La situazione nelle carceri. Parla Mauro Palma treccani.it, 9 maggio 2020 L’epidemia di Coronavirus ha fatto esplodere tutte le contraddizioni presenti da tempo e lungamente ignorate nella nostra società. È quanto, ad esempio, è avvenuto nelle carceri, dove il Covid-19 è andato ad aggravare una situazione già estremamente difficile. In quali condizioni versava il sistema carcerario italiano quando è arrivata l’epidemia? La situazione delle carceri in Italia è da tempo alle prese con tre questioni latenti, una delle quali è esplosa proprio in questi giorni. La prima è legata al perdurare del sovraffollamento. Quella che è la raccomandazione principale per evitare il contagio, ossia mantenere il distanziamento tra le persone, diventa inattuabile in situazioni di sovraffollamento come quella che è presente negli istituti di pena italiani. Ricordiamo che quando l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani per via del sovraffollamento delle sue carceri, nel 2013, contavamo circa 63.000 detenuti. Oggi, dopo alcuni interventi fatti dopo quella importante sentenza che avevano portato il numero dei detenuti a 52.000, siamo risaliti fino ad arrivare, al 29 febbraio scorso, a 61.230 detenuti per un numero di posti pari a circa 50.000, di cui solo circa 47.000 effettivamente disponibili. La seconda questione latente riguarda il fatto che la popolazione carceraria, che nell’opinione pubblica viene sempre fatta coincidere con i quasi 9.000 detenuti di alta sicurezza, o con i 750 che sono al 41bis, è in realtà composta in maniera del tutto prevalente da condannati a piccole pene. Al 29 febbraio, ad esempio, circa 2.000 persone detenute erano condannate a una pena inferiore ad un anno, che quindi non solo non hanno commesso grandi reati, ma che potrebbero anche beneficiare di misure alternative al carcere di cui evidentemente non godono per problemi di natura diversa: sono, ad esempio, senza fissa dimora, o stranieri, o persone prive di difesa. Ciò rivela come il carcere sia in realtà diventato il luogo dove vanno a confluire gli esiti di altre contraddizioni sociali, di altri fallimenti delle reti di sostegno. Sempre al 29 febbraio, nelle carceri italiane erano detenute circa 23.000 persone che tra pena data o residuo di pena dovevano scontare meno di 3 anni in carcere. Persone per cui forse sarebbe stato utile pensare programmi alternativi. La terza questione concerne il fatto che il carcere italiano è molto enfaticamente investito da dibattiti ideologici. Tanto che ogni volta che si prova ad avanzare proposte di modulazione delle pene o per forme alternative per la loro esecuzione si viene accusati di “perdonismo” o di voler abbassare la guardia rispetto alla lotta alla criminalità. Quando a marzo si sono cominciati a prendere provvedimenti per ridurre la popolazione carceraria intervenendo sulle persone che avevano un residuo di pena basso o specifiche patologie è esplosa l’accusa di voler limitare la lotta alla criminalità organizzata. Premesso che sul fronte della lotta alla criminalità organizzata non si deve arretrare di un millimetro, bisogna però dire che non tutto può essere letto attraverso quella lente. Sono stati proprio gli interventi fatti nonostante il divampare di queste polemiche a portare oggi ad avere 53.174 detenuti, con una riduzione di circa 7.000 unità tra le persone in carcere. Cosa si è fatto per fare fronte alla situazione nelle carceri con il divampare dell’epidemia? Si è in primo luogo intervenuti con un provvedimento, il 18 di marzo, che prevede che coloro che hanno da scontare ancora meno di 18 mesi di pena possano usufruire di una procedura semplificata per l’accesso alla detenzione domiciliare. Si tratta in realtà di una misura prevista da una legge, la 199 del 2010, che, attraverso il provvedimento del 18 marzo ha fatto sì che potesse usufruire della procedura semplificata chi non rispondeva dei reati 4 bis, quelli più gravi e relativi alla criminalità organizzata, e non aveva preso parte alle violenze in carcere delle settimane precedenti. Oltre a queste specifiche misure sono intervenute altre due indicazioni. Da un lato quella, di fronte al rischio di virus in carcere, ad accelerare le procedure nei Tribunali di sorveglianza. La misura di marzo prevedeva infatti, per chi doveva scontare più di 6 mesi, l’applicazione del braccialetto elettronico. Una procedura sempre complicata. Per effetto della norma e dell’accelerazione delle procedure che ne è derivata noi abbiamo ad oggi 3.030 detenzioni domiciliari e 798 casi di applicazione del braccialetto elettronico. È intervenuto poi un ulteriore segnale culturale, a cui ha contribuito anche una indicazione del procuratore generale della Cassazione che invitava a ricordarsi che la misura cautelare in carcere rappresenta una estrema ratio, e che ad essa vanno quindi preferite altre misure. Degli oltre 7.000 detenuti in meno rispetto all’inizio del contagio, se 3.000 sono detenzioni domiciliari, il resto è fatto anche di minori ingressi negli istituti di pena, sia perché ci sono stati meno reati in questa fase di lockdown, sia perché c’è stato un minore ricorso alla custodia cautelare, sia infine per l’accelerazione impressa all’esame di misure alternative giacenti. In questo quadro si è aggiunta anche l’indagine volta a rilevare quei casi che per età o per presenza di patologie potevano essere più suscettibili di contagio e a riesaminare quindi il loro caso. In questa indagine si sono inserite anche persone riferibili a forme di criminalità organizzata. A fronte dei 7.000 detenuti in meno di cui parlavamo prima, quanti sono questi casi? Il numero che si legge sui giornali, che riferiscono di 376 persone, va esaminato con attenzione e facendo dei doverosi distinguo. Tra queste vi sono solo 3 persone catalogate come articolo 41bis, e quindi appartenenti alla grande criminalità mafiosa, una sola classificata come “alta sicurezza 1”, cioè fino a poco tempo fa classificata 41bis, e poi 372 persone classificate come “alta sicurezza 3”, cioè inserite nel brodo di coltura della criminalità organizzata. Bisogna però tenere presente che queste persone, se hanno potuto usufruire della detenzione domiciliare è perché avevano un residuo di pena pari al massimo a 18 mesi. Inoltre, poiché il provvedimento indicato non si applicava ai reati di mafia vuol dire che questi soggetti avevano già scontato per intero la parte di pena riguardante l’appartenenza alla criminalità organizzata. Di questi ultimi 372, peraltro, ben 195 erano persone non ancora condannate con sentenza definitiva, per le quali, quindi, il beneficio è consistito nella conversione della misura cautelare in carcere in una di arresto a casa. Questi casi, peraltro, sono di competenza delle corti giudicanti e non della magistratura di sorveglianza, competente solo per i detenuti condannati in via definitiva. Per le misure prese dalla magistratura di sorveglianza, che esamina il percorso compiuto dal singolo detenuto, non è da escludersi un riesame del percorso fatto, che è anzi già previsto. Per quelle date dal giudice di merito, invece, sarebbe grave se si pensasse che l’esecutivo possa intervenire con indicazioni su decisioni che competono invece soltanto al giudice di merito. Circa i tre casi prima citati che hanno beneficiato di provvedimenti previsti per il Coronavirus pur se in regime di 41bis, bisogna inoltre fare alcune precisazioni. Premesso che ritengo che la necessità di interrompere le comunicazioni tra le organizzazioni criminali e le persone detenute ad esse collegate sia doverosa nel caso in cui effettivamente le misure rispondano all’esigenza di interrompere questa comunicazione e non semplicemente a fini vessatori, e che ritengo sbagliato che una persona sia al 41bis fino all’ultimo giorno di detenzione perché credo vada sperimentato un percorso di conoscenza della reazione di questa persona al ritorno in società, va considerato che la prima di queste persone, dell’età di 78 anni, aveva un residuo di pena da scontare di soli 9 mesi. Se il giudice, in considerazione dell’età e degli altri specifici elementi valutati ha ritenuto fosse il caso di anticipare l’uscita dal carcere non mi pare vi sia alcun elemento per insorgere. Circa il secondo dei casi che hanno destato clamore, quello di Zagaria, siamo di fronte a un detenuto che doveva fare dei cicli di chemioterapia che nell’ospedale di Sassari, a cui era indirizzato, non era possibile fare in quel frangente di emergenza da Covid-19. Da anni, peraltro, come garante dei diritti dei detenuti, avevo sollevato il problema del diritto alla cura per le persone al 41bis in Sardegna, dove non vi sono strutture sanitarie dove i detenuti possono essere ospedalizzati in piena sicurezza. Nel caso specifico di Zagaria il magistrato competente sostiene di aver chiesto più volte l’indicazione di una struttura adeguata per l’ospedalizzazione in sicurezza, senza avere risposta. Ha quindi fatto prevalere, in quel caso specifico e di fronte a un’inefficienza del sistema che non gli può essere imputata, l’esigenza della tutela della salute su quella di sicurezza. È necessario che siano presenti sempre delle strutture adeguate perché una persona, anche se detenuta, possa ricevere cure appropriate. La nostra Costituzione, nell’articolo 32 sulla tutela della salute dice che si tratta di un diritto fondamentale che vale per tutti, anche per i detenuti. Il terzo di questi casi eclatanti concerne una decisione che ha riguardato una persona al 41bis ma non condannata in via definitiva, che non ha preso il magistrato di sorveglianza ma una specifica corte che, fatte le sue valutazioni, avrà ritenuto di poterla prendere. Mi sembra in sostanza che si sia determinato un grande allarme attorno a cose che hanno specifiche motivazioni che, più che il clamore della dichiarazione ad effetto, meriterebbero invece capacità politica in senso alto, ossia capacità di governare i processi, di controllare che non ci siano abusi senza utilizzare toni urlati e facendo capire alla collettività che sicurezza e tutela della salute delle persone non sono diritti in contrasto l’uno con l’altro. In questo mi sento di dire che non c’è una responsabilità ministeriale nell’alimentare i toni urlati, ma anche che sarebbe un errore cedere a questo tipo di pressioni con provvedimenti che rischiano di segnare un passo indietro nel percorso intrapreso. Ora che ci interroghiamo sulla ripresa delle attività, su una riapertura che è anche vista come un nuovo inizio, potendo indicare tre priorità dalle quali ripartire, quali individuerebbe? In primo luogo riprendere gradualmente una normalità detentiva, ma con grande cautela perché all’interno del carcere valgono le stesse indicazioni che al di fuori di esso, ossia che sarebbe un errore pensare che tutto sia finito. Quando in un sistema, come quello carcerario, continuano ad entrare altre persone è necessario adottare tutte le precauzioni del caso. Credo inoltre che il carcere debba sperimentare, passo dopo passo, anche delle ipotesi di riapertura verso gli affetti e verso la ripresa delle attività al suo interno. Proprio durante il lockdown i detenuti hanno potuto usufruire, anche se limitatamente, di collegamenti via smartphone con i propri cari; un provvedimento che ha contribuito a calmare le acque quando si erano più agitate in concomitanza dell’interruzione delle visite. In secondo luogo, continuare con la riduzione dei numeri della popolazione carceraria, perché ancora adesso siamo, con 53.000 detenuti, ben oltre i limiti di capienza previsti. Non dovremmo farci trovare impreparati da una eventuale ripresa del contagio. Invece di dire “indietro tutta” bisogna continuare sulla via della riduzione, per far coincidere quanto meno posti disponibili e presenze. E dobbiamo soprattutto garantire tutte le tutele alle persone che lavorano in carcere, polizia penitenziaria ed educatori, che meritano lo stesso plauso che abbiamo riservato al personale sanitario. Infine, occorre non abbandonare alcune pratiche innovative che abbiamo sperimentato essere positive, a partire dal già citato collegamento con le famiglie via smartphone. Comunicare con le famiglie per quei 44.000 detenuti che nulla hanno a che fare con l’alta sicurezza e portare avanti alcune forme di comunicazione con i propri ambienti di provenienza, sapendo cogliere elementi positivi anche da un’esperienza negativa come quella che abbiamo vissuto. Una campagna profondamente pericolosa di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 9 maggio 2020 La campagna sulle scarcerazioni facili è ricca di imprecisioni, generalizzazioni, nonché profondamente rischiosa. Rischia di fare molto male a tutta la comunità penitenziaria. In primo luogo alla gran massa dei detenuti che con la mafia non c’entra nulla e che ora potrebbe subire un’ondata di chiusure. Va ribadito che l’affollamento carcerario non consente quel distanziamento fisico che i virologi ritengono decisivo per evitare la diffusione del contagio. La riduzione della popolazione detenuta avvenuta negli ultimi due mesi- da 61 a 53 mila - è frutto, per parti più o meno uguali, di provvedimenti di detenzione domiciliare e mancati nuovi ingressi. Se non ci fosse stata questa riduzione globale nei numeri, ancora insufficiente visto che in alcune celle si vive in sei in meno di 20 metti quadri, forse avremmo avuto decine di nuovi focolai ingestibili, al pari delle Rsa. In secondo luogo la campagna sulle scarcerazioni, così come è condotta, fa male a tutti quei direttori, educatori, medici, poliziotti penitenziari che, con coraggio, umanità e abnegazione sì sono impegnati per trovare soluzioni alloggiative esterne peri più vulnerabili e per accelerare le procedure di liberazione. In terzo luogo fa tanto male allo stato di diritto - che si fonda sull’indipendenza del potere giudiziario - e a tutti quei giudici- di cognizione e sorveglianza- che si sono affidati a ragionevolezza e senso istituzionale, assumendo provvedimenti di deflazione utili ad evitare quella deriva inumana che, ad esempio, nel mondo penitenziario Usa ha prodotto finora numeri esplosivi: 23.500 detenuti positivi, 323 morti trai detenuti e 35 tra le guardie. Se non ci fossero stati quei giudici, quei direttori, quegli educatori, quei medici e quei poliziotti ora non staremmo a discutere di mafia ma di morti e terapie intensive. La campagna sulle scarcerazioni è imprecisa in quanto si mischiano cose molto diverse tra loro. I detenuti sottoposti al regime 41bis scarcerati sono solo tre. Gli altri 373 detenuti di cui si parla non erano stati ritenuti così pericolosi dalla magistratura anti-mafia da essere sottoposti al regime duro. Più della metà era in custodia cautelare e dunque si trattava di persone presunte innocenti. Il primo aprile scorso, il procuratore generale presso la Corte di Cassazione inviò una nota a tutti i procuratori generali sul tema della custodia cautelare sollecitando “opzioni... per ridurre la presenza in carcere... allo scopo di contribuire alla miglior prevenzione del rischio di contagio da coronavirus durante la fase emergenziale”. La restante parte ha avuto provvedimenti di detenzione domiciliare per motivi di salute. Si sono espressi oltre cinquanta magistrati di sorveglianza. Spero non si dubiti di tutti loro. Siamo quasi a metà maggio e non sono venute meno le ragioni per ottenere una riduzione della popolazione detenuta per ridurre i rischi di contagio nelle carceri visto che ci sono ancora 7 mila persone in più rispetto ai posti letto regolamentari. Inoltre, sempre per il gusto della correttezza informativa, si deve rammentare che: 1) le misure previste dall’articolo 123 del decreto legge cura Italia sulla detenzione domiciliare sono a tempo determinato e comunque escludono í reati di cui all’art 4bis tra cui quelli di mafia; 2) tutti i provvedimenti dell’autorità giurisdizionale fondati su motivi di salute possono essere modificati o revocati solo dalla stessa magistratura; 3) nella legislazione italiana non sono ammessi provvedimenti retroattivi in materia penale; 4) non ci potrà mai essere una norma che neghi per sempre il diritto alla salute ad alcune categorie di detenuti perché sarebbe incostituzionale. Infine, quando ci si indigna per un 85enne malato che va agli arresti domiciliari si ricordino le parole di papa Francesco: “Nel Codice penale del Vaticano non c’è più l’ergastolo. L’ergastolo è una pena di morte nascosta”. No, il carcere non è un talk show di Sofia Ciuffoletti Il Foglio, 9 maggio 2020 La polemica sul diritto alla salute dei detenuti e la gestione del sistema penitenziario costretta a inseguire umori e dibattiti televisivi. La politica del diritto, in particolare la politica del diritto penale e penitenziario può essere dettata da umori, momenti storici, emergenze e contingenze. In Italia anche da trasmissioni televisive. E pensare che nella saga accidentata della gestione dell’emergenza Covid-19 in carcere, si era prodotto un effetto indiretto legato alla resa a effettività della tutela della salute in carcere. Vale la pena ricordare che, dal 2008, la salute è garantita, nelle patrie galere, dallo stesso servizio sanitario nazionale (o meglio regionale) nel rispetto del principio di equivalenza delle cure (prima così non era, la salute delle persone detenute era gestita dalla sanità penitenziaria alle dirette dipendenze del ministero della giustizia…). Questa “rivoluzione” è stata segno di civiltà giuridica e doveva contribuire a ricucire quello strappo nell’effettività del diritto alla salute, alla riservatezza, alla dignità tra società dei liberi e società dei reclusi. D’altronde, già il legislatore fascista del codice penale Rocco aveva introdotto due norme, gli articoli 146 e 147 del codice penale, con cui si inserivano nell’ordinamento le misure del differimento obbligatorio e facoltativo della pena in caso di incompatibilità con il regime carcerario dovuta a condizioni di salute di eccezionale gravità. Insomma, le persone detenute restano persone, si ammalano, anche gravemente, eppure mantengono intatto il proprio diritto alla salute, a prescindere dal reato commesso. A maggior ragione in una situazione di emergenza sanitaria pandemica. Per questo, oggi, la magistratura di sorveglianza, usando uno strumento antico (e in assenza di misure specifiche ed effettive di deflazione carceraria), sta valutando tutte le situazioni di incompatibilità con il regime carcerario, anche per ragioni di salute, concedendo spesso, non il differimento della pena (una vera e propria sospensione delle istanze punitive dello stato con