti morti, si attendono le autopsie. Ora, salvo sorprese, nelle carceri italiane è ritornata la calma. Si è esaurita nel tardo pomeriggio di ieri la protesta scoppiata al carcere di Sollicciano. Protesta, in questo caso, scaturita dai timori di contagio da Covid-19 dovute al fatto che un allievo dei corsi per Agente di polizia penitenziaria, che stava effettuando il tirocinio formativo a Sollicciano, sia stato trovato positivo al coronavirus. Tra l’altro nasce un giallo. Gennarino De Fazio, il leader del sindacato Uil-pa, denuncia che già con il Dpcm del 4 marzo scorso era stata disposta la sospensione delle attività didattiche presso le scuole di ogni ordine grado con alcune eccezioni. “Fra quelle eccezioni erano ricomprese le scuole di talune Forze dell’Ordine, ma non di quelle della Polizia penitenziaria”, tuona il sindacalista. Sottolinea che tale disposizione è stata confermata con il successivo Dpcm dell’8 marzo, “ma solo oggi pomeriggio, 11 marzo 2020, sono state disposte le sospensioni delle attività didattiche presso le Scuole della Polizia penitenziaria (177° corso Agenti) fino al 3 aprile”. Finite, per ora le proteste, lo Stato italiano si ritrova a fare i conti con gli inevitabili danni, sezioni intere inagibili e trasferimenti dei detenuti in altri penitenziari. Un problema enorme visto che la conseguenza è un ulteriore ingolfamento delle carceri già sovraffollate. Tra le macerie della tragedia annunciata ci sono 15 detenuti morti. Nove solo al carcere di Modena, quattro a Rieti e due a Bologna. Ma forse la conta macabra potrebbe aumentare visto che ci sono ancora alcuni detenuti in rianimazione. Non è certa la causa dei decessi e tutto questo dovrà essere accertata tramite l’autopsia. Il Dubbio ha potuto apprendere che, nella giornata di oggi, almeno nel caso dei nove morti del carcere di Modena, saranno tutti sottoposti a tampone e in seguito verrà eseguita l’autopsia. Intanto continuano senza sosta le attività di ricerca dei detenuti evasi durante la rivolta del carcere di Foggia. Dei 72 evasi, ben 61 sono stati catturati o si sono costituiti. Arrivano intanto segnalazioni, tutte da verificare, di possibili ritorsioni - da parte di alcuni agenti penitenziari - nei confronti dei rivoltosi. Se così fosse, sicuramente il Dap farà accurate indagini visto che alla violenza, lo Stato di Diritto non risponde con altrettanta violenza. Il Sistema penitenziario è in crisi, ma da tempo e forse tutto ciò poteva essere evitato se il governo precedente avesse approvato in toto la famosa riforma dell’ordinamento penitenziario dell’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando, il quale è attualmente nella maggioranza di governo. Ora si paga lo scotto di una forte crisi in piena emergenza coronavirus: nelle carceri italiane, il Convid-19, è sempre in agguato e diventerebbe difficile mettere in atto gli isolamenti sanitari. Le polemiche contro il ministro della giustizia Bonafede e del Dipartimento penitenziario non mancano. Tutte le sigle sindacali e i partiti politici si sono scagliati contro. Ma per motivi diversi. Chi chiede il pugno di ferro, chi invece chiede subito misure alternative alla pena carceraria per alleggerire i penitenziari e invoca soprattutto dimissioni del guardasigilli per non aver saputo prevenire tale tragedia. “La situazione delle carceri italiane è molto grave anche a causa di una gestione assolutamente inadeguata da parte del governo e dei massimi dirigenti del dipartimento”, dice Pompeo Mannone, il segretario della Federazione Nazionale della Sicurezza della Cisl. “Quello che sta accadendo era facilmente prevedibile vista la situazione davvero incresciosa in cui versano i nostri istituti penitenziari”, spiega Mannone. “Ormai sanno tutti che le nostre carceri - sottolinea il segretario della Fns Cisl - hanno almeno 10 mila detenuti in più rispetto alla capienza consentita e ci sono 5 mila poliziotti in meno. Aver messo in pericolo il personale è una cosa gravissima, sono 40 i poliziotti feriti cui va tutta la nostra solidarietà e vicinanza. Si poteva fare meglio e di più, non è pensabile che il sindacato venga convocato a fatti già accaduti: c’era la necessità di una condivisione ampia di misure per cercare di tamponare una situazione di per sé già pesante e drammatica”. Le carceri italiane stanno esplodendo: ecco come evitarlo, prima che sia troppo tardi di Agnese Pellegrini Famiglia Cristiana, 12 marzo 2020 Rivolte, morti e feriti, evasioni di massa. Gli incidenti di questi giorni nascono dal Coronavirus ma sono il prezzo di anni di politiche che hanno portato tutto il sistema penitenziario al collasso. È ora di fare qualcosa, cominciando da una modesta proposta. La terribile rivolta in molte carceri italiani che ha mietuto 14 morti e fatto registrare una ventina di evasi sembra ora sotto controllo, anche perché in realtà le proteste volevano essere un’azione dimostrativa, e non distruttiva. E tuttavia il bilancio è pesante: una trentina di istituti penitenziari, in tutta Italia, messi a ferro e fuoco, quasi contemporaneamente, come se davvero i detenuti si fossero passati parola; oltre ai reclusi morti, la maggior parte per overdose, alcuni agenti penitenziari feriti, e tante, tante celle devastate. Perché, in carcere, non circolano armi e nemmeno esplosivi, ma a dare fuoco a un materasso basta un attimo, anche se rischi l’intossicazione (e di detenuti intossicati ce ne sono stati molti in questi giorni). A leggere questi tragici avvenimenti in filigrana emerge dunque una evidente fragilità del sistema Stato: 60 mila detenuti, circa 15 mila in più di quanto i penitenziari italiani potrebbero contenere, sono potenzialmente in grado di creare un serio problema di ordine sociale, particolarmente in un momento di emergenza. Non a caso, il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, in un messaggio ha subito rassicurato i detenuti sulla ripresa dei colloqui con i famigliari, sospesi per evitare il contagio del Coronavirus, il pretesto che ha scatenato le insurrezioni. Se non lo avesse fatto, probabilmente nessuno (Dap - Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Prap - Provveditorato regionale, responsabili istituzionali e forze dell’ordine) avrebbe potuto evitare un’escalation ancor più drammatica. Le scene trasmesse in televisione e sui social farebbero sorridere, se non fossero angoscianti: detenuti che, da nord a sud, salgono sui tetti come fossero un terrazzo su cui prendere il sole; finestre di penitenziari da cui escono nuvole nere di fumo; addirittura a Foggia un gruppo di persone che sradicano il cancello della Block house (il limite tra il perimetro del carcere e la libertà) e si arrampicano sulle inferriate con apparente facilità... Va detto subito che le proteste sono ammissibili e legittime soltanto nella misura in cui non sono violente. Qualsiasi azione non pacifica va condannata, assolutamente. Ma la situazione che si è creata la dice lunga sul grado di resistenza del sistema carcere, logorato da anni di politiche che hanno visto più tagli che investimenti e che hanno prodotto una condizione al collasso: celle invivibili (l’ Europa ha condannato l’ Italia perché mancano gli spazi minimi richiesti), sovraffollamento endemico, difficoltà di accesso alle cure mediche e alle pratiche più basilari di igiene, mancanza di risorse per prevedere attività trattamentali, carenza di personale: educatori, operatori e anche agenti penitenziari che, spesso, si trovano a essere sminuiti nel loro ruolo e a dover affrontare circostanze ingestibili. “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”, diceva Voltaire; e Papa Francesco, durante il Giubileo dei detenuti celebrato nel 2016 in Vaticano, a migliaia di reclusi arrivati da tutte le carceri italiane ha confessato: “Ogni volta che entro in un carcere mi domando perché voi e non io”, ricordando che “a volte una certa ipocrisia spinge a vedere in voi solo delle persone che hanno sbagliato, per le quali l’unica via è quella del carcere. Non si pensa alla possibilità di cambiare vita, c’ è poca fiducia nella riabilitazione. Ma in questo modo si dimentica che tutti siamo peccatori e, spesso, siamo anche prigionieri senza rendercene conto”. Un concetto che il Pontefice ha richiamato durante l’omelia, lo scorso 24 dicembre: “Natale ci ricorda che Dio continua ad amare ogni uomo, anche il peggiore... Quante volte pensiamo che Dio è buono se noi siamo buoni e ci castiga se siamo cattivi. Non è così. Nei nostri peccati, continua ad amarci”. La dignità di ciò che siamo non è data da ciò che facciamo, o che abbiamo fatto, ma dall’ essere figli di Dio. E lo siamo tutti. Anche Caino. Che ha ucciso Abele, ma che ha cambiato vita, per dirla con Papa Francesco. Forse, anche la politica dovrebbe fare uno sforzo in più in questo senso, proprio sulla base che la costituzione italiana affida alla pena una finalità rieducativa, e non di mero castigo o, peggio, di tortura. E, forse, andrebbero davvero presi in considerazione provvedimenti - come proprio attraverso Famiglia Cristiana chiedeva ieri don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani penitenziari - che “alleggeriscano” le patrie galere, prevedendo una moratoria dell’esecuzione penale per chi ha residui di pena bassa. Pochi giorni fa, in un’intervista a un quotidiano, Silvio Di Gregorio, direttore del carcere di massima sicurezza di Opera, l’istituto italiano con il maggior numero di detenuti al 41 bis (il carcere duro a vita), ebbe a dire in proposito: “Penso che periodicamente possa procedersi a una azione misericordiosa”. E viene in mente il versetto di Matteo (9,3) quando Gesù, riportando le parole del profeta Osea, ricorda: “Misericordia voglio, e non sacrificio”. Commentandolo, Papa Francesco disse: “Non c’ è santo senza passato, né peccatore senza futuro”. Magari, questo potrebbe essere un tempo fecondo per risolvere l’annosa questione delle carceri italiane. Il carcere è questo: un luogo di poveracci e disperati di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 12 marzo 2020 Ora, dopo le rivolte, abbiamo un’emergenza da tamponare. L’ondata di rivolte che ha attraversato le carceri italiane sembra essersi calmata e adesso si traggono bilanci. Il ministro Alfonso Bonafede è in queste ore in Parlamento a riferire al proposito. Dodici morti, diciannove evasi, 6mila detenuti coinvolti nei disordini, 600 posti letto inagibili, danni per 35 milioni di euro cui si aggiungono 150.000 euro di psicofarmaci rubati. Oggi è tempo di contare i danni, di preoccuparci per il tasso di sovraffollamento accresciuto dalle devastazioni, di indagare su un’improbabile ipotesi di regia esterna per le proteste. Ed è anche il tempo di stigmatizzare le modalità di queste proteste, perché mai la violenza deve essere avallata quale strumento per risolvere i problemi, neanche nelle situazioni più estreme. Ma domani speriamo che divenga il tempo di disegnare altri bilanci. Speriamo di imparare qualcosa da questi drammi. Che divenga il tempo di guardare allo spaccato che queste rivolte ci hanno mostrato, uno spaccato che quotidianamente, e non solo in tempi di coronavirus, vive in quelle mura dentro le quali tendenzialmente non ci piace guardare. Se le indagini confermeranno che le morti sono state dovute a overdose da farmaci, dodici persone avrebbero approfittato dei tumulti per assaltare l’infermeria del carcere e bersi metadone o altra sostanza fino a morirne. Dodici persone erano così disperate e così tossicodipendenti da crepare attaccati a una boccetta di liquido. Sono decenni che lo raccontiamo: il carcere è questo. È prima di tutto e soprattutto un luogo di raccolta di poveracci e di disperati, i cui problemi si potrebbero affrontare con ben altri strumenti - con il welfare, la solidarietà statale, le politiche sanitarie - rispetto all’inutile galera. Usare la sola repressione contro la tossicodipendenza non ha alcun senso, né umano né di politica criminale. Soldi e vite sprecate. E allora magari alla fine di tutto questo, quando auspicabilmente il coronavirus sarà lasciato alle spalle, potremo ragionare su una seria riforma penale in Italia, ricordandoci anche che abbiamo un codice che ci è stato lasciato dal fascismo nel 1930. Tutto questo, però, domani. Oggi abbiamo ancora un’emergenza da tamponare, fuori e dentro le carceri. Per quanto riguarda queste ultime, Antigone ha appena presentato un pacchetto di proposte che, in maniera normativamente più articolata, ricalcano quanto andiamo dicendo ormai da settimane: prima di tutto che i numeri del carcere vanno in fretta deflazionati, altrimenti non saremo in grado di affrontare la sciagurata, ma pur possibile, eventualità che il virus vi faccia ingresso. Gli strumenti di legge che consentono la detenzione domiciliare - un allargamento della quale è stato auspicato dallo stesso Governo nel decreto dell’8 marzo scorso - a chi ha un residuo breve di pena da scontare già esistono. Oggi la magistratura di sorveglianza deve darsi da fare a esaminare ogni fascicolo e chiudere in casa tutti i detenuti che rientrano in questa possibilità. Le patologie a rischio in caso di contagio, inoltre, devono essere fatte rientrare tra le ipotesi di concessione della detenzione domiciliare e dell’affidamento ai servizi sociali. I detenuti in semilibertà, dunque già valutati come non pericolosi, possono essere lasciati a dormire a casa. Molti provvedimenti di esecuzione della pena per chi ha aspettato il processo a piede libero possono essere momentaneamente sospesi: chi è stato libero fino a oggi può restarlo un altro mese ancora, fino a quando non sconfiggeremo il virus. Inoltre, per chi rimane dentro, è necessario ampliare l’uso del telefono. La paura causata dall’isolamento dal mondo esterno è stato il vero motore delle rivolte. La possibilità del contagio ha creato il terrore nelle sezioni, e il fatto di non poter avere notizie dei propri cari lo ha acuito. Nella prima delle proposte pubblicate oggi da Antigone si legge che “la direzione di ciascun istituto penitenziario provvederà all’acquisto di uno smartphone ogni cento detenuti presenti - con attivazione di scheda di dati mobili a carico dell’amministrazione - così da consentire, sotto il controllo visivo di un agente di polizia penitenziaria, una telefonata o video-telefonata quotidiana della durata di massimo 20 minuti a ciascun detenuto ai numeri di telefono cellulare oppure ai numeri fissi già autorizzati”. Il cellulare in carcere è un eterno tabù, chissà che non sia questa l’occasione per superarlo. Un altro spaccato di realtà che questa situazione ha fatto emergere è quello di un’Italia penitenziaria a macchia di leopardo, dove l’iniziativa è troppo spesso lasciata alla buona volontà del singolo operatore e dove ogni carcere è un mondo a sé a seconda di chi lo dirige. In alcuni istituti i direttori, come da subito Antigone aveva spinto a fare, sono andati nei reparti, hanno convocato assemblee di detenuti, hanno spiegato le misure prese dal Governo e la loro provvisorietà, hanno invitato chiunque a cooperare con senso civico. E poi hanno messo in campo tutti gli strumenti possibili per far comunicare i detenuti con le loro famiglie. È successo a Reggio Calabria, a Lecce, è successo nel carcere femminile di Rebibbia, è successo a Trieste e in vari altri istituti. In alcuni tribunali di sorveglianza si sono concesse licenze di due settimane a tutti i detenuti semiliberi (ripetiamo: sono coloro che già sono stati valutati non pericolosi e che hanno tenuto un comportamento penitenziario corretto). È successo a Roma, è successo a Napoli. Altrove, invece, si sono presi provvedimenti restrittivi con il solo scopo di coprirsi le spalle da eventuali critiche sulla gestione sanitaria, senza valutare se tali provvedimenti fossero realmente utili a prevenire i contagi. L’Italia della razionalità contro l’Italia della paura. L’Italia che usa la testa contro l’Italia che si affida alla pancia. Si è visto come è finita. Quando tutto questo sarà passato, speriamo che ne uscirà rafforzata la prima. *Coordinatrice associazione Antigone Per fermare le rivolte in carcere occorrono segnali di speranza di Maria Brucale linkiesta.it, 12 marzo 2020 Per i detenuti l’emergenza coronavirus ha un impatto diverso rispetto ai cittadini liberi: non hanno il controllo della propria vita e sono relegati in