Il 41bis e il Ballo delle forche di Maria Brucale * dirittiglobali.it, 8 maggio 2020 Attaccato, Bonafede rivendica il suo ruolo di bravo ministro antimafia, che ha firmato più di 650 decreti di 41bis. Evidentemente, tanta più gente butti al regime detentivo differenziato, quanto più efficace e capace sei come ministro della giustizia. Il ministro della giustizia tuona: “l’indipendenza dei giudici è sacra. Applicano la legge. Ma le leggi le scriviamo noi!”. Verrebbe da chiedersi: noi chi? Il governo fa le leggi? Legittimato da chi? Se sapessero quello che dicono si affaccerebbe lo spettro di un passato sempre troppo vicino. Ma, magra consolazione, sembra proprio non sappiano quello che dicono e ancor meno quello che fanno. La stura dei propositi sovversivi è data dalle reazioni scomposte quanto ingiustificate ai provvedimenti di alcuni magistrati di sorveglianza che, in piena emergenza sanitaria, investite della responsabilità di persone condannate per reati di mafia affette da malattie gravissime e impossibilitate a curarsi in carcere, esposte assai più delle altre a rischio di morte in caso di contagio da covid-19, valutatane la pericolosità soggettiva residua dopo la lunga detenzione patita, hanno disposto nei loro confronti, per un tempo determinato, la detenzione domiciliare. Decisioni doverose perché sorrette da una preminenza di valori stabilita senza esitazioni dal Costituente. La protezione della vita non si inchina davanti a niente. Le norme di riferimento, infatti, previste dal Codice penale, esprimono con chiarezza tale concetto a quanto pare solo in apparenza ovvio. La pena è differita ove la sua esecuzione possa comportare la morte della persona ristretta, qualunque persona, qualunque reato abbia commesso. Può essere differita anche quando il detenuto, pur non a rischio vita, tragga dalla sua reclusione una sofferenza aggiuntiva ingiustificabile ed incoerente con la vocazione alla riabilitazione di ogni pena. Ove il malato sia persona pericolosa in virtù e delle condanne subite, e di una prognosi ancora sussistente di recidiva, il contemperamento dei valori (la tutela della salute e della sicurezza pubblica) determina l’applicazione di una misura di controllo e di restrizione, la detenzione domiciliare. Questi sono i principi costituzionali cui i giudici devono adattarsi e quando lo fanno (non spesso) bisognerebbe bere ed inebriarsi per festeggiare la vittoria del Diritto sulla terribilità. Invece no. Vengono additati e isolati, messi al bando, intimiditi. Il ministro della giustizia annuncia ispezioni. I casi agli onori delle cronache, in realtà, riguardavano persone assai prossime ad essere scarcerate per avere per intero espiato la loro condanna. E il dato sconcertante è che fossero ancora recluse in 41bis, quel carcere di rigore che si dovrebbe applicare temporaneamente e in situazioni di vigente emergenza perché comporta la sospensione in tutto o in parte del trattamento intramurario, della tensione del carcere alla riabilitazione, in sostanza dell’art. 27 della Costituzione. Per queste persone, invece, il trattamento (orribile parola!) non è mai esistito. Vengono restituite alla piena libertà senza un giorno di valutazione da parte delle autorità preposte dei loro percorsi, del loro vissuto da ristretti, dei loro cambiamenti. Altro che gradualità e flessibilità della pena, progressione, reinserimento, restituzione! Ma tant’è. Dobbiamo dolerci, invece, che ci siano giudici di sorveglianza che fanno il loro mestiere di tutori dei diritti dei ristretti. Ma sono tempi duri anche per via Arenula perché nel ballo delle forche viene fuori che il Dap avrebbe tardato a rinvenire, per uno dei condannati malati, un luogo adeguato di cura tra quelli intramurari così costringendo un giudice serio a disporre l’inevitabile scarcerazione. Tutti d’accordo. Il Dap è colpevole perché non ha fatto in modo che un uomo detenuto per camorra finisse in carcere i suoi giorni e le responsabilità del Dap ricadono inevitabilmente sul ministro della giustizia. Non ci sono trasmissioni televisive e aperture di telegiornali sulla assoluta inadeguatezza dei nostri governanti nella gestione della pandemia in carcere, della mancanza di coraggio, dell’indifferenza a una situazione drammatica e disperante di impossibilità di proteggersi nell’abbandono obbligato degli affetti e delle attività. Non vediamo inviati negli istituti di pena che mostrano celle fatiscenti, muffe alle pareti, convivenza coatta in minuscoli spazi, promiscuità di ambienti chiusi e asfittici per le esigenze primarie della vita quotidiana, lingue di spazio che fanno da bagno e da cucina per tre, quattro, cinque, sei persone costrette a raccogliere il respiro e gli umori le une delle altre. Nulla ci scompone. Non i tanti detenuti morti nelle rivolte esplose dalla rabbia (imperdonabile certo) dei quali ancora nulla o pochissimo è dato sapere. Tutti giustamente inorriditi e scandalizzati davanti alle immagini di guerriglia, alle fiamme e alle grida ma tante sono le immagini che non abbiamo visto ed è importante conoscerle e comprendere appieno la direzione del nostro sconcerto. Intanto, nella smania punitiva al ministero della giustizia si cerca di proteggere una velenosa ragion di Stato e nella frenetica produzione di decreti e decretini ne esce uno, dl. n. 28, 30 aprile 2020, col il quale, tra l’altro, si dispone che il giudice richiesto della misura della detenzione domiciliare nei confronti di persona, condannata per reati di mafia e terrorismo ed altri di particolare gravità, affetta da patologie incompatibili con il carcere, debba richiedere un parere alla procura del luogo dove è stata emessa sentenza e, per i soggetti in 41bis, alla direzione nazionale antimafia. Il provvedimento, figlio di una gran confusione tra le prerogative dei poteri dello Stato, in concreto non ha cambiato in nulla l’esistente. Il giudice, nel decidere il differimento facoltativo della pena per un soggetto condannato per reati associativi svolgeva già una capillare istruttoria per valutare la pericolosità del ristretto operando una perequazione dei valori di rango costituzionale in campo. La previsione scritta di un parere obbligatorio seppur (ovviamente) non vincolante ha soltanto il sapore amaro di una ingerenza con il carattere dell’intimidazione nella autonomia e nell’indipendenza della magistratura. Il capo del DAP, Francesco Basentini, si dimette. Al suo posto viene nominato il dott. Bernardo Petralia. In una, purtroppo, assai seguita trasmissione televisiva il coro unanime accusa l’amministrazione penitenziaria della sua indolenza gravida di conseguenze finché arriva una telefonata del dott. Nino Di Matteo. Il paladino antimafia si duole della sua mancata nomina a capo del DAP che pure, circa due anni prima, il ministro Bonafede gli aveva proposto insieme a quella di direttore generale degli affari penali, inspiegabilmente recedendo da tale offerta. Il dott. Di Matteo narra di intercettazioni che avevano svelato il malcontento dei detenuti alla notizia del suo possibile insediamento quale capo delle carceri e sembra esprimere quantomeno il sospetto che nel ripensamento di Bonafede ci sia stato il timore di scontentare troppo i reclusi ovvero la paura di ritorsioni o rivendicazioni. Bonafede ha modo di difendersi e si premura a rivendicare il suo ruolo di bravo ministro antimafia che ha firmato più di 650 decreti di 41bis tra proroghe e nuove applicazioni. Tanta più gente butti al regime detentivo differenziato, quanto più efficace e capace, dunque, sei come ministro della giustizia. Ma se avesse adottato provvedimenti deflattivi concreti, ridotto il sovraffollamento, lavorato per creare il distanziamento sociale dentro le mura, impiegato risorse per igienizzare gli ambienti e proteggere gli agenti di polizia penitenziaria, involontari e inevitabili veicoli di contagio, rasserenato da subito gli animi delle persone detenute rendendo meno struggente l’interruzione improvvisa dei rapporti con i familiari e delle opportunità di studio, di lavoro, di relazione, di accesso ai piccoli, preziosi e sofferti momenti di recuperata libertà creando alternative immediatamente fruibili di contatto con i congiunti (altra brutta parola) e di impiego del tempo, forse nelle carceri e nelle strutture sanitarie a esse annesse ci sarebbe stata la possibilità di offrire cure adeguate a chi aveva da espiare condanne per reati di particolare gravità. Ma è sempre assai più facile gridare al lupo al lupo senza stare a chiedersi il lupo chi è. *Avvocata Il bluff di Bonafede di Federica Olivo huffingtonpost.it, 8 maggio 2020 Un magistrato di sorveglianza e un docente di diritto penitenziario spiegano perché l’annunciato decreto contro la scarcerazione dei boss non ha senso, né avrà effetti. “Sono stupito dal fatto che i magistrati di sorveglianza non vengano considerati come gli altri colleghi. Immagini se un giorno, per decreto legge, si stabilisse che una sentenza di condanna o di assoluzione va rivalutata. Cosa succederebbe? Ci sarebbe una sollevazione. Una legge non può dire che una decisione del giudice è sbagliata. Ricorda il caso Englaro?”. Bisogna partire da qui, dalle parole che Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, dice ad HuffPost, per avere un quadro un po’ più chiaro di quello che si appresta a fare il ministro della Giustizia con la sua squadra per cercare di riportare i boss in carcere. Il Guardasigilli, sotto il fuoco incrociato di chi ne invoca la sfiducia dopo la lite televisiva con Nino Di Matteo, ha annunciato in Parlamento un nuovo decreto. “La norma - ha dichiarato - permetterà ai giudici, alla luce del nuovo quadro sanitario, di rivalutare l’attuale persistenza dei presupposti per le scarcerazioni dei detenuti di alta sicurezza e al 41bis”. Come? Un testo ancora non esiste, anche se il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis ha detto all’Ansa che la disposizione “da un lato vuol far sì che i giudici di sorveglianza possano rivedere le decisioni alla luce del cambiamento dell’andamento dell’epidemia, dall’altra preservare l’autonomia della magistratura e i capisaldi della Costituzione”. Un’equazione, è evidente, un po’ complicata da risolvere. Nei prossimi giorni si capirà quello che hanno in mente in via Arenula. Per il momento, però, c’è una certezza. Già oggi, con le norme esistenti, un magistrato di sorveglianza può modificare la decisione che ha preso. “Tutti i provvedimenti che riguardano la salute dei detenuti vengono adottati tenendo in considerazione la situazione del momento, peraltro sulla base di norme del codice penale. E, chiaramente, sono a termine. Soprattutto per i ristretti al 41bis - spiega ad HuffPost Pasquale Bronzo, docente di diritto penitenziario all’Università Sapienza di Roma - il magistrato ha quindi la possibilità di rivedere il provvedimento. Anzi, se le condizioni cambiano, deve farlo”. Sul punto Bortolato tiene a precisare: “Quando la concessione dei domiciliari sta per scadere, se un detenuto chiede la proroga, il magistrato è tenuto a verificare se ci sono le condizioni per concederla. Altrimenti torna in carcere”. Ma, se la situazione cambia, se - per fare riferimento al presente - l’emergenza sanitaria da Covid-19 finisce, la verifica può partire su richiesta del pubblico ministero, ma anche d’ufficio. Tutto già scritto nei codici, così come la possibilità di concedere il differimento della pena - obbligatorio o facoltativo - ai detenuti che stanno male. “Applichiamo norme messe a punto già ben prima dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana”, tiene a ricordare Bortolato. Cosa può fare allora Bonafede? “Potrebbe introdurre delle ulteriori verifiche periodiche obbligatorie, al più”, spiega Bronzo. Oppure stabilire una durata più breve degli arresti domiciliari per motivi di salute, ferma restando la possibilità di proroga. Ma, anche in questo caso, “si tratterebbe di norme che valgono per il futuro, non retroattive”, dice ancora il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze. L’uscita di alcuni boss dalla cella nelle ultime settimane ha fatto scalpore. Eppure, ricorda Bronzo, “se guardiamo le statistiche ci accorgiamo di come la stragrande maggioranza delle decisioni del magistrato di sorveglianza sia di rigetto”. Sono una minima parte i detenuti ai quali viene concesso di uscire. Sempre per motivi di salute e per un periodo limitato. La lista di chi fa richiesta di uscire è sempre stata lunga. “Sono migliaia e migliaia le istanze simili a quelle di cui si parla oggi che sono state respinte in passato”, sostiene Bortolato. Ma nelle ultime settimane si è fatta più corposa. Secondo una nota inviata dal neo vice capo del Dap, Roberto Tartaglia, a Bonafede, sono 456 i ristretti in regime “di alta sicurezza” che hanno chiesto di andare a casa per il coronavirus. I magistrati sono chiamati a esprimersi anche sulle loro istanze. “Non sono decisioni facili. Non lo sono mai state - continua Bortolato - e oggi ci troviamo a lavorare senza alcuna serenità. In un clima in cui pare che si voglia concedere o meno a ognuno di noi la patente di antimafiosità. Ma noi, semplicemente, rispettiamo la Costituzione”. E la Costituzione chiede di bilanciare il diritto alla salute con quello alla sicurezza: “La maggior parte delle persone a cui sono stati concessi i domiciliari è anziana, oltre che malata, e quasi a fine pena. Quanto al diritto alla sicurezza dei cittadini, certamente, se un detenuto è a casa, per lo Stato è più dispendioso garantirla”, prosegue Bronzo. Ma si può fare: “Per ogni ristretto al 41bis che oggi è ai domiciliari sono state disposte delle misure di controllo molto stringenti. Tra queste, divieto di incontrare persone diverse dai familiari e intercettazioni”. Un margine di rischio resta, il professore non lo nega, ma la Costituzione garantisce la tutela della vita. Di tutti, anche dei detenuti, indipendentemente dalla pena che stanno scontando. E fermo restando che il magistrato competente ha il potere di cambiare il provvedimento. Ce l’ha già, senza bisogno di ulteriori norme. L’ultima frontiera dell’o-ne-stà è il sacrificio umano di Carmelo Palma linkiesta.it, 8 maggio 2020 Il ministro Bonafede ha prima tolto i detenuti anziani e malati dalle carceri, che magari non avrebbero avuto accesso alle cure da casa, per poi cambiare idea e volerli riportarli dentro. Così, se periranno in galera di Covid-19, potrà dimostrare che lui è davvero contro la mafia. Uno potrebbe pensare ingenuamente che non ci sia nulla di peggio, in uno stato di diritto fondato sulla divisione dei poteri, di un decreto legge dell’esecutivo che disponga la carcerazione di reclusi anziani e malati, cui la magistratura di sorveglianza abbia concesso il beneficio della detenzione domiciliare, come misura di prevenzione del contagio. Ma c’è invece anche qualcosa di peggio ed è il quasi unanime favore che questi surreali ricorsi popolari a Palazzo Chigi contro le pronunce dei giudici riscuotono nella maggioranza e nell’opposizione parlamentare, come una sorta di atto dovuto o di obbligo morale. In Italia, a quanto pare, ci sono sentenze che non si discutono, e altre invece che direttamente si abrogano, nella presunzione assoluta che riflettano una disfunzione di sistema o addirittura una subalternità corriva agli ordini criminali. A volere guardare il fondo dell’abisso, di ancora peggiore del peggio ci sarebbe la partecipe disponibilità dell’opinione pubblica italiana alla tribalizzazione del dibattito sulla giustizia e sulla pena. Tuttavia, sarebbe illusorio auspicare che nella pubblica opinione si conservi qualche anticorpo liberale, quando la classe dirigente legittima da trent’anni i tumulti di piazza, suscitati dai pupari del caos e dell’alienazione politica, come forma di autentica militanza o sentimento di giustizia. Rimane il fatto che la guerra civile dentro il “partito della forca” - che è diventato il partito unico della giustizia italiana come il PNF era il partito unico della politica del Ventennio - in Italia è ora destinata a infettare anche il codice sorgente di una democrazia liberale e a trasformare l’esecutivo in un tribunale speciale di ultima istanza sulle sentenze politicamente sensibili. La “pistola fumante” del delitto a cui oggi l’esecutivo vorrebbe porre rimedio è una circolare della Direzione per l’amministrazione penitenziaria del 21 marzo, che elenca una serie di patologie o condizioni “a cui è possibile riconnettere un elevato rischio di complicanze” in caso di infezione da Covid-19 e, su questa base, richiede alle direzioni degli istituti di trasmettere all’autorità giudiziaria l’elenco dei nominativi dei detenuti che si trovavano “nelle predette condizioni di salute”. Questo atto, che è assolutamente ineccepibile, è costato il posto a Basentini, è diventato lo scandalo su cui la politica italiana si è accapigliata per giorni ripudiandone la responsabilità ed è esploso come caso politico nazionale dopo le accuse del magistrato Nino Di Matteo al ministro Bonafede, sebbene sia pacifico che i giudici di sorveglianza non si limitano a “timbrare” scarcerazioni disposte da altri, ma valutano in concreto, guardando alla realtà dei singoli istituti e dei servizi sanitari interni e esterni accessibili, se la condizione dei reclusi più vulnerabili è compatibile con la detenzione. È risaputo, anche da parte di praticanti del diritto di non eccelso calibro, come Bonafede, ma è politicamente scorretto ammettere di saperlo. È “o-ne-sto” invece fingere di ignorarlo e meravigliarsi e indignarsi se un giudice di sorveglianza manda a casa un malato di cancro che non ha più un centro medico né esterno né interno, nel raggio di centinaia di chilometri, in cui procedere con i trattamenti rimanendo detenuto. E si arriva all’oggi, cioè alla decisione, a quanto pare presa, di ripulire la faccia e la coscienza del Ministro, attaccato dal nume tutelare dell’antimafia combattente, e di offrire in cambio alla piazza il sacrificio di qualche centinaio di criminali anziani e malati. Una sorta di pena corporale esemplare non del “male” di cui essi sono stati responsabili, ma del “bene” che il Ministro si impegna a perseguire, malgrado le offese del suo ex beniamino e attuale accusatore. Ecco l’ultima frontiera della politica della “o-ne-stà”, il sacrificio umano. Rimettere dentro un po’ di vecchi capibanda, cosicché, se creperanno in galera di Covid, anziché a casa, potranno dimostrare che Fofò Dj è davvero contro la mafia. “Mafiosi ai domiciliari”, ma uno su tre aspetta ancora il primo grado di Rocco Vazzana Il Dubbio, 8 maggio 2020 Su 376 “boss” usciti durante la pandemia, 196 non hanno ancora una condanna definitiva, di questi, in 125 aspettano una sentenza di primo grado. La “lista Basentini”, l’elenco dei 376 “boss” finiti ai domiciliari nella fase della pandemia, non ha ancora finito di dividere il Paese che già sbuca un nuovo elenco. Eppure, a scorrere quel primo documento, che ha spinto il ministro Bonafede ad annunciare un nuovo decreto per far tornare in cella i “mafiosi” scarcerati dai giudici, si scoprono dettagli importanti. Tanto per cominciare: le condanne. Su 376 persone ammesse alle misure alternative, a scontare una pena definitiva sono in 180. Di questi, solo tre in regime di carcere duro (41bis): i boss Francesco Bonura, Vincenzo Iannazzo e Pasquale Zagaria. Ma il grosso dell’elenco, 196 nomi, è composto da detenuti in attesa di sentenza definitiva e in regime di sorveglianza speciale. Non solo, la stragrande maggioranza di questo gruppo, 125 persone, aspetta ancora il giudizio di primo grado. Molti di loro sono accusati di aver rivestito ruoli all’interno o all’esterno dei clan, ma ancora nessuna aula di Tribunale si è pronunciata in merito. Eppure, la pubblicazione della lista ha creato un vero e proprio terremoto politico, col ministro della Giustizia Alfonso Bonafede accusato di aver liberato centinaia di boss e costretto a un dietrofront per non prestare il fianco a strumentalizzazioni, soprattutto dopo il colpo contemporaneo arrivato dall’ex pm della “trattativa Stato-mafia” Nino Di Matteo. Ora sul ministro pende addirittura una mozione di sfiducia individuale presentata dal centrodestra. L’argomento “mafia”, del resto, è sempre molto scivoloso e basta solo nominare la parola “garanzie” per essere accusati di connivenza. L’unico a provare a sparigliare un po’ nei giorni scorsi è stato Roberto Saviano, che su Repubblica ha scritto: “Garantire la salute del detenuto, di qualunque detenuto, dall’ex boss al 41bis al detenuto ignoto, è fondamentale, è un atto che ha una efficacia antimafia immediatamente misurabile perché un carcere che non è democratico, diventa immediatamente un carcere dove comandano le mafie”. Ma non è bastato. Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini. E proprio nel giorno in cui il Csm dà il via libera alla nuova nomina di Dino Petralia, sul Dap piovono nuove istanze di scarcerazione per l’emergenza Covid. Sono 456 i presunti mafiosi, detenuti in regime di alta sicurezza a chiederla. Ma anche in questo caso, non tutti potranno essere definiti “boss”. In 225 hanno una condanna definitiva, ma ben 231 sono ancora in attesa del primo grado, appellanti e ricorrenti, recita il documento riservato inviato dal vicecapo del Dap Roberto Tartaglia al ministro Bonafede. Il Dipartimento ha subito dato inizio “all’acquisizione dagli istituti penitenziari delle istanze presentate e alla conseguente attività di analisi finalizzata alla predisposizione di idonee misure organizzative”, si legge nel testo. “Deve precisarsi. che il dato relativo al numero delle istanze prendenti presentate dai detenuti sottoposti al regime 41bis e appartenenti al circuito dell’alta sicurezza non comprende quelle che i detenuti potrebbero avere avanzato per il tramite dei propri difensori di fiducia o per il tramite dei familiari, oppure potrebbero avere trasmesso in busta chiusa all’Autorità giudiziaria, per acquisire le quali saranno necessari sicuramente tempi più lunghi”. Le richieste potrebbero dunque essere molte di più. Attualmente sono 745 i detenuti sottoposti al regime del carcere duro e 9.069 in alta sicurezza. Pochi gli “eccellenti” ai domiciliari e il Covid-19 è solo un aggravante di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 maggio 2020 Per gli altri 456 che hanno chiesto il differimento pena non ci sono strutture adeguate. Mentre è arrivata una nuova lista sul tavolo del Dap composta da nominativi di persone reclusi al 41bis o in alta sicurezza che hanno fatto istanza per i domiciliari, c’è il capo della procura nazionale Federico Cafiero De Raho che si dice sorpreso per la concessione della detenzione domiciliare visto che - soprattutto per i reclusi al 41bis - non c’è rischio di contagio da Covid-19. Il problema è che per quanto riguarda i nomi “eccellenti”, il coronavirus c’entra ben poco. O meglio, in alcuni casi è solo un problema aggiuntivo. Come detto e ridetto, i detenuti al 41bis che fecero tanto scalpore, ovvero Francesco Bonura (fine pena tra pochi mesi) e Pasquale Zagaria (finito in detenzione domiciliare per 5 mesi e poi ritorna dentro), avevano ottenuto il differimento pena per gravissimi motivi di salute e il Covid-19 non c’entra nulla. Ma non finisce qui. C’è ad esempio il nome dell’ergastolano Franco Cataldo, uno dei carcerieri del piccolo Giuseppe Di Matteo che fu poi ucciso e sciolto nell’acido, il quale ha ottenuto il differimento della pena per 6 mesi. Qui il Covid-19 è un problema aggiuntivo. Anziano e malato terminale perché affetto da due tumori, nei mesi scorsi era stato trasferito nel carcere di Opera proprio per essere curato, ma poi la zona di Milano è diventata l’epicentro del contagio e i giudici non hanno avuto molte alternative, viste le sue condizioni di salute. Nella famosa lunga lista, ma scarna di detenuti “eccellenti”, compare il nome di Rosalia Di Trapani, la moglie del boss Salvatore Lo Piccolo e condannata a 8 anni per estorsione aggravata. Ha ottenuto la detenzione domiciliare per gravi motivi di salute, non a casa - perché per la sua pericolosità le è assolutamente vietato mettere piede a Palermo - ma in una casa di riposo di Messina. Tuttavia, come ormai sta emergendo in molti casi simili, a dispetto degli allarmi, il Coronavirus ancora una volta non c’entra proprio nulla. Il permesso per un mese le è stato concesso per motivi di salute perché la struttura carceraria non poteva garantire le cure indispensabili. Il Tribunale, oltre a vietare ogni tipo di contatto con i parenti, anche telefonici, le ha imposto di restare appunto a Messina. L’altro eri il gup di Palermo aveva respinto l’istanza di scarcerazione del vecchio boss di Pagliarelli, Settimo Mineo, recluso al 41bis a Sassari e in attesa di giudizio con l’accusa di aver presieduto la nuova Cupola di Cosa nostra, smantellata a dicembre 2018 dai carabinieri. Il giorno prima - per l’ennesima volta - è stata negata la detenzione domiciliare a Gaetano Riina, fratello dell’ex capo dei capi. Non è un ergastolano e nemmeno un recluso al 41bis. Ha 87 anni e presenta diverse patologie. Ha scontato nel carcere torinese una condanna a otto anni per estorsione e associazione mafiosa comminata dalla corte d’appello di Palermo per aver sostituito il fratello dopo la carcerazione nel 1993 - questa era l’accusa - alla guida del mandamento di Corleone. La pena era stata espiata interamente a luglio dell’anno scorso, ma Gaetano Riina resta in cella per un’altra condanna - ma non per mafia - dei giudici di Napoli e il fine pena è fissato al 2024. Ma se venisse concessa la liberazione anticipata, lui finirebbe di scontare la pena il prossimo anno. ra il vice capo del Dap Roberto Tartaglia sta esaminando i fascicoli riguardanti le 456 richieste per i domiciliari (riguarda chi è in attesa di giudizio) o detenzione domiciliare (i definitivi), ma bisogna capire quanti siano per motivi legati al Covid-19. Attualmente ci sono casi di persone con gravi patologie dove i centri clinici penitenziari sono insufficienti e la detenzione risulta incompatibile. Un problema, quello sanitario, che deve essere risolto con un investimento nell’approntare all’interno degli istituti dei presidi specialistici idonei. Inasprire le norme, senza curare questi aspetti, rischierebbe di violare i diritti dell’uomo. “I domiciliari concessi ai boss non sono colpa di Bonafede, il decreto chiuderà la falla” di Giulia Merlo Il Dubbio, 8 maggio 2020 Intervista a Walter Verini, responsabile giustizia del Partito Democratico. Sono stati giorni di passione, a Via Arenula. Un uno-due - prima l’attacco di Nino Di Matteo in diretta tv e poi le polemiche sui domiciliari a condannati per mafia per ragioni sanitarie - che ha letteralmente travolto il ministro Alfonso Bonafede, intorno al quale però ha fatto quadrato anche il Pd. “Sulle scarcerazioni ci sono state delle falle serie, inaccettabili, nel sistema che correggeremo anche con il decreto. Ma questo governo e il ministero della Giustizia hanno sin dall’inizio contrastato la mafia, con i fatti”, sintetizza il responsabile giustizia dem, Walter Verini. Eppure le opposizioni hanno chiesto compatte le dimissioni di Bonafede... Le opposizioni hanno scelto la strada del manovrismo parlamentare: legittimo ma assolutamente sbagliato. In questo momento, invece che giocare al tiro al bersaglio con sfiducie individuali, sarebbe opportuno concentrarci tutti per contrastare di più e meglio le mafie, dentro le carceri e nel Paese. Mi sembra una mozione di sfiducia dal puro sapore propagandistico. Il Guardasigilli sta tentando il dietrofront via decreto, per riportare in carcere chi è stato messo ai domiciliari. Condivide l’iniziativa? È evidente che nel sistema ci sono state delle falle: sono ai domiciliari persone il cui posto è in carcere e dovrebbero essere curate lì, nel rispetto dei diritti della persona. Dunque è giusto intervenire. Però la questione va ricostruita dall’inizio: dalle prime rivolte in carcere a causa del virus in situazione di sovraffollamento, i detenuti sono diminuiti da 61mila a 53 mila. Questo è avvenuto in parte grazie anche al primo decreto Cura Italia, in cui era stata prevista una norma contro il sovraffollamento che però escludeva i detenuti per reati ostativi, per mafia, terrorismo e violenza di genere. Nel decreto successivo è stato previsto che i magistrati di sorveglianza debbano chiedere il parere di Procura e Direzione nazionale antimafia per le richieste di domiciliari di detenuti per reati di mafia. Ora, poiché evidentemente ai domiciliari sono finiti anche detenuti che dovrebbero rimanere in carcere, stiamo predisponendo un decreto che vi ponga rimedio. Ma la falla non è responsabilità diretta né del governo né del ministro Bonafede. Ma il decreto non rischia di violare l’autonomia della magistratura? No, il principio dovrà essere rispettato in modo rigoroso. Il decreto dovrà prevedere che i magistrati di sorveglianza che hanno concesso i domiciliari valutando la situazione sanitaria e lo stato della pandemia, insieme allo stato soggettivo del detenuto, siano tenuti a rivalutare, a distanza di qualche settimana, se le condizioni per le quali hanno preso il provvedimento siano mutate o meno. Insomma, il decreto terrà insieme il rigore antimafia e il rispetto della Costituzione. E. Il ti provvedimenti risalgono a già a un mese fa. A questo proposito mi riconosco pienamente nelle parole del magistrato Tamburino, già coordinatore dei giudici di sorveglianza e già capo del Dap. Così facendo, Bonafede non rischia una sterzata giustizialista? È evidente che nell’humus dei 5 stelle c’è stata storicamente una predisposizione a quello che, per comodità, si può chiamare giustizialismo. Ma questo oggi non caratterizza la politica del governo. Personalmente, ritengo sbagliata una contrapposizione tra giustizialismo e garantismo: noi siamo per la giustizia giusta e per le garanzie. Garantismo è un termine di cui si è abusato troppo: anche Salvini si dice garantista, ma solo a corrente alternata e non con i poveri della terra. Bisogna farla finita con questa contrapposizione spesso strumentale allo scontro politico e battersi per una giustizia che abbia in sé il rispetto profondo di diritti e garanzie, rifiutando sia semplificazioni “giustizialiste” che poi si ritorcono anche contro chi le alimenta, sia garantismi speciosi. L’altro fronte caldo per Bonafede è la polemica innescata da Nino Di Matteo... Io credo che sia fuori da ogni grammatica istituzionale il fatto che un magistrato membro del Csm vada in televisione a chiedere conto al ministro della Giustizia delle sue scelte. Mi ritrovo nelle parole di Armando Spataro: il comportamento di Di Matteo non fa onore alle istituzioni. Del resto, la sua condotta è stata stigmatizzata anche dall’Anm e dai laici del Csm di area 5 Stelle. Un ministro non deve rendere conto a un magistrato di scelte di competenza ministeriale e del Consiglio dei ministri. Si aspettava un intervento così a gamba tesa da parte di Di Matteo? Di Matteo è un magistrato rispettabile a cui va riconosciuta gratitudine per il suo coraggioso impegno antimafia, anche se, personalmente, ho avuto pesanti perplessità sulle modalità con cui si è rapportato a un’istituzione di garanzia come Quirinale nell’inchiesta Trattativa. Del resto, Di Matteo non è nuovo a esternazioni più che borderline: l’anno scorso è stato rimosso dal pool “stragi” dal procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, proprio in seguito a esternazioni non consone durante un’intervista. Nessuna ombra, dunque, sulla nuova nomina al Dap? Dino Petralia proviene dalla magistratura antimafia e saprà interpretare questo ruolo al meglio. La sua nomina, insieme a quella di Roberto Tartaglia, è un segnale forte contro i mafiosi nelle carceri, ma ricordo che il tema carcerario è molto ampio e diversificato e non si può esaurire col 41bis. Su questo punto lancio un appello al mondo dell’antimafia: è il momento questo forse di fare quadrato, unendo le forze in questa fase così delicata per il paese, senza divisioni. La giustizia, tuttavia, è tornata terreno di scontro politico... Purtroppo è così da anni, ma l’Italia dopo la pandemia sarà chiamata a ridisegnare il suo futuro su basi radicalmente nuove anche nella giustizia. Bisogna aggiornare il mondo della giustizia alle esigenze del Paese e i capi saldi sono legalità, trasparenza e velocità. Serviranno anche le nuove tecnologie come il processo da remoto, ma sempre garantendo, sul fronte penale, le garanzie del diritto di difesa. Serviranno grandi cambiamenti, non un ritorno alla normalità pre-coronavirus. Ma oggi Bonafede è in bilico e ieri Bellanova ha minacciato le dimissioni. Questo governo è abbastanza forte per riformare il Paese? Questo governo ha delle fragilità ma, al tempo stesso, non esistono alternative. C’è una strada obbligata per il Paese: che questa alleanza si rafforzi, trasformandosi da alleanza quasi per caso in alleanza fondata sulla condivisione dei progetti e dei programmi funzionali a un Paese nuovo. Questa maggioranza deve avere come interlocutore l’Italia intera, dando risposte anche inedite. A tenere insieme il nostro governo non è un contratto come quello che c’era tra 5 Stelle e Salvini, ma deve essere una visione comune, un’alleanza stabile che permetta di allargare gli orizzonti ed essere riferimento per l’Italia che vuole ripartire. Covid-19 e scarcerazioni: parlano i magistrati Anna Canepa e Stefano Musolino radiopopolare.it, 8 maggio 2020 Il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, durante il question time alla Camera di ieri, ha annunciato un provvedimento contro le scarcerazioni di alcuni detenuti a causa del coronavirus Covid-19. Si tratterebbe di un decreto che consentirebbe ai magistrati di sorveglianza di rivalutare “alla luce del nuovo quadro sanitario, l’attuale persistenza dei presupposti per le scarcerazioni di detenuti di alta sicurezza e al regime di 41bis”. Gran parte delle ordinanze con cui sono state disposte le recenti scarcerazioni, tutte per gravi patologie, fanno riferimento all’emergenza Covid-19. In molti sostengono che ora si chiedano le scarcerazioni non soltanto per una legittima preoccupazione, ma anche perché in questo momento di emergenza è più facile ottenerle. Ora che l’emergenza sanitaria in Italia sta lentamente rientrando, Il ministro Bonafede vorrebbe rivedere la situazione. Oggi a Prisma abbiamo affrontato il tema con i magistrati Anna Canepa, sostituto procuratore alla Direzione Nazionale Antimafia, e Stefano Musolino, sostituto procuratore alla Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria. Ecco un estratto dell’intervista di Lorenza Ghidini e Alessandro Braga. La possibilità delle scarcerazioni per motivi di salute durante l’emergenza Covid non dipende dal reato commesso, ce lo conferma? Anna Canepa. Certamente. La tutela della salute riguarda tutte le persone e a maggior ragione i detenuti che si trovano in una situazione particolare. Vi è la necessità di contemperare questa esigenza costituzionalmente tutelata con le esigenze della sicurezza. Rientriamo assolutamente negli ambiti legali di tutela della salute, ci mancherebbe altro: siamo uno stato di diritto. Nulla ha a che vedere col decreto Cura Italia, qui stiamo parlando delle scarcerazioni che riguardano un numero molto inferiore rispetto alla popolazione carceraria. Parliamo dei detenuti che sono in alta sicurezza o al 41bis, soggetti particolarmente pericolosi. Molti dicono: se questi detenuti sono in isolamento, cosa c’entra l’emergenza Covid? Anna Canepa. I detenuti al 41bis scarcerati sono 3, gli altri sono detenuti pericolosi di alta sicurezza. Sicuramente chi è detenuto al 41bis è meno esposto dei detenuti che si trovano in dieci in una cella. È isolato, ma viene comunque in contatto con gli operatori di polizia penitenziaria, che a loro volta rischiano parecchio. Nei giorni scorsi Roberto Saviano è intervenuto nel dibattito sulle scarcerazioni: “Garantire la salute del detenuto, di qualunque detenuto, dall’ex boss al 41bis al detenuto ignoto, è fondamentale, è un atto che ha una efficacia antimafia immediatamente misurabile perché un carcere che non è democratico, diventa immediatamente un carcere dove comandano le mafie”. Lei come vede questa polemica? Stefano Musolino. Concordo con la conclusione di Saviano, mi sembra molto ragionevole e molto fondata e anche un po’ eccentrica rispetto al percorso letterario a cui Saviano ci aveva abituato. È evidente che su questa vicenda si stanno giocando altre battaglie e ci sono altre questioni che, purtroppo, la sovrastano. È una questione estremamente delicata perché siamo al limite tra le esigenze di vari interessi coinvolti, dall’interesse dello Stato ad assicurare la sicurezza pubblica attraverso strumenti preventivi particolarmente incidenti sulla vita delle persone, al il diritto delle persone detenute di non dover sopportare trattamenti inumani e avere garanzia assoluta dei loro diritti di salute. Sono entrambi valori estremamente rivelanti che meriterebbero un’attenta riflessione e che sicuramente non meritano interventi come quelli che si stanno accumulando e che sono interventi dettati da un’urgenza che non è solo quella di gestire le dinamiche che si stanno sviluppando, ma di gestire anche altre dinamiche politiche parallele che si intersecano con questa vicenda. E questo non aiuta né il legislatore né l’opinione pubblica a comprendere esattamente quali sono i valori in gioco e quale deve essere il miglior atteggiamento per gestire questa vicenda. Flick “Sulle pene non cambiamo le regole in corsa” di Emanuele Lauria La Repubblica, 8 maggio 2020 Professor Flick, sono fondati i dubbi giuridici sul decreto legge allo studio del governo per rimettere in carcere i boss? “La domanda è: si può fare un cambiamento delle regole in corso di partita? Il tema che discutiamo è quello della retroattività o meno di una legge che regola l’esecuzione della pena. Norme come quelle che prevedono, per ragioni gravi di salute, la detenzione domiciliare al posto del carcere incidono molto sulle libertà personali. E a lungo non hanno avuto il limite della non retroattività: insomma, dopo l’emanazione, valevano per il futuro come per il passato, sulla base del principio “tempus regit actum”. Così aveva stabilito e ritiene tuttora la Cassazione. Ma la Corte Costituzionale di recente ha modificato questo orientamento”. Cosa afferma la Consulta? “Afferma, esprimendosi sullo “spazza-corrotti”, che è inammissibile impedire l’applicazione di misure alternative al carcere per fatti accaduti in tempi precedenti all’entrata in vigore della legge. Il principio è che un condannato deve conoscere prima le modalità della pena. Non so cosa farà il governo ma mi sembra difficile andare frontalmente contro la Consulta, solo due mesi dopo che si è espressa. Poi, se permette, c’è un’altra questione: non spetta a me dire se i giudici di sorveglianza abbiano sbagliato o meno, ma i loro provvedimenti andrebbero impugnati singolarmente. Così, agendo attraverso la modifica di una legge, si rischia di condizionare la sovranità della magistratura. E un ultimo aspetto mi rende perplesso”. Quale? “Siamo rimasti tutti un po’ colpiti di fronte alla rapida successione di decreti del presidente del consiglio dei ministri sull’emergenza Coronavirus. Non vorrei che questo discorso si estendesse ora anche ai decreti legge: siamo di fronte, per le scarcerazioni, al terzo in una settimana. Mi preoccupo che si arrivi a un’abitudine. È necessario ribadire la presenza forte del parlamento, invece di continuare a delegittimarlo”. Il tema del diritto alla salute va conciliato con quello alla sicurezza, con la certezza della pena… “Io credo che già con le ultime norme varate dal governo, che prevedono il coinvolgimento del procuratore antimafia sulla concessione dei benefici, la bilancia tenda più verso la sicurezza. Di certo, il coronavirus ripropone il problema del sovraffollamento e dell’organizzazione del sistema sanitario delle carceri. Su questo punto serve un intervento. Lo Stato ha l’obbligo di farsi carico della salute del detenuto, forse più che di quella di un cittadino libero”. Scandurra (Antigone): “Manca la consapevolezza reale del problema carcerario” di Katya Maugeri sicilianetwork.info, 8 maggio 2020 Giornate ricche di polemiche a causa della scarcerazione di alcuni boss. Durante il lockdown sono 376 i detenuti mandati ali arresti domiciliari, tra cui figurano importanti boss e trafficanti di droga. “Le scarcerazioni di detenuti al 41bis avvenute in questi giorni non dipendono dalle nuove misure adottate per contrastare la diffusione del virus in carcere facendo calare il numero dei detenuti” a spiegarlo è Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione e dei progetti di ricerca nazionali ed internazionali. “Da quelle misure sono esclusi non solo i detenuti al 41bis, ma anche molte altre categorie di detenuti per fatti gravi. Dunque, non sono polemiche contro il decreto Cura Italia. Si tratta di scarcerazioni avvenute in base alle normative preesistenti. Poste a tutela del diritto alla salute delle persone più anziane e malate per le quali la detenzione in carcere non è più possibile. Non hanno nulla di automatico. Sono sottoposte al vaglio della magistratura e se ne sono registrate anche in passato. A meno che non si voglia pensare che i magistrati italiani siano improvvisamente diventati amici dei mafiosi, immagino non sia nemmeno questa la polemica. Allora di che si parla? Vogliamo discutere nel merito se la decisione relativa a tizio o a caio è corretta? Io non credo di averne la competenza. Non ho in ogni caso visto la documentazione che ha visionato il giudice. Quindi, mi fiderei della sua valutazione più che di quella di altri”. Ma qual è la situazione attuale nelle carceri italiane travolta dal Coronavirus? “Ci siamo approcciati a questa emergenza sanitaria con una condizione di sovraffollamento, con strutture vecchie, disagi strutturali importanti, condizioni igieniche rilevanti e una popolazione detenuta molto fragile anche da un punto di vista sanitario. I detenuti, in media, pur essendo giovani presentano problemi sanitari frequenti e complicati: dalle dipendenze alla salute mentale, alle