rimessa in stato di libertà), ma una misura più contenitiva che dal differimento pena trae origine, ossia la detenzione domiciliare in luogo di differimento, che coinvolge una sfera di bilanciamento con la dimensione della sicurezza. E questo anche nei casi di persone detenute per reati gravi di criminalità organizzata che d’altra parte sono spesso quei detenuti anziani, portatori di patologie gravi, spesso con esito infausto, che non possono accedere ad altri tipi di misure alternative (non a caso Vincenzo Sucato, in attesa di giudizio per reati di criminalità organizzata e ristretto in un circuito di “alta sicurezza”, è stato il primo detenuto morto a causa di Covid-19). Tra l’altro è ancora pendente la procedura di esecuzione della sentenza della Corte Edu sul caso Provenzano. L’Italia era stata condannata per l’automatismo della procedura di proroga del regime del 41bis, in particolare per la mancanza di una esplicita valutazione del deterioramento dello stato cognitivo di Provenzano (malato di varie patologie croniche, tra cui il morbo di Parkinson con grave deterioramento delle funzioni cognitive, negli ultimi anni allettato, idratato e alimentato totalmente mediante un sondino naso-gastrico). La Corte Edu, in particolare, chiede all’Italia di garantire che siano i giudici a decidere caso per caso, con riguardo al contemperamento delle esigenze di tutela della sicurezza pubblica e a quelle di salvaguardia dei diritti delle persone detenute. Per un circolo virtuoso le ordinanze di attento contemperamento delle esigenze di sicurezza con la valutazione della compatibilità delle condizioni cliniche con il carcere, in particolare al tempo del coronavirus, della magistratura di sorveglianza sono perfettamente in linea con quanto chiesto dalla Cedu al nostro paese. Questo non poteva essere, forse, ed ecco che, dopo mediatiche spinte, è intervenuto il d.l. 28/2020 che (tra le altre e più varie materie) introduce “Disposizioni urgenti in materia di detenzione domiciliare e permessi”. In breve si tratta di subordinare la concessione di alcune misure penitenziarie, per persone condannate per reati gravi o sottoposte a regime di 41bis, al parere (obbligatorio, ma non vincolante) del procuratore generale presso la corte d’appello e del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. E questo per due misure come i permessi per gravi motivi familiari, Gmf nel gergo penitenziario (concessi in caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente o di eventi familiari di particolare gravità, spesso concessi tramite scorta) e la detenzione domiciliare in luogo di differimento (in caso di donna incinta, madri con bambini piccoli e in caso di malattie gravi) che sono caratterizzate dalla necessaria tempestività di istruttoria e decisione. Ora però, dato che è chiaro anche al Governo, evidentemente, che misure di questo genere o vengono prese in tempi rapidi o sono totalmente prive di effettività e siccome il lavoro delle procure (in tempi in cui il personale è già fortemente contingentato) verrebbe appesantito oltre misura dall’obbligo di elaborare il parere, il decreto prevede una “clausola di salvezza”, i Gmf e le detenzioni domiciliari, infatti, possono essere comunque concesse dal magistrato di sorveglianza senza attendere i pareri, se ricorrono “esigenze di motivata eccezionale urgenza”, così come lo stesso magistrato può decidere comunque se i pareri non arrivano entro 24 ore dalla richiesta per i Gmf ed entro 2 e 15 giorni (rispettivamente per il parere del procuratore generale presso al corte d’appello e per il procuratore nazionale antimafia) dalla richiesta per le detenzioni domiciliari. Dobbiamo davvero chiederci quali effetti si vogliono produrre con questo tipo di norma. Inattaccabile, forse, dato che esiste la clausola di salvezza di cui sopra e quindi in molti casi semplicemente inutile sul piano giuridico, ma altamente performativo in termini di creazione di una “cultura” comune intorno alla pena, alla detenzione e alla salute dei detenuti. E, certo, stiamo parlando di salute di persone che è usuale considerare indifendibili. Ma difendere i diritti incomprimibili degli indifendibili (e non è facile) è il compito dello stato. Che lo stato si assuma questo compito, che lo rivendichi e che cominci a conoscere quella umanità reclusa da cui è più facile sentirsi antropologicamente distanti. D’altra parte il coraggio dell’azione politica (anche quella imposta dalla stessa Costituzione) “uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”. E forse queste misure, che per fortuna sul piano interpretativo non impediranno di rendere effettivi i diritti di dignità e salute delle persone recluse a qualsiasi titolo in carcere, sono figlie di un’umanità che non conosce e che ripudia il carcere, pur sostenendolo con tutte le sue forze. E invece, io credo, dobbiamo tornare a scoprire i tempi in cui chi scriveva il testo costituzionale, i padri e le madri costituenti, aveva al contempo conosciuto la galera e l’umanità reclusa. Come scriveva Elvio Fassone, “l’istanza rieducativa non è un portato di una scuola, ma il frutto di una nuova sensibilità politica. Molti dei Costituenti hanno sperimentato le galere fasciste, hanno inverato la loro funzione di intellettuali in una lunga prassi politica, e in un contatto reale con il tipo di umanità che vive nelle prigioni”. Rimpiangere il passato è quasi sempre uno sport di corto respiro, a volte è invece segno di resistenza culturale. Decreto “riacchiappa mafiosi”: casi rivisti ogni 15 giorni e arresti negli ospedali penitenziari di Lana Milella La Repubblica, 9 maggio 2020 Il testo Bonafede all’esame della maggioranza. È pronto il decreto “riacchiappa mafiosi”. Un vertice di maggioranza in cali, svoltosi ieri sera, tra il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, Pd, Leu e Italia viva, ha dato il via libera. Quattro articoli. Che fissano un nuovo, importante, e stringente termine. Non un mese, com’era trapelato. Ma solo 15 giorni. Nel senso che ogni 15 giorni i magistrati di sorveglianza dovranno verificare le condizioni che hanno consentito fino a oggi di concedere gli arresti domiciliari ai detenuti che ne hanno fatto richiesta. Non solo: dovranno anche rendersi conto se negli ospedali penitenziari in cui è possibile ricoverare detenuti malati si siano liberati dei posti per accoglierne di nuovi. Posti che possono essere anche previsti negli ospedali ordinari. Ovviamente non si tratta di un ordine di nuova carcerazione, ma di una regola che si inserisce nella concessione dei domiciliari, per i quali comunque il magistrato deve verificare le condizioni. Superati anche i problemi di costituzionalità, perché l’autonomia e indipendenza dei singoli giudici resta intatta, ma si agisce solo sulle condizioni possibili per dare i domiciliari. Quali saranno i tempi del decreto? Il testo, dopo le limature, potrebbe essere approvato in un consiglio dei ministri ad hoc da tenere oggi oppure confluire nel decreto Maggio per cui è previsto un consiglio tra domani e lunedì. Un consiglio dovrà anche nominare formalmente il nuovo direttore del Dap Dino Petralia che ha ottenuto il fuori ruolo dal Csm, ma non è ancora insediatile. Per questo il ministro ha firmato il decreto per nominare un reggente per pochissimi giorni. si tratta del vice direttore più anziano, una figura storica del Dap, e cioè Riccardo Turrini Vita. Ma che succede nel frattempo con Bonafede? L’obiettivo è “blindare” il ministro della Giustizia. Tecnicamente col decreto “riacchiappa mafiosi”. Politicamente discutendo prima alla Camera e poi al Senato, tra martedì e mercoledì, le sue ragioni su scarcerazioni e Di Matteo. Poi, senza fretta, mettere al voto al Senato la mozione di sfiducia del centrodestra, ma unendola a quella contro il titolare del Mef Gualtieri. Mozione su cui i renziani hanno già lasciato intendere che voteranno no, come dice Ettore Rosato, in cambio di qualche buon segnale sulla prescrizione. E Conte? Per il premier il Guardasigilli non si tocca. Nuovi obblighi per limitare le scarcerazioni di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 9 maggio 2020 Bonafede ancora al lavoro sul decreto legge, i tribunali si dovranno rivolgere prima al Dap. Tensioni sul ministro tra Italia Viva e 5 Stelle. Una modifica dell’ordinamento penitenziario permetterà di revocare gli arresti domiciliari o le altre misure alternative per i detenuti al “41bis” o considerati più pericolosi nel momento in cui venissero meno le condizioni che le hanno provocate. È un nuovo tassello del decreto legge antiscarcerazioni di cui s’è ancora discusso ieri in un nuovo vertice serale tra il ministro della Giustizia grillino Alfonso Bonafede, il sottosegretario del Pd Andrea Giorgis e gli altri responsabili dei partiti di maggioranza. n più - oltre alla rivalutazione immediata sulla base delle mutate condizioni sanitarie e poi periodica dei provvedimenti emessi nelle ultime settimane da parte dei giudici di sorveglianza - sarà introdotto l’obbligo di interloquire con l’Amministrazione penitenziaria per trovare posti nelle strutture protette degli ospedali convenzionati con le carceri, che la nuova gestione del Dap sta ampliando proprio in questi giorni. Accertata l’assenza di soluzioni alternative, i domiciliari dovrebbero essere accompagnati dall’uso del braccialetto elettronico, ma resta incerta l’obbligatorietà. In attesa che il decreto veda la luce Italia viva si aspetta indicazioni anche dal premier Conte per decidere quale atteggiamento prendere sulla mozione presentata dall’opposizione contro Bonafede. Ma oltre alla difesa di Di Maio, il blog dei Cinque Stelle avverte: “Non ci piacciono le minacce. Sfiduciare lui è sfiduciare tutti noi”. Boss a casa, Bonafede in alto mare. Il Quirinale vigila sul decreto di Francesco Grignetti La Stampa, 9 maggio 2020 Si cerca di evitare il rischio incostituzionalità. In settimana il testo all’esame del governo. Non tutti i passaggi sono a posto. E quindi è ancora da definire il decreto che il ministro Alfonso Bonafede avrebbe voluto annunciare all’Italia già due giorni fa. I profili di costituzionalità sono delicatissimi e al Quirinale, dove un testo non è ancora arrivato, mostrano fiducia nei tecnici legislativi del ministero della Giustizia, che mai potrebbero scalfire autonomia e indipendenza della magistratura. Tra martedì e mercoledì, il ministro sarà in Parlamento per affrontare il tema delle scarcerazioni. Nel frattempo si pensa che il consiglio dei ministri avrà deliberato il meccanismo delle revisioni da parte della magistratura di Sorveglianza. Il tema è il reale pericolo di contagio, se il rischio sia attuale o no. Nella lista dei 456 scarcerati (la somma dei 376 fino al 25 aprile, più gli 80 dei dieci giorni seguenti) tra l’altro non sono soltanto boss vecchi e malati, gli scarcerati di questi giorni. Ci sono anche molti giovani. C’è ad esempio Gian Claudio Vannicola, 38 anni, arrestato nell’ambito di una spettacolare operazione dei carabinieri nel gennaio scorso a San Basilio, nella periferia di Roma, con l’accusa di essere uno degli organizzatori della piazza di spaccio che aveva come vertice la famiglia Marando di Platì (Reggio Calabria). Vannicola, in costante contatto con i calabresi, non aveva documentato un particolare stato di salute e la procura di Roma si era opposta alla scarcerazione, ma ora è ai domiciliari. Simile la posizione di Christian Primavera, 26 anni, arrestato 1’8 novembre 2018 e accusato - insieme ad altri due giovanissimi - di essere il capo dello spaccio al Tufello. Ha sostenuto di aver avuto una polmonite negli anni precedenti e a causa dell’emergenza coronavirus è stato scarcerato. Anche per lui, la procura aveva dato parere negativo alla scarcerazione. Due pesci abbastanza piccoli, eppure erano detenuti nel circuito di Alta Sicurezza 3. Siccome una buona metà degli scarcerati è tornata nel Napoletano, è lì che c’è la preoccupazione maggiore. Si prenda il caso del comune di Arzano, a un tiro di schioppo da Scampia, territorio del clan Amato-Pagano. Ad Arzano sono rientrati Giosué Belgiorno, classe 1990, un giovane sicario di camorra, condannato a 20 anni per avere ucciso a badilate un avversario. E ad Arzano è rientrato anche Pasquale Cristiano, 1989, boss emergente fino al suo arresto nel 2014. Il loro arrivo fa temere che si apra un conflitto perché nel frattempo la cosca di Arzano si è sottomessa al potente clan di Secondigliano e secondo i giornali locali, i due non accetterebbero la nuova situazione. Si trema anche in Puglia, ad Andria: Valerio Capogna, 27 anni, figlio di Vito, che fu ucciso in un agguato due anni fa, assieme al fratello Pietro aveva deciso di vendicare la morte del padre. I due fratelli sono stati arrestati nel febbraio scorso per detenzione di armi, compreso un kalashnikov. Piano omicida aggravato dal metodo mafioso. In Sicilia, a Catania, torna a casa Andrea Venturino, 24 anni, cognato del boss Andrea Nizza. Era stato arrestato nel 2016 dai carabinieri nell’operazione Carthago, che ha sgominato un ramo del clan Santapaola. Li chiamavano “i picciotti di Librino” ed erano disposti a uccidere per garantirsi l’egemonia sullo spaccio. Trema anche la provincia di Reggio Calabria, seconda per numero di scarcerati che sono tornati a casa nell’ultimo mese. Rientra a Lamezia Terme, ad esempio, il giovane Marco Cosimo Passalacqua, classe 1997, condannato in primo grado a 8 anni nel processo Crisalide, l’operazione che fece sciogliere il Comune per infiltrazione mafiosa. Scarcerazioni, la rete di Colle e premier per blindare Bonafede di Emilio Pucci Il Messaggero, 9 maggio 2020 Italia Viva abbassa i toni ma il Pd non si fida: meglio rinviare il voto sulla sfiducia. È vero che i renziani la mozione di sfiducia del centrodestra targata Salvini difficilmente la voteranno ma visto che Bonafede non è un ministro qualunque Pd, Leu e M5s provano a far quadrato. Martedì nell’informativa che il Guardasigilli terrà alla Camera ci sarà una difesa d’ufficio, così il giorno successivo al Senato, anche se i dem hanno consigliato il ministro della Giustizia di rinviare l’appuntamento a palazzo Madama. Troppa la tensione sul caso Di Matteo e soprattutto sulla storia delle scarcerazioni dei boss. Il Quirinale si tiene lontano dalla prima questione. Ma per quanto riguarda la seconda c’è la convinzione che Bonafede agirà nel solco della Costituzione, visto che non si può intervenire con legge sulle ordinanze o sulle sentenze della magistratura perché verrebbe meno il principio di separazione dei poteri. Nessun warning e non c’è intenzione di intervenire su un provvedimento che spetta al governo preparare. Del resto gli uffici legislativi del ministero della Giustizia sono a conoscenza dei limiti costituzionali che il dl non può oltrepassare. Tra l’altro il Colle ha ben chiaro che le scarcerazioni sono dovute a ordinanze della magistratura, che quella decisione non è in capo al ministro, spetta solo ai giudici. La misura in elaborazione prevede una sorta di tribunale del riesamè, che i giudici di sorveglianza possano disporre una nuova valutazione (resta quindi l’insindacabilità delle scelte dei magistrati che non potranno in alcun modo essere annullate) entro il termine di 30 giorni. Ma la questione resta complessa, in quanto molti giudici già hanno fatto sapere che dovrà essere il Dap ad assumersi la responsabilità, garantendo le condizioni sanitarie per chi è fuoriuscito dal carcere. Un rompicapo giudiziario (in realtà nell’elenco di quelli che sono stati scarcerati solo 3 sono al 41bis) che rischia comunque di creare un incidente in Parlamento. A sminare il terreno non sarà solo il varo del dl che dovrebbe approdare sul tavolo del Cdm prima o parallelamente al dl sulle misure economiche. Per blindare il capo delegazione M5S si è mosso direttamente Conte. “Basta scontri”, su un tema che riguarda gli italiani, chiederà il premier che sta tessendo una tela’ di protezione. Già due giorni fa ha chiesto alla delegazione di Iv di non fare scherzi. Per fortuna del governo si è mosso anche Salvini. “Nella direzione sbagliata”, dicono molti moderati di FI perplessi sulla strategia della mozione di sfiducia. “Così abbiamo compattato la maggioranza”, la tesi. Del resto ieri lo scontro era tra il Capitano e i ministri renziani, con il Pd che interpreta l’attendismo di Renzi sulla mozione di sfiducia come un bluff. “Non farà mai cadere il governo”, il refrain. Anzi c’è chi tra i dem e M5s scommette che presto l’ex premier cambierà schema. Se dovesse incassare il sì al piano sulle infrastrutture “si vestirà da responsabile per cercare di risalire nei consensi”, il ragionamento. In una querelle che è diventata tutta politica martedì l’azzurro Costa lancerà un appello nell’Aula di Montecitorio: “Voltiamo pagina. Superiamo gli steccati dei partiti e stringiamo un patto a prescindere dalla durata del governo”. La riforma della giustizia insomma come la riforma della legge elettorale. Il decreto anti domiciliari c’è. Ma non si vede ancora di Errico Novi Il Dubbio, 9 maggio 2020 Trattativa sfibrante nella maggioranza sulle norme che “inviteranno” i giudici a rivalutare le scarcerazioni visto il ridursi dell’emergenza Covid. Se il Dl economico arrivasse entro domani in Consiglio dei ministri, vi troverebbero posto anche le misure sui giudici di sorveglianza. Altrimenti saranno introdotte con un provvedimento a parte. Si è conclusa solo nella tarda serata di ieri la call conference tra il guardasigilli Bonafede e le “war room giustizia” della maggioranza. Si è discusso su ogni virgola delle misure “anti domiciliari”. Che non dovrebbero essere introdotte con un provvedimento autonomo ma confluirebbero nel decreto Rilancio, il maxi provvedimento di maggio con gli aiuti economici. È quanto meno l’intenzione dell’esecutivo, subordinata però all’effettivo timing del Consiglio dei ministri. Se il Dl sulla liquidità fosse deliberato entro domani, vi troverebbero posto anche le norme sulle scarcerazioni. Se viceversa la maggioranza non trovasse l’intesa definitiva sul maxi decreto, domani il governo si riunirebbe per varare il solo decreto di Bonafede. Cosa prevedrà il decreto “anti domiciliari” - Nelle nuove norme sull’esecuzione penale ci sarà in ogni caso il vincolo a rivalutare le ordinanze di differimento pena in relazione all’emergenza coronavirus, che sarebbe esplicitamente richiamata nel testo, anche per giustificarne l’urgenza. Si proverà a non travalicare le competenze del giudice di sorveglianza: sarà previsto che debba riconsiderare l’ordinanza di scarcerazione