spazi stretti, dove il contagio potrebbe propagarsi in pochissimo tempo. Per calmarli serve un gesto di umanità da parte dello Stato. Sono trascorsi anni da quando, con gli Stati Generali sull’esecuzione penale, si era avviata una vasta operazione culturale per riportare il carcere al centro della comunità e l’uomo al centro di una visione costituzionale della pena da intendere non più come un percorso sterilmente punitivo bensì come una tensione alla rieducazione ed al recupero dell’individuo. Anni produttivi di idee e di percorsi, animati da una pulsione civile alta, quella di dare un senso all’afflizione connaturata alla privazione della libertà, tradurla in una proiezione di utilità sociale concreta, di restituzione del recluso al proprio mondo intatto, familiare, lavorativo, sociale. La riforma dell’ordinamento penitenziario, tuttavia, insieme alla passione civile che la aveva sospinta, si è ancorata travolta da pulsioni di segno opposto che relegano il carcere a un processo eliminativo e meramente sanzionatorio, un capro espiatorio cui indirizzare miserie e sentimenti di oppressione e di insoddisfazione. Un muro oltre il quale confinare i cattivi per l’illusione di essere buoni e al sicuro. La carcerazione è un tempo durante il quale la presenza nella società dell’individuo detenuto si è sospesa e ha generato una condizione che diviene perno e direzione della vita non solo del ristretto ma anche della sua famiglia e suddivide i giorni in pacchi di vestiario e di alimenti, viaggi per destinazioni lontane dalla propria casa, visite di colloquio, vaglia postali, ricezione di telefonate, spese legali. Una condizione, la detenzione, che è in sé mutilazione di vita, frattura di rapporti, interruzione di ogni attività lavorativa, esclusione. Il carcere è privazione, afflizione, mortificazione quotidiana, negazione dei più elementari diritti, frustrazione costante della personalità, menomazione della sfera affettiva, annichilimento della natura stessa di uomini. Il carcere ti piega, ti umilia, ti rende servo obbediente e silenzioso, ti spoglia della volontà costringendoti ad accantonarla, ti aliena, ti annienta gli istinti forzandoti a domarli, reprimerli, sconfessarli, trasformarli, custodirli, schiacciarli. Il carcere nega all’uomo di essere uomo. Il detenuto non dispone di sé, non ha il controllo della propria vita, è, nella sostanza, deresponsabilizzato e tenuto a relegare in spazi imposti ogni espressione della propria individualità. In una situazione simile, l’irrompere di un’emergenza si palesa con un chiaro potenziale esplosivo. I mezzi di informazione, tutti, propagano la notizia di un virus venuto dalla Cina, ad altissima capacità di diffusione, impietoso con gli anziani, anche letale. Arrivano le prime indicazioni di attenzione e di precauzione: l’igiene personale accurata, l’uso di prodotti disinfettanti per le mani, la necessità di evitare i contatti, le strette di mano, gli abbracci. Arriva la paura, per tutti. Ma in carcere la paura è un sentimento diverso che non fa i conti soltanto con la capacità di ognuno di autocontrollo ma con i sentimenti di una umanità reclusa che non dispone del proprio tempo e che è sottratta ai propri affetti; che non può scegliere di quali presidi di igiene dotarsi; di frequentare o meno locali promiscui e sporchi; di rispettare una distanza di sicurezza gli uni dagli altri. Nelle nostre carceri si sta stipati in spazi asfittici e luridi, tarlati da muffe e non adeguatamente areati e illuminati, in un convivere coatto sempre difficile di persone di etnie ed abitudini di vita diverse. Il contagio è qualcosa da cui non ci si può difendere. E il mondo di fuori, quello degli affetti e della speranza, quello a cui tornare, è sempre più lontano, indefinito, informe. È il 23 febbraio quando per molti detenuti di alcune carceri del nord Italia arriva la doccia fredda: le persone che hanno diritto di andare in permesso non possono uscire. Lo apprendono all’improvviso, senza avere il tempo di avvisare. Da quel momento è un susseguirsi di nuove e più stringenti limitazioni dal divieto di ingresso per i volontari che sostengono i ristretti in attività trattamentali e in progetti formativi e ricreativi fino alla sospensione dei colloqui con i familiari per quindici giorni, da sostituire con un accesso più agile alle telefonate o ai colloqui tramite Skype ove possibile. Le persone ristrette avvertono la precarietà del loro essere nelle mani dello Stato e si sentono lasciate sole ad un vivere recluso di mera e aggravata afflizione menomata dell’aspetto rieducativo, anima costituzionale di ogni pena. È l’emergenza nell’emergenza e un sentimento di disperazione sotterraneo e palpabile esplode dentro alle mura e si traduce nella violenza delle rivolte. Violenza da condannare, certo, sempre, ma una condanna che non può non muovere dalla comprensione che si deve a gesti scaturiti da angoscia e struggimento e che deve tradursi in un approccio di risoluzione di una crisi fin troppo prevedibile ed annunciata. Chi governa e ha governato in passato ha gravissime responsabilità. Ha colpevolmente ignorato una situazione di sofferenza sempre più patologica ed opprimente animando nella collettività sentimenti antisociali e coltivando un concetto di giustizia ottusamente vendicativa. Nelle persone in carcere hanno acuito la percezione di un muro invalicabile che si traduce in isolamento, impotenza, abbandono. Oggi per sedare animi in rivolta non servono nuove e più stringenti limitazioni, non saranno taser e pieni poteri di controllo e di punizione concessi ai comandanti a contenere la rabbia e la paura esplose di uomini in cattività. La parola clemenza appare reazionaria a fronte di un concetto di giustizia sempre più in osmosi con il concetto di pena e di pena in carcere sospinto da malcelate pulsioni di vendetta privata ma amnistia e indulto appaiono soluzioni di lucida gestione di un’emergenza difficilmente superabile. Occorre richiamare le autorità giudiziarie affinché concedano, tenendo presenti le esigenze di sicurezza, in sede esecutiva e in sede cautelare, quanto più possibile la detenzione o gli arresti domiciliari e si ispirino a quella norma, già essenza del nostro sistema ordinamentale, che vede nel carcere l’extrema ratio, quando ogni altra misura risulti inadeguata. Il ministero richieda con urgenza la disponibilità di un numero di braccialetti elettronici ben maggiore di quelli ad oggi disponibili. Si adottino misure di riduzione della pena da espiare quali la cosiddetta “liberazione anticipata speciale” con effetto anche sulla pena già valutata e ancora in espiazione e a tutti i detenuti, indistintamente. Si renda effettiva in tutte le carceri la comunicazione via Skype e più frequente l’uso del telefono. Si dotino le celle di presidi igienici adeguati. Si tenti di attenuare la pressione emotiva subita dai detenuti nelle nostre carceri, attraverso misure concrete di aiuto coerenti ai dettami imposti da un’emergenza sanitaria internazionale. Si offrano segnali di speranza. Svuota-carceri now! di Claudio Cerasa Il Foglio, 12 marzo 2020 L’illegalità è il sovraffollamento. Indulto o misure alternative per chi ha diritto. Mentre la situazione delle carceri italiane resta lontana dall’essere sotto controllo, mentre il capo del Dap Francesco Basentini è ancora inspiegabilmente al suo posto, il ministro di Giustizia Alfonso Bonafede ha riferito al Senato che nei giorni scorsi si sono verificati soltanto pochi “atti criminali ascrivibili ad una ristretta parte dei detenuti” e ha annunciato una relazione. Ha parlato anche di situazioni “fuori dalla legalità”. È purtroppo del tutto evidente che la prima cosa, e la più grave, ad essere da decenni fuori dalla legalità è la situazione (e la gestione) interna agli istituti di pena italiani, indecenza per uno stato di diritto che è costata al nostro paese condanne e sanzioni in sede europea. E la prima illegalità è il sovraffollamento, quello che secondo il mentore di Bonafede, Piercamillo Davigo, sarebbe “una balla”. E che invece, in questa situazione drammatica per la salute di tutti i cittadini (anche i carcerati sono cittadini) rischia di trasformare i luoghi di reclusione in luoghi di contagio, di non-cura, probabilmente di morte. Una situazione che richiederebbe, quantomeno, il raziocinio di sospendere le “balle”, per citare Davigo, dei giustizialisti, tra cui si distingue al solito il senatore Salvini, e mettere mano all’unico provvedimento urgente e fattibile: svuotare le carceri, ora. Una strada, quella più diritta e che richiederebbe per una volta la sospensione delle polemiche elettoralistiche - ora che, come ha notato Rita Bernardini di Radicali Italiani, “il negazionismo sul sovraffollamento è stato superato” - è quella dell’indulto, che permetterebbe di decongestionare subito le carceri. Poi c’è l’amnistia, che contribuirebbe anche ad alleggerire l’afflusso nei tribunali, ora e in futuro. Ma si tratta, lo sappiamo, di scelte che si sono sempre scontrate con l’interesse elettorale di una parte dei partiti e con l’ignavia generale della politica. C’è però un provvedimento che farebbe immediatamente molto: le misure alternative al carcere. Applicandole ad esempio, come suggerisce Bernardini, ai 16 mila detenuti che hanno meno di due anni di pena da scontare. Per le carceri sarebbe una boccata d’aria. Legale, senza virus. Carceri, 15 i detenuti morti. Ma Bonafede si autoassolve di Eleonora Martini Il Manifesto, 12 marzo 2020 Altri due decessi a Bologna. Il Guardasigilli riferisce in Parlamento ma non chiarisce. Sale a 15 il numero di detenuti morti in seguito ai disordini che per tre giorni sono scoppiati in gran parte degli istituti penitenziari italiani dopo la sospensione dei colloqui con i parenti e con i volontari disposta dal Ministro di Giustizia per scongiurare l’epidemia da Coronavirus. Tutti, secondo la versione ufficiale, sono morti per intossicazione da metadone e/o psicofarmaci rubati dagli ambulatori durante i disordini. Gli ultimi due deceduti, ieri, erano reclusi al Dozza di Bologna, mentre uno dei rivoltosi di Rieti versa in gravi condizioni “per aver ingerito benzodiazepine sottratte all’infermeria”. Ieri c’è stata anche una nuova protesta nel carcere di Firenze, dove un agente è risultato positivo al test del Coronavirus. Ma di tutto questo non ha parlato il ministro Alfonso Bonafede. Il Guardasigilli, chiamato a riferire nelle Aule semivuote del Senato prima e della Camera poi, si è limitato ieri a un riassunto scarno e superficiale dei fatti ormai noti, e neppure aggiornato. La sua è stata un’arringa difensiva dell’operato delle forze dell’ordine e di se stesso, che ha lasciato senza risposte ogni interrogativo, sia riguardante quelle incredibili morti, sia posto dagli agenti e dagli operatori penitenziari preoccupati per la situazione incandescente, sia concernente le possibili soluzioni per evitare il peggio nelle ormai sature celle. Il ministro di giustizia, che promette una relazione scritta nelle prossime ore, parla di “40 agenti feriti”, “12 detenuti morti per abuso di sostanze sottratte alle infermerie”, “16 evasi ancora latitanti a Foggia”, un carcere, quello di Modena, praticamente distrutto e “gravi danni strutturali” causati da veri e propri “atti criminali”, commessi comunque da “una ristretta parte di detenuti”. Minoranza ma sempre relativa, stando ai numeri snocciolati da Bonafede che stima in 6 mila (il 10%) i rivoltosi (“molti meno” invece, per esempio, secondo la radicale Rita Bernardini, che conosce le carceri italiane come pochi altri). Ma il ministro avverte: “Lo Stato non indietreggia di un centimetro di fronte all’illegalità” (e il Partito Radicale ricorda che è lo Stato ad essere illegale, nelle carceri, come dimostrano le numerose sentenze europee). Bonafede non parla certo di regia unica nazionale dietro alle rivolte, ipotesi a cui non crede praticamente nessuno fuori dalla cerchia dei terrapiattisti, e dribbla pure sulle “responsabilità di un sistema strutturalmente fatiscente” che attribuisce ad “un disinteresse per l’esecuzione della pena accumulato nei decenni”. Per quanto lo riguarda, ricorda di aver “previsto 2548 agenti in più, di cui 1500 già in servizio”. Ma il “sovraffollamento”, peggiorato per via della distruzione durante le rivolte di parte delle strutture e di 2 mila posti letto (secondo il Garante dei detenuti), e a causa della necessità di isolare alcuni detenuti a rischio contagio, continua ad essere parola tabù. In Parlamento le opposizioni reclamano il pugno duro contro i violenti, l’intervento dell’esercito e “pene esemplari”. Ma c’è anche chi guarda la luna, non il dito: “Il capo del Dap per senso delle Istituzioni avrebbe già dovuto rassegnare le proprie dimissioni ma siccome è ancora al suo posto chiediamo a lei ministro di rimuoverlo”, interviene Italia viva. Anche Pietro Grasso, di Leu, attacca Francesco Basentini per evidenti “ritardi, indecisioni, balbettii, carenza di informazioni, assenza ingiustificabile”. E il Pd, pur non chiedendo “la testa di nessuno” sollecita “chiarezza” su quanto accaduto. Tanto più perché, come ammette lo stesso ministro, solo ieri è iniziata la distribuzione di 100 mila mascherine all’interno dele carceri. Acqua fresca, naturalmente. “Cosa succede se un detenuto si ammala? Chi lo soccorre, visto che le ambulanze non possono entrare?”, chiedono i sindacati di polizia. Per fortuna c’è chi, come il Tribunale di sorveglianza di Roma, ha disposto “una licenza di quindici giorni per tutti i detenuti in semilibertà, che quindi non avranno più necessità di rientrare in carcere la sera”, riferisce il Garante del Lazio, Stefano Anastasia. Misure come queste sono allo studio della task force istituita dal Guardasigilli che si muove su due ipotesi per alleggerire la pressione esplosiva delle celle piene oltre il 120%: la detenzione domiciliare per i “semiliberi” e la liberazione anticipata speciale di coloro che hanno ancora da scontare poche settimane o mesi. Le radici dei guai nelle carceri. Parlano Fiandaca, Bernardini e Manes di Annalisa Chirico Il Foglio, 12 marzo 2020 “Nonostante l’emergenza fosse nota da diverse settimane, la relazione del ministro della Giustizia in Parlamento ha svelato l’assenza di un piano di prevenzione: nelle carceri non era stato effettuato neppure un tampone”, è il commento a caldo del vicesegretario del Pd Andrea Orlando dopo le parole del guardasigilli Alfonso Bonafede (l’ex ministro è anche convinto che il Parlamento dovrà organizzarsi in modo speciale in questi giorni: “Penso che dovremmo organizzarci diversamente: con i moderni mezzi telematici il lavoro delle commissioni, per esempio, potrebbe proseguire da remoto. Il Parlamento deve restare pienamente operativo”). Il bollettino della rivolta dei detenuti riporta 15 morti, 12 evasi, 40 agenti feriti. Se la Lega e Forza Italia chiedono il passo indietro del ministro, Italia viva e Leu sollecitano le dimissioni del capo del Dap Francesco Basentini. Secondo le stime del ministro Bonafede, sarebbero “almeno seimila” i detenuti che hanno partecipato alle rivolte, il 10 per cento della popolazione detenuta. “Le regole vigenti per evitare il rischio di contagio - dice la radicale Rita Bernardini, presidente di “Nessuno tocchi Caino” - non possono essere rispettate nelle prigioni italiane a causa del sovraffollamento. Soltanto chi sta in una cella singola riuscirà a garantirsi un metro di distanza dagli altri, per non parlare delle precarie condizioni igieniche e del fatto che, nella stragrande maggioranza dei casi, i detenuti puliscono le celle solo se hanno i soldi per acquistare detersivi e disinfettanti”. Il ministero ha fatto sapere che si è “avviata” la distribuzione di mascherine. “Se hanno cominciato, meglio tardi che mai. La verità è che mancano gli strumenti basilari per sanificare le celle, al Pagliarelli di Palermo, dove 400 detenuti hanno preso possesso di un’ala del carcere, la doccia è consentita soltanto tre volte a settimana. Le prigioni italiane ospitano 6lmila detenuti dove dovrebbero starcene 50mila, anche se, a mio giudizio, considerando le sezioni inutilizzabili, i posti disponibili effettivi sono circa 47mila. In diversi posti d’Italia il tasso di sovraffollamento, in media del 130 percento, tocca picchi più elevati”. Il ministro ha parlato dei 12 detenuti