malattie infettive. Si tratta di una popolazione molto problematica”. Sono 60.439 i detenuti presenti nelle carceri italiane al 30 aprile 2019, secondo il XV rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione (anno 2019). Quasi 10.000 in più dei 50.511 posti letto ufficialmente disponibili - cui si debbono sottrarre gli eventuali spazi momentaneamente in manutenzione - per un tasso di affollamento ufficiale che sfiora il 120%. Le donne sono 2.659, pari al 4,4% del totale. Il 33,6% è composto da detenuti stranieri, che in numero assoluto sono 20.324. L’Italia è il primo paese dell’UE per incremento della popolazione detenuta tra il 2016 e il 2018, in controtendenza rispetto al resto del continente (che presenta un trend negativo). “Adesso la situazione legata al Covid-19 è in evoluzione. Si stanno attrezzando con dei protocolli per l’isolamento e per la prevenzione del contagio. Abbiamo assistito a casi drammatici e da quelle esperienze occorre imparare. Ma “ricordiamo che la maggior parte degli istituti hanno numeri bassi o contagio zero. Adesso serve pensare a come convivere con il virus e riprendere in sicurezza la normalità. Pensiamo alle comunicazioni con l’esterno, con i familiari, a riprendere le lezioni scolastiche. Anche il carcere ha bisogno di questo”. L’associazione Antigone sin dagli anni Ottanta lotta per “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”, “lottiamo per il rispetto della legge. Cerchiamo di portare trasparenza e conoscenza. Per gestire e governare il carcere serve conoscerlo altrimenti si rischia di ragionare su stereotipi, pregiudizi e preconcetti che non hanno a che fare con la realtà. Sarebbe un grave e pericoloso corto circuito mettere i pregiudizi al posto dell’analisi. Si rischierebbero scelte inevitabilmente sbagliate”. “Ed è proprio dall’articolo 27 della Costituzione che Antigone vuole ripartire” - si legge nel rapporto di Antigone - “dal suo affidarsi a tre concetti fondamentali: 1) la non coincidenza della pena con il carcere; 2) il divieto assoluto di inflizione di pene disumane e degradanti; 3) la costruzione di una pena che abbia un senso di inclusione sociale”. Rapporto che non potrebbe esistere senza l’Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone, che dal 1998 entra nelle oltre duecento carceri italiane ed è strumento di conoscenza per chiunque si avvicini alla realtà penitenziaria: media, studenti, esperti, forze politiche. Manca la consapevolezza reale del problema carcerario, la conoscenza di una realtà che in tanti proiettano a una idea astratta perché “nell’immaginario collettivo il carcere è identificato con il mafioso, ovvero una tipologia diversa. Su una popolazione detenuta di 60mila detenuti circa 700 sono al 41bis. Quindi è evidente che si rischia di perdere il fenomeno reale”. “Una delle prime cause dell’eccessiva presenza di persone detenute è da ricercare senz’altro nell’inefficace e repressiva legislazione sulle droghe - si legge sul Rapporto di Antigone - che rappresenta una delle principali cause di ingresso e permanenza in carcere. Al 31 gennaio 2018, il 31,1% delle persone detenute era ristretto per violazione del Testo Unico sulle droghe: circa un terzo del totale. La media europea è del 18%, 13 punti percentuali in meno. In Germania i detenuti per droga erano il 12,6%, in Francia il 18,3% e in Spagna il 19%”. Molti dei detenuti con problemi di dipendenza o legati alla salute mentale, restano in carcere per la mancanza di risorse e per una lenta burocrazia che li vedrebbe invece collocati in strutture idonee alle loro patologie, “i detenuti tossicodipendenti sono quelli che andrebbero seguiti in modo diverso. Quando un reato è commesso per dipendenza, se la patologia non viene curata, chiaramente sarà recidivo. Il percorso idoneo è fuori, non dentro. Le vittime durante le rivolte, nelle scorse settimane, sono morti per overdose di metadone. La fragilità della popolazione detenuta è tale che quando si perde il controllo l’unico pensiero è andare in farmacia, acquistare del metadone e lasciarsi andare”. La gente è in carcere perché ha violato la legge, non si può pensare che la reazione sia illegale. “È importante che tutto il percorso penale, dal processo all’esecuzione della pena venga eseguito nel rispetto dei diritti delle persone, ovvero nel rispetto della legge. Se cade questo cade tutto. È fondamentale conoscere il fenomeno reale, ovvero quello di una grande massa di persone che commettono reati spesso recidivi, spesso non alla prima carcerazione perché un intervento efficace è mancato e dove probabilmente la sfida è ancora da compiere. In che modo? Offrendo l’informazione e delle scelte alternative. Molti di loro affermano “Io non voglio più farla questa vita” e in quel momento lo pensano davvero. Affinché possano rivoluzionare davvero le loro vite servono valide alternative, strumenti concreti. È un bivio al quale si ritrovano non appena scontata la pena. Non è una sfida facile ma viene combattuta in tutta Italia”. L’associazione Antigone è presente anche in Sicilia e nonostante il periodo complicato non ha abbandonato la sua missione. “Sono giorni difficili per chi sta in carcere - spiega Pino Apprendi presidente di Antigone Sicilia - non solo per la pena che ciascuno deve scontare e per il rischio contagio Covid19, ma perché è stato alimentato un clima giustizialista che dilaga senza avere conoscenza delle leggi dello Stato. I contatti maggiori di questi giorni, da parte dei familiari dei detenuti sono avvenuti a causa della mancanza di colloqui e quindi di notizie dei congiunti ristretti e per verificare se, per chi ne avesse diritto, ci sono opportunità di lavoro. Purtroppo la risposta è sempre negativa perché la legge è cambiata alcuni anni fa, e l’imprenditore non trova alcuna convenienza ad assumere detenuti. C’è stato un periodo, prima che cambiasse la legge, che molti dei detenuti riuscivano a trovare opportunità d’inserimento in cicli produttivi che erano utilissimi a un recupero sociale completo. Adesso tutto è bloccato e il recupero diventa un percorso molto più complicato. Chi fa le leggi non mette nel conto che si parte da un pregiudizio nei confronti del detenuto e se l’imprenditore non trova convenienza evita di crearsi ulteriori problemi burocratici dei quali già è vittima”. Il carcere è un luogo al buio ed è importante che si faccia luce e attenzione a quello che succede lì dentro. Quelle scarcerazioni e la demagogia dei pm per attaccare i giudici di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 8 maggio 2020 La mettono giù così: “Vi pare giusto che, con la scusa del virus e sotto ricatto di rivolte sobillate dai boss, giudici ribelli abbiano scarcerato 376 pericolosi capimafia al 41bis per offendere le vittime, irridere chi li aveva arrestati e mortificare chi li aveva denunciati?”. E, messa così, la risposta sarebbe una sola. Ma una sindrome polacca sta contagiando i pm italiani: pochi mesi fa manifestavano a Varsavia contro l’involuzione di un governo che aggredisce i propri giudici, adesso capi di Procure antimafia, con contorno di aedi dell’informazione, intimidiscono i giudici che non gli garbano (quelli di Sorveglianza) con gli stessi toni e argomenti distorti che esecravano quando a usarli contro loro era Berlusconi. Dal 41bis sono usciti non in 376 ma in 3, per tumori e cardiopatie a rischio vita combinati all’incapacità del sistema penitenziario di garantire cure indifferibili. Due terzi degli altri sono “boss” sulla fiducia, visto che attendono ancora sentenze. Quanti nelle rivolte di marzo oggi condannano - e ci mancherebbe - la violenza delle proteste per le condizioni dei detenuti (13 poi morti sotto custodia dello Stato) sono però gli stessi che nel 2016 ignoravano la protesta non violenta di 19.056 detenuti aderenti (con le firme al Papa e due scioperi della fame) all’iniziativa dei radicali che quelle condizioni additava. Età e malattie, in caso di contagio Covid, sono concause di alti rischi anche per i detenuti, diminuiti non di 376 ma di 9.000 (di cui 2.917 in detenzione domiciliare, 736 con braccialetto) spesso con l’ok proprio di pm (se in custodia cautelare), o su richiesta dei direttori di carceri (se con fine pena sotto 18 mesi): modo per recuperare, nella flagrante illegalità di 62.000 reclusi a febbraio in 51.000 posti (evidentemente tollerata da pm e cantori della legalità a targhe alterne), ciò che il ministero di Bonafede non aveva predisposto. E cioè mini-spazi dove almeno isolare i positivi per scongiurare in cella il bis del disastro-ospizi. Rivolte, circolari, lettere. Cosa c’è dietro il caso scarcerazioni di Claudio Tito La Repubblica, 8 maggio 2020 “Un decreto per rivalutare la scarcerazione dei boss”. L’altro ieri il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha tentato di chiudere con questo annuncio la polemica che stava infuriando sul trasferimento agli arresti domiciliari, causa pandemia, di diversi condannati per mafia. Ma come si è arrivati a questa decisione? Cosa è accaduto da marzo fino a ieri? Tutto è stato eseguito nella trasparenza? I rapporti tra il Dap (il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria) e il Guardasigilli sono stati corretti? Ci sono state delle mancanze o delle approssimazioni? Le violente rivolte registrate nelle carceri hanno svolto un ruolo diretto o indiretto? La sequenza temporale degli eventi è l’unica certezza da cui partire. Si tratta di una catena di episodi che conferma tutti gli interrogativi. Inizia nella prima settimana di marzo. Quando l’emergenza Coronavirus si trasforma in allarme sociale e istituzionale. In quel momento, in diverse case circondariali del Paese scattano delle vere e proprie rivolte. Da Salerno a Napoli, da Roma a Milano. Il primo incidente risale al 7 marzo. La tensione resta altissima per quattro giorni. I morti sono 12. Molti dei quali tossicodipendenti, i detenuti più deboli all’interno della società carceraria e i più “sacrificabili” nelle logiche malavitose. Il sospetto di molti è allora che i tumulti siano orchestrati dai gruppi più facilmente attivatili: quelli della criminalità organizzata. I più agitati, gli affiliati a camorra e mafia. In silenzio, quelli della ‘ndrangheta. Nelle prigioni calabresi non si muove un dito, ma nei canoni delinquenziali viene considerato un segnale ulteriore. Negli stessi giorni, il 9 marzo, il governo annuncia il lockdown. L’11 le rivolte vengono sedate. Sei giorni dopo l’esecutivo approva il primo decreto per affrontare la crisi: il Cura Italia. E il 17 marzo e in quel testo compare la prima norma sui detenuti. Per evitare il sovraffollamento durante il picco dei contagi, si prevede la scarcerazione di chi ha una pena residua non superiore ai 18 mesi e comunque non condannati per delitti gravi. Da quel momento quasi sei mila reclusi vengono liberati. Ma non, appunto, quelli macchiatisi dei reati più pesanti. Non quindi i mafiosi. Passano altri tre giorni e il Dap, guidato allora da Francesco Basentini, emette una circolare sulla base dell’unità medica interna, in cui si segnalano i rischi sanitari per chi è affetto da alcune patologie. L’elenco riguarda i malati oncologici o quelli affetti da Hiv, ma anche chi presenta “malattie dell’apparato cardiocircolatorio” o “malattie croniche dell’apparato respiratorio”. Da quel momento si susseguono le decisioni dei magistrati di sorveglianza. Il “confine” dei condannati si allarga. Fino a contemplare, appunto, la scarcerazione di boss di chiara fama. Ogni provvedimento è motivato dalla pandemia e dal pericolo determinato dalla difficoltà di mantenere il distanziamento sociale. Due dati, però, fanno riflettere: al 31 marzo, dopo dieci giorni dalla circolare del Dap, i carcerati contagiati dal Covid ammontano a 19 su una popolazione carceraria di quasi 61mila persone. Gli agenti penitenziari colpiti dal virus sono 116 su un corpo di 37 mila unità. Resta il fatto che dal 21 marzo le maglie della scarcerazione si dilatano. Al punto che il 22 aprile il presidente della Commissione Antimafia, Nicola Morra, scrive al direttore del Dap per chiedere spiegazioni e per conoscere “se vi siano state determinazioni di sorta che abbiano inciso su uno o più detenuti sottoposti alle misure di cui all’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario”. Ancora Morra, due giorni dopo, manda una nuova lettera per sollecitare “i dati di cui dispone il Dipartimento”. Basentini risponde. Ma evidentemente per l’Antimafia non è esaustivo. Non tutto è chiarito e se ne lamenta platealmente facendo notare di non aver ricevuto l’elenco dei mafiosi liberati. Il 29 aprile allora spedisce un’altra missiva reclamando “i documenti relativi alle modifiche del regime penale intramurario per i detenuti condannati per i reati di cui all’art. 41bis dell’ordinamento penitenziario”. A quel punto Basentini manda a Morra la lista, poi pubblicata il 6 maggio da Repubblica. E “per conoscenza” la trasmette anche al capo di gabinetto del ministro Bonafede e al suo capo della segreteria. Il Guardasigilli, attraverso il suo staff, era quindi a conoscenza delle disposizioni assunte almeno dal 29 aprile. Il primo maggio - due giorni dopo - Basentini rassegna le dimissioni e viene nominato il due maggio il nuovo responsabile del Dap, Dino Petralia. Il ministro della Giustizia, però, fino al 6 maggio non adotta alcun provvedimento. E annuncia il decreto solo dopo che Repubblica pubblica l’elenco dei mafiosi scarcerati. Boss, i magistrati rivaluteranno ogni scarcerazione. Ma la chiedono altri 456 di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 8 maggio 2020 Corsa contro il tempo la preparazione del decreto-legge per riportare in cella i detenuti considerati più pericolosi tra quelli scarcerati per l’emergenza coronavirus. Si sta trasformando in una corsa contro il tempo la preparazione del decreto-legge per riportare in cella i detenuti considerati più pericolosi tra quelli scarcerati per l’emergenza coronavirus. La necessità di concretizzare in fretta l’annuncio fatto dal ministro della Giustizia in Parlamento è doppia. Da un lato si vuole far sì che venga riconsiderata la situazione dei quasi 400 reclusi accusati o condannati per mafia o traffico di droga già mandati agli arresti domiciliari (la lista dei 376 s’è già allungata di almeno una decina di nomi); dall’altro si vuole introdurre un ulteriore filtro agli altrettanti e più che hanno chiesto di avere lo stesso trattamento. Un primo conteggio è arrivato a 456, ma è un’approssimazione per difetto perché mancano le istanze firmate da avvocati o familiari. Per tutti questi aspiranti ai domiciliari detenuti per i reati più gravi, adesso, è già obbligatorio che i giudici acquisiscano il parere delle Procure antimafia per valutarne la pericolosità, come previsto dal decreto approvato il 29 aprile. Ma il Guardasigilli Alfonso Bonafede vuole introdurre al più presto una nuova norma che valga sia per il passato che per il futuro. Il decreto non sarà, ovviamente, un “ri-ordine di cattura” generalizzato. Niente e nessuno può calpestare o limitare l’autonomia dei magistrati, e saranno sempre loro a decidere sugli arresti o la detenzione domiciliare. Ma dovranno farlo con modalità diverse a seconda che si tratti di detenuti ancora in attesa di giudizio o condannati in via definitiva. Degli ormai famosi 376 tornati a casa (molti con il braccialetto elettronico), 196 non sono arrivati ancora all’ultima sentenza. Più della metà. In gran parte non hanno raggiunto nemmeno il traguardo del primo grado, altri sono in attesa dell’appello, a pochi manca solo il verdetto della Cassazione. Per tutti loro sono stati i giudici delle indagini preliminari o dei processi ancora in corso a decidere che, a seguito dell’emergenza coronavirus, la custodia cautelare in carcere ne metteva a rischio la salute, mandandoli nelle rispettive abitazioni. E dovranno essere le Procure o le Procure generali a chiedere, nella fase 2 dell’emergenza sanitaria, di riconsiderare le posizioni in base ai mutamenti intervenuti. I 180 detenuti definitivi invece sono stati scarcerati dai magistrati di sorveglianza. I quali, in base alla nuova normativa, in virtù dell’evoluzione della pandemia che è stata il presupposto delle loro decisioni, dovranno rivalutare ogni singola situazione per verificare se ancora non ci siano soluzioni per tenere i reclusi all’interno degli istituti o in strutture ospedaliere protette (dove poteva andare il boss camorrista Pasquale Zagaria, se il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria avesse risposto in tempo). Sarà prevista una revisione periodica, ogni mese o con altre scadenze, che i giudici di sorveglianza dovranno rispettare per confermare o meno la detenzione domiciliare. Sullo schema di decreto-legge il ministro ha raccolto l’assenso delle forze di maggioranza, a partire dal Partito democratico preoccupato, come ha spiegato il sottosegretario Andrea Giorgis, “di preservare l’autonomia della magistratura e i capisaldi della Costituzione sull’esecuzione della pena”. Il provvedimento potrebbe essere approvato già oggi dal Consiglio dei ministri ma l’attenzione di Bonafede è rivolta anche al “cambio radicale” avviato al Dap. In attesa dell’arrivo del nuovo capo Dino Petralia (ieri il Csm ha dato il via libera), il neo- ice Roberto Tartaglia ha avuto l’incarico di verificare ciò che non ha funzionato nei meccanismi che hanno portato alle quasi 400 scarcerazioni già avvenute (solo tre dal 41bis, quindi in isolamento; le altre dal circuito dell’Alta sicurezza, che comprende circa 9.000 reclusi). Dei 456 nuovi aspiranti ai domiciliari, il sistema di monitoraggio in tempo reale introdotto al Dap ha permesso di avviare ancor prima della decisione dei giudici “l’attività di analisi finalizzata alla predisposizione di idonee misure organizzative”. Anche per evitare altre scarcerazioni imbarazzanti. Il ministro Bonafede fallisce l’obiettivo. Attaccato anche nel governo di Annalisa Cuzzocrea La Repubblica, 8 maggio 2020 Le critiche nell’esecutivo: “Ha gestito tutta l’emergenza da casa”. Dal centrodestra una mozione di sfiducia che tenta anche Renzi. L’allarme di Conte e del Quirinale. Alfonso Bonafede sa, lo ha capito, che indietro non si torna. Non si possono rimandare i mafiosi in carcere per decreto, checché ne dica la propaganda del Movimento 5 Stelle. Non si può neanche decidere, per decreto, cosa devono fare e quando i giudici di sorveglianza, di appello, di corte d’Assise. Il ministro della Giustizia al question time ha tentato ancora una volta di difendersi: “Invito tutti a fare un’operazione di verità: le scarcerazioni sono avvenute in virtù di leggi non di questo governo, ma che erano lì da anni e che nessuno aveva mai modificato”. E ancora: “Nel decreto “Cura Italia” nessuna legge porta alla scarcerazione dei mafiosi, che sono invece esclusi dai benefici”. Tutto vero, ma quello che viene imputato al Guardasigilli dall’opposizione e dall’interno della sua stessa maggioranza è di non essere stato in grado di capire quello che stava succedendo. Di gestire il fenomeno. Di prevedere le conseguenze della circolare con cui il Dipartimento di polizia penitenziaria invitava i direttori delle carceri - a causa dell’emergenza Covid - a verificare lo stato di salute e di particolare fragilità di tutti i detenuti. Senza indicare in alcun modo delle soluzioni alternative ai domiciliari per i più pericolosi. C’è un’aria avvelenata e impaurita, nella maggioranza di governo. Il Movimento 5 stelle fa quadrato attorno a Bonafede, parte la batteria di sostegno e il consueto post sul blog con cui viene definito un ministro “scomodo per i poteri forti”. Ma all’interno dello stesso esecutivo c’è chi denuncia: “Per tutta l’emergenza ha lavorato quasi sempre da casa, da Firenze, non si dirige così un posto delicato come via Arenula”. Di più: il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra fa sapere di aver chiesto a lungo al Dap l’elenco dettagliato di tutte le persone scarcerate a causa dell’emergenza sanitaria, senza avere risposte in tempi congrui. Di qui, un duello sulla convocazione di Bonafede in Antimafia, che tarda a essere fissata. Il tweet del senatore M5S ieri è sembrato quasi un atto di accusa nei confronti del governo per la gestione dell’intera vicenda: “Cosa nostra, come tutte le mafie - scrive Morra, che di Bonafede non è mai stato amico - non verrà sradicata e dissolta fino a quando ci sarà un solo mafioso che trova in un esponente del potere democratico la disponibilità alla conservazione dell’esistente, al compromesso sugli ideali, al ripudio dei valori costituzionali”. Un attacco a salve, senza un destinatario preciso, ma che mina ancora di più la maggioranza nel momento in cui proprio a Palazzo Madama, la prossima settimana, si dovrà votare la mozione di sfiducia contro il Guardasigilli presentata da un centrodestra a sorpresa compatto. E con la minaccia di Italia Viva ancora in sospeso: quel testo è fatto apposta perché Matteo Renzi e i suoi possano votarlo in nome delle battaglie garantiste fatte. Così, dopo il question time, Bonafede si è chiuso al ministero a lavorare. Da