tenuto conto dei mutamenti della condizione presupposta, vale a dire del fatto che l’emergenza sanitaria in corso si è attenuata rispetto al momento in cui aveva emesso il provvedimento. Sarà istituita anche la verifica congiunta da parte del Tribunale e del Dap sulla possibilità di assegnare i detenuti per reati di mafia a strutture ospedaliere interne alle carceri, se disponibili. Si tratta insomma di tenere in continuo monitoraggio le 180 misure di differimento pena emesse fino al 30 aprile scorso per condannati di mafia e narcotraffico (nella famosa cifra dei 376 ci sono anche i reclusi cautelari non ancora arrivati a sentenza). A breve potrebbero essere concessi i domiciliari anche ad alcuni degli oltre 230 detenuti di mafia in attesa di giudizio che ne hanno fatto istanza, ma a ieri sera si escludeva di poter sottoporre a particolari vincoli i giudici delle indagini preliminari o del processo, a cui competono simili decisioni. Il che rischia di aggravare la lesione all’autonomia dei magistrati di sorveglianza, trattati ancora una volta come “amministratori della pena”. O al massimo come giudici di serie B, mentre quelli in “premier league” non vedrebbero condizionata la propria discrezionalità. In realtà il decreto in arrivo dovrebbe prevedere una rivalutazione straordinaria anche per chi ha ottenuto la commutazione della misura cautelare da inframuraria a domiciliare. Ma si tratterà di una sollecitazione imposta alle Procure, che verrebbero “invitate” a impugnare le ordinanze cautelari sempre alla luce dell’attenuato rischio contagio. Le polemiche di Cafiero de Raho e Di Matteo - La domanda è se non siano già complicate le norme esistenti. Perché se persino un giurista di spessore come il procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero de Raho si meraviglia dei timori di contagio per chi è detenuto al 41bis, “in isolamento” e dunque non infettabile, vuol dire che le polemiche hanno seppellito pure i testi di legge. Intanto perché i 41bis scarcerati per motivi di salute al tempo del covid finora ammontano ad appena 3 sui 376 domiciliari concessi a condannati e accusati di mafia o narcotraffico. E poi perché, come si legge per esempio nell’ormai pubblica motivazione del provvedimento che ha fatto uscire Pasquale Zagaria dalla sua cella, il riferimento è l’articolo 147 del codice penale. Si dirà: bè, l’avrà modificato Alfonso Bonafede. E no. Si tratta di una norma del codice Rocco. Roba fascista. Altro che giudici, e governo, lassisti coi boss. Cafiero de Raho conosce meglio di chiunque altro quelle leggi. Così le conosce il togato Csm Nino Di Matteo. E tutti quelli che tuonano contro il guardasigilli come se scrivesse ordinanze. Il caso Zagaria: la Costituzione vale anche al 41bis - “La preminenza dei diritti alla salute, e a non subire trattamenti inumani, sull’esecuzione della pretesa punitiva, nei casi in cui quest’ultima sia in conflitto con tali diritti, non è ovviamente derogabile neppure nei casi di assoggettamento del detenuto al regime del 41bis”: si legge così nel provvedimento che ha mandato Pasquale Zagaria, super-boss camorrista malato di cancro, a casa sua a Brescia. Lì, a quanto riferiscono i difensori, non ordisce trame casalesi ma appuntamenti oncologici. In un ospedale covid free lombardo ha fatto la Tac, e una esezione uretrale per verificare lo stato del tumore che non avrebbero potuto praticargli nella casa circondariale di Sassari. Ecco la terribile attività del super-boss: il controllo dell’uretra. Amara ironia a parte, di quell’ordinanza in realtà va colto solo un avverbio: “Ovviamente”. Ovviamente l’articolo 32 e l’articolo 27 della Costituzione valgono pure al 41bis. Md: “Dal decreto possibili ingerenze nelle decisioni di noi giudici” - Ciò detto, Mariarosaria Guglielmi, segretaria di una componente coraggiosa dell’associazionismo giudiziario qual è Magistratura democratica, rilascia al Dubbio una breve dichiarazione, in cui osserva, “in attesa di conoscere l’effettivo contenuto delle nuove disposizioni”, che “l’ipotesi di imporre per legge al magistrato verifiche sul pericolo di reiterazione del reato da parte del detenuto destinatario di differimento della pena, qualora fosse confermata, presenterebbe aspetti problematici”. “In particolare”, spiega la segretaria di Md, “potrebbe intravedersi una pericolosa ingerenza anche solo simbolica nelle decisioni del giudice di sorveglianza, che già ordinariamente fissa un termine per l’efficacia della misura con cui concede la detenzione domiciliare, e che provvede in seguito a un’istruttoria in cui acquisisce anche il parere della Procura”. La “famigerata” circolare del Dap sul covid - Un capitolo a parte riguarda il peso che nelle scarcerazioni ha avuto il covid. Visti i contenuti delle norme primarie in arrivo, non sarà necessario alcun aggiornamento della circolare firmata lo scorso 21 marzo dal direttore generale del Dap Giulio Romano. In quella disposizione, di rango secondario, si faceva riferimento addirittura a protocolli di organizzazioni internazionali sui pericoli per la salute dei reclusi. Secondo una vulgata che non trova particolari riscontri, alcuni magistrati di sorveglianza avrebbero trovato in quelle poche righe una copertura giuridico-formale decisiva. In realtà si deve sempre e comunque tornare agli articoli 146 e 147 del codice penale, quelli che Di Matteo e Cafiero de Raho conoscono benissimo e che esistono dai tempi del fascismo. Neppure sotto quella violenta dittatura si era pensato di subordinare a “esigenze di sicurezza” il diritto alla salute di un detenuto semi-moribondo. E ancora non erano neppure lontanamente alle viste gli articoli 27 e 32 della Costituzione repubblicana. Ora c’è rischio evasione per i boss scarcerati. “Annunciati arresti che non si possono eseguire” di Claudia Fusani notizie.tiscali.it, 9 maggio 2020 Il decreto annunciato mercoledì dal Guardasigilli in Parlamento sta incontrando difficoltà tecniche. Una legge non può correggere una decisione del giudice. Davanti ai Tribunali di sorveglianza pendono altre 456 richieste di scarcerazione “per motivi di salute e incompatibilità carceraria per sovraffollamento e rischio contagio”. La mozione di sfiducia al Senato. Italia viva rassicura il governo: “Non la voteremo”. Ma la gestione delle carceri è stata “disastrosa”. “Abbiamo dovuto raddoppiare i turni di sorveglianza e allertare tutti i servizi, aver annunciato il decreto per riportare in carcere i boss che hanno ottenuto gli arresti domiciliari non è stata una grande idea…il rischio evasione è molto alto”. Il vicequestore è in servizio in una delle regioni d’Italia dove sono tornati almeno una dozzina dei 376 scarcerati nelle scorse settimane. Chiede comprensibilmente di restare anonimo. E lancia un vero e proprio allarme spiegando come stanno vivendo da un paio di settimane gli apparati dedicati alla sicurezza dello Stato quella che è una polemica politica, la sfiducia a un ministro, le possibili conseguenza sulla tenuta del governo. “Quelle 376 scarcerazioni, che tanto quello sono nei fatti, sono una sconfitta per lo stato di diritto, per gli uomini e le donne delle forze di polizia che magari hanno impiegato anni per rintracciarli e arrestarli interrompendo latitanze più o meno dorate, per i magistrati che hanno svolto le indagini e condotto i processi, per i cittadini che pagano le tasse per avere, anche, la certezza della pena. Adesso ci manca solo che uno di questi riesce a far perdere le tracce”. Ecco cosa succede nella vita reale, fuori dai palazzi e dai ministeri. Dove l’allarme evasioni segna rosso da mercoledì, appunto, quando il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha annunciato nel question time alla Camera che era pronto “ad horas un nuovo decreto legge per riportare in carcere i boss scarcerati per motivi di salute”. Motivi amplificati, trapela dai provvedimenti della magistratura di sorveglianza, anche dal contesto e dal rischio contagio che in carcere sorprende le persone certamente più indifese. La corsa per il decreto - Da qui la corsa e la fatica per scrivere un decreto partito però con l’handicap di sembrare una correzione e un rattoppo della politica rispetto a decisioni che la magistratura (in questo caso di sorveglianza) assume in totale autonomia. È impossibile, oltre che inammissibile da un punto di vista costituzionale, che una legge corregga una sentenza. Ieri fino al primo pomeriggio girava voce che “in serata ci sarebbe stato un cdm per approvare il decreto”. Ma non è facile scriverlo. Il Quirinale vigila per chiudere il prima possibile e con eleganza questa brutta situazione. Gli alleati di governo voglio controllare ogni virgola, ed è comprensibile dopo quello che è successo: il Pd, con il sottosegretario De Giorgis e il responsabile Giustizia Walter Verini, collabora per una soluzione; Italia viva fa quello che deve avendo congelato le ostilità su Bonafede (per mesi nel mirino di Iv contro la prescrizione infinita) e seppellito l’ascia giovedì pomeriggio nel faccia a faccia con Conte. Il decreto intende riportare in cella (o in spazi sanitari all’interno di strutture ad hoc) i boss fuoriusciti dal carcere. La misura dovrebbe dare la possibilità ai giudici di sorveglianza di fare “nuove valutazioni” entro trenta giorni. Sarà una sorta di Tribunale del riesame del Tribunale di sorveglianza che non prevede alcun tipo di annullamento delle decisioni già prese. Preoccupa un po’, anche Conte, quanto ha detto Bonafede giovedì: “L’indipendenza dei giudici di sorveglianza è sacra, applicano la legge. Ma le leggi le scriviamo noi. I domiciliari sono stati concessi per l’emergenza sanitaria. Ma ora le condizioni sono cambiate”. Il confine e quindi lo spazio di azione è molto sottile. Le decisioni dei magistrati sono insindacabili e i tecnici di via Arenula, per lo più magistrati, sanno perfettamente quali sono i limiti costituzionali che il decreto non può varcare: le scarcerazioni sono dovute a ordinanze della magistratura e non si può intervenire con legge sulle ordinanze o sulle sentenze della magistratura perché verrebbe meno il principio di separazione dei poteri. Il punto è che l’errore, l’ennesimo in questa storia, è stato commesso mercoledì con l’annuncio di un decreto: se una legge non può smentire una sentenza, non si è mai sentito un ministro della Giustizia che annuncia degli arresti. Altri 456 - Occorre fare presto. È necessaria una norma che eviti che altri 456 detenuti che hanno fatto richiesta di andare agli arresti domiciliari per motivi di salute aggravati dal rischio contagio e dal sovraffollamento possano andare agli arresti domiciliari. Lo stratagemma individuato potrebbe essere quello della “revisione mensile” dei provvedimenti presi dalla magistratura di sorveglianza che già sottodimensionata potrebbe però non riuscire a sostenere questo nuovo aggravio. E la promessa del ministro potrebbe risultare alla fine una pezza peggiore del buco. Due mesi terribili per Bonafede, iniziati ai primi di marzo con la rivolta nelle carceri causa Covid - ma probabilmente strumentalizzata dai boss che hanno intravisto nell’emergenza sanitaria l’occasione per uscire. I due mesi più difficili - Se l’accusa del pm antimafia Nino Di Matteo ora membro togato del Csm - “nel 2018 Bonafede mi offri la guida del Dap ma in 24 ore cambiò idea, c’erano state pressioni dei boss per evitare che io ricoprissi quel ruolo” - sono state la miccia di questo gigantesco pasticcio, nessuno oggi sospetta che il Guardasigilli possa essere stato condizionato nella sua scelta di due anni fa. Anche la scorsa settimana, dopo le dimissioni dell’ex numero 1 del Dap Francesco Basentini, era girato nuovamente il nome di Di Matteo come successore. Il Dap ha cambiato i vertici - il ticket antimafia Petralia e Tartaglia - e Di Matteo è rimasto ancora una volta fuori. E forse questo ha provocato l’improvvida esternazione telefonica durante il talkshow “Non è l’arena”. Ma il periodo nero di Bonafede è iniziato due mesi fa: le rivolte in carcere causa Covid, i morti (13 detenuti, tutti tossicodipendenti), le richieste dei boss più vecchi e ammalati di ottenere il beneficio degli arresti domiciliari e ben 376 che sono già usciti. Le opposizioni e anche Italia viva, dalla maggioranza, hanno chiesto conto e ragione di quello che stava succedendo. Le dimissioni di Basentini non sono bastate. Le parole di Di Matteo hanno solo buttato altra benzina su un fuoco già acceso. Ma è sulle scarcerazioni, e non certo sulle parole di Di Matteo, che il ministro Bonafede adesso rischia il posto. Malumori in maggioranza - In un paese normale, senza emergenza sanitaria, si sarebbero già dovuti dimettere entrambi. Ma ora, se cade Bonafede, anche il governo rischia. Il Movimento lo difende a spada tratta: “Attaccare lui significa attaccare tutti noi” Lo protegge Conte che deve a Bonafede l’ingresso in politica. Lo protegge Di Maio: “Bonafede è straordinario, è il ministro spazzacorrotti”. La linea di palazzo Chigi è che “il via libera alle scarcerazioni non sia da collegare al Guardasigilli ma a decisioni singole dei giudici”. La via dello scaricabarile. Nel Pd c’è imbarazzo. Orlando ministro e Migliore sottosegretario furono granitici nel dire no alle scarcerazioni di Riina e Provenzano che furono assistiti nelle strutture sanitarie nei penitenziari. E anche nel Movimento ci sono delle crepe. Le guida Nicola Morra, presidente dell’Antimafia. Le amplifica chi sussurra: “Durante la quarantena Bonafede non è mai stato in ufficio ma a casa a Firenze…”. La mozione di sfiducia - In questo clima le opposizioni hanno presentato al Senato la mozione di sfiducia. Il premier, che ha il suo da fare con il decreto Rinascita per cercare di dare fiato ad un paese economicamente in ginocchio, non ne vuole sapere di perdere energie sul dossier Bonafede. Anche per questo ha accettato di convocare Italia viva, da sempre critica con il Guardasigilli con cui ha solo congelato la battaglia sulla prescrizione. Ai renziani Conte ha promesso di chiudere sulla regolarizzazione dei migranti che possono essere impiegati in agricoltura. Il Movimento, che faceva resistenza, ha abbozzato. Ettore Rosato, presidente di Italia viva, ieri ha confermato: “Voteremo No alla mozione di sfiducia contro Bonafede”. A Italia viva in fondo è più utile un ministro - e capodelegazione del Movimento - indebolito che agitare la crisi. Lega e Fratelli d’Italia all’attacco - Le opposizioni sono al lavoro per logorare il ministro della Giustizia. Forza Italia si gode la scena della lotta fratricida “tra due campioni del giustizialismo”, dei “puri che si epurano a vicenda”. I deputati di Fratelli d’Italia in Commissione antimafia ieri hanno provato a smontare lo schema di difesa del governo, cioè scaricare sui giudici di sorveglianza la responsabilità di quanto sta accadendo. “I documenti che il governo ci ha consentito di visionare in Commissione antimafia, aggiornati solo al 25 aprile - ha spiegato Wanda Ferro (Fdi) - dimostrano quanto sia fuorviante il tentativo del governo di scaricare sui giudici di sorveglianza la responsabilità delle scarcerazioni dei mafiosi con il pretesto del coronavirus. Infatti, secondo i dati ancora parziali, oltre 60 scarcerazioni non sono state richieste dai difensori dei detenuti, ma dall’amministrazione penitenziaria”. Il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli la mette così: “Se anche un solo dei boss usciti dovesse evadere, Conte e Bonafede fanno meglio ad espatriare”. Allungare i tempi - Palazzo Chigi vorrebbe approvare il prima possibile il decreto che riporta in carcere i boss. Ma è difficile che questo avvenga prima del decreto economico, in questo momento l’assoluta priorità. L’obiettivo è allungare il più possibile i tempi della mozione di sfiducia. Questo però non impedirà che Bonafede venga “sottoposto” nei prossimi giorni ad una serie di verifiche parlamentari. Il ministro parlerà martedì alla Camera. Il giorno successivo al Senato. Balla ancora l’audizione in Commissione Antimafia. E anche il Copasir lo vuole sentire sul rischio infiltrazioni mafiose nel tessuto economico nell’Italia piegata dal virus. Da una cosa, poi, è inevitabile passare all’altra. Ognuna di queste occasioni può diventare quindi una trappola. Ogni giorno può accadere qualcosa. Una nuova scarcerazione. O, peggio, un’evasione. Un logoramento che non aiuta il governo. “Giudici di sorveglianza delegittimati dai politici. Non liberiamo solo, applichiamo le leggi” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 9 maggio 2020 La presidente Fiorillo: scelte sempre motivate. Dietro ogni provvedimento c’è un lungo e difficile lavoro. Dottoressa Antonietta Fiorillo, presidente del Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza, la vostra categoria è sotto attacco? “Sì, ma con un termine in disuso direi incompresa. È come se la nostra funzione non fosse talvolta riconosciuta, anche all’interno della magistratura e dai rappresentanti delle istituzioni”. Vi sentite delegittimati? “Per forza. Se le nostre decisioni vengono utilizzate nella polemica politica, noi passiamo per quelli che scarcerano senza motivo, quando ovviamente non è così. Perché se scarceriamo ci sono dei motivi; e perché molte volte invece siamo noi a rimandare in carcere anche quei condannati lasciati agli arresti domiciliari dai giudici di merito quando commettono un reato nel corso dell’esecuzione pena in misura alternativa”. Che cosa la disturba di più delle ultime polemiche? “Il fatto che non venga considerato il lungo e difficile lavoro che c’è dietro ogni nostro provvedimento. È ingiusto far passare l’idea che non teniamo conto dei problemi della sicurezza; certo non ci facciamo condizionare dall’opinione pubblica, ma acquisiamo ogni informazione utile per evitare rischi alla collettività”. Ora dovete chiedere i pareri alle Procure scarcerare o concedere permessi ai detenuti per mafia e droga. Vi disturba? “Ma no! Semmai in quel decreto non c’è una parola per i “41bis”‘ che non scontano una pena definitiva, e mi pare una discrasia che non capisco. In generale ogni informazione utile è per noi un elemento in più per prendere la decisione giusta. Anche prima era prevista la possibilità di chiederle, ora è diventato un obbligo così il governo ha voluto dare la percezione di una stretta, ma il problema del parere delle Procure è un altro”. Quale? “Più che il parere a noi interessano i dati di fatto sui quali è fondato, ma se come spesso accade ci mandano l’elenco delle sentenze di condanna o dei procedimenti in corso, non ce ne facciamo niente: quegli atti