morti per overdose di farmaci rubati dalle infermerie. “In realtà, ne sono morti altri due, e non in ospedale ma nel corso dei trasferimenti in altre carceri. Questo governo è contrario alle misure alternative, persiste l’idea che l’unica pena sia quella dietro le sbarre”. Il ministro Bonafede ha rivendicato di aver previsto 2500 agenti in più: in realtà 1500 sono già in servizio. “Non avendo effettuato ad oggi neanche un tampone, mi domando a quali rischi siano esposti gli stessi agenti. In carcere il personale sanitario e psichiatrico è da sempre sottorganico. Il ministro è parso poco informato sulle esigenze effettive, lo stesso capo del Dap, nonostante le rivolte, non si è mai recato in un carcere. La situazione gli è sfuggita di mano, del resto già nei primi mesi del suo incarico abbiamo dovuto convincere Bonafede del persistente sovraffollamento perché il capo del Dap lo aveva persuaso del contrario”. Giovanni Fiandaca, ordinario di Diritto penale all’Università di Palermo e Garante dei detenuti in Sicilia, esprime “enorme preoccupazione per l’inadeguatezza dimostrata dal ministro Bonafede”. Il professore punta il dito contro “la direzione del Dap e del suo vertice Basentini: sono d’accordo con chi ne ha proposto il commissariamento, anzi ritengo che il Pd dovrebbe farsi sentire per imporre al ministro una linea di maggiore ragionevolezza Se la polveriera esplode, la situazione non sarebbe più governabile”. Come se ne esce? “Il Garante nazionale Mauro Palma e il portavoce dei garanti territoriali Stefano Anastasia stanno valutando misure di sfoltimento della popolazione carceraria. Stando alla normativa vigente, gli autori di reati di modesta gravità o verso fase finale di espiazione della pena potrebbero passare alla detenzione domiciliare. La magistratura di sorveglianza dovrebbe mostrarsi più disponibile a conferire misure extra-detentive, per esempio per gli over 65 o per quelli affetti da patologie cardiache e polmonari”. Ma il governo sembra sfavorevole a un allentamento carcerario. “Lo so bene ma l’emergenza sopravvenuta richiede una risposta emergenziale. Nel bilanciamento tra beni meritevoli di tutela costituzionale, la tutela della salute e della vita umana ha un peso maggiore rispetto alla tutela della sicurezza, almeno per fasce di criminalità medio e bassa”. La classe politica si accorge del carcere soltanto nell’emergenza. “Il coronavirus non è la causa della polveriera carceraria ma è solo una situazione contingente che fa esplodere problemi, contraddizioni, ritardi e insensibilità di lungo corso”. Mentre il governo governa a colpi di decreti, il Parlamento si riunisce una volta a settimana, a ranghi ridotti. “In tempi di emergenza le garanzie democratiche si riducono. Quando si devono bilanciare beni in conflitto, il grado di tutela dei diritti fondamentali è frutto di scelte condizionate da giudizi di valore e da fattori esterni non desumibili dalla semplice Costituzione. L’assenza del Parlamento, in questa fase, è grave: spetta alle Camere il compito di esercitare un controllo sull’esecutivo. Tuttavia, oggi non è in grado di farlo perché il ceto politico non è all’altezza della crisi. I parlamentari si ritrovano impauriti, in una condizione non dissimile da quella dei cittadini comuni”. A sentire il professore Vittorio Manes, ordinario di Diritto penale all’Università di Bologna e membro del Consiglio direttivo di Fino a prova contraria, “sorprende che ci si accorga solo in questa drammatica contingenza dell’enorme problema del carcere dove il rispetto dei diritti umani, e della dignità dei detenuti, si gioca ormai sul filo dei centimetri, al punto che le sezioni unite della Cassazione saranno presto chiamate a decidere se nei tre metri quadrati di “spazio minimo disponibile” da garantire ad ogni detenuto debba essere computato, o escluso, lo spazio occupato nella cella dal letto e dal mobilio. L’attuale situazione non è che il frutto di politiche di criminalizzazione dissennate e a senso unico, che si trascinano da anni e continuano imperterrite, se solo si pensa al frenetico incremento del numero dei reati e dei livelli delle pene, o alle modifiche apportate all’art. 4 bis dalla legge Spazza-corrotti, che ha esteso il doppio binario penitenziario anche ai reati contro la pubblica amministrazione. Il legislatore continua ad attingere a piene mani alla risorsa scarsa della pena privativa della libertà, con scelte irrispettose di ogni ordine di ragione e del principio secondo il quale la privazione della libertà è legittima solo se limitata al “minimo sacrifico necessario”, e solo ove impellenti ed oggettive ragioni impongano di preferire il regime custodiale rispetto ad alternative extra-murarie più congeniali all’istanza rieducativa. Un tempo intervenivano provvedimenti di amnistia o indulto, che avevano anche una funzione di decongestionamento: nel quadro attuale, il solo proporli è visto come un sacrilegio. Le conseguenze sono ora sotto gli occhi di tutti, quando ci si accorge che il carcere è una polveriera che si può accendere in qualsiasi momento”. Perché minimizzare il rischio sanitario nelle carceri è molto pericoloso di David Allegranti Il Foglio, 12 marzo 2020 Quindici morti tra i detenuti, 40 agenti di polizia penitenziaria feriti. Il bilancio delle rivolte in carcere - solo provvisorio, ieri ci sono state nuove proteste a Sollicciano, dove un allievo agente di polizia penitenziaria in tirocinio è risultato positivo al coronavirus - è sanguinoso. Ieri il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede è intervenuto alle Camere per un’informativa sullo stato dei disordini, nella quale ha annunciato che adesso verranno effettuati i tamponi sui detenuti trasferiti a vario titolo e che lunedì scorso è arrivata la “prima fornitura di circa 100 mila mascherine che sono in fase di distribuzione, prioritariamente agli operatori che accedono dall’esterno”. Il ministro ha condannato le violenze compiute da parte dei carcerati, la maggior parte dei quali morti, ha detto, per “abuso di sostanze sottratte all’infermeria durante i disordini” ma ha aggiunto: “È evidente che tanti detenuti siano effettivamente preoccupati, soprattutto in condizioni di sovraffollamento, dell’impatto del Coronavirus sulla propria salute e sulle condizioni detentive”. Dunque, contrariamente a quanto sostiene da tempo Francesco Basentini, capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il sovraffollamento carcerario esiste. “Al contrario di quanto molti affermino, quello del sovraffollamento negli istituti penitenziari italiani è un falso problema, sia dal punto di vista giuridico che dal punto di vista dimensionale-logistico”, ha detto Basentini nel marzo 2019. In realtà, come spiega chi il carcere lo visita quasi quotidianamente, basta entrare in una cella per capirlo. Ed è lo stesso ministero della Giustizia, nella sua ultima relazione, a spiegare che servono “strategie dirette a combattere il fenomeno del sovraffollamento” e volte a trovare “soluzioni per redistribuire i detenuti appartenenti all’alta e alla media sicurezza attualmente ubicati nelle zone dove è più alto l’indice di affollamento e in particolare negli istituti del Sud Italia”. Per legge, ogni detenuto ha diritto a uno spazio di 3 metri quadri in cella ma, come spiega al Foglio la direttrice de “L’altro diritto” Sofia Ciuffoletti, “sono rari i luoghi e le carceri in cui sono garantiti tre metri quadri per persona almeno”. Così come è difficile che vengano garantite più di 4 ore al giorno fuori dalla cella. Il problema, fra i tanti, è che in Italia non si è mai capito come venga conteggiato lo spazio. È tutt’ora in corso una discussione sul considerare o meno comprensivo dei 3 metri anche il letto, che per Mark Twain è “il posto più pericoloso del mondo: vi muore l’ottanta per cento della gente”. Ieri Italia viva è tornata a chiedere le dimissioni del capo del Dap, sia al Senato sia alla Camera. “Nessuna violenza dei detenuti può essere giustificata, eppure con dispiacere e amarezza devo dire che in questi giorni dal ministero e dai vertici Dap è mancata una linea: avete lasciato sola la polizia penitenziaria e i direttori delle carceri prima e in questi giorni”, ha detto Maria Elena Boschi al ministro Bonafede. Un giudizio condiviso da Pietro Grasso di Leu: “È mai possibile che la sospensione dei colloqui abbia potuto provocare un’ondata di violenza così diffusa e incontrollata? Poteva il peso dell’emergenza pesare soltanto sulla limitazione dei diritti dei detenuti? Agenti, educatori, medici, infermieri, psicologi, direttori, detenuti in semilibertà, che ogni giorno entrano ed escono dal carcere senza alcuna protezione, sarebbero immuni per decreto?”. Perché, ha chiesto ancora Grasso, “non sono state date chiare e precise direttive su una comunicazione anticipata che rassicurasse detenuti e sindacati nel garantire valide alternative come filtri sanitari, telefonate, colloqui via Skype e altre soluzioni? Tutte queste misure sono state genericamente devolute alla discrezionalità dei provveditori e dei direttori lasciati soli ad affrontare reazioni non imprevedibili”. Molti ignorano che “i colloqui non sono l’unico contatto dei detenuti con i propri affetti, ma anche la principale possibilità per ricevere cibo, biancheria pulita e beni di prima necessità. Modificare improvvisamente questo equilibrio senza dare le giuste informazioni e soprattutto rassicurazioni è stato un errore gravissimo. A questo si aggiunga la paura del contagio in uno spazio in cui centinaia di corpi, tra reclusi ed operatori, condividono gli stessi spazi angusti”. L’associazione Antigone propone l’estensione dell’affidamento in prova e della detenzione “anche a persone che abbiano problemi sanitari tali da rischiare aggravamenti a causa del virus Covid-19”, così la concessione della detenzione domiciliare a tutti i detenuti che usufruiscono della semilibertà. “Ho orrore della violenza”, dice Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, “però penso anche allo stato di abbandono in cui versano tante galere, le giornate passate ad ammazzare il tempo, i corpi accatastati in spazi inadeguati, la perenne emergenza sovraffollamento, e ora su tutto questo la paura del virus, il senso di impotenza, la rabbia, e capisco quanta fatica si faccia a restare umani in quei luoghi, e quanto il pensiero di chi ha partecipato a queste rivolte alla fine sia stato anche quello di sballarsi fino a dimenticare, fino alla morte”. Carnaio carceri e Coronavirus: appello al Governo di Camere Penali e Riformista di Piero Sansonetti Il Riformista, 12 marzo 2020 Abbiamo preparato assieme alle Camere Penali un appello, che pubblichiamo qui sotto, rivolto al governo. Avanziamo una proposta semplice: quella di varare un decreto, che può essere approvato nel giro di poche ore, firmato dal presidente della Repubblica e può diventare quindi subito operativo: questo decreto permette nel giro di poche ore l’uscita dal carcere di diverse migliaia di detenuti. Almeno 20mila ma forse di più. Senza nessun rischio per l’ordine pubblico, perché i detenuti che potrebbero ottenere la liberazione in questo modo sono tutti detenuti che appartengono ai “piani bassi” dell’illegalità. Tutte persone condannate a pene molto piccole, inferiori ai due anni, oppure anche a pene superiori ma che ormai hanno scontato quasi interamente. Il timore che le città si popolino di malavitosi non esiste. Tutti gli studi, oltretutto, dimostrano che quando viene varato un indulto l’indice di recidività di chi esce dal carcere non solo non si alza, ma viene clamorosamente abbattuto. Così è stato anche l’ultima volta che il Parlamento ha varato un provvedimento di clemenza, 14 anni fa. Dopodiché è giusto che le forze politiche si confrontino con il tema generale dell’amnistia e dell’indulto. Perché amnistia e indulto non sono solo dei provvedimenti legislativi ma rappresentano una idea di Giustizia molto molto lontana dall’idea che la Giustizia sia un sistema che permette di scaricare le proprie rabbie e realizzare la vendetta. L’amnistia e l’indulto però sono provvedimenti complessi. Non solo richiedono un lungo passaggio in Parlamento, ma dal 1993 hanno bisogno di una maggioranza bulgara per essere approvati, e cioè servono i voti dei due terzi del Parlamento. È stata una modifica alla Costituzione introdotta nel 1992, quando in Italia impazzava lo spirito giustizialista più estremo e giacobino (sì: più di oggi, addirittura più di oggi) e furono pochissimi i parlamentari che trovarono il coraggio per opporsi a questa misura sbirresca. Sull’onda della religione Mani pulite, guidata dai magistrati milanesi, quasi tutti i partiti si allinearono, dissero signorsì e fecero sbattere i tacchi, come si usa nelle caserme. Ora è una impresa quasi impossibile modificare quelle regole. Il tema dell’amnistia resta, oltretutto più volte è stato posto all’ordine del giorno addirittura dai Papi (sia da Wojtyla che Bergoglio). Però ora il problema urgentissimo è quello di spegnere subito l’incendio. Per questo la proposta del decreto è la più sensata. Qui sotto pubblichiamo il documento firmato dalle Camere Penali e dal nostro giornale. Firma l’appello: http://bit.ly/dramma_carceri Da Morrone a Bonafede, i negazionisti del sovraffollamento delle carceri: “Sembrano hotel” di Giovanni Altoprati Il Riformista, 12 marzo 2020 Non esiste alcun problema di sovraffollamento carcerario in Italia. È questo il mantra governativo che, molto probabilmente, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, chiamato a riferire sulle rivolte nei penitenziari di queste ultime ore, ripeterà anche oggi in Parlamento. La “negazione” di Stato ruota da anni intorno al numero di metri quadri delle celle che, per il governo, avrebbero dimensioni nettamente superiori alla media dei Paesi europei L’ultima volta in cui questa narrazione è andata in scena fu il 9 aprile dello scorso anno, quando il Guardasigilli rispose, per il tramite dell’allora sottosegretario Jacopo Morrone, ad un’interrogazione dell’onorevole Pierantonio Zanettin (Fi). Il parlamentare azzurro aveva chiesto chiarimenti al governo su una rivolta accaduta alla vigilia di Natale del 2018 nel carcere di Trento: a seguito del suicidio di un detenuto trentaduenne di origine tunisina, circa 300 detenuti avevano dato fuoco a cassonetti e materassi, danneggiando gravemente celle, letti, telecamere di sorveglianza, caloriferi e porte a vetri della struttura. Uno degli elementi scatenanti era stato proprio il sovraffollamento della struttura trentina. Per il Ministero della giustizia, le cose non stavano invece come prospettato da Zanettin in quanto era errata la considerazione di fondo. Secondo via Arenula, infatti, “il tasso di sovraffollamento è calibrato in base allo spazio pro capite da riservare ai detenuti, che, con una circolare del 1988 del Ministero della giustizia, emessa sulla base di un decreto del Ministero della Salute del 1975, viene stabilito in 9 metri quadrati per singolo detenuto, da aumentare di altri 5 metri quadrati per ogni altro detenuto in aggiunta”. Seguendo il burocratico ragionamento, accedendo ad uno standard meno rigoroso, si escluderebbe in radice la sussistenza di sovraffollamento, “in quanto le strutture penitenziarie italiane, per tale effetto, si attesterebbero su uno standard nettamente superiore alla soglia (limite) dei 60 mila detenuti”. Un concetto questo che aveva già trovato come fautore Piercamilllo Davigo. “Siccome nessuna norma dice la metratura a cui avrebbe diritto il detenuto - affermò alla festa del Fatto Quotidiano a maggio del 2018 - il legislatore ha applicato la metratura prevista per le case di civile abitazione: 9 metri quadrati per il primo occupante e 5 metri per gli occupanti successivi”. “La media europea è di 3 metri quadrati a testa, siamo l’unico Paese europeo condannato per sovraffollamento penitenziario, perché abbiamo dei deficienti che forniscono questi dati”, aggiunse quindi Davigo fra le risate del pubblico. La Cedu, però, nella sentenza “Torreggiani” del 2013 e nelle sue altre innumerevoli pronunce, non ha mai indicato un valore numerico inderogabile per le dimensioni delle celle. I giudici di Strasburgo hanno evidenziato che non è possibile quantificare in modo preciso lo spazio personale che deve essere concesso a ciascun detenuto ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in quanto dipende da diversi parametri. Ad esempio, la durata della privazione della libertà personale, la possibilità di accesso alla passeggiata all’aria aperta nonché le condizioni mentali e fisiche del detenuto. L’unico parametro che la Cedu ha individuato fu quello dei 3 metri quadrati: al di sotto vi è una presunzione assoluta di violazione dell’articolo 3 della Convenzione, per “trattamento disumano e degradante”, indipendentemente da tutte le altre condizioni di vita in carcere. Ciò non esclude, quindi, che al di sopra della soglia dei 3 metri quadrati uno Stato possa, comunque, incappare in una violazione della Convenzione. Sarebbe sufficiente, allora, applicare il parametro della Commissione Europea per la prevenzione della tortura: 7 metri quadrati, più 4 per ogni nuovo detenuto in una cella. Ultimamente vengono calcolati 6 metri quadrati, più 4: in 14 metri quadrati, dunque, ci possono vivere 4 persone. Dov’è allora il problema? Molto semplice: nessuno controlla che tali standard vengano rispettati. Con buona pace delle statistiche ministeriali. Rivolta nelle carceri e caos nei tribunali. Dopo l’emergenza coronavirus, Bonafede si dimetta di Cataldo Intrieri linkiesta.it, 12 marzo 2020 Anche in una situazione così drammatica, il ministro della Giustizia è stato incapace di fare il minimo sindacale: dare disposizioni chiare. Mentre il virus si diffondeva ha lasciato i dirigenti degli uffici giudiziari senza istruzioni come un novello Badoglio della pubblica amministrazione Quando tutto questo sarà passato e saremo tornati a quella banale routine che giorno dopo giorno assomiglia sempre più a un piccolo paradiso perduto, allora ci dovremo ricordare di cacciare Alfonso Bonafede dal governo. Avrebbe dovuto fare poche cose, non difficili peraltro: garantire un minimo di regola negli affari giudiziari correnti e monitorare la situazione di sovraffollamento delle carceri. Forse anche Angelino Alfano ne sarebbe stato capace, lui no, fulmineo nella interlocuzione con ogni genere di parte offesa, non importa se ancora riconosciuta come tale, non considera degni di attenzione i diritti degli imputati, anche se quei diritti non sono di pertinenza esclusiva degli inquisiti ma di ogni cittadino, compresi quelli innocenti. Ed ecco che anche in una emergenza drammatica “Fofo DJ” è stato incapace di fare il minimo sindacale: dare disposizioni chiare. Mentre il morbo si allargava a tutto il paese ha lasciato i dirigenti degli uffici giudiziari senza istruzioni come un novello Badoglio della pubblica amministrazione. Ha poi taciuto imbarazzato di fronte alla decisione dell’Organismo Congressuale Forense (l’assemblea degli ordini italiani) di indire un’astensione con lo scopo di tutelare la salute degli avvocati con la conseguenza in alcuni casi di aspri e paralizzanti conflitti tra legali e magistrati che non riconoscevano legittimità allo sciopero delle toghe. Alla fine, costretto, è andato in televisione ad annunciare farfugliando urbi et orbi che si sarebbe fermata ogni attività nei tribunali italiani e che per tutta la durata della sosta si sarebbe applicata “la sospensione feriale dei termini”. Per i non addetti: dal 1 al 31 agosto per legge non si calcolano i vari termini di scadenza delle attività giudiziarie sia dei magistrati che degli avvocati. Nel caso in cui si debba depositare o impugnare una sentenza, se il termine di scadenza coincide col mese di sosta lo si intende, per legge, prorogato a dopo la fine delle ferie per i giorni ancora da calcolare dopo il 31 luglio. Una cosa non difficile e di buon senso per evitare affollamenti pericolosi ma che il ministero che ha approntato il relativo decreto poi firmato da Conte ha incomprensibilmente soppresso dal testo finale. Invece di limitarsi a scrivere che si sarebbe applicata “la disciplina della sospensione feriale dei termini di cui alla legge 742/69” per il periodo di sosta totale dell’attività (dal 6 al 23 marzo) si è preferito glissare e parlare genericamente in un comma di sospensione “degli atti”. Senza specificare se tale pausa riguardasse solo i processi espressamente rinviati nelle due settimane o anche tutti i procedimenti, compresi quelli fissati al di fuori dell’arco temporale. Una differenza non da poco, perché nell’ipotesi più ristretta gli avvocati sarebbero comunque dovuti andare in tribunale per depositare gli atti in scadenza affollando le cancellerie già di loro con pochissimo personale e che perdipiù sono state in gran parte chiuse. Nell’8 settembre giudiziario di Bonafede è accaduto che i vari responsabili degli uffici giudiziari italiani hanno sposato tesi diverse scrivendo circolari con una propria disciplina, variante da distretto a distretto. È così Giuseppe Santalucia già capo dell’Ufficio Legislativo del ministero ha optato per la sospensione limitata ai processi rinviati a marzo mentre il suo successore Melillo oggi procuratore Capo a Napoli per distinguersi ha abbracciato la versione estesa. Il massimo lo si è avuto a Roma dove la Procura ha ritenuto sospesa ogni forma di attività mentre il presidente del Tribunale ha allestito apposite postazioni per raccogliere “Impugnazioni e atti in scadenza”. Un bailamme che ha costretto il ministero a una frettolosa sostituzione della relazione al Disegno di legge sull’emergenza del coronavirus con una nuova contenente l’espressa affermazione che i termini di legge sono sospesi per tutti. Un unicum. Poi è arrivata la rivolta carceraria e qui l’insipienza ha toccato il vertice. Tranne Piercamillo Davigo tutti sanno che le carceri italiane sono una sorta di Cayenne che pure la Corte Europea dei Diritti umani (i diritti umani già...) ha sanzionato addirittura mettendo per iscritto quale dovesse essere lo spazio vitale per detenuto: tre metri (avete capito: tre metri). E si sono scritte sentenze per disquisire se si dovesse calcolare il letto o meno (rigorosamente a castello in celle da sei e nove ospiti). L’art 6 della legge n. 354 del 26 luglio 1975, la legge sull’ordinamento penitenziario, stabilisce che “I locali nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati devono essere di ampiezza sufficiente, illuminati con luce naturale e artificiale in modo da permettere il lavoro e la lettura; aerati, riscaldati ove le condizioni climatiche lo esigono, e dotati di servizi igienici riservati, decenti e di tipo razionale. […] I locali destinati al pernottamento consistono in camere dotate di uno o più posti”. La Corte ha invitato “a risolvere il problema strutturale del sovraffollamento delle carceri, incompatibile con la Convenzione dei diritti umani” che rappresenta un “problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario italiano”. La Corte ha esortato lo Stato non in grado di garantire a ciascun detenuto condizioni detentive conformi all’articolo 3 della Convenzione, ad agire in modo da diminuire il numero di persone incarcerate, in particolare tramite una riduzione al minimo del ricorso alla custodia cautelare in carcere. Gran parte dei magistrati italiani hanno risposto che il monito non era rivolto a loro ma al governo ed hanno continuato come prima. Oggi, il garante dei detenuti Mauro Palma denuncia: “Ci sono 60.472 i detenuti e 50.514 posti letto”. A questa situazione incivile non solo Bonafede non ha posto rimedio ma anzi ha avviato una serie di riforme come la Spazza-corrotti col dichiarato intento di aumentare la popolazione carceraria. I rivoltosi che Bonafede quantifica in 6000 non sono mafiosi, per costoro vige il regime di carcere speciale in isolamento totale e non hanno mai beneficiato di amnistia e indulto. Non hanno interesse alla ribellione. La massa è costituita dalla criminalità di strada, dagli immigrati, la “schiuma della terra” senza diritti oltre quello di marcire in carcere. Senza poter osservare distanza di sicurezza e senza mascherine, liberi di ammalarsi. Rita Bernardini del Partito radicale e da sempre impegnata sul fronte del carcere, e Tullio Padovani ordinario di Diritto Penale a Pisa hanno accusato Bonafede di non essere andato in radio a parlare coi detenuti: “Non interessa molto comunicare con i detenuti che sono considerati entità trascurabili, non sono nessuno. E vengono trattati come nessuno. Non dal ministro Bonafede o dal capo del Dap Basentini, ma dalle leggi di questo Paese...Noi siamo uno Stato che autorizza i maltrattamenti”, dice Padovani. Perché stupirsi? Hanna Arendt ha saputo raccontare nella “Banalità del male” chi è il piccolo, inoffensivo burocrate indifferente al dolore e crudele nella sua placida convinzione di essere dalla parte della ragione. La pena non deve uccidere la speranza, diamo un futuro ai detenuti di Mons. Vincenzo Paglia Il Riformista, 12 marzo 2020 “Nel vostro lavoro è di grande aiuto tutto ciò che vi fa sentire coesi: anzitutto il sostegno delle vostre famiglie, che vi sono vicine nelle fatiche. E poi l’incoraggiamento reciproco, la condivisione tra colleghi, che permettono di affrontare insieme le difficoltà e aiutano a far fronte alle insufficienze. Tra queste penso, in particolare, al problema del sovraffollamento degli istituti penitenziari - è un problema grave - che accresce in tutti un senso di debolezza se non di sfinimento. Quando le forze diminuiscono la sfiducia aumenta. È essenziale garantire condizioni di vita decorose, altrimenti le carceri diventano polveriere di rabbia, anziché luoghi di ricupero”. Così parlava Papa Francesco pochi mesi fa, il 14 settembre 2019 in Piazza San Pietro, nel discorso rivolto al personale dell’amministrazione penitenziaria e della giustizia minorile. E concludeva con alcune frasi su cui meditare soprattutto nell’attuale congiuntura. È importante “fare in modo che la pena non comprometta il diritto alla speranza, che siano garantite prospettive di riconciliazione e di reinserimento. Mentre si rimedia agli sbagli del passato, non si può cancellare la speranza nel futuro”. Perché partire dalle parole di Papa Francesco per parlare della situazione carceraria nel nostro paese, oggi? La rivolta in corso avrebbe piuttosto a che fare con la paura del contagio da coronavirus e con la sospensione/limitazione dei colloqui, ben differente dall’impostazione più generale di Papa Francesco. Non è così. C’è un aspetto della “crisi da coronavirus” che proprio i disordini nelle carceri fanno comprendere con grande evidenza: siamo interconnessi; volenti o nolenti lo siamo. Tutti. La società è un organismo collegato e quanto accade da un lato si ripercuote su un altro. In fondo, a pensarci bene, quell’antico romano Menenio Agrippa lo aveva scoperto oltre 2.500 anni fa mentre a noi tocca dimenticarlo e riscoprirlo ogni volta. Le carceri diventano la cartina al tornasole dell’effettivo esercizio della giustizia, della “giustizia della giustizia” - per usare un bisticcio di parole, ma efficace. Quanto accade nella società civile in generale ha ripercussioni profonde nel mondo carcerario, come ben sanno quanti si occupano professionalmente delle condizioni di vita dei detenuti. Annunciare un’amnistia e non realizzarla provoca sommosse nel mondo chiuso del carcere dove è profonda la risonanza di ogni evento. La paura del contagio da coronavirus esiste nella società civile italiana al punto che tutto il paese è “zona rossa”; e le carceri? Le dimentichiamo? I detenuti stanno lì a ricordare la loro esistenza proprio nei momenti in cui non vorremmo vederli. Gli invisibili diventano visibili in maniera evidente e drammatica. Si può davvero pensare di limitare o cancellare le visite dei parenti senza che una misura del genere provochi conseguenze? In una situazione di privazione della libertà, dove le relazioni umane sono l’unico legame con “di fuori”, si possono cancellare con un tratto di penna in nome della sicurezza e della salute? Possibile che non si pensi alle conseguenze di un isolamento che diventa doppio: carcerati due volte, esclusi dalla società e dalle relazioni con le famiglie. Si aggiunga poi la situazione di sovraffollamento cronica, la presenza di problemi sanitari molto forti (tossicodipendenze, disagi psichici), il numero di detenuti non italiani in crescita, e l’esplosione di una rivolta diventa un fatto prevedibile. Che fare? La cultura giuridica italiana ha - avrebbe - tutti gli elementi per rispondere se fosse capace di tenere alta l’attenzione sulle carceri. Prendo un solo dato dall’ultima relazione al Parlamento del Garante nazionale delle persone private di libertà. Notava l’accentuarsi di una “attenuazione” della cultura che vede proprio nel “graduale accesso alle misure alternative un elemento di forza nella costruzione di un percorso verso il reinserimento”. Già: il reinserimento. Chi se ne preoccupa più? Eppure è il vero e reale cuore della problematica, collegato al dovere che ha lo Stato di prendersi carico dei detenuti stessi, persone con percorsi e vissuti certamente difficili. A loro va data certezza nel mantenimento delle relazioni interpersonali e soprattutto speranza. Sì: speranza nel futuro, per arginare ansia, depressione, disperazione, sentimenti destinati a sfociare in suicidi e rivolte. L’universo carcerario rinvia - se vogliamo ben vedere - una domanda su chi siamo noi, come società tutta intera. Come vescovo cattolico non posso non citare quel passaggio in cui Gesù spiega ai discepoli come comportarsi: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Matteo 25,35-40). Credo fermamente che in questi giorni di coronavirus-dipendenza, le parole del Vangelo possano fornirci una strada da percorrere. Ci parlano dell’importanza della solidarietà e dei rapporti umani. Raccontano di un mondo “interconnesso” già all’epoca della Palestina di Gesù. Le frasi del Vangelo proseguono e prolungano una tradizione religiosa, civile, giuridica, umana - pensiamo ai Dieci Comandamenti - in cui è sempre al centro il rapporto di ognuno di noi con Dio e con gli altri, con l’intera società. Nei momenti di tensione e di crisi la connessione diventa palpabile, evidente, e i problemi si affrontano sviluppando relazioni collaborative. Vale per tutti. Vale per la Chiesa, ad esempio, e difatti la parola-chiave del pontificato è “sinodalità”; un termine religioso che sottolinea l’importanza di camminare insieme cercando convergenze e intese, superando egoismi e visioni particolari, divisioni e scissioni per rispondere al progetto di Dio per l’umanità. Uno Stato, una società laica - che difende la pluralità delle posizioni e tutela minoranze e appartenenze - ha come parola chiave la presa in carico delle persone e dei gruppi sociali più deboli o minoritari, per far crescere socialità, cultura, educazione, senso della appartenenza e della comunità. Le carceri sono la cartina al tornasole della capacità di esercitare una vera giustizia, dove la velocità del giudizio e la certezza della pena si coniugano con misure sagacemente pensate per recuperare le persone e reinserirle nella società. Lo snodo essenziale è la relazione: tutti sono protagonisti, dagli operatori dell’amministrazione alle famiglie dei detenuti, agli stessi detenuti. Vale per tutti, e anche nelle carceri: isolamento non deve voler dire solitudine. Già dall’inizio della Bibbia c’è scritto: “Non è bene che l’uomo sia solo”. Possono essere necessarie forme di isolamento: ma guai a favorire la solitudine! In questo campo delle carceri, a mio avviso, vanno trovate e investite risorse sulla formazione degli operatori, sul potenziamento del volontariato, sugli strumenti tecnologici che possano consentire ai detenuti di studiare e acquisire professionalità. E per il reinserimento nel mercato del lavoro una volta scontata la pena. Per dirla in breve: serve un progetto di società e dobbiamo chiederci - e chiedere alla politica, ai politici - che futuro abbiano in programma per tutti noi. Ho visto con attenzione il passaggio televisivo in cui il presidente del Consiglio ha annunciato la “zona rossa Italia”, chiedendo a tutti noi un sacrificio in vista del bene comune, dunque per il bene di tutti. In questo particolare momento ha enunciato un progetto di società. A breve, certamente, per uscire dall’emergenza sanitaria. Possiamo pensare di “esportare” il sacrificio di tutti in vista di un miglioramento collettivo anche per altre situazioni? Possiamo riscoprire legami di solidarietà tra di