lì, si è collegato in videoconferenza con il reggente M5S Vito Crimi e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio: ha spiegato quanto sia delicata e difficile la stesura del decreto. Con una consapevolezza: va fatto subito. Prima che la situazione degeneri ulteriormente, prima che escano altri boss. Segnando un danno d’immagine enorme per il governo guidato da Giuseppe Conte. E infatti, subito dopo, il ministro della Giustizia ha sentito il presidente del Consiglio. Che ha capito di dover seguire la vicenda da vicino anche perché gli è giunta eco della preoccupazione del Quirinale per l’impatto delle scarcerazioni sull’opinione pubblica. Il capo dello Stato sorveglia l’intera operazione e dai suoi uffici filtra la richiesta di un testo che valuti bene il problema della retroattività: lo scoglio su cui si sono infrante le intenzioni iniziali di Bonafede, che non può fare un provvedimento in contrasto con l’autonomia della magistratura e ha dovuto ridimensionare il testo che aveva immaginato. Il Pd, in tutto questo, non intende infierire. La pedina Bonafede non può saltare senza che vada tutto in aria. Ma un dirigente dem ricorda come il guaio, prima ancora del Dap, sia stato il non voler affrontare davvero e per tempo il problema del sovraffollamento delle carceri. Lasciando che poi, davanti all’emergenza sanitaria e ai disordini, a prevalere fossero panico e confusione. Bonafede, il centrodestra riunito per la mozione di sfiducia. Iv tentata di Eleonora Martini Il Manifesto, 8 maggio 2020 Carcere e antimafia. Il M5S fa quadrato, il ministro si corregge sul decreto legge per i boss scarcerati: “Non c’è governo che possa influenzare i giudici”. Il tiro al piccione entra nel vivo e il centrodestra ritrova la verve pre-Covid, la poltrona del Guardasigilli traballa ma il Movimento 5 Stelle tira fuori l’artiglieria nel tentativo di salvare il suo ministro. L’”antimafia” finisce sullo sfondo. Nel giorno in cui il responsabile della Giustizia Alfonso Bonafede durante il question time al Senato si difende dalle accuse del consigliere del Csm Nino Di Matteo e risponde sulle “scarcerazioni” dei boss mafiosi delle ultime settimane, ripetendo sostanzialmente quanto già affermato il giorno prima a Montecitorio salvo qualche correzione di tiro, Forza Italia Lega e FdI si ritrovano uniti su una mozione di sfiducia allo stesso Guardasigilli, depositata al Senato, che potrebbe essere messa ai voti già mercoledì 13 maggio, quando Bonafede si recherà in Parlamento per una informativa sulle carceri. Salvini spera di poter convincere Italia viva (che ieri nell’incontro con Conte ha messo sul tavolo della trattativa anche il nodo Giustizia). Mentre, nella speranza di poter aprire un varco pure nel sottopancia irrequieta del M5S, Giorgia Meloni lancia una petizione on line per le dimissioni del ministro. La mozione di sfiducia ricostruisce lo scontro Bonafede-Di Matteo, soffermandosi su alcuni particolari come quello dei due ruoli - capo del Dap e direttore generale degli Affari penali - offerti in alternativa all’ex pm palermitano due anni fa. “Il ministro - si afferma - non può, per legge, disporre direttamente di questo secondo ruolo, essendo non solo già occupato al momento della proposta a Di Matteo, ma anche un incarico contrattuale soggetto a concorso obbligatorio”. Ma soprattutto, il centrodestra cerca di inculcare il dubbio, già evocato da Di Matteo, che Bonafede abbia agito senza contrastare gli interessi delle mafie o addirittura cedendo ai ricatti della “regia occulta” che - scrivono - manovrava le rivolte dei detenuti di inizio marzo “finalizzate ad alimentare la discussione su indulti, amnistie e provvedimenti che avrebbero potuto alleggerire il carcere anche per gli uomini della criminalità organizzata”. E a questo proposito spunta fuori il fitto carteggio intercorso nelle ultime settimane, prima del j’accuse televisivo di Di Matteo, tra il presidente della Commissione nazionale antimafia Nicola Morra e l’allora capo del Dap Basentini (ieri ufficialmente sostituito dal consigliere Csm Dino Petralia) riguardo la scarcerazione dei 376 detenuti trasferiti ai domiciliari per l’emergenza Covid e il sovraffollamento. Tra loro, si noti bene, solo tre boss al 41bis, di cui uno, Michele Zagaria, ha ottenuto per i prossimi 5 mesi di potersi curare un carcinoma all’ospedale di Brescia. Morra, nelle mail inviate al Dap, lamenta le inadempienze di Basentini nel trasmettere le informazioni richieste. Ieri però la nuova macchina del Dap si è messa al lavoro e al servizio di Bonafede: il neo vicecapo Roberto Tartaglia ha inviato al ministro una relazione contenente la profilazione di 456 detenuti accusati di associazione mafiosa, ristretti nei reparti di alta sicurezza, che hanno presentato istanza di scarcerazione per il Covid. Di questi, “225 sono detenuti definitivi” e “231 sono detenuti in attesa di primo giudizio, imputati, appellanti e ricorrenti (dunque innocenti fino a prova contraria, ndr)”. Su questa relazione il Guardasigilli baserà parte della sua informativa al parlamento di mercoledì prossimo, quando si attende dal centrodestra un nuovo allarme “liberi tutti”. Intanto Bonafede - attorno al quale ieri si è alzato il cordone sanitario dei 5 Stelle, con un lungo post del capo politico Vito Crimi e un’arringa calorosa sul blog di movimento - si è difeso anche in Senato dove ha ricordato che le norme del Cura Italia escludono l’accesso ai domiciliari per i mafiosi. “È totalmente infondato”, ha detto, ogni collegamento tra i fatti di cui parla Di Matteo e le scarcerazioni dei boss, “frutto di decisioni di magistrati che hanno applicato leggi previgenti che nessuno aveva mai modificato fino al decreto legge approvato la scorsa settimana da questo governo”. E, pur confermando di avere “in cantiere” un decreto legge “che permetterà al magistrato di sorveglianza la rivalutazione delle misure già concesse” prima della fase 2, il ministro si corregge in parte: “Non c’è alcun governo che possa imporre o anche influenzare la decisione dei giudici. La Costituzione non lascia spazio all’ipotesi in cui la circolare di un direttore generale, di un dipartimento, di un ministero possa dettare la decisione ad un magistrato. Questo è l’abc della Costituzione. Le scarcerazioni sono decisioni giurisdizionali, di natura discrezionale, impugnabili secondo la relativa disciplina”. Il pasticciaccio di via Arenula di Stefano Folli La Repubblica, 8 maggio 2020 Non deve stupire se alla fine Renzi e il manipolo di Italia Viva non voteranno la sfiducia al ministro Bonafede. È un documento del centrodestra e il senatore di Scandicci non è tipo da andare dietro a Salvini oltre un certo limite. Qualche incontro, molte parole, nessun impegno concreto, un rimbalzo mediatico sui “due Matteo” uniti nel logorare il governo Conte...tutto questo fa parte del gioco di palazzo che riprende quota man mano che il Covid s’indebolisce e si apre la voragine dell’economia. Ma votare insieme all’opposizione, nel momento in cui almeno su questo punto (forse solo su questo) Berlusconi, Giorgia Meloni e il capo leghista si ritrovano compatti, non fa parte del repertorio renziano. D’altra parte, nessuno può credere che il caso Bonafede sia risolto e che l’esecutivo ne esca rinfrancato. Al contrario, la vicenda dei malavitosi mandati ai domiciliari si arricchisce di nuovi particolari, nessuno incoraggiante, e la matassa si aggroviglia. Chi ha gestito fin qui la vicenda, sia sul piano tecnico sia nei suoi risvolti politici, si è assunto una responsabilità agli occhi di un’opinione pubblica disorientata. Responsabilità che nel caso di Bonafede è oggettiva, tipica di chi come ministro deve rispondere politicamente dell’operato del suo dicastero. Il Guardasigilli sta tentando di riparare al danno prodotto. Ma come farlo, attraverso quali strumenti amministrativi, è assai più complicato del previsto, segno di una generale sottovalutazione iniziale. Il decreto, che avrebbe dovuto risolvere il problema con un colpo a effetto, ieri sera era ancora un foglio bianco. E si capisce: sono in ballo delicati aspetti che toccano lo Stato di diritto, anche quando i protagonisti sono fuorilegge, nonché precise prerogative della magistratura. Quindi la questione è al tempo stesso drammatica e piuttosto semplice nella sua dinamica. O Bonafede risolve il caso nelle prossime ore, armandosi di un decreto inattaccabile che riporti in cella almeno i più pericolosi tra i capi mafiosi, ovvero la sua permanenza alla testa del dicastero di via Arenula diventerebbe poco plausibile. Non solo: una difesa a oltranza da parte dei Cinque Stelle di questo loro esponente che non è - va ricordato - un personaggio di secondo piano, produrrebbe un’onda destinata a rovesciarsi su Palazzo Chigi, cioè il livello politico superiore. Conte può ancora dimostrare che il pasticcio è nato e si è gonfiato presso il ministero della Giustizia, a sua insaputa, ma ciò presuppone che Bonafede sia lasciato al suo destino (sempre, va ribadito, che la vicenda non si risolva in brevissimo tempo e senza ulteriori passi falsi). Viceversa, è probabile che a rispondere sarà il premier. In ogni caso, la difesa del ministro in una causa pressoché indifendibile non è senza un prezzo. Se la ferita non si richiude in pochi giorni, i Cinque Stelle potrebbero dover decidere tra la lealtà verso Bonafede e la sopravvivenza del governo di cui fanno parte con loro piena soddisfazione. Bisogna sottolineare: sopravvivenza. Perché in ogni caso la navigazione del Conte 2 è e rimane faticosa. C’è da credere che lui stesso ne sia consapevole dietro l’ottimismo di maniera. Forse, come dice Zingaretti, se si apre la crisi si andrà a votare e molti nodi si scioglieranno. O forse qualcuno, magari anche nel Pd, ha in serbo una soluzione che tirerà fuori al momento opportuno. Brutto show: il centrodestra al traino dei pm di Claudio Cerasa Il Foglio, 8 maggio 2020 Lega, FdI e FI usano Di Matteo contro Bonafede e calpestano Montesquieu. Il centrodestra unito (Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia) ha presentato in Senato una mozione di sfiducia individuale nei confronti del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Le ragioni per mandare a casa il Guardasigilli sarebbero tante: il sostegno dato all’introduzione di riforme manettare e liberticide come la “Spazza-corrotti” (accolta con tanto di festeggiamenti in piazza) e l’abolizione della prescrizione (che ha trasformato i processi in persecuzioni infinite), la mancata presentazione della tanto annunciata riforma del processo penale con cui rendere efficiente la giustizia, l’assoluta mancanza di interventi per risolvere l’emergenza del sovraffollamento nelle carceri (puntualmente riemerso con le rivolte dello scorso marzo), la promozione costante di un’idea di giustizia come strumento di vendetta sociale e di lotta politica (emblematico lo show messo in piedi per il ritorno in Italia di Cesare Battisti). Non è per questi scempi, però, che il centrodestra, trainato da Salvini, ora chiede la sfiducia di Bonafede. Per Lega, FdI e Forza Italia, anche il ministro (dopo il capo del Dap Francesco Basentini) deve pagare per la campagna, soprattutto mediatica, emersa negli ultimi giorni contro la concessione temporanea degli arresti domiciliari ad alcuni detenuti malati, che in carcere rischiano di morire per il coronavirus. “Un ministero così importante deve preoccuparsi che durante il Covid i mafiosi stiano in galera e non che escano di galera”, ha dichiarato Salvini chiarendo le ragioni della mozione di sfiducia. Il leader della Lega ha anche aggiunto, “da garantista” (sic!), di non voler entrare nel merito delle incredibili accuse lanciate da Nino Di Matteo nei confronti di Bonafede, senza però rivendicare alcun ruolo sulla mancata nomina nel 2018 dell’ex pm al vertice del Dap (che evidentemente soddisfaceva i singolari canoni di giustizia del leghista). Sorprende che anche Forza Italia abbia aderito a una richiesta di sfiducia basata su strumentalizzazioni mediatiche e giustizialiste (ricordate la separazione dei poteri di Montesquieu?), piuttosto che su una reale valutazione dell’inefficiente operato del ministro. L’ennesimo segnale di subalternità del centrodestra alle smanie del Truce. Carceri, i carteggi di fuoco fra Antimafia e Basentini di Elvira Terranova adnkronos.com, 8 maggio 2020 Un elenco dettagliato, con nome, cognome, posizione giuridica, e tipo di detenzione, dei 376 detenuti scarcerati nelle ultime settimane a causa del coronavirus. Tra loro anche tre boss al carcere duro, il 41bis, finiti ai domiciliari, il boss mafioso Francesco Bonura, il boss camorrista Pasquale Zagaria e il capo ‘ndranghetista Vincenzo Iannazzo. Ma l’elenco, che l’Adnkronos ha potuto visionare, è infinito. Ci sono tutti coloro che hanno potuto lasciare il carcere, su disposizione dei magistrati del Tribunale di sorveglianza o dei Tribunali, quando la pena per il detenuto non è ancora definitiva. Cinque pagine fitte fitte in excel. Nomi sconosciuti e altri noti. È il 22 aprile quando il Presidente della Commissione nazionale antimafia Nicola Morra scrive all’allora capo del Dap Francesco Basentini, che nel frattempo ha rassegnato le sue dimissioni, per sollecitare, come si legge nella lettera l’acquisizione e la trasmissione alla Commissione “con ogni cortese sollecitudine, tutti i riferimenti, e se del caso anche i fascicoli personali, dei detenuti, a procedimenti esitati in decisioni della magistratura di sorveglianza incidenti sul regime detentivo di persone chiamate a scontare la pena per reati di cui all’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario”. E nello stesso tempo Morra chiede a Basentini di “potere conoscere se vi siano state determinazioni di sorta che abbiano inciso su una o più detenuti sottoposti alle misure di cui all’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario”. Passano pochi giorni e le polemiche sul Dap iniziano ad infuriare, fino ad arrivare alle dimissioni del capo Francesco Basentini. Da lì a poco verranno nominati prima il vicecapo del Dap Roberto Tartaglia, che lascia la Commissione nazionale antimafia, e poi Dino Petralia, che prende il posto di Basentini dimissionario. Il carteggio tra la Commissione nazionale antimafia e il Dap prosegue per giorni. Con toni anche accesi. È il 24 aprile quando Morra scrive nuovamente a Basentini, come apprende l’Adnkronos, per sollecitare ancora “i dati di cui dispone il Dipartimento” circa alcuni detenuti, tra cui Giuseppe Trubia, Pasquale Cristiano, Giuseppe Marotta “per i quali è stata disposta a vario titolo una modifica del regime di esecuzione penale”. Due giorni dopo Basentini scrive la lettera di risposta al Presidente dell’Antimafia con tutti i dati richiesti. Ma non basta. Il 29 aprile è ancora Nicola Morra a scrivere a Basentini. Questa volta la Commissione chiede al Dap “di acquisire i documenti relativi alle modifiche del regime penale intramurario per i detenuti condannati per i reati di cui all’art. 4bis dell’ordinamento penitenziario”. Ma con altrettanta forza chiede notizie anche delle scarcerazioni dei boss al 41bis. “Alcuni commissari si sono anche vivamente lamentati - scrive Morra - del fatto che non sia pervenuta risposta alla richiesta di acquisizione dei dati da me avanzata il 22 aprile. Torno, dunque, a chiederle di evadere al più presto quella richiesta di acquisizione”. Il 29 aprile arriva la risposta del capo del Dap Basentini, con l’elenco richiesto dalla Commissione nazionale antimafia. Alla lettera vengono allegati anche i provvedimenti emessi dalla magistratura di sorveglianza che erano disponibili. Le scarcerazioni, il Dap, lo scontro Bonafede-Di Matteo. Piccola guida alla bufera giustizia di Elisa Chiari Famiglia Cristiana, 8 maggio 2020 Il Covid per quanto indirettamente dal 7 marzo ha gettato scompiglio nella giustizia e nell’amministrazione penitenziaria. Che cosa ha determinato le scarcerazioni dei boss? Perché si scontrano Di Matteo e Bonafede e saltano le teste al Dap? Cerchiamo di ricostruire che cosa è accaduto fin qui. Il 7 marzo alle prime indiscrezioni che annunciano il Decreto che di fatto chiude l’Italia contro il rischio Covid si sparge la voce (poi confermata dalle norme) di restrizioni su colloqui, visite in carcere, permessi e libertà vigilata per evitare la diffusione del contagio. La popolazione carceraria, non preparata alla notizia attraverso una comunicazione istituzionale, innesca una rivolta in numerosi istituti di pena: il risultato sono incendi, evasioni, morti, feriti. Che cosa dice il Cura Italia - Nel frattempo si pone il problema che il rischio del contagio, sia per i detenuti sia per il personale della Polizia penitenziaria, venga aggravato dall’ annoso problema del sovraffollamento. Al 31 marzo 2020 risultano 57.846 detenuti per una capienza regolamentare di 50.754. Il 17 marzo, con il decreto noto come “Cura Italia”, si introduce una deroga che consente di scontare all’ esterno in detenzione domiciliare la parte restante della pena per chi ha davanti meno di 18 mesi. La deroga però non si estende ai detenuti condannati per i delitti indicati dall’ articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario, tra questi ci sono i delitti di mafia, per cui in linea teorica i mafiosi dovrebbero essere esclusi. La nota del Dap sui fattori di rischio Covid - Il 21 marzo Dap (Dipartimento dell’ amministrazione penitenziaria, uno dei quattro dipartimenti in cui si articola il Ministero della Giustizia, che ha al vertice un magistrato nominato la cui nomina spetta al ministro di via Arenula) trasmette ai Direttori degli istituti penitenziari una nota del 19.3.20 con un elenco di “patologie/condizione (una serie di patologie e l’ età superiore a 70 anni ndr) cui è possibile riconnettere un elevato rischio di complicanze in caso di Covid, nella quale si chiede di comunicare con “solerzia all’ Autorità giudiziaria” i nomi dei detenuti che dovessero rientrare in queste condizioni, con allegate relazione sanitaria e informazioni quali relazioni comportamentali, informazioni di polizia, disponibilità di un domicilio”. Le norme preesistenti in tema di salute dei detenuti - Nelle predette condizioni, ovviamente nel rispetto dell’articolo 27 della Costituzione, rientrano anche detenuti esclusi dalla deroga prevista dal “Cura Italia”, per esempio quelli al 41bis, ma che possono, avendo problemi di salute, comunque accedere in base a norme preesistenti alle richieste di differimento obbligatorio o facoltativo della pena detentiva per “condizioni di gravi infermità fisica”, contemplata dall’ art. 147 co. 1 n. 2 c.p. Che cosa ha prodotto le scarcerazioni - Il combinato disposto tra il “Cura Italia”, la nota del Dap (che respinge ogni responsabilità dicendo che si trattava solo di un censimento) e le precedenti norme sul differimento fanno di fatto sì che le richieste formulate siano molte. Stando ai dati usciti il 3 maggio, dalla magistratura di sorveglianza chiamata a decidere sul singolo caso (esposta, contestata e infine difesa dal Csm) sono state accolte 376 richieste, che hanno portato ai domiciliari 200 persone detenute in custodia cautelare in carcere (in attesa di giudizio) e circa 180 detenuti in regime di alta sicurezza con sentenze definitive. In alcuni casi, per esempio quello di Pasquale Zagaria detenuto a Sassari, è dimostrato dai provvedimenti che a far decidere il magistrato di sorveglianza per i domiciliari è stata la mancanza di una risposta del Dap alla richiesta di trasferimento ad altro carcere. Il caso limite dei mafiosi - A far esplodere la questione e le polemiche è la notizia che tra i casi che ottengono i domiciliari ci sono anche quattro personalità di spicco della criminalità organizzata detenute al 41bis (il regime di Alta sorveglianza 1, con isolamento rigido introdotto dopo il 1992 al fine di spezzare il legame tra il capomafia e l’organizzazione ed evitare, per dirla in soldoni, che continui a tessere la propria rete di contatti ed eventualmente a governare l’organizzazione dal carcere). Il dossier, riservato poi reso noto dal quotidiano La Repubblica, finisce sul tavolo della Commissione antimafia e svela che, a parte i quattro al 41bis) circa 180 detenuti definitivi che hanno ottenuto i domiciliari sono detenuti in regime di Alta Sorveglianza 3, sotto il quale si trovano condannati per ruoli di vertice in organizzazioni criminali dedite al narcotraffico, dunque nella galassia della criminalità organizzata. Saltano i vertici del Dap - Il 2 maggio si insedia come vice capo del Dap Roberto Tartaglia magistrato della Dda di Palermo, pressoché contestualmente si dimette Francesco Basentini, precedente capo nominato nel 2018 da Bonafede, che definisce le polemiche “strumentali ma ugualmente dannose per l’ufficio”. Al suo posto verrà nominato Dino Petralia, procuratore generale di Reggio Calabria con una lunga esperienza in antimafia, il cui primo atto sarà una circolare ai direttori degli istituti penitenziari con invito a comunicare al Dap ogni richiesta proveniente da detenuti al 41bis. Intanto il 30 aprile è stato pubblicato in