li conosciamo già, sono il punto di partenza del nostro lavoro. A noi servono informazioni sull’attualità dei collegamenti con l’associazione mafiosa, i nuovi contesti criminali”. Però alcuni suoi colleghi hanno scarcerato capimafia sostenendo che l’età avanzata e la lunga detenzione ne riducono la pericolosità... “Non voglio parlare dei singoli casi, ma in generale dico che per i capimafia l’età avanzata non significa niente. Errori e valutazioni sbagliate sono sempre possibili, anche nei nostri provvedimenti, ma non si può generalizzare. Io credo che il nostro lavoro richieda un costante contatto con il carcere e i detenuti; bisogna guardarli in faccia, è necessario il dialogo e il confronto, non possiamo decidere solo sulle carte”. Pare che in futuro dovrete rivalutare periodicamente le vostre decisioni sulle scarcerazioni connesse al Covid. “Vedremo che cosa scriveranno, ma noi facciamo già verifiche periodiche a un mese, due mesi, sei mesi o di più, a seconda dei casi. Certo che se ci chiedono di rivedere le decisioni ogni quindici giorni si porrà anche un problema di organici per smaltire la mole di lavoro in più”. Insomma, non siete i giudici “buonisti” a cui piace liberare i detenuti? “Non credo che i miei detenuti abbiamo mai avuto la sensazione che lavorassi alla Caritas! Battute a parte, questa considerazione è solo frutto di pre-giudizi che andrebbero abbandonati una volta per tutte. Il nostro lavoro dev’essere giudicato verificando la capacità, la professionalità e il buon senso con cui viene svolto; e lo dico per tutta la magistratura, non solo quella di sorveglianza”. Come si fa a scegliere tra la salute del detenuto e la sicurezza della collettività? “La premessa è che secondo la nostra Costituzione la salute del cittadino, anche in condizioni di detenzione, viene prima di ogni altra cosa, dopodiché è un problema di bilanciamento da raggiungere su ogni singola situazione. Ma vorrei ricordare che il differimento della pena per gravi motivi di salute è previsto dal codice penale del 1930; e noi siamo giudici, non possiamo interpretare le norme a seconda dell’emotività dettata dal momento. Se poi quelle norme non sono più considerate consone al sentire comune si possono cambiare, ma compito della politica, non nostro”. “Il decreto del Guardasigilli rispetti il diritto alla salute e la separazione dei poteri” di Giulia Merlo Il Dubbio, 9 maggio 2020 Intervista a Francesco Clementi, costituzionalista. Davanti a questa crisi sanitaria e ai rebus di governo, la politica continua a fare fatica a parlare la lingua del diritto. Vale anche per il decreto annunciato (ma non ancora sostanziato in un testo) dal ministro della Giustizia, pensato per chiudere la falla che ha portato ai domiciliari alcuni boss nonostante il rischio di un’invasione di campo nei confronti della magistratura. “Un atto d’urgenza è già stato emanato. Ma è tempo di affrontare seriamente il tema del rapporto tra la certezza della pena e la tutela della salute: prospettiva che vale anche in un periodo di emergenza”, spiega Francesco Clementi, professore di Diritto pubblico comparato all’Università di Perugia. Quali sono questi paletti invalicabili? Il primo è il principio della separazione dei poteri. Il Guardasigilli è un membro dell’esecutivo e non a caso è l’unico ministro citato esplicitamente nella Costituzione: ha un ruolo di interfaccia con il potere giudiziario, la cui autonomia va garantita e tutelata. Il secondo paletto è il bilanciamento tra principi costituzionali: Nel caso di un decreto che incida sull’ordinamento penitenziario, si tratta di mantenere in equilibrio il principio della certezza della pena con l’articolo 27 della Carta, secondo cui la pena non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, e il 32, che tutela il diritto fondamentale alla salute. In quali termini potrebbe esserci il rischio di violare la separazione tra poteri dello Stato? Il punto focale è che la magistratura ha l’ultima parola nel definire il perimetro di libertà di un detenuto, parametrato in base alla Costituzione e al principio di legalità, architrave del nostro ordinamento. Nessun altro soggetto istituzionale può arrogarsi questo tipo di potere. Come si bilancia il diritto alla salute con l’esigenza di garantire l’effettività della pena detentiva? La domanda che l’estensore del decreto dovrebbe porsi è: può la tutela della salute essere adeguatamente tutelata in carcere? Se la detenzione non lo consente, allora è necessario disporre contromisure. E non solo in una fase eccezionale come questa. Un esempio è stato il caso Zagaria, malato oncologico a Sassari dove non poteva essere adeguatamente curato e trasferito ai domiciliari a Brescia in una struttura adeguata. Anche la detenzione in carcere deve essere fondata sulla tutela della salute e il compito del ministro è di rendere effettiva questa tutela. Se ciò non è possibile non ci sono provvedimenti d’urgenza che tengano. La tutela della salute, di chiunque, prevale. E la Magistratura può solo applicare questo basilare principio. Spetta al Ministro apprestare misure per garantire in carcere la salute dei detenuti, così da consentire l’esecuzione della pena nel rispetto della Costituzione. Quindi il decreto che, in seguito all’emergenza Covid, ha disposto i domiciliari per i detenuti in già precarie condizioni di salute, rispondeva a questo principio costituzionale. E un decreto che riporti questi detenuti in carcere non lo sarebbe? In realtà, il decreto non ha disposto i domiciliari per i detenuti. È stato solo chiesto alla Magistratura di valutare, alla luce dell’epidemia, se le condizioni della carcerazione fossero adeguate. Da costituzionalista le rispondo che è legittimo che, nel decreto, il ministro introduca ulteriori elementi che la magistratura deve valutare per decidere dell’eventuale detenzione domiciliare. Ma la valutazione spetta comunque ai magistrati, che sono tenuti ad applicare ciò che la legge prevede. In altre parole: il ministro può aggiungere nuovi criteri su come, dove e quando tutelare la salute dei detenuti, ma è comunque il magistrato che applica la norma al caso concreto, in modo autonomo. Insomma, l’Esecutivo non può alzare il dito per decreto e indicare chi sta dentro e chi sta fuori dal carcere. Altra previsione di cui si è discusso è la vincolatività del parere della Direzione nazionale antimafia per stabilire i domiciliari per ragioni di salute ai detenuti per reati di mafia. In questo caso esisterebbe un problema di costituzionalità rispetto al principio del giudice naturale? Dal decreto legge già all’esame del Senato il parere dell’antimafia è obbligatorio ma, correttamente, non vincolante. La magistratura deve dunque aspettare che si pronunci l’antimafia, ma può anche non tenerne conto, perché il parere non è vincolante. Il pm infatti è parte in questo procedimento, non decisore. La decisione, ripeto, spetta alla magistratura di sorveglianza che dovrà tenere conto del parere dell’antimafia, spiegando eventualmente perché non intende seguirlo. Pertanto non vi è alcuna incostituzionalità se si rispetta questo percorso. Ogni altra soluzione rischia di portarci fuori, appunto, da quel principio del giudice naturale che la Costituzione indica come faro per tutti noi. Quale strumento legislativo sarebbe più consono per legiferare su questa materia? Se posso, nell’ordinamento già ci sono tutti gli strumenti in tema. In ogni modo, è chiaro che il Governo è libero di decidere se intervenire ulteriormente o meno, rispetto al decreto della scorsa settimana. Certo si è che lo strumento principe sarebbe la legge ordinaria approvata dal Parlamento. Tuttavia, rimane nel dominio del governo la scelta della fonte normativa di rango primario, anche se, ribadisco, la questione carceraria non dovrebbe essere trattata solo in chiave emergenziale. Andrebbe affrontata in una dimensione di sistema? Sì e mi spiego meglio. L’ordinamento penitenziario italiano è gravato da molti problemi, che sono stati certo amplificati dalla pandemia ma non sono nati con essa. Dunque una qualsiasi soluzione politica che vada solo a tamponare i problemi emersi a causa del Covid è, a mio parere, un’occasione persa per migliorare in modo strutturale la qualità della detenzione. Auspica un’iniziativa di portata più ampia? A mio parere, intervenire con un atto normativo tarato solo per rispondere ai nuovi problemi emersi sarebbe miope e riduttivo. Auspico che la politica non perda l’occasione di affrontare in modo sistematico la questione, perché questo porterebbe beneficio a tutto l’ordinamento. L’emergenza, in questo, è una grande opportunità, che sarebbe un peccato disperdere. “Indulto e svuota carceri non sono un liberi-tutti ma atti di grande civiltà” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 9 maggio 2020 Parla Alberto Liguori, procuratore di Terni ed ex magistrato di sorveglianza in Calabria. “Il nostro sistema giuridico ha previsto strumenti normativi in grado di contemperare sia il principio di effettività della pena e sia il principio che vieta trattamenti penitenziari contrari al senso di umanità”, dichiara Alberto Liguori, procuratore di Terni ed ex magistrato di sorveglianza inCalabria, a proposito delle polemiche per le scarcerazioni di alcuni boss mafiosi che hanno costretto alle dimissioni il capo del Dap Francesco Basentini. “In occasione di scarcerazioni di noti boss o di autori di reati “odiosi” i riflettori dei mass media si accendono sul mondo penitenziario”, premette Liguori, con conseguente anticipazione di “giudizi e responsabilità, senza indagare sullo “stato dell’arte”, preferendo dare risalto a iniziative ispettive, a misure riparatorie - non si comprende a fronte di quali omissioni giudiziarie - quali quelle di assegnare maggior peso, da qui in avanti, alle Procure Antimafia, facendole apparire involontariamente contrapposte alla magistratura di sorveglianza”. L’emergenza Covid-19 ha amplificato i numerosi problemi del sistema penitenziario, ad iniziare da quello - annoso - del sovraffollamento. Tutti i protagonisti chiamati a governare il settore della giustizia penitenziaria devono essere consapevoli, ricorda Liguori, che per farlo funzionare in modo efficace servono scelte “chiare e leggibili all’esterno per approdare ad una espiazione della pena che garantisca anche la sicurezza sanitaria e che, nel contempo, venga compresa e accettata dalla comunità, vera parte offesa di tutti i reati commessi”. “Il legislatore - continua il procuratore di Terni - deve spiegare che l’indulto non equivale ad un fuori tutti ma è l’unico strumento in grado di garantire ai detenuti per reati di non grave allarme sociale (di solito con un fine pena sotto i due anni) e che si trovino ad espiare la pena in condizioni disumane di essere scarcerati, impedendo di contro a boss e detenuti al 41bis e comunque a soggetti portatori di elevata pericolosità sociale di potersene avvantaggiare”. “L’amministrazione penitenziaria prosegue - ha il dovere di relazionare all’autorità giudiziaria in maniera esaustiva fornendo le informazioni in tempo reale, anche di natura logistica, per eventuale accesso del detenuto malato in circuiti sanitari penitenziari altamente specializzati”. “L’autorità di polizia ha il dovere di curare le informative sulla pericolosità sociale documentandole e attualizzandole”, conclude il ragionamento Liguori. Solo in questo modo, “il magistrato di sorveglianza, raccolte tutte le informazioni, potrà accedere a scelte maggiormente aderenti ai principi costituzionali, potendo confidare in un reale e leale rapporto di collaborazione tra le istituzioni per un fine comune che è quello di coniugare sicurezza sociale e sicurezza sanitaria”. Evitando, dunque, il ripetersi di “cortocircuiti” informativi come invece accaduto nel caso del boss Zagaria dove il Dap non aveva risposto alle richieste del magistrato di sorveglianza di Sassari. Nel caso di detenuti affetti da patologie in regime di 41bis, in particolare, il magistrato di sorveglianza potrà disporre “la prosecuzione della pena in carcere laddove il quadro clinico del paziente sia fronteggiabile all’interno delle strutture sanitarie penitenziarie che garantiscono assistenza intensiva”, oppure “la prosecuzione della pena nella forma alternativa della detenzione domiciliare sanitaria laddove le condizioni di salute non siano fronteggiabili in circuiti sanitari penitenziari e la sua pericolosità sociale sia scemata”, o “la scarcerazione laddove sia stata accertata la mancanza di attuali collegamenti con la criminalità organizzata e le sue condizioni di salute non siano fronteggiabili in circuiti sanitari penitenziari”. Un simile percorso è poi linea con quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza 256 del 2019, sul cd ergastolo ostativo, a proposito di regime probatorio rafforzato per il magistrato di sorveglianza. “Lo “svuota carceri” è sicuramente uno strumento di civiltà che, comunque, deve essere praticato caso per caso tenendo in debito conto anche l’eventuale dose di pericolosità sociale di cui è ancora eventualmente portatore il paziente - detenuto”, conclude Liguori, invitando tutti a non dimenticare che il magistrato di sorveglianza sul rinvio dell’esecuzione della pena per motivi salute agisce sempre “d’urgenza” e in funzione monocratica, assumendosi pertanto una grande responsabilità. La bussola impazzita della giustizia di Carlo Nordio Il Messaggero, 9 maggio 2020 Non sappiamo quale sarà la sorte del Ministro della Giustizia dopo la mozione di sfiducia presentata dall’opposizione. Poiché la politica segue criteri di pura utilità, tutto dipenderà dalla convenienza che avrà il governo a difenderlo, o a mollarlo. Noi abbiamo quasi sempre criticato le scelte di Bonafede, talvolta in modo severo, come nel caso delle intercettazioni, e talvolta in modo ruvido, come per l’obbrobrio della prescrizione. Ma adesso atteniamoci alle tre accuse principali: 1) la polemica con Di Matteo; 2) la scarcerazione dei mafiosi; 3) la gestione delle carceri durante l’epidemia. Vediamoli. Primo. Durante una trasmissione tv l’ex Pm Nino Di Matteo ha telefonato raccontando che due anni fa Bonafede gli aveva offerto il ruolo di capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ma aveva cambiato idea dopo una serie di proteste di detenuti mafiosi. Di Matteo, ovviamente, non ha sostenuto che Bonafede vi fosse stato costretto o indotto, ma nel contesto del dibattito televisivo si capiva benissimo che quello era il suo sospetto. Tant’è che il Ministro è intervenuto subito, dicendosi esterrefatto e indignato. A questo punto un po’ tutti hanno chiesto chiarimenti a Bonafede. In realtà, le cose sono un po’ meno scontate. È Di Matteo che deve spiegare il significato del suo intervento e delle sue implicazioni: Onus probandi, incumbit ei qui dicit. Se poi questa prova sarà fornita, sarà Bonafede a doversi giustificare: In excipiendo, reus fit actor. Scusate il latinorum, ma trattandosi di un conflitto tra un membro del Csm e il Ministro della Giustizia un po’ di tecnica ci sta. Il fatto è che Di Matteo, sin dal momento in cui aveva manifestato la disponibilità a riflettere su quell’incarico, e poi addirittura ad accettarlo, si era volontariamente sottomesso alle rigorose regole della politica. Perché il Dap è un ufficio di alta amministrazione sottoposto al ministro. Il suo capo guadagna il triplo dei suoi colleghi magistrati, viene posto fuori ruolo e diventa il braccio secolare del Guardasigilli, di cui deve eseguire le direttive perché è quest’ultimo che se ne assume la responsabilità politica. Si tratta di un incarico fiduciario, conferito secondo criteri insindacabili dagli eventuali aspiranti, ne abbiano o meno fatto richiesta. Se poi emergesse che la decisione finale è stata frutto di un’imposizione, o peggio di un reato, la vicenda assumerebbe caratteri penali, e, nel caso di specie, Di Matteo avrebbe dovuto essere il primo a denunciarli. Invece ha aspettato due anni, per lamentarsene in un intervento televisivo. Una scelta timidamente criticata dall’Anm, e sulla quale il Csm pare non abbia niente da dire. Incidentalmente ricordiamo che si tratta di un Csm falcidiato dall’inchiesta sul giudice Palamara, che ha consentito l’elezione suppletiva proprio di Di Matteo, inchiesta che, dopo le sapienti divulgazioni di intercettazioni e pettegolezzi, oggi sembra tranquillamente assopita. Secondo, le scarcerazioni. Il ministro si è giustificato in Parlamento per spiegare che queste vengono disposte dai giudici dai quali i detenuti dipendono, e non dal Dap e tantomeno da lui. In effetti, i giudici non sono vincolati nemmeno dai decreti sul Coronavirus, che riguardano tutt’altra materia: hanno solo applicato la legge esistente, che disciplina i casi di incompatibilità tra il regime carcerario e la salute del detenuto, magari largheggiando di manica vista l’eccezionalità dell’emergenza e la paura del contagio. Ora il governo pare voglia rimediare con un decreto. Temo che - per ragioni tecniche - avrà grosse difficoltà: e infatti questo decreto, più volte promesso da Bonafede è di là da venire. Terzo. La gestione carceraria. Qui il Ministro reca effettivamente una evidente responsabilità, perché non ha saputo evitare le conseguenze del prevedibile ed enorme timore creato dal virus tra i detenuti. Avrebbe cioè potuto e dovuto predisporre infermerie e settori che ne garantissero l’incolumità, senza dover ricorrere alle scarcerazioni. E comunque, vista la nostra consolidata situazione carceraria, sarebbe stata un’impresa quasi eroica, forse superiore alla tempra di Bonafede. In conclusione, questa vicenda esprime una serie di paradossi sintomatici della confusione che regna non solo nel governo, ma più in generale nella politica e nei rapporti tra questa e la magistratura. Abbiamo un membro del Csm, che attacca in modo improprio chi fino a ieri lo osannava e quasi lo voleva al Quirinale. Abbiamo un Ministro, per anni accusato di integralismo manettaro da quella stessa opposizione che oggi gli rimprovera un eccesso di generosità, o addirittura di garantismo. Abbiamo un Movimento ormai diviso tra i sostenitori dell’uno e dell’altro. Abbiamo chi, non sapendo che pesci pigliare, dà tutta la colpa una trasmissione tv. E la Rivoluzione giustizialista, che ha divorato i suoi figli, diventa uno spettacolo prevedibilissimo per chiunque abbia assistito sin dall’inizio al trionfo di una cultura sbagliata che ha contaminato il Paese. Comunque la si metta, questa pagina che non fa onore alle istituzioni, poteva essere gestita dal Guardasigilli con ben