Tempi di virus: capire la sofferenza di chi è in carcere, sconfiggere ogni violenza di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 11 marzo 2020 Provate a immaginare oggi, con questo bombardamento di notizie su un virus che fa paura a noi tutti, di essere rinchiusi in una galera sovraffollata, sentir parlare della necessità di stare almeno a un metro di distanza l’uno dall’altro e sapere che il tuo vicino di branda sta a pochi centimetri da te, in una pericolosa promiscuità dettata dagli spazi ristretti; sentir dire che è un virus che può diventare mortale se attacca persone indebolite dalla malattia e vedere che le persone che hai intorno sono spesso debilitate da un passato di tossicodipendenza e che altre e più gravi patologie coesistono con la detenzione; avere una vita povera di relazioni e vedere dapprima “sparire” tutti i volontari, di colpo non più autorizzati a entrare in carcere, e poi improvvisamente anche i famigliari. Veder sparire le già poche possibilità di formazione e istruzione e dover riempire le giornate con il nulla e la paura. C’è di che perdere davvero la testa. Se c’è un valore di cui il Volontariato è portatore sempre è quello della non violenza, quindi niente si può giustificare di quello che sta accadendo in questi giorni nelle carceri, ma abbiamo anche il dovere di cercare di capire la disperazione che c’è dietro certi gesti: sette detenuti morti a Modena, forse per aver ingerito del metadone, sono comunque l’espressione della sofferenza e della solitudine che caratterizzano più che mai oggi la vita detentiva. Quando con una qualità della vita già così bassa interviene una catastrofe come quella del coronavirus, pensare che persone che la violenza l’hanno sperimentata spesso nel loro passato possano agire con ragionevolezza è solo un’illusione. Se, come chiediamo da tempo, le persone detenute potessero avere dei rappresentanti eletti, sarebbe almeno un po’ più facile cercare di responsabilizzarli in una situazione così grave. Imparare a rifiutare qualsiasi violenza è un aspetto fondamentale della rieducazione, su cui noi volontari ci battiamo senza sosta con le persone detenute, ma sono percorsi lunghi e complessi, che comportano un’adeguata formazione/informazione e un confronto costante. Ed è per questo che capiamo anche quanto drammaticamente difficile sia per la Polizia penitenziaria affrontare conflitti violenti come quelli di questi giorni, e far fronte a questa emergenza spesso senza adeguate e dettagliate informazioni, e senza i prescritti dispositivi di protezione individuali. E quanto importante sia che quello che sta succedendo in questa tragica emergenza non interrompa, ma anzi sviluppi e rafforzi il dialogo che deve esserci sulla finalità rieducativa della pena. Ecco quello che noi volontari, parte di quella società civile che accompagna le persone detenute nei percorsi di reinserimento, proponiamo: - Istituire presso ogni Istituto di pena una specie di Unità di crisi che coinvolga rappresentanti di tutti gli operatori, compreso quel volontariato che fa così comodo nella quotidianità della vita carceraria, ma che è più facilmente “sacrificabile” nei momenti di vera emergenza, quando il suo apporto, la sua capacità di mediazione e di comunicazione sarebbero fondamentali. - Dare ordine ed efficacia alle misure, relative alla tutela degli affetti, uscendo dalla genericità di formule come quella adottata in questi giorni, che dice che “I colloqui visivi si svolgono in modalità telefonica o video, anche in deroga alla durata attualmente prevista dalle disposizioni vigenti”. Le telefonate dovrebbero essere liberalizzate come avviene in molti Paesi europei, e però programmate per permettere a tutti di chiamare casa ogni giorno; andrebbe istituito un fondo per chi non ha soldi nel conto corrente e studiata la possibilità di far usare ai detenuti stranieri le tessere prepagate. C’è poi una circolare del Dap che invita a istituire i colloqui via Skype in tutti gli istituti, va monitorata la situazione per capire quali carceri abbiano già applicato la circolare e vanno organizzate più postazioni in ogni istituto, allargando anche ai detenuti di Alta Sicurezza la possibilità dei colloqui via Skype. Va inoltre ridato al Volontariato il ruolo di sostenere e aiutare le persone detenute a restare in contatto con le loro famiglie, in modo particolare in un momento così delicato. - Ci sono in carcere 8682 persone detenute con meno di un anno di residuo pena, 8146 persone detenute con da uno a due anni di residuo pena, persone quindi destinate ad uscire presto. Sono persone che non devono intasare le carceri e rendere ancora più difficile affrontare l’emergenza sovraffollamento e quella coronavirus. Quello che si può fare subito è creare le condizioni perché vengano concesse più misure alternative: quindi dove è possibile l’affidamento in prova ai servizi sociali, che è la misura più compiutamente efficace per il reinserimento delle persone detenute nella società e anche per la sicurezza della società stessa, e poi la detenzione domiciliare negli ultimi due anni della pena. A partire da tutte le persone anziane e dai malati, che devono essere al più presto rimandati a casa. E se non hanno dove andare, crediamo che la rete delle Comunità di accoglienza possa dare una mano a trovar loro una sistemazione dignitosa. Questo ridurrebbe sensibilmente il numero delle persone in carcere e contribuirebbe ad alleggerire le tensioni e ad affrontare più efficacemente l’emergenza sanitaria. In un Paese convulso, irrazionale, spaventato come il nostro crea scandalo e smarrimento dire che una soluzione come due anni di indulto e un’amnistia per reati di non particolare gravità sarebbe un modo serio per riportare le carceri alla decenza e alleggerire i tribunali, già sfiancati dal virus. Però dobbiamo cominciare a parlarne, con la consapevolezza che è pericoloso oggi creare inutili illusioni tra le persone detenute e i loro famigliari. Facciamo in modo che sia garantito il diritto alla salute anche a chi ha sbagliato e sta scontando una pena, è il modo giusto per sentirsi parte di una comunità e affrontare con meno paura il futuro. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Carceri, un intervento immediato è possibile di Livio Pepino Il Manifesto, 11 marzo 2020 Si può agevolmente sospendere e differire con decreto legge l’esecuzione della pena per i condannati a pene inferiori a due o a tre anni. Alla prova del coronavirus il carcere esplode. È già esploso e si contano i morti. Com’era prevedibile e come era stato previsto. Ora occorrono interventi urgenti da parte di governo e parlamento. Già si è perso troppo tempo e ulteriori attese sarebbero irresponsabili. Quella carceraria è una vera emergenza, ancor più di quella esterna. Per tutti. Primo. Ci sono, nelle carceri italiane, 61.230 detenuti a fronte di 47.230 posti regolamentari (o 50.931, a seconda del sistema di calcolo). In questa situazione di sovraffollamento l’approdo del virus in uno o più istituti sarebbe devastante. Nell’immediato per i detenuti e, subito dopo, per l’esterno. Gli spazi ristretti, l’inevitabile promiscuità, l’impossibilità di misure precauzionali adeguate determinerebbero una diffusione esponenziale del contagio senza “vie di fuga”. I muri non sono una difesa né in entrata né in uscita. Il carcere non si può “sigillare”. Le misure fino ad oggi adottate (sospensione dei colloqui, blocco dei permessi e, qua e là, interruzione del lavoro all’esterno e del regime di semilibertà) sono tanto punitive quanto insufficienti ché le vie del contagio - come stiamo imparando giorno dopo giorno - sono molte e imprevedibili. Provocano solo disagio, proteste e rivolte senza risolvere il problema. Secondo. Un intervento immediato, oltre che necessario, è possibile. Si può agevolmente sospendere e differire con decreto legge (una volta tanto motivato da effettive ragioni di necessità e urgenza) l’esecuzione della pena per i condannati a pene inferiori a due o a tre anni (eventualmente con eccezioni per titoli di reato o recidiva). Il decreto consentirebbe al pubblico ministero che cura l’esecuzione di disporre la scarcerazione, senza necessità di richiesta degli interessati e in tempo reale, di oltre 10.000 detenuti. Persone di pericolosità ridotta la cui liberazione non creerebbe particolare allarme sociale (trattandosi, tra l’altro, solo di un rinvio dell’esecuzione), ridurrebbe le presenze in carcere al di sotto della capienza regolamentare e consentirebbe, in caso di necessità, misure precauzionali adeguate. Hanno adottato un provvedimento simile (ed anzi più esteso) Paesi non particolarmente attenti ai diritti umani, come l’Iran che, il 3 marzo, ha disposto la conversione del carcere in arresti domiciliari per ben 54mila detenuti con pena inferiore a cinque anni. Non c’è ragione perché non lo si faccia da noi. Superfluo dire che una misura siffatta tutelerebbe non solo i detenuti ma anche di chi (agenti di polizia penitenziaria, personale amministrativo, medici, fornitori etc.) è comunque a contatto, in modo diretto o indiretto, con le strutture penitenziarie. Terzo. Tamponata la situazione si deve affrontare la “normalità” del carcere, traendo dall’emergenza gli opportuni insegnamenti. Le politiche sicuritarie perseguite in modo bipartisan negli ultimi anni hanno provocato una crescita continua e incontenibile delle pene senza che ciò abbia ridotto insicurezza e paure. Per invertire la tendenza occorrerebbe ridefinire le politiche penali e le modalità di controllo della devianza, delle dipendenze e dell’opposizione sociale, cioè dei fenomeni che riempiono le nostre prigioni. Ma, per farlo, occorrerebbe una politica coesa o una maggioranza forte. Dunque non accadrà. C’è un’altra strada, possibile e razionale: quella di un uso oculato e intelligente dell’amnistia e dell’indulto, istituti risalenti nel tempo e utilizzati da sempre nel nostro Paese, dove, tra il 1946 e il 1990, ci sono state ben 17 amnistie (a volte con valenza politica, più spesso con finalità deflattive) senza che ciò abbia destabilizzato il sistema. Nell’ormai lontano 1992 peraltro, nel clima della nascente Tangentopoli, l’amnistia e l’indulto sono stati trasformati da istituti giuridici in bestemmie impronunciabili e si è riscritto l’articolo 79 della Costituzione richiedendo, per la loro adozione, il voto favorevole dei due terzi del Parlamento (cosa che rende la loro approvazione più difficile della modifica della Carta fondamentale). Razionalità vuole che oggi si ridia loro cittadinanza. Esse, infatti, consentirebbero, previo monitoraggio della situazione, di approntare interventi mirati e trasparenti in grado di evitare l’ingolfamento del sistema giudiziario e l’implosione del carcere. Questa consapevolezza comincia a farsi strada. Da ultimo è stato il presidente della Corte d’appello di Roma, nella relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2020, a segnalare la necessità di un’amnistia per i reati minori. E molte voci in favore dell’indulto si sono levate in questi giorni dall’avvocatura, dalla stampa, dal mondo dell’associazionismo. È importante non lasciarle cadere. Le rivolte tra rabbia, critiche e speranze di possibili spiragli di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 marzo 2020 Giovanna Di Rosa, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, ha annunciato l’utilizzo delle misure alternative per ovviare al sovraffollamento. Dopo giorni duri e difficili, si avviano alla conclusione le rivolte nelle carceri italiane. Proteste, durissime, dei detenuti che - come l’epidemia attuale - hanno contagiato diversi istituti penitenziari. Inoltre continua, come se fosse un bollettino di guerra, ad aumentare la tragica conta dei detenuti morti. Dopo la dura protesta del carcere di Modena, sono nove i detenuti ritrovati privi di vita. Ma si aggiungono altri decessi avvenuti in altre carceri. A Rieti, dopo la sommossa, sono tre i detenuti rinvenuti morti, più altri due sono stati portati urgentemente in ospedale e sono tuttora in coma. Il motivo dei decessi, anche in questo caso, sarebbe da addebitare all’overdose di metadone razziato nell’infermeria. A darne la triste notizia è Gennarino De Fazio, rappresentante del sindacato nazionale della polizia penitenziaria Uil-Pa De Fazio, visibilmente scosso dall’ulteriore notizia drammatica spiega: “Sono settimane che chiediamo una task force sulle carceri al ministro della Giustizia, ma lui l’ha annunciata solo ieri sera, minimizzando ancora il fallimento della conduzione del suo dicastero e delle carceri. Adesso non è più tempo di task force, soprattutto se coordinate da chi ha palesato incapacità e incompetenze specifiche. I disordini e le rivolte, vanno avanti ovunque: Bologna, Isernia, Siracusa, Larino, solo per citare alcune carceri; mentre si continuano a contare i morti rispetto ai quali, se non ci sono responsabilità penali, non possono sfuggire quelle morali e politiche”. Il leader della Uil-Pa conclude: “Ripeto l’appello, nella speranza che qualcuno lo raccolga prima che sia troppo tardi: la presidenza del Consiglio dei ministri assuma direttamente, pro- tempore, la gestione delle carceri. Capiamo il momento, comprendiamo l’emergenza generale del Paese, ma non giustifichiamo affatto l’assenza anche del Presidente Conte su questo tema che pure ieri sera, in conferenza stampa, non ha speso una parola sulle carceri. Ora anche il Presidente deve dare un segnale, che batta un colpo!”. Nella giornata di ieri sono stati almeno otto gli istituti penitenziari che hanno scatenato nuovamente la sommossa. Carceri che si aggiungono agli altri 24 penitenziari che hanno coinvolto la penisola nelle giornate scorse. C’è quello di Cavadonna, a Siracusa, dove lunedì notte circa settanta detenuti hanno dato alle fiamme le lenzuola e danneggiato diversi arredi. Carabinieri, poliziotti e militari della Guardia di Finanza sono arrivati all’esterno della casa circondariale temendo che la situazione potesse ulteriormente degenerare. La protesta è rientrata anche grazie agli agenti della polizia penitenziaria che sono riusciti a calmare gli animi. Nella mattinata di lunedì, è scoppiata una sommossa anche a Campobasso. Una colonna di fumo nero si notava anche in periferia, guardando verso il centro città, dov’è posizionata la casa di reclusione. Immediato l’intervento dei Vigili del Fuoco che hanno provveduto allo spegnimento delle fiamme. Da lì l’attesa delle forze dell’ordine fuori ai cancelli a presidiare via Cavour, completamente chiusa al traffico dall’intersezione con via Gazzani. Il motivo della rivolta non riguardava solamente le restrizioni dovute al coronavirus, ma anche il paventato trasferimento nel carcere del capoluogo molisano di numerosi detenuti da quello di Modena. Resta poi quello di Bologna che ha il primato per aver inscenato una durissima protesta per più di un giorno. Momenti concitati, gli agenti in affanno e tentativi di trattativa da parte di numerosi soggetti istituzionali. Ma nulla. I detenuti della sezione giudiziaria si sono asserragliati, provocato incendi e hanno tentato inizialmente anche di forzare l’ingresso. Attimi di tensione, tanto da ipotizzare una irruzione. Alla fine, dopo una lunga e faticosa mediazione tra agli agenti penitenziari e i detenuti, ma soprattutto grazie al dialogo intrapreso dalla presidente del tribunale di sorveglianza Antonietta Fiorillo, la protesta è rientrata. Dure e gravi proteste al carcere di Trapani, poi Caltanissetta, Enna, Larino, Pescara e Avellino. Fino all’evasione a Foggia, con 19 ancora ricercati. Quello che sta emergendo è anche il montare della rabbia da parte degli agenti penitenziari che hanno dovuto sedare le rivolte. “Quello che sto facendo - parla un agente che preferisce l’anonimato - non è per lo Stato, ma per i miei colleghi. Bisogna cambiare registro. Siamo noi che abbiamo liberato le carceri, non quelli del governo che non si sono fatti sentire, nemmeno un comunicato”. Una rabbia, la sua, che trova riscontro in numerosi comunicati di varie sigle sindacali. Un problema che inevitabilmente sta comportando una radicalizzazione delle posizioni. C’è, infatti, chi - come il leader della Lega Matteo Salvini - chiede pieni poteri e che ci sia una dura punizione azzerando tutti benefici. Rivolte che, purtroppo, man mano che passa il tempo, stanno distanziando ancora il carcere dalla società libera. “Ho un mio caro che è in carcere - spiega a Il Dubbio una familiare di un recluso a Poggioreale - e devo dire che queste rivolte sono sbagliate, perché non servono a nulla e lo Stato, si sa, ha già un odio represso nei confronti dei carcerati. Noi stiamo cercando di entrare in sorveglianza, abbiamo mandato delle pec alla magistratura proprio per vedere se riusciamo ad organizzare un tavolo tecnico con persone che comunque hanno un potere di poter predisporre misure alternative per chi ne ha la possibilità”. Però lei stessa dice con grande amarezza: “Purtroppo queste proteste generano paura e i magistrati di sorveglianza stessi rischiano di chiudersi a riccio”. Ed è proprio il discorso delle misure alternative, la possibile soluzione per alleggerire le carceri sovraffollate dove se si dovesse scatenare un contagio, sarebbe difficilissimo - soprattutto in alcune - mettere in pratica l’isolamento sanitario disposto dalle direttive governative. Ma per fare tutto ciò ci vuole, appunto, la volontà della magistratura di sorveglianza che, magari sotto l’indicazione del governo, metta in atto misure temporanee come i domiciliari. Il garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma che ha, come preannunciato allo speciale del Tg3, svolto un incontro tecnico con i vari rappresentati della magistratura di sorveglianza proprio per verificare la possibilità di mettere in atto tali misure temporanee. Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti e presidente della conferenza Nazionale Volontariato giustizia, spiega che ci sono in carcere persone con un residuo di pena minimo: 8682 detenute con meno di un anno e 8146 da uno a due anni. “Sono persone - sottolinea la Favero - che non devono intasare le carceri e rendere ancora più difficile affrontare l’emergenza sovraffollamento e quella coronavirus”. Eppure qualcosa si muove. Giovanna Di Rosa, presidente del tribunale di sorveglianza di Milano, ha annunciato l’utilizzo delle misure alternative per ovviare al sovraffollamento. In particolare ha avviato intese con il Sert per potenziare gli affidamenti terapeutici. Mentre il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede annuncia l’arrivo di 100 mila mascherine per i penitenziari italiani. “L’approvvigionamento di presidi sanitari sarà utile per la più rapida ripresa dei colloqui dei detenuti con i propri familiari”, sottolinea il guardasigilli. Importanti notizie che potrebbero aprire uno spiraglio di luce in queste giornate difficili e buie che investono l’intero sistema penitenziario. Quando le attività rieducative evitano la violenza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 marzo 2020 Forse la protesta più feroce e duratura è quella avvenuta al carcere “La Dozza” di Bologna. È cominciata nel pomeriggio di lunedì, durata tutta la notte, fino a concludersi nel primo pomeriggio di ieri. I momenti più duri si sono svolti nella notte, quando i reclusi sono dapprima saliti sui tetti appiccando un incendio, poi sono riusciti anche a incendiare due auto della polizia e una camionetta dei carabinieri. Hanno lanciato di tutto, tanto da ferire un agente della polizia penitenziaria colpendolo con un estintore. Indulto, amnistia, le loro parole d’ordine. Ma la loro preoccupazione più grande è stato il coronavirus: “Se qui dentro uno si ammala rischiamo di morire tutti”, ha urlato un detenuto. Sono accorsi tutti gli agenti penitenziari, anche quelli che non erano in servizio. La trattativa è durata a lungo. Si è recato sul posto il garante regionale Marcello Marighelli e altre figure istituzionali per instaurare una trattativa. Decisiva è stata la mediazione portata vanti da Antonietta Fiorillo, la presidente del tribunale di sorveglianza: le richieste sono state relative a misure alternative e incremento dei servizi con operatori. Sarebbe potuto finire molto male, perché per un attimo c’è stato il rischio di una irruzione. L’ultima spiaggia che avrebbe potuto creare molti più feriti e chissà cos’altro. C’è chi propone la fine dei benefici e soprattutto della sorveglianza dinamica. Eppure la vicenda di Bologna fa capire che è estremamente sbagliata una proposta del genere. Perché? Il carcere in questione è composto da una sezione giudiziaria, che riguarda una palazzina di tre piani, mentre la penale è una sezione indipendente che ha degli spazi propri, dove c’è perfino la fabbrica metalmeccanica. Mentre la sezione giudiziaria è un mondo a parte - dove le misure trattamentali sono quasi del tutto inesistenti - quella penale ha diverse attività e il sistema rieducativo risulta efficace. Non è un caso che i detenuti che vivono in quest’ultima sezione, non hanno partecipato alle violente proteste. Così come non è un caso che, alla sezione giudiziaria, gli unici che non si sono uniti con gli altri detenuti sono coloro che formano una squadra di rugby. “Siamo distrutti, ci sono stati tanti danni, ma sarebbe pericoloso ritornare indietro”, spiega a Il Dubbio Nicola D’Amore, un agente penitenziario del carcere di Bologna. “Il fatto che a disertare le proteste siano stati proprio i detenuti più assistiti attraverso percorsi trattamentali, qualcosa deve pur significare!”, riflette sempre D’Amore. L’agente spiega che la sorveglianza dinamica, quella che permette ai detenuti di non essere rinchiusi perennemente nelle celle, diventa utile solo quando la si arricchisce di attività. Ma D’Amore si spinge anche oltre. “Io credo che alcuni segnali debbano essere recepiti. Ad esempio bisognerebbe incentivare i detenuti che mantengono una buona condotta attraverso un incremento della liberazione anticipata, tipo 60 giorni ogni semestre”, spiega l’agente penitenziario. Può aprire a numerose riflessioni ciò che ha spiegato a Il Dubbio uno degli agenti che hanno assistito in diretta le proteste dei detenuti. Il carcere può diventare un punto di unione tra la sicurezza e la rieducazione? Può aprire un percorso che proietti le persone verso la libertà? Se è convinto perfino un agente penitenziario che ha subito - assieme ai suoi colleghi - le proteste violente dei detenuti, forse potrebbe convincersi l’intera società. Il silenzio e il populismo di Iuri Maria Prado Il Riformista, 11 marzo 2020 Le carceri sono carnai illegali, ma i tutori della legge stanno zitti. L’amnistia sarebbe un atto di civiltà e di legalità. Ma i politici tacciono. Preferiscono strillare: “I delinquenti stiano in galera”. Figuriamoci adesso, coi problemi “più importanti” che bisogna affrontare. Figuriamoci se durante questo pandemonio si sente la necessità (il dovere manco a parlarne) di occuparsi di carcere. Prima gli italiani, se i negri ci invadono. Prima la gente “perbene”, se le carceri esplodono. Ed esplodono letteralmente, come i disordini e le rivolte dei giorni scorsi dimostrano. Ed è la dimostrazione che il carcere strapieno non è un luogo di soluzione ma di aggravamento dei problemi, che lì prendono una virulenza che non solo devasta il carnaio recluso ma torna addosso alla società che l’ha irresponsabilmente creato. Quando in Italia si discute della possibilità di provvedimenti di amnistia o indulto la reazione è sempre la stessa: la classe politica tutta - con l’eccezione di qualche sparuta rappresentanza contraria e senza capacità di influenza - o fa orecchie da mercante oppure cavalca la protesta plebea contro le leggi “svuota carceri”. Può mettercisi anche il Papa di Roma, a umiliarsi davanti a un parlamento fatto perlopiù di cari cattolici, ma non c’è santi: quelli se ne fregano. Gli dedicano tanti applausi, quando chiede che si faccia qualcosa per risolvere con atti di clemenza la situazione incivile in cui sono costretti a vivere (e ad ammalarsi, e a morire) i detenuti, ma dopo gli applausi non succede niente: e, al primo comizio, quando va bene parlano di tutto tranne che di rimediare alla situazione di ignominia in cui sono ridotte le nostre prigioni e quando va male (cioè praticamente sempre) strillano che “non si possono mandare fuori di galera i delinquenti”. Se ragionassero diversamente (cioè se ragionassero) comprenderebbero che la necessità di affrontare e risolvere questa vergogna nazionale non risiede solo in motivi umanitari e appunto cristiani, ma ancora in ragioni di diritto. Perché se le carceri sono depositi di carne umana indecentemente ammassata, quel che in tal modo si violenta non è solo un elementare senso di giustizia, ma la legge. Le prigioni italiane non sono cioè semplicemente incivili: sono fuorilegge. E non far nulla per svuotarle non è dunque soltanto inumano: è illegale. È illegale che i detenuti siano costretti in spazi insufficienti ed è illegale la situazione insalubre e mortificante che quell’angustia inevitabilmente determina. È ben curioso che tutta l’ansia di “legalità” che riscalda i discorsi del moralismo giudiziario italiano cessi manifestarsi quando si discute di carceri, come se non fosse conclamato che ogni pur motivatissimo ordine di arresto contribuisce di fatto a produrre illegalità, perché affida l’arrestato a un sistema illegale che con l’ennesima detenzione si carica di illegalità ulteriore. Dice: ma non è colpa del magistrato. E non sarà colpa sua, anche se spesso pare che la vocazione legalista del magistrato si esaurisca appunto nel momento dell’arresto, senza troppa preoccupazione per quel che succede dopo. Ma quelli con il potere di cambiare le leggi che producono questo schifo sono colpevoli senz’altro. Tanto più colpevoli quando, accarezzando il ventre laido della reazione popolare, tirano fuori il petto e assicurano che con loro “i criminali restano in galera”. Il guaio è che se quelli restano in galera c’è un criminale in più: cioè lo Stato che ce li lascia. Dodici morti e ancora quindici evasi, ma la protesta sembra rientrare di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 11 marzo 2020 Le rivolte stanno rientrando, ma la tensione resta. Sulle carceri italiane continuano a premere la paura del coronavirus e le conseguenze delle misure per evitare che il contagio entri negli istituti; aggravate dal sovraffollamento che già impone condizioni di vita difficili da sopportare. Il numero dei morti provocati dai disordini è salito a dodici: a quelli di Modena, diventati nove, se ne sono aggiunti tre a Rieti. A Foggia si cercano ancora quindici evasi. Ieri le proteste sono andate in scena a Bologna, Campobasso, Caltanissetta, Enna, Larino, Pescara, Palermo e Genova. I decessi sembrano tutti causati da dosi eccessive di metadone o altri farmaci. Come se l’assalto alle infermerie avesse dato libero sfogo a ingestioni smisurate di sostanze sostitutive degli stupefacenti, a cui il fisico dei detenuti non ha retto. A questo proposito, c’è chi sospetta che l’interruzione delle visite avrebbe interrotto uno dei canali clandestini per far entrare la droga in carcere; di qui le crisi d’astinenza di alcuni detenuti che avrebbero cercato di superarle con ciò che hanno trovato nelle infermerie. Si tratta di un’ipotesi, considerata però plausibile dagli stessi operatori carcerari, che offrirebbe comunque un ulteriore, drammatico spaccato della situazione in cui versano i penitenziari italiani. Nella quale la sospensione dei colloqui “a vista” con i familiari, seppure temporanea e disposta a tutela delle persone recluse, rischia di rompere equilibri molto fragili. Facendo esplodere altre contraddizioni. In questi giorni i direttori degli istituti, Garanti dei diritti, polizia penitenziaria e volontari hanno concentrato i loro sforzi per convincere i detenuti che si tratta di misure contingenti, compensate da un maggior numero di telefonate e collegamenti via skype. Gli altri rimedi puntano ad alleggerire il peso del sovraffollamento, ma si tratta di soluzioni “volontarie” ricercate dai magistrati di sorveglianza. Tra le misure varate dal governo, non ci sono provvedimenti specifici, se non la generica raccomandazione di evitare che i detenuti facciano avanti e indietro con le celle “valutando la possibilità di misure alternative al carcere”. Così i giudici di Napoli, Roma, Firenze e altre città hanno deciso di concedere (come suggerito anche dall’associazione Antigone) ai detenuti semiliberi che normalmente escono al mattino e rientrano la sera, di pernottare fuori. O di accordare loro permessi speciali di due settimane. Al tempo stesso, però, in alcuni istituti sono stati sospesi i normali permessi-premio (sempre per evitare il viavai possibile veicolo di contagio), sollevando ulteriori problemi. H ministro della Giustizia Alfonso Bonafede oggi dirà la sua in Senato, ma ieri ha dovuto incassare la diserzione dei sindacati della polizia penitenziaria di un incontro già fissato: “Le uniche garanzie di intervento, in questo momento, possono giungere solo dal presidente del Consiglio”. Il suo ex collega di governo Matteo Salvini chiede “pugno di ferro” e “un commissario straordinario che gestisca l’emergenza”. Dodici i morti, altre rivolte dei detenuti. Ma c’è un piano per liberarne 5mila di Liana Milella La Repubblica, 11 marzo 2020 Le rivolte nelle prigioni rientrano, rimangono solo dei focolai, ma resta il bilancio pesante di 12 morti per overdose, 19 detenuti foggiani in fuga, e il sospetto, su cui già indaga la magistratura, che ci sia stata una regia criminale nell’improvvisa bufera che ha travolto 27 penitenziari. Con un bilancio economico pesantissimo, 35 milioni di euro di danni, 600 posti letto distrutti, 150mila euro di psicofarmaci rubati. Proprio quelli poi che hanno causato le morti, 9 a Modena e 3 a Rieti. Paura da Coronavirus, reazione ai colloqui con i familiari negati fino al 22 marzo, esasperazione da sovraffollamento, oppure un tam tam criminale che ha infiammato le carceri? Per ora le procure di Milano e Trani indagano, ma altre se ne aggiungeranno perché le polizie stanno raccogliendo le prove di un’eventuale direzione esterna. A cui non crede il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma: “E un’ipotesi che non mi convince affatto. Esiste un sovraffollamento inaccettabile da cui si è partiti. Che poi, nelle singole carceri, ci possa essere stata un’infiltrazione, può anche essere, ma non ignoriamo i problemi veri”. Un altro dato è importante: i nomi delle tre mafie che contano si sarebbero tenuti lontano dalle rivolte (come a Rebibbia, Viterbo, Frosinone). Tant’è: ora restano i 500 detenuti trasferiti dal penitenziario di Modena, tutti quelli reclusi lì. E ancora 700 sui 2mila di Poggioreale destinati altrove. Mentre gli ultimi focolai di rivolta ieri sono andati spegnendosi, a Venezia, a Bologna, a Caltanissetta, Chieti e Larino, e al Pagliarelli di Palermo. Sono solo le prime cifre pesanti che oggi, alle 9.30 al Senato e alle 14.30 alla Camera, illustrerà il Guardasigilli Alfonso Bonafede. Che ieri ha riunito la task force anti-rivolte. Nonostante il tam tam del centrodestra, che chiede la testa del direttore del Dap Francesco Basentini e pretende, con Salvini, un super commissario, in via Arenula non si raccolgono conferme. “Ora è il momento di gestire il dopo rivolta” è la replica secca dei vertici del ministero. Bonafede ripeterà che “la violenza non porta a nessun risultato”, garantirà misure per assicurare la salute di chi vive dentro carceri. Non prometterà misure svuota carceri. Ma una strategia della maggioranza già esiste. Si chiama “liberazione anticipata speciale”, potrebbe garantire l’uscita di 4-5mila detenuti, sui 6lmila attuali, la metà dei 10mila in eccesso rispetto alla capienza standard. Calcoli già fatti in via Arenula. Niente a che vedere con le chimere di un indulto o di un’amnistia buttati lì - “irresponsabilmente” dicono fonti del governo - dalle associazioni degli avvocati. Questa, fortemente voluta dal Pd, sarebbe la stessa strada seguita dall’allora Guardasigilli Andrea Orlando per affrontare la maxi multa da cento milioni di euro comminata dalla Cedu di Strasburgo dopo la sentenza Torreggiani per via dei soli 3 metri a detenuto. Due misure, l’uscita anticipata dal carcere per chi deve scontare gli ultimi tre mesi, previo via libera del giudice di sorveglianza. Poi i domiciliari per chi è già in semilibertà, sempre con l’ok del giudice. Con un emendamento parlamentare potrebbero già entrare nella conversione del decreto sulle carceri che ha scatenato la protesta. In questa direzione vanno i desiderata dei magistrati, tant’è che ieri Giovanna Di Rosa, la presidente del tribunale di sorveglianza di Milano - dopo un incontro con Alberto Nobili, il pm che è salito sul tetto di San Vittore per incontrare i detenuti, che li ha rivisti ieri e ha aperto l’indagine sulla rivolta - ha dichiarato che l’obiettivo è “potenziare le misure”. Rivolta nelle carceri, altri cinque morti. A Modena c’era un contagiato di Eleonora Martini Il Manifesto, 11 marzo 2020 Sale a 12 il numero dei detenuti deceduti in seguito ai disordini. Ieri le proteste in altri istituti. Oggi Bonafede riferisce in Parlamento. Altri cinque detenuti morti nella giornata di ieri, per un totale di dodici vittime a seguito delle rivolte scoppiate domenica in 27 carceri italiane; altre proteste negli istituti di Caltanissetta, Enna, Larino, Pescara, Avellino, Bologna, Rieti, Palermo Pagliarelli, Genova, Campobasso, Trapani, Siracusa, Caserta, Aversa, quasi tutte poi sedate in serata. E la prima notizia confermata (ma dalla Ausl, non dal Dap) di un recluso trovato positivo al Coronavirus, proprio nel carcere di Modena e prima che scoppiassero i disordini. Bisogna tornare indietro di mezzo secolo e oltre per ricordare qualcosa di simile, negli istituti penitenziari italiani. Eppure il capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini, che ancora non ha fatto sentire la propria voce, né ai detenuti né ai liberi cittadini italiani, è ancora al suo posto. E nessuno, tra le forze politiche, ne chiede la rimozione. Ieri però Basentini ha partecipato alla riunione della task force istituita ad hoc con il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma e il ministro di Giustizia Alfonso Bonafede per fare il punto della situazione. Il Guardasigilli ne parlerà oggi alle 14,30 alla Camera dove, in diretta tv, riferirà al Parlamento. In particolare si spera che faccia chiarezza su queste incredibili morti: ieri altre due persone sono state trovate prive di vita all’interno del carcere di Modena (nel nuovo Padiglione), dove, come riferisce al manifesto il Garante regionale dei detenuti dell’Emilia Romagna Marcello Marighelli, durante la notte tra lunedì e martedì si sono fermate le operazioni di trasferimento dei detenuti iniziate dopo la rivolta, e nella struttura ormai semi distrutta dalla furia dei violenti sono rimasti ancora in 200 circa. In condizioni assai precarie, senza servizi e senza infermeria. I due morti, di cui uno è un giovane tunisino di 41 anni, vanno ad aggiungersi ai sette del giorno precedente e le cause sarebbero le stesse: overdose di farmaci rubati durante i disordini dall’infermeria. Naturalmente si attendono le indagini della procura che ha aperto un fascicolo per omicidio colposo. Quello che non è chiaro è perché quei detenuti non sono stati soccorsi subito, come non è chiaro il numero di persone che ha rubato e assunto “farmaci”, e se ce ne sono altre a rischio. Si sa solo - la notizia, che era subito circolata sui giornali locali, è stata confermata ieri dall’Ausl di Modena ma senza poter avere né smentite né convalide dalle autorità, compresi i Garanti dei detenuti - che prima della rivolta nell’istituto modenese erano stati isolati alcuni carcerati, uno risultato positivo al Coronavirus e gli altri che con lui erano entrati in contatto. Poi ci sono altri tre reclusi morti nella casa circondariale di Rieti, apparentemente sempre per gli stessi motivi, e altri 8 che versano in condizioni critiche in ospedale. Uno, come riferisce il Garante del Lazio Stefano Anastasia, è stato trasferito a Roma in elicottero perché a Rieti non c’erano più posti in terapia intensiva. Nel bollettino delle 19 di ieri, il ministero di Giustizia fa sapere che nel carcere della città dell’alto Lazio “permangono solo proteste verbali e battitura delle inferriate”. Anche al Dozza di Bologna, che ha subito “ingenti danni”, sembrerebbe rientrata la rivolta; il bilancio è di 20 detenuti e due agenti di polizia penitenziaria feriti, alcuni portati in ospedale. A Foggia le persone si rifiutano di rientrare nelle sezioni e “sono 50 gli evasi che sono stati ricatturati e 22 i ricercati”, tra i quali tre uomini ritenuti affiliati alla mafia del Gargano e un omicida. A Velletri sono stati trasferiti di forza circa 40 detenuti, mentre sarebbe tornata la calma nelle celle del Santa Maria Maggiore di Venezia, di Palermo Pagliarelli, di Caltanissetta, Chieti e Larino. “L’unica situazione tutt’ora aperta - comunicano da via Arenula - è quella in corso a Trapani, dove un numeroso gruppo di detenuti ha raggiunto il tetto dell’istituto chiedendo, fra l’altro, che siano svolti subito i test per il controllo del Coronavirus”. A Melfi lunedì notte sono stati liberati i quattro agenti e i cinque sanitario sequestrati dai detenuti. Bilancio provvisorio delle devastazioni, secondo il Dap: “600 posti letto distrutti, 35 milioni di euro di danni, 150 mila euro di psicofarmaci sottratti e, oltre ai detenuti anche 41 poliziotti feriti”. Diverse Procure, tra cui Milano, Bologna e Trani, stanno indagando per capire se ci sia stata una sorta di “regia occulta” dietro i disordini, se e da chi sarebbe arrivato “l’ordine” di far scattare le violenze quasi contemporaneamente. Ma chi conosce il mondo del carcere spiega che, pur senza escludere strumentalizzazioni “esterne” innescatesi in un secondo momento, le rivolte sarebbero dilagate spontaneamente, come un fuoco che avvolge l’erba secca. Perché a questo è ridotto il carcere italiano, come hanno spiegato ieri Alberto Nobili, responsabile dell’Antiterrorismo, e il presidente del Tribunale di Sorveglianza Giovanna Di Rosa hanno spiegato al termine dell’incontro con una rappresentanza dei detenuti di San Vittore: “Faremo - hanno detto - una segnalazione, noi come Procura di Milano e il Tribunale di Sorveglianza di Milano, al Ministero e al Dap perché si prendano sulle spalle la responsabilità del sovraffollamento e prevedano modifiche normative in modo da alleviare la permanenza in carcere”. Strage nelle carceri, per fermarla serve l’indulto di Piero Sansonetti Il Riformista, 11 marzo 2020 Con un indulto molto leggero, di soli due anni (l’ultimo, quello del 2003, fu di tre anni) uscirebbero di prigione poco meno di 17mila detenuti. Con un indulto di tre anni ne uscirebbero più di 24 mila. A questi potrebbero aggiungersi (semplicemente con un decreto governativo che ripristini la legalità violata: tra qualche riga spieghiamo perché) più o meno altri 10mila detenuti, e cioè circa la metà di quelli che sono stati messi dietro le sbarre prima della condanna definitiva, e che quindi, a norma di legge, sono non colpevoli, in larghissima parte non sono affatto pericolosi, né possono inquinare le prove di delitti commessi vari anni fa, e vengono tenuti al fresco per una sola ragione: indurli a confessare. È