Gazzetta ufficiale il Decreto legge n.28 aveva provveduto a rendere obbligatorio benché non vincolante il parere delle direzioni distrettuali e della procura nazionale antimafia sulle istanze di richiesta di scarcerazione provenienti da detenuti per reati di criminalità organizzata. Di Matteo-Bonafede, conflitto tra poteri in tv - Le dimissioni al Dap producono anche un altro effetto mediaticamente dirompente. Il magistrato Nino Di Matteo, ora tra i togati in Consiglio superiore della magistratura, la sera del 3 maggio, chiamato in causa dalla trasmissione tv “Non è l’arena”, telefona in diretta e svela che il ruolo di capo del Dap, nomina a discrezione del ministro della giustizia, due anni fa era stato proposto a lui e che 48 ore dopo quando si era determinato ad accettare Bonafede aveva cambiato idea. Non dice che sia quella la causa del cambiamento ma fa notare che esistono intercettazioni dalle quali si evince che la sua nomina non sarebbe piaciuta ai boss in carcere. Bonafede reagisce con una contro-chiamata in diretta, in cui dà una versione diversa del colloquio con Di Matteo: sostiene di aver proposto al magistrato due ruoli, o il Dap o gli Affari penali (che all’ epoca erano stati di Giovanni Falcone, ma che oggi sono un ruolo meno incisivo di allora ndr.), e di essersi, mentre Di Matteo ci rifletteva, risolto per il secondo affidando nel frattempo il Dap a Basentini, riguardo alle intercettazioni sostiene che erano già note quando c’è stata la prima interlocuzione con Di Matteo per la nomina. Nessuno era presente ai colloqui tra i due, dunque è una parola contro l’ altra, ma il fatto che il conflitto tra poteri dello Stato esploda in Tv suscita molte reazioni, tra cui strumentalizzazioni d’ opposto segno, e infine anche la presa di distanza dell’ Associazione nazionale magistrati che (6 maggio), senza riferimenti specifici alla vicenda ma evidentemente non casualmente, ricorda a tutti i magistrati il dovere di “valutare con rigore l’ opportunità di interventi pubblici e le sedi dove svolgerli”. Nel frattempo la tensione politica, prevedibilmente, si alza. Question time del ministro e annuncio di nuovo decreto - Lo scontro istituzionale porta il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede a relazionare il 6 maggio al question time alla Camera, ribadendo la propria correttezza sulla nomina al Dap nel 2018 e rivendicandone il carattere previsto dalle norme come discrezionale. Nel medesimo contesto annuncia un nuovo decreto che porti, dato l’ingresso nella fase due, la magistratura di sorveglianza a tornare a vagliare con nuovi elementi le decisioni sulle scarcerazioni ed eventualmente a revocarle. Ora la preoccupazione è che l’annuncio possa portare qualcuno dei già scarcerati alla latitanza. La scrittura del testo non sarà comunque semplice, dato che non si potrà comunque limitare per decreto l’indipendenza della magistratura, la sorveglianza in questo caso, che sarà chiamata caso per caso a decidere. Didattica a distanza: quando la dad entra in carcere di Pasquale Almirante tecnicadellascuola.it, 8 maggio 2020 A colloquio con la prof che insegna ai detenuti. Cosa succede quando la didattica a distanza entra in carcere? E come vivono tale nuova esperienza i ragazzi negli istituti di pena, dove avere un semplice contatto con l’esterno è uno struggente bisogno e un desiderio intenso, soprattutto ora che il Covid-19 ha stretto le maglie? Quelle maglie che hanno generato, come si ricorderà, tante rivolte tra i detenuti? Per capirlo meglio, ma sempre nell’abito della nostra rubrica La Tecnica per la scuola, abbiamo parlato con la prof Myriam Scarpa, da otto anni docente di disegno e arte nel carcere di Bicocca di Catania, dove, accanto a una sezione per maggiorenni, c’è quella per i minori dove appunto la nostra interlocutrice opera. Inserita nell’organigramma del Cpia (Centro provinciale per l’istruzione degli adulti) Catania 1, la nostra prof, prima della epidemia da coronavirus, insegnava a ragazzi dai 14 ai 24 anni, rimasti indietro, come è facile capire, nella istruzione ordinaria, per tutta una serie di motivi, ma che nella nuova dimensione di custodia cercano di recuperare, per quanto è possibile, un minimo di sapere per affrontare, dopo gli anni di pena, la libera vita. Le restrizioni anche sui ragazzi detenuti - Tuttavia, ci dice, queste restrizioni, dovute al virus, si sono riversate anche su questi ragazzi che, per causa anche della mancanza di educatori e dunque di fondi per il personale necessario, oggi non stanno più facendo lezioni e dunque tutti gli sforzi si stanno concentrando sui pochissimi che voglio conseguire la licenza di istruzione secondaria di primo grado. La prof Myriam Scarpa - “Ho allora solo due ragazzi, uno dei quali è straniero, con cui per tre volte a settima, e dalle 9 alle 12, ci vediamo tramite Skype. Del tutto insufficienti i contatti ma, siccome con ciascuno di loro deve stare un educatore e mancandone un numero necessario, non abbiamo altra scelta se non questa”. Autorizzazioni - Infatti, ci spiega, col tablet possono collegarsi con l’esterno, cosa che non è comprensibilmente ammessa, per cui qualcuno deve vigliare. Ma poi occorrono autorizzazioni, a seguito proprio del loro stato e di ogni possibile permeabilità della struttura stessa. La mia materia ha bisogno di contatto diretto - “Fra l’altro, quando si è presentata l’emergenza e siamo stati costretti a stare a casa, per qualche tempo l’amministrazione penitenziaria ha avuto delle difficoltà a reperire, non solo gli strumenti tecnologici, ma anche capire come bisogna agire in condizioni tanto delicate. Poi la dad è partita e con essa questa nuova esperienza che però, si capisce anche per la disciplina che insegno, non può mai e poi mai sostituire la lezione in presenza. L’arte e il disegno hanno bisogno di vedere e capire sul luogo della creazione, la pratica, il contatto umano; la mia materia adotta manualità, contorni e tratti, colori dal vivo. Per cui oggi, dietro al video, mi limito a fare storia dell’arte, a illustrare concetti, spiegare il disegno a distanza senza quel coinvolgimento necessario ed essenziale. Più che a me, la presenza di un docente manca a loro, già bramosi di sentire l’oltre le mura del carcere, l’aldilà delle sbarre. Manca il contattato visivo, la giocosità, lo scambio di ide e di battute. E loro hanno bisogno di annusare persino il profumo d’esterno. Manca il colloquio giornaliero”. Collaborazione fattiva con tutte le figure del carcere - In ogni caso, precisa la prof Scarpa, la collaborazione fra tutti i componenti dell’istituto penitenziario è continua e di estrema cooperazione. Allo stesso modo con gli altri colleghi che sono distribuiti fra l’istruzione secondaria di primo grado e di secondo, benché quest’ultima si rivolga essenzialmente alla formazione professionale. “Ci riuniamo periodicamente con le piattaforme più in uso come Zoom, ma anche Skype e le altre più comuni, coi colleghi e con gli educatori per trovare le strategie più adatte onde non smarrire, oltre al già complesso di questi ragazzi, nessuno di loro, portatore, ciascuno, di una storia particolare, di una vicenda particolare e di una pena particolare. Che però io, né i miei colleghi, vogliamo sapere, né cerchiamo di sapere, non solo nel rispetto della loro dignità di persone ma anche perché il dialogo e l’istruzione non venga influenzato da tali storie che possono essere di ogni tipo, ma sempre purtroppo cosparse di violenza. “La dad sta dando qualche frutto, sicuramente, ma la lezione in presenza per chi fa scuola, e una scuola in queste condizioni, è insostituibile e irrinunciabile”. Così l’accusa si è impossessata del processo di Giorgio Spangher Il Riformista, 8 maggio 2020 In questo modo è cresciuto anche il potere della magistratura inquirente che ora non vuol certo abbandonare quel potere. Anche l’attacco ai giudici di sorveglianza ci racconta questa storia. Il “fall-out” (visto che l’inglese va di moda) della scarcerazione di alcuni soggetti detenuti al regime di 41 bis, suggerisce alcune riflessioni che superano la portata dell’episodio, perché lo stesso si colloca in un quadro generale più ampio. A prescindere o meno dalla correttezza della decisione del Tribunale di Sorveglianza di Sassari (che molti non avranno neppure letto e che personalmente ritengo assolutamente corretta) quello che lascia stupefatti è la virulenza dell’aggressione verbale ai giudici che, collegialmente, con la presenza di esperti (sulla base di atti processuali, tecnici, giudici, amministrativi) hanno assunto quel provvedimento, peraltro, impugnabile. Avevo sentito e approvato a più riprese da consigliere del Csm la “famosa” nota del presidente Ciampi che ribadiva la legittimità delle critiche se queste non determinavano la delegittimazione dei magistrati. Quante pratiche a tutela sono state aperte negli anni 2002-2006, e successivamente. Spero che lo si faccia anche per la magistratura sassarese, anche se questa volta le censure vengono dall’interno dello stesso Consiglio. Prescindo anche dai risvolti più strettamente politici connessi alla nomina del nuovo Capo del Dap, alle dimissioni del suo precedente direttore, all’integrazione della struttura con la nomina di un vicedirettore, se non per sottolineare che si tratta di pubblici ministeri, tutti pubblici ministeri e tutti in qualche modo pubblici ministeri antimafia, a vari livelli nella struttura delle procure. L’episodio supera la riferita questione che, peraltro, ripropone il tema della collocazione fuori ruolo dei magistrati nei gangli dell’apparato amministrativo inserito nel potere esecutivo, di cui si amplifica il significato. Tutto ciò, senza considerare - ancora una volta, a distanza di alcuni mesi - lo sfondo della lotta di potere, che sta travolgendo la magistratura, della quale si aspetta la riforma e l’autoriforma. Come era (forse) prevedibile, la distribuzione degli equilibri dentro il processo penale del 1988 ha innestato alcune dinamiche che la ridistribuzione degli stessi nel tempo ha accentuato. L’affinamento dei ruoli e delle professionalità ha inciso fortemente sulla collocazione delle procure dentro la magistratura e nel contesto dell’attività giudiziaria. Con la “complicità” dello spostamento del baricentro del processo nella fase delle indagini e del recupero del precedente investigativo a dibattimento, il potere processuale del pubblico ministero si è esponenzialmente rafforzato, integrato dalla “visibilità” dell’azione svolta dagli uffici della pubblica accusa in sinergia con l’attività della polizia giudiziaria, di cui dispone. Questi elementi sono alla base della configurazione di un magistrato che metabolizza il proprio ruolo, ritaglia gli sviluppi professionali e di carriera sui poteri che gli son conferiti, così da incardinare una fi gura non suscettibile di alternative: si diventa e si vuole restare il magistrato dell’accusa. Del resto, il sempre maggior tecnicismo nello svolgimento delle indagini (criminalità organizzata, economica, internazionale) richiede la presenza di un soggetto metodologicamente e culturalmente attrezzato. Il reato plasma il soggetto e la funzione svolta. L’originaria struttura del codice, imperniata sulla centralità del dibattimento, governato da un giudice “forte” teso a controllare la rappresentazione del fatto non richiedeva la presenza nella fase precedente di un altro ufficio giudicante, egualmente “forte”: era del tutto inopportuno, del resto, contrapporre con funzione di merito a contrappeso di un pubblico ministero originariamente teso alla mera ricostruzione del fatto. Si trattava, cioè, di una fi gura processuale - si diceva - né forte, né debole, ma autorevole, in quanto capace pur nella precarietà di poteri probatori, deliberare e delibare, non decidere, avendo quali parametri di raffronto le garanzie costituzionali e le previsioni processuali. Non può non segnalarsi che, a fronte del consapevole e voluto gigantismo dell’accusa, il giudice delle indagini non si è attrezzato - difettandogli spesso gli strumenti processuali - per costituire un adeguato ribilanciamento dei ruoli e delle funzioni. L’ufficio dell’accusa è di fatto fuori da un vero controllo processuale ed ancor di più lo è la procura nazionale antimafia, senza pensare cosa sarà del futuro pubblico ministero europeo. Si potrebbe dire che ormai il discorso della cosiddetta separazione delle carriere e/o delle funzioni si sia realizzato nei fatti, nella strutturazione soggettiva e istituzionale dei procuratori e degli uffici delle procure. Questa distribuzione del potere processuale fa male al processo, alla sua funzione, anche perché la debolezza del giudice lo attrae inevitabilmente nella stessa logica del potere più consolidato e strutturato, in qualche modo ulteriormente legittimandone le funzioni e le attività. Le dinamiche del potere e dei poteri sono insuperabili, anche quando se ne sia consapevoli. Bisogna ripensare questi elementi, ridefinendo ruoli e funzioni, nella complessità del modello. Pur nella piena consapevolezza di quanto detto, sia da parte dei giudici più attenti, sia da parte degli operatori di giustizia, sia da parte della dottrina, la prospettiva è considerata remota. Non è facile e non sarà agevole, anche perché chi ha il potere non è disposto a cederlo, se non a ragione dei propri errori ovvero per un eccesso di arroganza o di presunzione. Qualcosa c’è, ma non basta ancora. Il Csm detta linee guida per i magistrati, ma i suoi membri non sono tenuti a rispettarle di Giorgio Varano Il Riformista, 8 maggio 2020 Le esternazioni (definiamole così) del dott. Di Matteo, consigliere in carica del Csm, portano alla ribalta un tema sempre passato sotto silenzio, un “incredibile ma vero” che dura ormai da troppi anni: le linee guida del Csm sulla comunicazione dei magistrati non valgono per i magistrati che siedono a Palazzo dei Marescialli. In Italia, dunque, tutti i magistrati devono attenersi alle regole deliberate dai consiglieri del Csm sulla comunicazione, tranne loro. Il perché? “Incredibile ma vero 2”: “L’aspetto precettivo e sanzionatorio, infatti, mal si concilia con lo svolgimento di un simile elevato compito istituzionale essendo lecito ritenere che la consapevolezza dei doveri insiti nella funzione sia connaturata al livello etico dei componenti eletti”. Così ha stabilito il Csm stesso, in una delibera del 2010. Ora, le esternazioni di un consigliere del Csm, per una questione di due anni prima dal tenore personale o equivocabilmente ben peggiore, espresse in diretta tv contro il ministro della Giustizia in carica (grazie anche alla retorica dell’antimafia da tv) rendono lecito ritenere che non ci si possa più affidare a una presunzione assoluta di consapevolezza dei doveri insiti nella funzione. Perché il Csm, che ha affermato di voler superare in maniera strutturale la devastante crisi a cui l’istituzione è stata sottoposta, non rende obbligatorie le linee guida anche per i propri consiglieri? Certo, poi nascerebbe un imbarazzo. Quello di valutare il comportamento di un proprio appartenente, magari vicino di sedia nel plenum. Ma questo imbarazzo potrebbe essere superato esaminando la condotta del singolo componente in relazione ai doveri dei consiglieri. Doveri? “Incredibile ma vero 3”, non ce ne sono. Leggendo infatti il regolamento interno del Csm (2018), scorrendo le cento trentuno pagine non troverete mai la parola “dovere”. Non ne è previsto alcuno specifico relativo al ruolo di consigliere, tutto viene rimandato quindi ai codici etici delle singole categorie di appartenenza, come se il consigliere, togato o laico che sia, non avesse dei doveri specifici impostigli dal ruolo. La volontà del Csm di uscire dalla crisi, di “autoriformarsi”, è rimasta dunque una mera dichiarazione di intenti sotto molti aspetti. Il magistrato “quisque de populo” ha l’obbligo di tenere presente che “la fiducia nella giustizia è in qualche modo collegata alla rappresentazione che della stessa viene data attraverso i mezzi di informazione”, pertanto la comunicazione diventa “strumento principale per la costruzione di un rapporto fiduciario tra i cittadini e il sistema giudiziario”, e deve evitare la “costruzione e il mantenimento di canali informativi privilegiati con esponenti dell’informazione”, “l’espressione di opinioni personali o giudizi di valore su persone o eventi” (risoluzione 2010). Per i consiglieri del Csm tutto questo non vale. Perché non estendere semplicemente il dovere di osservanza delle linee guida sulla comunicazione dei magistrati anche ai componenti del Csm? Perché non prevedere nel regolamento interno anche dei doveri di comportamento dei consiglieri? A proposito, nel 2019 il Procuratore nazionale antimafia, Cafiero De Raho (serissimo magistrato che infatti lavora nelle procure, non nelle tv), rimosse con provvedimento immediatamente esecutivo il Dott. Di Matteo dal pool che indaga sulle stragi. A seguito di una intervista di quest’ultimo - a sua discolpa, all’epoca non era consigliere del Csm, quindi non aveva “la consapevolezza dei doveri insiti nella funzione” - De Raho ritenne “incrinato il rapporto di fiducia all’interno del gruppo”. A oggi il Csm, in quanto organo, nemmeno attraverso il proprio ufficio stampa, ha preso le distanze dal comportamento del Dott. Di Matteo. Dunque, possiamo stare sereni: non appare incrinata la fiducia all’interno del gruppo. P.s. Nel frattempo un primo risultato miracoloso queste esternazioni l’hanno ottenuto. Il ministro Bonafede parlando alla Camera ha affermato che, alla luce del nuovo quadro sanitario nazionale, sta valutando l’emissione di un decreto per fare ritornare in carcere i detenuti scarcerati perché maggiormente esposti al rischio di contrazione del virus, a causa delle loro precarie condizioni di salute. Li renderà dunque immuni per sempre, per decreto-miracolo, spazzando il pericolo del contagio nelle carceri. Nei tribunali non c’è ancora riuscito a spazzarlo via, ma i miracoli si fanno uno alla volta, lo sanno tutti. I miscredenti magistrati di sorveglianza che non crederanno al decreto-miracolo saranno mandati al rogo senza nessuna “pratica a tutela” da parte del Csm, come avvenuto finora? Lo scontro sul processo telematico è pretesto per battaglia politica di parte di Gennaro Lepre Il Riformista, 8 maggio 2020 Ritengo spropositato l’allarme suscitato dai nuovi contagi registrati presso il tribunale di Napoli di cui si è appreso in questi giorni, giustappunto nel corso dell’accavallarsi più recente delle disposizioni dei vertici giudiziari in vista della ripresa dei processi civili e penali. Non per aggiungermi, in alternativa, al coro delle sacrosante proteste contro l’emarginazione reale del diritto di difesa attraverso la spersonalizzazione telematica del processo penale: a mio modo di vedere tali proteste mancano infatti di trarre le conclusioni cui dovrebbero pervenire. Mi riferisco alla funzione giudiziaria intesa come servizio pubblico essenziale e a ciò che discende da tale concetto anche in regime di emergenza sanitaria. Esso ha imposto nelle scorse settimane il sacrificio addirittura della vita a medici e infermieri; ha esentato da qualsiasi chiusura ed esposto così a rischi di contagio assai maggiori non solo gli operatori commerciali nel settore degli alimentari, ma anche ferramenta e persino tabaccai. Trovo perciò immorale che non abbia imposto allo stesso modo la prosecuzione ininterrotta di tutti, dico tutti, i processi civili e penali. Né il servizio pubblico essenziale di giustizia può tollerare mediazioni al ribasso. Come quelle con cui vengono turlupinati, per esempio, i principi costituzionali di ragionevole durata del processo e di presunzione di non colpevolezza prevedendo limitatissime deroghe (il più delle volte solo astratte) alla prassi generalizzata dei rinvii d’ufficio; principi costituzionali infatti sostanzialmente rinnegati - con la complicità oggettiva degli avvocati - attraverso la sospensione dei termini della prescrizione, di custodia cautelare, di conclusione delle indagini e così via. I difensori - quali privati esercenti un pubblico servizio - avrebbero altrimenti dovuto pretendere, senza condizioni, la continuazione indifferenziata delle udienze, riservando al dopo ogni sacrosanta critica relativa alla prevedibile inadeguatezza delle misure di contenimento del rischio di contagio; la stessa inadeguatezza con cui comunque continueremo a misurarci anche nella fase di ripresa. Proprio come i medici che non hanno assistito i malati anche se le mascherine erano inadeguate e in numero insufficiente. Dunque anche a costo che pure gli operatori di giustizia paghino un prezzo di morti. Senza che il contagio di questo o quel magistrato potesse affatto legittimare - non è accaduto solo a Napoli - quel generalizzato, isterico sciogliete le righe che subito poi ci ha paralizzato. Senza perciò che il pessimo esempio di troppi magistrati e cancellieri - tranne rare eccezioni latitanti come fossero in vacanza - venisse immediatamente emulato da un’avvocatura tremebonda, succube della cultura del rinvio e soprattutto ignara del proprio ruolo e delle