altra sapienza politica. Perché Repubblica sceglie l’antimafia originale di Claudio Cerasa Il Foglio, 9 maggio 2020 Bonafede scaricato in nome dell’ideologia mediatico-giudiziaria sul 41bis. L’aritmetica dice che i boss al 41bis usciti per l’emergenza Covid sono tre, gli altri dei 376 erano in alta sicurezza (è diverso), ma i cronisti che ieri Repubblica ha sguinzagliato per argomentare “la sconfitta di Bonafede” sono cinque, più due editorialisti. Sette contro tre (quattro mettendoci Bonafede). Oltre ai numeri, pur sempre degni di nota, l’aritmetica dice anche qualcosa di interessante, per quanto non nuovo, sul circo mediatico-giudiziario e soprattutto sullo storico rapporto - diciamo di poco distanziamento sociale - tra gli ideologi dell’antimafia chiodata e il quotidiano che fu di Scalfari, di Bolzoni e di molti altri protagonisti della stagione della guerra alle mafie. Dopo qualche giorno di incertezza, se stare più dalla parte del dottore Di Matteo o da quella del ministro Bonafede, Rep. ha deciso che tra l’originale e la copia è meglio l’originale, la magistratura chiodata. Anche se, tramontate le star, oggi il massimo della categoria è rappresentato dal dottore Di Matteo. Il ministro Bonafede, come tutti i grillini, è da sempre un giustizialista manettaro. Arrivato inopinatamente a via Arenula, Bonafede ha tentato di appropriarsi di temi e modi della vecchia antimafia. Ma lui e i grillini alla fine sono scaricabili, in nome del Dna anti-mafioso autentico. Dietro alla campagna in favore di indignazione pubblica sulle scarcerazioni dei boss animata da Largo Fochetti c’è il paradigma ideologico, e conseguente narrazione, della lotta alla mafia sempre tradita dalla “politica”, della “trattativa” come perenne archetipo italiano e l’olimpo dei magistrati duri e puri. È possibile che la nuova proprietà e direzione di Repubblica a tutto questo non siano troppo interessati, ma giocoforza non va reciso uno dei pochi segmenti del Dna del quotidiano ancora attivi. La vecchia guardia e i lettori non capirebbero. Resta però, e il fatto oltrepassa storia e lettori di Repubblica, che dietro all’ideologia dell’intoccabile 41bis - pena essere additati come trattativisti, gogna che oggi tocca pure al davighista Bonafede - c’è una concezione del carcere e delle garanzie giuridiche e civili che spesso fa a pugni con la Costituzione e anche con le sentenze europee. E il dogma, correlato, dell’ergastolo ostativo. L’aritmetica di Repubblica, più che a Bonafede, fa un danno allo stato di diritto. Così il governo ha messo la Costituzione nelle mani dei pm antimafia di Associazione “Il Carcere Possibile Onlus” Il Dubbio, 9 maggio 2020 Le toghe schierate contro i giudici di sorveglianza, loro colleghi, sanno benissimo che noi tutti siamo più forti dei mafiosi proprio grazie ai diritti. Ma ora questi magistrati dell’accusa tentano di rovesciare l’ordinamento penitenziario che impedisce loro di toccare palla. Ecco perché mentono, sapendo di mentire, sulle fantomatiche orde di boss ingiustamente messi in libertà. Premesso che tutti detestiamo le mafie e che ciascuno di noi le combatte secondo le proprie possibilità e nel proprio ambito, e che non esistono persone anti mafia o pro mafia (ad eccezione dei mafiosi, ovviamente) dobbiamo, purtroppo e ancora una volta, ricordare che anche le guerre più cruente hanno le loro regole, e che la guerra alla mafia, in uno Stato di diritto, si combatte secondo i principii dell’ordinamento giuridico a cui sono soggetti tutti i cittadini. A quei principi sono soggetti anche i Magistrati come correttamente affermato dai Magistrati di sorveglianza nel comunicato Conams - sottoscritto dalla dottoressa Fiorillo nonché dal consigliere del Csm Dal Moro, che ha stigmatizzato i toni violenti e impropri che hanno caratterizzato le polemiche all’indomani di alcune scarcerazioni di detenuti in regime di cosiddetto carcere duro. Le indignazioni dell’opinione pubblica, sempre prontamente disorientata nonché nutrita di odio e rabbia da alcune arene televisive, si sono generate dopo le pubbliche esternazioni di alcuni esponenti della Magistratura antimafia che, contrariamente all’opinione pubblica, ben conosce i meccanismi delle procedure ex articolo 147 c.p. che si svolgono innanzi alla magistratura di sorveglianza nonché, con ogni probabilità, i contenuti delle specifiche procedure che hanno determinato le “scandalose” scarcerazioni. Immaginiamo, infatti, che i Magistrati manifestanti le loro preoccupazioni sapessero come Pasquale Zagaria fosse stato già ritenuto soggetto non socialmente pericoloso dalla Corte di appello di Napoli (infatti bisognerebbe in realtà capire come mai fosse ancora in regime ex art. 41bis o.p.) e che Bonura, che ha ottenuto un differimento dell’esecuzione della pena in regime di detenzione domiciliare umanitaria, aveva in realtà un residuo pena di pochi mesi e condizioni di salute che rendevano impossibile la protrazione della detenzione in carcere. Immaginiamo, in sostanza, che i magistrati preoccupati sapessero bene che nessuna violazione delle regole giuridiche era stata commessa da parte dei loro Colleghi della sorveglianza e che le scarcerazioni erano state determinate da situazioni eccezionali. Nonostante queste conoscenze che attribuiamo ai magistrati preoccupati, si è ritenuto comunque opportuno provocare allarme sociale urlando attraverso i più disparati media che decine e decine di mafiosi pericolosissimi stavano per lasciare le patrie galere per andare a seminare di nuovo terrore in giro per il Paese. Ovviamente nessun contraddittorio e nessuna spiegazione tecnica ai telespettatori di trasmissioni e telegiornali urlanti. Al di là dei tecnicismi basterebbe spiegare che lo Stato dimostra la propria forza e autorevolezza quando non abdica al rispetto dei principi fondamentali su cui si fonda e che la Giustizia non è - e non deve essere - vendetta e soprattutto che la legge è uguale per tutti, anche per i peggiori criminali, perché solo così la comunità e la civiltà sono veramente tutelate e solo così si rispettano il preminente diritto alla salute ex articolo 32 Cost. e l’umanità della pena ex art. 27 Cost. Ci rendiamo conto che parlare di diritto è noioso e non fa audience ma, in realtà, pensiamo che la scelta di non fornire alcuna spiegazione e la manifestazione della preoccupazione con la conseguente indignazione avevano una loro utilità: determinare i presupposti dell’attacco all’odiato ordinamento penitenziario in cui il protagonista, almeno in teoria, è il detenuto e, specificamente, il suo percorso all’interno del sistema dell’esecuzione penale in cui la Procura resta un osservatore di questo percorso “sorvegliato” dalla tanto vituperata Magistratura di Sorveglianza. Creata la sensazione della necessità e dell’urgenza di intervenire per evitare il “liberi tutti”, rischio neanche lontanamente corso, il decretificio ha potuto produrre l’attacco all’ordinamento penitenziario, ultimamente troppo umanizzato dalla Corte Costituzionale, per cui, a colpi di ennesimo decreto (decreto n° 28 del 30 aprile 2020), per affrontare “l’emergenza”, sono state apportate modifiche ad alcune norme che, come abbiamo imparato bene, resteranno nel nostro sistema a prescindere dall’emergenza e ben oltre la stessa. Per alcuni detenuti, quelli condannati per i reati ex art. 51 commi 3 bis e 3 quater c.p.p. nonché per quelli sottoposti al regime del 41bis o.p., sarà possibile avere permessi di necessità, quelli che si concedono in casi di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente, solo dopo aver atteso il parere della Procura ed anche della DNA che, in tal modo, possono porre una sorta di veto alla Magistratura di sorveglianza che, in caso di decisione favorevole al permesso, deve esporre una motivazione rinforzata. Analogamente per quel che riguarda la cosiddetta detenzione domiciliare in deroga o “umanitaria”, i detenuti condannati per i reati prima indicati nonché quelli sottoposti al regime ex art. 41bis o.p., potranno vedersi concessa tale particolare detenzione solo dopo che rispettivamente la Procura e la Dna abbiano espresso il loro parere circa la pericolosità del recluso che si trova in condizioni di grave infermità fisica (ora anche psichica) e che non può essere più curato in carcere. Per i detenuti in regime di carcere duro, la Magistratura di sorveglianza non potrà decidere se non dopo che siano decorsi 15 giorni dalla richiesta del parere. Tali modifiche - che introducono la necessità di richiedere i pareri alle Procure - non apportano innovazioni di sorta nel senso che ovviamente i Magistrati di Sorveglianza chiedono normalmente informazioni sulla pericolosità dei detenuti, tuttavia è abbastanza intuitivo che in caso di “imminente pericolo di vita di un familiare” o in caso di impossibilità di protrarre le cure e le terapie in carcere, aspettare rispettivamente 24 ore e 15 giorni può fare la differenza, determinando anche l’inutilità del provvedimento richiesto e, di solito, già lungamente atteso. Con queste modifiche legislative si è voluto affermare che anche per “questioni umanitarie” non si può e non si deve prescindere dall’autorità dell’Antimafia, si è voluto affermare che nel bilanciamento degli interessi in contrapposizione, la bilancia deve pendere dal lato della Procura: deve essere lei, ora, a “consentire” che la pena non sia contraria al senso di umanità. Con quest’affermazione ci pare che i principi costituzionali si affievoliscano notevolmente e che si ritenga opportuno che la pena - sempre più - tenda innanzitutto alla punizione, anche alla punizione del congiunto in imminente pericolo di vita che per salutare il figlio, il padre o la madre reclusi deve attendere il rapido benestare della Procura. Ripartenza articolata per la giustizia. Fase 2 da martedì di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 9 maggio 2020 Per i tribunali si apre una complessa Fase 2 nel tentativo di conciliare attività giudiziaria e sicurezza. Dal 12 maggio gli uffici giudiziari possono infatti attivare, con principi di cautela e gradualità, alcune attività aggiuntive a quelle che, indifferibili e urgenti, erano già consentite nel periodo di sospensione dal 9 marzo all’u maggio. Per farlo dovranno adottare delle linee guida da concordare con le autorità sanitarie e i Consigli dell’Ordine degli avvocati locali per individuare modalità di prevenzione del contagio aderenti al contesto territoriale di riferimento. Il che vuol dire che si aprirà un periodo che allo stato potrà durare sino al 31 luglio (ma poi inizieranno le tradizionali ferie estive), nel quale i capi degli uffici giudiziari potranno scegliere tempi e modi della riapertura. Un’amministrazione a” macchia di leopardo” certo, ma in un certo senso inevitabile. Il quadro di riferimento su aspetti cruciali come le modalità di celebrazione delle udienze è però tutt’altro che chiaro. Con norme prima introdotte e poi cancellate nell’arco di poche ore. Esemplare in questo senso quanto avvenuto sul fronte del processo penale, dove prima, in sede di conversione del decreto cura Italia, è stato inserito un pacchetto di misure per allargare le modalità di svolgimento non solo delle udienze, ma anche di atti di indagine, da remoto, e poi, subito dopo, anche per la feroce ostilità degli avvocati che ne avevano messo in evidenza l’incompatibilità certa con il nostro modello processuale e probabile con diritti costituzionali come quello di difesa, si è preferito, con un nuovo decreto legge, procedere a cancellare quell’allargamento, rendendolo di fatto possibile solo con il consenso delle parti, depotenziando nei fatti nel penale lo svolgimento dell’attività giudiziaria via video. Nel civile, peraltro, è stata introdotta, con il medesimo decreto legge un’altra disposizione di non facilissima applicazione come la necessità della presenza in ufficio del magistrato con una sorta di ibrido “processo virtuale in presenza”, che ha invece incontrato la fortissima perplessità dei magistrati. Il ministero della Giustizia ha fornito, con una densa circolare di pochi giorni fa, un denso pacchetto di indicazioni per affrontare le prossime fasi emergenziali, scandite dai mesi di maggio, giugno e luglio. Dove si sommano misure logistiche e organizzative. Tra le prime, un’attenta gestione del flusso di persone in ingresso negli uffici, degli spazi lavorativi delle aule dei luoghi di passaggio. Con la forte raccomandazione per la realizzazione di una vera e propria banca dati, per esempio, delle aule e degli ambiti di lavoro (quante sonò e quali sono le aule più adatte a celebrare udienze e contenere un numero ragionevole di persone mantenendo le distanze di sicurezza). Quanto al personale, da favorire il più possibile la linea favorevole allo smart working, che ha permesso di limitare le presenze effettive in una forchetta tra il 15 e il 25%, come pure forme di orario flessibile, turnazioni, forme di co-working e rotazione dei servizi di cancelleria. Sul processo, la carta su cui insistere, raccomanda il ministero, è quella di un incentivo alla digitalizzazione delle procedure puntando sull’ampliamento delle notifiche penali telematiche, sul deposito degli atti introduttivi online, sul pagamento telematico del contributo obbligatorio, sull’avvio del deposito penale telematico e del processo digitale in Cassazione. Nuove disposizioni nei tribunali per la ripresa dell’attività giudiziaria di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 9 maggio 2020 Dal 12 maggio, dal Nord al Sud del Paese, dopo il blocco dovuto all’emergenza sanitaria determinata dal Covid-19, ripartono molte attività e anche quella giudiziaria rimette in moto il motore. Al minimo, ma si ricomincia. Qualche esempio per attraversare a campione i territori. Ad Aosta, il presidente Tribunale, Eugenio Gramola, e il procuratore capo, Paolo Fortuna, hanno confezionato alcune misure organizzative che dal 12 maggio al 31 luglio, accompagneranno la ripresa graduale delle attività. E dunque, si potrà entrare a palazzo di giustizia solo indossando la mascherina e all’ingresso verrà rilevata la temperatura corporea; per riuscire a rispettare il ‘distanziamento socialè l’accesso agli uffici sarà contingentato. Massimo uso dei collegamenti in video per l’attività giudiziaria, nella fase delle indagini preliminari; la partecipazione degli imputati detenuti, se possibile, verrà garantita con il collegamento da remoto. Sospese per il momento le udienze con la previsione di richiesta di messa alla prova, per il fatto che prevedono colloqui con gli uffici; i procedimenti penali dinanzi al giudice di pace sono rinviati a data successiva al 31 luglio. A Milano le linee guida adottate dal presidente del Tribunale Roberto Bichi prevedono che dal 12 maggio potranno essere celebrate udienze dibattimentali anche per quei processi che non sono tipicamente ricompresi nella tipologia a “trattazione necessaria” prevista dall’articolo 83 del Dl 18/20, ma “per ragioni di sicurezza sanitaria occorre celebrare le udienze dibattimentali a porte chiuse”, come si precisa in una circolare. Verranno predisposti, ad opera dei presidenti delle sezioni penali, dei calendari che prevedano udienze ridotte, in fasce orarie con inizio differenziato, che possa garantire che la trattazione del processo sia esaurita, prima che si inizi a trattare quello successivo. È previsto che le udienze non terminino oltre le 18. Anche a Milano ovviamente sarà privilegiata la modalità “videoconferenza” ma se non fosse possibile per carenza di effettivo contraddittorio, per problemi di natura tecnica o per la mancanza di consenso delle parti” sino al 31 luglio le udienze verranno celebrate distanziate nel tempo in modo che si evitino assembramenti o contatti ravvicinati di persone”. Anche Lucca riparte, ovviamente con tutte le cautele imposte dall’emergenza sanitaria. Il presidente del tribunale, Valentino Pezzuto, accogliendo gran parte delle istanze presentate dagli organismi dell’avvocatura, ha stabilito che i processi civili verranno trattati prevalentemente in forma scritta, mentre per quelli che riguardino lavoro e famiglia, sarà consentita la presenza dei legali in aula. Le udienze penali saranno svolte “in presenza”, a meno che - come nel caso delle convalide - non sia possibile farle da remoto. Comunque, per tutti i processi vale la regola delle “porte chiuse”. Capillare controllo agli ingressi e guardie giurate per la rilevazione della temperatura al tribunale di Cassino che si appresta alla ripartenza, cercando di offrire la massima sicurezza al personale in servizio, ai magistrati, ad avvocati e utenti. Verranno stilati diari giornalieri che assicurino lo svolgimento del numero concordato di udienze, evitando ogni forma di assembramento. A Benevento il presidente del consiglio dell’Ordine degli avvocati, Stefania Pavone, quello del tribunale, Marilisa Rinaldi, e il procuratore della Repubblica, Aldo Policastro, hanno approvato delle linee guida per la trattazione delle udienze alla riapertura del 12 maggio, cercando di gestirle in “presenza fisica” o da remoto a seconda dei casi, delle richieste, della urgenza. Tutto ciò che non si potrà celebrare nelle forme indicate, quando il giudice o il presidente del collegio non saranno in grado di assicurare che la trattazione si svolga nel rispetto del principio del contraddittorio e di quello di difesa, si procederà al rinvio a data successiva al 31 luglio. Anche a Benevento si applicheranno le prescrizioni in materia sanitaria che vietano ogni forma di assembramento e dunque verranno previste un numero di udienze per aula adeguato a queste indicazioni e le udienze verranno celebrate a porte chiuse. Ad Agrigento, infine, in vista della ripresa delle attività, è stato creato un front-office al pian terreno del Tribunale, che si sostituisce quasi interamente alle cancellerie per il deposito delle istanze e la consultazione dei fascicoli, e sono stati drasticamente ridotti i procedimenti da trattare con una rigida organizzazione oraria. Diritto alla difesa compromesso, ministero ammette che non ha soldi per avvocati d’ufficio di Angela Stella Il Riformista, 9 maggio 2020 Diritto alla difesa compromesso, ministero ammette che non ha soldi per avvocati d’ufficio. Avevamo ragione quando circa due settimane fa scrivevamo che il diritto alla difesa dei più poveri è gravemente compromesso per mancanza di fondi a favore degli avvocati iscritti nell’elenco dei difensori abilitati al patrocinio a spese dello Stato. A sollevare la questione era stato prima Fabio Massimo Gallo, presidente della