un metodo che si usava spesso prima della rivoluzione francese, e all’epoca veniva chiamato con una parola facile: tortura. È illegale, viola tutti i principi della civiltà, ma una parte significativa della magistratura lo adotta e nessuno, di solito, ha niente da obiettare. Con l’indulto potrebbero uscire dalla prigione tra i 15mila e i 35mila detenuti, e si risolverebbe, almeno per alcuni anni, il problema del sovraffollamento. Non uscirebbero dalla prigione i serial killer e i grandi trafficanti di droga, gli stupratori e gli stragisti. Uscirebbero persone con piccole condanne o persone che già hanno scontato quasi interamente la loro pena. Chiaro? Ieri il conto dei morti per le rivolte che sono esplose in una trentina di prigioni italiane è arrivato a 12. Sembra che l’opinione pubblica non sia molto scossa. Anche perché i giornali non danno peso, le Tv nemmeno, i social, sempre attenti e indignati, dormono. Ci si indigna per i vitalizi, cosa volete che sia, di fronte allo scandalo dei vitalizi, una dozzina di detenuti crepati? Se erano detenuti qualcosa l’avranno fatta, no? Muoiano senza ammorbare noi. Dodici morti in poche ore. pensate cosa sarebbe successo se quei morti non avessero avuto le divise a strisce. Nelle pagine seguenti pubblichiamo un articolo molto bello di monsignor Paglia, che spiega la dottrina cristiana e la necessità di amare i prigionieri come fratelli. Il Vangelo dice così. E papa Bergoglio lo ha ripetuto tante volte, e di nuovo lo ha ripetuto ieri. Noi siamo laici: nessuno è obbligato a seguire il vangelo, né Bergoglio, però c’è un problema di civiltà e di diritto. Un giorno sì e l’altro pure ci dicono che siamo italiani. A me non importa moltissimo di essere italiano o francese o della Tailandia, ma visto che pare che l’italianità sia diventato un punto d’onore, mi chiedo: anche la nostra Costituzione è un punto d’onore? Del resto non c’è bisogno neppure di ricorrere alla Costituzione, c’è la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che ha più di 70 anni, è chiara e bella come la Costituzione. I prigionieri sono cittadini - dice - non possono essere sottoposti a pene crudeli, il senso della prigione non è la vendetta ma la rieducazione. E allora? Cosa ci stanno a fare in cella 61mila persone con 50mila (o più probabilmente 40mila) posti letto? E cosa ci stanno a fare, per un anno, o per due anni, a rovinarsi la vita e a imparare a delinquere, 20mila ragazzi che hanno commesso reati minimi per sbarcare il lunario o per procurarsi uno spinello o una piccola quantità di droga? È chiaro che il problema delle carceri è una questione molto grande, che richiede un complesso di interventi legislativi. Non basta l’indulto. Va modificato il codice penale, anche il codice di procedura, i regolamenti carcerari, un insieme di disposizioni amministrative, le linee guida per la magistratura di sorveglianza, i controlli su come viene applicato il carcere preventivo. Bisogna procedere a una robusta depenalizzazione e a una riduzione delle pene, che da anni crescono, crescono, raddoppiano quelle previste dal regime fascista. I dati ci dicono da tempo che esistono delle incongruenze evidentissime nella situazione delle nostre prigioni. Basta osservare che negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a un continuo declinare del numero e soprattutto della gravità dei reati, e contemporaneamente a un continuo aumento del numero dei prigionieri. Negli anni 80, quando l’Italia era un Paese violento, con un numero altissimo di delitti - mafia, lotta armata, violenza politica, malavita spietata nelle grandi città - i prigionieri erano poco più di 30mila. Nel 2006, quando per l’ultima volta è stato applicato un provvedimento di clemenza, erano saliti quasi a 60mila, e con l’indulto scesero a meno di 40mila. Poi son tornati a salire, nonostante alcuni leggi tampone per ridurre le carcerazioni brevi. Alla fine sono arrivati i Cinque stelle, tutti con Travaglio nella bandiera, ed è tornato il forcaiolismo a tutto campo. Leggi costruite per aumentare l’uso del carcere come strumento di governo sociale, e leggi per ridurre i benefici, i premi, le scarcerazioni anticipate, mano libera alla magistratura, specialmente ai Pm. Un anno fa il ministero della Giustizia spiegò al Parlamento che le carceri non erano affollate. Cinismo, cecità, tutti e due? Recentemente il capo dell’ala reazionaria della magistratura, Piercamillo Davigo, che è anche membro autorevolissimo del Csm, ha detto che il sovraffollamento nelle prigioni non esiste, è solo propaganda. Il problema - dice Davigo - è che è eccessivamente gentile la norma che prevede che ogni prigioniero abbia diritto a tre metri quadrati di spazio. Lui dice che ne bastano due, o forse uno e mezzo. Lo spazio di una branda. Chissà se il papà e la mamma di Davigo, quando era piccolo, lo hanno mai chiuso nello stanzino delle scope! Rivolta nelle carceri, Bonafede in Senato: “Sono atti criminali” La Repubblica, 11 marzo 2020 Sono 6.000 i detenuti coinvolti nei disordini. Il ministro della Giustizia al Senato nella sua relazione sulle violente proteste nei penitenziari: “Tamponi ai detenuti”. “Fuori dalla legalità, e addirittura, nella violenza non si può parlare di protesta: si deve parlare semplicemente di atti criminali”. Lo ha detto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, in aula al Senato nella sua relazione sulle rivolte di questi giorni in diverse carceri italiane dopo la sospensione dei colloqui per l’emergenza coronavirus e la paura del contagio. “Lo dico anche per sottolineare che le immagini dei disordini e gli episodi più gravi sono ascrivibili ad una ristretta parte dei detenuti- ha spiegato - la maggior parte di essi, infatti, ha manifestato la propria sofferenza e le proprie paure con responsabilità e senza ricorrere alla violenza”. “Sono 12 i morti” durante i disordini, ha proseguito il Guardasigilli. Nelle carceri, decessi “per lo più ricondubili dai primi rilievi ad abuso di sostanze farmaceutiche”. E aggiunge: “Mi piace sottolineare che in tutti casi più gravi le istituzioni si sono dimostrate compatte: magistrati, prefetti, questori e tutte le forze dell’ordine sono intervenuta e senza esitare rendendo ancora più determinato il volto dello Stato di fronte agli atti delinquenziali che si stavano consumando”. Quanto al caos verificatosi nel carcere di Foggia, “allo stato, risultano latitanti 16 detenuti che erano soggetti al regime di media sicurezza”. “Sono 40 gli agenti della Polizia penitenziaria feriti” durante i disordini, prosegue Bonafede che augura loro “una pronta guarigione”. E aggiunge: “Le rivolte sono state portate avanti da 6mila detenuti. Mi piace sottolineare che in tutti casi più gravi le istituzioni si sono dimostrate compatte: magistrati, prefetti, questori e tutte le forze dell’ordine sono intervenuta e senza esitare rendendo ancora più determinato il volto dello Stato di fronte agli atti delinquenziali che si stavano consumando”. Il ministro ha poi elencati altri dati: “Attualmente sono 83 le tensostrutture ed è stata richiesta la fornitura - per le regioni Emilia-Romagna, Lazio e Abruzzo - di ulteriori 14 tende, per il servizio pretriage in carcere data l’emergenza sanitaria”. E continua: “Proprio ieri è arrivata la prima fornitura di circa 100.000 mascherine che sono in fase di distribuzione, prioritariamente agli operatori che accedono dall’esterno. Da oggi, d’intesa con la protezione civile, anche in conseguenza dell’estensione della cosiddetta ‘zona protetta’ a tutto il territorio nazionale, verranno effettuati i tamponi ai detenuti trasferiti a vario titolo, che si sommano alle operazioni di triage”. Il sovraffollamento carcerario quindi non era una fake news di Luciano Capone Il Foglio Quotidiano, 11 marzo 2020 Se i detenuti sono in rivolta è anche per il negazionismo del capo del Dap. Il bollettino al momento è di 12 vittime. In questi giorni in cui il paese è giustamente concentrato sul coronavirus c’è solo un luogo, esclusi gli ospedali delle zone più colpite dall’epidemia, dove si registra un picco anomalo di decessi: le carceri. La sospensione dei colloqui e di altri benefici dei detenuti, proprio per prevenire i contagi del coronavirus, ha innescato una rivolta nelle carceri italiane che ci ricordano scene viste solo nei film americani o nelle prigioni sudamericane. Sommosse, violenze, incendi, scontri, evasioni, detenuti sui tetti, assalti alle farmacie e, purtroppo, morti. Napoli, Frosinone, Vercelli, Alessandria, Milano, Palermo... il contagio si è esteso in tutto il paese con una velocità superiore a quella di qualsiasi virus. Dopo la rivolta al carcere di Modena sono morti nove detenuti, secondo i primi riscontri di overdose da psicofarmaci dopo aver assaltato la farmacia del penitenziario. A Rieti, per le stesse motivazioni, le vittime sono state tre. A Melfi i rivoltosi hanno tenuto in ostaggio per una decina di ore nove persone (quattro agenti di polizia penitenziaria e cinque tra medici e infermieri). A Foggia l’insurrezione ha portato a un’evasione di massa da parte di decine di detenuti, una ventina ancora non rintracciati. L’elenco potrebbe continuare a lungo e somiglia a un bollettino di guerra. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha invitato i detenuti alla calma e ha espresso solidarietà agli agenti di polizia penitenziaria. Del lavoro del Guardasigilli, quando sarà passata l’emergenza coronavirus, anche la maggioranza dovrà fare un bilancio politico, ma di fronte a una situazione completamente fuori controllo non si comprende come sia possibile che il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), Francesco Basentini, sia ancora al suo posto. Basentini, ex procuratore aggiunto a Potenza dove è divenuto celebre per l’inchiesta sulla Rimborsopoli lucana e quella sul petrolio in Basilicata che portò alle dimissioni dell’allora ministro Federica Guidi (estranea alla vicenda), non è tanto responsabile per ciò che è accaduto. Ma per aver sottovalutato, e addirittura negato, le cause. La stretta sui permessi a causa del coronavirus è stata solo la scintilla di una situazione esplosiva delle carceri italiane, che hanno una capienza di 50.931 e ospitano 61.230 detenuti, oltre 10 mila in più. La cosa grave è che per Basentini il sovraffollamento delle carceri semplicemente non esiste, a differenza di quanto sostengono associazioni come Antigone, L’altro diritto, i Radicali e il Garante dei detenuti. La tesi di Basentini è più o meno quella più volte espressa da Piercamillo Davigo, secondo cui il “sovraffollamento delle carceri è una balla”, perché il problema non sarebbe che ci sono troppi detenuti, ma che lo stato ha stabilito che hanno diritto a troppo spazio. Basterebbe ridurre, per legge, da 9 a 3 metri quadri lo spazio per ogni detenuto e il problema è risolto. “Siamo in grado di ospitare non solo 60 mila persone, ma molte di più”, aveva dichiarato non molto tempo fa Basentini in audizione. Altro che strapiene, le carceri secondo lo standard di Basentini sarebbero semivuote. Un’affermazione a cui, in questi termini, non era arrivato neppure Davigo che pure è l’autore dell’affermazione paradossale secondo cui “le carceri sono affollate perché ci sono pochi posti non perché ci sono troppi detenuti”. Che è come dire che gli ospedali non sono sovraffollati perché ci sono troppi malati di Covid-19, ma perché ci sono pochi posti letto. Ma questo non cambia il fatto che bisogna bloccare l’epidemia e mandarne di meno in ospedale. Secondo la logica di Basentini, invece, i posti ci sarebbero: basta stringersi un po’. Se ora le carceri sono in rivolta è anche per questo atteggiamento cieco rispetto al sovraffollamento carcerario e ai diritti dei detenuti. E la responsabilità è di chi, come Basentini, non ha voluto vedere. Carceri in rivolta, è anche colpa del giustizialismo L’Osservatore Romano, 11 marzo 2020 Le rivolte in carcere di questi giorni a causa del Coronavirus sono da condannare, ma il sovraffollamento è causa anche del giustizialismo che è ricorso in questi anni all’abuso della carcerazione preventiva portando al 119% il tasso di sovraffollamento. È scoppiata la rivolta nelle carceri italiane. Sono stati coinvolti ventidue istituti penitenziari in tutta Italia, dal carcere di Foggia sono riusciti a evadere in 75, 41 sono stati ripresi e 34 erano ancora latitanti questo pomeriggio, a Modena sono morti sette detenuti, si dice per un eccesso di metadone assunto dopo l’assalto alla farmacia, ma un’indagine è ancora aperta, a San Vittore i carcerati hanno dato fuoco alle suppellettili in diversi reparti e si sono asserragliati sul tetto da dove sono discesi dopo una trattativa coi magistrati, ecc. ecc. Erano anni che non succedevano atti di una tale gravità, per di più in contemporanea. Come mai? Premesso che tutto ciò che è successo è da condannare e sarà oggetto di giuste sanzioni, premessa la dovuta solidarietà agli agenti di polizia penitenziaria che si sono trovati in situazioni di difficoltà, premesso anche che le azioni hanno visto come protagonisti una parte sola dei detenuti, quella dei più arrabbiati, cerchiamo di scavare più a fondo. La causa scatenante è stata indicata in un primo momento nella sospensione dei colloqui con la famiglia, non sostituiti, come invece era stato promesso, da un maggior minutaggio nelle telefonate mensili e dall’introduzione delle comunicazioni via Skype. Ma si è capito che questa è stata semmai la goccia che ha fatto traboccare il vaso. La realtà è che da tempo le carceri italiane vivono in una situazione al di là di ogni norma legislativa e molte di esse anche al di là di ogni misura di umanità. Il problema più esplosivo è quello del sovraffollamento, denunciato più volte, tra gli altri, da don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri. Al 30 giugno 2019 i detenuti ristretti nelle 190 carceri italiane erano 60.522, con un tasso di sovraffollamento del 119%, il più alto tra tutti i paesi d’Europa compresi quelli extra-UE. Infatti i posti disponibili, secondo il Ministero della Giustizia sono 50.496. ma questo numero non tiene conto delle sezioni chiuse e delle non poche inagibili. E il numero di detenuti è ancora cresciuto da giugno a oggi. Bisogna anche sottolineare che per posto disponibile si intende un letto ogni 4/6 metri quadrati, ma spesso questo spazio è ulteriormente ridotto. Si tratta di una situazione esplosiva, tanto più in queste settimane di epidemia di Coronavirus, con i telegiornali, seguiti dai detenuti, che predicano incessantemente di evitare i luoghi affollati e di tenere distanze minime tra le persone: i detenuti non sono forse persone con tutti i diritti alla salute costituzionalmente garantiti? Il sovraffollamento si spiega anche con il continuo aumento della durata delle pene in corso in questi anni, e con la crescita abnorme del fenomeno delle carcerazioni preventive, cioè di persone recluse senza condanna, in attesa di processo. Quest’ultimo è un fenomeno quasi esclusivamente italiano, e pressoché la metà dei carcerati in attesa di processo verrà poi riconosciuta innocente. Un’ingiustizia nell’ingiustizia, perché la legge prescrive la carcerazione preventiva in un numero limitato di casi ma Procure, pubblici ministeri e Gup ignorano bellamente questi vincoli, e nessuno li chiama poi a rispondere dei loro abusi ed errori. Le condizioni di vita all’interno delle carceri stanno peggiorando: nel 30% degli istituti non esistono spazi verdi, nell’81,3% non è mai possibile collegarsi a internet e, ancor peggio, solo nell’1,8% dei casi esistono possibilità di lavoro per i carcerati alle dipendenze di privati. Eppure è dimostrato che chi ha possibilità di lavorare o di imparare un lavoro in carcere ha un indice di recrudescenza (cioè di ritorno a delinquere dopo la scarcerazione) del 17%, mentre per gli altri è attorno all’80%. Un capitolo a parte è dato dalla qualità e quantità del cibo fornito ai detenuti, che spesso è scadente o insufficiente. I detenuti debbono quindi, se ne hanno la possibilità economica, ricorrere al cosiddetto sopravvitto, cioè a generi alimentari messi in vendita in uno spazio interno, spesso a prezzi che sono il doppio di quelli praticati dai supermercati della zona, il che è espressamente vietato dall’ordinamento penitenziario, ma è spesso la regola. E ci sono stati numerosi casi di cibo messo in vendita benché scaduto o addirittura avariato. Bene, numerose associazioni denunciano da anni queste e altre analoghe situazioni, i cappellani hanno più volte fatto sentire la loro voce, anche l’Europa è intervenuta. Ma questo è il tempo di un brutale giustizialismo, diffuso tanto nelle istituzioni che nella maggioranza dei cittadini. Però il giustizialismo è la negazione stessa della giustizia. Qualcuno ne vorrà prendere atto? Quali sono i disagi vissuti dai detenuti al tempo del coronavirus di Simona Zappulla agi.it, 11 marzo 2020 Uno dei medici del carcere di Spoleto commenta all’Agi le possibili ragioni che stanno alla base delle rivolte all’interno delle carceri in tutta Italia. Disordini, rivolte e devastazioni nelle carceri italiane che hanno causato anche dei morti, com’è possibile? “Ce lo domandiamo anche noi sinceramente... purtroppo l’infermeria è un luogo che piace sempre molto ad una parte dei detenuti, per gli psicofarmaci o per il metadone che in genere però stanno chiusi in cassaforte. C’è sicuramente una situazione di disagio forte, e uno stress causato dal coronavirus che ha accentuato la situazione già difficile dentro le carceri”. Così un medico del carcere di Spoleto, commenta con l’Agi i fatti delle ultime ore. “L’overdose avviene perché l’organismo non l’ha sopportato, probabilmente perché quei detenuti prendono il metadone in quantità limitate, prescritte dagli specialisti del Sert, e prenderne anche solo una quantità in più può essere letale”. L’istituto penitenziario umbro attualmente ospita circa 500 detenuti e, così come su tutto il territorio nazionale, ha sospeso fino a nuove disposizioni i colloqui visivi con i detenuti, ai sensi del D.p.c.m. del 9 marzo 2020. E anche se sono arrivati da altre strutture alcuni detenuti, il clima è più tranquillo e la situazione, al momento, sotto controllo. “Da noi - spiega il medico c’è stata un’attenzione nel tutelare l’incolumità di tutti sin dai primi giorni in cui si è parlato di coronavirus. Il rischio siamo tenuti ad abbatterlo. Per i nuovi arrivati c’è un isolamento precauzionale ma non abbiamo nessun sospetto di caso di coronavirus per fortuna. Abbiamo la tendostruttura della protezione civile fuori per il triage, c’è un’ottima collaborazione”. Collaborazione anche da parte dei detenuti, sottolinea: “Noi abbiamo detenuti con pene lunghissime, che si mostrano abbastanza collaboranti anche se il disagio è forte”. Perché oltre alla sospensione dei colloqui visivi, “si temono i nuovi che arrivano come portatori di coronavirus. Questa notte ho fatto il mio turno e sono stati trasferiti in quattro da carceri inagibili, e questo naturalmente ci espone sia come dinamica carceraria sia biologica; necessariamente quindi sono stati messi in isolamento”. “I trasferimenti - sottolinea - sono stati interrotti da quando è iniziato il coronavirus, ma alcuni sono stati fatti per necessità. Li abbiamo messi in isolamento - ripete - come precauzione che prendiamo con chiunque, ormai da diversi giorni, anche quando ci sono arresti sul territorio perché tutti sono possibili portatori di coronavirus. Tutto questo accentua un disagio”. E poi, conclude, a proposito delle rivolte: “Nelle sezioni detentive ci sono sempre elementi tendenzialmente con qualche disturbo psichico e c’è anche qualcuno che lo fa in modo strumentale, per altri scopi, per cavalcare un’onda di