L’emergenza nazionale di Michela Allegri Il Messaggero, 10 marzo 2020 Un’insurrezione praticamente sincronizzata, da Milano a Roma, da Modena a Palermo, Padova fino a Parma, Foggia e a Matera. Sono state 22 le carceri in rivolta, 7 i morti per overdose di psicofarmaci o soffocamento. I danni sono ingentissimi, tra istituti penitenziari distrutti e decine di detenuti evasi. “Amnistia e indulto” per il coronavirus sono le richieste dei reclusi, che hanno protestato, almeno in apparenza, contro le restrizioni imposte dal governo per combattere l’emergenza, in particolare quelle sui permessi premio e nei colloqui con i parenti. Ma il sospetto è che si tratti di una sommossa studiata nei dettagli e non di un atto estemporaneo. Una sollevazione violenta diretta dalla criminalità organizzata e dai clan, che potrebbero avere approfittato dell’emergenza in cui è sprofondato il Paese per creare disordini per alzare il tiro. Gli investigatori considerano anomala la tempistica: prigioni in rivolta in tutta l’Italia nelle stesse ore. Con una precisione quasi chirurgica e una diffusione a macchia d’olio delle violenze. Le rivolte sono iniziate domenica e ieri sono diventate ancora più intense. Hanno travolto alcune delle prigioni più grandi d’Italia, come San Vittore a Milano, Rebibbia a Roma, Ucciardone a Palermo. A Foggia molti reclusi sono riusciti ad evadere: in 34 mancano all’appello. Mercoledì il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, riferirà in Parlamento. A Foggia gli evasi hanno rapinato un meccanico nella zona del Villaggio Artigiani. Il panico si è sparso nelle strade: molti negozi sono rimasti chiusi. Intanto il carcere è finito in mano ai rivoltosi: finestre distrutte, un cancello divelto, un incendio all’ingresso. “Vogliamo l’indulto e l’amnistia. Viviamo nell’inferno”, le richieste dei detenuti. Nel penitenziario foggiano i reclusi sono 608, a fronte di una capienza ottimale di 365. Un agente ha raccontato di “scene apocalittiche”. L’ondata di rivolta ha travolto pure San Vittore, a Milano. La protesta è esplosa in mattina, con i detenuti hanno preso il III e il V raggio dopo essersi impossessati di chiavi di servizio. Hanno distrutto ambulatori, dato fuoco a carta e stracci. In 15 sono saliti sul tetto urlando: “Vogliamo la libertà”. Nel pomeriggio, mentre la tensione era altissima, Alfonso Greco, segretario regionale del Sappe Lombardia, ha dichiarato: “La situazione è grave. Ho 27 anni di servizio ed è la prima volta che assisto ad una cosa del genere”. A Padova una quarantina di detenuti, quasi tutti stranieri, hanno bruciato le lenzuola. Dieci agenti si sono fatti medicare in ospedale. All’Ucciardone di Palermo i tentativi di evasione sono stati contenuti, mentre il carcere è stato circondato da agenti tenuta antisommossa. Tutte le vie di accesso sono state chiuse al traffico per ore. Scontri e violenze pure a Roma: i Vigili del fuoco e Carabinieri sono intervenuti a Rebibbia. I reclusi hanno iniziato a battere i ferri sulle sbarre del reparto G11, mentre i parenti - soprattutto donne con bambini - hanno bloccato via Tiburtina in segno di protesta. Nel pomeriggio, poi, si sono registrati incendi e agitazioni a Regina Coeli. Ma in contemporanea il caos è dilagato anche a Torino, Alessandria, Rieti, Santa Maria Capua Vetere, Trani, Piacenza e Bologna. Al Villa Andreino, a La Spezia, alcuni sono saliti sul cornicione. Domenica la protesta più violenta si era registrata a Modena, dove 7 detenuti sono morti per overdose da psicofarmaci: durante la rivolta c’è stato infatti l’assalto all’infermeria. Altri 18 sono stati portati in ospedale, mentre 3 guardie e 7 medici sono rimasti feriti in modo lieve. Il caos e le violenze hanno suscitato diverse reazioni allarmate nel mondo della politica. Il primo a intervenire è Bonafede: “Alcune norme previste nel decreto legge, come il limite ai colloqui fisici e la possibilità di sospendere i permessi premio e la semilibertà per i prossimi 15 giorni hanno la funzione di garantire la tutela della salute di detenuti e lavoratori”. Il ministro ha sottolineato che verrà mantenuto “un dialogo costante nei dipartimenti di competenza, sono attive task force e si assicura la costante informazione all’interno delle strutture. Ogni gesto di violenza viene condannato”. Dal vicesegretario Pd ed ex ministro della Giustizia, Andrea Orlando, arriva la stoccata al Guardasigilli: “Questa emergenza è stata affrontata senza alcuna preparazione da parte del dipartimento competente. La catena di comando è fortemente indebolita”. La leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, sottolinea invece la necessità di “un tavolo di emergenza nazionale e interventi immediati, se è il caso anche con l’Esercito”. E chiedono la presenza dell’esercito anche i sindacati di polizia. I centimetri del carcere di Lugi Manconi La Repubblica, 10 marzo 2020 Le norme di sicurezza per arginare il coronavirus vengono annullate dagli spazi ristretti delle carceri, che somigliano a lazzaretti. Detenuti sui tetti del carcere milanese di San Vittore e incendi in alcuni bracci, mentre in altri istituti continuano le proteste. Da quarant’anni non accadeva nulla del genere all’interno del sistema penitenziario italiano. La popolazione detenuta a partire dalla metà degli anni 80 e dalla riforma introdotta dalla legge Gozzini, ha trovato mezzi e canali diversi per far sentire la propria voce e affermare i propri diritti. La gran parte dei reclusi ha faticosamente appreso come non sia mai vero che “non c’è nulla da perdere”; e che il carcere, un carcere così orribile e disumano, può offrire un’opportunità, propone una via d’uscita, indicare un’alternativa, per quanto flebile. Perché, allora, da un giorno all’altro si ripropone lo scenario di quasi mezzo secolo fa? La ragione può essere colta, forse, mettendo insieme gli strumenti di analisi che abbiamo imparato a manovrare proprio in questi giorni. Prendiamo quel termine inglese droplet, ovvero gocciolina, utilizzato per indicare la giusta distanza da rispettare, “almeno un metro”, nelle relazioni tra le persone. Ciò al fine di evitare che elementi della saliva dispersi nell’aria raggiungano altri. Ma se proviamo ad applicare questa unità di misura all’interno di spazi ristretti e disciplinati, quali quelli di un carcere, la verità ci aggredisce brutalmente. Ecco, entriamo con quel metro in uno dei 198 istituti penitenziari italiani, percorriamo uno dei corridoi dei diversi bracci, raggi e sezioni ed entriamo in una cella. Nel 50% dei casi, si tratta di locali chiusi da sbarre per venti ore al giorno, con possibilità di apertura per due ore al mattino e due al pomeriggio. In queste celle è possibile trovare due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto e più detenuti. Ne consegue che avremmo molta difficoltà anche solo ad aprire le braccia, tenendo quel metro ai due capi, per verificare se il provvedimento del governo venga rispettato. E la “gocciolina”? Il fatto è che la convivenza in quella cella ricorda meno una comunità familiare o gli avventori di un bar e assai più evoca l’immagine di un gruppo marmoreo come quello di Laocoonte e i suoi figli: a tal punto i corpi reclusi appaiono aderire e compenetrarsi l’uno all’altro, allacciandosi in combinazioni imprevedibili e informi. Almeno nel 40% delle celle la convivenza è questo: un agglomerato di corpi di uomini adulti che si scambiano odori e sudori, eiezioni e umori, efflussi, secrezioni e liquidi. In una promiscuità coatta e in ambienti dove, come per volontà di un architetto di interni impazzito, la doccia e il water, il lavandino e la dispensa si sovrappongono e si mescolano per rispondere ai bisogni fisiologici primari: orinare, mangiare, lavare, defecare, in pochi metri quadrati. Riusciamo a immaginare quale effetto la minaccia del virus può avere sullo stato mentale ed emotivo di persone recluse in un simile sistema patogeno, che produce e riproduce malattia, depressione e autolesionismo? Bastino pochi dati: 53 i detenuti suicidatisi nel 2019 e circa 100 i poliziotti penitenziari che si sono tolti la vita nel corso degli ultimi dieci anni. Si pensi che, secondo i dati dell’ultimo rapporto dell’Associazione Antigone, oggi la popolazione reclusa (61.230 al 29 febbraio 2020) registra una percentuale di sovraffollamento del 119% rispetto alla capienza regolamentare. (Della quale, peraltro, molto si sospetta in quanto ottenuta, probabilmente, calcolando come posti letto quelli che sono, in realtà, spazi comuni). Dunque il carcere è il perimetro degli spazi angusti, del respiro che manca, del fiato che si fa corto, cortissimo, dei letti a castello, dove chi dorme sulla branda superiore sbatte il capo contro il soffitto. È il luogo dell’asfissia, dell’aria viziata, della tosse, dell’affanno, della saliva e del catarro, degli odori acidi che si fanno spessi e grevi. Chi si trova recluso e apprende, attraverso la tv, i dati della crescita del contagio e dei decessi, vive la terribile sensazione di essere con le spalle al muro, assediato in un lazzaretto, che gli amputa le poche risorse e le scarse facoltà rimastegli. Un isolamento sensoriale che si somma a quello fisico e materiale proprio dell’architettura carceraria e ne esaspera il processo di deresponsabilizzazione, sottraendo totalmente la gestione della profilassi ai suoi destinatari: i detenuti stessi. Si deve ricordare, tuttavia, che il degrado della condizione carceraria, specie negli ultimi due anni, non è questione che riguarda i soli carcerati. La salute di questi è un bene prezioso per noi tutti; ed è la sola garanzia che nei luoghi più chiusi e oscuri non si formino focolai dalle conseguenze inimmaginabili. Non c’è bisogno di ricorrere a Dostoevskij per riconoscere che il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni. Se i diritti della persona non vengono tutelati in qualunque segmento dell’organizzazione sociale ne patiremo tutti, e se consentiremo che in un qualunque ambito della vita collettiva si addensi l’epidemia e l’abbrutimento, la vulnerabilità e la decadenza del corpo e dell’anima - in una parola, la perdita della dignità umana - nessuno potrà pensare di salvarsi dall’infezione e dall’onore. Carceri in rivolta: 8 vittime a Modena, altri 3 detenuti morti a Rieti Il Fatto Quotidiano, 10 marzo 2020 Nuove proteste a Siracusa e Caserta. A Foggia evasione di massa: 23 in fuga. Procura di Milano apre inchiesta sulla sommossa a San Vittore. Sono 8 le vittime tra i detenuti a Modena dopo la rivolta di lunedì. Non si fermano i disordini nei penitenziari italiani da Nord a Sud: alcuni detenuti tornano sul tetto a San Vittore (Milano) e al Pagliarelli (Palermo). Tra gli evasi in Puglia, anche esponenti della mafia garganica e un condannato per omicidio. Il sindacalista della polizia: "Rischio che dietro le rivolte simultanee ci sia la criminalità organizzata". Continuano le proteste nelle carceri: da Siracusa ad Aversa, da San Vittore al Pagliarelli di Palermo. A Rieti tre detenuti sono morti dopo aver assunto farmaci rubati dall’infermeria durante la sommossa andata avanti per ore e sedata solo nella notte. Altri 7 sono stati trasportati in ospedale, di questi 3 sono attualmente ricoverati in terapia intensiva, mentre un altro detenuto, più grave, è stato trasferito in elicottero a Roma. Sono otto invece le vittime tra i detenuti del carcere di Modena, dopo la rivolta di lunedì. Quattro sono morti nello stesso penitenziario, gli altri sono tra i reclusi trasferiti ad Alessandria, Verona, Parma e Ascoli. Secondo le prime indagini, avevano assunto psicofarmaci rubati dal cassetto delle medicine dopo l’assalto all’infermeria del carcere. Dopo i disordini di domenica e lunedì in 22 penitenziari in tutt’Italia, da Modena a Palermo, nella notte nuove rivolte si sono verificate a Siracusa, nel carcere di Cavadonna, dove 70 detenuti hanno dato alle fiamme le lenzuola e hanno utilizzato le brande per sfondare alcuni cancelli. Distrutto l’impianto di videosorveglianza e danneggiata anche una delle due cucine, che è stata resa di fatto inagibile. La protesta dei detenuti è in corso al blocco 50, quello di media sicurezza: la popolazione nel carcere è di circa 680 detenuti, un centinaio in più della capienza massima. Ad Aversa, nel Casertano, durante il cambio di turno di mezzanotte, i detenuti hanno protestato rumorosamente sbattendo oggetti contro le inferriate e bruciando pezzi di carta nelle loro celle. Questa mattina invece un gruppo di detenuti del carcere milanese di San Vittore, una trentina circa, sono tornati a protestare sul tetto dell’istituto. La stessa cosa accade anche al Pagliarelli di Palermo. Ne dà notizia il segretario generale del Sappe Donato Capece. Altre proteste sono in corso anche a Campobasso e Matera, ma in questi casi, consistono nella battitura delle sbarre. Aperta inchiesta a Milano – I motivi delle rivolte, in tutti gli istituti, sono gli stessi: molti chiedono l’amnistia, lamentando la paura del contagio del coronavirus. Altri hanno protestato perché le misure varate dal governo per combattere l’emergenza comprendono anche una serie di restrizioni ai colloqui con i parenti. Intanto la Procura di Milano ha aperto un’indagine al momento a carico di ignoti per devastazione, saccheggio e resistenza, in relazione alla rivolta dei detenuti di San Vittore. Il fascicolo è coordinato da Alberto Nobili, responsabile dell’Antiterrorismo milanese, e dal pm Gaetano Ruta che ieri sono addirittura saliti su una gru per trattare con i carcerati. Foggia, ancora caccia a 23 detenuti evasi – A Foggia continuano le ricerche di 23 evasi: tra cui persone legate alla mafia garganica e un condannato per omicidio, Cristoforo Aghilar, il 36enne che il 28 ottobre scorso ha ucciso ad Orta Nova Filomena Bruno, 53 anni, mamma della sua ex fidanzata. Ieri, approfittando dei disordini, 77 detenuti sono riusciti a fuggire: 54 sono stati già catturati, tra cui due persone che hanno scelto di costituirsi. Al momento per tutti l’accusa è di evasione, e successivamente sarà analizzata la posizione di ogni singolo detenuto. Secondo i giornali locali, tra gli evasi in fuga ci sono anche quattro persone legate alla mafia foggiana: Francesco Scirpoli, 38 anni, Andrea Quitadamo detto “Baffino junior”, 30 anni, Francesco Notarangelo detto “Natale”, 54 anni, e Bartolomeo Pio Notarangelo, 32enne. A Melfi liberati i nove ostaggi – Situazione rientrata alla normalità a Melfi (Potenza) dove, dopo circa dieci ore di proteste, sono stati liberati i nove ostaggi – quattro agenti della polizia penitenziaria e cinque operatori sanitari – e i detenuti sono rientrati nelle sezioni. Situazione sotto controllo anche ad Alessandria. La situazione ha provocato reazioni da parte della politica: l’opposizione hanno auspicato l’intervento dell’esercito, mentre i renziani hanno chiesto al ministro della giustizia Alfonso Bonafede di riferire il Parlamento. L’informativa del guardasigilli è stata fissata per mercoledì 11 marzo alle ore 17. “Le mafie dietro le rivolte” – “I provvedimenti presi hanno proprio la funzione di garantire proprio la tutela della salute dei detenuti e tutti coloro che lavorano nella realtà penitenziaria, ma deve essere chiaro che ogni protesta attraverso la violenza è solo da condannare e non porterà ad alcun buon risultato”, ha detto il ministro della Giustizia. Domenico Pianese, segretario generale del sindacato di Polizia Coisp, ha sottolineato come le proteste siano cominciate contemporaneamente in tutto il Paese: “La contemporaneità delle rivolte all’interno delle carceri italiane lascia pensare che ciò a cui stiamo assistendo sia tutt’altro che un fenomeno spontaneo – ha detto Pianese – C’è il rischio che dietro le rivolte possa esserci la criminalità organizzata“. Il riassunto delle rivolte in tutta Italia – Le proteste sono iniziate domenica, a Frosinone e a Modena. Detenuti in rivolta a Piacenza, Ferrara, Reggio Emilia e Bologna. Disordini a San Vittore a Milano e a Rebibbia a Roma, con le infermerie assaltate: fuori dal carcere romano si sono radunati i familiari dei detenuti, che per qualche ora hanno bloccato la via Tiburtina. Situazione tornata alla normalità a Regina Coeli, dopo i roghi appiccati per protesta. A Pavia due poliziotti tratti in ostaggio poi sono stati liberati. Analoghe scene di protesta a Napoli e Salerno, a Torino e Alessandria. Le agitazioni e le rivolte delle scorse ore hanno richiesto l’intervento delle forze dell’ordine anche a Frosinone, Alessandria, Lecce, Bari e Vercelli. Caos anche a Prato. Danneggiato l’istituto penitenziario di Salerno, dove la rivolta è terminata in giornata, mentre ad Ariano Irpino e a Santa Maria Capua Vetere c’è stata una vera e propria rivolta. A Foggia evasioni di massa – La situazione peggiore si è registrata a Foggia, con oltre 70 detenuti detenuti evasi. In un caso i fuggitivi hanno rapinato un meccanico di auto e attrezzi nella zona del Villaggio Artigiani, l’area nella quale si trova il carcere. Quattro detenuti evasi sono stati fermati sulla tangenziale di Bari: avevano appena rubato un’auto, intercettata grazie al numero di targa. Nel frattempo il penitenziario foggiano, secondo alcune fonti della polizia, era finito completamente in mano ai rivoltosi, che hanno rotto le finestre e divelto un cancello della block house, la zona che li separa dalla strada. All’ingresso della casa circondariale è stato appiccato un incendio. Rivolta nelle carceri: la miccia nei divieti, ma il virus cova da tempo di Eleonora Martini Il Manifesto, 10 marzo 2020 Coronavirus. Sette detenuti morti, evasioni, sequestri, devastazioni: la decisione di sospendere i colloqui innesca l’incendio nelle celle sovraffollate. Il ministro Bonafede lancia un appello alla calma e avverte: “Nessun provvedimento finché c’è violenza”. “Lavarsi le mani, stare a un metro di distanza, ecc. E informarsi, per capire quando è il momento di preoccuparsi”: provate a seguire le regole di prevenzione stando stipati in 562 su 369 posti, come nel penitenziario di Modena che si è acceso per primo domenica pomeriggio, o come a Foggia dove vivono in 608 e i posti sono 365. Provate a farlo, per esempio, quando in cella c’è qualcuno che si lava solo se i volontari gli portano il sapone, perché soldi per comprarlo non ne ha. E provate a tentare di rimanere tranquilli in una situazione del genere, senza informazioni, senza più colloqui visivi con i parenti almeno fino al 22 marzo, con poche telefonate a disposizione, niente più visite dei volontari, e con gli agenti che sono tesi, arrabbiati e impauriti come e peggio di voi. Naturalmente c’è dell’altro all’origine dell’uso della violenza da parte dei detenuti e c’è molta strumentalizzazione, ma la miccia che ha innescato l’incendio che è divampato nelle carceri italiane sono state le misure anti Coronavirus imposte dal Dpcm del ministero di Giustizia e quelle, troppe, lasciate alla discrezionalità dei direttori degli istituti penitenziari. E il terreno fertile per la rivolta scoppiata in decine di prigioni, da Milano a Palermo, da Foggia e Modena, da Napoli a Roma, da Rieti a Prato, da Ferrara a Bergamo, da Genova a Pavia, coinvolgendo anche i familiari che in più occasioni hanno portato in strada la protesta (e le violenze), è la condizione di sovraffollamento e di degrado in cui versano i 189 penitenziari italiani dove vivono 61.230 persone a fronte di una capienza di 50.931 posti, con un tasso di sovraffollamento medio del 120%. Era prevedibile, dunque. E previsto. Ma forse neppure i tanti che avevano lanciato l’allarme nei giorni scorsi potevano immaginare una situazione tanto drammatica: in una cinquantina di istituti la protesta si è limitata alla battitura delle sbarre, ma in una trentina ci sono stati disordini e violenze, con suppellettili divelte e oggetti dati alle fiamme, detenuti saliti sui tetti, scontri con gli agenti, furti, aggressioni tra reclusi, sequestri di persona ed evasioni. Nei casi peggiori, morti e feriti. Il primo a infiammarsi domenica pomeriggio, quando è arrivato lo stop alle visite dei parenti e dei volontari motivato dal rischio di contagio al Coronavirus, malgrado il via vai del personale penitenziario continui senza alcuna precauzione, è stato il carcere di Modena dove sono morti in totale sette detenuti, quattro dei quali dopo il trasferimento in altre strutture, a Parma, Ascoli Piceno, Alessandria e Verona. La procura ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo ma secondo le prime ricostruzioni i carcerati sarebbero morti dopo aver ingerito dosi massicce di metadone e altri psicofarmaci rubati dall’infermeria. La struttura di Modena è stata praticamente distrutta perciò tutti i 500 reclusi sono stati trasferiti altrove. In venti anche a Campobasso dove, secondo l’associazione Antigone, la situazione sarebbe già particolarmente fragile, con un sovraffollamento che così sale a oltre il 190%. Ieri mattina la protesta si è estesa un po’ ovunque, anche se non sempre violenta ed ha riguardato solo una parte della popolazione reclusa in ciascun carcere. Gente sui tetti per ore in molti istituti, come a Caserta e al San Vittore di Milano dove la rivolta ha avuto il “sostegno esterno” di un gruppo di anarchici. Incendi nelle celle come al Pagliarelli di Palermo, a Bari, a Bologna (cinque i feriti) o nel carcere romano di Regina Coeli (dove il sovraffollamento è del 172%, con 1061 su una capienza di 616 posti). Oggetti lanciati dalle finestre quasi dappertutto, molte devastazioni come a Rieti e Velletri, detenuti barricatisi a Isernia. A Foggia sono evase circa 70 persone, di cui una ventina è riuscita (almeno fino a ieri sera) a far perdere le proprie tracce. Altro tentativo di evasione all’Ucciardone di Palermo. A Rebibbia la protesta è stata amplificata da alcuni parenti che hanno