Corte di Appello di Roma, e poi da queste pagine l’avvocata Valentina Bevilacqua, componente della Camera Penale di Roma e dell’Osservatorio Patrocinio a Spese dello Stato dell’Ucpi. Di chi siano le responsabilità difficile dirlo. Del ministero dell’Economia che deve erogare i fondi? Di quello della Giustizia che li amministra? Dei giudici e dei funzionari distrettuali? Cerchiamo di capirne di più. Come è noto il patrocinio a spese dello Stato è destinato a garantire una difesa effettiva ai non abbienti, essendo innanzitutto un istituto di civiltà giuridica, tuttavia è caratterizzato da numerose criticità: nella fase della liquidazione, “i problemi principali sono la discrezionalità attribuita al Giudice nella quantificazione dei compensi professionali, che ha determinato lampanti disomogeneità e liquidazioni al ribasso” ci raccontava Bevilacqua, per non parlare dei ritardi nei pagamenti delle fatture, spesso non evase entro un anno ma sulle quali gli avvocati sono stati costretti a pagare l’Iva su redditi non percepiti. Avevamo chiesto anche informazioni al ministero della Giustizia per avere maggiori dettagli ed ecco quello che ci hanno risposto dopo qualche giorno tramite un documento redatto dal responsabile della Direzione generale degli Affari interni: “Come già rappresentato più volte in questi anni alla Corte di appello di Roma… i fondi disponibili sul capitolo 1360 risultano ogni anno sempre insufficienti a coprire non solo il fabbisogno di spesa della Corte, ma l’intero fabbisogno nazionale… Pertanto si ribadisce che la criticità descritta relativa alla gestione del capitolo 1360 non costituisce una caratteristica della Corte di appello di Roma, ma coinvolge, in ugual misura, tutti i distretti sul territorio nazionale e non riguarda solo i compensi per gli avvocati, ma tutte le ulteriori spese gravanti sullo stesso capitolo”. Infatti quel capitolo di spesa non è destinato solo al gratuito patrocinio ma anche alla generalità delle spese processuali quali, ad esempio, consulenti, periti, traduttori, custodi, giudici popolari, testimoni, trasferte per il compimento di atti processuali, e molto altro. Dunque il ministero ammette che i fondi mancano e che la Corte di Appello di Roma sta ancora aspettando gli accreditamenti delle somme residue relativi agli anni 2018, 2019, 2020 ma precisa, primo, che “i funzionari delegati presso gli uffici giudiziari sono perfettamente a conoscenza delle tempistiche… le quali per l’anno 2020 non hanno subito alcuna modifica rispetto agli anni precedenti” e che, secondo, “questa direzione aveva invitato i funzionari delegati a fornire le richieste di fabbisogno relative al II quadrimestre 2020 entro la scadenza del 10-4-2020” ma “molti uffici giudiziari non hanno adempiuto a tale termine, costringendo questo ufficio a trasmettere tre note di sollecito”. Guardiamo ora le cifre del dettaglio, sempre secondo quanto ci ha inoltrato il ministero della Giustizia, in merito alla Corte di Appello di Roma: relativamente all’anno 2018 “è stato richiesto nell’anno 2020 un debito residuo di 1.800.000,00 euro che sarà estinto a breve, in quanto si è appena avuta la disponibilità dei fondi”. Per il 2019 “è stato richiesto nell’anno 2020 un debito residuo di 6.050.000,00 euro, di cui è stato già erogato un acconto di 2.087.300,00 euro. Si provvederà ad erogare il saldo non appena verranno stanziati i fondi dal competente ministero dell’Economia e delle Finanze”. L’avvocato Giulio Michele Lazzaro, responsabile dell’Osservatorio Patrocinio a Spese dell’Ucpi, osserva che “al fine di rendere effettiva la difesa dei non abbienti e celere la liquidazione del difensore, il Legislatore deve fare la sua parte creando, per esempio, un apposito capitolo di spesa nell’ambito dello stato di previsione del Dicastero competente, all’atto della redazione della legge di stabilità da parte del Governo, in modo da destinare una somma di denaro determinata e sufficiente a coprire le previsioni di spesa, vincolata esclusivamente alla liquidazione dei compensi professionali. Nel contempo il Ministero della Giustizia deve fare la sua parte “tecnica”, implementando cioè le piattaforme telematiche esistenti e permettendo il dialogo tra le stesse, oltre all’accesso da remoto dei Funzionari e naturalmente alla formazione del personale alle nuove tecnologie”. Lombardia. A San Vittore e Bollate due reparti per i detenuti positivi della regione di Marco Belli gnewsonline.it, 9 maggio 2020 Cinquanta posti su due piani, più altre 7 camere per detenuti addetti al lavoro nel reparto; un medico, due infettivologi, cinque medici di guardia e dieci infermieri che assicurano la copertura sanitaria 24 ore su 24, un operatore socio-sanitario. E poi un ispettore e venti agenti di Polizia Penitenziaria, appositamente formati, dedicati al reparto. Sono i numeri dell’Hub di San Vittore, reparto attrezzato per la cura del Covid-19 creato dall’Amministrazione Penitenziaria presso l’istituto milanese grazie all’Azienda Socio Sanitaria Territoriale Santi Paolo e Carlo e in collaborazione con la Regione Lombardia. A supporto dell’Hub di San Vittore, è stato inoltre creato un reparto per i casi più leggeri, per gli asintomatici e i convalescenti presso l’istituto di Milano Bollate. I due reparti sono destinati ad accogliere i detenuti positivi al Covid-19 provenienti dagli istituti penitenziari della Lombardia. L’obiettivo dell’Amministrazione è stato quello di concentrare il rischio infettivo in poche aree particolarmente attrezzate e dotate di apparecchiature che consentono la diagnosi e la cura delle infezioni da Coronavirus di lieve e media gravità. Personale medico e infermieristico, oltre ad operatori di Polizia Penitenziaria specificatamente formati, possono così assistere complessivamente nei due istituti fino a ottanta detenuti positivi. Sei i guariti fin qui registrati: tre negli ultimi giorni, più un quarto guarito diverso tempo fa e che fu il primo detenuto gestito nel reparto e un altro guarito in ospedale e rientrato in istituto; un sesto detenuto si trova tuttora in ospedale. Ad oggi sono 45 i detenuti positivi al Covid-19 in cura presso i due reparti di San Vittore e Bollate. Bologna. Coronavirus, il Garante dei detenuti: “Dozza piena, 200 persone in più” bolognatoday.it, 9 maggio 2020 A livello nazionale ci sono ancora circa 6.000 presenze in più rispetto ai posti effettivamente disponibili; a livello locale sono circa 200 quelle oltre la capienza regolamentare. Il garante dei detenuti del Comune di Bologna, Antonio Ianniello, dopo la notizia della morte di un altro detenuto della Dozza, il secondo, ricoverato fuori dal penitenziario, torna sulla questione cruciale delle carceri: il sovraffollamento. “In un momento nel quale per la società esterna è iniziato, con la fase 2, il graduale ritorno alla normalità bisogna continuare a maneggiare con enorme cura il tema dell’emergenza sanitaria all’interno degli istituti penitenziari - scrive il garante in una nota - naturalmente non precludendo nel frattempo possibilità di graduali e ponderate riaperture alla società esterna, in quanto la condizione strutturale dei luoghi di detenzione resta sempre quella per la quale è in essi accentuata, proprio per l’impossibilità strutturale di instaurare quel distanziamento fisico necessario in ragione del sovraffollamento, la vulnerabilità al contagio”. “Dal momento in cui la situazione sanitaria è diventata più critica nel contesto penitenziario c’è stato un non banale alleggerimento dei numeri delle presenze in carcere, dovuto a vari fattori, ma si è ancora lontani dal rispetto delle capienze regolamentari che potrebbe agevolare (e che avrebbe potuto agevolare) una maggiore efficacia degli interventi di contenimento della diffusione del contagio all’interno (a livello nazionale, ci sono ancora circa 6000 presenze in più rispetto ai posti effettivamente disponibili; a livello locale, ci sono circa 200 presenze oltre la capienza regolamentare)”. “La tragica notizia di questo secondo decesso - prosegue - interviene in un momento nel quale presso il locale istituto penitenziario sono stati adottati ulteriori interventi orientati a circoscrivere la diffusione del contagio nella comunità penitenziaria anche attraverso la sottoscrizione, nel recente periodo, di un protocollo operativo condiviso, fra l’Azienda Usl di Bologna e Direzione del carcere, per la gestione e prevenzione del contagio: sono stati individuati ulteriori spazi detentivi da destinare all’isolamento sanitario, anche ora prevedendo opportunamente più netti percorsi differenziati per la gestione dei soggetti portatori di infezioni da Covid-19 e per le altre tipologie di situazioni che possono essere ricondotte all’emergenza sanitaria”. “Permanendo, dunque, lo stato di emergenza sanitaria, risultano ancora oggi attuali il buon senso e l’attenzione alla tutela della dignità umana e del diritto alla salute che avevano portato la Direzione Generale Detenuti e Trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a diramare il 23 marzo scorso una nota - ampiamente strumentalizzata da più parti nel recentissimo periodo - con la quale veniva disposto che le Direzioni degli istituti penitenziari procedessero con solerzia a comunicare alle Autorità Giudiziarie competenti, per le eventuali determinazioni di competenza, le posizioni di persone detenute in condizioni anagrafiche e di salute alle quali fosse possibile collegare un elevato rischio di complicanze nel caso di contagio da Covid-19”. Bologna. Secondo decesso per coronavirus tra le mura del penitenziario di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 9 maggio 2020 Si è spento nella notte di giovedì nel reparto Covid del Sant’Orsola Giovanni Marzoli, 67enne detenuto nel carcere della Dozza. È il secondo decesso per coronavirus tra le mura del penitenziario bolognese. Marzoli combatteva con il virus da più di un mese: affetto da patologie pregresse, era stato ricoverato una prima volta il 31 marzo, un mese e mezzo dopo il suo arresto, poi dimesso l’11 aprile ma nuovamente ricoverato il 18. Sembra che in una prima fase il tampone fosse risultato negativo, anche se aveva già sintomi riconducibili alla malattia da Covid-19. Era stato comunque sempre trattato sia in ambiente sanitario che carcerario come paziente Covid. L’accusa contro di lui, inizialmente maltrattamenti in famiglia e lesioni personali, era stata modificata in omicidio il 18 febbraio, quando la madre 86enne, che in un primo momento non sembrava grave, si è spenta in ospedale più di 24 ore dopo essere stata aggredita dal figlio, con un passato burrascoso fatto di dipendenze. L’avvocato Rosaria Bergonzoni, che lo difendeva, aveva da qualche giorno presentato un’istanza di scarcerazione perché i risultati dell’autopsia, depositata il 27 aprile, hanno stabilito che a causare la morte della madre non sarebbero state le coltellate ma un’embolia. Il pm ha chiesto nuovi approfondimenti, oltre alla perizia psichiatrica sul 67enne. Ma non c’è stato il tempo per fare nulla. Il 67enne era detenuto nel reparto giudiziario, in custodia cautelare come Vincenzo Sucato, il boss siciliano 76enne in attesa di giudizio deceduto ad aprile per le complicanze legate al Covid, contratto proprio tra le mura del carcere. Attualmente sono 13 i detenuti positivi alla Dozza. Secondo i sindacati, che da mesi denunciano la carenza dei dispositivi di protezione e il sovraffollamento pericoloso per il rischio contagio, la situazione sta migliorando e sono stati adottati i protocolli necessari. Anche se “chiediamo - scrive il Sappe - che si facciano più esami sierologici e tamponi”. Solo ieri sono arrivati gli operatori sanitari che sottoporranno obbligatoriamente, 24 ore su 24, il personale che entra in servizio alla misurazione della temperatura nella tenda pretriage montata all’esterno. Mentre continuano a scarseggiare le mascherine per i detenuti. “In un momento nel quale per la società esterna è iniziato il graduale ritorno alla normalità - scrive in una nota il garante dei detenuti Antonio Ianniello - bisogna continuare a maneggiare con enorme cura il tema dell’emergenza sanitaria all’interno dei penitenziari, non precludendo nel frattempo possibilità di graduali e ponderate riaperture alla società esterna”. Il garante poi difende la decisione del Dap di scarcerare i detenuti con patologie gravi e parla di “strumentalizzazioni” riferite alle polemiche che hanno accompagnato la scarcerazione di alcuni boss. “Sono necessari buon senso e tutela della dignità umana e del diritto alla salute”. Genova. Coronavirus, 17 detenuti e 13 dipendenti del carcere di Marassi positivi ai test di Susanna Picone fanpage.it, 9 maggio 2020 Sono 17 i detenuti del carcere di Marassi a Genova risultati positivi al Covid dopo i test sierologici: tutti asintomatici, sono stati isolati dal resto della popolazione carceraria e sono in attesa del tampone. Positivi anche 13 dipendenti, che come i detenuti sono in attesa del tampone per capire se attualmente contagiosi. Diciassette detenuti del carcere di Marassi a Genova sono risultati positivi al Covid-19 dopo i test sierologici effettuati da Alisa. Si attende ora il tampone per capire se queste persone siano attualmente contagiose. I diciassette detenuti di Genova - a quanto si apprende tutti sono asintomatici - per il momento sono stati isolati dal resto della popolazione carceraria. I test sierologici sono stati fatti fino a oggi a 371 persone su 690: su base volontaria, alcuni non si sono voluti sottoporre al controllo. Tra il personale del penitenziario sono risultati 13 i positivi e anche loro sono in attesa di tampone, su 471. I dipendenti non si stanno recando al lavoro. Per quanto riguarda il personale che deve avere contatti con i detenuti risultati positivi al test e ora in isolamento hanno tutti i Dpi a disposizione, dai guanti alle mascherine. “Dopo i primi test sierologici finanziati dalla Regione Liguria tramite Alisa, fatti nel carcere di Marassi sui detenuti, sono stati isolati più di dieci detenuti, risultati positivi ai test sierologici. E ancora manca la metà della popolazione detenuta da sottoporre a test - così il segretario regionale dell’Uilpa Fabio Pagani -. Non è possibile - ha aggiunto - che oltre a essere assenti posti, camere per isolare i detenuti positivi, gli stessi vengono inviati a fare i colloqui tramite postazioni Skype e Whatsapp con il rischio di diffondere il virus in carcere. Questi detenuti che attendono il tampone debbono restare in isolamento, altrimenti sarà contagio di massa. Rivolgiamo un appello al nuovo capo del Dap Petralia - ha detto ancora il sindacalista - affinché tiri fuori dalla secca la nave arenata. Non serve solo un buon comandante e un buon equipaggio, ma un vero e proprio cambiamento di rotta”. Palermo. “Nessuna scarcerazione di massa. Ognuno ha diritto di morire a casa” di Riccardo Lo Verso livesicilia.it, 9 maggio 2020 Intervista all’ex giudice istruttore Giuseppe Di Lello. Scontro Di Matteo-Bonafede: “Uno dei due deve dimettersi”. “Le scarcerazioni sono state fatte in base a leggi esistenti, altrimenti sarebbe concorso in evasione”, dice Giuseppe Di Lello, uno dei quattro giudici istruttori dell’originario pool antimafia di Palermo con Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Leonardo Guarnotta. E poi un lungo impegno politico per Rifondazione Comunista. Dunque nessuno scandalo, nessun allarme? “Secondo me c’è un allarme giustificato dallo scandalismo. Quanti sono i boss detenuti 41bis che sono stati scarcerati? Dalle cronache risultato tre. Non c’è alcuna scarcerazione di massa”. I detenuti che hanno lasciato il carcere nell’ultimo mese e mezzo per ragioni di salute e per il rischio Cornonavirus sono stati in totale 376, molti in regime di alta sorveglianza “C’è stato un alleggerimento della situazione carceraria che ci sarebbe dovuto essere comunque e che è stato accelerato dall’emergenza sanitaria”. Sono piovute critiche sui magistrati di sorveglianza che hanno detto sì al differimento della pena mandando i detenuti ai domiciliari o in strutture per curarsi. Mi pare di capire che le consideri inopportune “Sono giudici e sono liberi. Devono essere messi nelle condizioni di giudicare senza pressioni. Servirebbe altro per risolvere i problemi”. Cosa? “È inutile che parliamo di riforma della giustizia, anzi è proprio inutile sperarlo. Ogni volta che si parla di depenalizzare i reati questi al contrario crescono. E non serve neanche costruire nuove carceri. Una legge non scritta dice che più ce ne sono e più si riempiono”. Non resta che rassegnarsi? “No, serve una riforma carceraria che guardi davvero all’efficienza. Penso alla costruzione di centri clinici ospedalieri dove curare i detenuti partendo dal presupposto che ognuno ha il diritto di essere curato e di morire a casa propria”. Ma l’Italia è anche il paese dove Bernardo Provenzano e Totò Riina sono rimasti detenuti fino all’ultimo respiro “Forse è difficile scrollarsi di dosso questi precedenti. Alcuni mafiosi sono decrepiti e incapaci di riorganizzare e addirittura di muoversi. Lasciare in carcere persone in queste condizioni non dico che sarebbe un delitto, ma di sicuro è inumano. Si torna alla barbarie”. Come spesso accade quando infuria la polemica su certi temi spunta qualcuno che dice “Falcone e Borsellino non l’avrebbero fatto”. Sanno esattamente come si sarebbero comportati. “Non bisogna fare parlare i morti. Nelle circostanze attuali non so cosa avrebbero detto”. Posso chiederle cosa ne pensa dello scontro fra il ministro Alfonso Bonafede e il magistrato Antonino Di Matteo? “Se è vero quello che dice Di Matteo Bonafede dovrebbe dimettersi. Se non è vero dovrebbe dimettersi Di Matteo perché la sua accusa è gravissima e circostanziata. Un ministro che si piega al diktat dei mafiosi sembra una riedizione scorretta della Trattativa. Stavolta sono i giustizialisti dei 5 Stelle che si sarebbero piegati. Non so chi ha ragione fra i due e non prendo posizione. Per me la parola dell’uno vale quanto quella dell’altro”. Pisa. Mafiosi malati al centro sanitario del carcere? Ma lì ci sono solo 23 posti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 maggio 2020 Il Garante del carcere pisano, l’avvocato Alberto Marchesi, spiega: “non è stato progettato per ospitare detenuti di mezza Italia, ma per essere funzionale ai nostri reclusi”. “Abbiamo ad esempio il centro clinico, fiore all’occhiello della sanità penitenziaria, del carcere di Pisa. Potevano mandarli lì, invece di scarcerarli”. Mentre ieri è morto l’ennesimo detenuto per Covid 19 al