malcontento, non è così difficile che accada. Non è un caso che questi fatti siano accaduti nei circondariali per reati comuni, noi abbiamo regimi di sicurezza più alti”. “Un detenuto infetto può causare una strage”: le carceri sovraffollate in rivolta e il coronavirus di Sara Dellabella L’Espresso, 11 marzo 2020 Prigioni strapiene nel caos con l’emergenza sanitaria. E da qui le sommosse che hanno provocato oltre dieci morti in tutto il Paese. Mentre anche la polizia penitenziaria si sente abbandonata. “Dobbiamo evitare che un detenuto malato di coronavirus si trasformi in una strage. Basta una sola persona positiva e non sapremmo come gestire la quarantena”. A tracciare il quadro è il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, all’indomani della rivolta al carcere di Rieti dove hanno perso la vita tre detenuti morti di overdose e sette ricoverati per intossicazione da farmaci. “Hanno bruciato tutto, rotto i macchinari radiologici e i quaderni della terapia, quindi nei prossimi giorni sarà anche complicato somministrare le cure ai detenuti. Stanotte abbiamo mandato diverse persone al pronto soccorso, chi è entrato in infermeria ha fatto uso di un cocktail di farmaci”. Questo è il racconto di una delle persone impiegate nell’infermeria dell’istituto reatino che in queste ore insieme ad altre 30 carceri italiane è stato investito dalla rivolta. Perché da nord a sud, in poche ore i detenuti italiani hanno inscenato una protesta che non si vedeva da anni e che ha visto protagonisti anche i familiari delle persone in detenzione. Una rivolta che covava da tempo e che è scoppiata con l’emergenza che sta paralizzando il paese. “Se sabato notte abbiamo visto persone prendere d’assalto i treni per scappare al sud, perché nel contesto carcerario, già allo stremo in condizioni normali, e con persone con grosse fragilità, non ci possono essere reazioni altrettanto esasperate?” è la provocazione di fra’ Beppe Giunti, francescano, volontario al carcere San Michele di Alessandria e autore di due libri scritti insieme ai collaboratori di giustizia (“Padre Nostro che sei in galera. I carcerati commentano la preghiera di Gesù” e “Donne che guardano in faccia, il coraggio delle mogli dei detenuti”). È proprio questo sacerdote che ricorda che togliere i colloqui ai ristretti, equivale a privarli anche di quei piccoli doni che i parenti portano agli incontri: le sigarette, la biancheria intima nuova, talvolta un libro. Togliere un colloquio vuol dire non solo limitare ancora di più una vita familiare, ma anche negare una sigaretta a fine pasto a un fumatore. “Hanno sostituito gli incontri con le chiamate illimitate e i colloqui via Skype. Ma non ci sono apparecchi sufficienti, a Regina Coeli c’è un solo telefono adatto a fare le videochiamate per più di mille detenuti. Dovrebbero aumentare i dispositivi per rendere veramente operative le norme” osserva sempre fra’ Giunti che critica quella narrazione delle cose che poi si discosta enormemente dalla realtà. Ancora una volta, invece di affrontare i problemi, si è preferito prendere una strada più breve, calando dall’alto la decisione di sospendere i colloqui con i detenuti prima fino alla fine di maggio, e poi fino alla fine di marzo. Dove c’è stata la possibilità di spiegare le nuove disposizioni, le proteste non ci sono state. “Stiamo parlando di 30 istituti in sommossa su 197, è una minoranza che sta protestando. Tuttavia 11 morti non si vedono da molto tempo e ci riportano molto indietro” commenta, con un filo di rammarico nella voce, il presidente di Antigone, Antonio Gonnella, che però conferma trattarsi “di un problema di salute pubblica, ora che tutta l’Italia è diventata una prigione”. Nelle carceri oggi sono presenti 61.230 detenuti su 50mila posti letto. Questo vuol dire che in caso di contagio anche di un solo detenuto, non ci sarebbe spazio sufficiente per assicurare la quarantena ai compagni di sezione, che secondo le disposizioni dovrebbero stare in una stanza singola dotata di bagno. “Per questo in carcere il virus diventa una bomba sociale” spiega il garante del Lazio. Dai racconti, sembra che in questa emergenza chi governa si sia dimenticato del mondo carcerario, delle sue difficoltà storiche, ma anche di gestire l’emergenza in questo momento particolare per tutti. Ci si è dimenticati dei cittadini che stanno scontando una pena e solo le proteste di questi giorni hanno riacceso l’attenzione. Non va meglio al personale della polizia penitenziaria impiegato nelle carceri. A raccontarlo è il Responsabile nazionale Fp-Cgil del sistema penitenziario, Massimiliano Prestini che descrive una situazione in cui presidi minimi adottati nell’emergenza Covid 19 all’interno del carcere faticano ad arrivare. “Non ci sono mascherine per il personale, mancano pulizie approfondite e la sanificazione degli spazi comuni. Qualunque sia il tipo di crisi, stentiamo a sentire una soluzione possibile. Come polizia penitenziaria dovremmo occuparci anche del reinserimento sociale dei detenuti e invece non siamo neppure in un numero sufficiente a contenerli”. La legge Madia ha ridotto la pianta organica del corpo a 40 mila unità, di cui 4.500 circa sono i poliziotti penitenziari che risultano quotidianamente impiegati nei servizi di traduzione e piantonamento, 2.800 circa quelli che prestano servizio in amministrazioni ed enti statali e parastatali o vengono impiegati in servizi amministrativi dentro e fuori dal carcere. Circa 1.000 operano nella Giustizia Minorile. Così gli agenti effettivamente impiegati all’interno degli istituti spesso si “trovano ad affrontare turni di 16 ore perché manca il cambio. Una situazione che vede questo corpo di polizia avere il più alto tasso di suicidi tra quelli registrati nelle forze dell’Ordine - racconta Prestini - L’anno scorso abbiamo perso dieci colleghi”. Il sostegno degli psicologi è fondamentale sia per chi vive in carcere che per chi ci lavora. Ma se per i detenuti ci sono pochi psicologi, “per noi delle forze dell’ordine non c’è alcun sostegno, nonostante sia una richiesta che abbiamo più volte avanzato all’amministrazione dello Stato” lamenta il sindacalista della Fp-Cgil. Questa situazione di emergenza secondo tutti gli intervistati si può risolvere solo con un piano deflattivo del sovraffollamento. Favorire quanto più possibile la detenzione domiciliare per i detenuti molto anziani e quelli immunodepressi; favorire le misure alternative alla detenzione e l’affidamento in prova ai servizi sociali per tutti coloro che non sono condannati per reati gravi e che abbiano dimostrato una buona condotta. Questo consentirebbe di liberare in poco tempo circa 4 mila posti e alleggerire un po’ le condizioni all’interno di alcuni istituti di pena. “Le carceri, come la scuola e gli ospedali, sono la cartina tornasole del livello di civiltà di una nazione e oggi, in questa emergenza, sono quelle di cui si parla di più”. Ricorda ancora fra Giunti e a guardare bene oggi sono tre istituzioni che stanno mostrando la propria fragilità, ma anche una fortissima resilienza. Padovani: “I penitenziari ridotti a discariche del male: lo Stato è fuorilegge” di Valentina Stella Il Dubbio, 11 marzo 2020 Intervista a Tullio Padovani, professore di diritto penale, componente dell’Accademia dei lincei. In questo momento di crisi che sta vivendo il nostro sistema penitenziario, e lo Stato stesso, in difficoltà nel prevenire e fronteggiare la protesta, non poteva mancare la lucida analisi di Tullio Padovani, penalista, già professore ordinario di Diritto penale alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa e tra i pochissimi accademici del suo campo ad essere stato invitato a far parte della Accademia Nazionale dei Lincei. Professore, come si deve interpretare quanto accaduto in questi giorni in oltre 27 carceri italiane, profondamente destabilizzate dalle rivolte dei detenuti? Non è un fatto nuovo, non è il primo, non sarà l’ultimo. Si tratta di un moto ondulatorio: ne abbiamo avuti in passato, ne avremo in futuro se continuiamo con questa linea politica. Ma quali sono le cause di tutto questo? Soprattutto, quali sono le cause remote? Le situazioni scatenanti possono essere diverse, occasionate da circostanze varie; nel nostro caso certamente l’emergenza coronavirus ha funzionato da detonatore, innescando la fiammata della rivolta. Le condizioni che spiegano questi fenomeni sono più o meno sempre le stesse: c’è un incremento vistoso della popolazione carceraria e uno scadimento delle condizioni di vita nel penitenziario. Che diventa sempre più inumano e degradante. Per una fetta della politica e della società civile invece la causa risiede nell’aumento del tasso di criminalità. Cosa pensa a tal proposito? Questi fenomeni sono indipendenti dall’andamento della criminalità: l’andamento della popolazione carceraria non segue quello della criminalità. Infatti aumenta la criminalità e scemano i detenuti. Diminuisce la criminalità, e questo è il nostro caso, ma aumentano i detenuti con ritmo incalzante. Ciò dipende dalla funzione reale che il carcere svolge nelle nostre società: non quella di provvedere alle finalità che gli vengono assegnate, come quella di rieducare. Svolge, invece, una funzione altamente simbolica: deve separare il bene dal male, i buoni dai cattivi, deve erigere un muro. L’andamento della popolazione carceraria segue l’andamento della politica: se ci sono quelli che vogliono riaffermarsi come difensori dell’indice del bene, allora si inasprisce il carcere: più detenuti e buttiamo via le chiavi. E ciò dunque fa esplodere la situazione? Certo, come quando una estate torrida riduce i reclusi a larve umane e con la poca energia che resta loro si ribellano. Poi però c’è la vulgata diffusa per cui soggiornano in lussuosi hotel a 5 stelle. Oggi è stato il coronavirus: i detenuti si son visti togliere i colloqui e ciò, soprattutto alla popolazione più giovane, ha creato un disagio enorme. Il carcere non funziona nello stesso modo per i giovani e per i vecchi: la percezione del tempo e della condizione è molto diversa. Un giovane patisce di più il fatto di non avere rapporti coi parenti; gli anziani si preoccupano più per la loro salute, consci che il coronavirus colpisce in maniera più grave proprio loro. Il carcere infatti non è un sistema completamente chiuso, giusto? Nel carcere entrano ed escono persone: chi ci garantisce che un agente penitenziario non sia infetto? Non dimentichiamo che la popolazione carceraria è composta di molte persone con condizioni di salute molto precarie. Quindi non c’è da meravigliarsi di quel che sta accadendo in questi giorni. Naturalmente non c’è orecchio per sentire queste cose. Ai detenuti andavano fornite informazioni precise sulla tutela della loro salute. La prima tutela della salute passa attraverso la drastica riduzione della popolazione carceraria. L’indice di sovraffollamento arriva oltre il 100 per cento. Occorre mandar fuori quelli che sono alla fine dell’esecuzione della pena, e che invece sono tenuti gelosamente dentro fino all’ultimo giorno. Persino in Iran hanno provveduto a un esodo biblico dei detenuti dalle carceri: la forza delle cose ha piegato anche un regime. Imputa delle responsabilità alle scelte del governo e in particolare al Dap? Il problema riguarda la classe politica che governa il carcere: le iniziative che non si prendono nei confronti del carcere stesso. Il ministro Bonafede era stato invitato da Rita Bernardini a parlare a Radio Radicale per arrivare direttamente ai detenuti ma non ha accettato l’invito. Ha scelto invece una diretta Facebook, non fruibile dai reclusi. Che ne pensa? Non interessa molto comunicare con i detenuti che sono considerati entità trascurabili, non sono nessuno. E vengono trattati come nessuno. Non dal ministro Bonafede o dal capo del Dap Basentini, ma dalle leggi di questo Paese, che ammette giuridicamente che si possa realizzare un trattamento inumano e degradante, senza che ci sia nessuno che lo faccia cessare. Si stabilisce solo l’obbligo di un risarcimento di 8 euro al giorno oppure uno sconto di pena, ma non che si ponga fine al trattamento. Invece dovrebbe cessare perché è illegale, è un reato di maltrattamenti. Noi siamo uno Stato che autorizza i maltrattamenti. Sarebbero opportuni in questo momenti provvedimenti come amnistia e indulto? Amnistia e indulto in una situazione come questa sarebbero un atto dovuto: si tratta di sgomberare rapidamente il carcere. Bene, adottiamo almeno un indulto mirato, calcolato opportunamente ma anche matematicamente in modo da sfrondare la popolazione carceraria di tutto l’eccesso rispetto alla capienza possibile. Ma non si farà perché occorre la maggioranza dei due terzi in Parlamento. E come risolviamo il problema del sovraffollamento? Nel nostro sistema si verifica il contrario della massima hegeliana: ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale. Da noi, invece, nell’ambito carcerario ciò che è reale è irrazionale, e ciò che è irrazionale è reale. Le carceri non possono e non debbono accogliere un solo detenuto in più rispetto al numero che assicura un trattamento umano e non degradante. Come previsto dalla normativa europea, un maiale in allevamento deve disporre di almeno 6 metri quadrati. Noi al posto del porco mettiamo il detenuto. Il detenuto per il nostro legislatore è un porco. Nelle nostre carceri più di 30.000 detenuti non entrano. Se io ho 30000 posti mi devo rassegnare a questo numero. E se ne ho da mettere in più scelgo: metto fuori uno che sta alla fine della pena, o uno che ha un reato meno grave e faccio entrare l’altro. Il carcere invece è concepito come un pallone che si gonfia all’infinito, mentre è una struttura metallica nella quale vengono pigiati gli esseri umani. E poi la verifica di ciò che è umano e non degradante non può essere fatta a- posteriori ma è a- priori. Ossia, il giudice di sorveglianza deve avere lo strumento per dire “questa cella non è umana”. La verifica deve essere preventiva e coercibile. Che giudizio dà invece del 41bis? È un circuito penale speciale che ha come obiettivo dichiarato quello di impedire i contatti con la criminalità organizzata. Sacrosanto! Ma i contenuti reali del 41 bis sono volti semplicemente a realizzare un trattamento ancora più aspro e duro. E la riprova viene da una sentenza della Corte Costituzionale alla quale si è dovuti ricorrere per far dichiarare l’incostituzionalità del divieto di cucinare in cella con il fornelletto. Divieto riconosciuto come inutilmente vessatorio e scollegato dalle finalità del 41bis. Per porre rimedio a questo stato di illegalità, la soluzione è culturale? È la società civile che deve chiedere un cambiamento alla politica? Siamo lontani le mille miglia. Negli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, nella commissione diretta dal grande studioso e grande uomo Glauco Giostra, era stata elaborata una riforma penitenziaria certosina che aveva i caratteri dell’equilibrio, dell’efficienza, della serietà con lo spazio dedicato alle misure alternative che sono l’ossigeno per far vivere il carcere, strumento di morte dei detenuti. E poi all’ultimo il Partito Democratico non l’ha approvata per paura di perdere le elezioni. E quindi hanno perso la riforma e hanno perso le elezioni: ben gli sta, visto che hanno tradito loro stessi. Essere medico nelle carceri ai tempi del Covid-19: “Da un mese il difficile è ancora più difficile” di Federica Bosco sanitainformazione.it, 11 marzo 2020 “Il rischio è che il virus entri da fuori. Per questo è attivo un triage in entrata che prevede la misurazione della temperatura a chiunque varchi la porta del carcere. Per ora stiamo facendo bene, chi è a rischio va in isolamento”. “Le carceri sono un micro-mondo ovattato che viaggia con regole proprie, dove tutto è amplificato. Immaginate cosa significa in questo momento di crisi tenere a freno la pressione all’interno, quando già all’esterno è ai massimi livelli”. Le parole di Marco (nome di fantasia), medico penitenziario che vive quotidianamente la difficile realtà delle carceri, all’indomani delle sommosse che hanno interessato molti istituti penitenziari da nord a sud, ci introduce in una giornata di lavoro quotidiano dietro le sbarre ai tempi del Coronavirus. Marco, ogni giorno lei varca quella porta per prendersi cura dei detenuti. Che cosa è cambiato con l’emergenza Covid-19? “Alle problematiche già preesistenti come il monte ore elevato, si è aggiunta questa emergenza che significa utilizzo di mascherine, protezioni, distanze da rispettare e isolamento maggiore. Tutti fattori che hanno alzato inevitabilmente la temperatura all’interno delle strutture. In generale è molto più complicata la situazione dove la popolazione carceraria è multietnica. Gli italiani sono più comprensivi, capiscono la necessità di adottare delle restrizioni, come la sospensione delle visite che di fatto è già in vigore da oltre un mese. In altri casi, invece, il dialogo è inutile come abbiamo potuto constatare ieri dalle tante azioni di forza che sono state fatte all’interno di diverse strutture. Di fatto l’emergenza Coronavirus è stata strumentalizzata ed alcuni carcerati hanno creato disordini per tentare la fuga. L’emergenza è presente da un paio di mesi, forse si doveva prevenire la tensione in ambito carcerario con una maggiore informazione e un’assistenza psicologica in grado di allentare la tensione”. A livello di protezione, avete adottato misure maggiori? “L’unico rischio concreto è che il virus entri da fuori. Per questo motivo è attivo un triage in entrata che prevede alcune precauzioni da adottare. Chi varca la porta del carcere, sia che si tratti di un detenuto, di un operatore sanitario, di un medico o di un agente di polizia penitenziaria, deve misurare la temperatura e alla luce dell’esito della stessa si fa una visura anamnestica. All’interno delle carceri le visite dei parenti sono state sospese da un mese e questo ovviamente alimenta il malumore dei carcerati che, come abbiamo visto, è esploso ieri”. Si poteva fare qualcosa per evitare le sommosse? “Il vero problema è la carenza cronica di personale che in circostanze come questa si fa sentire ancora di più. Ad esempio, non si è mai parlato di incrementare il numero dei medici in servizio, invece sarebbe opportuno. Già in una situazione di normalità siamo in emergenza, oggi con questa urgenza in alcune strutture siamo al collasso. E poi si sarebbe potuto fare qualcosa mettendo in atto delle strategie di comunicazione digitale che avrebbero tenuto basso il livello di tensione garantendo maggiore sicurezza. Mi riferisco a collegamenti via Skype in luoghi controllati”. Anche le sale audizioni con vetri e telefono stile Stati Uniti potrebbero risolvere in parte il problema dei colloqui. “Certo, in quel caso non ci sarebbe il contatto fisico, ma sarebbe un’occasione per vedersi. Purtroppo, oggi le strutture carcerarie non sono attrezzate per questa soluzione. Piuttosto un’idea potrebbe essere quella di incrementare il numero delle telefonate tra i detenuti e i familiari. A seconda dei casi potrebbe essere utile sul piano psicologico per i detenuti”. Il rischio che qualcuno sia già infettato esiste? “In questo momento tutto sembra essere sotto controllo. Stiamo facendo bene. Chi manifesta uno stato febbrile viene messo in isolamento precauzionale. Viene fatto il tampone a chi è sintomatico, dopodiché si aspetta l’esito e se negativo viene rimandato in sezione. Chi invece mostra febbre e tampone positivo, ma è asintomatico, viene messo in isolamento e, dopo 14 giorni, se ancora non è sintomatico viene rimandato in sezione”. Vengono rispettati i protocolli di protezione per medici penitenziari? “Le linee guida del ministero della Salute dicono che