bloccato per qualche ora il traffico sulla via Tiburtina. Nel carcere di Melfi quattro poliziotti e tre sanitari, tra i quali uno psicologo, sono stati sequestrati (lo sono anche mentre andiamo in stampa). Una lista che si allungava di minuto in minuto, malgrado gli appelli alla calma e i tentativi di sedare i più aggressivi. Volontari, cappellani, agenti e personale penitenziario hanno parlato per ore con i rivoltosi e con il resto dei reclusi riuscendo in molti casi a smussare le tensioni. Un appello alla “responsabilità dei detenuti” è stato lanciato dall’ispettore generale dei cappellani, don Raffaele Grimaldi, che ha difeso le misure adottate dall’amministrazione penitenziaria e ha ammonito: “Se all’interno di un carcere ci fossero contagi, sarebbe una situazione ingestibile, le violenze aumenterebbero”. La Lega ha chiesto il pugno duro, e l’uso dell’esercito, così come hanno fatto le destre fortemente radicate in alcuni sindacati di polizia penitenziaria. Diversa la posizione delle associazioni di volontariato, degli avvocati penalisti e di alcune forze politiche come +Europa e il Partito radicale che chiedono di allentare il sovraffollamento ricorrendo anche all’amnistia per alcuni reati e all’indulto per pene in esecuzione inferiori a due anni (in Iran, va ricordato, per evitare il contagio nelle celle che significherebbe centinaia di morti, l’indulto ha riguardato pene inferiori a cinque anni). “Chiediamo un alleggerimento delle misure coercitive - dice al manifesto la vice del Garante nazionale dei detenuti, Daniela De Robert - Invece di sospendere la semilibertà, ai detenuti che lavorano all’esterno si dovrebbe concedere il permesso di non rientrare in cella in questo periodo”. Per De Robert si sarebbe dovuto comunicare di più con i detenuti, rassicurarli, spiegare loro la situazione. E dare meno discrezionalità ai direttori per quanto riguarda le telefonate e i rapporti indiretti tra i reclusi e i propri cari. Ieri il presidente dell’ufficio del Garante, Mauro Palma, ha avuto ieri pomeriggio un lungo incontro col ministro di Giustizia Alfonso Bonafede al termine del quale si è costituita una task force di cui entrambi faranno parte insieme al capo del Dap, Francesco Basentini, e del suo vice, Gemma Tuccillo, responsabile della giustizia minorile e di comunità. Tre le direttrici su cui si muoveranno nei prossimi giorni: fermare le violenze, anche perché “sotto ricatto nessun provvedimento potrà essere preso”, ha assicurato il Guardasigilli che ieri sera, in un video su Facebook ha lanciato un appello alla calma spiegando ai detenuti e ai loro famigliari che le misure prese sono transitorie e servono a tutela degli stessi reclusi e dei lavoratori in carcere: “Deve essere chiaro - ha sottolineato Bonafede - che ogni protesta attraverso la violenza è solo da condannare e non porterà a nessun risultato”. Il secondo obiettivo della task force sarà quello di ripristinare i colloqui “anche prima del 22 marzo”, mettendo a punto misure di prevenzione e screening adatti. Infine, il provvedimento più richiesto ma anche più difficile da approntare senza il ricorso ad amnistia e indulto: l’alleggerimento del sovraffollamento. “Ci lavoreremo nei prossimi giorni”, assicurano in Via Arenula. Ma sarà sempre troppo tardi. Il virus come scintilla per la Caporetto del sistema penitenziario di Adriano Sofri Il Foglio, 10 marzo 2020 Domenica 8 marzo. La domenica è il giorno più triste in galera. Non ci sono colloqui coi famigliari, non ci sono attività sociali. C’è la messa, quando va bene, accoglie tutti, credenti e no, cristiani e musulmani. Per il resto, mera giacenza. Domenica ci sono state ribellioni in decine di carceri. “Ci sono stati sette morti”: così, come in un sotto-bollettino clinico. Sette morti collaterali di coronavirus, e 18 detenuti ricoverati in ospedale. Una volta entrato nelle prigioni, il Covid-19 dilagherebbe: il contagio della ribellione prova, ad armi impari, a tenergli testa. È dilagata nel giorno in cui ministri annunciavano il carcere per i cittadini a piede libero che trasgredissero alle restrizioni sui movimenti. Il carcere? Quello in cui sono accatastate 61.230 persone (persone) rispetto a una capienza teorica di 47.231 posti? In Lombardia ci sono 8 mila detenuti su 6 mila posti (teorici): aggiungetene un po’, a Lodi, in particolare. Un posto in galera oggi vale quasi quanto un posto in terapia intensiva. L’accanimento terapeutico del sistema penitenziario è meraviglioso. Portavoce di sindacati della polizia penitenziaria, che conoscono la galera e ci vivono da semiliberi, hanno avvertito: “Non si dica che quanto sta accadendo è per il coronavirus, ma è con il coronavirus, perché il grave stato emergenziale che attanaglia le carceri, i detenuti e chi vi opera, c’è da troppo tempo e solo l’improvvisazione di chi ha il dovere di gestirle politicamente, per conto dei cittadini, poteva non prevedere quello che sta accadendo in queste ore” (De Fazio, Uil-Pa). È la Caporetto dell’amministrazione penitenziaria, dice Franco Corleone, che ne aveva anche lui avvertito. Il virus è la scintilla: come stare chiusi a doppia mandata durante un terremoto devastante e però lunghissimo. La sospensione dei colloqui, dei permessi, del lavoro esterno, dei rapporti col mondo. Qualcuno è evaso, ieri, per essere subito ripreso - riacciuffato, come dice il tic lessicale dei conduttori - qualcun altro ci ha provato: non era il punto. Piuttosto, lo è la risalita sui tetti, a sventolare lenzuoli e alzare pugni, con facce giovani coperte da un fazzoletto come per una mascherata simbolica, non per celarsi ma per farsi vedere. Abitatori del sottosuolo che si arrampicano al cielo, e si fanno per un’ora monumenti alla libertà. E anche, come a San Vittore, citazioni di altri tempi, altre rivolte, le prime che annunciarono che anche nei luoghi chiusi e dannati la vita continuava. La cima dei tetti è il ripudio e l’apoteosi dell’evasione. Da tanti anni la resistenza del carcere a condizioni invivibili e così riconosciute e certificate da tutti, aveva preso solo due forme: la nonviolenza, cui l’avevano lungamente educata Marco Pannella e i suoi e tante altre eroiche associazioni volontarie civili, ostacolate e intimidite metodicamente; e la disperazione solitaria, l’autolesionismo, i suicidi tentati e riusciti, le aggressioni cieche. Se no, l’inerzia ottusa di una condizione in cui guadagnarsi un metro e 80 centimetri di distanza l’uno dall’altro, un metro di distanza dal lavandino al water, era una bella utopia. Vedrete, quando sarà possibile sapere e fare un bilancio, che alla “sommossa” non partecipano tanto, né la animano, “quelli che non hanno niente da perdere”, i detenuti con le pene più pesanti e con l’adattamento più forte alla reclusione, ma quelli, la gran maggioranza, che sono giovani e hanno tutto da perdere, cui spesso restano pene brevi. E anche chi sia prossimo a uscire può esser trascinato, dall’impulso alla ribellione, a fare come i suoi compagni, cui l’umiliazione quotidiana lo unisce e lo assomiglia. Hanno poco di cui disporre le rivolte carcerarie. Il fuoco, i pagliericci incendiati, le bombolette di gas dove non sono state vietate, il fumo che li intossica, il clangore dei ferri battuti, inversione collettiva del rito che più volte al giorno avviene alle finestre delle loro celle in memoria di Montecristo, i lenzuoli, appunto, adibiti a striscioni piuttosto che a cappi da impiccati, e cose da sfasciare: gli ingredienti di ogni ammutinamento quando la disciplina di bordo sia diventata insopportabile e lo scorbuto infierisca. Le vaghe e reticenti notizie di ieri dicevano di alcuni dei detenuti morti per aver ingerito farmaci, oppioidi, benzodiazepine, sottratti alle infermerie interne: tale dunque è la popolazione del carcere, pronta alla morte, non per la libertà, per la sopraddose. Rita Bernardini, che sia lodata, vuole riproporre obiettivi come l’amnistia che non hanno alcuna possibilità di realizzarsi. Ma ricorda che in carcere ci sono migliaia di persone cui resta da scontare meno di un anno, migliaia con meno di due anni e migliaia fra i due e i tre anni: cui sarebbe stato ragionevole, e tanto più è ora, applicare pene alternative che la legge prevede. La parola d’ordine inesorabile del mondo che fino a ieri si credeva libero, Diradare, Distanziare, ha nel carcere, che è in larga misura un orribile cronicario, il suo contrario forzato: il Mucchio. Non è difficile da capire. Ma il cielo mette fuori di senno coloro di cui vuole la rovina. Cosa c’è dietro le rivolte nelle carceri italiane (il coronavirus, certo, ma molto altro) di Francesco Maselli linkiesta.it, 10 marzo 2020 Tra domenica e lunedì sono scoppiate proteste in 27 istituti penitenziari dopo la notizia della sospensione dei colloqui con i familiari, dei permessi premio e del regime di semilibertà. Misure necessarie ma spiegate male, che hanno fatto esplodere una situazione già molto tesa Tra domenica e lunedì sono scoppiate proteste, rivolte e agitazioni in 27 carceri italiane, in alcuni casi molto violente, che hanno provocato numerosi danni ad alcune strutture penitenziarie, evasioni (a Foggia) e sette morti nel carcere di Modena. La causa scatenante è stata la decisione del Ministero della Giustizia, comunicata con una circolare che anticipa il decreto di prossima pubblicazione, di sospendere “dal 9 al 22 marzo 2020, i colloqui con i congiunti o con altre persone cui hanno diritto i condannati, gli internati e gli imputati, che verranno svolti a distanza, mediante, ove possibile, apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria e minorile o mediante corrispondenza telefonica, che può essere autorizzata oltre i limiti della normativa vigente”. “La notizia ha creato il panico - spiega a Linkiesta Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio carceri dell’associazione Antigone - perché i detenuti, già impauriti dalle notizie sulla diffusione del coronavirus, hanno pensato che l’epidemia fosse ormai incontenibile. Bisogna considerare che in carcere le informazioni non arrivano in modo completo, l’idea di non poter sapere cosa accade ai familiari che potrebbero essere coinvolti al di fuori ha sicuramente dato un grosso impulso alla rivolta”. La preoccupazione, tra la popolazione carceraria, era già molto alta dalla settimana scorsa, quando è stato reso noto il ricovero in coma farmacologico di un agente penitenziario di 28 anni in servizio al carcere di Vicenza. La decisione di sospendere i colloqui ha fatto il resto, anche perché accompagnata da un’altra disposizione che ha ristretto i diritti dei detenuti: secondo il decreto di prossima pubblicazione, la magistratura di sorveglianza potrà sospendere, fino al 31 maggio 2020, la concessione dei permessi premio e del regime di semilibertà. Secondo Aurora Matteucci, avvocato al foro di Livorno, il ministero ha sbagliato le modalità con cui i detenuti sono stati informati delle decisioni: “Per i detenuti si tratta di limitazioni molto rilevanti, probabilmente andavano avvertiti meglio, bisognava fargli capire che non sono gli unici a dover fare delle rinunce. Insomma, trattarli come cittadini. Invece la notizia ha creato confusione, non è stata capita, è possibile che in alcuni casi non sia stato detto che i colloqui sarebbero continuati grazie a Skype o altri strumenti”. Un funzionario dell’amministrazione penitenziaria, che ha accettato di parlare con Linkiesta sotto garanzia di anonimato, spiega che molti detenuti sono sicuramente preoccupati per la loro salute, ma questo non vale per tutti: “È naturale che la decisione del ministero per molti costituisce un pretesto: la popolazione carceraria è composita, ci sono persone pentite o consapevoli di dover scontare la propria pena per poi tornare a una vita normale, ma anche “cani sciolti” o delinquenti abituali che sfruttano questa situazione per cercare di ottenere l’indulto o l’amnistia. Non c’è dubbio però che le preoccupazioni per i colloqui siano fondate: il sistema Skype che utilizziamo è pensato per chi in condizioni normali non può tenere i colloqui di persona, come i detenuti che hanno famiglie residenti in una regione diversa. Ma è una percentuale bassa, e infatti molte strutture hanno sola postazione Skype: come fai ad assicurare tutti i colloqui se non hai i mezzi?”. A dimostrazione di quanto la questione sia complessa, il procuratore aggiunto di Milano Alberto Nobili ha spiegato in un’intervista a Radio24 che i detenuti di San Vittore non hanno fatto riferimento all’emergenza sanitaria per motivare la loro rivolta: “Hanno colto l’occasione di questo momento particolare per rivendicare trattamenti carcerari migliori, a partire da una diminuzione delle presenze nelle carceri: a San Vittore, sono attualmente 1.200 detenuti, dovrebbero essercene 700”. Tra le preoccupazioni dei detenuti c’è anche quella delle condizioni igienico-sanitarie, già precarie in tempi normali. La Protezione civile ha confermato a Linkiesta di non avere ancora distribuito materiale sanitario negli istituti penitenziari che quindi fino a oggi, lunedì 9 marzo, hanno favorito contatti tra la polizia, gli educatori, le famiglie, gli avvocati e i detenuti senza mascherine e amuchina o disinfettanti simili. La protezione civile ha già stabilito la distribuzione di 100mila mascherine nelle carceri (ma non di amuchina) che avverrà nella giornata di martedì 10 marzo. Alcune strutture penitenziarie hanno provveduto da sole, ma l’iniziativa è lasciata ai singoli e non è uniforme su tutto il territorio nazionale. Questa mancanza di requisiti di prevenzione della diffusione del coronavirus si aggiunge al sovraffollamento. Secondo il rapporto dell’associazione Antigone sono 60.439 i detenuti presenti nelle carceri italiane al 30 aprile 2019. Quasi 10.000 in più dei 50.511 posti letto ufficialmente disponibili - cui si devono sottrarre gli eventuali spazi momentaneamente in manutenzione. Nel 2006, dopo l’ultimo indulto, la popolazione carceraria era di 39.005 persone. Michele Usuelli, consigliere regionale in Lombardia e membro di Più Europa/Radicali, ha visitato uno degli istituti penitenziari teatro delle rivolte, quello di Pavia: “Ho visitato il carcere il 25 febbraio, il giorno dopo l’istituzione della zona rossa a Codogno. L’istituto di Pavia ha una capienza di 518 detenuti, e quel giorno ne ospitava 730: nella cella ordinaria, che misura 9 metri quadrati e dovrebbe essere assegnata a 2 detenuti, c’era spesso una terza persona, in una brandina buttata a terra. Non si rispettavano le regole per una detenzione dignitosa, figurarsi le regole della minima distanza di un metro tra le persone per evitare i contagi. Le carceri sono luoghi sovraffollati, bombe a orologeria pronte a esplodere in questi casi. Per non parlare del via vai: in una struttura c’è contatto tra agenti, personale, educatori, avvocati e parenti dei detenuti. Tutte persone che hanno una loro vita all’esterno dell’istituto e che potrebbero contrarre il virus e poi portarlo all’interno”. Insomma, non era impossibile prevedere rivolte generalizzate in una situazione di panico diffuso, generato anche dalla gestione confusionaria del governo, che ha fatto filtrare la bozza del decreto che istituiva la zona rossa in Lombardia e altre 11 province (poi diventate 14) sabato pomeriggio. I detenuti guardano la televisione, e domenica mattina hanno messo insieme i puntini: un agente penitenziario in coma, il nord Italia in quarantena, la sospensione dei colloqui e dei permessi premio, la mancanza di materiale sanitario in carcere. In molti propongono di ricorrere più rapidamente alle misure alternative alla pena, come l’affidamento in prova ai servizi sociali o la detenzione domiciliare, previsti dall’articolo 47 della legge sull’ordinamento penitenziario. Per alleggerire la situazione, spiega Riccardo Polidoro, avvocato al foro di Napoli e responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane, basterebbe applicare le regole vigenti: “È già possibile ricorrere a pene alternative, il problema sono, come sempre, i lunghi tempi della giustizia. Il Tribunale di Sorveglianza, che si occupa delle decisioni in materia di detenzione, è sotto organico e può impiegare 7 o 8 mesi per emettere un’ordinanza, a volte anche di più. Se si considera che in Italia 8.682 detenuti scontano una pena residua inferiore a un anno, si comprende facilmente il paradosso: le persone terminano la loro pena prima di vedere esaminata dalla magistratura la propria richiesta di misure alternative al carcere”. Ecco perché l’Unione camere penali ha pubblicato una nota in cui chiede al governo di intervenire subito in tal senso: “L’amnistia e soprattutto l’indulto sono le strade da seguire ed occorre immediatamente rafforzare il personale dei Tribunali di Sorveglianza - magari con i magistrati che in questo periodo non terranno udienze - per verificare quanti detenuti (e non sono pochi) hanno diritto ad avere gli arresti domiciliari ovvero la misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, anche aumentando, con decreto legge, il tetto della pena da scontare per accedere al beneficio”. L’esecuzione alternativa della pena è in effetti uno dei punti deboli del sistema penale italiano, che non ha i mezzi appropriati per affrontare la mole di lavoro. Tuttavia, spiega a Linkiesta Monica Amirante, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Salerno, aumentare il numero di giudici non risolverebbe il problema: “Il vero limite è la carenza di personale amministrativo e di mezzi, circostanza che rallenta ulteriormente i procedimenti. Per intenderci, non sono i magistrati a depositare gli atti, ma i cancellieri o altri funzionari di grado superiore: a Salerno ne abbiamo 2, ne servirebbero 4. Esiste poi un altro problema, che forse si sottovaluta. Il Tribunale di Sorveglianza non decide sulla colpevolezza dell’imputato, ma sul modo migliore per fargli scontare la pena. Ha bisogno, quindi, di conoscere una serie di situazioni soggettive nel momento in cui deve adottare un provvedimento di scarcerazione. Quando arriva una richiesta di concessione dei domiciliari, per esempio, bisogna valutare se il contesto familiare in cui il detenuto vorrebbe tornare è adatto, in che rapporti è con la moglie e con i figli. Di questo si occupa l’ufficio di esecuzione penale esterna, anch’esso sotto organico. Spesso le decisioni sono lunghe perché è tutta la macchina a essere in difficoltà” Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha spiegato che i provvedimenti presi dal governo per gli istituti penitenziari hanno “la funzione di garantire proprio la tutela della salute dei detenuti e tutti coloro che lavorano nella realtà penitenziaria. Deve essere chiaro che ogni protesta attraverso la violenza è solo da condannare e non porterà ad alcun buon risultato”. Su questo tema il ministro Bonafede riferirà mercoledì pomeriggio al Senato con un’informativa urgente. Linea dura di Bonafede: no a indulto e amnistia. Ma il Pd vuole lievi sconti a fine pena di Liana Milella La Repubblica, 10 marzo 2020 Un no, netto e deciso, a qualsiasi ipotesi di indulto o amnistia. Né adesso, né in futuro. No anche, soprattutto subito dopo le rivolte, ad allargare i cordoni della detenzione domiciliare e a concedere la libertà a chi ha quasi finito di scontare la pena. Nei prossimi mesi un margine per queste due misure potrà anche esserci, ma solo quando gli italiani, che stanno soffrendo per il Coronavirus al pari dei detenuti, avranno cancellato dalla mente le terribili immagini dei penitenziari in fiamme. È una linea dura quella che, a sera, esce da via Arenula e dalla stanza del Guardasigilli Alfonso Bonafede che affida a Facebook un messaggio diretto, assieme, ai carcerati ma anche agli italiani. La frase chiave è questa: “Dev’essere chiaro che ogni protesta attraverso la violenza è solo da condannare e non porterà ad alcun buon risultato”. Il ministro della Giustizia è irremovibile anche con il Pd che per tutta la giornata - con l’ex Guardasigilli Andrea Orlando, con il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis, con Walter Verini, con Franco Mirabelli - cerca di spuntare più blande misure svuota carceri. Una risposta, secondo i Dem, a un sovraffollamento innegabile, che è nei numeri e nei fatti. Sono le stesse misure che sollecitano anche i Radicali e la dissidente grillina Paola Nugnes. Come concedere a chi già si trova in condizione di semilibertà la possibilità di restare a dormire a casa invece di tornare in cella, come avviene oggi. O ancora, dare la definitiva libertà a chi ha da scontare solo tre mesi di prigione. Ma la risposta di Bonafede è un no netto, perché sull’onda delle violenze non è possibile alcun cedimento, visto che “tutti gli italiani in questo periodo sono chiamati a fare sacrifici e rinunce”. Sarà invece una task force, composta dal Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, dai responsabili degli uffici centrali e periferici del Dipartimento delle carceri, dall’unità di crisi della protezione civile, e da Gemma Tuccillo, responsabile della giustizia minorile e dell’esecuzione penale esterna, a verificare cosa effettivamente sia accaduto in questi due giorni di violenza. Vince la linea dura di Bonafede, il Pd si piega e accetta, i detenuti non ottengono nulla? Sarebbe del tutto sbagliato semplificare così una giornata politicamente complessa, che di certo ha visto, per molte ore, lo stesso ministro di M5S sulla graticola. Contestato dal centrodestra, con il leghista Matteo Salvini pronto a pretendere un commissario straordinario per le carceri, quasi la stessa richiesta dei renziani di Italia viva che, con Davide Faraone, vogliono la testa del direttore del Dap Francesco Basentini. Un tam tam che batte su Bonafede a cui si chiede di venire subito in