responsabilità sociali correlative, certo non inferiori a quelle di tabacchini e ferramenta. L’avvocatura pagherà tale ignavia con l’ulteriore emarginazione nell’ambito del servizio pubblico di giustizia e, più in generale, con la perdita di peso politico e culturale: non li si può rivendicare solo a chiacchiere. Ma non andrà meglio ai magistrati ed ai funzionari. Quella che viene oggi messa in discussione è la stessa rilevanza civile e sociale della funzione giudiziaria sicché a torto immaginano di non doverla difendere a propria volta insieme a quel protagonismo culturale e sociale che da essa riverbera a loro vantaggio. Si spiega così l’increscioso avallo con cui l’avvocatura ha legittimato in queste settimane, tra l’altro, il diffuso ventisettesimo dei dipendenti pubblici loro interlocutori nell’ambito della funzione giudiziaria, specie quando fittiziamente giustificato evocando quello smart working in realtà impraticabile in ragione della notoria arretratezza e segnatamente dalla non accessibilità da remoto dei sistemi informatici giudiziari. Sono pertanto contrario a qualsiasi ipotesi di astensione degli avvocati anche laddove gli uffici giudiziari non provvedano a dotarsi, in vista di lunedì prossimo, dei banali accorgimenti organizzativi di cui si discute in questi giorni: gli stessi giù in uso altrove nel rispetto di scontate misure di igiene, da sempre ignorate eccezion fatta per i locali riservati a magistrati e alti funzionari, a cominciare da bagni e ascensori. Sono allo stesso modo fermamente contrario a qualsiasi finta ripresa. Indico come tale la celebrazione di udienze che - invece di spalmare nell’arco di mattina e pomeriggio, sabato compreso, il carico ordinario di un ruolo frattanto ulteriormente appesantito dall’arretrato accumulato nei due mesi trascorsi - si prefigga il contentino formale di sbrigare una porzione irrisoria di tale carico selezionata con criteri sempre altamente opinabili lasciando così addirittura peggiorare l’accumulo incontrollato di arretrato. D’altra parte in una qualsiasi aula di udienza del nostro Palazzo di Giustizia basta già solo fissare i processi a scaglioni orari per ridurre il rischio di contagio a livelli senz’altro assai inferiori a quello cui ci sembra altrimenti del tutto naturale siano state a tutt’oggi ininterrottamente esposte quelle cassiere dei supermercati che nessuno di noi ha smesso di frequentare in queste settimane di lockdown. Nessun Paese civile d’altra parte può davvero attendersi la ripresa dell’economia, delle attività produttive e della stessa vita sociale senza la garanzia di un servizio di giustizia che solo in Italia risulta oggi in ginocchio, ridotto all’impotenza, ancora più malconcio ed inefficiente di quello che anche prima dell’emergenza sanitaria era pacificamente ritenuto già carente e inadeguato. Sicché - senza certo rinunziare a tutte le misure di protezione - è necessario affrontare anche gli inevitabili rischi cui ci esporrà una effettiva ripresa dell’attività giudiziaria se degna di tal nome. A meno di non abdicare forse irreparabilmente innanzitutto ai nostri doveri; al senso stesso della funzione giudiziaria di cui avvocati, magistrati e funzionari sono motori e non solo attori indispensabili; al ruolo essenziale che la Giustizia deve continuare a svolgere nel nostro Paese se vorremo continuare a ritenerlo civile. Campania. Rapporto del Garante sulle carceri: meno suicidi e più detenuti minorenni di Rossella Strianese ottopagine.it, 8 maggio 2020 La relazione annuale del Garante dei detenuti Ciambriello. Nel 2019 +17% rispetto alla capienza. Il 22% delle strutture non presenta docce in camera e il 37% degli istituti non prevede servizi igienici essenziali nella stanza. Nei 18 istituti campani c’è 1 agente per ogni 2 detenuti. In un anno -40% di suicidi in cella. In diretta Facebook sulla pagina istituzionale del Garante dei Detenuti Samuele Ciambriello è stata presentata la Relazione Annuale sullo stato detentivo in Campania. “Nel corso del 2019 sono stati effettuati complessivamente 1.431 colloqui, in tutti gli Istituti Penitenziari presenti sul territorio regionale, nel medesimo arco temporale l’Ufficio del Garante ha ricevuto 1.131 istanze di reclamo dai 18 istituti penitenziari presenti in regione. I casi affrontati, pur nella loro eterogeneità, hanno riguardato prevalentemente questioni sanitarie, rapporti con l’area educativa interna, richieste di trasferimento in strutture più vicine per ragioni di famiglia o di studio, informazione rispetto al proprio status legale, contatti con gli uffici di Sorveglianza, infine per quanto limitate, non mancano denunce di abusi e maltrattamenti. Il seguente report sulla condizione delle persone private della libertà personale rappresenta dunque una fotografia aggiornata degli istituti penitenziari ricavata da dati raccolti su un questionario annuale, più di 1000 colloqui con i detenuti e oltre 250 visite negli Istituti. Il numero totale di ristretti presenti nel 2019 registra attualmente un +17% rispetto alla capienza regolamentare. Seppur sono stati effettuati alcuni lavori di ristrutturazione le strutture detentive appaiono ancora inadeguate ad una vita dignitosa. Si registra che circa il 22% delle strutture non presenta docce in camera e il 37% degli istituti non prevede servizi igienici essenziali nelle stanze. La carenza di personale colpisce i diversi settori professionali coinvolti nell’esecuzione penale. Sulla base dei dati raccolti risultano effettivamente in servizio 3.902 agenti di polizia penitenziaria, 95 educatori e 44 psicologi; i dati complessivi fanno riferimento ai 18 istituti penitenziari della Campania, compresi i due Ipm e il Carcere Militare. In Campania il rapporto fra detenuti ed agenti è del 51,37% vale a dire circa 1 agente per ogni 2 detenuti; diversa è la proporzione per il personale dell’area educativa: circa l’1,25%, un educatore ogni 100 detenuti. Questi dati scendono drasticamente se consideriamo la turnazione, situazioni di malattia o ferie. Rispetto agli eventi rilevanti del 2019, si registrano un progressivo aumento delle infrazioni disciplinari, si stimano 2769 episodi, ma è plausibile immaginare che esse siano decisamente più numerosi. Si registra una riduzione dei decessi per morte naturale (-13% rispetto al 2018) e dei suicidi (-40% rispetto all’anno precedente), la maggior parte dei quali evitati grazie al tempestivo intervento del personale di Polizia Penitenziaria. A tale decremento tuttavia bisogna evidenziare l’aumento degli atti di autolesionismo (+32%), e gli scioperi della fame o della sete che registrano un +55% rispetto all’anno precedente. Questo dato si incrocia con la situazione dell’area sanitaria penitenziaria. In media i medici fanno 70 visite giornaliere, a cui si aggiungono controlli e dimissioni. Inoltre si rileva che circa il 21% delle visite specialistiche non posso essere effettuate per difficoltà del nucleo traduzioni. In Campania, nell’anno 2019, l’area penale minorile, ha visto un incremento del numero totale di soggetti minorenni e giovani adulti che sono affidati all’USSM, sia di Napoli che di Salerno. In totale gli Uffici di Servizio Sociale per i minorenni della Regione Campania, nell’anno 2019 hanno preso in carico 70 soggetti in più rispetto all’anno 2018. Si è inoltre registrato un calo di tentativi e suicidi in entrambi gli Ipm campani mentre, in linea con il trend degli adulti, sono aumentati i casi autolesionismo, come forma complessa di richiesta d’aiuto. Emerge un dato allarmante: il numero di visite specialistiche non effettuate per difficoltà del nucleo traduzioni. Sono 1595 visite non effettuate”. Lombardia. Nelle carceri lombarde pochi contagi grazie anche a Medici senza frontiere redattoresociale.it, 8 maggio 2020 L’Ong ha svolto un ruolo importante nella creazione di un reparto Covid-19 a San Vittore, nel quale confluiscono i detenuti contagiati degli istituti penitenziari della regione. Il riconoscimento da parte del Naga all’operato di Msf. Nel carcere di San Vittore a Milano è stato creato un reparto Covid-19, nel quale vengono trasferiti i detenuti contagiati degli istituti penitenziari della Lombardia. Per ora in Lombardia risultano “39 detenuti contagiati e 230 in quarantena perché entrati in contatto con altri positivi o perché essi stessi sospetti, mentre i tamponi effettuati sono stati 1167”, come scrive il garante dei detenuti di Milano, Francesco Maisto, in un suo report sulla riunione della commissione speciale carceri del consiglio regionale. E forse la scelta di aver creato un reparto Covid-19 nella storica casa circondariale di Milano si sta rivelando azzeccata nel contenere la diffusione del virus nelle carceri. Una scelta in cui un ruolo determinante lo sta svolgendo Medici senza frontiere, come testimoniano i volontari dell’associazione Naga. “La direzione sanitaria di San Vittore per gestire la gravità della situazione ha chiesto e ottenuto il supporto di Medici senza frontiere - scrive il Naga sul proprio sito web-, e così in breve tempo si è riusciti a trasformare il locale Centro clinico, un reparto in tempi normali ad alta problematicità, in una unità Covid in grado di gestire farmacologicamente i casi di media gravità di tutte le carceri regionali e di diagnosticare chi dovesse necessitare di terapia intensiva presso l’Ospedale San Paolo. Sempre grazie a questa collaborazione si è potuto inoltre organizzare in parallelo un lavoro capillare di informazione e prevenzione per detenuti e personale penitenziario che sono stati dotati dei presidi necessari”. “In una situazione di emergenza un’istituzione come il carcere -commenta il Naga- ha lavorato in sinergia con il personale di diverse Ong, dissipando così nella concretezza dei fatti e di un agire comune la cappa di infame discredito che le politiche degli ultimi anni hanno gettato sull’operato delle associazioni non governative”. L’altra Ong che ha collaborato con l’amministrazione carceraria in Lombardia è Emergency, che ha curato la formazione dei detenuti sulle norme igieniche e di prevenzione dal contagio. Lombardia. Ma che ragionamenti fa la Lega sulle carceri? di Luigi Amicone tempi.it, 8 maggio 2020 Ancora sulla decisione “insensata” della Lombardia di rinunciare ai 900 mila euro della Cassa ammende per alleviare le condizioni dei detenuti all’epoca del coronavirus. Avrei voluto occuparmi dello scontro titanico tra Alba Parietti e Caterina Collovati. E invece mi tocca prima aggiungere alle ragioni per cui la presidenza del Dipartimento amministrazione penitenziaria fa gola lo stipendio mica male di 320 mila euro anno. Covid o non Covid, finché lo Stato esisterà. E, secondo, chiudere la partita con l’assessore di Regione Lombardia, Stefano Bolognini. Il quale, evidentemente in vena di confidenze, mi scrive “non sono l’assessore alle carceri, mi spiace”. Assessore lei vuole scherzare, vero? O ci vuole dare degli australopitechi prendendola un po’ alla larga? Allora per informazione dei nostri lettori, diremo che Stefano Bolognini, assessore alle Politiche sociali, abitative e disabilità, è precisamente la figura della giunta lombarda che avrebbe dovuto istruire la delibera per rendere usufruibili nel circuito penitenziario della Lombardia i fondi statali finalizzati ad alleggerire il sovraffollamento carcerario e a depotenziare il rischio Covid tra i detenuti. E invece l’assessore Bolognini non ha istruito un bel niente. E non si sogna di istruire alcunché in materia di detenuti, neanche lontanamente. Ragion per cui ci risponde con una battuta alla salamandra reale. Giacché non può o non vuole dirci che gli ordini del capo non si discutono. Ma tutto questo è assurdo. Non sono neanche soldi della Lombardia… Si avverte una certa pusillanimità nella destrezza con cui ci fate il segno dell’ombrello in punta di sogghigno, cari leghisti. A noi, ai detenuti e a tutti coloro che, poliziotti penitenziari compresi, non si alzano al mattino col pensiero di ingraziarsi i consensi del popolo grazie alle disgrazie altrui. Perciò, non contenti di sogghignarci sopra, avete messo in piedi un piccolo circo. E siccome Bolognini non è l’assessore alle carceri col naso rosso, hanno mandato avanti l’assessore alla famiglia con le gote a pois. “Quei fondi devono essere utilizzati per tutelare la salute degli agenti di polizia penitenziaria, come riconoscimento del lavoro che svolgono”. Ma che ragionamento è? Tante volte le autoambulanze trasportano tossici che non stanno in piedi, marocchini fuori di melone, tunisini usciti neri da una rissa con i senegalesi. E allora? Perché non dirottate la benzina dalle autoambulanze alle Mercedes delle pompe funebri, che male non fanno, come riconoscimento del lavoro che svolgono? Ulteriori argomentazioni che la Lega di governo in Lombardia ha trasmesso per tramite dell’assessore alla famiglia Silvia Piani in una lettera inviata al presidente della Cassa delle ammende. “Manifestiamo tutte le perplessità dell’amministrazione regionale sul programma di intervento che, per fronteggiare l’emergenza epidemiologica negli istituti penitenziari, prevede il reperimento di alloggi per i detenuti”. “Si ritiene di non procedere alla presentazione delle proposte progettuali a valere sul bilancio della Cassa delle ammende, valutando che tali risorse possano più proficuamente essere erogate in via straordinaria e in relazione all’emergenza Covid-19, direttamente agli istituti penitenziari per l’implementazione degli standard sanitari nei luoghi di detenzione, anche in riferimento ai presidi in dotazione agli agenti di polizia penitenziaria”. Morale della favola: a differenza del Veneto, che non ha fatto storie con analoghi fondi destinati ad alleviare le condizioni di detenzione all’epoca di una pandemia (ahi ahi, caro Salvini, Zaia ti ha bagnato il naso coi tamponi e adesso ti dà pure una lezione di educazione civica neanche troppo fanatica), la Lombardia ha deciso di rifiutare i 900 mila euro destinati a progetti di housing per ridurre il sovraffollamento delle carceri e favorire l’esecuzione penale esterna. Così, alla fine, dopo tutto quello che abbiamo detto sui comunisti fuori e dentro, ci tocca dare ragione all’ultima vedova del comunismo che è rimasta in Brianza. Anita Pirovano. “Non pensavo che la ricerca di consenso (di bassa “lega”) e la demagogia che spesso accompagnano il dibattito politico sui temi della giustizia e del carcere potessero arrivare a scelte così insensate”. È l’aggettivo giusto. “Insensate”. Bologna. Un altro detenuto muore per Covid. La Uil-Pa: “Manca progettualità sul carcere” Il Dubbio, 8 maggio 2020 Gennarino De Fazio (Uil-Pa): “Il Covid-19 continua a espandersi ed a fare vittime. È deceduto nella notte a Bologna, difatti, un altro detenuto con Coronavirus”. “Mentre il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sembra ancora fermo ai box per riparare la macchina, dopo anni di mancati tagliandi, nelle carceri, in cui l’attenzione vienecatalizzata soprattutto da scarcerazioni e ritardi, il Covid-19 continua a espandersi ed a fare vittime. È deceduto nella notte a Bologna, difatti, un altro detenuto con Coronavirus”. A commentare la notizia, per la Uil-Pa Polizia Penitenziaria nazionale, è Gennarino De Fazio. Il leader sindacale spiega: “Si tratta di un detenuto arrestato verso la metà di febbraio di quest’anno e che, presumibilmente, proprio durante la detenzione potrebbe aver contratto il virus. Il malcapitato aveva 67 anni, pare fosse affetto da altre patologie, e si trovava ricoverato al reparto Covid dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna”, dice De Fazio. “Ora le polemiche imperversano e il ministro Bonafede è nell’occhio del ciclone, ma noi lo avevamo detto per tempo che l’emergenza pandemica, sommandosi alle inefficienze ancestrali del Dap e alla disattenzione della politica, avrebbe prodotto conseguenze nefaste sia sotto il profilo sanitario sia per la tenuta della sicurezza”, insiste il leader sindacale. “Non a caso avevamo chiesto più volte che la gestione carceraria venisse assunta pro-tempore direttamente sotto la responsabilità della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Del resto l’unico modo per evitare le scarcerazioni era quello di creare le condizioni affinché fosse pienamente tutelato, nei penitenziari o in altre idonee strutture preventivamente individuate, il diritto alla salute, che rimane inviolabile per chiunque. È dunque mancata una progettualità, che peraltro ancora non s’intravede: basti pensare che, diversamente che per gli altri settori del Paese, per gli operatori del Corpo di polizia penitenziaria non esiste ancora un protocollo di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro condiviso con le Organizzazioni Sindacali e, ancora oggi, non vengono forniti i dati sui contagi”, spiega ancora De Fazio. Che poi conclude: “Anche questo diremo al Vice Capo del Dap Roberto Tartaglia durante la prima riunione di ‘reciproca conoscenza’ che ha convocato per la mattinata. Ma gli diremo pure che per tirare fuori dalle secche la nave arenata, che è oggi il Dap, non basta un bravo Comandante e neppure un ottimo equipaggio, ma che è altresì necessario un repentino cambio di rotta”. Saluzzo (Cn). Coronavirus: positivi 20 detenuti, due agenti della Penitenziaria e due medici targatocn.it, 8 maggio 2020 A confermarci i dati il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Paolo Allemano: “In proporzione, i medici del penitenziario pagano il prezzo più alto. Grande sforzo, reso necessario dalla situazione difficile creatasi in seguito al trasferimento di detenuti da altri istituti di pena a seguito della rivolta di inizio marzo”. Si registrano anche i primi guariti. Giungono buone notizie dal carcere di Saluzzo, dove nei giorni scorsi la diffusione del Coronavirus aveva coinvolto più di venti persone, tra detenuti, agenti di Polizia penitenziaria e personale sanitario. Il 29 aprile, le organizzazioni sindacali Sappe, Uil-Pa, Fns-Cisl, Cnpp e Fp-Cgil avevano infatti diramato una nota stampa nella quale si parlava di 14 detenuti contagiati, ai quali si sommano quattro agenti di Polizia penitenziaria e due medici. Nella casa di reclusione di Regione Bronda sono stati eseguiti Covid-test a tappeto. Paolo Allemano, ex sindaco della Città ed ex consigliere regionale, da novembre è il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. “Credo che quello di Saluzzo - ci spiega - sia l’unico Istituto penitenziario in tutta Italia dove sono stati fatti tamponi a tappeto”. Il numero di tamponi effettuati all’interno del carcere ammonta a 428. Il bilancio dei contagiati ha riportato lievi aumenti rispetto ai dati resi noti a fine aprile. I detenuti positivi sono saliti da 14 a 22. Numeri che, però, sono già a loro volta in calo, come ci ha confermato il dottor Allemano: “Due detenuti e due agenti sono nel frattempo virologicamente guariti, dal momento che sono risultati negativi ai due tamponi di controllo”. Il totale più aggiornato vede quindi positivi 20 detenuti, due agenti e due medici. “La situazione è quindi gestibile con isolamento e quarantena in carcere - aggiunge il Garante. Faccio notare che, in proporzione, i medici del penitenziario pagano il prezzo più alto, come fuori dal carcere. Si è fatto un grande sforzo, reso necessario dalla situazione difficile creatasi in seguito al trasferimento di detenuti da altri istituti di pena a seguito della rivolta di inizio marzo”. Proprio come avevano già sostenuto le organizzazioni sindacali, che avevano parlato di una “tragedia annunciata”, riferendosi alla decisione di trasferire a Saluzzo detenuti dalla Casa circondariale di Bologna. Lecco. Ulteriori 7 detenuti a Pescarenico positivi al Covid. 