occorre usare la mascherina chirurgica. Per la verità ora la polizia penitenziaria non usa nulla, a meno di casi conclamati. Noi medici, quando dobbiamo visitare pazienti con ipotetica condizione da Coronavirus, siamo forniti di tutti i dispositivi previsti dal protocollo come guanti e mascherina con filtro”. Oggi vi sentite protetti adeguatamente? “Siamo forniti di tutto, perciò siamo soddisfatti e se anche persistono le problematiche di sempre come turni troppo lunghi, e buste paghe troppo leggere, ora abbiamo altre priorità che sono le misure di sicurezza e in quel senso siamo protetti. Un aumento in busta paga potrebbe essere la base per sopperire alle carenze di personale, a turni lunghi e faticosi che ci accompagnano anche durante le situazioni ordinarie, oggi però siamo davanti allo straordinario e nonostante tutte le difficoltà stiamo facendo bene”. L’appello dei garanti per i detenuti “Stop ai disordini” piacenzasera.it, 11 marzo 2020 La nota stampa dei garanti territoriali Emilia-Romagna (Regione, Bologna, Ferrara, Parma, Piacenza): stop disordini. La situazione che si è consumata a Modena, con la tragica perdita di vite umane, e che ancora si sta consumando in alcuni istituti penitenziari emiliano-romagnoli è gravissima. Per ora, è questa l’emergenza. A Bologna, da quanto viene riferito, è parte attiva della rivolta un certo numero di persone detenute che ha preso possesso di sezioni detentive (e di ambulatori medici) con pesantissime conseguenze che non si è ancora in grado di quantificare. Nello stesso tempo bisogna evidenziare con forza che un numero consistente di persone detenute ha inteso adottare un comportamento responsabile, non partecipando ai disordini. Non è questo il tempo di interrogarsi in merito a eventuali profili che possano aver contribuito a far degenerare la situazione, ma s’intende ora lanciare un deciso e accorato appello per l’interruzione dei disordini, prima che le conseguenze si aggravino tragicamente. Resta ovviamente centrale la questione delle misure di prevenzione del contagio da covid-19 da assumere nel contesto penitenziario rispetto alle quali dovrà essere veicolata una corretta e puntuale informazione nei confronti delle persone detenute e la relativa adeguata possibilità di comunicare con i congiunti. Pare anche opportuno iniziare a valutare iniziative per l’adozione di misure di sostegno per le persone detenute indigenti, affinché abbiano aiuti economici per contattare le famiglie. S’intende, infine, esprimere vicinanza agli operatori dell’Amministrazione penitenziaria, delle Forze dell’ordine e dell’Ausl. Giuristi Democratici: “Sovraffollamento carceri, rischio bomba batteriologica” di Ivan Grozny Compasso padovaoggi.it, 11 marzo 2020 L’avv. D’Agostino, esecutivo nazionale Giuristi Democratici: “Forme di detenzione alternative subito. La salute di chi ci sta in carcere è un problema di garanzia alla salute per chiunque viva in questa città, libero o non libero che sia”. Mentre un Paese come l’Iran, considerato dall’occidente uno Stato anti democratico e finito nella lista di Bush tra quelli “canaglia”, concede ‘permessi’ a circa 70.000 detenuti nel mezzo dell’emergenza Coronavirus, in Italia scoppiano rivolte in ogni dove. Tra la notte di domenica 8 marzo e lunedì è accaduto in almeno 27 carceri. Sommosse che in alcuni casi si sono manifestate in maniera molto violenta, che hanno provocato danni ad alcune strutture penitenziarie, evasioni come nel caso di Foggia e soprattutto nel carcere di Modena, addirittura sette morti. Gravi tensioni anche a Padova. Sommossa - Martedì 10, poi, giunge anche la notizia della rivolta nel carcere maschile Santa Maria Maggiore di Venezia. La causa che ha portato a queste drammatiche situazioni è stata la decisione del ministero della Giustizia, comunicata con una circolare che anticipava il decreto di prossima pubblicazione, di sospendere “dal 9 al 22 marzo 2020, i colloqui con i congiunti o con altre persone cui hanno diritto i condannati, gli internati e gli imputati, che verranno svolti a distanza, mediante, ove possibile, apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria e minorile o mediante corrispondenza telefonica, che può essere autorizzata oltre i limiti della normativa vigente”. Giuristi Democratici - Abbiamo così contattato l’avvocata Aurora D’Agostino, dell’esecutivo nazionale dei Giuristi Democratici che sta facendo circolare un appello tra tutti gli avvocati italiani affinché si arrivi a “utilizzare tutte le forme di detenzione domiciliare e tutte le misure alternative possibili, più in fretta per i detenuti anziani e per chi ha problemi di salute, innanzi tutto. Poi per quelli che hanno pene brevi da scontare si possono anche trovare forme di cooperazione. Sobbarcarsi un onere collettivo per far sì anche i detenuti privi di una casa dove andare trovino una comunità di accoglienza dove stare, c’è certamente chi è disposto a farlo”. Visite - “Tanti avvocati - spiega D’Agostino - stanno facendo giustamente istanza per motivi di salute per sottrarre i propri assistiti al contagio che è più facile si propaghi in ambienti collettivi e degradati, dall’altro lato non si può pensare che i detenuti restino in cella isolati dal resto del mondo”. Così specifica: “L’assenza di visite annulla il detenuto oltre che umanamente anche materialmente, non potendo più ricevere i pacchi che ricevono durante le visite, soprattutto coloro che sono da più tempo presenti nelle celle e che hanno una rete familiare che li sostiene, rappresentano per esempio la sola possibilità di lavarsi i panni e di ricevere cibo che non sia quello che può offrire un carcere. Sembrano banalità ma sono aspetti che segnano quella quotidianità che per chi vive il carcere sono vitali”. Salute - Lo sa, avvocata, che molti obietteranno che viene prima la salute dei cittadini che quella dei detenuti e che avrebbero dovuto mantenere anche loro un comportamento consono alla situazione: “La salute del carcere e di chi ci sta è un problema di garanzia alla salute per chiunque viva in questa città, libero o non libero. Se accadesse che il virus passasse nelle carceri diventerebbe una bomba batteriologica per tutta la comunità. Dove c’è una concentrazione di tante persone, andrebbe capito, si corre questo grave rischio. Dove ci sono garanzie per loro ci sono per tutti noi. È uno dei primi elementi che una persona intelligente dovrebbe comprendere”. E aggiunge: “Il nostro ordinamento prevede che chi ha sbagliato paghi una pena. Ma in carcere ci sono anche detenuti che sono ancora in attesa di un giudizio. Possono quindi eventualmente anche essere condannati a una pena, ma non alla privazione della salute e dell’incolumità fisica. E questo vale per tutti i detenuti. La carcerazione non sospende i diritti di cittadinanza”. Carceri, Nessuno tocchi Caino lancia appello alla non violenza Il Riformista, 11 marzo 2020 Di fronte alle notizie di rivolte in corso nelle carceri, l’associazione Nessuno tocchi Caino - Spes contra spem rivolge un appello all’intera comunità penitenziaria, fatta di detenuti, dirigenti e operatori penitenziari, perché i comportamenti siano all’insegna della nonviolenza e del dialogo. L’appello è rivolto anche ai mezzi di informazione affinché facciano conoscere le misure adottate dal Governo volte a contenere la diffusione del virus nelle carceri. Su quest’ultimo punto è un segnale positivo che il decreto raccomandi alle autorità di valutare l’adozione di misure alternative di detenzione domiciliare (art 2 lettera u). Per i responsabili dell’associazione Sergio d’Elia, Rita Bernardini ed Elisabetta Zamparutti, rispettivamente Segretario, Presidente e Tesoriere, l’umana reazione alla paura rischia di provocare errori madornali, come vediamo accadere in queste ore. Invitiamo tutti a desistere da reazioni violente convinti che non è questo il modo per mettersi al riparo dai pericoli. Occorre invece ponderare e restare vigili. Vale per chi ricopre ruoli dirigenziali e di custodia ed anche per i detenuti e i loro familiari. Per noi in questo momento è importante che tutti si attengano alle misure di precauzione sanitaria. È un momento che va anche colto per diffondere conoscenza e consapevolezza su quelle che sono le condizioni di vita in carcere affette, prima che dal Covid-19, dal problema del sovraffollamento. Un problema che a nostro avviso va affrontato con misure quali la #moratoria dell’esecuzione penale (tanto degli ordini di esecuzione pena che dell’esecuzione della pena stessa) ed anche l’amnistia e l’indulto a partire da chi deve scontare brevi pene o residui di pena da espiare, tenuto conto che ci sono 8.682 che hanno un residuo pena da scontare inferiore ai 12 mesi e altri 8.146 che devono scontare pene tra 1 e due anni. Tuttavia, non è con la violenza che si possono ottenere misure di buon governo delle condizioni di vita in carcere. Non bisogna mai giocare al tanto peggio tanto meglio e tenere sempre presente che i mezzi che si adottano, se violenti o sbagliati, pregiudicano la bontà degli obiettivi e dei fini a cui si aspira. Coronavirus, protesta nelle carceri. Cittadinanzattiva: “Nessuna violenza è giustificabile” cittadinanzattiva.it, 11 marzo 2020 “Occorrono misure urgenti contro il sovraffollamento e per la tutela della salute dei detenuti. Le proteste che stanno dilagando nelle carceri italiane, scatenate dall’emergenza coronavirus, scoperchiano in modo drammatico un vaso di pandora che da tempo, colpevolmente, si è scelto di ignorare, a cominciare dai grandi problemi del sovraffollamento e di una sanità penitenziaria estremamente carente. Sebbene non possiamo in alcun modo giustificare né legittimare forme di violenza, riteniamo che le ulteriori restrizioni volte a contenere il rischio di contagio, come la sospensione dei colloqui con i familiari, andavano adeguatamente comunicate ai detenuti e bilanciate garantendo la possibilità effettiva di continuare a comunicare con i propri parenti”, dichiara Laura Liberto, coordinatrice nazionale di Giustizia per i diritti-Cittadinanzattiva. “Al contempo, come da più voci richiesto nelle ultime settimane, andavano - e andrebbero tuttora - adottati provvedimenti straordinari volti a tutelare la salute di tutte le persone ristrette e del personale di polizia penitenziaria, cominciando subito dalle persone anziane e già affette da patologie. Eppure soltanto oggi si ha notizia della distribuzione di mascherine e dispenser per gel disinfettanti all’interno degli istituti penitenziari. Nella rivolta scoppiata nella casa circondariale di Modena hanno perso la vita sette persone. Una tragedia agghiacciante ed assurda, su cui occorre assolutamente fare chiarezza accertando ragioni e responsabilità e di fronte alla quale bisogna mettere da parte ogni tentazione di becera speculazione politica. A questo punto, sarebbe miope e ingiusto affrontare la situazione unicamente in termini di gestione dell’ordine pubblico. Occorre assumere con urgenza decisioni coraggiose e responsabili, a cominciare da misure volte anzitutto a decongestionare la situazione del sovraffollamento, favorendo da un lato il ricorso alla detenzione domiciliare e alle misure alternative, alla concessione degli arresti domiciliari in sede di adozione delle misure cautelari e adottando dall’altro un provvedimento di indulto per tutti i detenuti con fine pena breve. Salute e dignità hanno identico valore, che un cittadino sia libero o detenuto”. Via Arenula: sì ai processi in videoconferenza di Giulia Merlo Il Dubbio, 11 marzo 2020 Dal ministero della giustizia nuove misure attuative del “decreto tribunali”. Disagi, incertezza e paure, pur nella consapevolezza che rispettare le norme approvate dal governo sia l’unico comportamento possibile. Così gli avvocati italiani stanno provando, giorno per giorno, a gestire la loro attività professionale: il decreto legge 11/2020 che ha disposto il rinvio d’ufficio delle udienze e la sospensione dei termini ha fornito le prime indicazioni omogenee su tutto il territorio nazionale e il Consiglio Nazionale Forense è in contatto costante col Ministero della Giustizia. Intanto, il Dipartimento dell’Organizzazione Giudiziaria presso il Ministero della Giustizia ha emanato un provvedimento che individua “collegamenti da remoto per lo svolgimento delle udienze civili e delle udienze penali”. Nel settore civile, stabilisce che “le udienze civili possono svolgersi mediante collegamenti da remoto organizzati dal giudice utilizzando i seguenti programmi attualmente a disposizione dell’Amministrazione: Skype for Business e Teams”. Collegamenti che dovranno avvenire su dispositivi dell’ufficio oppure su quelli personali dei giudici. Nel settore penale, invece, le udienze “si svolgono, ove possibile, usando strumenti di videoconferenza già a disposizione degli uffici giudiziari e degli istituti penitenziari”. In alternativa, possono venire usate le stesse piattaforme online previste per il civile, “laddove non sia necessario garantire la fonia riservata tra la persona detenuta, internata o in stato di custodia cautelare ed il suo difensore e qualora il numero degli imputati consenta la reciproca visibilità”. Sul fronte dell’avvocatura, “Il Cnf stesso assumerà tutti i provvedimenti utili e necessari di propria competenza idonei a evitare che le misure di prevenzione assunte dal Governo possano incidere negativamente su alcune situazioni soggettive, quali: la compiuta pratica, la formazione continua, l’iscrizione/permanenza in albi, elenchi e registri, e comunque su tutte le altre situazioni assimilabili e che renderanno opportuno un intervento”, ha scritto agli Ordini e alle Unioni forensi il presidente Andrea Mascherin. Il Cnf ha anticipato come ci saranno presto nuovi sviluppi normativi, perché la situazione richiede “continui interventi di aggiornamento da parte del Governo e del Parlamento, anche in materia di giustizia”. In particolare, Mascherin ha sottolineato come continuerà, in stretta collaborazione con le altre rappresentanze dell’avvocatura, a sollecitare interventi a tutti i ministeri competenti “in particolare di natura economica”. Anche l’Organismo Congressuale Forense continua a monitorare la situazione e ieri ha inviato al Guardasigilli Alfonso Bonafede una richiesta urgente di emissione di norme interpretative e di coordinamento del dl 11/ 20 con il dpcm che ha introdotto le nuove misure urgenti di contenimento del contagio sull’intero territorio nazionale. “Di particolare rilievo è l’assunzione di un provvedimento normativo d’urgenza con il quale differire al 3 aprile 2020 o altra data successiva il termine temporale di sospensione delle udienze e dei termini”. Inoltre, scrive il coordinatore Giovanni Malinconico richiamando la principale questione interpretativa sollevata dal decreto legge 11/ 20, “sarebbe di fondamentale importanza chiarire che la sospensione dei termini è misura che riguarda tutti i procedimenti, sia quelli da instaurare sia quelli pendenti davanti agli uffici giudiziari”. Proprio questo dubbio interpretativo, infatti, “è potenziale fonte di pregiudizio alla tutela dei diritti”. A quanto si apprende, Via Arenula sarebbe al lavoro per un nuovo decreto che fughi ogni dubbio e coordini le misure nel settore giustizia con quelle prese a livello nazionale, che impongono a tutti i cittadini di ridurre gli spostamenti all’essenziale. Bancarotta per distrazione anche se fallisce la società incorporante di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 marzo 2020 Corte di cassazione, Quinta sezione penale, sentenza 10 marzo 2020 n. 9398. Bancarotta possibile anche in caso di fusione, quando il fallimento riguarda una sola delle società trasformate. Può infatti manifestarsi una condotta di distrazione, dal momento che i rapporti giuridici di cui è titolare ciascuna società non si estinguono, ma si trasferiscono alla società che deriva dalla fusione. A patto che sia dimostrata con valutazione ex ante e in concreto la pericolosità dell’operazione di fusione per la società poi fallita. Queste le conclusioni cui approda la Corte di cassazione con la sentenza n. 9398 della Quinta sezione penale depositata ieri. La Corte ricorda innanzitutto gli esiti cui è arrivata la giurisprudenza della stessa Cassazione sul piano civilistico dopo la riforma del diritto societario del 2003 e cioè che la fusione, nel prevedere la prosecuzione dei rapporti giuridici, anche di natura processuale, in capo al soggetto unificato, come centro di imputazione di tutti i rapporti preesistenti, considera l’operazione una vicenda che non ha effetti estintivi, ma solo di modificazione, che hanno come conseguenza il cambiamento formale di un’organizzazione societaria già esistente, ma non la creazione di un nuovo ente distinto dal vecchio. Fatta questa premessa, la pronuncia di ieri ricorda che, una volta arrivata la sentenza di fallimento, tutti i fatti in pregiudizio delle ragioni dei creditori assumono rilevanza in qualsiasi momento, quando ne hanno messo in pericolo la soddisfazione. Così, la perseguibilità dei reati commessi dall’imprenditore è strettamente dipendente dal fallimento di una delle società in cui si è articolata la vicenda aziendale anche se caratterizzata da un fenomeno di fusione. “E se ciò è indiscutibile - osserva la Cassazione - quando il fallimento riguarda la società incorporata, alla stessa situazione occorre pervenire ove il fallimento sia pronunciato nei confronti dell’incorporante giacché il fenomeno estintivo, che riguarda l’incorporata, concerne l’ente in sé e non le situazioni giuridiche, attive e passive, che ad essa fanno capo, nè quelle maturate in capo al suo amministratore”. Si tratta di situazioni che sono state influenzate, e spesso determinate, da operazioni rischiose, come l’assunzione di un rilevante debito fiscale, effettuate a danno dell’incorporate, con la conseguenza che il fallimento dell’incorporante realizza la condizione alla quale è, per legge, subordinata la punibilità del trasgressore. A questo dato formale, puntualizza poi la Corte, si aggiunge l’esigenza, più sostanziale, di assicurare la punibilità di condotte delittuose anche gravi e di impedire facili elusioni della Legge fallimentare, particolarmente agevole, si mette in evidenza, nei gruppi di società e in quelli caratterizzati da rapporti interpersonali tra i suoi componenti. In questa prospettiva allora, qualsiasi negozio con passaggio di proprietà e qualunque operazione societaria può assumere rilevanza di distrazione o dissipazione. E questo anche quando l’operazione avviene per lo scopo preciso di trasferire la disponibilità di beni societari a un altro soggetto giuridico in previsione del fallimento. Un’impostazione che ha riflessi anche sulla considerazione dell’elemento psicologico del reato, visto che il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione è di pericolo concreto a dolo generico, per la cui esistenza non è necessaria nè la volontà di provocare il fallimento, né la consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa e neppure lo scopo di provocare un pregiudizio ai creditori, “essendo sufficiente la consapevole volontà di conferire al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte”. Bancarotta, scriminante per l’imprenditore vittima di estorsione mafiosa di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 11 marzo 2020 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 10 marzo 2020 n. 9393. Nel reato di bancarotta scatta lo stato di necessità a favore dell’imprenditore, vittima di estorsione con metodo mafioso. A differenza dell’usura, che presuppone il sottoporsi al pericolo volontariamente, l’estorsione deve essere considerata dal giudice come causa di giustificazione per gli esborsi non “documentabili”. Diverso