carcere di Bologna (il quarto in totale), tuonano più voci da parte di chi, come Massimo Giletti di “Non è L’Arena, si improvvisa profondo conoscitore del sistema penitenziario. In effetti il carcere “Don Bosco” di Pisa è stato uno dei primi ad aprire un centro clinico al suo interno, tanto da diventare - soprattutto grazie all’operato dell’allora dirigente medico Francesco Ceraudo - il più importante d’Europa. Ora il centro clinico, così come i pochi altri, viene definito con l’acronimo Sai che sta per Servizio di assistenza intensiva. Ma può sobbarcarsi i detenuti malati di mezzo Paese? Il Dubbio ha contattato il garante dei detenuti del carcere di Pisa, l’avvocato Alberto Marchesi. “È sicuramente uno dei primi, e più vecchi, centri clinici che sono entrati in funzione nel nostro Paese. Possiamo dire che da mezzo secolo visto che è nato negli anni 70, quello che era all’avanguardia assoluta, oggi dà un servizio sicuramente accettabile e superiore alle altre carceri”. Ma l’avvocato Marchesi ci introduce al tema generale della sanità penitenziaria “che è molto indietro rispetto all’istanza che era stata prefissata dalla riforma del 2008, ovvero che sia allo stesso livello del Servizio sanitario nazionale per i cittadini liberi”. Ma quindi la struttura di Pisa è adatta per ospitare chiunque? “Ora non so che tipo di patologia avessero i detenuti del 41bis che sono andati in detenzione domiciliare - osserva il Garante - ma il nostro centro clinico non può essere adeguato per tutte le patologie, partendo anche dal fatto che da noi non è un luogo di lunga degenza”. Ma non solo. Il Garante sottolinea un aspetto non secondario, ovvero che recentemente è risultato che tre sanitari (un medico e due infermieri) del centro clinico sono stati contagiati dal Covid-19. E fa una ulteriore osservazione che potrebbe mettere, forse, a tacere chi pensa che tutto si risolva indicando il carcere “Don Bosco”. “Il centro clinico di Pisa - spiega Marchesi - è composto da una sezione maschile e una femminile, quest’ultima attualmente chiusa per lavori. In tutto può ospitare, com’è giusto che sia, un massimo 23 posti letto per gli uomini e 9 per le donne”. Quindi la struttura sanitaria del carcere di Pisa ospita un totale di 29 posti. Può un solo centro clinico considerato fiore all’occhiello del nostro Paese, ospitare tutti i detenuti malati che necessitano di cure? “Quando fu ideato il centro nel 1971, non era mica programmato per ospitare detenuti di mezza Italia, ma doveva essere funzionale alla struttura che lo ospita”, chiosa l’avvocato Marchesi. Una struttura sanitaria che, tra l’altro, può ovviamente assistere specifiche patologie e non fa operazioni chirurgiche a tutto tondo come un tempo. Ritorniamo al problema principale. Come mai alcuni magistrati hanno concesso il differimento dell’esecuzione della pena, per grave infermità fisica, nel regime della detenzione domiciliare? Semplicemente perché ci sono gravi patologie incompatibili con il regime carcerario e, soprattutto, sono poche le strutture sanitarie penitenziarie per poterli assistere. C’è un lungo intervento - ospitato dalla rivista on line Giurisprudenza Penale di Fabio Gianfilippi, il magistrato di Sorveglianza di Spoleto e componente del Tribunale di Sorveglianza di Perugia. Tra i vari aspetti Gianfilippi ha ricordato la necessità di svolgere “un significativo investimento nell’approntare all’interno degli istituti penitenziari, o comunque nella loro relativa prossimità, presidi specialistici idonei a gestire in sicurezza e con standard medici adeguati le patologie da cui i detenuti sono affetti” Padova. Coronavirus, in carcere non c’è traccia di Serena De Salvador Il Gazzettino, 9 maggio 2020 Il direttore Mazzeo: “i tamponi hanno dato tutti esito negativo sia sui detenuti e sia sul personale”. Il carcere di Due Palazzi è Covid-free. A rendere noto che tutti i tamponi eseguiti nel penitenziario hanno dato esito negativo è il direttore Claudio Mazzeo che a fronte del soddisfacente risultato tiene a ringraziare quanti lo hanno reso possibile. L’ultimo report rilasciato dal Provveditorato regionale per il Triveneto lo aveva anticipato, ora arriva la conferma: “I tamponi eseguiti da medici e infermieri hanno dato riscontro negativo sia sui detenuti che sul personale e sui dipendenti delle cooperative” spiega Mazzeo. In pochi giorni sono stati effettuati un migliaio di controlli dopo la sospetta positività di un carcerato finito all’ospedale. Circa due mesi fa due agenti della polizia penitenziaria erano a loro volta risultati contagiati, ma da allora al Due Palazzi la lotta al Coronavirus sembra vinta. “É il risultato dell’impegno di tutti gli operatori e in particolare degli agenti della polizia penitenziaria, che anche nei momenti difficili hanno dimostrato grande professionalità. Voglio ringraziarli tutti, a partire dal comandante e dal suo vice prosegue il direttore senza dimenticare il senso di responsabilità dimostrato dai detenuti e dai loro rappresentanti”. Mazzeo vuole ringraziare anche tutte le realtà e istituzioni che hanno supportato il penitenziario: “Oltre al personale sanitario dobbiamo citare la magistratura di sorveglianza, la Croce rossa che ci ha fornito la tenda esterna per il triage e la Protezione civile. Non dimentichiamo poi le associazioni di volontariato, a partire dalla Ocv, che in buona parte hanno sospeso le attività ma ci hanno sempre supportato”. Una di queste, la cooperativa Giotto, ha recentemente convertito parte della sua produzione dolciaria nella realizzazione di mascherine chirurgiche. Il grosso delle forniture a lungo richieste dagli agenti e dai loro rappresentanti sindacali sono però arrivate dal Comune, dalla Provincia e dai Rotary Club di Padova che ne hanno inviate in via Due Palazzi un ingente quantitativo che si somma a quelle recentemente adottate dal Prap. “Voglio ringraziare anche il cappellano don Marco, presenza costante e in prima linea conclude Mazzeo -. Ottenere un risultato eccellente è possibile, difendere la salute è un dovere”. Cagliari. Socialismo Diritti Riforme: “al via test sierologici rapidi su detenuti a Uta” cagliaripad.it, 9 maggio 2020 È iniziata anche nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta la verifica sulle condizioni di salute dei cittadini privati della libertà. Circa 230 test sierologici sono stati eseguiti su le donne e gli uomini detenuti per verificare se qualcuno di loro è venuto in contatto con il coronavirus. Il progetto, avviato lunedì proseguirà per tutta la settimana e presumibilmente si concluderà martedì prossimo per l’elevato numero di persone interessate. Lo rende noto Maria Grazia Caligaris, ex consigliera regionale esponente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” esprimendo soddisfazione per l’iniziativa. “Servirà - ha detto - per tranquillizzare non solo i detenuti e i loro familiari, ma anche gli operatori della struttura detentiva che in questi ultimi due mesi sono stati sottoposti a un forte stress dovendo ottemperare alle diverse esigenze lavorative e personali”. “Il programma di screening - ha affermato Luciano Fei, responsabile dal mese di aprile dell’area sanitaria della Casa Circondariale - è stato fortemente voluto dal Commissario straordinario dell’ATS, Giorgio Carlo Steri per individuare e ricercare gli eventuali anticorpi anticovid19 nelle persone. Il test, che consiste in un prelievo di sangue pungendo un dito, è stato fatto innanzitutto al personale sanitario. Pur essendo rapido, offre importanti informazioni. Qualora dovesse riscontrarsi un esito positivo, si procederà invece con il vero e proprio tampone nasofaringeo. In questo caso la persona dovrà restare in isolamento finché non sarà chiarita l’eventuale positività al virus. La struttura sta operando con tutte le precauzioni del caso. Ciascun detenuto dispone delle protezioni individuali come del resto i Sanitari impegnati nello screening. L’auspicio - ha concluso Fei - è che si concluda senza elementi negativi, ma anche in quel malaugurato caso l’organizzazione è in grado di garantire in totale sicurezza la soluzione. Il test rapido verrà poi esteso anche agli Agenti della Polizia Penitenziaria”. “L’iniziativa dell’ATS - ha sottolineato Marco Porcu, direttore della Casa Circondariale “Ettore Scalas” - è stata accolta positivamente dall’Istituto che finora non ha riscontrato nessun caso di Covid19. La decisione di chiudere gli accessi e di garantire i colloqui con i familiari attraverso le videochiamate è risultato finora la migliore strategia. Adesso aspettiamo le decisioni del Governo e del Ministero della Giustizia sulla riapertura dei colloqui. Riteniamo però che ciò possa avvenire solo quando le condizioni saranno davvero sicure. Le strutture detentive sono luoghi particolarmente sensibili dove non è possibile garantire il distanziamento sociale. Occorre quindi - ha concluso Porcu - andare molto cauti. Non dobbiamo avere fretta, aspettiamo fiduciosi le decisioni del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria”. “Le Volontarie di Sdr - ha evidenziato la Presidente Elisa Montanari - sperano di poter riprendere al più presto i colloqui con le persone private della libertà e le diverse attività di solidarietà”. Porto Azzurro (Li). Test sierologici negativi per tutti i detenuti e gli agenti Il Tirreno, 9 maggio 2020 Tutti negativi i risultati dei test sierologici eseguiti sul personale di polizia penitenziaria e civile, nonché sulla popolazione detenuta nella casa di reclusione di Porto Azzurro “Pasquale De Santis”. Gli accertamenti, a tappeto su tutti i presenti nell’istituto penitenziario, sono stati effettuati in base all’accordo intercorso tra il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, e il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria della Toscana e Umbria, Gianfranco De Gesu. Il direttore della casa di reclusione, Francesco D’Anselmo, ha espresso il proprio sentito ringraziamento allo staff medico e infermieristico dell’azienda Usl Toscana nord ovest, coordinato dal responsabile Umberto Cignoni, “per la professionalità e la celerità dimostrate. Ringraziamento che ha inteso estendere anche al comandante del reparto di polizia penitenziaria Giuliana Perrini, “per la puntuale organizzazione”. Tutti negativi anche i test sierologici che l’Asl Toscana Nord Ovest ha effettuato ai volontari delle pubbliche assistenze dell’isola d’Elba. “Solo un volontario ha bisogno di accertamenti più profondi perché, proveniente da Firenze, anche se fa volontariato solo nel periodo estivo e non sta frequentando ora l’associazione”, ha spiegato il presidente della Croce Verde e coordinatore di Anpas per l’Elba, Paolo Magagnini. “I volontari che hanno eseguito il test sono 248 e fanno parte di tutte le pubbliche assistenze elbane che giornalmente fanno servizio sulle ambulanze e sui mezzi sociali - racconta Magagnini - hanno eseguito il test anche i volontari che fanno servizio di protezione civile e antincendio boschivo che si prestano giornalmente per i servizi di spesa a domicilio e recapito farmaci”. “I nostri volontari - continua Paolo Magagnini, coordinatore delle pubbliche assistenze elbane - possono continuare così a prestare la propria opera in sicurezza per loro e per coloro che aiutano giornalmente. Come coordinatore mi sento in dovere di ringraziarli tutti per il servizio che fanno giornalmente e per l’impegno che ci mettono”. Milano. Le mascherine fabbricate dai detenuti del carcere di Opera di Carlo Baroni Corriere della Sera, 9 maggio 2020 La sartoria “Borseggi”, che vede protagonisti i detenuti del carcere milanese, ha riconvertito la sua produzione. Mascherine per detenuti ed agenti. Fabbricate nella sartoria sociale maschile del carcere di Opera. L’emergenza in questo luogo di sofferenza è ancora più acuta. Così come la voglia di solidarietà. I detenuti - per i quali il distanziamento sociale è, semplicemente, impossibile - sono tra i più esposti al contagio. I detenuti sono preoccupati per la loro salute, sono lontani dai loro affetti e non hanno contatti con le famiglie: e lo sono altrettanto gli agenti. La litania delle lamentele a Opera è stata però cancellata da un gesto che è anche un simbolo di rinascita. Una storia che ha un brand dal nome che dice molto, “Borseggi”, una storia di artigianato e di possibile reinserimento sociale, nata sei anni fa. E rientra nel progetto sotto l’etichetta “Cose belle fatte in carcere”. I detenuti-sarti hanno riconvertito la produzione, quando a marzo, è esplosa la pandemia. Dai loro laboratori dove prima uscivano borse, abiti, cuscini e grembiuli, adesso si producono anche mascherine per proteggersi e proteggere dal virus gli oltre mille detenuti e centinaia di agenti. Un progetto che ha avuto subito il via libera del direttore del carcere Silvio Di Gregorio. La sartoria “Borseggi” è nata da un’idea della cooperativa sociale “Opera in fiore” che dal 2004 promuove l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. Dà un’opportunità a dei giovani che devono restare molti anni in carcere. “Sono giovani che scontando la loro pena mettono cuore e cervello nel lavoro” racconta Elisabetta Ponzone, socia della cooperativa. “Hanno capito che il momento critico richiedeva la loro collaborazione, si sono messi autonomamente all’opera, con il supporto prezioso degli agenti di Polizia penitenziaria, veri e propri lavoratori di trincea che partecipano e collaborano con grande spirito di dedizione, perché i sarti possano continuare a lavorare e gli arrivino i tessuti per continuare a confezionare mascherine”. Padova. “Tutto il mondo fuori”, viaggio tra storie e pentimento nel carcere di Antonella Barone gnewsonline.it, 9 maggio 2020 Tre detenuti del carcere di Padova “Due Palazzi”, tre uomini con percorsi diversi accomunati da errori compiuti, sofferenza e pentimento. Un percorso per costruire un futuro di riscatto: è l’itinerario tracciato da “Tutto il mondo fuori”, documentario diretto da Ignazio Oliva e scritto con la collaborazione di monsignor Dario Viganò e don Marco Pozza, cappellano del penitenziario. Vengono seguite le vicende dei tre protagonisti che, seppur molto diversi tra loro, riescono a riconoscere e assumersi la responsabilità di quanto causato alle vittime e alle loro famiglie, lavorando in carcere alla costruzione di un domani diverso rispetto al loro passato. Nel documentario viene dato spazio anche agli incontri di don Marco Pozza con il direttore e gli operatori penitenziari del carcere “Due Palazzi”. Si rivela così un mondo a più voci, fatto di opportunità e difficoltà, di situazioni critiche e di risorse da valorizzare. “Attraverso le testimonianze del cappellano e dei tre detenuti - spiega il regista Oliva - raccontiamo come il percorso di lavoro offerto da questa eccellenza carceraria permetta di ritrovare dignità, tramite l’impegno del tempo detentivo con attività utili agli altri e a sé stessi. Obiettivo del documentario - aggiunge - è esplorare e valorizzare l’importanza del lavoro dentro e fuori dall’istituto che diventa strumento essenziale per la rieducazione per i detenuti e per il loro possibile reinserimento nella società”. “Tutto il mondo fuori”, le cui riprese sono state concluse prima del lockdown, sarà trasmesso in prima tv assoluta sul canale Nove del digitale terrestre mercoledì 13 maggio alle 21.25. Ad anticipare la messa in onda un omonimo digital talk, in programma questo pomeriggio sul sito e sulla pagina Facebook di Uninettuno, durante il quale verranno discussi i temi affrontati dal documentario. Lo dice la Carta: la salute prevale sulle altre libertà di Valerio Onida* Il Fatto Quotidiano, 9 maggio 2020 Durante l’emergenza la sua tutela viene prima di tutto, ma la Corte può intervenire in caso di misure sproporzionate. Le limitazioni ai diritti devono comunque rispondere all’esigenza di tutelare altrui diritti o interessi della collettività. Ma quali interessi? Talvolta sono le stesse norme costituzionali sui diritti a specificare gli interessi che possono giustificare limiti o ulteriori limiti a essi. Così la libertà di circolazione (che nell’attuale emergenza è stata ed è pesantemente limitata) conosce “le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza” (articolo 16 della Costituzione); le riunioni in luoghi pubblici possono essere vietate “soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica” (articolo 18); la libertà di culto è garantita “purché non si tratti dirai contrari al buon costume” (articolo 19). Sono vietate le pubblicazioni a stampa e tutte le manifestazioni “contrarie al buon costume” (articolo 21). Più comprensivamente, la libertà di iniziativa economica “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (articolo 41); il diritto di proprietà conosce i limiti dettati “allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti” (articolo 42). Tra gli interessi collettivi che possono essere perseguiti anche attraverso limitazioni ad altri diritti c’è proprio la salute, che è tutelata “come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, garantendo anche “cure gratuite agli indigenti” (articolo 32 della Costituzione). L’interesse della collettività può arrivare anche a imporre obblighi di comportamento (ad esempio portare il casco in moto o allacciare le cinture di sicurezza in automobile), e a limitare il diritto dei singoli a rifiutare trattamenti sanitari (come nel caso delle vaccinazioni obbligatorie), salvi sempre “i limiti imposti dal rispetto della persona umana” (sempre articolo 32). La tutela del diritto alla salute di tutti e della salute come interesse della collettività, in grado di giustificare anche la compressione di altri diritti - come avviene nell’attuale emergenza -, ha dunque un preciso fondamento costituzionale Tocca alla legge, e se del caso e nei limiti consentiti ai provvedimenti di urgenza adottati secondo la legge, individuare e attuare in concreto quelle limitazioni ai diritti di libertà che sono necessarie per la tutela degli interessi preminenti, nonché disciplinare gli interventi necessari per tutelare il diritto alla salute di tutti, in condizioni di eguaglianza. In tema di diritti e di limiti agli stessi, si parla spesso della necessità di operare giusti “bilanciamenti” fra diritti degli uni e diritti degli altri, e con gli interessi collettivi preminenti. È compito del legislatore stabilire nei diversi casi - e senza oltrepassare i limiti specificamente previsti dalla Costituzione - quale sia il bilanciamento “giusto”. Nella giurisprudenza delle Corti costituzionali, e così anche della nostra, è abituale il