noi, che coinvolgano anche persone lontane o differenti? Possiamo coinvolgerci in un progetto di società di cui facciano parte gli anziani, i poveri, gli stranieri, i carcerati, gli ammalati? In una parola: possiamo diventare tutti un po’ più giusti cioè più fraterni, più solidali, aperti agli altri e non ripiegati nella rivendicazione esclusiva dei diritti individuali? Papa Francesco lo sa. Non a caso - come ha confermato ieri scrivendo a Il Mattino di Padova - le meditazioni della Via Crucis di questa Pasqua vengono dalla parrocchia della Casa di Reclusione il Due Palazzi di Padova. “Ho scelto il carcere, colto nella sua interezza, ha detto il Papa, per fare in modo che, anche stavolta, fossero gli ultimi a dettarci il passo”. Mauro Palma: “Il motore delle rivolte? Le informazioni sbagliate che hanno alimentato l’ansia” di Valentina Stella Il Dubbio, 12 marzo 2020 Per il Garante nazionale dei detenuti, “prima ancora del decreto legge sono state fatte girare, anche in maniera strana e su decisione di qualche provveditore e direttore, ipotesi di chiusura totale”. In questi giorni di protesta, a mediare con numerosi detenuti sono intervenuti anche i garanti. Per fare un bilancio abbiamo ascoltato Mauro Palma, presidente dell’Autorità Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Professor Palma, quali le ragioni di questa esplosione di violenza? La questione del coronavirus e delle restrizioni connesse all’emergenza determinano ansia in tutti quanti noi. In un ambiente come il carcere, che è già una istituzione chiusa, queste ansie si ampliano a dismisura. Chi ha la responsabilità di questi ambienti dovrebbe agire preparando a eventuali restrizioni e facendone capire le ragioni. In carcere è stato fatto l’opposto. Cosa è successo? Prima ancora del decreto legge sono state fatte girare, anche in maniera strana e su decisione di qualche provveditore e direttore, ipotesi di chiusura totale. Le informazioni, che giustamente e doverosamente il governo dà a tutti noi - ossia di stare distanti più di un metro, lavarsi le mani in continuazione, e altro ancora - non si traducono facilmente negli istituti di pena dove a volte è persino difficile avere il kit dei saponi; inoltre gli ambienti non sono stati sanificati. Tutto ciò ha moltiplicato l’ansia, in una sorta di doppia reclusione: la detenzione in sé e l’essere reclusi rispetto alle possibilità di gestirsi in proprio. Noi ad esempio usciamo per comprarci l’amuchina, i detenuti ovviamente non posso prendere queste iniziative. Quindi paura e mala informazione hanno acceso la miccia? Questo era il brodo di coltura precedente su cui si doveva avere molta attenzione e capacità di gestire. Poi quando è uscito il decreto, che in fondo dà una limitazione molto contenuta - anche se il colloquio con la famiglia è una cosa importantissima - nessuno ha letto i contenuti. Questo è stato il motore delle rivolte. E poi, come sempre accade nelle rivolte, si inseriscono altri motivi soggettivi. Io sono stato nel carcere romano di Regina Coeli dove ho incontrato diversi detenuti: uno si lamentava per il fatto che il magistrato di sorveglianza non gli risponde mai, un altro perché non gli era stato comprato qualcosa che aveva inserito nel modulo del sopravvitto. Si è aggiunta poi questa pericolosa idea che creando disordini si potevano ottenere amnistia e indulto, provvedimenti invece che non sono all’ordine del giorno politico, visto che ci vogliono ben altre maggioranze. Qualcuno ha visto in queste rivolte elementi di criminalità organizzata. È d’accordo? Certo qualche immagine, tipo quelle di Foggia, lasciano perplessi. Ma mai pensare che queste rivolte siano state eterodirette. Sono state spontanee, anche se all’interno si può insinuare chi ha altre intenzioni. Va considerata comunque la genuinità iniziale. Secondo lei è mancata la presenza dello Stato nelle prime fasi? Una volta che sono scoppiate le rivolte il personale che ha garantito la sicurezza, che ha cercato di fronteggiare anche situazioni drammatiche ha sentito poco vicino l’amministrazione centrale. Quando accadono situazioni come queste, con oltre dieci morti, credo si abbia il dovere di andare a far sentire la propria vicinanza invece di rimanere nei propri palazzi. Qual è stato invece il ruolo dei Garanti? Noi, come Garante Nazionale, siamo stati appunto a Regina Coeli, dove siamo tornati il giorno dopo per ringraziare il personale. I Garanti regionali sono stati degli ottimi sensori anche di flussi di informazioni. In molti casi, penso per esempio alla Puglia, al Lazio, all’Emilia, alla Lombardia sono stati anche dei veicoli per far cessare le sommosse, per trovare una soluzione. Hanno agito come elemento di riduzione del danno. Cosa ne pensa dell’informativa di Bonafede di ieri al Senato? L’informativa deve dare al Parlamento i dati, non esprimere un programma di governo. Se questa è la prima metà dell’azione di governo, si è trattata di una doverosa e corretta informazione. A cui però deve seguire qualcosa e chiedersi: e quindi? E allora che si fa? Il ministro ha detto: “lo Stato italiano non indietreggia”. Come interpretare? È giusto che lo Stato non arretri; però poi lo Stato deve anche dire come evitare che un problema importantissimo e gravissimo, ma comunque settoriale come questo, non abbia un riverbero su tutti. Occorre mantenere il carcere non solo in condizioni di non arretramento sul piano dell’ordine pubblico ma anche di non arretramento sul piano della tutela sanitaria: è interesse di tutti. Che interventi metterebbe in atto per sanare la situazione? Devo dare atto al ministro di aver costituito task force in cui mi ha inserito. Bisogna cominciare a ragionare in proiezione. Mi riservo di fare una serie di proposte che vanno nella direzione di prepararsi anche all’ipotesi più negativa. Se ci fosse bisogno di isolare delle persone occorre avere capacità e numeri per riuscire a farlo. Per cui una prima misura è quella di alleggerire il sistema di detenuti giunti alla fine della pena o che tornano in carcere solo per dormire. Lo dico non tanto per mettere subito fuori dei detenuti ma anche per crearci degli spazi qualora domani ci fosse la necessità di un sistema meno fitto. Bonafede in Senato: “Lo Stato non arretra”. Ma Iv, Fi e Leu: “Il capo del Dap si dimetta” Il Dubbio, 12 marzo 2020 “Questo è un momento difficile per il Paese, ma è nostro dovere chiarire, tutti insieme, che lo Stato italiano non indietreggia di un centimetro di fronte all’illegalità”. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha riferito ieri in aula al Senato sui disordini nelle carceri. “Gli eventi hanno riguardato trasversalmente quasi tutte le regioni di Italia, declinandosi in maniera differente nei singoli casi. Possiamo dire, infatti - ha aggiunto il ministro - che in alcune città, come per esempio Treviso, Torino, Rovigo e Potenza, si è trattato di manifestazioni di protesta senza danni mentre in altri casi, come per esempio a Modena, Napoli e Foggia, si è trattato di vere e proprie rivolte durate ore, che hanno portato anche a drammatiche conseguenze. Stiamo parlando di rivolte portate avanti da almeno 6 mila detenuti su tutto il territorio nazionale che, di fatto, hanno messo in evidenza le già note carenze strutturali del sistema penitenziario”. Su quello che è stato il motivo principale delle rivolte Bonafede ha annunciato: “Stiamo lavorando senza sosta nel quadro di una più ampia battaglia contro il coronavirus. La task force all’interno del ministero sta preparando possibili interventi per garantire, da un lato, i poliziotti penitenziari e, dall’altro lato, i detenuti”. Il ministro annuncia le misure di prevenzione che saranno prese negli istituti di detenzione - senza, spiega, nessun arretramento di fronte all’illegalità - ma non uno sconto arriva dalle opposizioni che, invece, sono al fianco della maggioranza sul fronte dello scostamento di bilancio. E anche i partiti che si sono dichiarati a sostegno del Conte 2 alzano il tiro: il Guardasigilli faccia dimettere il capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, chiedono. “Subito le dimissioni del capo del Dap o sia il Guardasigilli in persona a rimuoverlo dal suo incarico”, chiede Italia viva. Sulla stessa linea Mariastella Gelmini, capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati, che chiede le dimissioni “del ministro, come del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. La vicenda è stata gestita con un incredibile dilettantismo”. Parole dure anche dal Partito Radicale. “Nell’esprimere la nostra solidarietà ai direttori, agenti penitenziari, sanitari che cercano di sopperire a una politica penitenziaria e ai detenuti che da anni con il Partito Radicale hanno scelto la lotta nonviolenta, siamo fermamente convinti che lo Stato non deve indietreggiare né nei confronti della minoranza di detenuti né degli agenti di polizia penitenziaria che infrangono la legge”, dicono Maurizio Turco e Irene Testa, segretario e tesoriere del Partito Radicale. Per l’ex presidente del Senato Pietro Grasso “molti ignorano che i colloqui non sono solo l’unico contatto dei detenuti con i propri affetti, ma anche la principale possibilità per ricevere cibo, biancheria pulita e beni di prima necessità. Modificare improvvisamente questo equilibrio senza dare le giuste informazioni e soprattutto rassicurazioni è stato un errore gravissimo”. Il deputato della Lega Jacopo Morrone ha chiesto al ministro Bonafede la nomina di “un commissario con pieni poteri che abbia il coraggio di assumere i provvedimenti necessari e poi lasci l’incarico”. I dubbi di Bonafede sulle scarcerazioni di Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 12 marzo 2020 Il ministro scettico sulle misure alternative per chi deve scontare meno di 6 mesi. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede lo ha garantito: “Lo Stato non indietreggerà di un centimetro di fronte all’illegalità”. Non si asseconderanno le richieste di indulto o amnistia di quei detenuti che, con la scusa della sospensione dei colloqui per evitare il contagio del virus Covid-19, hanno dato vita a rivolte in 28 carceri. “Atti criminali” da parte di una minoranza, li ha definiti ieri Bonafede in un’informativa a Camera e Senato, che però alla fine hanno coinvolto 6 mila carcerati. Il bilancio conta 13 detenuti deceduti per un mix di psicofarmaci (9 a Modena, 4 a Rieti), 41 agenti feriti e danni agli istituti. Ieri le rivolte erano quasi tutte sedate, anche l’ultima scoppiata a Firenze dopo che nel carcere di Sollicciano si era diffusa la notizia di un allievo agente di polizia penitenziaria positivo al Coronavirus. E si continuano ancora a cercare dieci dei 72 evasi dal carcere di Foggia (non 370 come avevano ricostruito alcuni sindacati). Per evitare il contagio, sono state messe in atto diverse misure: oltre le 83 tensostrutture dedicate al cosiddetto “pre-triage”, come ha spiegato Bonafede, ne sono state richieste altre 14 per Emilia-Romagna, Lazio e Abruzzo. Ci sono poi 100mila mascherine distribuite negli istituti e sono già in corso “tamponi ai detenuti trasferiti a vario titolo”. I Sindacati di polizia intanto parlano di 4 detenuti e 7 agenti già risultati positivi al test. Ma non basta a Lega e Forza Italia, che hanno chiesto le dimissioni di Bonafede. Mentre i renziani pretendono la testa del capo del Dap, Francesco Basentini. In via Arenula è stato accolto con particolare disappunto il discorso di Davide Faraone (Italia Viva): “Il capo del Dap vada a casa”, ha affermato. “Non si faccia finta di niente di fronte a 12 morti. Che qualcuno, mi riferisco ai dirigenti di prima fascia, si assuma la responsabilità e si dimetta”, gli ha fatto eco Matteo Renzi. Il riferimento sembra essere a Basentini. Ex magistrato, con il pm Laura Triassi, era titolare dell’inchiesta della procura di Potenza che ad aprile del 2016 portò alle dimissioni di Federica Guidi. Mai indagata, l’ex ministro del governo Renzi lasciò dopo l’iscrizione del suo ex compagno, che poi fu archiviato (il fascicolo finì a Roma per competenza). Ma della sostituzione di Basentini al ministero per ora non si parla. “Siamo concentrati sulla situazione generale, che è molto delicata - spiegano in via Arenula. C’è stato un chiaro attacco allo Stato, e non è il momento di fare polemiche”. Nei prossimi giorni il garante dei diritti dei detenuti, Mauro Palma, formalizzerà alcune proposte al ministero. “Una riguarda i circa 900 detenuti in semi- libertà, che tornano in cella solo per dormire - spiega Palma. Analizzando caso per caso, potrebbero essere concessi i domiciliari o il braccialetto elettronico”. Il Tribunale di sorveglianza di Roma ieri ha già disposto una licenza di 15 giorni per i detenuti in semilibertà. “Si potrebbe pensare a misure alternative - continua Palma - anche per i 3.800 che devono scontare meno di sei mesi”. Ma dal ministero filtrano dubbi su questa soluzione. Intanto in via Arenula sono arrivate diverse informative con elementi che fanno pensare alla mano di associazioni criminali dietro le proteste in Italia. Di certo nel carcere dell’Ucciardone a Palermo si comunicava con l’esterno: dopo le proteste sono stati trovati dieci cellulari. Messa alla prova e domiciliari: tuteliamo chi è a rischio virus di Alessio Scandurra* Il Riformista, 12 marzo 2020 Sei incarcerati su dieci sono over 40, sette su dieci sono ammalati: può esserci una strage. I giorni scorsi sono stati tra i più difficili e dolorosi della storia penitenziaria recente del nostro Paese. Nel corso delle proteste scoppiate 1’8 marzo per le restrizioni introdotte per fermare il contagio del Covid-19, ma anche per la paura del contagio stesso, hanno perso la vita ben 12 persone. Una tragedia senza precedenti. Per capire e dare un senso a quello che è successo è necessario fare un passo indietro. Nelle carceri italiane a fine febbraio i presenti erano 61.230, la capienza era di 50.931 posti, l’affollamento medio del 120.2%, ma in istituti come Larino, Taranto, Como o Brescia l’affollamento superava il 190%. Questo spesso significa tre detenuti in celle di 12 metri quadri e in quasi la metà dei 95 istituti che Antigone ha visitato nel 2019 c’erano celle senza acqua calda, mentre in più della metà c’erano celle senza doccia. In un ambiente simile le condizioni igieniche sono inevitabilmente precarie anche perché solitamente la disponibilità di prodotti per la pulizia e l’igiene è piuttosto limitata. A questo si aggiunga che nel corso degli ultimi 10 anni l’età media della popolazione è aumentata significativamente. Le persone detenute di età compresa tra i 18 e i 39 anni, che erano larga maggioranza, sono divenute minoranza mentre coloro che hanno 40 o più anni sono oggi più del 62% dei presenti. Il 31 dicembre 2019 ben 5.221 persone avevano più di 60 anni. Infine c’è lo stato di salute della popolazione detenuta. In uno studio recente il 67% dei detenuti è risultato affetto da almeno una patologia. L’11,5% era affetto da malattie infettive e parassitarie, l’11,4% da malattie del sistema cardio-circolatorio, il 5,4% da malattie dell’apparato respiratorio. Per farla breve, con un quadro simile la diffusione del coronavirus in carcere sarebbe un disastro. E di questo i detenuti sono ben consapevoli. C’è anche questo dietro le proteste e le rivolte di questi giorni e se è doveroso condannare la violenza e la devastazione, non si può per questo nascondere il problema. Al contrario bisogna affrontarlo al più presto e per farlo Antigone ha tra l’altro avanzato 5 proposte. La prima riguarda le comunicazioni con i familiari, al momento giustamente limitate per evitare i contagi. Il governo ha deciso che si possono superare gli attuali limiti nel numero quotidiano delle telefonate e ha incentivato l’uso più ampio possibile delle video-chiamate. Noi suggeriamo cha la direzione di ciascun istituto acquisti uno smartphone ogni cento detenuti presenti così da consentire, sotto il controllo visivo di un agente di polizia penitenziaria, una telefonata o video-telefonata quotidiana della durata di massimo 20 minuti a ciascun detenuto ai numeri già autorizzati. Chiediamo inoltre che l’affidamento in prova in casi particolari, attualmente previsto per tossicodipendenti e alcoldipendenti, sia esteso anche alle persone che abbiano problemi sanitari tali da rischiare aggravamenti a