21 i trasferiti in 7 giorni leccoonline.com, 8 maggio 2020 Il coronavirus non allenta la presa sul carcere di Pescarenico. Se giovedì scorso davamo notizia di 14 contagi acclarati tra i circa 80 detenuti della casa circondariale di Lecco, quest’oggi il conto chiude a 21 positivi. In una settimana sono emersi altri 7 casi, con altrettanti ospiti dunque isolati e trasferiti, così come i primi “apripista”, a San Vittore. Nel penitenziario milanese, infatti, è stato creato un reparto hub dedicato proprio a soggetti nella duplice condizione di detenuto e infettato da covid-19. La scoperta delle nuove positività si deve a un secondo giro di tamponi a tappeto disposto dall’amministrazione, particolarmente attenta al rispetto delle misure di prevenzione, già dallo scoppio dell’epidemia in città. A Lecco, infatti, come in altre strutture analoghe, si è provveduto all’installazione di una tenda messa a disposizione dalla Protezione civile quale ambiente per l’accoglienza dei nuovi ingressi e dei visitatori prima di permettere loro l’ingresso in carcere. Si è anche limitato l’accesso di parenti, consentendo ai detenuti di mantenere il rapporto con i famigliari attraverso videochiamate, concedendo altresì loro un maggior numero di colloqui telefonici. Gli operatori indossano poi dispositivi di protezione individuale. Non è però bastato. E proprio a tutela di quest’ultimi ci sia aspetta ora quantomeno che tutti gli agenti della Polizia Penitenziaria siano sottoposti ai test, anche nel rispetto delle loro famiglie, visto il contatto con soggetti positivi. Milano. Il boss “U Tiradrittu” in gravi condizioni di salute, al 41bis nel carcere di Opera di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 maggio 2020 Ha 86 anni e verserebbe in condizioni gravissime al 41bis del carcere “Opera” di Milano. Ha da giorni una febbre con sbalzi di temperatura, patologie che si sarebbero aggravate a causa di presunte mancate cure e accompagnato da un deterioramento cognitivo. Non stiamo parlando di un detenuto qualunque, ma di Giuseppe Morabito, detto U Tiradrittu, considerato a suo tempo il numero uno della ‘ndrangheta. “Il 29 aprile dovevamo sentirlo al telefono - spiega al Il Dubbio l’avvocata Giovanna Beatrice Araniti, il legale del recluso -, ma asserendo che le linee erano occupate (con il colloquio telefonico prenotato da tempo) il carcere di Milano non l’ha fatto chiamare”. Dal 2004 è ininterrottamente recluso al 41bis e dall’ultima perizia depositata urgentemente per chiedere un differimento pena per gravi motivi di salute emerge un quadro devastante. Si legge che presenta una enorme ernia inguinale bilaterale, maggiore a sinistra, condizionante dolore cronico; un voluminoso adenoma prostatico inoperabile in portatore di catetere vescicale a permanenza da circa 15 anni, con ricorrenti infezioni delle vie urinarie; cardiopatia ipertensiva in precario compenso; reiterati riscontri di iperglicemia al DTX, in assenza di accertamenti specifici; broncopneumopatia cronica ostruttiva; insufficienza venosa agli arti inferiori; cataratta bilaterale con indicazione all’intervento; diverticolosi del colon; gozzo multinodulare normofunzionante; artrosi polidistrettuale; sindrome ansioso-depressivo. Dopo una serie infinita di istanze e solleciti, al Dap, al Garante regionale, al Direttore e all’area sanitaria, i familiari hanno deciso di depositare una denuncia- querela al procuratore della Repubblica del tribunale di Milano perché Morabito versa in condizioni gravissime e - a detta loro - totalmente abbandonato a se stesso. Secondo i familiari, Giuseppe Morabito sarebbe stato lasciato in una condizione di totale abbandono, degrado igienico- sanitario, con negazione delle cure indispensabili per la sua vita, non solo per l’età ma soprattutto per le importanti patologie che lo affliggono. “Il quadro - si legge nella denuncia - si è aggravato negli ultimi due mesi, a causa di un elevato e costante stato febbrile per il quale è stato isolato, due volte per 15 giorni, negli ultimi due mesi, per come lo stesso ha riferito, faticosamente, nel corso dell’ultimo colloquio e di un’enorme ernia a rischio di strozzamento”. Morabito stesso ha chiesto ripetutamente aiuto, tramite il difensore, che ha inoltrato richieste continue di intervento rimaste ad oggi inevase. Sempre i familiari chiedono al procuratore di valutare “il grave comportamento omissivo, contrario al senso di umanità e ai valori costituzionali e sovranazionali”, essendosi trasformato, per il loro vecchio genitore, “lo stato detentivo in una condanna a morte tra atroci sofferenze e torture, che nessun essere vivente merita di sopportare in uno Stato di Diritto, che deve salvaguardare la vita e la salute”. Parole forti, ma corroborate dalle continue richieste di intervento avanzate dal loro legale. “Il mio assistito ha 86 anni - spiega a Il Dubbio l’avvocata Giovanna Araniti del foro di Reggio Calabria - e sta scontando un trentennale non per omicidio, ma per reati di droga e associazione mafiosa, ed ininterrottamente detenuto da 16 anni”. L’avvocata denuncia: “Quale che sia il titolo di reato commesso, non è ammissibile che in uno Stato che osa definirsi di diritto, un detenuto vecchio e malato debba morire di carcere, perché sottoposto al 41bis O.P., in totale stato di abbandono”. Infine conclude: “Le condizioni deplorevoli in cui è stato lasciato per anni, nonostante le sue gravissime patologie, finalmente, dopo decine di richieste, sono state accertate con perizia di ufficio depositata l’altro ieri, presso il Tribunale di Roma che sta trattando l’ennesimo reclamo avverso la proroga del 41bis”. Giuseppe Morabito, come detto, è noto anche come U Tiradrittu. Dal dialetto calabrese vuol dire “spara dritto”, ovvero colui che tira dritto senza rispetto di alcuna regola o persona. Lo Stato dovrebbe essere diverso. Stato di Diritto o U Tiradrittu? Sassari. Zagaria libero per il no di un medico: verifiche su contatti carcere-ospedale di Mary Liguori Il Mattino, 8 maggio 2020 Sul caso Zagaria è quasi inciampato il ministro, un capitombolo mediatico parato solo con il cambio della guardia al Dap, che però non ha evitato a Bonafede le corde del question time, dove si è visto addirittura tenuto a promettere un decreto blocca-boss in cella. Una diga nel mare in tempesta in un bicchier d’acqua, scatenato dai domiciliari a tempo concessi al fratello minore del capo dei capi dei Casalesi, sopraggiunta con un anno di anticipo rispetto al fine pena e concessi per soli cinque mesi. Un caso che sta avendo ripercussioni anche sulla sanità sarda. Ché, nella stesura delle otto pagine che mandano Pasquale Zagaria a curarsi ai domiciliari, in provincia di Brescia, per un tumore, i giudici della sorveglianza ripercorrono il carteggio avuto con l’amministrazione penitenziaria del carcere di Bancali, Sassari, e con l’ospedale di Cagliari. Ed è all’azienda ospedaliera del capoluogo, il Brotzu, che si sono inaspettatamente decise le sorti del camorrista. E si sono decise con una telefonata durante la quale un dirigente medico, scrivono i giudici di sorveglianza, ha negato al detenuto la possibilità di curarsi al Brotzu. A che titolo lo abbia fatto, quel dirigente, al momento non è dato sapere. E lo vuol sapere, a ragion veduta, la direzione dell’azienda ospedaliera cagliaritana che sul caso ha avviato verifiche interne. Ché, oltretutto, per Zagaria era possibile, il 23 aprile, ottenere il ricovero e le cure in sicurezza in quell’ospedale, dal momento che non c’erano particolari criticità dovute all’emergenza coronavirus e, come se non bastasse, gli avvocati del camorrista avevano chiesto - lo scrivono i giudici - le cure, anche in carcere, per il sessantenne, e non la scarcerazione che è stata la conseguenza dell’impossibilità di somministrargli, nel penitenziario in cui era detenuto al 41bis o in un altro, le “indifferibili” terapie. La scarcerazione, ormai è chiaro, è stata disposta solo in seguito alle mancate risposte del Dap e, soprattutto, al diniego da parte del medico del Brotzu al ricovero di Zagaria. Adesso l’azienda ospedaliera, che dovrà di certo riferire al ministero, si ritrova a ricostruire una vicenda senza un supporto documentale. In pratica se il contatto tra il carcere e l’ospedale c’è stato, non è avvenuto attraverso canali ufficiali e, quindi, non ci sono atti del rifiuto. In pratica, “ufficialmente” l’ospedale di Cagliari non ha mai respinto il ricovero di Zagaria. Ma andiamo al dispositivo. Scrivono i giudici in merito alla richiesta di individuare un istituto in cui sottoporre il detenuto a cure che nell’ospedale di Sassari, focolaio di contagio, non erano possibili: “Dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non è giunta risposta alcuna, mentre il responsabile sanitario della Casa Circondariale di Sassari ha fatto pervenire ulteriore certificato del 23 aprile 2020 nel quale specifica quanto segue: Il paziente non può effettuare i controlli endoscopici previsti (necessari per poter proseguire la terapia) né presso l’Aou di Sassari né all’interno della Cc di Sassari (si eseguono solo in ambito ospedaliero). Contattato personalmente il dottor Ayyoub Mohammed, dirigente medico del Reparto di Urologia dell’Azienda Ospedaliera Brotzu (Cagliari) per chiedere la disponibilità a prendere in carico il paziente, mi è stato risposto che al momento possono garantire l’assistenza esclusivamente ai loro pazienti. Per il trattamento all’interno della Cc di Uta vale lo stesso discorso fatto per Sassari. Inoltre, si conferma la indifferibilità del programma diagnostico-terapeutico previsto”. Passaggi, questi, ripercorsi nei giorni scorsi anche dall’Unione Sarda e che ormai sono agli atti dell’approfondimento che il ministero della giustizia conduce su questa e altre scarcerazioni eccellenti avvenute in Italia dall’inizio della pandemia. Eppure è stata la circolare del 21 marzo scorso che la Direzione generale detenuti e trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, organismo in seno allo stesso ministero, a invitare le direzioni a comunicare con solerzia all’autorità giudiziaria il nominativo di detenuti in condizioni di salute tali da renderli più vulnerabili al Covid-19. Condizioni in cui si trova Zagaria, valuta il tribunale di Sorveglianza di Sassari sulla base della documentazione medica pervenuta all’atto dell’istanza visto che, scrivono ancora i magistrati, “oltre a trovarsi di fronte all’impossibilità di ricevere le indifferibili cure per la sua patologia, si trova anche esposto al rischio di contrarre la patologia Sars-Cov-2 in forme gravi. Benché il detenuto sia sottoposto a regime differenziato e in cella singola”, è comunque “esposto al contagio in tutti i casi di contatto con personale della polizia penitenziaria e degli staff civili e - concludono - la tutela del diritto alla salute del detenuto deve essere declinato anche in termini di prevenzione”. Va aggiunto che, nel motivare il differimento, il tribunale di sorveglianza di Sassari cita anche la Corte di Appello di Napoli che, il 22 gennaio del 2015, scrisse: “L’appartenenza dello Zagaria alla associazione camorristica, attuale all’epoca del decreto emesso nell’anno 2004, fosse tale anche nell’anno 2011, atteso che il prolungato periodo di detenzione, posto in correlazione con la circostanza che il detenuto si costituì spontaneamente in carcere e, nel corso del processo penale, rese confessione in ordine a gran parte dei reati contestati, condotta che rappresenta un inequivocabile sintomo di iniziale ravvedimento, inducono a escludere la concreta operatività della presunzione di perdurante al momento della formulazione del giudizio”. Per i magistrati sardi le conclusioni della Corte d’Appello di Napoli sono “rassicuranti e - si legge ancora nel dispositivo - il detenuto ha mostrato interesse esclusivamente per soluzioni di cura, anche in altri istituti penitenziari, e non univocamente per soluzioni extra-murarie”. Ma, come ormai è noto, una leggerezza, quella di un medico, e una mancata risposta, quella del Dap, ne hanno consentito la scarcerazione seguita da uno strascico di polemiche che tutt’oggi continuano ad avere ripercussioni. Venezia. Carceri, domiciliari a 17 detenuti. Nessun positivo al coronavirus di Nicola Munaro Il Gazzettino, 8 maggio 2020 Spazi di isolamento sanitario e misure per evitare contagi nelle due strutture cittadine. Regole per i colloqui coi parenti. Nessun positivo e un grande sospiro di sollievo, tanto al carcere maschile di Santa Maria Maggiore quanto all’istituto femminile della Giudecca, ora tornati più vivibili. Nelle scorse settimane infatti, in virtù del decreto legge anti-Covid passato in Parlamento, sono stati messi ai domiciliari 17 detenuti: 10 erano rinchiusi a Santa Maria Maggiore e 7 alla Giudecca. Questo mentre anche i due istituti penitenziari della città si preparano alla ripartenza, tra tamponi, riorganizzazione degli spazi e riapertura del negozio di cosmesi ai Frari dove sono in vendita gel igienizzanti realizzati alla Giudecca. A vedersi trasformare in arresti domiciliari quella che era la reclusione in carcere, sono stati detenuti che come prossimo orizzonte avevano il fine pena. Uomini e donne a cui mancavano meno di 6 mesi per tornare a essere persone libere e a cui l’emergenza Covid ha permesso di scontare ai domiciliari il residuo della condanna. Il faro della norma inserita nel decreto votato dal Parlamento - e che nulla ha da spartire con le scarcerazioni per motivi sanitari di 455 detenuti, tra cui boss mafiosi o detenuti in Alta sicurezza decise dai vari Tribunali di Sorveglianza - è il tentativo di dare una risposta al sovraffollamento dei penitenziari che in piena era coronavirus poteva rappresentare benzina su eventuali focolai e trasformare le carceri italiane in veri e propri lazzaretti. Per poter sfruttare l’uscita anticipata e scontare ai domiciliare il resto della reclusione, le direttive erano ben precise: avere un fine pena a distanza di 6 o 18 mesi (ma in questo caso indossando il braccialetto elettronico, non disponibile a Venezia), fornire un indirizzo preciso dove scontare i domiciliari e non aver preso parte alle rivolte che hanno infiammato le carceri italiane a inizio marzo, Santa Maria Maggiore compresa e presa d’assalto il 10 marzo da una decina di detenuti che avevano cercato di aggredire gli agenti e che invece, una volta riconosciuti, sono stati punti con quindici giorni di isolamento ciascuno. E qualcosa, a Venezia, è cambiato. Le scarcerazioni anticipate hanno abbassato il rapporto tra detenuti (ora 230) e posti disponibili, sempre 159. Questo ha permesso di allargare gli spazi a disposizione dei carcerati e di decongestionare la struttura in vista di possibili emergenze. L’orizzonte a cui guardano adesso le direzioni del carcere maschile e femminile sono le prossime settimane, quando le strutture penitenziarie potranno riaprire i cancelli ai parenti. In quest’ottica sono stati distanziati i tavoli nell’area dell’incontro per permettere a tutti di rispettare i 2 metri imposti dalle misure del Comitato tecnico scientifico che affianca il Governo. Visti i pochi spazi a disposizione del carcere di Santa Maria Maggiore, per i colloqui è stata allestita anche una zona del giardino. Lo stesso - il distanziamento dei tavoli per gli incontri con i familiari - è avvenuto nel carcere femminile della Giudecca, da dove nelle scorse settimane sono state portate ai domiciliari uscite 7 detenute a cui mancavano meno di 6 mesi di pena. In entrambi i penitenziari, poi, è stata creata un’area distaccata nella quale accogliere i nuovi ingressi (nuovi arresti o trasferimenti) che dovranno passare 15 giorni in isolamento sanitario per valutare la presenza di eventuali sintomi Covid. Così come sono state predisposte celle isolate per quei detenuti, che già presenti, mostrassero accenni della malattia. Pericoli finora scongiurati dal piano di salute attuato dalle direzioni e dal dottor Vincenzo De Nardo, responsabile sanitario del Santa Maria Maggiore e della Giudecca. È stato lui a coordinare i tamponi fatti dalla cooperativa di infermieri nelle due strutture. Tutti con esito negativo. Piacenza. Dal produttore al consumatore: quante fragole in arrivo dal carcere di Antonella Barone gnewsonline.it, 8 maggio 2020 Circa tremila confezioni di fragole vendute, due tonnellate di ortaggi e 120 chili di miele ricavati da tre varietà diverse. Sono i risultati maturati nello scorso anno all’interno delle attività gestite dalla cooperativa sociale L’Orto Botanico con il progetto “eXNovo” nella casa circondariale di Piacenza. Il timore era che la pandemia potesse vanificare il lavoro portato avanti con successo dal 2016 dai detenuti e dagli operatori della cooperativa, impedendo soprattutto il raccolto delle fragole che lo scorso anno aveva trovato nell’Ipercoop un valido luogo di vendita ai consumatori del territorio. Per evitare il peggio e commercializzare la frutta, maturata presto e bene quest’anno grazie alle favorevoli condizioni climatiche, la cooperativa ha deciso di cambiare strategia. Non è stato, infatti, possibile confezionare i prodotti a causa delle regole sul distanziamento sociale e si è dovuto rinunciare alla consueta distribuzione. “È tempo di fragole - hanno scritto gli operatori della Cooperativa su Facebook -, a gennaio presentavamo il nostro progetto alla città. Tante cose sono cambiate da quel giorno. Per motivi organizzativi non siamo in grado di farvi trovare le nostre fragole all’Ipercoop, ma se volete sostenere il nostro progetto, le fragole, siamo in grado di consegnarle a casa vostra”. Alla coltivazione delle fragole, che avviene in partnership con l’Università Cattolica del Sacro Cuore, continuano a lavorare quattro detenuti, mentre due sono stati assunti, proprio in questi giorni all’esterno da L’Orto Botanico. “In questo momento - ha dichiarato Fabrizio Ramacci, presidente della cooperativa, in un’intervista a piacenzasera.it - riusciamo ad avere un quintale di fragole al giorno, stimiamo quindi che alla fine la produzione, che dopo il picco di questo mese si protrarrà in maniera meno intensa fino a estate inoltrata, si attesterà sui cento quintali. Un numero enorme, per questo abbiamo stipulato un accordo con una cooperativa di Bologna a cui forniamo le nostre fragole per la realizzazione di marmellate e composte”. Roma. Teledidattica e teatro in carcere: la tecnologia aiuta la ripartenza di Antonella Barone gnewsonline.it, 8 maggio 2020 Lezioni di teatro a distanza per essere pronti ad andare in scena quando finirà l’emergenza. Accade nella casa circondariale romana di Rebibbia “Raffaele Cinotti” dove tutti i pomeriggi, dal lunedì al venerdì, 25 detenuti partecipano al programma di teledidattica curato dal Centro studi Enrico Maria Salerno. La ripresa, sia pure virtuale, dell’attività teatrale è resa possibile dalla connessione della fibra ottica, assicurata da Unidata grazie a un progetto finanziato dall’Ufficio del Garante Regionale delle persone private della libertà e dalla Regione Lazio. I lavori ripartiranno là dove erano stati interrotti: la preparazione dello spettacolo Istruzioni sul volo, ispirato a varie opere fra cui il Codice di Perelà di Aldo Palazzeschi. Dopo oltre due mesi di stop a causa della pandemia, riparte da remoto anche il laboratorio del Teatro dei Venti nelle carceri di Modena e Castelfranco Emilia. Il lavoro artistico a distanza è reso possibile dalle donazioni di computer e materiale informatico effettuate da diversi cittadini, che hanno risposto a un appello del Teatro dei Venti. A Castelfranco il laboratorio si svolge due volte a settimana, martedì e giovedì, dalle ore 15 alle 17. Due gli appuntamenti settimanali, a partire dal 4 maggio, anche nell’Istituto penitenziario di Modena. Il laboratorio da remoto sarà condotto dal regista Stefano Tè e dagli attori del Teatro dei Venti e consentirà di portare avanti le prove di Odissea proponendo letture per i detenuti e continuando il loro percorso di produzione creativa e scrittura. Lo spettacolo è realizzato nell’ambito del progetto europeo Freeway, e il suo primo studio sarebbe dovuto andare in scena a Trasparenze Festival, VIII edizione “Abitare Utopie” poi rinviato a data da destinarsi. Busto Arsizio. Il grazie della Regione per la “colletta” dei detenuti a favore dei malati varesenews.it, 8 maggio 2020 I rappresentanti di Regione Lombardia hanno incontrato i detenuti che, raccogliendo 2.100 euro, hanno permesso di acquistare 56 tablet per i malati ricoverati in ospedale. Una raccolta di fondi all’insegna della solidarietà, per aiutare chi, ospedalizzato causa il Covid, non può comunicare con i familiari se non attraverso la tecnologia. Ad attuarla sono stati i 400 detenuti del carcere di Busto Arsizio che tassandosi hanno racimolato oltre 2 mila 100 euro, una cifra che ha consentito l’acquisto di 56 tablet che sono stati poi donati all’ospedale di Varese. I computer portabili sono a disposizione dei pazienti ricoverati per coronavirus, in modo che sia loro consentito tenersi in contatto anche video con i propri familiari, impossibilitati per la malattia a fargli visita. Stamattina il Garante dei detenuti della Lombardia Carlo Lio, accompagnato dal capogruppo del Pd in Consiglio regionale Fabio Pizzul, si è recato al penitenziario di Busto Arsizio per incontrare il direttore del carcere Orazio Sorrentini, il comandante della polizia penitenziaria di Busto Rossella Panaro e una delegazione di detenuti e per ringraziali. “Un gesto - ha sottolineato il Garante dei detenuti della Lombardia Carlo Lio - che testimonia la vicinanza al dolore a quanti in queste lunghe e drammatiche settimane di emergenza medico-sanitaria vivevano angoscianti momenti di ospedalizzazione, impossibilitati per la malattia ad avere accanto gli affetti più stretti. Ringrazio anche la Polizia penitenziaria, che si è contraddistinta in queste settimane a raccogliere fondi per l’acquisto di materiale sanitario che è stato donato all’ATS di Busto Arsizio. Gesti come questi vanno sottolineati - ha aggiunto ancora Lio - perché di esempio e meritano il plauso delle istituzioni”. Nuoro. Coronavirus, i detenuti di Mamone donano 2.300 alla Caritas La Nuova Sardegna, 8 maggio 2020 La direttrice, suor Pietrina Careddu: “Un gesto preziosissimo”. Un gesto di solidarietà arriva dalla Colonia penale di Mamone, i cui detenuti hanno raccolto la cifra di 2.300 euro, che hanno poi donato alla Caritas Diocesana di Nuoro per aiutare i bisognosi, aumentati anche a Nuoro in questo periodo di emergenza coronavirus. Per poter