ricorso al criterio del bilanciamento per valutare se una legge abbia operato una scelta corretta, rientrante nei margini della discrezionalità politica di cui gode il legislatore, o se invece siano stati varcati questi margini, sacrificando diritti in contrasto con i criteri di ragionevolezza e proporzionalità, nel qual caso la legge può e deve essere giudicata incostituzionale ed essere annullata. In queste occasioni la Corte non si sostituisce alla “ragione” del legislatore con una propria “ragione”, ma controlla che il legislatore non abbia varcato i limiti costituzionali, adottando quindi una soluzione manifestamente irragionevole e sacrificando del tutto o in maniera eccessiva certi diritti. In generale, le limitazioni ai diritti, pur previste dalla legge, devono rispondere a criteri di eguaglianza e di non discriminazione, e a criteri di proporzionalità e ragionevolezza, mentre non possono essere introdotte o fatte valere in modo arbitrario. *Testo tratto da “Costituzione e Coronavirus. La democrazia nel tempo” dell’emergenza, di Valerio Onida, professore emerito di Diritto costituzionale (edizioni Piemme). Migranti. Braccianti e colf, regolarizzazione sempre più difficile di Carlo Lania Il Manifesto, 9 maggio 2020 É sempre bufera sul provvedimento. Una nuova bozza di decreto restringe ulteriormente una possibile sanatoria. Quando ormai è pomeriggio e si è capito che l’accordo sulla regolarizzazione dei lavoratori stranieri è tutt’altro che raggiunto, Nicola Fratoianni la mette giù così: “Si procede a passo di gambero. Dichiarazioni, annunci e poi diversi passi indietro”. Il portavoce di Sinistra italiana non sbaglia. L’ultima bozza del decreto che dovrebbe riguardare non solo braccianti e quanti lavorano in agricoltura senza documenti, ma anche badanti, colf e baby sitter è più restrittiva rispetto a quella che l’aveva preceduta solo 24 ore prima, e se confermata rappresenterebbe un ulteriore cedimento di Pd e Iv alle richieste del M5S, contrario a qualsiasi tipo di sanatoria della quale gioverebbero - è bene chiarirlo - non solo lavoratori stranieri, ma anche decine di migliaia di italiani. Lavoratori che adesso vedono sfilarsi dalle mani la possibilità di emersione dal lavoro nero. Poche parole rischiano di riaccendere le fibrillazioni in seno alla maggioranza e rendono tutto più difficile. Al secondo comma del primo e unico articolo del decreto si spiega infatti che verrà riconosciuto un permesso di soggiorno temporaneo ai cittadini stranieri ai quali sia scaduto il precedente permesso il 31 ottobre del 2019 e che possano dimostrare di essere entrati in Italia entro l’8 marzo 2020 a patto però, e qui è la restrizione che mancava nella precedente bozza di decreto, “abbiano svolto attività di lavoro nei settori” elencati nel successivo coma 3. Vale a dire, tra gli altri: agricoltura, allevamento e zootecnica, ma anche assistenza alla persona e lavoro domestico. Tutti settori nei quali, se impiegato a nero, difficilmente il cittadino straniero potrà dimostrare di aver lavorato. Un giro di vite che limita notevolmente quello che era l’obiettivo iniziale del provvedimento. Sembrerebbe superato, invece, un altro dei punti di scontro all’interno della maggioranza come la durata del permesso di soggiorno temporaneo. Fin dall’inizio le ministre Bellanova (Agricoltura) e Lamorgese (Interni) avevano chiesto una durata di almeno sei mesi in modo da dare al lavoratore il tempo sufficiente per trovare un impiego stabile. Due mesi invece per la collega dal Lavoro Catalfo (M5S). La bozza circolata ieri lasciava ancora in sospeso il punto ma ci sarebbe un accordo per una durata di tre mesi al termine dei quali se il lavoratore avrà trovato un’occupazione stabile il permesso potrà essere convertito “in permesso di soggiorno per motivi di lavoro della durata minima di mesi quattro o per il periodo di lavoro contrattuale se superiore ai quattro mesi”. Si potrà accedere alla regolarizzazione sia in maniera autonoma, da parte del lavoratore, che attraverso i datori di lavoro previo pagamento di un contributo forfettario di 400 euro per ciascun lavoratore per gli onori connessi alla procedura di emersione, e di 300 euro per la richiesta del permesso di soggiorno. Le ambizioni iniziali di arrivare a una regolarizzazione di 600 mila lavoratori tra braccianti, colf e badanti, si sono gradualmente ridotte passando prima 300 mila e adesso, se le restrizioni della bozza saranno confermate, a un numero al momento difficile da calcolare ma decisamente più basso. “Il rincorrersi di bozze, indiscrezioni, smentite e veti rischia di far perdere di vista un punto centrale, il provvedimento deve riguardare il numero più ampio possibile di persone. Solo così si può corrispondere, in questa fase più che mai, all’interesse nazionale”, ha commentato il deputato di +Europa Riccardo Magi. Per la campagna “Io accolgo” la regolarizzazione permetterebbe a “centinaia di migliaia di persone di sottoscrivere un contratto di lavoro, sottraendosi ai ricatti e allo sfruttamento del lavoro in nero”. Ma a chiedere di coinvolgere il maggior numero di lavoratori è anche la Fillea Cgil. “In edilizia abbiamo 400 mila lavoratori irregolari, di cui 198 mila migranti non comunitari, in particolare africani e dell’ex Jugoslavia” ha denunciato ieri il segretario generale, Alessandro Genovesi. “Se questi lavoratori non vengono regolarizzati non possiamo neanche applicare i protocolli di sicurezza e quindi dargli banalmente mascherine e igienizzanti, con il rischio di avere un scoppio di focolai di Covid 19 nei cantieri”. Migranti. L’Onu accusa Italia e Malta per i respingimenti: “In Libia torture orribili” di Nello Scavo Avvenire, 9 maggio 2020 Le Nazioni Unite confermano la ricostruzione della “Strage di Pasquetta”. Appello a Roma e La Valletta: non ostacolate i salvataggi. “Profondamente preoccupati” per le recenti segnalazioni circa “l’incapacità di assistere” i profughi alla deriva e per “i respingimenti delle imbarcazioni dei migranti nel Mediterraneo centrale, che continua ad essere una delle rotte migratorie più letali al mondo”. Lo denuncia l’Alto commissariato Onu per i diritti umani che attraverso la missione delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil) ha avuto conferme all’inchiesta di Avvenire sulla strage di Pasquetta. Non solo, gli uffici Onu tornano ad accusare l’intera filiera del traffico di esseri umani in Libia, che coinvolge le autorità in accordo con la mafia dei trafficanti e delle milizie. “Il 15 aprile, l’Unsmil ha verificato - si legge nella nota da Ginevra - che 51 migranti e richiedenti asilo, tra cui 8 donne e 3 bambini, a bordo di un natante sono stati respinti in Libia attraverso una barca privata maltese dopo essere stati prelevati nelle acque maltesi”. I migranti sono stati internati “dalle autorità libiche nel centro di detenzione di Tarik al-Sikka. Durante i loro sei giorni in mare, cinque persone sono morte e altre sette sono scomparse e si presume che siano annegate”. Per l’Ufficio Onu “i report secondo cui le autorità maltesi hanno richiesto alle navi commerciali di spingere in alto mare le imbarcazioni con migranti e rifugiati in pericolo sono di particolare preoccupazione”. Non si tratta di episodi, ma di un piano sistematico per bloccare i migranti in Libia senza in cambio ottenere neanche il minimo rispetto dei diritti umani. Con la complicità di una intera catena che tiene insieme i guardacoste, i trafficanti e le milizie. “La Guardia costiera libica - accusa l’Onu - continua a riportare a terra i barconi e collocare i migranti intercettati in strutture di detenzione arbitrarie, dove si trovano ad affrontare condizioni orribili tra cui torture e maltrattamenti, violenza sessuale, mancanza di assistenza sanitaria e altre violazioni dei diritti umani”. Campi di prigionia che “sono ovviamente ad alto rischio di essere contagiate dal Covid-19”. In queste condizioni, e in un Paese senza tregua, ostacolare il soccorso in mare, senza avere avviato alcuna seria campagna per i corridoi umanitari né per la protezione a terra dei migranti detenuti, ostacolare il soccorso in mare vuol dire mettere a rischio la vita delle persone. “Chiediamo che le restrizioni sul lavoro di questi soccorritori vengano immediatamente revocate. Tali misure mettono chiaramente a rischio la vita”, ribadisce l’Alto commissariato alludendo in particolare alla recente “immobilizzazione delle navi umanitarie di salvataggio Alan Kurdi e Aita Mari” fermate dall’Italia: “Regolamenti e misure amministrative vengono utilizzati per impedire il lavoro delle Ong umanitarie”. Nei primi tre mesi dell’anno, si sono quadruplicate le partenze dalla Libia. Nonostante “i migranti che intraprendono questo viaggio hanno una gamma diversificata di esigenze di protezione sia in materia di diritti umani internazionali che di diritto dei rifugiati, incluso, il principio di non respingimento, che protegge tutti i migranti, indipendentemente dalla loro migrazione o stato di asilo”, dal 9 aprile, sia l’Italia che Malta “hanno dichiarato i loro porti “non sicuri” per lo sbarco a causa del Covid-19”. Anche la Corte penale dell’Aia ha ribadito il quadro libico, che contempla gli interessi di gruppi criminali, signori della guerra e loro emissari rpesso il governo. Anche per questo l’Alto commissario per i Diritti umani chiede agli stati “una moratoria su tutte le intercettazioni e ritorni in Libia. In conformità con le nostre linee guida recentemente pubblicate su Covid-19 e sui migranti, ribadiamo che gli Stati devono sempre rispettare i loro obblighi ai sensi dei diritti umani internazionali e del diritto dei rifugiati”. Il buio sta divorando il popolo siriano di Gioacchino Criaco Il Riformista, 9 maggio 2020 Iyad Aldaqre sta sotto una terra scura, in un angolo del cimitero di Piacenza, concesso dal Comune perché si possano seppellire fino a trenta musulmani, con la libertà di guardare verso La Mecca, e anche verso la loro terra d’origine. Iyad era siriano, faceva il ricercatore, sposato con un’italiana, il Covid-19 ha fermato per sempre la sua corsa verso la pace, la fuga dalla guerra, se il suo sguardo davvero arriva fino in Siria la pena aggraverà il destino avuto in sorte a 32 anni: vedrà un popolo in fuga, schiacciato fra il crepitio di armi avverse, di giorno. Di notte nemmeno occhi soprannaturali penetrano l’oscurità. Quello siriano è un popolo al buio, una metà lo è completamente e l’altra guarda la luce progressivamente spegnersi. A Zaizoun la torre d’acciaio, color argento a scacchi rossi, ha danzato per qualche minuto insieme al vento e si è precipitata al suolo. I gruppi terroristici del partito del Turkestan hanno finito di distruggere la centrale elettrica della provincia siriana di Idlib, a 235 chilometri a nord della città del vento. L’impresa, immortalata in un video, finito sui social, mostra i miliziani del Turkestan, falange sostenuta dal governo turco, festeggiare la caduta della torre di refrigerazione dell’installazione, l’ultimo elemento ancor in piedi. Il Governo di Assad denuncia da due anni il sabotaggio, con i pezzi e le attrezzature della centrale smontati e trasferiti in territorio turco. L’atto definitivo toglie l’elettricità a 8.000.000 di persone: Zaizoun è una delle principali centrali elettriche del paese. Piano piano, ciò che resta della centrale sarà divorato dalla terra su cui era stata piantata, una terra rossa, grassa, di cui i locali cantano i miracoli: pomodori grossi il triplo del normale e distese infinite di panna. “Il cestino di cotone”, è il nome delle piane di porpora che da Idlib partono per raggiungere Zaizoun. Di notte, metà della Nazione che si distende verso la Turchia, avrà come unica luce i bagliori delle armi delle fazioni in lotta, in una terra troppo bella e colta per non pagare un pegno. Di notte un popolo al buio, in fuga verso la tregua, non avrà come guida il lume che dava anima di villaggio in villaggio per una pista che puntava a Nord, verso l’Occidente. Torneranno le stelle a indicare il cammino, mentre gli uomini proseguiranno a spegnere, una a una, le lampadine siriane per unire nel buio i figli di Damasco. In Nigeria la prima condanna a morte via Zoom di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 9 maggio 2020 Un tribunale nigeriano ha condannato a morte un uomo nella prima sentenza virtuale del Paese durante il blocco di cinque settimane imposto dal presidente Muhammadu Buhari per contenere la diffusione del coronavirus. Il giudice Mojisola Dada, che era fisicamente nell’Alta Corte di Lagos a Ikeja. ha ordinato la morte per impiccagione per Olalekan Hameed, un autista, per l’omicidio nel 2018 della 76enne Jolasun Okunsanya, madre del suo capo. “Questa corte ti condanna, Olalekan Hameed, ad essere impiccato fino a che non sopravvenga la morte - ha detto il giudice dopo tre ore di udienza. E che Dio possa avere pietà della tua anima”. Secondo la legge nigeriana, i governatori statali devono approvare le condanne a morte prima che possano essere eseguite. Non è ancora chiaro se Hameed presenterà appello contro la sentenza.The Lagos state high court complex pictured in January 2019.L’imputato. che ha partecipato all’udienza dalla prigione, è stato accusato nel marzo dello scorso anno di omicidio e furto. Si è dichiarato non colpevole. Tutte le parti del caso, inclusi accusati, avvocati e testimoni, oltre ai giornalisti, hanno partecipato all’udienza in remoto, da diverse posizioni tramite l’applicazione Zoom. Finora il nuovo coronavirus ha contagiato in Nigeria 3.526 persone e ha causato 107 vittime. Una sentenza “profondamente crudele e disumana” secondo Human Rights Watch mentre il direttore di Amnesty International in Nigeria Osal Ojigho ha condannato l’uso della pena di morte nel Paese e sostenuto che sarebbe stato possibile aspettare di poter essere tutti in aula: “Sappiamo che molti tribunali stanno cercando di continuare i processi virtualmente ma in questo caso non si sarebbe potuta rimandare la sentenza a un altro momento? Possiamo veramente dire che sia stata fatta giustizia in questo caso? Il pubblico ha potuto seguire l’udienza? Bisogna valutare tutti gli elementi che portano a un processo equo” ha detto Ojigho. Amnesty International chiede da tempo alla Nigeria di abolire la pena capitale. Secondo i dati dell’associazione per i diritti umani ci sono quasi 3mila persone nel braccio della morte. Sudafrica. Verranno scarcerati 19mila detenuti per rallentare la diffusione del coronavirus lpost.it, 9 maggio 2020 In Sudafrica circa 19mila detenuti saranno scarcerati per cercare di fermare la diffusione del coronavirus nelle carceri del Paese. Ad annunciarlo è stato il presidente Cyril Ramaphosa che ha risposto a un appello delle Nazioni Unite per la riduzione della popolazione carceraria in modo da poter garantire il distanziamento fisico indispensabile per contrastare il virus. “In Sudafrica - ha spiegato Ramaphosa - come in molti altri paesi, nelle carceri si è assistito a focolai di infezioni da coronavirus tra detenuti e personale”. La libertà condizionale sarà concessa ai detenuti considerati a basso rischio di pericolosità sociale e che hanno scontato un periodo minimo di detenzione. I detenuti condannati all’ergastolo o per reati gravi, tra cui quelli sessuali, per omicidio o tentato omicidio, violenza di genere e abusi sui minori non potranno ottenere la scarcerazione. Il Sudafrica ha una popolazione carceraria di 155mila detenuti. In tutto in Sudafrica i casi di contagio da coronavirus rilevati sono 8.232 e i morti 161. Sud Sudan. La scarcerazione di minorenni tra le misure di lotta al Covid unicef.it, 9 maggio 2020 85 minorenni sono stati rilasciati nel Sud Sudan nel quadro delle azioni per decongestionare le carceri, una delle misure di contenimento del Covid-19. I ragazzi scarcerati sono tornati dai loro genitori e tutori legali. Altri 11 minorenni rimangono in detenzione nel paese africano, a causa della gravità dei reati di cui sono accusati. Mentre vengono segnalati nuovi casi di detenzione di bambini e ragazzi, l’Unicef e la missione di peacekeeping delle Nazioni Unite in Sud Sudan (Unmiss) continuano a chiedere il rilascio immediato dei minori, in linea con le recenti linee-guida sulle azioni che le autorità possono intraprendere per proteggere i bambini privati della loro libertà durante la pandemia. In Sud Sudan le prigioni sono sovraffollate, con scarso accesso a servizi igienici, nutrizione e cure mediche - condizioni altamente favorevoli alla diffusione di malattie infettive come il Covid-19. I bambini detenuti sono inoltre più vulnerabili ad abbandono, abuso e violenza di genere, soprattutto se i livelli dello staff o delle cure subiranno impatti negativi a causa della pandemia o delle misure di contenimento. “I bambini hanno un bisogno speciale di protezione e il loro benessere deve essere assicurato,” ha dichiarato Mohamed Ag Ayoya, Rappresentante Unicef in Sud Sudan. “Con il rischio di contagi da Covid-19, il modo migliore di rispettare i diritti dei bambini a condizioni di vita in sicurezza e salute è farli ritornare a casa, dove le loro famiglie possono prendersene cura”. Il rilascio è frutto della collaborazione tra Unicef, Unmiss, magistratura sud-sudanese e il locale Ministero per le questioni di genere, l’infanzia e l’assistenza sociale: partner importanti per l’Unicef che lavorano per migliorare il sistema giudiziario minorile del Sud Sudan. Nel paese manca un sistema di giustizia minorile che prenda in considerazione i bisogni speciali dei bambini in conflitto con la legge, indipendentemente dal fatto che siano colpevoli o meno. Troppi bambini sono detenuti per reati minori e molti scontano la loro pena insieme con gli adulti, circostanza che rappresenta una chiara violazione dei diritti umani dell’infanzia. “Dobbiamo stabilire un sistema a misura di bambino che rispetti i loro diritti anche quando sono in conflitto con la legge” prosegue Ayoya. “Contemporaneamente, dobbiamo prevenire innanzitutto che i bambini commettano reati, individuando le cause principali come povertà, mancanza di istruzione e opportunità future.” Nel Sud Sudan l’Unicef lavora a un progetto pilota affinché si ricorra alla detenzione dei minorenni solamente come extrema ratio, privilegiando misure alternative alla reclusione. La formazione delle forze dell’ordine sui diritti dei bambini, il Sud Sudan Child Act e approcci a misura di bambino hanno l’obiettivo di ridurre il numero dei bambini e dei ragazzi detenuti e a fornire un migliore sostegno ai bambini entrati in conflitto con la legge.