Parlamento per riferire sulle rivolte. Accadrà domani, alle 17, in Senato. Sono gli stessi momenti in cui anche il Pd appare critico col Guardasigilli. Il suo predecessore Orlando non gli fa sconti e chiede che “il ministro costituisca subito una task force e chiami a raccolta tutte le competenze che in questi anni sono state marginalizzate in nome di un opinabile spoil system”. Parla di “un’emergenza affrontata senza alcuna preparazione da parte del dipartimento competente, visto che la catena di comando si è fortemente indebolita”. Un’uscita netta che poi però in via Arenula lascia il passo alla strategia in due tempi. Adesso, per Bonafede come per la macchina che contrasta il Coronavirus, l’importante è riportare l’ordine dei penitenziari. Facendosi carico delle preoccupazioni sanitarie e rettificando la linea sui sacrifici imposti ai detenuti. Tant’è che il capo della Protezione civile Angelo Borrelli annuncia che domani saranno consegnate nelle carceri “centomila mascherine e saranno montate 80 tende che servono per il pre-triage”. Ma non basta. È lo stesso Bonafede a spiegare meglio rispetto a quanto sia stato fatto finora le ragioni della stretta sui permessi ai detenuti e soprattutto sugli incontri negati: “Stiamo lavorando affinché vi siano tutte le cautele mediche per garantire la più rapida ripresa dei colloqui con i familiari. Nel frattempo, per un periodo limitato, di 15 giorni, abbiamo sospeso i colloqui fisici aumentando il numero e la durata dei contatti telefonici e delle conversazioni a distanza”. Ma restano comunque i dubbi su questi due giorni. Che toccherà agli investigatori approfondire. A cominciare da quei volantini che, tutti uguali, sono stati trovati in più penitenziari. L’ipotesi è quella di una rivolta che forse ha dietro una mente organizzativa. Anche per questo, e non solo per la violenza e i danni, Bonafede e i suoi ci vogliono veder chiaro prima di concedere misure contro il sovraffollamento. La rivolta nelle carceri e il fantasma di Bonafede di Riccardo Bonacina Vita, 10 marzo 2020 Sono sei i detenuti deceduti nel carcere di Modena durante la rivolta di ieri pomeriggio: lo si apprende oggi da fonti della Questura modenese confermate dal sindacato della polizia penitenziaria, Sappe. A Modena si è sviluppata ieri una vera e propria rivolta dei carcerati, circa 530, in segno di protesta per le restrizioni ai colloqui dovute all’emergenza coronavirus. Modena arriva però dopo le rivolte di Salerno e di Poggioreale, e prima di a Bari, Alessandria, Vercelli, Pavia, Padova Frosinone, Palermo, Foggia. E oggi San Vittore a Milano. La scintilla di una rivolta che non ha precedenti per numero di carceri (ben 27) e di carcerati coinvolti, sono state le misure riguardanti gli istituti penitenziari e negli istituti penali per minorenni. Nessuna apertura per pene alternative per malati e anziani. Nel decreto legge recante “misure straordinarie ed urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica del nuovo coronavirus e contenere gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria”, si contemplano anche le misure per quanto riguarda le carceri italiane. Negli istituti penitenziari e negli istituti penali per minorenni, a decorrere dal giorno successivo alla data di entrata in vigore del presente e sino alla data del 31 maggio 2020, i colloqui con i congiunti o con altre persone cui hanno diritto i condannati, gli internati e gli imputati, saranno svolti solo a distanza, mediante, ove possibile, apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria e minorile o mediante corrispondenza telefonica, che può essere autorizzata anche oltre i limiti previsti dall’ordinamento penitenziario. Inoltre è previsto il divieto ai volontari di visita. Quindi divieto di visita, ma ampliamento, diciamolo assai teorico, delle telefonate e utilizzo di Skype. Altra novità è il divieto dei benefici penitenziari. Tenuto conto delle evidenze rappresentate dall’autorità sanitaria, il magistrato di sorveglianza, nel periodo compreso tra la data di entrata in vigore del decreto ed il 31 maggio 2020, può sospendere la concessione dei permessi premio e del regime di semilibertà. Nel decreto, quindi, nessuna apertura per quanto riguarda la concessione di pene alternative per le persone vulnerabili come malati e anziani che difficilmente in carcere, se dovessero contrarre il coronavirus, potrebbero essere isolate dal resto della popolazione detenuta. In carcere la paura, la solitudine, l’angoscia sono cresciute di ora in ora esponenzialmente tra i quasi 61 mila detenuti nelle carceri italiane. Decine di migliaia di genitori, figli, fratelli, sorelle non possono vedere i loro cari in carcere. Sono impauriti, in alcuni casi disperati. Per questo vanno allargate le possibilità di contatto. In base alla legge attualmente in vigore al detenuto spettano dieci minuti di telefonate alla settimana (seppur estendibili eccezionalmente), e i collegamenti internet sono pressoché vietati. La solitudine e le tensioni in questo modo possono crescere oltre il limite della ragionevolezza. Occorrerebbe un provvedimento governativo urgente e necessario quello che consenta al detenuto di telefonare ai propri famigliari per almeno venti minuti al giorno. In questo modo si andrebbero a mitigare gli effetti delle limitazioni progressive ai diritti delle persone detenute. E occorre soprattutto dire con forza e con chiarezza che paura del virus e le misure del governo sono state solo l’ultima scintilla, purtroppo l’attuale dirigenza del Dap ha dato prova di inefficienza e del carcere ha colto solo l’aspetto repressivo che ha esacerbato la situazione carceraria anche nei mesi scorsi. La chiusura delle carceri era già iniziata ed era sotto gli occhi di tutti (ben prima che questo maledetto virus rendesse le cose così drammatiche) ma pochi lo hanno fatto notare, affascinati da mistificanti progetti lavorativi dove si utilizzano i detenuti in attività gratuita per coprire le buche delle strade romane. I magistrati devono fare i magistrati non hanno doti particolari per amministrare e i risultati si vedono. Hanno dato potere alla polizia penitenziaria. Ecco le allucinanti dichiarazioni che la rappresentante dei funzionari (commissari) comandanti gli istituti ha fatto oggi: “Il tam tam - secondo la leader dell’Associazione nazionale dei dirigenti e funzionari di polizia penitenziaria Daniela Caputo - creerà presto un effetto emulazione”. La dirigente propone il pugno di ferro: “l’esercito intorno a tutti i muri di cinta, punizione severa di coloro che stanno fomentando le rivolte, interdizione da subito di ogni accesso a esponenti o associazioni che in ragione delle loro campagne storiche di tutela e promozione dei diritti dei detenuti possano vedere la loro voce strumentalizzata da facinorosi e violenti”. Praticamente uno scenario egiziano, una situazione degna di regimi totalitari. Anni di buone pratiche buttate via per insipienza e per irresponsabilità. Fermiamoci. Fermateli. E se abbiamo un ministro della Giustizia, si faccia vivo. Perché il rischio sanitario in carcere deve preoccupare tutti di David Allegranti Il Foglio, 10 marzo 2020 Rivolte ovunque fra ieri e domenica dopo l’annuncio del decreto. “Il carcere già di suo è un lazzaretto, quindi i detenuti sono oggi terrorizzati perché sanno di poter essere condannati a morte. E noi, come al solito, ci siamo scordati di loro. Perché sono cittadini di serie C”, dice il filosofo del diritto Emilio Santoro. Il sovrannumero dei detenuti e i rischi in aumento. Nel 1777 John Howard, primo riformatore del sistema penitenziario in Europa, pubblicò un accurato rapporto dal titolo “The State of the Prisons” nel quale sottolineava la necessità di sostanziali miglioramenti su igiene e pulizia, la mancanza delle quali stava provocando molte morti nelle prigioni europee. “Le rivolte nelle carceri non sono difficili da comprendere”, dice al Foglio il filosofo del diritto Emilio Santoro, ordinario all’Università di Firenze: “Se c’è un posto sovraffollato con alta concentrazione di persone con problemi di deficit immunitari, malattie infettive e respiratorie quello è il carcere. Tutti sappiamo che un terzo dei detenuti è tossicodipendente, è malato di Aids, di tubercolosi o ha comunque problemi infettivi. Se il virus entra lì, fa una strage. Il carcere già di suo è un lazzaretto, quindi i detenuti sono oggi terrorizzati perché sanno di poter essere condannati a morte. E noi, come al solito, ci siamo scordati di loro. Perché sono cittadini di serie C”. Al 30 aprile 2019, riferisce una relazione di Antigone, i detenuti presenti sono 60.439, quasi diecimila in più dei 50.511 posti letto ufficialmente disponibili, per un tasso di sovraffollamento ufficiale che sfiora il 120 per cento. Insomma, si vive male già in condizioni ordinarie. Negli ultimi due giorni il panico ha già raggiunto vari istituti penitenziari, dopo la pubblicazione del decreto che sospende i colloqui fino al 31 maggio e introduce la possibilità di fare telefonate aggiuntive e utilizzare la piattaforma Skype, nonché dà la possibilità ai magistrati di sorveglianza di sospendere i permessi premio e la semilibertà. A Modena si contano sei morti dopo le rivolte di domenica, a Foggia sono evasi a decine, a San Vittore i detenuti sono saliti sul tetto. Rivolte anche a Prato e Palermo, insomma ovunque. Il 2020 assomiglia al millesettecento dunque? Non c’era bisogno del coronavirus per scoprirlo, purtroppo. Sono anni che meritorie associazioni che si occupano di diritti dei detenuti e dello stato delle prigioni italiane (L’Altro diritto, Antigone, per non parlare naturalmente dei Radicali) denunciano le condizioni di vita di chi sta in prigione. Il carcere ha naturalmente un effetto patogeno ed è, per citare un libro del 1989, “Il carcere immateriale”, di Ermanna Gallo e Vincenzo Ruggiero, una “fabbrica di handicap”. Figurarsi oggi con l’epidemia di coronavirus. A Rebibbia, ha spiegato l’assessorato alla Salute della Regione Lazio citando fonti del sindacato di polizia penitenziaria, si sono registrati gravi disordini e “alcuni reclusi avrebbero assaltato le infermerie”. Forse in cerca di sostanze. In carcere, dove anzitutto manca la libertà, tutto è importante, a partire dagli psicofarmaci con cui avviare floridi commerci. “L’emergenza sanitaria va gestita non solo con le misure indicate nel decreto ma anche con considerazioni speciali per un’area a rischio sanitario più elevato”, dice al Foglio Sofia Ciuffoletti, garante dei Detenuti di San Gimignano e direttrice de L’altro diritto. “Per garantire il principio di equivalenza delle cure, non puoi differenziare la tutela sanitaria della popolazione tra chi sta in carcere e chi sta fuori”, dice ancora Ciuffoletti. “Il carcere è un luogo chiuso che deve prevedere un approntamento sanitario diverso, che passa non solo dalle forniture di presidi igienici e sanitari di base, ma anche dalla spiegazione ai detenuti di quello che sta succedendo e di quali sono i rischi. Alcune carceri lo stanno facendo, altre no. Ma fare assembramenti nei teatri delle carceri senza rendersi conto del rischio che si incorre raccogliendo 300 persone tutte insieme è pericoloso. Il rischio sanitario è altissimo e non si è pensato ad approntare misure preventive nelle settimane scorse, organizzando un triage all’interno del carcere. In più il messaggio contenuto dal decreto è contraddittorio: da un lato si sollecita il magistrato di sorveglianza, in maniera non automatica, a fare ricorso alla detenzione domiciliare, dall’altra si vietano i permessi premio e la semilibertà per consentire il lavoro esterno”. Per i colloqui ora c’è Skype, osserva Ciuffoletti, ma “servirebbe una rete Internet fortissima. Pensiamo a Sollicciano, dove ci sono 800 detenuti”. Insomma, servirebbe una forte riorganizzazione. Come spiegano al Foglio alcune fonti mediche che lavorano in carcere, è importante che il detenuto possa fare terapia occupazionale. Ma se gli agenti sono costretti a fronteggiare le rivolte, non possono sorvegliare i laboratori interni, che con meno detenuti alla volta potrebbero lavorare di più, così la palestra e le altre attività. Il sovraffollamento delle carceri, che per le sue conseguenze rappresenta una pena aggiuntiva, ha costretto l’amministrazione penitenziaria, osservano la Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane e l’Osservatorio Carcere UCPI, “ad emanare provvedimenti che, di fatto, abbandonano i detenuti nelle loro celle in totale solitudine. Sospesi i colloqui visivi con i familiari e i volontari, bloccati i permessi premio ed i lavori all’esterno, le già ridotte attività come il lavoro e la scuola sono chiuse. Non vi sono più rapporti con l’esterno e si resta soli dinanzi ad un televisore che di minuto in minuto comunica notizie sempre più allarmanti”. Certo non è facile gestire un’intera popolazione ristretta, “nel tentativo di tutelarla dal contagio e, allo stesso tempo, garantire la sicurezza all’interno degli istituti. Ma lo Stato deve assumersi le sue responsabilità anche verso i cittadini reclusi che non possono essere privati dei loro diritti, a causa dell’inefficienza di un sistema che pur ammettendo le sue colpe, non ha mai trovato rimedi per uscire da una storica urgenza, quella di rendere le carceri luoghi vivibili e in linea con i principi costituzionali e le norme vigenti. Un diritto dimenticato a cui i media dedicano pochissimo spazio. Solo ora che le carceri esplodono, sembrano rendersi conto della esistenza del problema”. Non è un caso, dicono ancora le Camere Penali, “che da giorni vengono diffusi servizi su ospedali e scuole e non anche per il destino di oltre 60.000 persone, che già prima dell’arrivo del Coronavirus vivevano una precaria situazione igienico-sanitaria e che, pertanto, sono maggiormente esposti al contagio”. In questo contesto, osserva Gennaro Migliore, ex sottosegretario alla Giustizia, “è completamente mancata l’azione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, protagonista solo delle circolari che hanno costituito la miccia che ha incendiato decine di istituti. Era da quarant’anni che non si vedeva uno scempio simile e il silenzio dell’autorità ministeriale è increscioso. Italia viva chiede una informativa immediata al ministro della Giustizia in parlamento e l’immediata rimozione del capo Dap, il dottor Francesco Basentini”. Dopo le violenze, no a un ritorno al passato di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 10 marzo 2020 A ogni detenuto va assicurata una telefonata al giorno. Non vi sono ostacoli tecnici alla realizzazione di tale proposta. Basta passare dai reparti con un telefono e consentire le chiamate ai numeri già autorizzati. Meglio ancora se si usi whatsapp in modo che i detenuti possano vedere in faccia i loro cari. Le morti assurde nel carcere di Modena, le evasioni, le devastazioni in giro per gli istituti lasceranno un segno tragico nella storia penitenziaria italiana e comunque determineranno un ulteriore peggioramento della vita dentro le prigioni. Molte sezioni carcerarie messe a ferro e fuoco dalle proteste sono da ieri inutilizzabili e i detenuti saranno trasferiti in luoghi lontani ed evidentemente più affollati rispetto a prima. Forte è il rischio che si torni indietro a un passato di ozio forzato in celle strapiene. Questa è dunque la premessa: stop alla violenza sulle cose e sulle persone. Ci rivolgiamo, però, anche a tutta la comunità penitenziaria perché non lasci soli chi è già solo e disperato. In un frangente storico nel quale tutta l’Italia è nel panico a causa di un virus infingardo, l’imposizione di restrizioni ai rapporti tra i detenuti con il mondo esterno (volontari, familiari, associazioni) decisa dall’amministrazione penitenziaria per motivi di salute pubblica ha determinato quanto abbiamo sentito e visto in giro nell’Italia delle galere. Va immediatamente fermato il circolo vizioso della violenza che ha colpito le carceri italiane. Ci appelliamo a tutta la popolazione detenuta perché non partecipi ad alcuna forma di protesta violenta. La violenza non è mai giustificabile. Avevamo pochi giorni addietro indirizzato una richiesta alle autorità governative italiane affinché compensassero i colloqui visivi negati ai detenuti con i loro cari assicurando loro una telefonata al giorno. L’ansia che sta colpendo gli italiani liberi, inevitabilmente avrebbe colpito, nelle forme più esasperate, anche i detenuti, una parte dei quali, va ricordato per chi non lo sapesse o fingesse di non saperlo, non è costituito da persone in doppio petto o capi mafia, bensì da giovani o meno giovani con problemi di dipendenza determinata dall’uso di sostanze psicotrope oppure in stato di grave sofferenza psichica. Il virus non deve entrare nelle galere. Ogni misura sanitaria a tutela dei detenuti deve essere spiegata. I direttori, gli agenti, gli educatori, i cappellani, i medici devono andare nelle sezioni e con pazienza dialogare con i detenuti illustrando le misure che si stanno prendendo eccezionalmente in tutto il Paese e non solo negli istituti penitenziari. Va recuperato un rapporto di fiducia senza il quale nessuna comunità, di persone libere o prigioniere, funziona. A ogni detenuto va assicurata una telefonata al giorno per poter dire ai propri cari “sto bene” e per poter sentire dalla loro voce che anch’essi stanno bene. Non vi sono ostacoli tecnici alla realizzazione di tale proposta. Basta passare dai reparti con un telefono e consentire le chiamate ai numeri già in passato autorizzati. Meglio ancora se si usi WhatsApp in modo che i detenuti possano vedere in faccia i loro cari. Il decreto legge dell’8 marzo in tema di coronavirus consente questa modalità di comunicazione, nonché deroghe al regime oggi vigente in materia di telefonate che prevede un massimo di dieci minuti a settimana. Inoltre, sempre a legislazione vigente, vanno protette tutte le persone detenute vulnerabili. Gli ultrasettantenni, i malati cardiopatici, coloro che sono affetti da diabete, gli immunodepressi devono poter continuare a scontare la pena in detenzione domiciliare. Bisogna evitare che restino in un luogo potenzialmente patogeno. Tutto ciò può essere deciso dalla magistratura di sorveglianza a legislazione vigente. Inoltre, dal direttore del carcere e dai suoi collaboratori, possono arrivare proposte per la concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale in forma straordinaria a tutti coloro che sono nelle condizioni normative per accedervi. Ci appelliamo alla magistratura di sorveglianza perché non si tiri indietro. Non è il momento. Ovviamente, decisivo è il ruolo dello staff penitenziario. Vanno assunti educatori, mediatori, medici, infermieri per affrontare questa fase drammatica. Dalle ceneri di queste giornate tragiche di morte e violenza ci opporremo a ogni ipotesi di ritorno a un passato fatto di sole sbarre, ozio e chiusura. Sarebbe l’esito ingiusto di giornate tragiche. Liberatene almeno diecimila di Stefano Anastasia* Il Riformista, 10 marzo 2020 Se il virus non si ferma le carceri vanno svuotate. Amnistia e indulto sono la via maestra. Se la politica non ha questo coraggio si può pensare alla liberazione anticipata e a incentivare la detenzione domiciliare: in tantissimi hanno da scontare pochi mesi. Sette detenuti morti, interi istituti e molte sezioni inagibili: è questo il primo bilancio dell’ondata di proteste che sta attraversando le carceri italiane, dal Nord al Sud. Il detonatore della protesta è stata la prima bozza del decreto-legge che minacciava di sospendere i colloqui con i familiari, in tutta Italia, fino al 31 di maggio. Poi il decreto effettivamente approvato si è limitato al 22 marzo, ma ormai la frittata era fatta: detenuti sui tetti, materassi bruciati, vetri rotti, qualche ostaggio e l’infermeria di Modena, dove - secondo le ricostruzioni del Dap - da due a sei detenuti si sarebbero approvvigionati di sostanze che gli sarebbero state letali. Naturalmente forme e modalità della protesta possono essere legittimamente condannate, soprattutto quando mettano a rischio l’incolumità fisica delle persone, degli agenti, del personale sanitario e degli stessi detenuti coinvolti nella protesta. Ma di fronte a quello che sta accadendo non ci si può fermare alla superficie delle cose o farne una questione - appunto - di forme. Al di sotto delle forme ci sono enormi problemi, su cui i detenuti hanno le loro buone ragioni. A partire dalla gestione della emergenza coronavirus in carcere. Da tre settimane è un susseguirsi di provvedimenti più o meno restrittivi dei diritti dei detenuti e di accesso dei familiari e del volontariato in carcere, fino alla chiusura dei colloqui su tutto il territorio nazionale per due settimane. Intanto, nessuna vera informazione è stata fatta in carcere, né su questi provvedimenti, né sui rischi reali e sulla prevenzione necessaria alla diffusione del virus. E nessuna misura di prevenzione è stata presa nei confronti degli operatori penitenziari e sanitari che accedono a decine, tutti i giorni, in ogni carcere. Sembra quasi che il virus in carcere lo possano portare solo i parenti dei detenuti, i detenuti in permesso e i volontari, secondo uno stereotipo stigmatizzante del mondo carcerario che in questo caso non ha proprio alcuna fondatezza scientifica. Di fronte a questa approssimazione, è comprensibile che i detenuti al primo stormir di foglie (qualche isolamento molto precauzionale, la minaccia di perdere i colloqui) abbiano temuto di restare ingabbiati in carcere a combattere con il virus nelle loro sezioni sovraffollate. Poi ci sarà anche qualcuno che ci marcia, ma la paura è reale. Che succederà quando i primi casi di positività in carcere dovessero costringere alla quarantena tutte le persone che fossero venute in contatto