causa del virus Covid-19 e che la detenzione domiciliare di cui all’articolo 47- ter primo comma dell’ordinamento penitenziario, pensata per gli ultrasettantenni, sia estesa, senza limiti di pena, a quegli stessi soggetti a rischio. E per costoro che la diffusione del virus sarebbe più pericolosa, ma al tempo stesso un calo delle presenze avrebbe un effetto positivo su tutto il carcere e andrebbe a vantaggio di chi resta, detenuti e operatori. Anche per questo suggeriamo inoltre che tutti i detenuti che usufruiscono della misura della semilibertà possono trascorrere la notte in detenzione domiciliare, evitando in questo modo il rientro in carcere. In questo caso non solo si eviterebbero circa un migliaio di ingressi ogni giorno in tutto il Paese ma si libererebbero anche le sezioni di semilibertà, generalmente strutture separate dal resto dell’istituto, che si potrebbero usare per come spazi sanitari autonomi. Suggeriamo infine che la magistratura, nei limiti del possibile, trasformi i provvedimenti di esecuzione delle sentenze emesse nei confronti di persone a piede libero in provvedimenti di detenzione domiciliare. Evitando anche in questo caso ulteriori nuovi ingressi in carcere. Contenere gli ingressi e favorire le uscite, soprattutto delle persone più a rischio da un punto di vista sanitario, ci sembra urgente e indispensabile per prevenire la diffusione del virus ma anche per farsi trovare pronti, quando dovessero registrarsi i primi casi, a gestirli in condizioni di totale sicurezza. Il tempo stringe, la tensione e la paura per detenuti ed operatori è enorme ed il peggio potrebbe non essere ancora arrivato. *Associazione Antigone Ecco perché i termini andrebbero sospesi per tutti i procedimenti di Giulia Merlo Il Dubbio, 12 marzo 2020 Esiste il deposito telematico, ma non per tutti gli uffici. Inoltre gli adempimenti per redigere un atto - la firma della procura, il reperimento di documenti da allegare - sono resi molto complicati dall’emergenza coronavirus. Il decreto legge 11/2020, nel normare l’emergenza coronavirus nel campo della giustizia, ha lasciato aperto un dubbio interpretativo che sta generando polemiche e disagi nel mondo dell’avvocatura: la sospensione dei termini per i procedimenti. La questione - Il problema nasce da quello che sembra un errore nella stesura della norma. Pubblicando su Facebook il decreto legge, il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, scriveva: “Con il decreto legge approvato ieri sera in Consiglio dei Ministri, abbiamo deciso che per le prossime due settimane (dal 8 marzo fino al 22 marzo) saranno sospesi termini e udienze su tutto il territorio nazionale. L’unica attività consentita sarà quella urgente e improrogabile, in analogia a quanto previsto dalla Legge n. 742/1969 per la sospensione feriale di procedimenti e udienze”. Un riferimento, quello alla sospensione feriale, che era stato suggerito dai rappresentanti dell’Avvocatura presenti al tavolo e che avrebbe semplificato la gestione. Il testo del decreto legge, però, dispone una cosa diversa ai commi 1 e 2 dell’articolo 1. Il primo comma recita: “A decorrere dal giorno successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto (dunque il 9 marzo ndr) e sino al 22 marzo 2020 le udienze dei procedimenti civili e penali pendenti presso tutti gli uffici giudiziari, con le eccezioni indicate dall’articolo 2 comma 2 lettera g, sono rinviate d’ufficio a data successiva al 22 marzo 2020”. Il problema sorge con il comma 2, che riguarda la sospensione dei termini. Si legge: “A decorrere dal giorno successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto e sino al 22 marzo 2020 sono sospesi i termini per il compimento di qualsiasi atto dei provvedimenti indicati al comma 1, ferme le eccezioni richiamate. Ovvero il decorso abbia inizio durante il periodo di sospensione, l’inizio stesso è differito alla fine di detto periodo”. Una interpretazione cautelativa della lettera della norma, infatti, prevede che gli unici termini sospesi dal decreto siano quelli che riguardano procedimenti con udienze fissate tra il 9 marzo e il 22 marzo. Quindi, un numero ridotto di procedimenti, rispetto ai tanti termini che scadrebbero nell’arco di queste due settimane. Cosa chiedono gli avvocati - La richiesta che viene da tutta l’avvocatura è quella di una nuova previsione che estenda la sospensione dei termini a tutti i procedimenti che non rivestano caratteri di urgenza. La risposta ufficiosa, proveniente anche dai ranghi della magistratura, è che ogni tipo di adempimento può essere svolto in via telematica, dunque non c’è ragione di estendere in questo modo la sospensione. Perché gli adempimenti in via telematica sono rischiosi - Se in astratto potrebbe essere vera la considerazione che la via telematica consente il deposito di tutti atti, la pratica è ben diversa. Se è vero, infatti, che l’atto può essere depositato telematicamente, è altrettanto vero che il lavoro di stesura e composizione dell’atto non può avvenire in una modalità che tuteli gli avvocati e i loro clienti. Per cominciare, qualsiasi tipo di allegato che provenga dalla parte deve essere materialmente fornito all’avvocato dal cliente. Non tutti - si pensi a clienti anziani - sono in grado di fornire la versione dell’atto già scannerizzata e pronta per essere allegata, dunque il cliente dovrà recarsi presso lo studio del difensore per fornire il materiale. Il cliente, inoltre, deve sottoscrivere la procura al proprio difensore e l’atto non può certo avvenire in via telematica, ma il cliente deve recarsi presso lo studio per firmarla. Infine, non tutto il sistema dei processi è telematico. L’ufficio del giudice di pace, per esempio, non è attrezzato e dunque gli atti vanno depositati in formato cartaceo. Lo stesso vale per il giudice tutelare, la Corte di Cassazione e il tribunale per i minorenni. Udienze via Skype, il costo più alto è pagato dai reclusi di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 12 marzo 2020 I processi a distanza introdotti dopo Capaci, ora sono estesi a tutti i reati. L’emergenza sanitaria legata al diffondersi sul territorio nazionale ed europeo del Covid-19 ha avuto ripercussioni anche sul sistema giudiziario. Tra le misure introdotte dall’Esecutivo ce ne sono alcune capaci di produrre un impatto incisivo sulla regolare prosecuzione dei processi, soprattutto quelli penali, in relazione ai quali si sono dovute bilanciare da un lato l’esigenza e il diritto costituzionalmente garantito delle persone coinvolte in qualità di indagato o imputato - che possono quindi anche essere detenute in carcere - a presenziare alle udienze, e dall’altro la necessità di evitare una maggior diffusione del Covid-19. Tra le diverse disposizioni, il governo ha previsto, per i procedimenti penali, alcune eccezioni alla regola del rinvio ex officio: non sono rinviate le udienze di convalida dell’arresto o del fermo, quelle relative a procedimenti nei quali è stata adottata una misura cautelare e quelle in occorrenza delle quali siano le stesse parti - il detenuto o il suo difensore - a richiedere la trattazione. La ratio è proprio quella di evitare che un soggetto - detenuto in misura cautelare, quindi non definitiva - trascorra ulteriore tempo in carcere senza alcun giudizio, ancorché non definitivo, di un Giudice diverso da quello che ne ha disposto la reclusione. Dunque, queste udienze si terranno. Tuttavia, sulla base di ciò si è posto il problema di garantire al detenuto la presenza in udienza. La soluzione consiste nella partecipazione in videoconferenza per i detenuti: in particolare, l’art. 2, c. 7 del D. L. dispone che la partecipazione a qualsiasi udienza delle persone detenute, internate o in stato di custodia cautelare è assicurata, ove possibile, mediante videoconferenze o con collegamenti da remoto. Un’ipotesi del genere esisteva già nel nostro ordinamento: l’articolo summenzionato si riporta infatti alla normativa dell’art. 146 bis delle disp. Att. C. p. p.. Tuttavia, la grande criticità da porre necessariamente in rilievo risiede nella circostanza per la quale il ricorso allo strumento audiovisivo previsto dalla normativa richiamata era stato pensato, in epoca immediatamente successiva alle stragi di mafia di via d’Amelio e Capaci, esclusivamente per evitare che gli imputati detenuti e appartenenti a organizzazioni mafiose potessero influenzare le dinamiche processuali, inquinando la serenità dei soggetti chiamati a vario titolo a partecipare ai vari procedimenti penali. L’uso della tecnologia era, dunque, strumentale a evitare tentativi di condizionamento. I motivi di allora e attuali che hanno portato alla medesima soluzione sono, insomma, molto diversi. L’art. 146 bis disp. Att. C. p. p., rubricato “partecipazione al dibattimento a distanza” e modificato dalla cosiddetta riforma Orlando del 2017, attualmente prescrive la necessaria partecipazione a distanza per i detenuti imputati per taluni delitti, tra cui proprio l’associazione a delinquere. L’art. 77 della riforma Orlando ha cioè eliminato la presenza di ulteriori requisiti per disporre la videoconferenza, che diventa un automatismo per i delitti indicati. Una siffatta impostazione ha prodotto alcune rilevanti criticità in ordine al rispetto delle garanzie sul contraddittorio. Alla luce di quanto detto, il ricorso a strumenti audiovisivi disposto invece, dal decreto 11 dell’8 marzo, per tutti i detenuti comporterà un’evidente lesione dei principi costituzionali del giusto processo e in materia di contraddittorio, anche perché manca una distinzione per tipologia di delitti, come previsto invece dalla normativa preesistente. *Avvocato, direttore Ispeg Emilia Romagna e Marche. I cappellani delle carceri: “L’unica via è il dialogo e la mediazione” Dire.it, 12 marzo 2020 In una nota congiunta, i cappellani delle carceri del Provveditorato di Emilia-Romagna si rivolgono a persone detenute, agenti e amministrazioni: “La gravità della situazione non richiede necessariamente un di più di violenza, ma certamente un di più di coscienza” “Questo vi darà occasione di rendere testimonianza”. È l’invito che Gesù ci rivolge quando è in causa la nostra vita e la vita dei nostri cari. Sono parole che vogliamo condividere”. Comincia così la nota congiunta dei cappellani delle carceri dell’Emilia-Romagna e Marche in merito alle rivolte in molte delle carceri delle due regioni (il Provveditorato di riferimento è Emilia-Romagna - Marche). “Le condividiamo in comunione con le comunità che presiediamo in carcere, condividendo con loro una doppia condizione di restrizione. Già privati della libertà, ci vediamo privati anche di ciò che rende la carcerazione meno opprimente come i colloqui, i laboratori, le attività, l’incontro con i volontari così come le attività religiose. Lo facciamo in solidarietà con gli operatori del carcere, chiamati a gestire tensioni che si accumulano e rischi che si moltiplicano. I cappellani, di fronte dalla drammatica situazione di crisi, affermano di continuare a credere “nella via del dialogo e della mediazione. Non perché sia la via più facile, ma perché è l’unica. Non perché senz’altro disponibile, ma perché indispensabile”. “L’uso della violenza, mai giustificato, rifiutato dalla maggioranza dei detenuti e degli operatori, è stato ritenuto uno strumento inevitabile - continuano -. Questo ci dà l’occasione di rendere testimonianza alla necessità del dialogo e dell’incontro. La gravità della situazione non richiede necessariamente un di più di violenza, ma certamente un di più di coscienza. Il chiuso del carcere richiede apertura delle menti e dei cuori”. Poi un riferimento all’emergenza sanitaria: “Mentre siamo tutti unitamente intenti a combattere il virus che colpisce i polmoni, vogliamo allearci per contrastare ogni virus maligno che colpisce il cuore e annebbia la mente. È il tempo della forza, non della violenza. È il tempo della testimonianza. È il tempo della speranza, non dell’illusione. È il tempo dell’alleanza. La Parola di Dio e la storia degli uomini ci insegnano che le alleanze reggono in virtù di regole alle quali ci si educa e ripetutamente ci si converte. La prima delle quali è: ‘Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a tè. Uno contro l’altro è illusione, insieme è speranza. È il tempo della carità, non della vendetta. È il tempo della giustizia. È il tempo di accettare la sentenza umana per uscire dal carcere migliori. È il tempo di dar corso alla sentenza testimoniando che il fine ultimo di ogni pena, di ogni misura, di ogni intervento è l’uomo, al di là dell’aggettivo colpevole”. Lazio. Il Garante dei detenuti: “Assicurare misure di prevenzione in carcere” Ristretti Orizzonti, 12 marzo 2020 Dichiarazione di Stefano Anastasia, Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio. “In questo momento così delicato serve il massimo sforzo di coordinamento tra le istituzioni e gli operatori sul campo per riportare serenità nel mondo penitenziario e assicurare le misure necessarie alla prevenzione della diffusione del coronavirus in carcere. Per questo, pur nella delicatezza del frangente, lunedì scorso abbiamo tenuto una prima riunione, presso il Tribunale di sorveglianza di Roma, con la Presidente Vertaldi, il Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria Carmelo Cantone, il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma e il sottoscritto. Questo pomeriggio poi si è riunito online il coordinamento dell’Osservatorio regionale per la sanità penitenziaria che ha condiviso delle linee guida di prevenzione che verranno inoltrate a tutti gli istituti nei prossimi giorni. Intanto, il Tribunale di sorveglianza ha disposto, a decorrere da oggi, una licenza di quindici giorni per tutti i detenuti in semilibertà, che quindi non avranno più necessità di rientrare in carcere la sera. La Presidente Vertaldi, inoltre, ha chiesto a tutti gli Istituti penitenziari di monitorare i detenuti con età superiori ai 65 anni che presentino patologie in corso di tipo respiratorio o cardiologico. Infine, l’Amministrazione penitenziaria sta provvedendo ad attrezzare gli istituti alla effettuazione dei video-colloqui e delle telefonate supplementari raccomandate dal decreto-legge di domenica scorsa in sostituzione dei colloqui in presenza, che restano sospesi fino al prossimo 22 marzo, e sono in corso di distribuzione le mascherine che dovrebbero proteggere i detenuti dal contagio proveniente dai contatti con l’esterno. Certamente non tutti i problemi presenti e prossimi saranno così risolti, ma questi sono segnali di attenzione alla difficile condizione dei detenuti di tutte le istituzioni coinvolte. Speriamo che questo possa contribuire a rasserenare gli animi e consentire di adottare le ulteriori misure che saranno necessarie alla tutela della salute dei detenuti”. Modena. “Nel carcere assalto al metadone, rivolta non per il positivo al coronavirus” di Carlotta Di Santo dire.it, 12 marzo 2020 Il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma interviene sul caso: “Secondo la Ausl il positivo subito isolato”. “Un detenuto positivo al Coronavirus nel carcere di Modena? L’ho letto anche io in una comunicazione della Ausl, ma non ho conferma né smentita dall’amministrazione penitenziaria. Quello che è chiaro, perché così è scritto anche nella nota dell’Ausl che ho visto, è che si tratterebbe di una persona da subito ospedalizzata. Ma che ci sia un caso positivo dentro il carcere è falso”. Lo dice all’agenzia Dire il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, interpellato sul caso. “Analogamente, che questa sia stata la causa della rivolta nel carcere di Modena mi fa sorridere- prosegue Palma- perché il giorno prima c’erano già state agitazioni a Salerno eppure non c’era stato alcun caso di Coronavirus”. Semmai, secondo il Garante, per i detenuti l’emergenza legata all’attuale situazione sanitaria italiana sarebbe stato “solo un elemento aggiuntivo di ansia, in una situazione, quella carceraria, che già per molti aspetti è critica”. E indipendentemente dalla conferma o meno della notizia da parte del Dap, spiega ancora Palma, tra i detenuti “l’idea di contagi o di eventuali rischi per la propria salute crea l’idea di una doppia detenzione, o meglio di una doppia privazione: oltre a quella della libertà, si aggiungerebbe quella medica”. Ma