il caso dei soci amministratori che pagano alcuni creditori - consapevoli della loro appartenenza alla mafia per timore di ritorsioni violente - a cui si sono comunque rivolti, mettendo a rischio l’impresa. Per loro non c’è stato di necessità. Partendo da questi distinguo la Cassazione, con la sentenza 9395, accoglie il ricorso dell’amministratore di una Srl contro la decisione della Corte d’Appello di confermare la responsabilità per bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale. La Suprema sgombra prima il campo dall’ipotesi di bancarotta fraudolenta documentale, perché l’imputato aveva consegnato al curatore le scritture su supporti informatici, senza che risulti una richiesta di elaborazione al quale l’imputato abbia opposto un rifiuto, circostanza che avrebbe potuto determinare la qualificazione del fatto come bancarotta semplice. Passa anche la tesi della difesa sullo stato di necessità a giustificazione degli esborsi rimasti privi di giustificazione. Per i giudici è, infatti, documentato lo status di persona offesa del ricorrente, che non si è spontaneamente sottoposto ad una situazione di pericolo, ma è stato costretto a pagare il “pizzo” dalla mafia. La Suprema corte annulla dunque con rinvio chiedendo di valutare la scriminante, prevista dall’articolo 54 del Codice penale. I giudici di legittimità precisano, infatti, che “è sufficiente una prospettazione verbale di conseguenze sfavorevoli, caratterizzata, rispetto al contesto in cui si inserisce, da connotati di serietà, gravità e consistenza tali da determinare un’azione imposta dall’esigenza di salvare l’autore dal pericolo attuale di un danno grave alla persona”. Il falso in cartella dell’infermiere di clinica privata è aggravato dall’incarico di pubblico servizio di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 11 marzo 2020 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 10 marzo 2020 n. 9393. Le schede infermieristiche destinate a confluire nella cartella clinica sono atti pubblici. E per tale natura la loro falsificazione determina la commissione del reato di falso aggravato. Così la Cassazione con la sentenza n. 9393di ieri ha confermato la condanna di due infermieri che avevano falsificato le schede di annotazione sui pazienti e avevano affermato di aver compiuto rilievi in realtà non effettuati. Per entrambi la Cassazione ha confermato la condanna per i reati previsti dagli articoli 476 e 479 del Codice penale (falsità materiale e ideologica compiuta da pubblico ufficiale in atto pubblico). La sicura natura pubblica della cartella clinica, perché finalizzata alla certificazione dello stato di salute delle persone, si estende alle proprie componenti che ben possono essere le cartelle infermieristiche e le schede di annotazione che vi confluiscono, anche se redatte all’interno di strutture private. Si tratta cioè di attività di rilevanza pubblica. Anche se gli infermieri di una clinica privata svolgono anche mansioni che non determinano l’assunzione del ruolo di incaricato di pubblico servizio. Rilievo pubblicistico dell’attività infermieristica - L’attività infermieristica, nel momento in cui è svolta a diretto contatto del malato, è sempre attività di rilevanza pubblica, in quanto assicura il diritto alla salute costituzionalmente garantito. E a nulla rileva che sia svolta in strutture private non convenzionate col sistema sanitario nazionale. Non sposta tale affermazione neanche il rilievo dell’esistenza di un rapporto di lavoro pienamente privatistico, in quanto se l’attività è di rilevanza pubblica chi la svolge se non è pubblico ufficiale risulta comunque incaricato di pubblico servizio. Da ciò discende il corollario per cui l’incaricato che commette un reato nello svolgimento delle sue funzioni viene perseguito per le fattispecie aggravate dall’essere l’autore un pubblico ufficiale. Lettere dalle carceri al tempo del coronavirus Ristretti Orizzonti, 11 marzo 2020 Dalle Vallette di Torino Luca Abbà, Semilibero No Tav, domenica 8 marzo (labottegadelbarbieri.org). Visto il rapido evolversi della situazione legata alla diffusione del nuovo corona virus, divenuta emergenziale, desidero comunicare il mio punto di vista nella condizione particolare di detenuto semilibero presso il carcere di Torino. L’ambiente carcerario risulta essere, a maggior ragione in casi come questi, un luogo delicato, sensibile ma piuttosto ignorato dall’opinione pubblica e dalla classe politica; oppure considerato inopinatamente una sorta di discarica per ciò che si ritiene “la feccia” della società. In questi giorni di grande flusso mediatico e misure di controllo imponenti, l’ansia e l’angoscia per il dilagare dell’infezione stanno crescendo anche tra le mura del carcere, tra i detenuti e il personale ivi impiegato. Scenari di blocco dei colloqui con i familiari, sospensione di permessi e uscite per i semiliberi sono già divenuti realtà in alcuni penitenziari del territorio nazionale e stanno divenendo probabili per gli altri visto il precipitare degli eventi giorno dopo giorno. Appare chiaro che allo stato attuale, con una popolazione carceraria abbondantemente superiore alla capienza prevista (siamo più di 60.000 in carcere in circa 50mila posti disponibili), non ci sarebbe la possibilità di affrontare con misure di sicurezza adeguate l’eventualità non remota di un contagio tra i detenuti. Non oso pensare con quali conseguenze si ripercuoterebbe su individui già deboli e fragili, nonché ristretti, la diffusione di questa nuova infezione. Di fronte alla impreparazione e approssimazione delle autorità statali nell’affrontare questa cosiddetta emergenza sanitaria, non pare sensato concentrare ulteriormente i carcerati bloccando anche le uscite di chi gode di benefici o di regimi di custodia attenuata. Inoltre, così facendo si infierisce ulteriormente su persone e sulle loro famiglie che già vivono da anni una condizione di privazione, sacrificio e umiliazione. I semiliberi, che non potendo più uscire per settimane o mesi, perderebbero sicuramente il lavoro, con tutta la difficoltà di poterlo poi ritrovare di questi tempi una volta passata la psicosi. Aggiungiamo pure i problemi di chi, come me, ha una famiglia con figli che (non) vanno a scuola. Partendo da questa premessa mi ritrovo ad argomentare una proposta che, per assurdo, gioverebbe per primo a chi le carceri li gestisce, li controlla e ne detiene la responsabilità. Un provvedimento urgente, e di assoluto buon senso, sarebbe quello di liberare chi già gode di benefici, chi è sopra una soglia di età definita “a rischio”, chi ha un residuo di pena sotto i due anni. Non sta a me proporre quali misure alternative si potrebbero applicare (tipo obblighi di firma, rientri domiciliari ecc…) e nemmeno la forma legislativa adeguata (amnistia, indulto, decreto legge). Ai detenuti esclusi da tale provvedimento si potrebbero applicare più facilmente misure di prevenzione e sicurezza adeguate per poter garantire i colloqui con i propri cari e condizioni di detenzione meno disagiate di quelle odierne a causa del sovraffollamento cronico degli ultimi anni. Credo che nel marasma mediatico di questi giorni debba farsi strada una simile opzione. Io per primo mi impegnerò da subito ad alimentare l’urgenza di un dibattito che, oltre a riguardare una categoria umana di oppressi e indifesi, rientra nell’etica della solidarietà e “del benessere di comunità”, concetti molto sbandierati in questi giorni. Non sarebbe un provvedimento di clemenza, semplicemente di umanità e buon senso e non dovrebbe precludere né limitare un dibattito necessario sul senso del carcere nella società di oggi, sulle condizioni detentive, sulla repressione del fenomeno migratorio e delle lotte sociali. Perfino in un paese come l’Iran, che non si può certo dire sia gestito da un regime democratico, si è appreso da alcune fonti di stampa che sono stati scarcerati e messi ai domiciliari più di 50 mila detenuti con pene inferiori ai 5 anni. In generale, stante la situazione in cui un’epidemia rischia di provocare il collasso dell’insieme del sistema sanitario pubblico è quanto mai opportuno che al più presto vengano riconsiderati gli investimenti pubblici in spese militari e grandi opere inutili e costose (come il TAV) per liberare risorse da impiegare nella salute pubblica, sia preventiva, che curativa. Che il sistema sanitario diventi un bene comune ed esca dalla logica di tipo aziendale nella quale è stato inserito! Che la voglia di libertà diventi il virus più contagioso per l’umanità. Dalle Vallette di Torino l’Avv. Valentina Colletta, legale di Nicoletta Dosio, lunedì 9 marzo (labottegadelbarbieri.org) Sono appena uscita dalle Vallette dove ho incontrato alcuni detenuti, e tra questi ovviamente Nicoletta. Mi pare opportuno, visto quanto sta avvenendo nelle carceri italiane, relazionarvi su quanto ho visto e sentito. Quando sono arrivata davanti all’ingresso principale del carcere c’erano alcuni mezzi della Polizia di Stato e dei Carabinieri ed un’ambulanza. Deserto l’ingresso riservato i parenti. Mi hanno misurato la febbre, fatto sottoscrivere un modulo con il quale attestavo di non essere entrata o uscita dalla Cina o dalle zone rosse nei 15 giorni precedenti e di non avere sintomi febbrili. Alla seconda porta ho visto personale della Polizia penitenziaria che preparava e puliva una serie di scudi appoggiati al muro ed in prossimità delle sale colloqui distribuivano mascherine ai pochi avvocati presenti. Ho notato, firmando il registro, che alcuni colleghi avevano annullato le prenotazioni dei colloqui con gli assistiti. Durante il primo colloquio con un detenuto mi è stato riferito di un clima estremamente teso, della consapevolezza di misure del tutto inadeguate: il personale di Polizia penitenziaria, pur entrando ed uscendo dal carcere, continua ad essere privo di qualsivoglia presidio atto a prevenire il contagio, i detenuti continuano ad essere stipati in celle e locali in cui è impossibile rispettare le distanze interpersonali o i minimi presidi sanitari prescritti. Giunta alla sezione femminile ho visto detenute nel corridoio a distanze estremamente ravvicinate e prive, come il personale penitenziario, di mascherine. Ho poi visto Nicoletta. Sta bene anche se, come le sue compagne, è preoccupata. Prova a distrarsi leggendo la posta che riceve ma quanto sente alla televisione non la conforta. Hanno tutti avuto notizia delle rivolte delle ultime ore e dei morti e già nella notte scorsa molti detenuti hanno iniziato la battitura e si sono levate ripetutamente urla corali. Io stessa, mentre parlavo con Nicoletta, ho sentito a ripetizione battere sulle sbarre delle sovrastanti sezioni e cori di cui non sono riuscita a cogliere il significato letterale, ma che erano evidentemente proteste e richieste di attenzione ed aiuto. Nicoletta mi ha confermato che sono stati sospesi i colloqui con i familiari e molti detenuti temono così di non poter più neppure ricevere i pacchi che, spesso, sono il loro unico mezzo di sostentamento, vista la qualità e la quantità del vitto fornito dal carcere. Da alcuni giorni, poi, pare siano aumentati significativamente i prezzi di quanto i detenuti possono acquistare in carcere. Tutto ciò, unitamente alla paura per le condizioni sanitarie dei parenti che sono fuori getta i detenuti in uno stato di prostrazione, impotenza e preoccupazione importanti. I colloqui sono stati sostituiti dall’autorizzazione a telefonate straordinarie nella misura di 10 minuti per ogni colloquio saltato e, pare, che per effettuare le chiamate si formino delle code in condizioni di inevitabile promiscuità. Nicoletta mi ha inoltre confermato che gli ultimi arrestati vengono collocati, in una sorta di quarantena, ai nuovi giunti con delle mascherine ma, ancora, in condizioni igienico-sanitarie del tutto inadeguate a prevenire l’epidemia in corso. Pare che sia stato anche limitato l’uso delle docce e nelle celle non c’è l’acqua calda. Da questa mattina è stata sospesa anche l’ora d’aria, mentre la socialità all’interno della sezione prosegue inalterata. Ho chiesto - per scrupolo e, lo confesso, anche per egoistica preoccupazione - a Nicoletta se non riteneva opportuno che predisponessi un’istanza per chiedere, in ragione dell’età e del residuo pena, una detenzione domiciliare. Ha rifiutato condividendo quanto, da fuori, si sta cominciando ad invocare: almeno un indulto che consenta di alleggerire il sovrappopolamento delle carceri e ripristinare sicurezza sanitaria e condizioni di vita minimamente dignitose. Da San Vittore a Milano scrive Ervis Doku (oblodelanave.blogspot.com) È la prima volta che mi capita di assistere ad una cosa del genere, un’epidemia. Sono preoccupato per i miei familiari, e loro sono molto preoccupati per me. Vedo negli altri lo sguardo della paura, all’improvviso sembra che un invasore straniero, chiamato Coronavirus abbia invaso l’Italia e c’è molta paura e diffidenza per l’altro. Anche se viviamo in un luogo di sofferenza la paura si vede e si percepisce, non sono molto bravo a descrivere con le parole le mie sensazioni ed emozioni, ciò che provo in questo momento. Una cosa però la capisco bene: siamo diventati molto fragili e delicati, quando succedono questi eventi inaspettati che non riusciamo ad affrontare. Ho visto la disponibilità ed il coraggio delle dottoresse che si presentano tutti i giorni e cercano di andare avanti, specialmente la capitana Bertelli. Il mio pensiero è che basta non dare troppo peso e continuare a vivere la propria vita, bisogna affrontare e non arrendersi di fronte alle difficoltà, come mi ha sempre insegnato anche mio padre, essere forte e coraggioso, agire e andare avanti. Da San Vittore a Milano scrive Feliks Precetaj (oblodelanave.blogspot.com) Coronavirus è arrivato in un momento delicato e purtroppo a pagarne un poco di più le conseguenze, siamo noi detenuti, ai quali vengono sospesi i percorsi trattamentali terapeutici. È un cataclisma quello che sta succedendo in questo mondo, gli accordi tra i Paesi sono sospesi, addirittura alcune nazioni vietano l’ingresso delle persone provenienti dai luoghi dove il contagio è maggiore. Speriamo che finisca al più presto, perché le persone sono già nel panico e qui dentro noi veniamo poco informati e ognuno dice la sua, spesso esagerando, ma voglio credere che la situazione possa migliorare presto, anche se il momento è molto delicato e solo il tempo potrà dirci come andrà a finire. Sono un ottimista e sono convinto che tutto finirà nel miglior modo possibile. L’ OMS ci ha spiegato come prendere le precauzioni necessarie: frequente pulizia con acqua calda evitare il contatto con oggetti non disinfettati, non toccarsi gli occhi e la faccia e tenere le distanze fra noi. Purtroppo, come dicevo, questa epidemia sospende l’opportunità che avevamo per curarci. Personalmente l’unica, grande preoccupazione che ho, riguarda i miei famigliari, soprattutto i miei piccolini. Prego il Signore di vegliare su tutti noi. Milano. San Vittore fa la conta dei danni e i problemi arrivano al ministero di Massimo Pisa Corriere della Sera, 11 marzo 2020 Il direttore Siciliano. “Siamo riusciti a gestire la situazione così difficile solo con la mediazione”. Sovraffollamento, il procuratore Nobili e il pm. Ruta scriveranno una lettera a Roma. Che faccia parte di un sentimento trasversale alle carceri italiane, è fin troppo ovvio. Che ci sia, invece, un disegno unico che accomuna la rivolta di San Vittore di lunedì alle decine che hanno travolto e sconvolto le case circondariali e gli istituti di reclusione dell’intera penisola - è opinione diffusa all’interno del Dipartimento affari penali - è ipotesi tutta da dimostrare. Difficilmente ci riuscirà l’inchiesta aperta dal procuratore aggiunto Alberto Nobili e dal pubblico ministero Gaetano Ruta, che dopo aver sedato i disordini tra i bracci di via Filangieri, hanno aperto un fascicolo contro ignoti per devastazione e saccheggio (il reato più pesante, punibile dagli otto ai quindici anni) e per resistenza. È un’indagine delicata, che si baserà quasi interamente sugli accertamenti e le informative degli agenti penitenziari - guidati dal dirigente Manuela Federico - di San Vittore, tre dei quali sarebbero stati sequestrati all’inizio della rivolta. L’impianto interno di videosorveglianza è tra le strutture più danneggiate. Sarà complicato trovare immagini utili alla ricostruzione dei fatti e identificare con certezza i più accesi, i più decisi nell’assalto all’ambulatorio, alla “Nave” (il reparto modello per il recupero dei tossici) interamente distrutta, ad alcune celle. Nobili e Ruta, insieme al presidente del Tribunale di sorveglianza Giovanna Di Rosa, sono tornati ieri mattina in piazza Filangieri per la seconda ripresa della “trattativa” intavolata lunedì. Come promesso. I venti rappresentanti dei quattro bracci, selezionati tra i più responsabili tra i detenuti, sono tornati a esporre le loro doglianze. Sul sovraffollamento reso ancora più invivibile dalla fatiscenza di San Vittore, innanzitutto. Se ne sono fatti carico i magistrati stessi, che scriveranno una lettera al ministero di Giustizia e al Dap, “perché si prendano sulle spalle - spiega Nobili - la responsabilità del sovraffollamento e prevedano modifiche normative in modo da alleviare la permanenza in carcere”. Tra queste, i colloqui telefonici e le istanze individuali, che hanno tempi lunghissimi, insopportabili per chi sta dentro e rappresenta esigenze cui spesso viene risposto dopo mesi. Anche in questo caso, il direttore Siciliano e Nobili si sono proposti come collettori delle richieste e facilitatori delle tempistiche. In cambio, come già lunedì pomeriggio, è stata rinnovata la promessa a non riattizzare i focolai di rivolta. Non lo hanno fatto nemmeno i militanti anarchici, che hanno concluso il loro corteo di sostegno lunedì notte in via Ripamonti dopo aver manifestato sotto le mura di Opera. “In tanti hanno capito - spiega Siciliano - e ci hanno chiesto anche scusa per quello che è successo, dandoci una mano per ripristinare la normalità, ove possibile. Capiamo che il momento che stiamo vivendo non aiuta, ma quando si esagera, si esagera”. Per il momento, i tanto auspicati spostamenti (anche dal carcere è auspicato il trasferimento di un centinaio tra i detenuti più caldi) non ci saranno. Non immediatamente, almeno: vanno trovati posti e condizioni minime e ogni ridistribuzione va soppesata con le condizioni al collasso dell’intero sistema. “Siamo comunque riusciti a gestire la situazione così difficile - sottolinea Siciliano - con professionalità, senza che si facesse male qualcuno, solo con la mediazione. E non mi preoccupa il dopo: ci vorrà tempo per aggiustare ma la vita a San Vittore andrà avanti e noi ci comporteremo alla stessa maniera”. Napoli. Poggioreale, il Garante: “Problema sovraffollamento, il virus è stata l’ultima goccia” di Antonio Lamorte Il Riformista , 11 marzo 2020 “Alcune carceri, adesso, è come se fossero sotto sedativo, stanno metabolizzando la misura che interrompe per due settimane i colloqui”. Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania, commenta così i giorni di disordini e rivolte nelle carceri. E in particolare in quello di Poggioreale a Napoli. All’esterno della quale, ieri, un gruppo di familiari hanno protestato, mettendo in atto un blocco stradale. Chiedevano l’indulto per i detenuti nelle carceri per evitare il contagio del Coronavirus al loro interno. “Quello - replica Ciambriello - è un tema sul quale deve svegliarsi la politica, perché di indulto e amnistia non se ne può parlare con un garante o con il direttore di un carcere, ma con il Parlamento”. A Poggioreale i disordini erano cominciati domenica pomeriggio; contro la sospensione dei colloqui con i familiari per fronteggiare il virus Covid-19. Alle 15:00 circa. Una rivolta partita quasi in contemporanea con i penitenziari di Modena, Frosinone; il giorno prima a Salerno. A Poggioreale un migliaio di detenuti hanno fatto a pezzi mobili, brande e suppellettili nei padiglioni Napoli, Milano, Salerno e Livorno. Alcuni hanno raggiunto il tetto. La protesta è stata sedata grazie all’intervento anche di agenti fuori servizio. “La violenza - esordisce Ciambriello - non è assolutamente accettabile o giustificabile. Ma bisogna distinguere, perché in Italia c’è stato chi ha protestato pacificamente e chi lo ha fatto in maniera sbagliata”. Ieri, proteste si sono verificate anche a Santa Maria Capua Vetere, poi rientrate. Oggi i detenuti riceveranno una delegazione di giudici per far sentire le loro ragioni. “C’è stato, in Italia, chi ha protestato pacificamente per la non puntualità e correttezza di informazione, e altri che per la tutela della salute non vuole vedersi ledere certi diritti. Ma il punto è che ci sono carceri in condizioni pessime, che violano la Convenzione Europea. Poggioreale resta il carcere più sovraffollato. Come si possono rispettare le norme igienico-sanitarie, la distanza di un metro prevista dal decreto, se in una stanza ci sono otto o dieci persone?”. Dello stesso avviso L’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Nazionali che in un comunicato (“se fosse stato sconfitto il sovraffollamento e fossero state impegnate le risorse necessarie per rendere vivibili gli istituti di pena - ed occasioni ci sono state, anche recentemente, con la Riforma dell’Ordinamento Penitenziario - oggi la situazione sarebbe diversa e avrebbe garantito una gestione certamente emergenziale, ma rispettosa dei diritti delle persone detenute”) hanno chiesto, per l’emergenza, il rafforzamento dei Tribunali di Sorveglianza, la concessione dei domiciliari, l’avvio in Parlamento delle ipotesi di indulto e amnistia, la riduzione dei nuovi ingressi. Un gruppo dei detenuti che hanno scatenato i disordini sono stati trasferiti in altre strutture della Regione, “da dove - dice Ciambriello - mi giungono notizie di trattamenti contrastanti sul potenziamento dei medicinali e sui regimi di semilibertà”. Per i colloqui, a Poggioreale, verranno utilizzate le telefonate. “Quasi nessuna struttura è dotata di Skype, se non piccole carceri”, spiega Ciambriello, preoccupato soprattutto di un altro aspetto: “Mi auguro che in Campania non si trovino casi, come al Nord, di agenti di polizia penitenziaria positivi”. Quella degli arresti domiciliari, dunque, può essere una soluzione? “È una misura già in vigore, per quello che riguarda lo sfollamento, per chi è condannato a meno di tre anni. Quelle che vanno controllate invece sono le discrepanze con altri casi. Per condanne gravi sono stati dati i domiciliari anche per via del virus. E questo non va bene. Se è una questione di età, bisogna adottarli per tutti i detenuti di una certa fascia. Può essere una soluzione per quelli che devono scontare gli ultimi 2 anni”. Il segretario della Lega Matteo Salvini. per le rivolte, ha chiesto un commissario straordinario: “È una forzatura, è compito del ministro della Giustizia e del Capo del Dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria”. Bologna. La rivolta della Dozza, a fuoco auto della polizia e ventidue feriti di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 11 marzo 2020 È durata quasi un giorno e mezzo la rivolta all’interno del carcere della Dozza, scoppiata dopo i fatti di Modena il cui tragico bilancio è di nove morti. Due pomeriggi fa, a Bologna, la situazione sembrava essersi calmata, ma nella notte sono stati appiccati fuochi e sono stati distrutti tanti ambienti, fra i quali quelli dedicati alle attività ricreative. Poi, un gruppo di detenuti si è asserragliato sul tetto fino alla tarda mattinata. La Procura indaga su una quindicina di “fomentatori”. Secondo il procuratore capo Amato a fomentare i reclusi è stato un gruppo di una quindicina di “duri”, su cui ora indaga il suo ufficio. “Libertà” grida dal tetto del reparto giudiziario del carcere della Dozza un detenuto, quando sono ormai passate 24 ore dall’inizio della rivolta che ha tenuto in scacco l’istituto penitenziario per un giorno e una notte. L’aria resa acre dai roghi appiccati, la scritta “Indulto” su uno striscione ricavato da un lenzuolo. Con gli animi ormai esasperati e le forze allo stremo, ieri mattina i primi a cedere e a chiedere una resa sono stati una ventina di reclusi, saliti sul tetto decisi ad abbandonare le proteste. Qualcuno ha tentato addirittura di calarsi con un lenzuolo, qualcun altro chiedeva una scala per scendere dal tetto, visto che le scale interne erano bloccate e gli irriducibili dentro impedivano la resa degli altri. Ma la mediazione è stata lunga, portata avanti in prima persona dalla direttrice Claudia Clementi e dalla presidente del Tribunale di sorveglianza Antonietta Fiorillo, alla quale i detenuti hanno fatto delle richieste relative alla concessione di misure alternative e maggiori servizi educativi. Intorno alle 15, dopo quasi trenta ore, tutti i reclusi si sono arresi e la Penitenziaria ha ripreso possesso del carcere. Un reparto di tre piani devastato, comprese le sezioni dedicate alle attività scolastiche ed educative. Ci vorrà tempo per fare la conta dei danni, con molti spazi ormai inagibili e i trasferimenti complicati visto che tutte le altre carceri del Paese scoppiano e hanno già dovuto farsi carico dei 500 detenuti trasferiti dal carcere Sant’Anna di Modena. Lì ieri il conto dei decessi è salito a 9, dopo il ritrovamento di altri due detenuti morti in uno dei padiglioni ormai sgomberati. Dalla violenta rivolta di domenica a Modena è partita la scintilla che ha appiccato i disordini di Bologna. La paura per i contagi da coronavirus e l’impossibilità di arginarli in strutture stipate come la Dozza (890 reclusi a fronte di 500 posti) aveva già esasperato gli animi, a ciò si sono aggiunte le restrizioni dovute all’emergenza: stop alle visite dei familiari, possibilità di sospendere permessi premio e semilibertà, stop alle attività educative. Ai detenuti sono stati però concessi i colloqui via Skype. Per tutta la giornata di lunedì si sono succeduti roghi e devastazioni. Qualcuno dentro aveva telefonini con cui molti detenuti si sono fatti riprendere mentre distruggono qualsiasi cosa armati di mazze e bastoni e aizzati da rabbia e disperazione. “Il fatto che in carcere entri di tutto è un problema che segnaliamo da tempo”, commenta un agente sindacalista del Sinappe. La Procura aprirà un’inchiesta, i video sono stati già acquisiti dalla Digos. Anche se non tutti i circa 400 ospitati nell’edificio da dove è partito il focolaio hanno partecipato alle proteste, proseguite poi per tutta la notte con tre macchine di polizia e carabinieri date alle fiamme, lanci di qualsiasi cosa dal tetto, brande, pezzi di metallo, persino le porte in ferro dell’ambulatorio. Alla fine i feriti sono stati 22, di cui 20 detenuti e 2 agenti della Penitenziaria. Tutti hanno riportato solo lievi intossicazioni e contusioni. Ieri i garanti dei detenuti della regione hanno lanciato un accorato appello “a mettere fine ai disordini, prima che le conseguenze si aggravino”. Ieri sera molti detenuti sono stati trasferiti: il padiglione che avevano occupato è inagibile. Secondo la Procura la rivolta è stata innescata da una quindicina di detenuti. Il procuratore Giuseppe Amato attende le informative per capire che reati ipotizzare. “Al momento - osserva - non c’è alcun elemento oggettivo che faccia pensare a una regia tra le varie proteste scoppiate in Italia. Napoli. Ressa di donne davanti Poggioreale, portano pacchi con mascherine ai detenuti di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 11 marzo 2020 La fila era lunghissima ma ordinata. A sole quarantott’ore dalla violenta protesta inscenata da più di 600 detenuti nel carcere più sovraffollato d’Italia, ieri mattina le mura perimetrali sono state nuovamente prese d’assalto da una folla composta dai parenti dei reclusi. Ma questa volta non si sono registrati problemi, né internamente né esternamente alla casa circondariale. E non sono mancate polemiche e proteste da non pochi residenti della zona, preoccupati dall’assembramento e, non poco, anche dalla mancanza del rispetto delle basilari norme di sicurezza che impongono una distanza minima di un metro tra persona e persona. L’atmosfera - dentro e fuori Poggioreale - resta comunque tesissima. La paura di un possibile paziente zero tra i detenuti, unita alla rabbia per il divieto di comunicazioni imposto ai carcerati sia rispetto ai colloqui con i familiari e sia con gli avvocati continuano ad agitare i ristretti. Ma torniamo a ieri mattina. La lunga fila di uomini e donne in attesa di consegnare i pacchi destinati ai loro parenti in cella ha rallentato le operazioni. Segnali di malumore palpabile, soprattutto tra le donne, le stesse che domenica sera a frotte si erano proiettate in via Poggioreale appena appresa la notizia della rivolta in atto nella casa circondariale. Ieri mattina erano tantissime le persone che portavano ai parenti reclusi pacchi di mascherine protettive. Nonostante le ripetute rassicurazioni fornite dalle autorità, tra i parenti dei detenuti continua a girare la voce - infondata - che a Poggioreale si sia verificato un caso di sospetto Coronavirus. E tanto basta a rendere sempre incandescente la situazione. Nelle scorse ore - immediatamente dopo la ribellione che ha causato danni anche ingenti nel carcere napoletano - i vertici dell’amministrazione penitenziaria avevano deciso l’immediato trasferimento di decine di detenuti che avevano organizzato la rivolta. Tornando alle mascherine, ieri il ministero della Giustizia ha diffuso una nota nella quale si annuncia in giornata l’arrivo di 100mila mascherine per i penitenziari italiani: “per garantire la tutela di tutti - si legge - e di chiunque a vario titolo entra in un istituto sarà munito di adeguati presidi sanitari. Si continua a lavorare affinché le condizioni di tutti, operatori e detenuti, siano salvaguardate. L’approvvigionamento di presidi sanitari sarà utile per la più rapida ripresa dei colloqui dei detenuti con i propri familiari”. Tra i primi a segnalare i rischi derivanti da un assembramento incontrollato di gente all’esterno di Poggioreale è stato il consigliere della IV Municipalità Carmine Meloro: “All’esterno del carcere di Poggioreale si sono radunate decine di persone. È evidente anche dalle immagini del video che non sono rispettati i parametri di prevenzione del contagio indicati dal ministero della Salute. Non sono condizioni idonee per garantire la sicurezza. Data la folla, molti sono rimasti in attesa anche sulla carreggiata antistante il portone di ingresso del carcere. È stata allertata anche la Polizia Municipale di Napoli, affinché sia riportato l’ordine, a tutela di tutte le persone, anche dei familiari dei detenuti. Va scongiurato ad ogni costo il rischio contagio”. Fortemente critici rispetto a questa ennesima emergenza sfociata - a Napoli come in molte altre realtà carcerarie nel resto d’Italia - restano i sindacati di Polizia penitenziaria. “Le rivolte violente di questi giorni hanno scoperchiato il vaso di pandora. - denuncia il segretario regionale del Si.Na.Ppe Pasquale Gallo - ancora una volta vengono messe a nudo le carenze di organico, le dissennate politiche di gestione dell’esecuzione della pena, il fallimento dei regimi a celle aperte, le scellerate scelte governative di riduzione delle piante organiche, la vetustà delle strutture e la carenza di mezzi e risorse. Intanto, a pagarne le conseguenze sono stati ancora una volta le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria che hanno dovuto gestire, a rischio della vita, le criticità di cui i veri responsabili dovranno rendere conto a tutta la nazione”. Palermo. Da Termini Imerese all’Ucciardone, la rabbia dei detenuti non si placa di Leopoldo Gargano Giornale di Sicilia, 11 marzo 2020 Non si placano le proteste nelle carceri. Ieri mattina i detenuti hanno occupato un’ala del carcere di Pagliarelli, salendo anche sul tetto della struttura. Due i motivi della rivolta. La sospensione dei colloqui con i familiari, prevista dalle norme di prevenzione contro il contagio del corona virus e poi la permanenza dentro celle spesso sovraffollate, che proprio un eventuale contagio potrebbero agevolare. Agitazione anche nella struttura di Termini Imerese, dove sono stati battuti oggetti contro le grate. E subito è scattato il presidio delle forze dell’ordine. Ieri a Pagliarelli tutto è nato quando uno dei reclusi è riuscito a impossessarsi della chiave di accesso ad un corridoio, e poi ha aperto le celle. La situazione ha rischiato seriamente di degenerare, se la direttrice della struttura, Francesca Vazzana, non avesse intrapreso una paziente opera di mediazione che alla fine ha dato i suoi frutti. Già a fine mattinata la protesta è rientrata e non c’è stato un tentativo di fuga, né si registrano feriti. Quella di ieri era la terza protesta nel giro di un paio di giorni a Palermo, tra Pagliarelli e l’Ucciardone. Sono iniziate domenica sera quando come spesso accade in casi simili, “radio-carcere” ha iniziato a smistare in tutta Italia mugugni e proteste. I detenuti di Pagliarelli, reclusi nella sezione di media sicurezza, hanno incendiato carta e alcune suppellettili, le fiamme si sono propagate nel giro di pochi secondi e sono state riprese anche da decine di automobilisti che transitavano lungo viale Regione Siciliana. Il giorno dopo la protesta si è estesa all’Ucciardone dove c’è stato anche un tentativo di fuga, subito bloccato dagli agenti della polizia penitenziaria intervenuti in assetto antisommossa, con il supporto pure di polizia e carabinieri. Poco meno di 24 ore e di nuovo a Pagliarelli è scattata una nuova emergenza. “Grazie alla mediazione anche con il capo reparto della polizia penitenziaria - spiega Vazzana - abbiamo fatto sì che la protesta rientrasse dopo poco meno di un’ora. Il virus della paura ancor più del Covid-19 è dilagante in particolare tra chi popola il penitenziario. Lo vivono con particolare ansia e la distanza e il distacco con i familiari contribuisce a far crescere la tensione”. Al momento la protesta è rientrata, ma al Pagliarelli sono circa 1.400 i detenuti e la vigilanza resta alta. Le autorità hanno smentito con decisione la presenza di un caso positivo di Coronavirus in carcere, voce che si era propagata tra i familiari dei reclusi nel corso della mattina. A Pagliarelli i detenuti hanno preannunciato uno sciopero della fame, “ma non contro l’attuale gestione del carcere - afferma il presidente della camera penale, Fabio Ferrara - bensì riguardo le norme che impediscono i colloqui”. L’avvocato Ferrara, assieme al vice presidente l’avvocato Fabio Bognanni, lunedì ha visitato il carcere alle porte della città, mentre all’Ucciardone si è recato il garante dei detenuti, il professore Giovanni Fiandaca. Entrambi hanno cercato di fare opera di convinzione incontrando i reclusi e anche i loro familiari che al momento delle proteste si presentano sempre davanti alle strutture. Siracusa. Proteste a Cavadonna, il Garante dei detenuti in visita al carcere: “gravi danni” siracusanews.it, 11 marzo 2020 Al piano terreno la cucina è inutilizzabile, sono stati distrutti televisori, circuiti di sorveglianza e altre attrezzature; anche le celle risultano gravemente danneggiate. Il Garante dei diritti delle persone private della libertà del comune di Siracusa, Giovanni Villari, si è recato nuovamente stamattina al carcere di Cavadonna per prendere visione delle conseguenze delle proteste avvenute ieri sera. “I danni sono seri - riferisce Villari - e per la direzione del carcere non sarà facile porvi rimedio, considerando anche la fase che stiamo attraversando. Stamattina al carcere, su richiesta del direttore, Aldo Tiralongo, è arrivato il magistrato di sorveglianza di competenza, per ascoltare le richieste di una ristretta delegazione di detenuti coinvolti”. La protesta, riferisce il Garante, ha interessato i reclusi del Blocco 50, dove si stanno contando i danni. “Devo però segnalare - aggiunge - che non tutte le persone ospitate in quella sezione vi hanno preso parte”. Per quanto riguarda i danni il garante riferisce che al piano terreno la cucina è inutilizzabile, sono stati distrutti televisori, circuiti di sorveglianza e altre attrezzature; anche le celle risultano gravemente danneggiate. “Il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria - ancora - ha sospeso le traduzioni per lo sfollamento, ragione per cui i detenuti le cui sezioni non sono momentaneamente agibili dovranno essere distribuiti sempre all’interno del penitenziario di Cavadonna. Questo aggraverà ulteriormente il sovraffollamento del quale la struttura soffre oramai in maniera endemica”. Venezia. Vetri rotti e fumo nero, rivolta e paura in carcere di Nicola Munaro Il Gazzettino, 11 marzo 2020 Un incubo lungo due ore e mezza, nel pomeriggio del terzo martedì dell’era del coronavirus. Un incubo alimentato da voci che all’impazzata raccontavano di venti, di quaranta evasi. Di un carcere, quello di Santa Mara Maggiore a Venezia, messo a ferro e fuoco come tanti altri penitenziari in Italia nell’ottica di un’insurrezione praticamente sincronizzata da Milano a Roma, da Modena a Palermo, Padova, Parma, Matera, Rieti e Foggia, con uno strascico di una ventina di evasioni e dieci morti per overdose. E che ieri ha toccato anche la città d’acqua: dalle 13.30 alle 16 infatti una cinquantina di detenuti ha trasformato il secondo piano del carcere stretto tra i canali, nell’epicentro della rivolta. Sfondando le vetrate delle celle e lanciando da lì materassi, lenzuola e coperte date alle fiamme in un’area comune del carcere: protestavano per il sovraffollamento (a Santa Maria Maggiore ci sono 268 detenuti per un massimo di 159 posti) ma anche per le misure previste dal nuovo decreto della Presidenza del Consiglio dei ministri che per evitare l’ingresso di Covid-19 in carcere - dove un contagio si trasformerebbe in breve in un’epidemia - aveva messo fine ai colloqui con gli avvocati e alle visite dei familiari. Inizia tutto alle 13.30, proprio mentre in un’ala del carcere è in corso un incontro tra la Commissione cultura dei detenuti e la presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia, Linda Arata. L’incontro era stato programmato e chiesto con una lettera inviata lunedì anche al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella e al Guardasigilli, Alfonso Bonafede. Nella lettera dai toni distensivi, in dissonanza con quanto succedeva sui tetti di ventidue carceri italiane, trasformati nei palcoscenici delle proteste dei detenuti, i reclusi di Santa Maria Maggiore si dicevano preoccupati per l’emergenza sanitaria che stringe il paese, chiedendo uno scivolo verso la concessione di amnistie o indulti per chi ne potesse giovare. Ieri però, l’accelerata, testimoniata da una colonna di fumo nero che si stagliava verso le 14 nel cielo azzurro di Venezia. Di colpo il clangore dato dallo sbattere sui blindi delle celle di alcuni oggetti, aveva fatto da preludio a quello che di lì a poco sarebbe successo: le fiamme ai materassi e alle coperte, lanciati nel cortile comune. A spegnere le fiamme ci hanno pensato i vigili del fuoco di Venezia che per decine di minuti hanno puntato gli idranti verso le finestre al secondo piano. Mentre gli agenti di polizia penitenziaria sedavano la rivolta incontrando alcuni rappresentanti dei detenuti e promettendo un incontro con il Garante dal quale i carcerati di Venezia hanno voluto