con loro? Immaginate una sezione con cinquanta o cento detenuti: se un detenuto, o un agente di sezione, dovessero risultare positivi, dove vanno a finire tutti gli altri? Il Dap ha chiesto a tutti gli istituti di individuare spazi destinati all’isolamento sanitario di coloro che devono andare in quarantena. E gli istituti hanno individuato le solite sezioni per i nuovi giunti: cinque, dieci stanze per ciascuno. E che si farà quando bisognerà mettere in isolamento i quarantanove compagni di sezione dell’unico positivo? Dove li si metterà. No, non c’è nessuna strumentalità nella richiesta di provvedimenti deflattivi della popolazione detenuta. Se il virus non si ferma, le carceri vanno svuotate. La via maestra è quella di un provvedimento di amnistia-indulto, anche solo di uno o due anni, sufficiente a far uscire dal carcere dalle dieci alle ventimila persone. Se le forze politiche non dovessero avere questo coraggio, si potranno studiare applicazioni straordinarie di misure già esistenti, come fu per la liberazione anticipata speciale dopo la condanna del sovraffollamento a opera della Corte europea per i diritti umani. O ancora incentivi alla detenzione domiciliare. Le carceri italiane sono piene di detenuti che scontano o che sono a pochi mesi dal fine pena: perché non consentire loro di scontare la pena fuori dal carcere, in modo da garantire le minime condizioni di salute e di prevenzione a chi dovesse rimanere dentro? Queste sono le domande che le proteste di questi giorni ci pongono, a queste domande bisogna dare risposta. Subito. *Portavoce dei Garanti territoriali dei detenuti La rivolta delle carceri è frutto della folle politica giustizialista, sia concessa amnistia di Piero Sansonetti Il Riformista, 10 marzo 2020 Li chiamano istituti di pena. La burocrazia usa parole lievi. Sono prigioni. Sono il luogo peggiore che esiste nella società moderna. Dentro la prigione non sei più nessuno. Perdi la libertà, la dignità, i diritti, gli affetti, i rapporti sociali. Le prigioni sono un inferno, una prova di sadismo di massa. Forse andrebbero abolite, sicuramente riformate radicalmente. Nelle prigioni italiane giacciono più di 60 mila persone. Stipate strette strette, perché non ci sono posti sufficienti. Le ultime leggi, volute principalmente dalla pattuglia combattiva e reazionaria dei 5 stelle, hanno aumentato il numero dei detenuti. Hanno reso più facile l’ingresso in carcere, più lunghe le condanne, più difficili le uscite. Le previsioni dicono che l’ampiezza delle carceri non aumenterà nei prossimi due o tre anni, ma il numero dei prigionieri, se non interviene qualche riforma di tipo garantista, potrebbe arrivare a 70 mila e magari di più. Sarà l’iradiddio, se nessuno interviene. È in questo clima che la situazione è precipitata. La frustrazione dei detenuti è aumentata con il dilagare del coronavirus e con le nuove misure di sicurezza, imposte dall’autorità carceraria, che riducono i contatti con l’esterno, proibiscono la visita dei familiari, limitano l’apertura delle celle. Sabato sera è iniziata la rivolta. Prima Modena e Frosinone, poi tutte le altre prigioni. Ventisette, tra domenica e lunedì. L’ultima ad esplodere è stata Regina Coeli, la prigione più famosa e una delle più antiche. Un edificio del Seicento, sotto al Gianicolo. Centinaia di detenuti, quasi tutti in attesa di giudizio o di appello, per metà stranieri. Anche loro si sono ribellati, son saliti sui tetti, è iniziato un pandemonio. Regina Coeli è proprio nel centro di Roma, poche centinaia di metri da San Pietro e nel pieno del rione Trastevere, uno dei più romaneschi e vecchi quartieri della capitale. Fino a ieri sera è stato uno sfrecciare di macchine della polizia, urla, botti, esplosioni. È quasi impossibile ancora fare un bilancio di queste due giornate. Almeno sette morti. Tutti al carcere di Modena. Alcuni detenuti sono morti dentro il carcere, altri mentre venivano trasferiti. I responsabili del carcere dicono che sono morti per overdose, dopo aver assaltato l’infermeria. La Procura però ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo contro ignoti. La situazione è ancora molto molto confusa, è difficile capire cosa sia successo, ma sette morti non possono passare sotto silenzio. È un prezzo altissimo, davvero altissimo a una politica carceraria dissennata. A Foggia c’è stata addirittura una evasione di massa. 50 prigionieri sono fuggiti dal carcere, poi 37 sono stati catturati di nuovo dalla polizia, gli altri 13 sono alla macchia. Anche all’Ucciardone di Palermo c’è stato un tentativo di evasione, ma sembra che sia fallito. Tra le prigioni in rivolta c’è San Vittore, a Milano, cioè nella città più colpita dal virus. Naturalmente la rivolta è confusa, spontanea, non ha un disegno. Sono apparsi degli striscioni che inneggiano all’indulto, ma quello dei detenuti non è un movimento politico compatto, non ha struttura, non ha strategia, non ha direzione. E tuttavia non si può non prendere atto del fatto che dopo tanti e tanti anni di calma nelle prigioni è tornato a divampare l’incendio. Che ci riporta indietro. Ai tempi degli anni di piombo, delle carceri speciali, delle sommosse. Poi intervenne la politica e riuscì, in quel periodo di ferro e fuoco, a varare leggi liberali. Ci fu la riforma del 1975, approvata mentre la lotta armata iniziava a insanguinare l’Italia e l’indice della criminalità era cinque o dieci volte più alto di oggi, e poi la riforma Gozzini, quella che liberalizza il carcere, aumenta i permessi, i premi, le semilibertà, che è del 1986, quando il terrorismo mieteva ancora decine di vittime ogni mese, e la mafia era scatenata in Sicilia. Mario Gozzini, un intellettuale cattolico molto prestigioso, era un parlamentare dell’opposizione. Il governo era un governo di centrosinistra guidato da Bettino Craxi ma la legge che riduce la barbarie carceraria la firmò un parlamentare dell’opposizione. Mario Gozzini era stato eletto dal Pci. Ed era passato appena un anno dal referendum sulla scala mobile che aveva portato a livelli altissimi la tensione politica tra maggioranza e opposizione. Soprattutto tra Psi e Pci. Eppure allora la politica era un’altra cosa. Su alcuni temi si poteva collaborare. E non c’era il terrore di indispettire i populisti, i giustizialisti. Se non ricordo male solo il Msi si oppose alle leggi libertarie di Gozzini. Oggi? L’indice della delinquenza è crollato, la lotta armata non esiste più, la mafia, in gran parte, è piegata, o comunque ha abbassato moltissimo il livello della sua violenza. E invece il numero dei detenuti è quasi raddoppiato da allora, e ogni legge, o decreto, o regolamento, o ordinanza che viene varato è per rendere più duro il carcere, più rigorosa la certezza della pena. Nonostante i coraggiosi interventi della Presidente della Corte Costituzionale che ci ha spiegato, recentemente, che la pena deve essere flessibile, perché così dice la Costituzione. Ieri anche le Camere penali hanno chiesto l’amnistia e l’indulto. E contemporaneamente hanno chiesto misure che consentano la scarcerazione dei detenuti con modesti residui di pena e i domiciliari per gran parte dei detenuti in carcerazione preventiva. E il ministro? Ha pronunciato qualche mozzicone di frase fatta, tipo che con la violenza non si ottiene niente. Già, verissimo. Come è vero che con una folle politica giustizialista l’unica cosa che si ottiene è lo scatenarsi della violenza. Il capo Dap è rimasto a guardare: ora si deve dimettere di Gennaro Migliore* Il Riformista, 10 marzo 2020 Le colonne di fumo che si alzano in contemporanea da San Vittore, Regina Coeli, Rebibbia, Poggioreale e altre decine di carceri, non si vedevano dagli anni 70. Quelli furono gli anni in cui alle rivolte dei detenuti, che soggiacevano a un sistema penitenziario del 1891, si rispose dando vita a un’epocale riforma dell’ordinamento penitenziario nel 1975. A distanza di un decennio con la legge Gozzini si diede seguito a una serie di ulteriori interventi che ponessero il nostro paese in linea con i dettami delle carte internazionali a salvaguardia dei diritti dell’uomo e soprattutto conformi all’articolo 27 della Costituzione, che parla del principio di rieducazione delle pene (al plurale, si badi, non solo la pena della reclusione ma tutte quelle previste dalla legge, dall’esecuzione penale esterna alla detenzione domiciliare). Oggi siamo di fronte alla più clamorosa regressione nell’applicazione della legge e, soprattutto, rimaniamo attoniti davanti alle violenze e ai rischi per la sicurezza pubblica che si stanno generando in queste ore. Sembra di assistere a un bollettino di guerra: a Foggia interviene l’esercito con i cani armati per far fronte all’evasione di massa di centinaia di detenuti; a Roma gli elicotteri e le forze della Polizia di Stato e i Carabinieri circondano l’istituto simbolo posto al centro della Capitale; a Pavia il carcere è distrutto, i detenuti, dopo aver anche minacciato l’incolumità degli agenti, sono stati trasferiti; a Modena la tragedia, tre detenuti morti in carcere e altri tre deceduti successivamente al loro trasferimento. L’opinione pubblica è rimasta disorientata. Come è possibile che si sia verificata questa ondata di violenza incontrollata senza che nessuno la prevedesse e poi, ancora peggio, senza che vi fosse una catena di comando che ne contenesse gli effetti? E possibile che una circolare, per quanto improvvisa, abbia potuto scatenare questa reazione? Purtroppo sì. Soprattutto se quella circolare, che blocca i colloqui per un periodo superiore a quello previsto per le stesse zone rosse, non è stata né spiegata né intrapresa in un contesto che prevedesse delle alternative, dai colloqui via Skype al potenziamento dei filtri sanitari. Sì, perché era da settimane che c’erano le avvisaglie di quanto poi sarebbe accaduto: bastava leggere i comunicati delle organizzazioni sindacali della PolPen o parlare con gli operatori penitenziari per sapere che in quegli ambienti non si stava procedendo a una adeguata profilassi, che non venivano garantite aree di sicurezza sanitaria. Si è “tirato a campare” fino a che la bomba è esplosa, con i soli operatori di polizia penitenziaria lasciati soli ad affrontare l’emergenza. Soli: poiché il capo Dap, il dottor Basentini, si è ben guardato di stare al loro fianco fin dalla prima rivolta, quella di tre giorni fa, totalmente occultata, del carcere di Fuorni a Salerno e neppure si è visto in nessuna delle situazioni critiche. A parlare con i detenuti ci sono andati i direttori, i poliziotti penitenziari e il garante nazionale Mauro Palma. Intanto il mutismo dei responsabili, dal ministro Bonafede al capo Dap, ci ha privato persino di uno di quei comunicati ufficiali che servono per far intendere che almeno si sia consapevoli della situazione. Oggi è assolutamente indispensabile prendere iniziative che servano ad alleggerire la situazione, rifuggendo il populismo becero e pericoloso di chi soffia ancora sul fuoco e invoca ancora un pugno più duro. L’ordine e la sicurezza vanno certamente riportati negli istituti, ma a farne le spese non possono essere i lavoratori e, certo, non si può derogare al rigoroso rispetto dei diritti fondamentali dei ristretti. Solo che per far fronte al disastro creato, anche figlio di una dissennata politica carceraria che ha fatto lievitare il numero dei detenuti a oltre 60mila, non ci può più essere l’attuale capo del Dipartimento, che per senso di responsabilità dovrebbe rassegnare le dimissioni immediate, ma una nuova e più efficace gestione che sappia come si affronta il delicatissimo tema del carcere. Perché “il grado di civiltà di un Paese si misura osservando le condizioni delle sue carceri” come diceva già Voltaire, ma ciò vale ancora, anche ai tempi del Coronavirus. *Deputato di Italia Viva La protesta, quel virus che ha contagiato tutte le carceri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 marzo 2020 C’è chi parla di “Caporetto dell’amministrazione penitenziaria”, ma resta il dato oggettivo che rivolte del genere - alcune violentissime - che stanno attraversando gli istituti penitenziari, non si vedevano fin dagli anni 70 - 80. Sezioni devastate dagli incendi, evasioni di massa, decessi di alcuni detenuti, familiari e solidali fuori dalle mura delle carceri che bloccavano il traffico. Tutto è partito dalla notizia ufficiale dello stop dei colloqui con i familiari per far fronte all’emergenza coronavirus, ma anche dalla paura di un contagio di massa tra detenuti visto la fragilità del sistema sanitario dei penitenziari e del grave sovraffollamento. Qualcosa non ha funzionato nella comunicazione per la gestione dell’epidemia in carcere. Prima il temporeggiare, poi la poca comunicazione e infine la contraddizione dei decreti dove prima si intravvedeva una apertura per le misure alternative come la detenzione domiciliare e poi la sua chiusura. Se la psicosi attraversa la società libera, all’interno delle carceri tutto si amplifica a dismisura. Non mancano voci di corridoio all’interno delle carceri in merito a detenuti che sarebbero affetti da coronavirus. Ma sono voci, per ora prive di fondamento, che si riversa nell’animo inquieto dei ristretti. C’è voluto il virus per mettere a nudo la fragilità della società e dell’amministrazione dello Stato. Soprattutto, appunto, quello del nostro sistema penitenziario. Nella giornata di sabato, alla notizia della sospensione dei colloqui, è scoppiata la protesta al carcere Fuorni di Salerno. I detenuti si erano armati di spranghe di ferro, ricavate dalle brande, con le quali hanno distrutto tutto quello che c’era da distruggere. Dopo avere divelto le inferriate dei finestroni sono riusciti a salire sui tetti. La rivolta è durata circa due ore dopo che sono saliti sul tetto. Per placare gli animi era giunto anche il garante regionale Samuele Ciambriello, esprimendo in primis solidarietà alla direttrice del carcere Rita Romano, contusa in una fase convulsa della trattativa. Sempre nello stesso giorno, ci sono state timide proteste a Poggioreale, ma subito rientrare. Ma è stata la quiete prima della tempesta. Come una epidemia, i focolai sono scoppiati nuovamente domenica contagiando diversi istituti penitenziari. La protesta si è accesa nel carcere di Frosinone. Inizialmente ci sono stati incendi all’interno delle celle e pare che ci sia stato un tentativo di evasione. La direzione del carcere ha richiamato il personale a riposo o in ferie per far fronte alle proteste. Sul luogo è accorso il garante regionale dei detenuti Stefano Anastasìa che è riuscito, dopo momenti concitati, a placare gli animi. Poi è stata la volta del carcere di Modena. I detenuti hanno appiccato il fuoco tentando la fuga e dalla prigione si è sprigionato infatti un denso fumo nero. Sono accorse sul posto numerose forze dell’ordine. Per sedare la rivolta sono stati chiamati anche agenti liberi dal servizio. Tanti danni, ma soprattutto ci sono scappati i morti. Sono sei i reclusi deceduti. Non per contrasti fisici con gli agenti, ma per cause naturali - così almeno risulta dalle informazioni trapelate - dovuto da una intossicazione di farmaci e overdose di metadone rubati in infermeria. Nel pomeriggio di domenica è invece riscoppiata la protesta a Poggioreale. Decine di detenuti salgono sui muri e bruciano materassi chiedendo provvedimenti contro il rischio dei contagi dal coronavirus all’interno della struttura. Sono giunte ambulanze e camionette della polizia per far fronte alla rivolta e alle possibili conseguenze. I parenti hanno assediato l’esterno, con blocchi stradali all’ingresso e cori in sostegno ai detenuti lato piazzale Cenni. Ma man mano la protesta ha coinvolto altre carceri della penisola. Dal carcere siciliano del Pagliarelli, a Vercelli, Alessandria, Bari. Al carcere lombardo di Pavia i detenuti sono riusciti a prendere in ostaggio due agenti della polizia penitenziaria, poi finalmente liberati. Solo a tarda notte i detenuti sono rientrati nelle celle, dopo essere scesi dai tetti e dai camminamenti dove si erano asserragliati, dopo una trattativa con il procuratore aggiunto pavese Mario Venditti. Ieri però il virus delle proteste si è diffuso ulteriormente fino a mutare con più aggressività. È stata la volta del carcere della Dozza, dove 900 detenuti della sezione giudiziaria hanno sfondato i cancelli per giungere fino all’ingresso della struttura. La direzione ha richiamato tutti gli agenti dal servizio perché le forze di polizia era troppo esigue per contenere la dura rivolta. Poi è stata la volta del carcere milanese di San Vittore. I detenuti hanno incendiato una sezione e salito sui tetti. Nel contempo si sono assembrati i parenti dei reclusi e i centri sociali, tutti caricati dai reparti antisommossa. Le detenute del femminile sono state trasferite a Bollate. Ma eclatante è stata l’evasione di massa dal carcere di Foggia. Un consigliere comunale della città, il quale ha preferito l’anonimato, ha raccontato di detenuti che hanno rubato le vetture per fuggire ed allontanarsi dalla città. Ci sono state sparatorie e inseguimenti per riprendere gli evasi. All’interno del penitenziario c’è stata anche la presa in ostaggio degli psicologi, poi finalmente liberati e tratti in salvo. Tentativo di evasione anche al carcere palermitano dell’Ucciardone. Alcuni detenuti anno tentato di scavalcare la recinzione dell’istituto di pena per cercare di fuggire. Il tentativo è stato bloccato dalla polizia penitenziaria. Prato, Anche nel carcere le Vallette di Torino è stata inscenata una protesta così come alle carceri romane di Rebibbia e Regina Coeli con i parenti dei detenuti che hanno bloccato il traffico. I numeri che servono perché la pena porti al cambiamento di don Gino Rigoldi* Corriere della Sera, 10 marzo 2020 A qualcuno potrà sembrare che a Modena, come in altri carceri, sia eccessivo e da punire la distruzione dei mobili, l’incendio delle celle, per una rivolta contro la sospensione delle visite in questo periodo di coronavirus. Più ragionevole e prudente sarà cercare di capire perché succedono queste cose nelle carceri a partire dalla situazione che in parte conosco piuttosto bene direttamente. Incominciamo a parlare del sovraffollamento che, in alcuni carceri, significa il raddoppio, perciò in una cella da due persone stanno in quattro. Un numero elevato non permette movimenti all’interno del carcere. Non sono rari le carceri dove i detenuti sono in cella 22 ore al giorno con 2 ore d’aria, una al mattino e una al pomeriggio. Tutti in un cortile a guardare il cielo. Leggo che a Modena c’è una direttrice. Non lo so per certo ma spero che la Dottoressa Martone sia responsabile di un solo istituto, quello di Modena. Dico questo perché, nei miei spostamenti, ho imparato che in una regione italiana su una decina di istituti ci sono quattro direttori. Anche la dottoressa Martone non è direttore ma “reggente”. Ciò significa che in diversi istituti il direttore è di passaggio con tempi limitati e, comunque, dove il direttore non c’è qualcun altro comanda. La versione di molti ragazzi che ho conosciuto e che conosco dice che in alcuni carceri, anche della Lombardia, il regime è duro, le punizioni frequenti, qualcuno parla anche di violenze agite da gruppi di detenuti prevalenti, qualche volta anche da agenti. Sono voci di parte da prendere con prudenza, ma sono voci che ci sono e si ripetono. Una figura centrale e indispensabile in ogni carcere è o, meglio, dovrebbe essere indispensabile è quella dell’educatore. Il compito dell’educatore è incontrare i detenuti, aiutarli a conoscere le regole di vita e le risorse del carcere, le garanzie di legge, sostenere i progetti di cambiamento, verificare i rapporti con le famiglie. Per i minori come per gli adulti, la preparazione per l’uscita e il dopo carcere è determinante. In carceri dove c’è una cura per l’uscita accompagnata la recidiva è meno del 20%, in molte carceri italiane la recidiva è vicina all’80%. Ma se in un carcere su 440 detenuti ci sono due educatori, il presente duro c’è tutto, ma il futuro non c’è e anche il rapporto coi servizi sociali è carente. Nelle carceri italiane ci sono un certo numero di suicidi. Tra quelli che ho conosciuto, forse tranne uno, non si sono uccisi per violenze subite o sensi di colpa, quanto per disperata solitudine, per abbandono, per aver perduto ogni speranza. Concludo in un modo che potrà sembrare freddo e banale: bisogna che in ogni istituto penale ci sia un direttore e non sequenze anche più che decennali di “facenti funzione” o “reggenti”. Se consideriamo il valore morale e umano, ma anche economico, dell’abbassamento della recidiva, allora devono essere raddoppiati il numero degli educatori, affinché il loro lavoro possa essere valorizzato, insieme con quello che la società civile potrà mettere a disposizione. Se il carcere minorile può essere un indicatore, la quasi totalità dei ragazzi del Beccaria viene da famiglie povere o poverissime. Questo non giustifica nessun reato né per i minori né per gli adulti, ma indica quanto sia svantaggiato il contesto di partenza. I reati saranno puniti e sarà fatta giustizia. Chiedere un direttore in ogni istituto e un numero di educatori sufficienti per accompagnare l’uscita dal carcere, sta nel rispetto della giustizia richiesta dall’articolo 27 della Costituzione, che pensa alla pena in vista del cambiamento. *Cappellano dell’Ipm “Beccaria” di Milano Amnistia, indulto, scarcerazioni anticipate. Fate presto! di Tiziana Maiolo Il Riformista, 10 marzo 2020 La situazione esplosiva nelle carceri esiste da molto tempo, ma il ministro non ha fatto nulla. Ora si tratta di agire presto: il contagio potrebbe trasformare gli istituti di pena in un grande lazzaretto. Fate presto! Le carceri italiane bruciano e continueranno a bruciare