su un punto, in ogni caso, il Garante è chiaro: “È nell’interesse dell’amministrazione essere trasparenti, nessuno vuole nascondere o coprire qualcosa”. Ma nel caso specifico di Modena, non potrebbe essersi verificata comunque tra i detenuti anche un’ulteriore preoccupazione per essere stati contagiati? “A Modena i detenuti il primo assalto lo hanno fatto al metadone e ai farmaci - risponde Palma - alcuni sono morti per overdose. Quindi non mi pare, almeno per alcuni di loro, che ci fosse tutta questa attenzione alla tutela della propria salute”. Quanto all’eventualità di effettuare tamponi su tutta la popolazione carceraria, per il Garante si tratterebbe di “un’assurdità”, perché i tamponi “vanno fatti a chi ha già dei sintomi, esattamente come avviene fuori per i cittadini. Si dovrebbero piuttosto sanificare i luoghi- suggerisce- rendendoli anche più spaziosi, e riuscire a ridurre un po’ i numeri. Ma quella dei tamponi sarebbe una pessima iniziativa, anche per il sovraccarico che avrebbero sul Sistema sanitario nazionale”. A causa dell’emergenza Coronavirus, intanto, nei penitenziari sono stati momentaneamente sospesi i colloqui. Su questo Palma si trova in disaccordo: “Per fortuna si tratta di una misura molto limitata nel tempo - commenta - sarà in vigore fino al 22 marzo. I colloqui vanno ripristinati presto in varie forme, per esempio aumentando il numero e la durata di quelli telefonici, oppure va ripristinata l’ipotesi, laddove sia possibile, di farli a distanza o anche nel carcere ma all’aperto. Con le nuove restrizioni del governo sugli spostamenti nel territorio, ad ogni modo, ci sarà a prescindere una diminuzione dei colloqui nei penitenziari”. Per il Garante la misura dell’interruzione dei colloqui è stata comunque “presentata male, o meglio fatta capire male ai detenuti. In fondo il decreto dice semplicemente i colloqui saranno interrotti fino al 22 marzo - sottolinea Palma - non stiamo parlando di un lunghissimo periodo. Ma purtroppo nei penitenziari sono iniziate a circolare voci secondo cui avrebbero abolito per mesi tutto, compreso il lavoro all’esterno. Sembrava ci fossero disposizioni ‘sigillanti’, invece non è così”. Ma in alcuni istituti penitenziari, dove le misure “sono state spiegate correttamente - aggiunge il Garante - da Bollate a Brindisi, per esempio, o non si sono avute rivolte oppure si sono subito placate perché i detenuti hanno capito perfettamente che molte attività continuavano a essere loro assicurate, mentre nelle carceri dove questo non è accaduto le cose sono andate male. Poi, come si sa, le rivolte si diffondono con rapidità”. Ora per Palma dovrà essere “il Tribunale di sorveglianza ad agire al massimo delle sue possibilità, garantendo ovviamente la sicurezza esterna”. Infine un appello: “Da Garante dei detenuti invito alla calma- dice Palma- vanno presi dei provvedimenti che un po’ alleggeriscano il peso sulle carceri e va soprattutto riportato ora l’ordine, perché questo è necessario. Va capito perché c’è stato questo grande difetto di comunicazione sui colloqui, che ha fatto sì che provvedimenti in fondo molto limitati invece venissero avvertiti dai detenuti come totalizzanti sulle loro attività quotidiane”, conclude Palma. Modena. Comunicato stampa del Gruppo Carcere-Città Ristretti Orizzonti, 12 marzo 2020 I fatti accaduti nel carcere di Sant’ Anna domenica scorsa ci riempiono di dolore e di tristezza. Noi volontari abbiamo da sempre l’ambizione di portare in carcere un di più di umanità reso possibile dalla nostra libertà e dalla capacità di fare riferimento ai temi dei diritti che nemmeno entrando si perdono. Già da alcune settimane l’emergenza sanitaria e le conseguenti restrizioni in merito al suo contenimento ci avevano fatto sparire dalla vita del carcere e dei detenuti e poi via via sono stati rallentati i rapporti con i familiari, sono stati sospesi i permessi, il lavoro esterno e, in definitiva, ogni genere di rapporto con il mondo. In questo contesto il coranavirus ha messo a nudo la condizione carceraria, l’ha riportata indietro a prima della legge Gozzini. I fragili vivono in ogni contesto, ma in carcere più che altrove. Lì si assommano povertà, condizioni di solitudine totale, tossicodipendenza, anzianità, malattia mentale e, senza distinzione, un vincolo di totale dipendenza che impedisce l’assunzione di responsabilità. E così, in una domenica pomeriggio ancora più vuota degli altri giorni è arrivata la rottura, l’andare incontro alla morte non per la libertà, ma per il solo rifiuto di questo vuoto e dell’angoscia che ne deriva. Il carcere non educa alla responsabilità, già lo sapevamo, ma ci ha fatto molto male vedere tanti giovani alzarsi solo per distruggere, non per tentare di aprire una prospettiva, senza nemmeno una parola da dire, da urlare. E, alla fine, quello che è apparso a noi è stato l’assalto ai farmaci, al metadone, alla morte. Con tanto dolore dentro non possiamo però tacere le responsabilità di chi consente che le carceri siano sovraffollate o di chi continua a non collocare negli istituti personale dell’area educativa, tra psicologi, criminologi, educatori e operatori della sanità. I dati sono allarmanti: con una capienza regolamentare di 369 posti, al 29 febbraio 2020 erano presenti a Modena 562 detenuti e, al 6 febbraio, quattro funzionari della professionalità giuridico-pedagogica e una sola psicologa per 38 ore mensili. A questo si sommano le responsabilità di chi crede poco nelle misure alternative al carcere per le persone che hanno i requisiti per accedervi e non ne facilita la fruizione. Ci sembra inoltre che il Ministro della Giustizia, impegnato a riaffermare astratti principi di legalità, come del resto facciamo noi tutti, non metta in campo le risorse necessarie per favorire quelle azioni rieducative che la nostra Costituzione esige e che renderebbero la vita detentiva più dignitosa. Purtroppo, una società forte di pregiudizi e condizionamenti, difficilmente si sforza di riflettere sul ruolo della pena ma preferisce istintivamente carceri lontane e chiuse; lo chiede una parte abbondante della popolazione come del resto anche alcuni sindacati di polizia. Noi volontari abbiamo invece maturato nel corso degli anni la netta consapevolezza che solo l’aumento significativo del rapporto tra le persone detenute e il mondo esterno può aiutarle ad assumere responsabilità e a rialzarsi. E solo allargando l’attenzione il più possibile anche a chi non conosce la realtà carceraria è possibile andare verso un dialogo che non escluda nessuno. Da ultimo bisogna dire che questa scelta di morte non ha riguardato tutta la popolazione carceraria: non sappiamo quante persone abbiano partecipato alla rivolta, ma è certamente una minoranza, anche se significativa. Nostro dovere è rivolgerci agli altri e ai sopravvissuti per rigettare le basi di un cammino di responsabilità, perché solo così è possibile la libertà. Bologna. Dopo la rivolta muore un detenuto al carcere della Dozza di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 12 marzo 2020 Un detenuto straniero di 29 anni è morto nel carcere della Dozza di Bologna, dopo la sommossa. Sono in corso accertamenti per chiarire le cause e i tempi del decesso per stabilire se esiste una relazione con la rivolta scoppiata tra lunedì e martedì. A quanto si apprende, l’uomo sarebbe morto per arresto cardiaco. Potrebbe trattarsi anche questa volta di un caso di eccessiva assunzione di sostanze stupefacenti. Non ci sono conferme. È in corso intanto il conteggio dei danni nel carcere di Bologna. Mentre ancora si contano i danni ingentissimi provocati dai due giorni infuocati dalle rivolte nel carcere della Dozza, anche nell’istituto penitenziario di Bologna si registra un decesso. Le cause della morte sono ancora in via di accertamento, ma nella tarda mattinata di ieri un detenuto straniero di 29 anni è stato trovato cadavere nella sua cella dalla polizia penitenziaria. Dai primi rilievi risulta che il decesso è avvenuto per arresto cardiaco, ma sarà l’autopsia a stabilire se l’uomo avesse assunto farmaci trovati in uno degli ambulatori devastati durante la rivolta. Non si può escludere, infatti, che il malore sia stato provocato da un’overdose di sostanze. È la stessa polizia penitenziaria a dichiararlo: “Potrebbe trattarsi anche questa volta di un caso di eccessiva assunzione di sostanze” affermano Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Francesco Campobasso, come già è successo a Modena. “Abbiamo fatto tutto il possibile che perquisire tutti dopo il ritorno alla calma - dice un altro agente - ma è stato impossibile bonificare tutto. Avremmo proseguito oggi”. Infatti, nonostante gli agenti della Penitenziaria fossero riusciti a mettere in sicurezza e rastrellare tutti i medicinali pericolosi dall’ambulatorio centrale dove c’è la farmacia, alle prime avvisaglie di protesta lunedì mattina, restavano gli ambulatori più piccoli ai piani della palazzina del Reparto giudiziario, che sono stati devastati. Anche un altro detenuto avrebbe accusato un malore ieri. La Procura disporrà l’autopsia sul corpo del 29enne deceduto, ritrovato nella sezione “2C”, proprio una di quelle che ieri mattina in un comunicato il vicesegretario provinciale del Sinappe Nicola D’Amore, indicava come tra le più problematiche, all’interno del Reparto giudiziario teatro dei disordini. “Nel primo piano giudiziario - scrive il sindacato - la politica di accorpamento in gruppi etnici crea un sottobosco culturale per condotte delinquenziali di più vasta portata, incentivando la suddivisione della popolazione ristretta in gang o il proselitismo religioso”. Mali da cui le carceri italiane sono afflitte da tempo, esplosi come una bomba nel momento in cui l’emergenza sanitaria ha imposto ai detenuti di rinunciare ai colloqui con i familiari, al lavoro esterno, alle attività di volontariato, in ultimo anche a permessi premio e semilibertà in alcuni casi. Ma le rivolte hanno portato devastazione in strutture già sovraffollate, alle prese con gravissime carenze di organico e di risorse. “Prima di fare la conta dei danni stiamo ancora liberando gli spazi dalle macerie” commentava ieri la direttrice della Dozza Claudia Clementi. A causa delle devastazioni una quindicina di detenuti sono stati trasferiti in altre strutture, “speriamo di riuscire a spostarne altri” si augura la direttrice, ma sarà difficile, visto che le strutture della penisola hanno già dovuto farsi carico di più di 500 reclusi trasferiti dal Sant’Anna di Modena, totalmente distrutto dopo le rivolte di domenica. Per un po’ i detenuti del Reparto giudiziario non potranno neanche fare videochiamate via Skype ai familiari, visto che hanno distrutto ambienti comuni e computer. D’Amore del Sinappe, auspicando “una concezione moderna delle case circondariali”, in cui si arrivi “a una piena integrazione della popolazione ristretta”, ricorda che proprio nel Reparto giudiziario, dove di notte “una sola unità copre l’intero reparto”, nelle settimane scorse erano state ritrovate ingenti quantità di frutta messa a macerare per farne alcolici. Rieti. Rivolta nel carcere, quarto detenuto morto in ospedale La Repubblica, 12 marzo 2020 Sale a quattro il bilancio dei detenuti morti in seguito alla rivolta scoppiata lunedì nel carcere di Rieti. Un quarto detenuto tra i 7 ricoverati in ospedale è deceduto stanotte all’ospedale ‘San Camillo De Lellis’ di Rieti, dove era sotto osservazione. L’uomo, al pari degli altri 3 reclusi trovati senza vita all’interno della struttura penitenziaria situata nel quartiere di Vazia, è rimasto vittima di un’overdose di farmaci, verosimilmente metadone, dopo l’assalto all’infermeria del carcere avvenuto nella tarda serata di lunedì. Sale così a 4 il numero delle vittime nel carcere reatino a seguito delle sommosse di lunedì e martedì. Oltre a loro, altri 6 detenuti sono feriti in ospedale, uno di loro è ricoverato in gravi condizioni al policlinico Gemelli di Roma. Secondo una prima stima dell’istituzione penitenziaria, ammontano circa a 2 milioni di euro i danni registrati nella struttura durante le mobilitazioni di lunedì e martedì. Numerosi i locali completamente distrutti dalla sommossa dei detenuti: oltre all’infermeria, è stata ridotta a pezzi anche la farmacia, dalla quale sarebbero stati prelevati i farmaci risultati poi letali per i 4 detenuti morti. Venezia. Carcere, le celle al setaccio per timori di nuove rivolte di Nicola Munaro Il Gazzettino, 12 marzo 2020 La prima cosa che i cinquanta detenuti rivoltosi hanno fatto martedì pomeriggio nel carcere di Santa Maria Maggiore, è stata quella di rompere le telecamere di sicurezza. Sapevano che facendo così avrebbero reso più difficile il lavoro degli agenti di Polizia penitenziaria e degli inquirenti, una volta sedata la rivolta. E proprio la mancanza delle riprese interne ha causato un rallentamento alle indagini: ieri mattina in procura non era ancora arrivata nessuna denuncia, molto semplicemente perché gli inquirenti stavano ancora lavorando all’identificazione dei responsabili. Capire, cioè, chi ha agito per primo, chi ha distrutto le telecamere e le finestre, chi ha dato fuoco a coperte e materassi e chi li ha lanciati negli spazi interno del secondo e dell’ala sinistra del primo piano, le due aree con il maggior numero di danni del carcere Santa Maria Maggiore dopo le due ore di sommossa di lunedì. Quando le preoccupazioni per un possibile contagio da coronavirus e le stringenti disposizioni del Governo che stoppavano colloqui con avvocati e familiari, erano state la miccia con la quale accendere una protesta sul sovraffollamento delle carceri: a Venezia a fronte di 159 posti sono ospitati 268 detenuti. Per ricostruire il tutto si parte quindi da quello che possono raccontare i testimoni oculari, qualche agente di polizia che ha visto dallo spioncino della porte-cancello del corridoio diventato teatro della rivolta, sempre rimasta chiusa. La rivolta infatti non è uscita dai corridoi interni alla casa circondariale nonostante i detenuti abbiano tentato di abbattere la porta d’ingresso con alcune cariche che non sono andate a buon fine. I danni peggiori sono stati fatti alle vetrate delle finestre (distrutte per poter lanciare materassi e coperte in fiamme negli spazi comuni) oltre che al sistema di videoripresa interno, devastato. Nessun danno alle celle, segno che i detenuti avevano ben chiaro dove andare a colpire e come farlo. A comporre il manipolo di ribelli, detenuti italiani e stranieri, condannati per diversi reati, per lo più reati contro il patrimonio, furti e rapine. La rivolta però non è sfociata o di forzare e buttare giù i cancelli. Lastre di vetro, telecamere, nessun danno nelle celle. Danni che verranno messi in conto a chi verrà individuato. Sempre ieri gli agenti hanno passato al setaccio le celle di tutti i detenuti del braccio sinistro del penitenziario: hanno perquisito persone e zone comuni e private per sequestrare qualsiasi cosa potesse essere utile ai detenuti per una nuova, futura, sommossa. La tensione infatti rimane alta, come testimoniato martedì dal cordone di forze di polizia che - mentre i vigili del fuoco spegnevano il principio di incendio - cinturava il perimetro del carcere e bloccava gli accessi in isola dal ponte della Libertà. Non tanto al fine di evitare possibili evasioni ma per impedire l’eventualità che dalla città arrivasse man forte alla protesta e così la polizia penitenziaria fosse presa, lei, d’assedio. Stretta tra i detenuti e i loro fiancheggiatori. La protesta è l’ultima di una trentina di rivolte nelle carceri di tutta Italia. Una protesta unitaria - nei tempi e nei modi - per il sovraffollamento e per lo stop ai colloqui alimentata anche dalla criminalità organizzata. Il tutto in una situazione difficile: da due mesi il provveditorato delle carceri del Triveneto è retto dal provveditore di Emilia e Marche e anche il comandante del penitenziario, è lo stesso di Trieste. Firenze. A Sollicciano un agente contagiato, scatta la rivolta dei detenuti di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 12 marzo 2020 Tavoli e sedie a fuoco, momenti di paura. Il malato è un giovane tirocinante. È da poco passato mezzogiorno quando il direttore del carcere fiorentino di Sollicciano Fabio Prestopino, assistito dal personale sanitario del penitenziario, incontra