rassicurazioni sulla situazione di sovraffollamento e sulla gestione dell’emergenza coronavirus. Attorno al carcere, poi, un cordone di polizia di Stato, polizia locale, carabinieri, guardia di finanza ed esercito proteggeva l’intera struttura. Non tanto per evitare evasioni che non ci sono state (nonostante voci all’impazzate sui social poi tranciate da una nota dello stesso questore di Venezia, Maurizio Masciopinto: “Il Questore di Venezia, nel ringraziare tutte le Forze di Polizia intervenute, nonché la Polizia Locale e i Vigili del Fuoco - recitava la nota - smentisce la sussistenza di episodi di evasione, grazie all’immediata sinergia posta in essere tra il direttore del carcere, il suo personale, e il Questore”) ma per evitare che il carcere di Venezia venisse preso d’assalto da chi arrivava dalla città. Per questo erano stati rafforzati i controlli all’inizio del Ponte della Libertà e un elicottero ha sorvolato l’area per tutte le due ore e mezza di rivolta. Ciò che ora il ministero dell’Interno si trova ad affrontare è una sommossa coordinata dalle cosche che gestiscono anche gli stessi penitenziari: tagliare i contatti con i familiari dei detenuti, vuol dire troncare la catena di comunicazione con chi è fuori e può eseguire gli ordini dei boss. Per questo una semplice rivolta, mascherata da questioni sanitarie può diventare l’occasione per scardinare il sistema giudiziario e far assaltare il carcere. Ed era proprio questo che anche ieri il Viminale ha voluto evitare, cinturando la casa circondariale di Venezia con uno spiegamento importante di forze dell’ordine. Non per evitare fughe, ma per impedire che qualcuno approfittasse della confusione e trasformasse Venezia, ultima ad accodarsi, nella prima città con il penitenziario preso d’assalto. Padova. I detenuti autori della sommossa rischiano pene fino a 8 anni di Serena De Salvador e Marco Aldighieri Il Gazzettino, 11 marzo 2020 I circa 40 detenuti autori della sommossa di domenica sera nella casa di reclusione Due Palazzi, rischiano di essere accusati del reato di devastazione. La pena va fino agli otto anni di carcere. Pugno di ferro dunque della Procura. Ma le indagini condotte dal pubblico ministero Marco Brusegan, non sono semplici. I rivoltosi infatti, con il chiaro intento di non essere scoperti, hanno sventrato le telecamere della videosorveglianza. E al momento non ci sarebbe nessuna immagine registrata, utile a scovare i colpevoli. A scatenare la rabbia dei detenuti sarebbero state le limitazioni imposte dal piano governativo per evitare la diffusione del Covid-19. Ma in realtà, i motivi che hanno spinto i quaranta carcerati, quasi tutti stranieri, a devastare il quarto piano del Due Palazzi sono molteplici e molti suonano come un pretesto per creare tensione nel penitenziario. Prima hanno dato alle fiamme vestiti e materassi, e poi hanno sfondato le telecamere della videosorveglianza e le pompe idrauliche. Ma l’azione più pericolosa è stata piegare verso l’esterno un paio di sbarre di una cella: se gli agenti avessero caricato sarebbero rimasti infilzati. Volevano fare male. I poliziotti, sotto una pioggia di oggetti, sono stati costretti a intervenire. La calma, almeno apparente, è tornata intorno alle 22. Dieci gli agenti rimasti feriti e intossicati dal fumo. Al Due Palazzi dopo le scene di guerriglia di domenica sera le proteste sono per ora sotto controllo e nel braccio del quarto piano della casa di reclusione si è cominciato a sistemare gli ingenti danni. Ai detenuti viene tutt’ora concesso il regime a celle aperte che li vede liberi di circolare nella propria sezione per la maggior parte della giornata e, per evitare che gli animi tornino ad accendersi, sono stati concessi colloqui telefonici giornalieri. I sindacati di polizia penitenziaria nel frattempo hanno deciso di interrompere le relazioni con il Ministero della Giustizia disertando la convocazione di ieri e invocando un nuovo incontro con il premier Conte. “Già prima delle devastazioni di questi giorni avevamo chiesto interventi specifici senza mai trovare riscontro - scrivono Sappe, Sinappe, Osapp, Uilpa Pp, Fns Cisl, Uspp e Cgil Fp al ministro Bonafede - Non basta l’elogio peraltro doveroso agli agenti che ogni giorno mettono a rischio la propria incolumità e servono lo Stato in modo encomiabile. Il mondo penitenziario vive un’emergenza che non è percepita nella sua reale portata e il Governo non lo degna di attenzione”. Milano. “Durante la rivolta ci hanno salvato i detenuti del reparto La Nave” di Andrea Sparaciari businessinsider.com, 11 marzo 2020 Le testimonianze degli operatori che erano a San Vittore durante la rivolta. Cosa è accaduto nelle circa 24 ore della rivolta che lunedì ha sconvolto il carcere milanese di San Vittore lo stabilirà l’inchiesta avviata dalla procura di Milano. Tuttavia Business Insider Italia è in grado di tracciare una prima ricostruzione dei fatti, sia per aver seguito la rivolta sin dai primi momenti, sia grazie ai racconti (anonimi, per loro richiesta) del personale che al momento dello scoppio dei disordini si trovava all’interno della struttura. A scatenare la violenza sarebbero stati alcuni detenuti del terzo e quinto raggio che, armati di bastoni e spranghe, hanno preso di mira per prima cosa la stanza di somministrazione del metadone, che infatti è stata subito svaligiata. Poi sono passati alle altre strutture sanitarie, sempre con un fine molto chiaro: fare incetta di metadone e Buprenorfina, le due sostanze utilizzate dal Sert per combattere le crisi di astinenza dei reclusi, che al momento dello scoppio dei disordini non erano ancora stati somministrate. A quanto risulta, sarebbero spariti almeno una ventina di litri di sostanza, tanto che due detenuti sono finiti in overdose, mentre molti altri, che non avevano partecipato ai disordini, finivano in astinenza. Alla devastazione non si è scampata neanche “La Nave”, il reparto fiore all’occhiello dell’istituto milanese, quello più aperto di San Vittore, dove le celle sono aperte per 12 ore e dove si tengono sedute psicoterapeutiche, lezioni sulla legalità, gruppi di studio sulle droghe e sulle dipendenze, gruppi di scrittura e di lettura, musica, teatro. I rivoltosi si sono accaniti anche lì, devastando tutto ciò che hanno avuto a tiro. “Per fortuna tutti gli operatori sono riusciti a mettersi in salvo”, racconta un sanitario presente in quei momenti, “grazie soprattutto all’intervento dei detenuti della Nave, che hanno scortato il personale lontano dai tumulti, proteggendolo dagli altri carcerati”. Perché tutto tornasse alla (relativa) calma, sono state necessarie parecchie ore e la mediazione (illuminata) del direttore del carcere, Giacinto Siciliano, il quale ha evitato che la rivolta si trasformasse in un bagno di sangue, facendo capire ai detenuti l’inutilità delle loro azioni. “Un plauso va anche agli agenti della penitenziaria”, racconta un’altra operatrice, oggi, come tutti i suoi colleghi, regolarmente al lavoro nonostante lo choc, “che hanno dimostrato grande professionalità e sangue freddo. Tanto che non ci sono stati né vittime né feriti”. Resta il fatto che la violenza è scoppiata non tanto per la richiesta di un’improbabile “amnistia e indulto”, sebbene queste siano state le parole urlate dai rivoltosi asserragliati sul tetto del carcere mentre bruciava parte del quinto raggio, ma dal sovraffollamento e dalla frustrazione. Da giorni gli operatori denunciavano una situazione esplosiva, che infatti, è esplosa. Non a caso, il giorno dopo le violenze, i magistrati delegati a trattare con i detenuti - il responsabile dell’antiterrorismo milanese, Nobili e la presidente del Tribunale di Sorveglianza, Di Rosa - si sono impegnati a “studiare percorsi migliorativi della vita del carcere. Il primo dei quali è il sovraffollamento. Quando hai 500 detenuti di troppo, scoppiano disordini”, hanno detto ai cronisti. Ovvero, hanno promesso di diminuire il numero dei detenuti in cella, facendo accedere ai domiciliari il maggior numero di reclusi possibile. Sia di San Vittore che di Bollate e Opera, gli altri due carceri milanesi. Proprio ciò che chiedevano da giorni gli operatori, da quando cioè le nuove circolari sul Corona virus avevano fatto lievitare il numero degli internati a San Vittore dai 700 ordinari (sebbene la capienza del carcere sia di 400 persone) agli oltre 900 presenti lunedì. Tutte persone alle quali era stato anche negato ogni contatto con parenti e avvocati. Un mix esplosivo. Foggia. La mafia e la grande fuga dei diciannove detenuti di Giuliano Foschini La Repubblica, 11 marzo 2020 La caccia agli evasi, e i tre più pericolosi si sono riconsegnati. Manca Aghilar, che uccise la suocera. Almeno un fiancheggiatore, fuori, con l’auto accesa. A conferma che dal carcere - usando uno dei micro-telefonini che ormai sono ovunque nelle prigioni italiane - aveva avvisato di quello che stava per accadere. Un elenco dei fuggitivi che, almeno in un primo momento, aveva fatto saltare sulla sedia gli investigatori: erano scappati i Notarangelo, i Quitadamo. E questo poteva significare una cosa soltanto: che la mafia del Gargano aveva organizzato la grande fuga dal carcere di Foggia. All’alba, però, deve essere accaduto qualcosa. Lo Stato ha risposto in maniera aggressiva: le forze di polizia erano ovunque con il prefetto Raffaele Grassi che seguiva tutte le operazioni. Non c’era grande spazio di trattativa e soprattutto le conseguenze che quell’azione avrebbe potuto avere sono state subito chiare a tutti. Per questo i tre fuggitivi più pericolosi si sono consegnati a San Giovanni Rotondo: due Notarangelo e un Quitadamo. La loro fuga è finita. Ma soltanto la loro. Perché in giro, liberi, restano ancora in 19. C’è Francesco Scirpoli, detto “Il lungo”. Le indagini lo raccontano come un esperto delle rapine ai porta valori. Le fotografie - distinto, in camicia celeste a collo alto e maglione azzurro, anche nelle foto segnaletiche - come un pesce in grado di nuotare anche bene nel mare di mezzo, quello dei contatti con l’imprenditoria e la politica (non a caso il suo nome è più volte citato nella relazione del ministero dell’Interno che ha portato allo scioglimento per infiltrazioni mafiose del comune di Mattinata). Scirpoli è sempre stato molto vicino ai Quitadamo e, prima ancora, a Mario Luciano Romito, il boss ammazzato nell’agosto del 2017 nella strage di San Marco in Lamis. Al momento irreperibile è anche Cristoforo Aghilar, che non è un uomo dei clan. Ma è forse quello di cui oggi gli investigatori hanno più paura. Non a caso sono state immediatamente mette sotto sorveglianza sia l’ex fidanzata sia il magistrato che si è occupato delle indagini che lo hanno portato in galera. Aghilar ha ucciso nell’ottobre scorso la sua ex suocera, Filomena Bruno. La donna non voleva che avesse una relazione con sua figlia di 21 anni. Aghilar era un violento, aveva più volte picchiato la ragazza e minacciato anche la signora Filomena prima di ucciderla. Ora è in fuga, come un lupo solitario. A ottobre era stato arrestato in un Comune della provincia, dove si era rifugiato a casa di alcuni parenti. Erano stati però proprio loro a denunciarlo ai Carabinieri e farlo arrestare. Tra gli evasi c’è anche Ivan Caldarola, il ragazzo terribile della mafia barese. Caldarola è figlio di Lorenzo, boss del quartiere Libertà di Bari, uno dei centri della criminalità organizzata del capoluogo. È vicino al clan degli Strisciuglio che in queste ore hanno provato a organizzare una rivolta nel carcere di Bari, bloccata - dopo però la devastazione di un pezzo della struttura - soltanto grazie a un intervento velocissimo della direzione del carcere e della Penitenziaria. Caldarola è considerato dalla Dda uno degli elementi più pericolosi delle nuove leve della criminalità barese: sua madre è imputata per aver aggredito la giornalista del Tg1, Maria Grazia Mazzola. Suo fratello, Francesco, è in carcere con l’accusa di aver ucciso un ragazzo albanese innocente, Florian Mesuti, nella piazza del quartiere. Mesuti ha pagato con la vita l’aver “violato”, inconsapevolmente, il codice del clan. Dimostrando soltanto educazione civica. Era intervenuto per sedare una rissa, in piazza, tra due ragazzini di 15 anni. Uno era Ivan Caldarola. Il detenuto in fuga. Alessandria. Due sezioni date alle fiamme e inagibili, detenuti trasferiti giornalelavoce.it, 11 marzo 2020 Una trentina di detenuti del carcere San Michele di Alessandria sono stati trasferiti in altre case circondariali del Piemonte. La decisione in seguito alla protesta per le nuove disposizioni in materia di coronavirus. Due sezioni sono state date alle fiamme e risultano ora inagibili. “Il governo e in particolare il presidente del Consiglio Conte prendano in mano, con urgenza, la situazione delle carceri italiane prima che il sistema penitenziario collassi definitivamente”, è la richiesta del segretario generale dell’Osapp, Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria, Leo Beneduci. “Ribadiamo con forza, la necessità di un urgente commissariamento del Dap a fronte di un così lampante fallimento delle politiche penitenziarie improntate esclusivamente sul benessere dei detenuti - insiste. Altrettanto fallimentari, inoltre, i programmi attuati, a spese dei contribuenti nelle carceri e rivolti a quei detenuti che per le devastazioni attuate si sono dimostrati in questo momento più violenti di quando dovevano fare ingresso in carcere come risultato evidente in questi giorni a tutti i cittadini”. Treviso. Protesta dei detenuti in carcere, il Sindaco: “Ci mandino l’esercito” Il Gazzettino, 11 marzo 2020 Il primo cittadino: “Anche i reclusi sono chiamati a fare dei sacrifici come è stato chiesto a tutti i cittadini”. “Credo che lo Stato in situazioni come questa debba farsi sentire e dare dei segnali forti, come ad esempio impiegare l’esercito per sedare le sommosse”. Dura la presa di posizione del sindaco di Treviso, Mario Conte, dopo la protesta dei detenuti del carcere di Santa Bona andata in scena lunedì sera. “Una protesta sonora programmata e pacifica” hanno sottolineato fonti di polizia e carabinieri, intervenuti per bloccare la strada di fronte alla casa circondariale. I reclusi infatti, a differenza di altri penitenziari sparsi in tutta Italia, si sono limitati a sbattere contro le sbarre delle loro celle pentole e stoviglie, senza in realtà creare vere e proprie situazioni di pericolo. Ma il sindaco Conte non ammette sgarri. “Per prima cosa è necessario non dare all’estero una pessima immagine del nostro paese e, nel caso specifico, della nostra città, già abbastanza compromessa dall’emergenza sanitaria - afferma il primo cittadino - Non devono esserci margini per questo tipo di proteste. Quanto accaduto lunedì sera è un qualcosa di pretestuoso”. Alla base della dimostrazione dei detenuti di Santa Bona, oltre alla solidarietà con le altre strutture carcerarie italiane, c’è il pericolo di contagio da coronavirus e la sospensione delle visite dei familiari per evitare il diffondersi della malattia. Per limitare i disagi, la struttura trevigiana ha concesso un’ora di videochat a testa per parlare con i familiari e venti minuti di telefonate, il doppio di quanto precedentemente concesso. Gli stessi detenuti lo riconoscono: “Ci dissociamo dagli atti vandalici perpetrati nelle carceri - scrivono in una lettera - Soffriamo questa situazione che non ci permette di vivere le nostre famiglie per la soppressione dei colloqui visivi, ma siamo coscienti che è una calamità. Questa epidemia ha una scadenza, mentre resteranno vive e serie le problematiche croniche di tante strutture penitenziarie”. Una missiva che parla di sovraffollamento, di celle senza acqua calda, di carenza di personale addetto alla custodia, di edifici obsoleti. Ma in sostanza afferma anche che l’intenzione è quella di fare dei sacrifici, come tutti, per uscire dall’emergenza. Padova. Le meditazioni dei detenuti per la Via Crucis del Venerdì santo L’Osservatore Romano, 11 marzo 2020 L’annuncio del Pontefice in una lettera a un quotidiano locale. Sono state affidate alla parrocchia della casa di reclusione “Due Palazzi” di Padova le meditazioni per la Via Crucis che si svolge tradizionalmente al Colosseo nel Venerdì Santo. È stato lo stesso Francesco a renderlo noto in una lettera indirizzata al direttore del “Mattino di Padova” e pubblicata sul quotidiano veneto nell’edizione di martedì 10 marzo. “Ho scelto il carcere - spiega il Pontefice - per fare in modo che, anche stavolta, fossero gli ultimi a dettarci il passo”. Scritte per la prima volta da detenuti, le riflessioni sulle quattordici stazioni sono “un’opera corale” che unisce “i vari volti” della realtà carceraria: il cappellano, don Marco Pozza, le vittime, gli internati, gli agenti di polizia penitenziaria, i volontari, le famiglie di chi è ristretto, i magistrati di sorveglianza, i funzionari pedagogici, la Chiesa, gli innocenti a volte accusati ingiustamente. Insomma, un autentico “caleidoscopio di situazioni”, in cui - chiarisce Francesco - “è sempre forte il rischio” di raccontare “un particolare a scapito dell’insieme”, mentre al contrario “la risurrezione di un uomo non è mai opera di un singolo, ma di una comunità che lavora alleandosi assieme”. “Commosso” alla lettura dei testi, il Papa confida di essersi sentito “partecipe” delle storie raccontate e al contempo “fratello di chi ha sbagliato e di chi accetta di mettersi accanto a loro per riprendere la risalita dalla scarpata”. E pur consapevole “che non è semplice armonizzare giustizia e misericordia”, Francesco fa notare che però “laddove questo riesce, il guadagno è a favore di tutta la società”. Da qui il ringraziamento alla parrocchia del penitenziario e “a tutte le persone che operano a favore di questo mondo ristretto: Dio benedica - è il suo augurio - il buon cuore di chi sfida l’indifferenza con la tenerezza”. Francesco motiva anche la scelta di scrivere a Paolo Possamai, che dirige il giornale padovano, per far giungere - davanti “alla sofferenza di questi giorni” provocata dall’epidemia di covid-19 - “una carezza simbolica”. Anzitutto alla città “capitale europea del volontariato 2020” in tutte le sue componenti: sia “la società civile”, sia “le comunità cristiane” che la abitano “con i loro sacerdoti e con il vescovo”; e in secondo luogo estendendo questa “carezza” a tutte le altre città italiane e di altri Paesi “che condividono questo momento e, contemporaneamente, stanno dando al mondo testimonianza di buona volontà”. Del resto, proprio l’Italia sperimenta in modo particolare “la sofferenza e la morte” a causa del coronavirus, ed è per questo che egli intende manifestare “vicinanza umana” e assicurare la propria “preghiera”, perché - aggiunge - “anche in questi momenti Dio ci sta parlando. Spetta all’uomo saper cogliere, dentro a questa voce, una guida per continuare a costruire, quaggiù, un pezzettino del regno di Dio”. Inoltre “questa situazione di pericolo, è anche un’occasione per vedere di che cosa sono capaci gli uomini e le donne di buona volontà”, come “chi, in questi giorni, si sta impegnando oltre il dovuto: il personale medico e paramedico innanzitutto”, il cui lavoro unito a “un forte senso di responsabilità e di collaborazione con le apposite autorità competenti, diventa un valore aggiunto di cui il mondo ha estremo bisogno”. In modo particolare Papa Francesco elogia “il buon cuore della gente veneta: siate orgogliosi della vostra storia e responsabili di tutto il bene seminato da chi vi ha preceduto”. Infatti, conclude adoperando una metafora molto efficace, “se immagino la carità come fosse un romanzo, allora ci sono dei capitoli bellissimi che sono stati scritti a Padova e poi messi a disposizione di tutti”.