se il governo e la magistratura non daranno un segnale immediato che spenga un fuoco che non si chiama solo Coronavirus, ma che viene da lontano. Viene da luoghi dove 60.439 persone sono stipate al posto di 50.511. Luoghi dove il metro di distanza l’uno dall’altro, regola che tutti noi dobbiamo osservare per evitare il contagio, è letteralmente impossibile, ed è già un miracolo che gli istituti di pena non si siano ancora trasformati in enormi lazzaretti. Ma non sono soltanto i problemi sanitari ad aver acceso i fuochi, ad aver portato gli animi all’esasperazione fino a provocare incendi di materassi, distruzione di intere celle, fino ai sei morti di Modena e l’evasione di massa dal carcere di Foggia. Il vero problema sono i diritti. Il problema è “l’esigua tenda azzurra che i carcerati chiamano cielo” (Oscar Wilde, La ballata dal carcere di Reading). E il “cielo” è il rapporto tra chi sta rinchiuso e chi è fuori e vorrebbe continuare a tendere la mano. A determinate condizioni, l’infezione da Coronavirus non dovrebbe spaventare il popolo delle carceri. Le comunità chiuse, e la prigione in primis, sono infatti maggiormente tutelate dal pericolo del contagio. Purché siano però limitati i rapporti con l’esterno, purché non ci siano persone che entrando e uscendo, non rischino proprio di andare a infettare i reclusi. Sono molti i soggetti che quotidianamente varcano cancelli e portoni delle prigioni: nuovi detenuti, operatori giudiziari, personale amministrativo, volontari, parenti dei detenuti per i colloqui settimanali. È la famosa “socialità” introdotta da due importanti riforme, quella del 1975 e la Gozzini del 1986, che hanno avuto la forza di spezzare un po’ quelle catene che rendevano la detenzione un solo profondo buco nero in cui precipitare senza vedere nessuna luce in fondo alla propria vita. Ma se togli al carcerato i colloqui con i parenti, se rinchiudi coloro che avevano il permesso di lavoro esterno o vivevano ormai in regime di semilibertà, la protesta può essere dietro l’angolo. Proprio per questo avevamo, una settimana fa, intervistato il direttore del carcere di Opera, la grande prigione alle porte di Milano con 1.300 detenuti e anche un reparto speciale per chi è stato condannato per i reati più gravi. Il dottor Di Gregorio ci aveva spiegato di aver lavorato sulla prevenzione, e di aver trovato grande collaborazione sia da parte dei detenuti che dei loro familiari, quando il decreto governativo del 3 marzo aveva sospeso per qualche settimana i colloqui. All’interno dell’istituto però non era cessata nessuna forma di socialità, ci aveva spiegato, ed erano state moltiplicate in numero e durata le telefonate con le famiglie. Pur disponendo il carcere di pochi strumenti elettronici, erano stati messi a disposizione dei detenuti a turno per qualche incontro-video con i parenti tramite Skype e qualche uso di cellulare. Piccole cose, e non è detto che saranno sufficienti. Evidentemente non ovunque e non sempre queste alternative infatti sono state accettate. Soprattutto nelle case circondariali come San Vittore, dove la presenza di tanti detenuti in attesa di giudizio, rende la situazione meno governabile, nonostante la presenza di personale molto qualificato. Difficile rinunciare ai propri diritti, quando se ne hanno già pochi. Da anni il Partito radicale e associazioni come Antigone, oltre ai Garanti territoriali dei diritti dei detenuti, lanciano l’allarme. È vero che fino a pochi giorni fa era lontano il ricordo delle rivolte carcerarie degli anni Settanta, a partire dalle due più famose del 1969 alle Nuove di Torino e San Vittore di Milano. Ma è altrettanto vero che ripetute sono state le condanne all’Italia da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, tra l’altro proprio anche per la ristrettezza degli spazi nelle celle. Niente riforme (che fine ha fatto quella del ministro Orlando, modesta ma comunque utile?) e continui tagli ai bilanci e al personale hanno sicuramente contribuito a far covare qualche scintilla sotto la cenere. Se a questo si aggiungono un bel po’ di controriforme che hanno riempito le carceri anche di persone che dovrebbero stare altrove (come i malati psichici e i tossicodipendenti, oltre agli anziani), fino a renderne l’aria irrespirabile per la ressa, si capisce subito perché diciamo: “Fate presto!”. L’amnistia e l’indulto, che oggi vengono richiesti, oltre che dai radicali, anche dalla giunta delle Camere penali e che Il Riformista ha proposto da tempo, possono essere messi in calendario anche da subito, anche se necessitano poi di tempi lunghi. Ma ci sono provvedimenti che possono essere adottati immediatamente. Prima di tutto applicare misure alternative a tutti coloro che stanno scontando gli ultimi due anni o che devono ancora scontarli in esecuzione pena. Poi mandare a casa gli anziani e i malati. Poi usare di più le misure alternative, soprattutto per la custodia cautelare. Insomma, cominciamo a sfollare, cominciamo a far uscire da cancelli e portoni quei diecimila che sono oltre la capienza naturale. E allora non ci sarà più la tentazione di incendiare, di sfasciare e di scappare. Ma facciamo presto, la casa brucia. Fate presto! “Caos nelle carceri? Se parlassero con il personale non invocherebbero azioni militari” cittadellaspezia.com, 10 marzo 2020 Così Andrea Orlando, vice-segretario nazionale del Pd ma anche ex ministro di Giustizia. “Leggo dichiarazioni a ruota libera sulle carceri e sui tragici eventi di queste ore rilasciate da persone che non sanno nemmeno di cosa stanno parlando e invocano “pugno di ferro” e azioni militari. Se avessero davvero parlato con le donne e gli uomini della polizia penitenziaria, con i dirigenti degli istituti, gli educatori, il personale sanitario che opera nelle carceri, saprebbero che il carcere è una realtà complessa che si regge su equilibri delicatissimi. Le scorciatoie proposte preparano soltanto il peggio”. Vice-segretario nazionale del Pd ma anche ex ministro di Giustizia, Andrea Orlando interviene sulle ultime vicende in alcune case circondariali italiane, compresa la situazione che si è venuta a creare a partire dalla serata di ieri nella casa circondariale di Villa Andreino: “Questi equilibri sono stati progressivamente compromessi dal sovraffollamento che è cresciuto in modo incontrollato in questi due anni. Il virus li ha completamente travolti. Continuare ad utilizzare slogan ad effetto non serve a nulla. La situazione che si è determinata evidenzia un fatto: questa emergenza è stata affrontata senza alcuna preparazione da parte del dipartimento competente. La catena di comando è fortemente indebolita. Il ministro costituisca da subito una task force e chiami a raccolta tutte le competenze che in questi anni sono state marginalizzate in nome di un opinabile spoil-system. Questa squadra riprenda il confronto con le organizzazioni sindacali e con la dirigenza territoriale, dialoghi costantemente con il Garante e la magistratura di sorveglianza, assuma subito le misure necessarie per dare sollievo alle realtà maggiormente esposte e al personale”. Il caos nelle carceri? Si poteva evitare. Gennaro Migliore spiega perché di Francesco De Palo Palazzi formiche.net, 10 marzo 2020 “Nel 2016 da sottosegretario alla giustizia con delega al comparto carcerario, proposi colloqui via skype per i detenuti ordinari e non sottoposti a misure restrittive. Per questo fui pesantemente attaccato, ma se avessimo applicato ieri quello strumento, forse oggi non avremmo questo livello di difficoltà”. Conversazione con Gennaro Migliore, già sottosegretario alla Giustizia. Gestione inadeguata e paura delle riforme: così il Covid-19 fa precipitare nel caos anche le carceri italiane. Lo dice a Formiche.net l’ex sottosegretario alla giustizia Gennaro Migliore (Italia Viva) che punta il dito contro i vertici del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, e ricorda la sua proposta (avanzata quando era al governo) di colloqui su Skype per i detenuti ordinari e non sottoposti a misure restrittive, che però gli valse pesanti attacchi. Per il coronavirus vietate le visite dei parenti. Proteste nelle carceri di Salerno, Napoli, Frosinone, Vercelli, Alessandria, Bari e Foggia. Come affrontare l’emergenza? Partirei dal fallimento totale dei vertici del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che si sono rivelati inadeguati. Prima sono rimasti in silenzio rispetto alla vicenda di Salerno e poi hanno lasciato che il giorno dopo scoppiassero decine di rivolte che hanno portato a minacce concrete alla sicurezza dei lavoratori, alcuni dei quali sono stati persino temporaneamente sequestrati, oltre ai tragici eventi che hanno portato alla morte di tre detenuti a Modena. Al primo posto quindi l’irresponsabilità di aver fatto una comunicazione senza nessun tipo di mediazione e di spiegazione, in una realtà come quella del carcere che è delicatissima. E oltre? È del tutto evidente che il combinato disposto tra una inibizione che andava oltre quanto previsto dal decreto del presidente del Consiglio, chiusura totale dei colloqui con avvocati e familiari, e l’impossibilità di avere notizie e tamponi per la possibile propagazione del virus in ambienti difficilmente controllabili come le celle, abbia rappresentato una responsabilità gravissima. Le reazioni che ha portato agli incidenti di ieri non si vedevano dagli anni ‘70. Siamo ad una svolta, relativamente anche alla totale insipienza dei vertici politici, nell’aver abbandonato qualsiasi progetto di riforma carceraria. Non dimentico che l’attuale Guardasigilli come primo atto nel suo insediamento ha cancellato il lavoro fatto dai governi Renzi e Gentiloni. Per quale motivo? Ideologicamente si è lavorato sull’idea secondo la quale bisognava “buttare la chiave”, con un’azione che peraltro ha portato ad un drammatico sovraffollamento. In meno di due anni la popolazione carceraria è lievitata oltre le 60mila unità, di cui quasi 10mila hanno pene residue da scontare inferiori ad un anno. Riscontro anche una totale incapacità di gestione del fenomeno. Credo occorra una informativa urgente da parte del ministro della Giustizia, perché le notizie sono state finanche nascoste durante questa crisi, ma le abbiamo apprese solo dagli operatori della polizia penitenziaria o dai cittadini. Secondo il Sap, il sindacato della polizia penitenziaria, i carcerati “chiedono provvedimenti contro il rischio dei contagi”. In che modo vista la grandezza delle celle? Nel 2016 da sottosegretario alla giustizia con delega al comparto carcerario, proposi di prevedere colloqui via Skype per i detenuti ordinari e non sottoposti a misure restrittive. Per questo fui pesantemente attaccato da certa stampa giustizialista. Ma se avessimo applicato ieri quello strumento, forse oggi non avremmo questo livello di difficoltà. Il sistema carcerario è particolarmente delicato ed è il cuore della democrazia, perché presiede alla sicurezza e alla garanzia dei diritti costituzionalmente garantiti. Ricordo le parole sagge del garante dei detenuti, Mauro Palma, secondo cui oggi oltre 8000 detenuti potrebbero scontare in maniera alternativa il residuo di fine pena, magari facendolo valere per coloro che non hanno partecipato alle rivolte così da trovare differenziazioni all’interno del carcere. Ciò libererebbe dei posti per consentire di allestire aree da adibire a luogo di intervento terapeutico per coloro che dovessero essere positivi. “L’emergenza Coronavirus non dev’essere la scusa per spalancare le porte delle case circondariali”, ha detto il leader della Lega Matteo Salvini. Che ne pensa? C’è chi fa propaganda su temi drammatici. Si può fare un contenimento dei numeri anche grazie ad una differenziazione dell’esecuzione penale, come un maggiore utilizzo delle detenzioni domiciliari o delle pene alternative. Vorrei, senza polemiche, sottolineare che mentre l’indice di criminalità è diminuito la presenza nelle carceri è aumentata. Significa che si sta facendo una cattiva politica carceraria. Santi Consolo: “Contro la rivolta nelle carceri misure alternative e braccialetti elettronici” di Valentina Stella Il Dubbio, 10 marzo 2020 Secondo l’ex presidente del Dap l’allarme era stato dato da tempo ma ci ha trovati impreparati anche negli istituti di pena. Nell’agosto 2017 nel carcere di Pisa vi fu una rivolta dei detenuti dopo la notizia del suicidio di un recluso tunisino di 28 anni, che era in attesa di primo giudizio. Tre anni fa a presiedere il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria c’era il magistrato Santi Consolo. L’uomo, informato nella notte dei fatti, rientrò dalle ferie e si recò immediatamente a Pisa. Parlò con i detenuti, e poi diede direttive per diminuire la presenza dei reclusi stranieri e aumentare gli agenti. Dopo poco la rivolta terminò e i detenuti rientrarono nelle loro sezioni. Oggi vi raccontiamo invece una storia diversa, dove lo Stato forse ha fallito: non ha protetto né i detenuti né i detenenti. Per commentare quanto successo, abbiamo raggiunto proprio Santi Consolo. Mentre scriviamo sono in corso numerose rivolte nelle carceri italiane. Addirittura sei detenuti del carcere di Modena sono morti. Non si conoscono ancora bene le cause. Inoltre alcuni agenti della penitenziaria sono stati presi in ostaggio e poi liberati. Come giudica questa situazione e secondo Lei qual è la causa di tutto questo? Le notizie delle agenzie di guerriglie negli istituti penitenziari con detenuti sui tetti, incendi, sequestri, evasioni di massa ed alcuni epiloghi letali fanno riaffiorare in modo forse più drammatico tristi ricordi risalenti agli anni settanta. Forse il governo a guida Pd era nel giusto quando avviò la riforma dell’ordinamento penitenziario, svuotata nei suoi contenuti più significativi dall’attuale ministro. Il disagio e i pericoli, ripetutamente denunciati anche dai sindacati della PolPen erano evidenti; deflagrante una misura sanitaria (divieto di colloqui diretti dei detenuti con i familiari), giusta nei contenuti, ma non nei modi attuativi. Come si poteva evitare tutto questo? L’Oms il 30 gennaio aveva dichiarato l’epidemia da Covid-19 un’emergenza di rilevanza internazionale. Era quindi da tempo altamente probabile che agenti virali diffusivi potessero mettere in gravissimo pericolo sanitario i 193 istituti penitenziari caratterizzati da sovraffollamento e coabitazioni coatte. Quelli che ci lavorano sono inevitabili veicoli di contagio con l’ambiente esterno, soprattutto i penitenziari più grandi contigui ai centri metropolitani. Si necessitano misure deflattive, anche normative, immediate da assumere garantendo la sicurezza. Auspico, quindi, una rapida disponibilità di quantitativi adeguati di braccialetti elettronici (competenza del ministero degli Interni) per consentire esecuzioni penali domiciliari alternativi al carcere per coloro che hanno pene residue brevi e per reati non particolarmente allarmanti. L’applicativo spazi detentivi, che era efficiente e quotidianamente aggiornato due anni fa, dovrebbe essere utilizzato per individuare all’interno di ciascun istituto le disponibilità di stanze singole di quanti, per ragioni sanitarie, potrebbero necessitare di tali stanze e non potranno fruire di benefici. Che giudizio dà del decreto che sospende i colloqui con familiari e li sostituisce con le telefonate, a causa dell’emergenza coronavirus? La cautela, come detto prima, sotto il profilo sanitario è corretta, ma attuata in modo sbagliato. Ministro e Capo del Dap, di concerto dovrebbero, a mio modesto avviso, dare immediatamente le opportune rassicurazioni ai beneficiari circa i provvedimenti previsti dal decreto così implementando da subito sia la frequenza che la durata dei colloqui telefonici, nonché la possibilità di utilizzo della scheda telefonica e dei collegamenti audiovisivi, via Skype o mediante “la piattaforma Microsoft Lync” (lettere circolari Dap del 2015); ciò per compensare i pesanti limiti posti con i divieti di colloqui.. Inoltre, il decreto prevede che la magistratura di sorveglianza può sospendere la concessione dei permessi premio e del regime di semilibertà. Cosa ne pensa? Molti di quelli che sono meritevoli di permessi, in un’ottica di necessità deflattiva per ragioni sanitarie, potrebbero essere ammessi a misure alternative. Per i semiliberi da tempo, nelle rubriche di Radio Radicale che curavo, suggerivo l’utilizzo di caserme dismesse o altre strutture, diverse dagli istituti penitenziari, opportunamente modificate, per il pernottamento dei semiliberi. Il rischio di contagio maggiore è proprio dentro il carcere e non è opportuno sovraffollare la struttura. Che giudizio dà complessivamente sull’operato del ministero e del Dap? I sindacati si sono espressi; io mi esimo dal rispondere. Oggi è bene che tutti siano collaborativi per risolvere la grave crisi, soprattutto ritrovando la capacità di dialogo e confronto, ma anche dando risposte efficaci pertinenti e immediate, scevre da valutazioni di convenienza politica. Se fosse stato ancora ai vertici del Dap cosa avrebbe fatto in questo momento? La risposta sarebbe lunga e articolata. Del senno di poi son piene le fosse, ma io avevo preannunciato i correttivi nelle rubriche di Radio Radicale del 2018-2019 intitolate “il punto di vista di Santi Consolo” basta andarle a riascoltare. Vuole aggiungere altro? Vorrei invitare detenuti e familiari a desistere da assembramenti e manifestazioni violente che oltre ad accentuare i pericoli di contagio non aiutano a migliorare la loro condizione. Proprio nell’attuale grave contingenza bisogna dimostrare di essere meritevoli di fiducia comportandosi con estremo buon senso. Apprezzo molto i Provveditori, i direttori, i comandanti e gli appartenenti all’amministrazione penitenziaria che in questi difficili momenti, con la doverosa prudenza, si assumono, in prima persona, rischiose responsabilità. Carcere, coronavirus e non solo. Bortolato: “Scoperchiata una pentola già in ebollizione” di Teresa Valiani redattoresociale.it, 10 marzo 2020 Il presidente del tribunale di Sorveglianza di Firenze sulle rivolte che stanno infiammando i penitenziari italiani: “Sono momenti drammatici, la questione carceraria sta esplodendo. Necessari provvedimenti straordinari”. “Sono momenti drammatici, la questione carceraria sta esplodendo. Alle rivolte non si dovrebbe mai arrivare, quando ci si arriva vuol dire che la situazione è già quasi fuori controllo. Ovviamente sono atti da condannare fermamente perché tra l’altro che cosa si ottiene? La distruzione di tutto e basta. Come è stato nel carcere di Modena”. Marcello Bortolato, presidente del tribunale di Sorveglianza di Firenze, commenta per Redattore Sociale la situazione estremamente complessa che stanno vivendo in queste ore molti istituti di pena italiani. Il magistrato è nel suo ufficio “ma non so ancora se riuscirò a stare qui perché provengo da Venezia e c’è un’ordinanza della Regione Toscana che mi imporrebbe di stare in isolamento volontario per 14 giorni, anche se svolgo un servizio essenziale e sono autorizzato, in base al decreto del presidente del Consiglio dei ministri, a esercitare le mie funzioni anche fuori dalle zone rosse”. Mentre parliamo via whatsapp, nel suo distretto è in corso una delle tante rivolte che stanno infiammando i penitenziari, quella nel carcere di Prato. Presidente cosa sta succedendo agli istituti di tutto il Paese? “Il virus ha scoperchiato una pentola che era già in ebollizione. Perché il carcere era già a un punto di saturazione, anche in seguito al fallimento della riforma penitenziaria, con un disagio crescente. La paura del contagio e la sospensione seppure temporanea del regime trattamentale ordinario per tutti i detenuti, permessi premio e colloqui visivi, ha fatto da detonatore”. Cosa si può fare nell’immediato per arginare la situazione e scongiurare problemi maggiori? “Una situazione di tale emergenza impone l’adozione di provvedimenti straordinari anche in materia di esecuzione penale”. Da più parti si chiede un’amnistia… “No, una amnistia o un indulto sono impensabili anche perché non ci sarebbero i tempi tecnici per attuarli durante il periodo di emergenza del virus. Però si potrebbe adottare un provvedimento straordinario e temporaneo, limitato all’emergenza, con cui, per esempio, concedere una detenzione domiciliare a tutti i detenuti che abbiano un alloggio la cui idoneità dovrebbe essere accertata per le vie brevi da parte delle forze dell’ordine: vuol dire che semplicemente si accerta se il domicilio è effettivo e idoneo, senza valutazioni di merito sulla pericolosità. Quindi una detenzione domiciliare data per legge e d’ufficio, ovviamente dalla magistratura di sorveglianza, in deroga ai limiti e preclusioni ordinarie, a tutti coloro che abbiano un residuo di pena inferiore a due o tre anni, naturalmente escludendo i reati più gravi, quelli previsti ad es. dal primo comma dell’articolo 4 bis, e che abbia una durata temporanea di tipo sei mesi. Ecco, un provvedimento del genere potrebbe allentare la tensione carceraria perché avrebbe un effetto immediatamente deflativo, obbligando un certo numero di persone a stare a casa loro, a dormire nel proprio letto. Una soluzione che anche dal punto di vista sanitario in questo momento è la cosa più indicata: è indicata per tutti i cittadini liberi, tanto più per i detenuti”. Oppure? “Un’altra soluzione che potrebbe essere utilizzata riguarda l’introduzione di un’ipotesi speciale di differimento della pena: quindi agire sull’articolo 147 del codice penale dove si prevede la sospensione della pena e prevedere un’ipotesi straordinaria e collegata all’emergenza sanitaria di differimento della pena o di sospensione dell’esecuzione della pena carceraria in corso, sempre nelle forme della detenzione