i detenuti per informarli che tra gli agenti, c’è un caso di positività al coronavirus. Si tratta di un allievo agente, arrivato da poco nel carcere fiorentino per i corsi di formazione, che non ha incarichi operativi ma soltanto di osservazione. Attualmente si trova ricoverato in ospedale ed è in buone condizioni. Dovrà fare la quarantena ma rischia di non poterla farla nella caserma di Sollicciano, dove vive, per evitare contatti con altri agenti. Appresa la notizia, i detenuti alzano la voce, si dicono preoccupati, temono contagi. Così scatta la rivolta. Alcuni di loro prendono a calci le suppellettili che trovano nei corridoi, altri appiccano il fuoco a tavoli e sedie. Divampa l’incendio, attraverso le finestre un’alta colonna di fumo nero, visibile anche dall’esterno del carcere. I reclusi urlano e battono sulle inferiate. Viene attivata la sirena dell’allarme, gli agenti si attrezzano con le tenute anti sommossa. Si teme, come avvenuto nei giorni scorsi in altri penitenziari italiani, una fuga di massa. Sul posto arrivano diverse camionette dei vigili del fuoco a sirene spiegate. Arrivano anche polizia e carabinieri. L’incendio viene domato, ma i detenuti continuano a urlare dalle finestre. Poi la situazione torna alla calma, ma i reclusi chiedono garanzie per la loro salute. “Continueremo a monitorare costantemente la salute dei reclusi - ha detto il direttore Prestopino - Qualora si manifestassero sintomi di tosse o influenza, agiremo di conseguenza”. Per quanto riguarda gli agenti penitenziari, potrebbe scattare la quarantena per i colleghi di corso e per il tutor. Per prevenire eventuali contagi, è stata montata all’esterno di Sollicciano (come delle altre carceri) una tenda-triage per i controlli sanitari. Su direttiva ministeriale, sono stati cancellati i colloqui fisici tra reclusi e familiari e l’ingresso dei volontari. Ai reclusi saranno consentiti due colloqui telefonici a settimana e dieci al mese (anziché uno a settimana e cinque al mese). Il cappellano di Sollicciano don Vincenzo Russo ha scritto una lettera al ministro della giustizia: “I detenuti vorrebbero indicazioni dal governo su come rispettare alcune regole, come ad esempio il metro di distanza tra l’uno e l’altro o il lavaggio delle mani quando talvolta mancano saponi e disinfettanti”. La camera penale di Firenze chiede politiche di sfollamento di Sollicciano “implementando la concessione dei domiciliari per chi ha possibilità di usufruire di un domicilio nonché la concessione ai soggetti sottoposti al regime di semilibertà di pernottare presso le proprie abitazioni”. Oggi si terrà una riunione tra tutti i garanti dei detenuti della Toscana che chiederanno formalmente la nomina di un commissario straordinario per gestire l’emergenza coronavirus in carcere, in attesa della nomina del nuovo garante regionale, di cui la Toscana è ancora sguarnita. Nel frattempo, al carcere elbano di Porto Azzurro sono arrivati quindici detenuti dal carcere di Modena, dopo la rivolta dei giorni scorsi. E in quello di Livorno i detenuti hanno scritto una lettera in cui dicono: “L’unico antivirus contro questo “malessere” è la forza dell’umanità e del rispetto reciproco. Anche dietro le sbarre”. Roma. 15 giorni di licenza ai semiliberi, al vaglio domiciliari per detenuti vicini al fine pena di Ylenia Sina romatoday.it, 12 marzo 2020 Chiesto monitoraggio dei detenuti over 65 anni con patologie respiratorie o cardiologiche. Possibilità anche per quanti hanno pene inferiori ai 15 mesi. Dopo le proteste dentro e fuori dalle carceri dei giorni scorsi è il Tribunale di sorveglianza a muoversi verso misure che vanno nella direzione di alleggerire la presenza di detenuti all’interno delle carceri. “A decorrere da oggi ha disposto una licenza di quindici giorni per tutti i detenuti in semilibertà, che quindi non avranno più necessità di rientrare in carcere la sera”. Non solo. La presidente Maria Antonia Vertaldi “ha chiesto a tutti gli Istituti penitenziari di monitorare i detenuti con età superiori ai 65 anni che presentino patologie in corso di tipo respiratorio o cardiologico”. Le misure sono state comunicate dal Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasìa, che ieri aveva parlato della necessità di ridurre il sovraffollamento all’interno delle carceri perché “in queste condizioni non è possibile garantire le norme sanitarie richieste al resto della popolazione”. Al vaglio c’è anche la possibilità di applicare la detenzione domiciliare per i detenuti con una pena da scontare residua inferiore ai 15 mesi. “La presidente del tribunale ha chiesto agli istituti informazioni in merito ai detenuti che potrebbero ottenere la detenzione domiciliare”, spiega Anastasìa. “Ma non ci sarà nulla di automatico. Sappiamo che il nucleo di polizia penitenziaria sta lavorando all’interno del carcere di Rebibbia per procedere all’accertamento dei domicili, precondizione per accordare la detenzione domiciliare che però non sarà automatica”. Intanto, “l’Amministrazione penitenziaria sta provvedendo ad attrezzare gli istituti alla effettuazione dei video-colloqui e delle telefonate supplementari raccomandate dal decreto-legge di domenica scorsa in sostituzione dei colloqui in presenza, che restano sospesi fino al prossimo 22 marzo” ha aggiunto Anastasìa “e sono in corso di distribuzione le mascherine che dovrebbero proteggere i detenuti dal contagio proveniente dai contatti con l’esterno”. Anastasìa ha ricordato che “in questo momento così delicato serve il massimo sforzo di coordinamento tra le istituzioni e gli operatori sul campo per riportare serenità nel mondo penitenziario e assicurare le misure necessarie alla prevenzione della diffusione del coronavirus in carcere”. “In questo momento così delicato serve il massimo sforzo di coordinamento tra le istituzioni e gli operatori sul campo per riportare serenità nel mondo penitenziario e assicurare le misure necessarie alla prevenzione della diffusione del coronavirus in carcere”, commenta Anastasìa. “Per questo, pur nella delicatezza del frangente, lunedì scorso abbiamo tenuto una prima riunione, presso il Tribunale di sorveglianza di Roma, con la Presidente Vertaldi, il Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria Carmelo Cantone, il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma e il sottoscritto. Questo pomeriggio poi si è riunito online il coordinamento dell’Osservatorio regionale per la sanità penitenziaria che ha condiviso delle linee guida di prevenzione che verranno inoltrate a tutti gli istituti nei prossimi giorni”. Intanto, anche oggi, moglie e parenti dei detenuti si sono mobilitati per avere garanzie per i loro familiari, seppur senza formare un vero e proprio presidio. Lunedì, mentre dentro il carcere di Rebibbia, così come nel resto d’Italia, scoppiavano rivolte, il presidio organizzato all’esterno ha registrato qualche momento di tensione. Ieri, invece, mentre una piccola delegazione ha incontrato il vice capo di Gabinetto del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, il piccolo presidio che si era formato all’esterno e che attendeva aggiornamenti, è stato disperso con delle cariche da parte della polizia che, dal ministero di Giustizia, in via Arenula sono arrivate a largo di Torre Argentina. I familiari chiedevano di “porre rimedio a questo sovraffollamento che lede la dignità delle persone con un indulto”. Reggio Emilia. “Dialogo e cooperazione tra detenuti e agenti, così abbiamo fermato la rivolta” today.it, 12 marzo 2020 Il racconto degli operatori del carcere di Reggio Emilia, dove grazie a una serie di misure alternative e tempestive si sono evitati casi di violenze come in altri istituti penitenziari d’Italia”. “È facile parlare dall’esterno delle reazioni violente di chi è dietro le sbarre e teme di restare intrappolato in un ambiente ad alto rischio contagio e di venire ucciso dal virus, mentre in queste settimane fuori dalle carceri abbiamo visto di tutto, da atti di razzismo a corse ai treni in barba alle restrizioni e a ogni tipo di cautela verso il prossimo”. Quando gli chiediamo cosa ne pensa delle violente proteste scoppiate in diversi istituti penitenziari d’Italia dopo le nuove misure del governo sul coronavirus, che hanno portato a 12 morti, Giovanni (il nome è di fantasia) per un attimo si fa cupo, conscio dei rischi che ha corso lui stesso e delle ferite patite dai suoi colleghi, ma mette da parte la rabbia: “Le violenze sono inaccettabili, ma bisogna dare risposte alla popolazione fuori come a quella reclusa”, dice secco. Risposte che, per fortuna, nel carcere di Reggio Emilia in cui lavora sono arrivate in tempo, evitando conseguenze gravi. “Abbiamo dialogato con i detenuti, la maggioranza dei quali, almeno nella mia sezione, ha protestato pacificamente. E abbiamo risposto alle loro preoccupazioni con delle misure alternative ottenendo in cambio la loro cooperazione”, spiega Giovanni, uno dei tantissimi operatori che ogni giorno entra e esce dalle carceri italiane, affrontando una realtà che solo chi la vive da vicino sa quanto complessa e sfaccettata sia. “Se il coronavirus fa paura a chi sta a casa propria, è inevitabile che faccia terrore in un posto dove le persone vivono a stretto contatto 24 ore su 24 - continua. Se circolasse tra le celle rapidamente, un quarto dei detenuti sarebbe a rischio decesso, vista l’elevata età media della popolazione carceraria”. Ecco perché la prima misura straordinaria presa a Reggio Emilia è stata quella di istituire un presidio medico all’ingresso per testare lo stato di salute di chi entra nel carcere. Mentre i detenuti “hanno collaborato a sanificare gli ambienti e a rispettare le norme igieniche richieste”. Messe a punto le misure sanitarie, ci si è concentrati sull’altro motivo di scontro, ossia lo stop alle visite dei parenti. “La direzione ha deciso di aumentare subito i colloqui telefonici, portandoli da 1 a 3, e ha introdotto la possibilità di una chiamata via Skype. Sembra poco, ma spesso la burocrazia è difficile da piegare in tempi brevi, come quelli che servivano in questi giorni”, spiega sempre Giovanni. C’è poi la questione dello stop alle attività formative, dalla scuola agli atelier fatti dai volontari, stop dovuto alle restrizioni all’accesso del personale esterno negli istituti: “In questo caso, abbiamo incrementato le attività e l’accessibilità alle palestre e al campo”. Poche mosse, insomma, ma sufficienti a placare gli animi e a creare una nuova routine carceraria ai tempi del coronavirus. “Le carceri sono lo specchio della società, diceva Dostoevskij. C’è tanta paura fuori e dunque è normale che vi sia anche dentro i penitenziari. Ovvio, c’è chi del caos se ne approfitta, ma la verità è che la stragrande maggioranza delle persone qui sono semplicemente spaventate. E quando hanno manifestato il loro disagio, è stato difficile dargli risposte immediate, perché di risposte nemmeno chi lavora qui ne aveva. In questi casi, bisogna mantenere la calma, parlare con loro, spiegare e rispiegare, renderli partecipi del loro destino, proporre soluzioni, trovare soluzioni”. È quello che è accaduto in alcune sezioni del carcere di Reggio Emilia. E ha funzionato. Bergamo. Il sindaco Gori incontra i detenuti: “Sarò portavoce delle vostre richieste” primabergamo.it, 12 marzo 2020 Dopo l’entrata in vigore su tutto il territorio nazionale delle ulteriori limitazioni per cercare di arginare l’aumento dei contagi da Coronavirus, in diverse carceri italiane sono scoppiati tumulti che hanno visto i detenuti chiedere a gran voce adeguate misure per proteggersi dal Covid-19 e protestare contro il divieto di vista da parte dei parenti contenuto nel Dpcm. A differenza di quanto avvenuto nelle altre case circondariali della Penisola, a Bergamo è stata scelta la via del dialogo. Ieri (mercoledì 11 marzo) il sindaco Giorgio Gori e la direttrice del carcere Teresa Mazzotta hanno incontrato gli ospiti della struttura di via Gleno, i quali hanno portato all’attenzione delle istituzioni le proprie istanze, redigendo una lettera indirizzata al Ministero di Grazia e Giustizia, oltre ad un documento da inoltrare alla magistratura penitenziaria. Il primo cittadino e la direttrice hanno incontrato una delegazione di circa 25 detenuti, appartenenti a tutte le sezioni della casa circondariale, che hanno espresso la preoccupazione alla luce dei recenti sviluppi dell’epidemia di coronavirus. Durante il confronto, durato circa un’ora, è stata chiesta anche l’applicazione di misure che snelliscano i tempi per le istanze di pene alternative, così da migliorare le condizioni di affollamento delle celle e rispettare le direttive fondamentali per contenere la diffusione dell’infezione. Attualmente sono circa 500 le persone recluse nel carcere di Bergamo: le autorità carcerarie si stanno notevolmente impegnando per evitare che il Covid-19 si diffonda anche all’interno delle mura, con conseguenze facilmente immaginabili. Al termine del confronto, il sindaco Gori ha dichiarato di aver apprezzato la scelta dei detenuti di Bergamo di non inscenare proteste come quelle avvenute nelle altre città italiane, proprio per perorare al meglio la propria causa verso le istituzioni, e si è impegnato a farsi portavoce delle richieste dei carcerati del Gleno al Ministro della giustizia Alfonso Bonafede. Enna. Rientrata la protesta dei detenuti alla Casa Circondariale Luigi Bodenza ennapress.it, 12 marzo 2020 Rientra la protesta dei detenuti alla Casa Circondariale di Enna Luigi Bodenza. Stasera intorno alle 18, i detenuti sono rientrati nelle loro celle concludendo così una protesta che però ad onor del vero era stata sempre con toni tutto sommato civili rispetto a quello che è accaduto in altri penitenziari italiani. Un risultato ottenuto dal grande senso di responsabilità da parte di tutte le parti interessate in primo luogo dal reparto di Polizia Penitenziaria il cui Comandante è Marco Puleyo, che hanno svolto un importante opera di mediazione, dalla stessa direzione della Casa Circondariale che in poco tempo si è organizzata per venire incontro alle richieste dei detenuti ed anche da quest’ultimi che anche protestando non hanno mai superato i limiti della degenerazione. Oristano. Carcere di Massama, cresce la tensione tra i detenuti: clima da rivolta di Valeria Pinna L’Unione Sarda, 12 marzo 2020 Sono stati una cinquantina di detenuti, tutti esponenti della criminalità organizzata, ad alzare l’asticella della protesta. Rientrata per ora, ma il clima non è dei migliori. Il carcere di Massama è una polveriera pronta a scoppiare: martedì sera un’intera sezione era in rivolta. Minacce e urla, una protesta che solo la grande esperienza degli agenti di polizia penitenziaria è riuscita ad arginare. Al rientro dall’ora d’aria, cinquanta reclusi in regime di alta sicurezza, hanno sollevato l’asticella della protesta. I detenuti, tutti esponenti della criminalità organizzata, si sono rifiutati di rientrare in cella e sono volate urla e minacce pesanti all’indirizzo degli agenti. Qualcuno ha annunciato di essere pronto a ripetere gli scenari delle altre carceri d’Italia, la sommossa era già organizzata e sarebbe potuta esplodere da un momento all’altro. Sono stati momenti di fortissima tensione, si è anche temuto che la situazione potesse degenerare. Ma gli agenti di polizia penitenziaria hanno dato prova di esperienza e capacità nella gestione di momenti ormai al limite e alla fine i cinquanta ribelli sono rientrati in cella. Per adesso, la situazione è sotto controllo. Anche perché pure nel carcere di Massama ci si sta attrezzando per consentire le telefonate via Skype ai detenuti e dare quindi la possibilità di vedere e sentirsi in qualche modo più vicini ai familiari. Non solo: è stato raddoppiato anche il numero delle telefonate consentite al mese (dalle due chiamate previste si è passati a quattro, con due straordinarie) o alla settimana. Il Dipartimento sta in tutti i modi cercando di trovare soluzioni per gestire una situazione difficile ma che, in un ambiente in cui si vive privati della propria libertà, può aprire scenari davvero inquietanti e preoccupanti per tutti. Anche in piena emergenza Coronavirus, inoltre, ai detenuti sono consentite tutte le normali attività, dalla palestra alle uscite all’aria; l’unica attività sospesa è quella della scuola.