domiciliare. Semplicemente si tratta di sospendere l’esecuzione della pena, mandare a casa il detenuto che ha un domicilio, ovviamente idoneo, per il tempo strettamente necessario al superamento dell’emergenza. Dopodiché il detenuto rientra in carcere”. “Io credo - conclude il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze - che però dal punto di vista politico sia importante tenere presente che il carcere è uno degli incubatori principali di disagio e di accrescimento del malessere anche sanitario. Un’emergenza sanitaria come quella che sta vivendo l’Italia, come si è visto, sta provocando conseguenze devastanti sotto il profilo carcerario ma il problema va risolto alla radice, ripensando l’intero sistema esecutivo perché ci sono troppi detenuti in spazi ristretti. In queste ore è urgente intanto allentare la tensione, servono molto sangue freddo e senso di responsabilità. Prima si devono sedare e reprimere le rivolte, ma poi occorre fare una grande opera di mediazione e di informazione sui detenuti spiegando loro che la sospensione del trattamento è solo temporanea, fatta anche nel loro interesse perché se i colloqui sono svolti via Skype o per telefono si evitano contatti e quindi contagi. Che si tratta comunque di una sospensione a tempo, dopodiché il regime ordinario riprenderà vigore. Spiegando anche che la magistratura di Sorveglianza farà il suo dovere e cercherà di dar corso a tutte le richieste con il massimo impegno. È un sacrificio che in queste settimane viene richiesto a tutti. Può e deve essere richiesto anche ai detenuti”. Stefano Anastasia: “Il sovraffollamento aiuta il virus, l’urgenza è svuotare quelle celle” di Liana Milella La Repubblica, 10 marzo 2020 “Per affrontare il coronavirus nelle carceri è necessario ridurre il numero dei detenuti”. In questa affermazione secca si riconosce Stefano Anastasia, il garante dei detenuti per il Lazio e l’Umbria, nonché portavoce di tutti i garanti italiani, che lunedì nel carcere di Frosinone è stato protagonista di una mediazione riuscita tra i detenuti in rivolta e la direzione del penitenziario. Le rivolte in tutta Italia: se le aspettava o sono una sorpresa? “Certamente, in queste dimensioni, sono una sorpresa. Che covasse malcontento era evidente per molte ragioni. Che potesse assumere queste forme e questa diffusione non era prevedibile”. Neppure dopo l’annuncio della stretta sui permessi per via del Coronavirus? “Proprio quello è stato il detonatore. Non tanto i permessi, quanto la sospensione dei colloqui con i familiari che non era né prevista né immaginabile su tutto il territorio nazionale così da un momento all’altro”. Forse non è stata spiegata a sufficienza, è stata buttata sul tavolo come un’imposizione. “Sì, certo, è andata proprio così, e per di più le prime notizie parlavano della sospensione dei colloqui fino al 31 di maggio. Notizia che avrebbe dovuto essere argomentata e spiegata in modo che fosse chiaro che si trattava di una decisione presa innanzitutto nell’interesse della salute dei detenuti”. Senta, tutti gli italiani stanno affrontando pesanti sacrifici per via del Covit-19. Possibile che rinunciare ai colloqui, peraltro sostituiti da più telefonate e contatti via Skype, possa portare a una rivolta così pesante? “La sospensione dei colloqui è solo uno dei motivi della rivolta, che si affianca a una preoccupazione reale sulla possibile diffusione del virus in carcere. Laddove quelle misure precauzionali che noi abbiano imparato a rispettare fuori non si capisce come possano essere seguite dietro le sbarre”. E sarebbe? “Mi riferisco all’igiene personale e degli ambienti, alle necessarie distanze tra le persone, fino ai casi che pure potranno essere necessarie di quarantena. Come potranno isolarsi le decine di detenuti che fossero entrati in contatto con uno di loro positivo dentro le nostre carceri sovraffollate?”. È un problema reale, ma da qui a provocare incendi, impossessarsi dei medicinali, utilizzarli, e parliamo di droghe, ce ne corre... “Nessuna giustificazione per atti di violenza contro le cose e in modo particolare contro le persone, ma dobbiamo saper cogliere le preoccupazioni che sottostanno a questa protesta”. Chi ha sbagliato? Il capo del Dap oppure il ministro Bonafede? “La responsabilità politica delle decisioni prese è ovviamente del ministro; quella della loro attuazione concreta è evidentemente del Dap”. E adesso come se ne esce? Indulto e amnistia come chiedono le Camere penali? “Certamente un provvedimento di clemenza generalizzata avrebbe un’efficacia immediata di riduzione dei detenuti, ma la sua praticabilità politica sappiamo essere molto difficile. Si potrebbero però riprendere altre misure già sperimentate dopo la condanna di Strasburgo sul sovraffollamento (il noto caso Torreggiani) per ridurre in maniera rapida la popolazione detenuta”. Ce ne dica almeno due… “La liberazione anticipata speciale, che darebbe due mesi di sconto di pena in più all’anno e che quindi consentirebbe di far uscire i detenuti con meno di 8 mesi di pena. Ovviamente va considerato anche la possibilità di ampliare la detenzione domiciliare”. “Caro Travaglio, vieni con noi a visitare le carceri” di Rita Bernardini* Il Dubbio, 10 marzo 2020 Non ho letto con più di tanto stupore l’ennesima affermazione di Marco Travaglio: “I soliti Radicali, che a furia di invocare amnistie e indulti, soffiano sul fuoco delle rivolte in carcere”. Non mi stupisco perché è ormai nota la sua antipatia nei confronti delle battaglie di Marco Pannella e del Partito Radicale per portare la legalità nelle carceri italiane. Per Travaglio non esiste il sovraffollamento, per Travaglio se entri in carcere a far visite ai detenuti sei colluso con la mafia, adesso addirittura saremmo noi ad alimentare le rivolte. Noi diciamo invece il contrario. Primo: chi fomenta rivolte e tiene in ostaggio agenti della penitenziaria sta commettendo un reato e va punito. Secondo: i detenuti sono vittime di sé stessi con queste condotte di ribellione; qualora potessero accedere, in via emergenziale, a misure alternative sarebbero i primi ad essere esclusi. Terzo: sono giorni che, tramite i social, la radio e la stampa sto dicendo ai parenti dei reclusi di porre fine alle manifestazioni dinanzi alle carceri perché da un lato aumentano lo stato di agitazione e dall’altro mettono in pericolo la loro stessa salute. Per quanto riguarda la nostra richiesta di amnistia e indulto, tali provvedimenti rappresentano la conseguenza e non la causa di quanto sta accadendo nelle carceri: oggi, più che mai, li riteniamo necessari per porre rimedio a una emergenza nell’emergenza. Nelle nostre carceri adesso ci sono oltre 61.200 detenuti, con un sovraffollamento che sfiora in alcuni istituti di pena anche il 200%. A ciò oggi si aggiunge il pericolo della diffusione di un virus sconosciuto alla scienza; se esso si propagasse in carcere sarebbe davvero una situazione molto preoccupante, come ha detto ai microfoni di Radio Radicale anche il capo del Dap Francesco Basentini. Se oggi la priorità in questo Paese è la tutela massima del diritto alla salute, anche con modificazioni e limitazioni della nostra quotidianità, perché il rispetto di tale diritto dovrebbe venire meno in celle dove ci sono anche nove detenuti? Purtroppo il problema delle carceri è trascurato da anni e ancora di più in questo momento di fragilità dell’Italia. Come non essere consapevoli che in tale situazione le carceri rappresentano la parte più fragile e debole nel nostro Paese? Il governo deve assumersi la responsabilità che fino ad ora non ha voluto prendersi: il carcere non si amministra solo con decreti e circolari, ma soprattutto con il dialogo. Se noi liberi siamo rimasti spiazzati dai vari decreti, perché non ne abbiamo compreso l’applicabilità in molte parti, cosa hanno pensato i detenuti quando gli sono stati negati i colloqui senza avere spiegazioni e senza conoscere veramente le alternative? Caro Travaglio, ti invito per l’ennesima volta ad unirti al Partito Radicale nella lotta per il diritto alla conoscenza: vieni con noi a visitare le carceri, tocca con mano il degrado che si vive in quel cono d’ombra, abbandona il pregiudizio! *Presidente di Nessuno Tocchi Caino, membro del consiglio generale del Partito Radicale Lettera di un 41bis ai tempi del coronavirus: “Voglio morire abbracciato” di Gioacchino Criaco Il Riformista, 10 marzo 2020 Sono del 1934, per me è meglio morire abbracciato a qualcuno che vivere senza abbracci. Capisco chi ci tiene alla vita e gli viene facile seguire gli ordini del Governo: niente baci, strette di mano. Solo saluti accennati, un ciao strillato a distanza. Anzi, meglio se non vi incontriate per nulla, che nemmeno usciate. Salutatevi via Iphone, postatevi pensieri sublimi sui social. Lettere no, che magari qualche bacillo può restare incollato alla carta. Per me è diverso, ho ottant’anni e passa, ho impiegato un tempo infinito per imparare ad amare, per capire che una vita orfana dal contatto umano non è una vita. Per me è facile rischiare, di tempo non me ne resta tanto, virus o no. Il futuro è ogni giorno nuovo, ogni bacio possibile, solo immaginato. Il passato sono le carezze mancate, quelle perse, quelle sbiadite dal tempo. Che forse davvero tutto è un trucco, passiamo lunghe vite solitarie studiando i bisogni del cuore e quando raggiungiamo la vittoria sui timori che c’ingombrano il cammino dovremmo evitare l’amore. Per me è facile, da venticinque anni vivo solo, in una cella, i miei li ha stancati definitivamente il vetro del 41bis. Ho fatto tutto da lontano per un quarto di secolo, voglio morire abbracciato, a chiunque, anche se ha la lebbra o la peste. Voglio farmi scoppiare i polmoni, stretto a qualcuno che nemmeno conosco. L’unica cosa che non voglio è morire da solo, in compagnia della paura. Coronavirus, nei tribunali tutte le udienze sospese fino al 22 marzo di Valerio Vallefuoco Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2020 Da lunedì 9 marzo a domenica 22 marzo 2020 sono sospese tutte le udienze civili e penali in tutta Italia le medesime disposizioni sono altresì estese anche ai processi, ai procedimenti della magistratura militare e ai processi amministrativi e contabili. Il contenuto del decreto - Il Dl 11/2020 (“Misure straordinarie ed urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica da Covid-19 e contenere gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria”) è stato pubblicato sulla “Gazzetta Ufficiale” dell’8 marzo. Il decreto secondo il comunicato del ministero della Giustizia che ne anticipava i contenuti risponde “risponde alla straordinaria necessità ed urgenza di emanare disposizioni per contrastare l’emergenza epidemiologica da Covid-19 e contenerne gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria e dell’attività connessa”. Gli avvocati ma anche i commercialisti, consulenti del lavoro e tutti i soggetti abilitati alla difesa presso la magistratura tributaria non potranno effettuare quindi alcuna udienza sino al 22 marzo prossimo. Già dal 9 marzo tutti quei professionisti che si sono recati in udienza hanno trovato gli avvisi dei magistrati di turno che in applicazione del decreto pubblicato ieri sera hanno rinviato d’ufficio in molti casi “a data da destinarsi” i procedimenti in corso. La portata limitata della sospensione - In questo “periodo cuscinetto” così come definito dal ministero - salve le eccezioni previste dal decreto - le udienze dei procedimenti giudiziari civili e penali pendenti presso tutti gli uffici giudiziari d’Italia sono rinviate d’ufficio a data successiva al 22 marzo 2020 e dunque non saranno tenute. In questo stesso periodo verrà applicata la disciplina della sospensione dei termini processuali pertanto sono sospesi tutti i termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti rinviati, ferme le eccezioni di seguito richiamate. Il ministero della Giustizia ha precisato che quindi qualora il decorso dei termini processuali abbia inizio durante il periodo di sospensione, l’inizio stesso è differito automaticamente alla fine del periodo di sospensione. Ma attenzione, il tenore letterale della norma sembra riservare la sospensione dei termini ai soli procedimenti in corso da rinviare. In pratica, il richiamo espresso dell’articolo 1, comma 2, al precedente comma 1, ossia alle sole udienze rinviate d’ufficio, senza alcun chiarimento interpretativo o intervento chiarificatore (ad esempio un’interpretazione autentica) rischia di limitare fortemente la portata della sospensione. Di conseguenza, rimarrebbero da effettuare tutti gli adempimenti e le scadenze relativi a tutte le altre udienze che non sono rinviate nel periodo dal 9 al 22 marzo. Non tutte le udienze potranno essere rinviate. Ci sono, infatti, alcune eccezioni alla regola generale del rinvio d’ufficio per alcune udienze che dovranno essere normalmente tenute. La richiesta di chiarimenti dell’Ocf - Come rilevato anche dall’Organismo congressuale forense (Ocf) in una lettera indirizzata al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, rimangono quattro punti: ? l’applicazione della sospensione a tutti i giudizi pendenti, comprendendo anche quelli per impugnare od opporsi ad atti o accertamenti amministrativi; ? la problematica dei termini a ritroso, la cui scadenza andrebbe a cadere nel periodo di sospensione previsto; ? l’estensione della sospensione anche alla mediazione delegata; ? meglio esplicitare nel settore penale per i procedimenti con imputati in custodia cautelare o comunque detenuti se si possano celebrare su richiesta dell’avvocato dell’imputato oppure se siano soggetti a rinvio d’ufficio. I processi civili - Per quanto riguarda i processi civili si terranno normalmente le udienze nelle cause di competenza del tribunale per i minorenni relative alle dichiarazioni di adottabilità, ai minori stranieri non accompagnati, ai minori allontanati dalla famiglia e alle situazioni di grave pregiudizio; nelle cause relative ad alimenti o ad obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità; nei procedimenti cautelari aventi ad oggetto la tutela di diritti fondamentali della persona; nei procedimenti per l’adozione di provvedimenti in materia di tutela, di amministrazione di sostegno, di interdizione, di inabilitazione nei soli casi in cui viene dedotta una motivata situazione di indifferibilità incompatibile anche con l’adozione di provvedimenti provvisori, e sempre che l’esame diretto della persona del beneficiario, dell’interdicendo e dell’inabilitando non risulti incompatibile con le sue condizioni di età e salute. Sono altresì esclusi dalla sospensione i procedimenti relativi agli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di degenza ospedaliera per malattia mentale (Tso) e i procedimenti riguardanti la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza. I procedimenti per l’adozione di ordini di protezione contro gli abusi familiari; i procedimenti di convalida dell’espulsione, allontanamento e trattenimento di cittadini di paesi terzi e dell’Unione europea; nei procedimenti di sospensione dell’efficacia esecutiva delle sentenze di primo e secondo grado dei processi civili per motivi gravi. La clausola di salvaguardia - In relazione al profilo della gravità nel decreto è prevista una clausola di salvaguardia proprio per tutelare il diritto alla tutela giurisdizionale dei cittadini per cui potranno fare eccezione al regime della sospensione tutti quei procedimenti la cui ritardata trattazione potrebbe produrre grave pregiudizio alle parti. In questi particolari casi che dovranno essere evidentemente provati e si presume su istanza della parte interessata la competenza per la dichiarazione di urgenza è riservata al capo dell’ufficio giudiziario o dal suo delegato e verrà apposta in calce alla citazione o al ricorso, con decreto non impugnabile. Invece per le cause ed i procedimenti già iniziati, tale dichiarazione si potrà avere attraverso un provvedimento del giudice istruttore o del presidente del collegio e tale provvedimento non sarà impugnabile. Le eccezioni nei procedimenti penali - Anche il settore penale avrà delle eccezioni per cui alcuni procedimenti si terranno ugualmente. Si terranno comunque le udienze di convalida dell’arresto o del fermo, udienze dei procedimenti nei quali nel periodo di sospensione scadono i termini di durata massima della custodia cautelare, le udienze nei procedimenti in cui sono state richieste o applicate misure di sicurezza detentive. Anche per la giurisdizione penale è prevista una clausola di salvaguardia per garantire l’accesso alla giustizia degli imputati. Vi sono pertanto dei casi in cui i detenuti, gli imputati, i proposti o i loro difensori espressamente richiedono che si proceda per udienze nei procedimenti a carico di persone detenute. Sono fatti salvi infatti i casi di sospensione cautelativa delle misure alternative; udienze nei procedimenti in cui sono state applicate misure cautelari o di sicurezza; udienze nei procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione o nei quali sono state disposte misure di prevenzione; udienze nei procedimenti a carico di imputati minorenni. Potranno altresì fare eccezione le udienze nei procedimenti che presentano carattere di urgenza, per la necessità di assumere prove indifferibili, nei casi di cui ci sono gli estremi per concedere l’incidente probatorio. In questi casi particolari le dichiarazioni di urgenza devono essere emesse dal giudice o dal presidente del collegio, su istanza della parte interessata. I procedimenti di concessione delle urgenze dovranno essere motivati e saranno non impugnabili. Rinvio fino al 22 marzo, poi decisioni prese dai capi degli uffici di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2020 Una strategia a due fasi, la prima con un rinvio delle udienze in tutta Italia, la seconda con una decisione affidata ai capi degli uffici. È quella messa in campo dal ministero della Giustizia con il decreto legge n. 11 del 2019 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 60 dell’8marzo) per disciplinare lo svolgimento dell’attività giudiziaria nelle prossime settimane. Situazione di emergenza che però, anche alla luce delle soluzioni individuate, già presta il fianco a dubbi interpretativi, segnalati, tra gli altri, dalle organizzazioni forensi. Il decreto, infatti, prevede innanzitutto lo slittamento di tutte le udienze civili e penali pendenti (con una serie di eccezioni) a data successiva il 22 marzo. Rinvio che è accompagnato dalla sospensione dei termini; quando l’inizio del decorso dei termini è previsto durante il periodo di sospensione, allora è destinato a slittare al 22 marzo stesso. Su questo punto ieri sono arrivare le richieste di chiarimento da parte dell’Organismo congressuale forense. In dettaglio l’incertezza riguarda il perimetro della sospensione: se cioè la sospensione dei termini si applica a tutti i giudizi pendenti, compresi quelli per proporre impugnazioni o opposizioni, o se la sospensione riguarda soltanto i giudizi le cui udienze sono fissate nel periodo dal 9 al 22 marzo e soggette al rinvio di ufficio. E, accedendo alla prima ipotesi della sospensione di tutti i giudizi pendenti, come andrebbero calcolati termini a ritroso la cui scadenza interviene nel periodo di sospensione dei termini. Da valutare poi se si sospendono anche i termini per la mediazione delegata. A partire dal 23 marzo poi e fino al 31 maggio, i capi degli uffici avranno a disposizione una pluralità di misure per evitare assembramenti nelle strutture giudiziarie e contatti ravvicinati; gli interventi dovranno essere calibrati dopo avere sentito le autorità sanitarie e il consiglio locale dell’ordine forense. Tra le misure organizzative, oltre a un nuovo e più ampio rinvio delle udienze a data successiva il 31 maggio, potranno essere adottate: la limitazione all’accesso e dell’orario di apertura al pubblico, la celebrazione a porte chiuse delle udienze civili e penali pubbliche, lo svolgimento delle udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori attraverso collegamenti da remoto. Nel penale, tra l’altro, fino al 31 maggio la partecipazione alle udienze da parte delle persone detenute dovrà essere assicurata attraverso videoconferenza o con collegamenti dall’esterno. Nelle carceri, sino al 22 marzo, i colloqui dei detenuti con familiari a altri soggetti autorizzati dovranno essere svolti a distanza, anche attraverso telefono. Il magistrato di sorveglianza, poi, potrà sospendere sino al 31 maggio permessi premio e regime di semilibertà. Piemonte. L’appello del Garante dei detenuti: “Ora servono misure innovative” Ristretti Orizzonti, 10 marzo 2020 Appello del Garante Detenuti della Regione Piemonte ai detenuti, alle Amministrazioni penitenziaria e sanitaria, alla Magistratura. La situazione di emergenza legata alla diffusione del virus Covid-19 pone specifici problemi e questioni urgenti alla comunità penitenziaria. In Piemonte abbiamo 13 carceri per adulti e un istituto penale per minori: in tutto una popolazione detenuta di circa 4.600 ristretti, ma la comunità penitenziaria è fatta anche di oltre 3.000 agenti di polizia penitenziaria, di circa 500 altri operatori professionali senza contare i volontari. Oggi l’Unità di Crisi ha raccolto la mia richiesta ed ha effettuato il primo incontro con il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria e con il centro di Giustizia Minorile per una presa in carico diretta e complessiva delle criticità in essere e potenziali. Il carcere è per ora una situazione “protetta”, ma è anche una realtà vulnerabile e quindi “esplosiva”: le limitazioni previste dal decreto e dalle circolari delle Amministrazioni competenti non possono non considerare che accanto ai detenuti rinchiusi, ci sono gli ingressi di nuovi giunti, di professionisti e di poliziotti penitenziari che sono cittadini liberi di muoversi e quindi potenzialmente portatori di contagio. Io mi sento di fare un appello ai detenuti delle carceri piemontesi: occorre mantenere la calma e cercare assieme di conquistare modalità esecutive che contemperino la sicurezza individuale e collettiva con il mantenimento di fondamentali diritti della persona. A fronte della decisione temporanea (fino al 22 marzo) della sospensione dei colloqui con i familiari, iniziativa deve essere di esigere reali alternative percorribili. Le telefonate aggiuntive hanno un costo che spesso i detenuti non sono in grado di sopportare; le videocomunicazioni devono essere supportate da efficaci strumentazioni sia in carcere che nelle case dei famigliari, e quasi mai le cose sono effettive. Occorre trasmettere con correttezza le informazioni ai detenuti, ma le Amministrazione devono anche cogliere l’occasione per la sperimentazione di innovativi ed efficaci canali di comunicazione, forme nuove e spesso molto più controllabili e tracciabili di altre. Solo con la calma e la ragionevolezza si può sperare di affrontare in modo positivo la crisi attuale, magari anche percorrendo strade innovative che possono essere utili a svecchia un sistema che si illude di controllare tutto ma che quotidianamente dimostra la sua fallacia. Nel contempo voglio fare anche un appello pubblico e forte alla Magistratura ed in particolare alla Magistratura di Sorveglianza affinché si colga l’occasione di questa straordinaria emergenza per procedere con la concessione di misure alternative al carcere: l’emergenza Covid-19 si innesca sul un contesto penitenziario caratterizzato dal crescente sovraffollamento. Anche nelle carceri del Piemonte. Per il 4.600 detenuti i posti regolamentari disponibili sono solo 3.700: gestire qualsiasi cosa ma soprattutto una crisi sanitaria in un luogo dove mancano gli spazi è impensabile! Nel condannare le rivolte violente e disperate e nel ringraziare gli agenti di polizia penitenziaria impegnati a garantire il più possibile regolare vivere della comunità penitenziaria, auspico che l’interlocuzione in corso fra Amministrazione penitenziaria ed Amministrazione regionale possa portare elementi di certezza e di rassicurazione per chi è in carcere in forza di una sentenza e per chi vi lavora. I Garanti comunali piemontesi stanno tutti seguendo direttamente l’evolversi della situazione: il Coordinamento dei Garanti del Piemonte si unisce alle richieste del Garante nazionale e del Portavoce nazionale dei Garanti territoriali perché si mettano in campo misure straordinarie volte ad alleggerire le situazioni di sovraffollamento. Modena. Dramma in carcere, i morti sono sette. C’era un positivo al coronavirus di Luca Muleo Corriere di Bologna, 10 marzo 2020 La sanità penitenziaria conferma la presenza di un detenuto malato, sebbene in isolamento. Sette morti e sei persone in gravi condizioni ricoverate in Terapia Intensiva. Questi sono i numeri della maxi rivolta scoppiata nel carcere di Modena domenica poco dopo le 14. Diversi gli agenti della penitenziaria feriti, alcuni hanno riportato fratture. Le ambulanze hanno fatto avanti e indietro dal carcere per tutta la giornata di ieri, così come i blindati della penitenziaria che stanno smistando i detenuti negli istituti penitenziari della regione perché il carcere non è più agibile. Sono le conseguenze di quanto accaduto domenica, quando un centinaio di detenuti ha messo a ferro e fuoco la struttura per tentare un’evasione di massa che non è riuscita. Alla base della protesta, che ha interessato diversi penitenziari d’Italia, le limitazioni dovute a permessi e colloqui a causa dell’emergenza coronavirus. Ma c’è di più: la notizia diffusasi in carcere di un detenuto positivo al virus, circostanza confermata ieri dalla sanità penitenziaria di Modena. Sotto la lente di ingrandimento anche il sistema di custodia attenuata (vigilanza dinamica) previsto nell’istituto penitenziario. Molti detenuti al momento dello scoppio della rivolta si trovavano infatti nei corridoi e non nelle loro celle. Prima gli incendi, poi la devastazione. I rivoltosi sono riusciti ad accaparrarsi gli strumenti utilizzati per le attività “agricole”. Mazze, roncole, vanghe e pale da giardino. Quando i primi agenti sono arrivati sul posto la situazione era fuori controllo. Solo grazie alla chiusura dei portoni con dei blindati si è evitato il peggio. Dentro però continuava l’inferno. In una trentina hanno assaltato l’infermeria e diverse persone hanno assunto metadone e altri farmaci. Bottiglie di sedativi e persone in fin di vita per terra: questa è la scena che si sono trovati davanti gli agenti al loro arrivo. La Procura ha aperto un fascicolo e si indaga per omicidio colposo. Non mancheranno le indagini per resistenza a pubblico ufficiale, danneggiamento, violenza privata e tentata evasione. Già disposta l’autopsia sui corpi delle persone decedute. Fonti dell’amministrazione penitenziaria hanno confermato che i decessi sono riconducibili all’uso di stupefacenti, ovvero oppioidi e benzodiazepine. E sempre dal carcere arriva la conferma di un caso di positività al coronavirus, notizia che evidentemente era circolata tra i detenuti e che li aveva gettati nel panico sebbene l’uomo contagiato fosse già stato sottoposto ad isolamento. “Dentro il carcere ogni cosa viene amplificata, anche in una situazione di normalità, figuriamoci ora, questo non bisogna dimenticarlo”, ha commentato Paola Cigarini, volontaria dell’associazione Gruppo Carcere Città. “Già da alcune settimane, con l’avanzare del diffondersi del virus, la tensione stava salendo. Noi abbiamo cercato di informare i detenuti, anche dalle fake news, così come hanno fatto i medici - ha spiegato la volontaria - ma dentro un carcere basta che si diffonda la voce di un recluso che ha una normale influenza per accendere gli animi”. Ieri mattina intanto ancora momenti di tensione dopo che alcuni familiari dei detenuti si sono presentati fuori dai cancelli del Sant’Anna a protestare e a chiedere spiegazioni. Intanto prosegue il trasferimento di tutti i detenuti e la conta dei danni. La struttura è ora inaccessibile e quindi tutti i suoi “ospiti” sono stati trasferiti. Ascoli Piceno. Morto un detenuto, un altro in fin di vita veratv.it, 10 marzo 2020 È morto ieri pomeriggio nel carcere di Marino del Tronto uno dei 41 detenuti trasferiti la scorsa notte da quello di Modena dopo i tumulti e il saccheggio dell’infermeria. Causare del decesso dell’uomo, un 40enne, sarebbe stata un’overdose. Già all’arrivo nel carcere ascolano le sue condizioni di salute erano apparse gravi. A quanto trapela un altro dei detenuti giunti da Modena, sarebbe in condizioni gravissime sempre per l’assunzione di oppiacei avvenuta prima dell’arrivo nel carcere ascolano. La struttura carceraria di Marino del Tronto fino a due anni fa ospitava i detenuti soggetti al 41 bis, il cosiddetto carcere duro. Dopo che questo reparto è stato smantellato, si sono creati spazi. Per questo cui il penitenziario è stato scelto per accogliere i detenuti provenienti da Modena. Al momento la situazione nel carcere di Ascoli è tranquilla e non si registrano tensioni particolari. Alessandria. Morto un detenuto trasferito da Modena di Monica Gasparini ilpiccolo.net, 10 marzo 2020 Da Modena la protesta si è irradiata in molti altri Istituti, tra cui Alessandria e San Michele. I detenuti hanno fatto sentire la loro voce: per avere contezza che qualcosa stava accadendo all’interno delle celle, è bastato sostare accanto al carcere di piazza Don Soria, ad Alessandria. Per far sentire la loro rabbia hanno iniziato ad urlare e battere oggetti contro le inferiate. E così è stato da domenica pomeriggio. Al momento, la situazione sembra rientrata, soprattutto nel carcere di massima sicurezza. Ad Alessandria si registra la morte di un detenuto (sembra trasferito da Modena) avvenuta per overdose: decesso causato dall’assunzione di psicofarmaci sottratti dall’infermeria del carcere durante le proteste. La denuncia della grave situazione arriva in redazione con un comunicato inviato dall’organizzazione sindacale delle guardie penitenziarie Osapp. Verona. Detenuto muore davanti al carcere, arrivava da Modena L’Arena, 10 marzo 2020 È morto per un malore che l’ha colto mentre era ancora sul pullman del trasferimento, davanti al carcere di Verona, uno dei tre detenuti provenienti dal carcere di Modena, deceduti per overdose da psicofarmaci. La vittima, un cittadino straniero, proveniva da Modena ed era in transito verso la struttura di Trento. Lo precisa il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria del Triveneto. Il pullman era all’ingresso del carcere di Verona quando l’uomo ha accusato il malore. Sul posto è giunta un’ambulanza del 118, ma i sanitari hanno potuto solo costatare il decesso del detenuto. Nessuna rivolta è al momento registrata al carcere di Montorio, diversamente da come sta accadendo in altre strutture penitenziare italiane. Milano. Rivolta sui tetti a San Vittore, il pm Nobili in campo per la trattativa di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 10 marzo 2020 Il Coronavirus è stato lo spunto per alzare la protesta sul tema del sovraffollamento: una ventina di detenuti è salita sul tetto. Devastazioni all’interno del penitenziario. Il coronavirus accende la miccia, ma sono i problemi atavici di tutte le carceri italiane, primo il sovraffollamento, a far esplodere la rivolta di metà dei detenuti di San Vittore con una ventina di loro che per ore salgono sui tetti della casa circondariale, mentre un gruppo di anarchici e qualche parente fa il tifo da fuori. La protesta termina solo dopo una lunga e delicata trattativa con i carcerati diretta personalmente dai pm Alberto Nobili e Gaetano Ruta. Gli stranieri sul tetto - La protesta comincia intorno alle 9.30, mentre nelle celle si rincorrono dalla sera prima le notizie sulle rivolte in altri istituti di pena. Un centinaio di detenuti del terzo raggio, quasi tutti stranieri, riescono a raggiungere il quarto piano. Gran parte degli italiani restano in cella, probabilmente perché hanno troppo da perdere in termini di benefici penitenziari se non mantengono una buona condotta. Gli anarchici a sostegno della protesta - Dal finestrone del quarto piano, quello dove vengono trattate le tossicodipendenze, qualcuno brucia giornali e stracci causando una colonna di fumo, altri battono oggetti contro le sbarre gridando “libertà! libertà!”. Non ci sarebbero gli ospiti della “Nave” che, invece, avrebbero aiutato gli operatori ad uscire dal reparto e a mettersi al sicuro. Circa venti detenuti raggiungono il tetto dove continuano ad urlare. Qualcuno lancia tegole mentre tra viale Papiniano e piazza Aquileia, nonostante i rischi di contagio da Covid-19, si raduna una folla di telecamere, curiosi, parenti dei detenuti e una trentina di anarchici tenuti sotto controllo dalla polizia e dai carabinieri in tenuta anti sommossa, che solo nel pomeriggio dovranno intervenire con una carica di alleggerimento. Letti e mobili distrutti, caloriferi divelti - Compaiono due lenzuoli con scritto “Libertà” ed “Indulto” appesi alle grate. Che il motivo della protesta non sia solo il virus (i detenuti temono ovviamente il contagio) è subito chiaro al pm di turno Ruta e a Nobili, coordinatore dell’antiterrorismo con una lunga esperienza nelle trattative, come quella che nel ‘98 portò alla liberazione di Alessandra Sgarella. D’altronde sono passate senza problemi due settimane da quando il Tribunale di sorveglianza di Milano, presieduto da Giovanna di Rosa, la quale ieri era a San Vittore mentre scoppiava la rivolta, per primo ha sospeso i permessi premio per ridurre il rischio coronavirus in carcere, dopo che ai detenuti era stato spiegato che si trattava di provvedimenti a tutela della salute loro e degli operatori. Nobili e Ruta entrano nel terzo raggio e affrontano subito i rivoltosi. Con loro ci sono il direttore, Giacinto Siciliano, e il comandante degli agenti, Manuela Federico. Il panorama è sconfortante: letti e mobili distrutti, vetri sfondati, caloriferi divelti, bagni in macerie. Alla fine saranno risparmiati solo due reparti su sei (due erano chiusi) oltre al centro clinico e alla sezione femminile. Nessun ferito, tranne due detenuti in ospedale per aver assunto un eccesso di metadone preso in un ambulatorio devastato. Le richieste sottoposte ai magistrati - Nobili mette in chiaro che ascolterà i rappresentanti (una ventina) dei reclusi solo se torna la calma e che l’unica cosa che farà sarà di annotare le loro richieste: più detenzione domiciliare, lavoro esterno e affidamento in prova; riduzione del sovraffollamento; strutture per i tossicodipendenti; ovviamente, amnistia o indulto. Alle 15, quando sembra tutto finito, una decina di irriducibili torna su un tetto sfidando i due magistrati. Nobili e Ruta montano su una gru con cestello dei vigili del fuoco e, sospesi in aria, li invitano a smetterla assicurando che il giorno dopo torneranno a San Vittore per un nuovo incontro con i detenuti. Torna la calma mentre un’altra protesta viene subito sedata anche nel carcere di Opera. Bologna. Proteste anche alla Dozza, dove le celle scoppiano di Nedo Lombardi Il Manifesto, 10 marzo 2020 Molto alto il tasso di sovraffollamento nella regione: il Dozza ha 492 posti per 890 persone presenti. Le carceri italiane scoppiano, quelle emiliano-romagnole non sono da meno, e così succede che l’emergenza Coronavirus si trasforma nella classica miccia che dà fuoco alle polveri. Con risultati drammatici. La protesta di domenica nel carcere di Modena, il Sant’Anna, è finita in tragedia: sette detenuti morti, altri 18 feriti di cui sei ricoverati in condizioni gravi in terapia intensiva, una struttura devastata dalle fiamme e inutilizzabile, sette sanitari con ferite lievi e tre guardie carcerarie medicate al pronto soccorso. Proteste ieri ci sono state anche a Ferrara, con l’occupazione dell’istituto e una lunga trattativa che ha riportato la calma solo in serata. A Reggio Emilia sono stati in 150 a protestare: una sommossa scoppiata domenica sera con incendi di materassi e lanci di oggetti contro la polizia. Ribellione rientrata dopo l’intervento delle forze dell’ordine. L’ultima in ordine di tempo è stata la protesta di Bologna, scoppiata ieri in tardi mattinata con i detenuti che in breve tempo hanno preso il controllo di metà carcere. Alla fine, ma i dati potrebbero non essere definitivi, si registrano cinque feriti, nessuno dei quali grave: tre carcerati e due agenti della penitenziaria portati in ospedale in condizioni di media entità. In serata anche a Bologna è arrivata la mediazione. La Dozza di Bologna è una struttura pesantemente sovraffollata. I dati diffusi dai sindacati nel novembre dell’anno scorso raccontano di una capienza regolamentare di 492 posti, a fronte di 890 presenti. Un sovraffollamento del 70% con reparti diventati “invivibili”, parole di un comunicato congiunto firmato dalle sei sigle sindacali più rappresentative. In condizioni critiche l’infermeria, “con la compresenza di un numero consistente di soggetti difficili da gestire, oltre a un notevole numero di detenuti in attesa di allocazione presso gli altri reparti che non hanno però posti disponibili”. Su questa situazione si è innestata l’emergenza Coronavirus, con la sospensione dei colloqui dei detenuti con i familiari, da sostituire - ma quasi mai è avvenuto - con sessioni telefoniche o con chiamate via skype o similari; e con la richiesta del governo agli istituti penitenziari di limitare i permessi e la libertà vigilata. Provvedimenti presi per limitare la diffusione del contagio ovviamente, tra l’altro inefficaci visto che prima che scoppiasse la rivolta proprio a Modena è stato rilevato un caso di positività al coronavirus. Provvedimenti che però hanno fatto passare ovunque un messaggio chiaro e senza scampo: le carceri sarebbero state sigillate in attesa di tempi migliori. E così l’ondata di proteste ha abbracciato tutta l’Emilia-Romagna, una delle regioni - ricorda Antigone - con il più alto tasso di sovraffollamento carcerario. A intervenire anche il Garante nazionale delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, che ha chiesto “misure straordinarie volte ad alleggerire le situazioni di sovraffollamento”. Sui fatti di Modena è stata aperta un’indagine dalla Procura, mentre ci sono prese di posizioni opposte: la Cgil chiede una riforma immediata delle carceri, la Lega il pugno durissimo. Per intanto c’è la conta di morti e feriti. L’ultimo a perdere la vita è stato un detenuto trasferito ieri, assieme ad altri 40, al carcere di Marino Del Tronto. A causare il decesso dell’uomo, un 40enne, sarebbe stata un’overdose. Non ci sono ancora certezze ma i sette decessi sarebbero da ricondurre all’abuso di medicinali, dei quali i detenuti sarebbero venuti in possesso dopo avere occupato il penitenziario modenese. “In infermeria hanno messo le mani sul metadone”, hanno spiegato gli agenti. E qui si apre uno squarcio sulla realtà carceraria, fatta spesso di detenuti finiti dietro le sbarre per piccolo spaccio e a loro volta tossicodipendenti. Andrebbero assistiti e curati. Antigone Emilia-Romagna segnala su oltre 500 detenuti a Modena solo 3 educatori in servizio. Poi c’è il problema delle custodie attenuate in carcere per persone con problemi di tossicodipendenza. In Emilia-Romagna si fa, ma ricorda l’associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”, solo a Rimini e solo con otto posti. Padova. Detenuti barricati, un intero braccio della Casa di reclusione distrutto di Serena De Salvador Il Gazzettino, 10 marzo 2020 Mobili divelti, incendi, cariche degli agenti penitenziari che contano oltre dieci feriti. Questo lo scenario che si è presentato domenica sera al Due Palazzi dopo che già nel tardo pomeriggio alcuni carcerati del circondariale si erano rifiutati di rientrare nelle celle. Dopo le prime notizie sui disordini registrati a Modena, Salerno e Milano, la tensione era nell’aria. Il pretesto inziale della rivolta, le norme restrittive sui colloqui con i familiari, non più di persona ma per telefono per scongiurare contagi da Coronavirus. Il pretesto del Coronavirus per scatenare la guerriglia. Così Padova va ad allungare l’elenco dei penitenziari teatro di sommosse segnate da una violenza che pochi precedenti ha avuto in Italia. Detenuti barricati, un intero braccio della casa di reclusione distrutto. Mobili divelti, incendi, cariche degli agenti penitenziari che contano oltre dieci feriti. Questo lo scenario che si è presentato domenica sera al Due Palazzi dopo che già nel tardo pomeriggio alcuni carcerati del circondariale si erano rifiutati di rientrare nelle celle. Dopo le prime notizie sui disordini registrati a Modena, Salerno e Milano, la tensione era nell’aria. Quel primo episodio, nonostante l’arrivo dei pompieri per illuminare il piazzale a scopo preventivo, si era riassorbito. Poco più tardi però la ferocia di un’azione evidentemente organizzata da ore se non da giorni è esplosa nella casa di reclusione. In un braccio del quarto piano una quarantina di detenuti stranieri si è barricata distruggendo le telecamere, la sala comune con la televisione e i frigoriferi ma anche la palestra con tutti gli attrezzi e il biliardino. Nel mentre hanno sradicato le brande in ferro dalle celle e divelto i tavoli, ammassandoli a ridosso del cancello del terminale, e piegato verso l’esterno le sbarre di sicurezza creando una barriera acuminata per impedire l’avanzamento della polizia. L’intervento - Gli agenti sono stati chiamati in forze in tenuta antisommossa, trovandosi proiettati in un girone infernale dove alle devastazioni sono seguiti gli incendi appiccati a materassi e vestiti. L’ambiente si è saturato di fumo, estintori e pompe idrauliche hanno soffocato le fiamme ma allagato i pavimenti mentre la carica si trasformava in scontro fisico sotto una sassaiola di oggetti. Dopo una lunga trattativa solo alle 22 i detenuti hanno ceduto e sono stati riaccompagnati in quel che restava delle celle. Nel braccio uno scenario irreale. Dieci agenti hanno rimediato contusioni e lievi intossicazioni: in alcuni casi li costringeranno a un periodo di malattia che renderà ancor più instabili e difficoltose le condizioni dei colleghi. Placati - Nella giornata di ieri non si sono verificati altri disordini importanti, ma a rendere la situazione ancor più esplosiva è l’arrivo di quindici detenuti trasferiti dal penitenziario modenese uscito semi distrutto da due giorni di guerriglia. Sono separati dagli altri, ma avrebbero già protestato creando ulteriori tensioni. Nel parapiglia di domenica i detenuti hanno protestato contro le nuove norme imposte per contenere il rischio di contagio, che comprendono anche la sostituzione dei colloqui di persona con i familiari con quelli telefonici. Una versione che cozza con la pretesa che gli agenti della penitenziaria non lascino il carcere per evitare di portare all’interno il virus. Da questo si è passati alla richiesta della libertà per chi sconta pene inferiori a tre anni fino all’indulto e all’amnistia. Provvedimenti per altro inattuabili dalle singole carceri poiché di competenza statale. Il pubblico ministero marco Brusegan aprirà un’indagine per identificare tutti i responsabili, che sarebbero stati fomentati da almeno cinque stranieri. Non avrebbero invece partecipato alla rivolta i pochi detenuti italiani del braccio, chiusisi nelle celle. Gli altri rischiano invece pesanti aggravi della pena e un regime di detenzione più severo, nonché il trasferimento in altre strutture. La segreteria nazionale del sindacato di polizia Sinappe ha scritto al premier Conte chiedendo il commissariamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e un urgente piano di assunzioni per far fronte alla carenza di personale, oltre a un ritorno al sistema carcerario a celle chiuse, cioè senza che i detenuti siano liberi di circolare nelle sezioni per gran parte del giorno com’è oggi. “Vogliamo risposte. É inaccettabile essere lasciati soli e in numero impari davanti a minacce di questo calibro quando ai detenuti sono concesse attività e libertà smodate” aggiunge la segreteria regionale del sindacato nel ringraziare a augurare la pronta guarigione ai feriti. Foggia. Rivolta con evasione di massa, ricercati ancora in 34 di Luca Pernice Corriere del Mezzogiorno, 10 marzo 2020 Caccia all’uomo a Foggia dopo che, ieri, dal carcere sono evasi oltre una cinquantina di detenuti. Per 41 di loro la fuga è durata poche ore: alcuni sono stati bloccati a Cerignola, Orta Nova ma anche alla periferia di Bari. Molti, invece, quelli arrestati tra le vie della città. Altri 34 sono ancora ricercati. Dilaga la rivolta dei detenuti in Puglia, la situazione più grave in Capitanata. Roghi e celle devastate. Forzati i cancelli. Dopo quella di domenica a Bari, rivolta anche nel carcere di Foggia contro l’emergenza coronavirus. La protesta violenta si è tradotta in un’evasione di massa, con 77 detenuti che hanno scavalcato le sbarre. Quarantuno di loro sono stati riportati in cella, altri 34 almeno fino a ieri sera erano ancora ricercati. Disordini gravi si sono registrati anche a Trani e Bari, dove le mogli dei detenuti hanno manifestato per strada. Tutto è scoppiato poco dopo le nove: oltre 250 detenuti, uomini e donne, hanno iniziato a distruggere celle, sale e locali. Protestavano per le condizioni in cui sono costretti a vivere: nell’istituto foggiano ci sono attualmente 608 detenuti, per una capienza di 365 persone. Condizioni aggravate, hanno ribadito i detenuti ieri, dall’emergenza sanitaria. Due reparti sarebbe stati completamente devastati, tra cui anche la sala informatica dove i carcerati hanno appiccato un incendio. Una protesta che poi si è trasferita nel piazzale del carcere: qui avrebbero forzato i cancelli riuscendo ad uscire. Dalle immagini registrate con i telefoni cellulari di alcuni residenti della zona si vede chiaramente una folla di detenuti scappare dal carcere e invadere le strade limitrofe. Altri sono scappati scavalcando i cancelli della struttura penitenziaria. Ancora incerto il numero esatto dei detenuti evasi. Diversi fuggitivi hanno cercato di nascondersi nei capannoni delle attività commerciali e artigianali del quartiere o, confondendosi tra i clienti di un negozio di alimentari. Tre gli automobilisti rapinati: i banditi si sono impossessati delle auto per la fuga. Davanti al carcere si sono concentrati agenti di polizia, carabinieri, uomini della guardia di finanza e anche militari dell’esercito che sono riusciti ad evitare ulteriori evasioni. Nel corso degli scontri un detenuto è stato ferito alla testa. Fuori dal carcere anche i familiari dei reclusi che li esortavano a placare la protesta. “Se continuate cosi - ha gridato una donna - è peggio. Tornate in cella”. Tra i parenti anche chi chiedeva informazioni sui propri congiunti. “Non so - diceva un’altra donna, madre di un ospite del carcere - se mio figlio è fuggito o è dentro. Voglio solo sapere come sta”. La situazione è tornata calma solo nel tardo pomeriggio. Tanta la paura e la preoccupazione tra i foggiani: i video dell’evasione hanno fatto il giro del web allarmando i cittadini. Molte attività e non solo commerciali, che si trovano nella zona del carcere, al Villaggio Artigiani, hanno chiuso prima del previsto mandando a casa, per precauzione, i dipendenti. Numerosi i commenti della politica su quanto accaduto al carcere di Foggia. “Una gestione organizzata e preventiva avrebbe dovuto prevedere ed evitare simili gesti da parte dei detenuti e i loro familiari preoccupati dal coronavirus e dal divieto di visite”, ha detto Raffaele Fitto, del gruppo europeo Ecr-Fratelli d’Italia. “Attuiamo tutte le misure necessarie a contenere l’emergenza in atto nei nostri penitenziari prima che la situazione peggiori ulteriormente. Non c’è tempo da perdere”: questo il commento, invece del ministro delle Politiche agricole alimentari e forestali, la pugliese Teresa Bellanova. I due coordinatori regionali di Fratelli d’Italia, Erio Congedo e Francesco Ventola, hanno chiesto un tavolo nazionale per l’emergenza carcere ipotizzando anche il possibile intervento dell’Esercito. Prato. Nel carcere scoppia la rivolta per i colloqui vietati di Giorgio Bernardini Corriere Fiorentino, 10 marzo 2020 Ore di paura e follia. La violenza della protesta all’interno delle carceri è montata anche alla casa circondariale “La Dogaia” di Prato. Nella tarda mattinata di ieri un gruppo di detenuti ha cominciato a urlare intonando cori e barricandosi all’interno della terza sezione: avevano ricevuto da poche ore la notizia della sospensione dei colloqui con i familiari, una misura del ministero della Giustizia che recepisce le norme di cautela contro la diffusione del coronavirus. Ma questa scintilla ha generato le fiamme della ribellione. Con indumenti usati per coprire il volto, attorno alle 13, i detenuti cominciano ad accendere roghi utilizzando le strutture dei letti e i materassi, generando apprensione tra gli agenti della polizia penitenziaria. “Libertà” e “Indulto” sono le parole che vengono scandite: la situazione esce dal controllo dell’amministrazione carceraria, intervengono dall’esterno Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza e Vigili del fuoco, con almeno 100 unità. Un elicottero sorvola la struttura ad ovest della città. Attorno alle 14 la situazione si fa ancora più delicata, perché un gruppo di detenuti cerca di forzare un cancello che dalla sezione si affaccia su un cortile esterno. Il blocco tiene: alle 15 un dirigente va a trattare con i leader della protesta e ottiene il massimo dei risultati possibili. La rivolta si placa e non ci sono persone ferite in maniera significativa. La causa scatenante della rabbia dei detenuti, si apprende da avvocati assiepati all’esterno del carcere pratese, è stata la modalità con cui sono state comunicate le misure di contenimento per il coronavirus all’interno della casa circondariale. Un concetto ben espresso dalla lettera che in queste ore delicate il cappellano del carcere fiorentino di Sollicciano, Vincenzo Russo, ha inviato al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. “Se è vero che si esce dall’epidemia, come ripetono a ruota su radio, tv e giornali, solo se ci si aiuta a vicenda, diamo a tutti l’opportunità di aiutarsi e di aiutarci. Si è capito che la situazione è critica in Italia e nel mondo intero. Ma fuori - scrive il cappellano- non si è capito che la situazione delle carceri era critica da molto pima che arrivasse il virus, ed ora è tragica. Evitare le tragedie che si possono evitare è un dovere di tutti ed è anche un mio auspicio. Voglio sperare che queste emergenze diventino l’occasione per capire che il carcere è una parte della società, che le mura non fermano i virus, la rabbia, la malattia, la disperazione, la mancanza di diritti e di prospettive. Tutto entra e tutto esce. Fuori non ci si può sentire protetti se non lo si è anche dentro”. Il carcere di Prato è una struttura con carenze di organico e sovraffollamento di detenuti: sono più di 650 quando la struttura è stata progettata per contenerne 400. Da anni si verificano periodicamente casi di violenza, risse, tentativi di suicidio. L’ultima aggressione di un detenuto ad un poliziotto penitenziario risale a tre giorni fa. Venezia. Carcere, in otto in una cella. La protesta ora fa rumore di Nicola Munaro Il Gazzettino, 10 marzo 2020 Tensione a Santa Maria Maggiore per il sovraffollamento e il timore che possa contribuire a diffondere il contagio. Non una vera sommossa come successo in altri penitenziari in Italia. Quindi nessun detenuto sul tetto, nessun assedio agli agenti di custodia, niente colonne di fumo nero a solcare il cielo segnando che lì i carcerati erano in rivolta. La tensione però - quella sì - si è diffusa domenica anche nel carcere di Santa Maria Maggiore. Per tre ore, dal tardo pomeriggio a sera, mentre da Modena a Napoli, da Milano a Roma e Foggia le carceri ribollivano lasciando in eredità morti ed evasioni, a Venezia i detenuti battevano i cancelli in ferro delle celle. Usavano pentole e arnesi di qualsiasi tipo con l’obiettivo di creare il più alto rumore possibile, facendo sentire la propria voce. Stanchi di una situazione di sovraffollamento già invivibile di per sé ma che al tempo del coronavirus rischia di creare un mix letale. Basta che Covid-19 entri nei bracci e potrebbe essere la miccia di un contagio infinito dove si vive 8 in una cella. Tutte ragioni messe nero su bianco in un documento con cui chiedere l’introduzione di uno scivolo verso l’indulto o l’amnistia per chi ne avrebbe i requisiti a breve. L’obiettivo? Svuotare - almeno un po’ - il carcere che ora ospita 268 detenuti per un massimo di 159 posti. In una casa circondariale dove ieri è stata installata una tenda per il pre-triage in caso di emergenze. Come al carcere femminile della Giudecca. Il documento - inviato al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella; al Guardasigilli Alfonso Bonafede; al presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia, Linda Arata e alla direttrice del carcere, Immacolata Mannarella - non tocca il tema della sospensione dei colloqui con familiari e avvocati (al centro delle proteste nel resto d’Italia) ma punta al nucleo dell’emergenza sanitaria. “Preoccupati per la grave situazione che di conseguenza pregiudica la convivenza negli istituti penitenziari - scrivo i detenuti - chiediamo che al più presto” venga adottata “la concessione dell’amnistia o dell’indulto, unica soluzione per risolvere nell’immediato i problemi di sovraffollamento che in questo momento crea grandissima preoccupazione”. La commissione culturale del carcere, firmataria della lettera, mette sul piatto “la grande difficoltà che l’amministrazione penitenziaria dovrebbe sostenere nella non lontana eventualità del rischio di contagio all’interno di un istituto, in carenza di personale”. “Una rivolta civile” l’ha definita il Garante dei detenuti di Venezia, Sergio Steffenoni. “Al momento non ci sono casi, ma se ci fossero sarebbe una situazione complessa da gestire”. “Ho parlato con la direttrice del carcere di Santa Maria Maggiore - spiega il deputato Pd Nicola Pellicani - dove domenica sera i detenuti hanno chiedendo l’indulto. Una misura di cui si parla da tempo, sulla quale dovremo ragionare. Ho offerto a tutti la massima collaborazione per affrontare i problemi delle case circondariali. In queste ore sono in corso incontri informativi tra detenuti e i responsabili della sanità penitenziaria”. Udine. La protesta dei detenuti coinvolge anche la Casa circondariale cittadina telefriuli.it, 10 marzo 2020 Urla e colpi alle inferriate in via Spalato contro le disposizioni anti-coronavirus. La protesta dei detenuti, che ha già coinvolto 27 istituti penitenziari in Italia, è arrivata anche nella Casa Circondariale di Udine. Al momento la contestazione dei reclusi presenti in via Spalato è calma e pacifica: ad intervalli di tempo si possano udire i reclusi urlare e battere veementemente sulle grate alcuni oggetti metallici. Nulla di più. Ieri sera, i detenuti, chiusi nelle loro stanze, urlavano diverse frasi di difficile comprensione. Solo una parola era facilmente distinguibile: “amnistia”. Presenti dalle 19 alle 20.30 all’esterno del carcere anche alcuni parenti, speranzosi affinché la situazione non degeneri come avvenuto ad esempio a Modena o a Melfi. La rivolta che si sta estendendo in tutte le 20 regioni, come facilmente intuibile, è legata all’emergenza Coronavirus, alle modifiche previste per i colloqui tra detenuti e familiari a causa del Covid-19 e al noto sovraffollamento presente in tutte le 189 strutture della Penisola e che raggiunge picchi del 120%. Fuori dall’istituto, a pattugliare tutto il perimetro, sono presenti anche gli agenti della Polizia di Stato a bordo di alcune pantere. Nulla, fortunatamente, fa pensare che la situazione possa degenerare come avvenuto ieri a Melfi, con 5 agenti e 5 sanitari sequestrati. Proprio in serata, durante la conferenza stampa straordinaria in cui Conte ha annunciato la zona rossa estesa per tutta la Penisola, il premier Giuseppe Conte ha annunciato che da domani saranno distribuite 100 mila mascherine negli istituti penitenziari, dove sono state montate 80 tende di pre-triage per lo screening del coronavirus nelle carceri. Teramo. Anche a Castrogno la protesta dei detenuti contro le limitazioni nei colloqui emmelle.it, 10 marzo 2020 Già da venerdì i detenuti si erano rifiutati di rientrare nelle celle. Ieri sera nella sezione femminile cartoni e un materasso sono stati dati alle fiamme. Anche nel carcere di Castrogno, come accaduto altrove nelle case di detenzione, i detenuti hanno fatto sentire la loro protesta, lamentandosi per le limitazioni imposte ai colloqui con i famigliari, nell’ambito dell’applicazione del decreto sicurezza rispetto al rischio Coronavirus. Non si è trattato di una rivolta vera e propria, ma di uno stato di agitazione, le cui prime avvisaglie sono state registrate venerdì, dalla sezione detenuti comuni è partita la protesta, con il rifiuto di rientrare nelle celle. Una protesta ripetuta anche ieri sera, quando l’iniziativa dei reclusi (che sono 430 contro i 250 previsti) è stata sentita anche a notevole distanza dalla casa circondariale teramana, con le suppellettili battute contro le inferriate delle celle. Nello stesso tempo nel reparto di detenzione femminile sono stati dati alle fiamme alcuni cartoni e un materasso. La protesta dei detenuti è stata contenuta non senza sforzo dal personale di polizia penitenziaria che, dopo una lunga trattativa, è riuscito a convincere i reclusi - soprattutto quelli della sezione Alto rischio - a rientrare nelle rispettive stanze. Come accaduto in altre carceri italiane - a Milano, Roma e Foggia, dopo Modena si registrano i casi più gravi, con vere e proprie rivolte, accompagnate da evasioni e in alcuni casi purtroppo anche con vittime - la situazione è stata gestita con il trasferimento di alcuni dei rivoltosi più esagitati. Sotto questo aspetto non ha certo giovato alla già precaria situazione organizzativa di Castrogno (quasi al collasso da tempo per il sovraffollamento) l’aver ricevuto ospiti da altre carceri, giunti in nottata soprattutto da Frosinone. Al momento la situazione è tenuta sotto controllo, dopo l’incontro che si è tenuto stamattina tra il comandante degli agenti di polizia penitenziaria e i detenuti, ma non si esclude una ripetizione della protesta: con una telefonata giunta alla redazione di emmelle.it, è stato reso noto che nella serata di oggi, i detenuti riproporranno la protesta, molto probabilmente rinforzata dalla presenza anche di alcuni parenti nelle zone antistanti il penitenziario teramano. Treviso. Detenuti in protesta al carcere di Santa Bona di Denis Barea Il Gazzettino, 10 marzo 2020 Atto dimostrativo degli oltre 200 reclusi anche per il timore di contagio, le forze dell’ordine: “Hanno fatto suonare le celle”. L’onda delle proteste dei detenuti è arrivata anche a Treviso. Poco dopo le 20 infatti i carcerati hanno iniziato a far suonare le sbarre delle celle. Due le motivazioni principali: il pericolo di contagio da coronavirus e la sospensione delle visite dei familiari proprio per evitare il diffondersi della malattia. “Una protesta sonora programmata e pacifica” hanno sottolineato fonti di polizia e carabinieri, intervenuti per bloccare la strada di fronte alla casa circondariale di Santa Bona. Nessuno scontro, hanno tenuto a sottolineare le forze dell’ordine, ma il clima di tensione si sta facendo sempre più palpabile. Nella struttura sono accolte oltre 200 persone. L’allarme coronavirus ha permesso che la popolazione carceraria di cogliere l’occasione per alzare la voce e chiedere benefici: dall’amnistia alla possibilità di scontare i residui di pena agli arresti domiciliari. Situazioni analoghe, ma più violente, hanno interessato le carceri di Padova, dove sono stati dati alle fiamme dei materassi, e di Venezia, dove i carcerati si sono limitati a farsi sentire. La direzione del carcere di Treviso, proprio per evitare malumori e sommosse, alle disposizioni di sospensione delle visite dei familiari, aveva messo a punto un sistema per rendere meno pesante la detenzione sfruttando la tecnologia. La video-chat tra reclusi e famiglie è stata resa possibile grazie a un’iniziativa autonoma della direzione del carcere trevigiano, che ha deciso di mettere a disposizione una postazione da utilizzare attraverso la piattaforma Skype. Un’ora di tempo a testa, il che considerato il fatto che gli ospiti del Santa Bona sono oltre duecento, farebbe pensare che tanti non riescano in realtà ad avere contatti con i parenti. Ma tra detenuti è arrivata una prova di maturità: si contingentano i tempi in modo da permettere a tutti quelli che lo desiderano di poter effettuare un collegamento video. Il risultato è che, mentre nelle galere di mezza Italia sono scoppiate le rivolte per la sospensione delle visite, a Treviso ci si è limitati a una dimostrazione. Tanto più che sempre la direzione ha deciso di raddoppiare i tempi della telefonata giornaliera, portandola da dieci a 20 minuti. Videoconferenza anche per le udienze di convalida per chi è stato arrestato e si trova in custodia cautelare in carcere. L’organizzazione e il coordinamento - tenuto conto che in alcuni casi è anche necessaria la presenza di un interprete linguistico - verrà curato dall’ufficio gip. Nel frattempo i provvedimenti relativi al contingentamento dei servizi in Tribunale, dove sono state sospese tutte le udienze non urgenti, rischia di gettare nel caos gli uffici della Procura. “In questo momento di emergenza - spiega il procuratore Michele Dalla Costa - il fatto che si stia lavorando sotto organico rende la situazione molto complicata. Da tempo viaggiamo con una pianta organica che funziona al 50% di quelle che sarebbero le necessità di personale. La riduzione dei servizi di sportello ai cittadini se da un lato riduce la presenza dell’utenza, dall’altro ci impone una riorganizzazione dei servizi che comporta un sovraccarico di attività per il personale”. “Dato che il numero di persone che possono accedere agli uffici è stato fortemente contingentato - sottolinea Dalla Costa - bisogna creare delle liste di priorità, basate su scadenze e termini delle varie pratiche. Questo vuol dire che devono essere presi in mano decine e decine di faldoni, che si deve effettuare una catalogazione e poi creare la lista che servirà per dare i servizi richiesti alla collettività. È un lavoro gigantesco che stiamo iniziando a organizzare e che richiede uno sforzo enorme, rendendo ancora più evidenti le problematicità di un organico che resta sottodimensionato rispetto ai bisogni di questa Procura”. Venezia. A ruba l’amuchina fai da te delle detenute della Giudecca di Nicola Munaro Il Gazzettino, 10 marzo 2020 La lavanderia per gli alberghi non lavora, così la produzione si sposta su un altro prodotto. Resilienza: la capacità di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà. È il termine che meglio veste l’idea di una detenzione ai fini rieducativi. Ma oggi - ai tempi di un virus capace di far tremare i polsi a tutto il mondo - è anche sapersi reinventare. Farlo, poi, stretti tra le mura di un carcere e realizzando un servizio utile alla comunità, è ancora più significativo e difficile. Quindi meritorio. È questo il percorso intrapreso da un gruppo di detenute del carcere della Giudecca che nel laboratorio di cosmesi gestito dalla cooperativa Rio Terà dei Pensieri, ha prodotto il disinfettante chimico per le mani. Flaconcini da 50 millilitri venduti a 2,50 euro nel negozio Malefatte Veneziane in fondamenta dei Frari. Di circa duecento boccette, ne sono state vendute la gran parte e quelle che restano sono preziose come l’oro, adesso. Ma messe in commercio sempre senza far lucro o la cresta sul prezzo. “I principali clienti del nostro laboratorio di cosmetica sono le catene alberghiere che ci chiedono di realizzare i kit di saponi per le docce e i bagni - spiega Liri Longo, presidente della cooperativa, raccontando la genesi dell’iniziativa - Con le chiusure dovute al coronavirus quei kit non ci sono stati più richiesti e così abbiamo ripreso a produrre il gel igienizzante per le mani, già prodotto tempo fa e poi abbandonato come idea. Non si tratta di prodotti fai da te come si possono realizzare in casa con dei tutorial, ma di veri disinfettanti bilanciati da un punto di vista chimico. A stabilire le dosi è il chimico che segue il nostro gruppo di cosmetica”. Dal laboratorio della Giudecca in queste settimane sono usciti circa duecento flaconcini messi in vendita mentre almeno altrettanti sono stati destinati alle due carceri veneziane (lo stesso penitenziario della Giudecca e la casa circondariale maschile di Santa Maria Maggiore) ad altre carceri d’Italia - Trieste, ad esempio - o agli uffici delle esecuzioni penali. C’è però un rischio, non da poco. Che il gel tanto cercato e ancora in vendita di fronte ai Frari possa esaurirsi nella sua produzione. “Il materiale che avevamo e con il quale finora abbiamo realizzato i flaconcini, sta esaurendo - ammette Liri Longo - Sono stati fatti degli ordini di nuovi prodotti, ma le consegne non sono facili e le richieste sono tante. Speriamo di poter continuare ed essere utili ancora a Venezia”.