avere l’autorizzazione all’iniziativa, denominata “un giorno per beneficenza”, i detenuti hanno scritto una lettera alla direttrice Patrizia Incollu. “In questo tempo di Coronavirus tante persone sono costrette a stare a casa e molti papà non possono lavorare - spiegano - Noi detenuti di Mamone abbiamo pensato di rinunciare al cibo di un giorno a settimana per offrirlo alle famiglie bisognose, ma consegnarli al cappellano che può distribuirli comporta dei problemi. Se lei ci autorizza, per evitare queste difficoltà, possiamo dare un’offerta in denaro al cappellano che acquisterà i beni e consegnarli alle famiglie bisognose. Abbiamo raccolto le nostre firme, così che lei possa autorizzarci a dare tramite i conti correnti la nostra offerta a don Alessandro Muggianu che ci porterà riscontro di come avrà utilizzato le nostre offerte”. La donazione è puntualmente arrivata alla Caritas nuorese che ora, attraverso la direttrice, suor Pietrina Careddu, ringrazia: “È una somma davvero sorprendente visto che a Mamone scontano pena soprattutto persone extracomunitarie - ha spiegato la responsabile della Caritas. Questo è l’obolo della vedova di cui parla il Vangelo, il piccolo dono personale eppure preziosissimo, un vero messaggio dal sapore cristiano, ossia universale. La Caritas Diocesana di Nuoro non solo ringrazia questi fratelli ma prende l’impegno di farne sue le motivazioni e sentimenti, di imparare una lezione pratica e coinvolgente”. Migranti. Braccianti, badanti e colf, arriva l’accordo di Daniela Preziosi Il Manifesto, 8 maggio 2020 Regolarizzazioni, il testo sarà inserito nel decreto maggio. Rientrano le dimissioni di Bellanova, i 5s ingoiano il boccone amaro ma temono l’ex alleato Salvini e dal Blog avvertono: “È solo per gli stagionali”. Il ministro Provenzano: serve fare di tutto per arrivare a una sintesi e portarla in consiglio dei ministri. Alla fine l’accordo sulla regolarizzazione dei migranti che verranno impiegati nei campi, come chiedeva la ministra Bellanova, ma anche di badanti e colf e anche italiani e italiane, come chiedeva il ministro Provenzano, arriva. Per buona parte della giornata di ieri i funzionari degli uffici legislativi dei ministeri dell’interno, dell’agricoltura, del Sud e del lavoro hanno limato il testo dell’intesa che verrà inserita - ad ora è una certezza - nel decreto maggio che sarà licenziato dal prossimo consiglio dei ministri, sabato o forse nei giorni successivi. Anche l’inserimento nel decretone è il risultato delle pressioni del Pd. Rimandare l’intesa a un provvedimento autonomo e successivo rischierebbe di trascinare troppo a lungo le polemiche, e soprattutto di non far arrivare le norme nei tempi utili per la raccolta nei campi. Nel merito le “misure straordinarie per favorire l’emersione di rapporti di lavoro irregolari” prevedono due canali di regolarizzazione. Il primo, quello più tradizionale, è la richiesta del datore di lavoro, attivando un contratto e versando un contributo allo Stato. Allo straniero sarà accordato un permesso di soggiorno valido per la durata del contratto, rinnovabile in caso di nuovi rapporti di lavoro. Il secondo canale è quello degli stagionali che hanno perso il lavoro o a cui è scaduto il contratto: potranno avere un permesso temporaneo per ricerca lavoro. L’emersione riguarderà i lavoratori che si trovano in Italia dall’8 marzo, per richiesta dei 5 stelle che su questo stanno dando ancora battaglia. La realtà è che sono atterriti dalla parola “sanatoria” che la destra già agita con grande scandalo (ma delle ultime tre che sono state fatte in Italia una porta la firma del ministro Maroni che nel 2002 sanò la posizione di 200mila stranieri). “Il governo sta approntando una apposita misura per i lavoratori stagionali. Riguarda i lavoratori stagionali e non l’insieme dei cittadini irregolari”, ha scritto ieri il Blog delle Stelle. Il Pd, Leu e Italia viva chiedevano che i permessi durassero sei mesi, con possibilità di rinnovo. La ministra pentastellata Catalfo, che deve tenere conto delle pressioni di una parte dei suoi, ha messo sul piatto un mese. Alla fine la mediazione della ministra degli interni Lamorgese sarà tre mesi. Interesserà una platea stimata intorno alle 300mila persone. Ma non si può sapere quanti datori decideranno di investire nella legalità. Esclusi gli espulsi per motivi di ordine pubblico e sicurezza di Stato, reati collegati al terrorismo o commercio di sostanza nocive. Che l’accordo fra i quattro ministri fosse fatto era già chiaro al tavolo di mercoledì, quando la ministra del lavoro ha dato il via libera, al netto della durata dei contratti. Ma le ventilate dimissioni della ministra Bellanova avevano provocato l’irrigidimento di Vito Crimi, reggente 5s. Ieri il silenzio di una parte del “movimento” dava la misura dell’amarezza del boccone per l’ex alleato di Salvini. Ora il sì definitivo è affidato a un tavolo politico fra Conte e i capidelegazione della maggioranza. O direttamente al consiglio dei ministri. Che le cose si stessero mettendo bene lo ha certificato ieri pomeriggio il capogruppo Iv Rosato, all’uscita dall’incontro con il presidente Conte a Palazzo Chigi. “Sui migranti sta maturando un orientamento positivo”, ha detto, annunciando che sul “tavolo c’è il provvedimento” e non più le dimissioni di Bellanova. Ammesso che ci fossero mai state davvero. Prudente il ministro Provenzano, che cerca di sminare il campo dalle risse fra M5s e Iv: “Non è una questione di bandierine ma di civiltà e bisogna fare di tutto per portare il provvedimento nel dl maggio, arrivando ad una sintesi”. La destra prepara la sarabanda. La Lega parla di “schiaffo agli italiani e agli stranieri onesti” e chiede a gran voce i voucher (anche Iv). Ma poi Salvini, nella furia declamatoria, pasticcia e spiega che sarebbe disponibile solo a “allungare il permesso a coloro che hanno un contratto scaduto”. Ma la norma c’è già, replica Leu che rivendica di averla inserita nel Dl Cura. E che ora mette in guardia da un “accordo al ribasso”. Ma sarà già un miracolo se i 5 stelle riusciranno a non spaccarsi anche su questo. Deluse le associazioni come l’Arci e i promotori della campagna Ero Straniero, che chiedevano un permesso temporaneo con una durata più lunga e senza condizioni. Botte, manganelli e gabbie. Dall’India al Paraguay, le punizioni più dure per chi viola il lockdown di Raffaella Scuderi La Repubblica, 8 maggio 2020 Rinchiusi in gabbie per i cani, costretti a recitare testi sacri o a fare esercizi fisici. In queste settimane in molti Paesi le autorità sono andate ben oltre la sanzione pur di far rispettare l’ordine di restare a casa: arrivando a violare i diritti umani. Beccato. Fermato senza mascherina. Fuori casa senza motivo o in compagnia di amici. Una violazione del lockdown che in alcuni casi può costare fin troppo cara. In certi Paesi la polizia è arrivata a infliggere punizioni che prevedono l’umiliazione e il dolore, pur di far rispettare il lockdown, spesso con il plauso dei governi. Saltelli a stella al grido “devo stare a casa”, squat, flessioni e posizioni yoga improvvisate sono le penitenze più assurde di cui si trova traccia in video e foto diventati virali in Rete, tra risate e applausi. Ma c’è poco da ridere. Nei casi peggiori le autorità sono ricorse a percosse e manganellate, fino a uccidere. È il caso di un tredicenne in Kenya, ucciso a forza di botte. Il ragazzo stava cercando di prendere l’ultimo traghetto disponibile per tornare a casa e rispettare le regole. Non è sopravvissuto alle manganellate. Il capo della polizia di Likoni, a Mombasa, si è dimesso, il presidente Uhuru Kenyatta si è scusato. Ma lui non c’è più. La clausura a cui ci costringe il coronavirus da quasi due mesi ha messo in mano alla polizia il potere assoluto di far osservare le misure restrittive. Con pochi occhi in giro a testimoniare. Ma in Rete sono emersi comunque, i modi creativi in alcuni casi, sadici in altri, con cui le forze dell’ordine fanno rispettare le regole. I Paesi che si sono distinti per violazione dei diritti umani sono India, Filippine, Paraguay, El Salvador, Kenya. In un carcere del Salvador centinaia di detenuti, la cui foto è diventata virale, sono stati costretti a terra in celle comuni, seminudi, ammanettati e tutti ammassati, in attesa che le guardie perquisissero le celle. Una ritorsione, disumana, per l’escalation di omicidi ad opera delle gang. La foto è stata postata con orgoglio dal presidente salvadoregno, Nayib Bukele, il 25 aprile Ma è dall’India di Narendra Modi che arrivano video e immagini delle punizioni tra le più bizzarre e cattive. Nello Stato dell’Uttar Pradesh un gruppo di migranti indiani è stato fatto accucciare per terra, al lato della strada, e su di loro gli agenti hanno iniziato a spruzzare un getto di disinfettante a base di ipoclorito di sodio. Se il disinfettante funziona sulle superfici, si sa che non fa bene sul corpo umano. Alla fine della “disinfestazione” gli operai erano coperti da una polvere bianca, che può causare danni alla pelle, agli occhi e ai polmoni, secondo quanto poi riferito da Indian Express. Nel Tamil Nadu, sempre in India, gli agenti si sono inventati un’ambulanza con a bordo una persona malata di coronavirus, su cui hanno fatto a salire a forza dei ragazzi sorpresi a violare il lockdown. Il filmato descrive bene il panico, la disperazione di questi giovani, che imbarcati sulla vettura, cercavano disperatamente di scappare urlando e piangendo. In sottofondo, le risate divertite di chi assisteva alla scena. In Punjab, le persone sorprese a infrangere le regole di quarantena sono state costrette a fare squat, piegamenti sulle gambe accovacciati, per strada cantando: “Siamo nemici della società. Non possiamo stare a casa”. E a Pune si sono esibiti in complesse posizioni di yoga per almeno un’ora tra le risate dei poliziotti che impartivano ordini. “Non lascerò più casa, agente”, implora un ragazzo lasciato senza scarpe davanti a un capannello di agenti con il manganello in mano, mentre fa squat. L’umiliante punizione è stata ripresa in un filmato che è circolato ovunque. Il ministro degli Interni paraguayano ha lodato l’intraprendenza della polizia. Le forze dell’ordine malgasce invece hanno costretto i violatori a pulire le strade della città e a raccogliere i rifiuti. Erano stati sorpresi in strada senza le mascherine, obbligatorie in Madagascar. Trovati 500 cittadini a viso nudo, 25 dei quali sono stati puniti con la pulizia pubblica. Gabbie per i cani sono state usate dalla polizia filippina per insegnare la lezione dell’osservanza della legge. Vivere in 20 metri quadrati con sei persone non rende la vita facile a milioni di persone. Quelli che sono stati sorpresi a violare le ordinanze governative erano usciti, a Manila, per prendere un po’ d’aria. Si sono trovati a trascorrere ore intrappolati in uno spazio ancora più angusto e umiliante di quello della loro vita quotidiana. Nella Turchia senza giustizia, Ibrahim è morto di protesta di Chiara Cruciati Il Manifesto, 8 maggio 2020 Digiuno. Dopo Helin e Mustafa e 323 giorni di sciopero della fame, appena interrotto, se ne va il bassista del marxista Grup Yorum, perseguitato da anni dalla magistratura erdoganizzata. Insieme a giornalisti, deputati, attivisti, sei membri della band inseriti nella lista senza fine dei nemici dello Stato, detenuti o condannati dopo processi senza prove. “Sono sul palco, con la cinghia del basso attaccata al collo, quella con le stelle che mi piace di più. Di fronte a me, centinaia di migliaia di persone, con i pugni alzati, cantano “Bella ciao”. La mia mano batte le corde del basso come fosse il migliore del mondo…Mi chiamo Ibrahim Gokcek. Per 15 anni ho suonato il basso nel Grup Yorum”. La lettera che Ibrahim ha scritto a fine aprile a L’Humanité è la storia sua, della sua band e della Turchia del presidente Erdogan. Di una battaglia di corpi. Di una lotta impari per libertà e giustizia sociale che un gruppo musicale porta avanti dal 1985, che ha riempito 23 album e tanti stadi, che ha tessuto in una trama sola “cultura popolare e pensiero socialista”. Quella storia sembra oggi sfaldarsi, cadere a pezzi, i corpi pelle e ossa dei suoi musicisti. Ieri Ibrahim, 39 anni, è morto dopo 323 giorni di sciopero della fame fino alla morte. Un mese fa si era spenta Helin Bolek, 288 giorni a digiuno per 33 chili di peso. Il 24 aprile se n’era andato Mustafa Kocak, 297 giorni senza cibo in solidarietà con la band, pesava 29 chili. Helin e Mustafa non avevano neppure 30 anni, ma i volti sfigurati dalla più estrema delle violenze che si possono infliggere al proprio corpo. L’accusa la stessa, per tutti: terrorismo a favore del Dhkp-C, gruppo armato marxista-leninista. “Il motivo per cui siamo stati inseriti in questo “elenco terroristico” è il seguente - continuava Ibrahim nella lettera - Nelle nostre canzoni parliamo di minatori costretti a lavorare sotto terra, di lavoratori assassinati da incidenti sul lavoro, di rivoluzionari uccisi sotto tortura, di abitanti dei villaggi il cui ambiente viene distrutto”. La persecuzione è iniziata nel 2016, dopo il tentato golpe che ha violato le esistenze di decine di migliaia di turchi, arrestati, licenziati. Con giornalisti, scrittori, deputati, accademici, nella lista senza fine apparente dei nemici dello Stato anche sei musicisti della band, sulla loro testa una taglia da 42mila dollari. Due sono fuggiti in Francia, hanno ottenuto l’asilo. Intanto il governo vietava i loro concerti e ordinava continue e distruttive perquisizioni del loro centro culturale a Istanbul. “In questi ultimi anni abbiamo assistito a una svolta che ha sconvolto tutto - ci spiega il giornalista e analista turco Murat Cinar - Dal 2016 sono iniziati processi assurdi. Kocak è stato condannato all’ergastolo aggravato con una testimonianza anonima, il giudice ha addirittura detto di aver preso la decisione sulla base della propria coscienza. Processi come quelli ai giornalisti di Cumhuriyet, accusati sulla base di chiamate perse sui loro telefoni di cittadini poi inquisiti per il golpe. Le accuse sono diventate estreme, una messinscena giudiziaria sulla base di testimonianze anonime o prove costruite dopo gli arresti”. “Questa cultura politica gioca in modo sfrenato con la giustizia, contro chiunque, che sia attivista, parlamentare, imprenditore, musicista. Erdogan si vanta di aver ripulito la magistratura dai gulenisti, ma ne ha creata una al suo diretto servizio. La Turchia non ha uno stato di diritto”. Helin è stata arrestata nel 2016, si è fatta due anni di prigione prima del rilascio. Mustafa è stato condannato per complicità nell’omicidio di un giudice. Ibrahim è stato incarcerato nel febbraio 2019. Pochi mesi dopo, a maggio, ha iniziato a rifiutare il cibo. Dopo la morte dei compagni, aveva interrotto lo sciopero, appena due giorni fa. Pesava 39 chili. Con la band stava presentando richiesta per tenere un concerto a Istanbul: “L’intero mondo ha sentito parlare della nostra resistenza - ha scritto Grup Yorum sui social - Speriamo che la nostra richiesta abbia esito positivo”. Fondato nel 1985 da quattro studenti della Marmara University, si è allargato e si è ristretto, una mutazione continua che non ha mai messo da parte l’aspirazione politica, voce dei lavoratori, della comunità curda e quella alevita, di chi combatte la gentrificazione nel paese, delle donne. Ha reinterpretato Bella ciao e l’Internazionale, ha mescolato strumenti tradizionali e moderni, con un afflato di classe che il pubblico ha fatto suo, riempiendo i concerti e regalandogli la vetta: per il 25esimo anniversario nello stadio del Besiktas c’erano oltre 55mila persone, nel 2015 a Smirne un milione. Lo sciopero della fame prosegue: digiunano ancora due membri della band, Baris Yuksel e Ali Araci, e due avvocati, Abru Timtik e Aytac Unsal. “È una modalità di protesta molto comune in Turchia - continua Cinar - iniziata negli anni ‘90 nelle carceri. Dal 1996 al 2000 sono morte per sciopero della fame 122 persone. Le chiamavano operazioni per il ritorno alla vita. Per una parte della società turca è un’arma di grande disperazione ma comunque politica”. “Nel caso del Grup Yorum, la simpatia è poca, buona parte dell’opinione pubblica li fa rientrare nella zona grigia del terrorismo, impattante in un paese che si considera in guerra con un gruppo terrorista, il Pkk, da 30 anni. Diversa l’accoglienza della protesta dei due insegnati nel 2017 (Nuriye Gulmen e Semih Ozakca, ndr), ci fu grande attenzione dai media stranieri. Lo stesso sperava il Grup Yorum, una pressione internazionale che facesse fare un passo indietro al governo turco”. Ieri una grande folla, mascherina in volto e al collo il fazzoletto giallo del Grup Yorum, ha reso omaggio a Ibrahim fuori dalla sua casa di Istanbul. Tutti intorno alla bara rossa. Stati Uniti. La pandemia non arresta il business delle carceri di Giuseppe Gallinella ilformat.info, 8 maggio 2020 Mentre le fabbriche e le altre aziende rimangono chiuse in tutta l’America, i prigionieri in almeno 40 stati continuano a lavorare. A volte guadagnano centesimi l’ora, o addirittura niente, facendo maschere e disinfettanti per le mani per aiutare a proteggere gli altri dal coronavirus. Quegli stessi detenuti sono stati tagliati fuori dalle visite della famiglia per settimane, ma vengono addebitati fino a 25 dollari per una telefonata di 15 minuti, oltre a un supplemento ogni volta che aggiungono credito. Pagano anche i prezzi maggiorati al commissario per il sapone in modo che possano lavarsi le mani più frequentemente. Tale servizio può comportare una commissione di elaborazione del 100%. Sebbene il virus Covid-19 ha paralizzato l’economia, lasciando milioni di disoccupati e molte aziende in supporto vitale, le grandi aziende che sono diventate sinonime del più grande sistema carcerario del mondo continuano a fare soldi. “È difficile. Soprattutto in un momento come questo, quando sei senza lavoro, stai aspettando la disoccupazione, e non hai soldi da inviare”, ha dichiarato Keturah Bryan, che trasferisce centinaia di dollari ogni mese - vecchio padre in una prigione federale in Oklahoma. Nel frattempo, ha detto, le prigioni continuano il loro oscuramento. “Devi pagare per telefonate, e-mail, cibo”, ha detto. “Qualunque cosa”. L’epidemia di coronavirus ha messo in luce un improbabile riflettore nelle carceri e nelle prigioni americane, che ospitano oltre 2,2 milioni di persone e sono state descritte dagli esperti sanitari come piastre di Petri per la diffusione del virus. Maschere e disinfettante per le mani spesso non raggiungono ancora i detenuti. Spesso i test non vengono eseguiti, anche tra quelli con sintomi, nonostante i timori che il virus possa diffondersi nelle comunità circostanti. E in alcune parti del paese, coloro che manifestano sintomi languiscono in edifici soffocanti con scarsa ventilazione. Le preoccupazioni si estendono ai fornitori di servizi sanitari penitenziari, spesso accusati dagli esperti di salute di fornire cure scadenti anche nei periodi migliori. Sheron Edwards condivide un dormitorio con altri 50 uomini presso l’istituto di correzione regionale della contea di Chickasaw nel Mississippi. Date le sue esperienze passate con il fornitore medico della prigione, Centurion of Mississippi, si preoccupa di cosa accadrebbe se il coronavirus li colpisse. “Temo che ci lasceranno morire qui”, ha dichiarato. Quando era nella famigerata prigione di Parchman diversi anni fa, Edwards disse, Centurion gli avrebbe concesso solo una sessione di terapia fisica dopo che una bacchetta da 6 pollici e viti erano state posizionate nella sua caviglia rotta. “Anche se non era in pericolo di vita, era serio”, ha detto. “Con Covid-19, potrei davvero perdere la vita”. Più di 20.000 detenuti sono stati infettati e 295 sono morti in tutta la nazione, a Rikers Island a New York City e ai blocchi statali e federali nelle città da una costa all’altra, secondo un conteggio non ufficiale tenuto dalla corsa Covid-19 Behind Bars Data Project dalla legge Ucla. Mercoledì scorso, funzionari di San Diego hanno annunciato la prima morte di un detenuto in un centro di detenzione per l’immigrazione e l’applicazione delle dogane negli Stati Uniti. Quando i tassi di detenzione sono saliti alle stelle negli anni 80 e 90, alcune aziende hanno visto un’opportunità commerciale. I costi più bassi promessi e, in molti casi, gli accordi di ripartizione degli utili, gli amministratori delle carceri hanno iniziato a privatizzare qualsiasi cosa, dal cibo e dai commissari a intere operazioni delle strutture. Negli anni 2000, il settore privato era incorporato in quasi tutti gli aspetti del sistema correttivo. Oggi, alcuni dei più grandi nomi aziendali americani e molte aziende più piccole, si contendono una quota degli 80 miliardi di dollari spesi ogni anno negli Stati Uniti per incarcerazione di massa, circa la metà dei quali resta nel settore pubblico per pagare gli stipendi del personale e alcuni costi per i servizi sanitari, secondo l’iniziativa di politica carceraria senza scopo di lucro. I sostenitori delle carceri a scopo di lucro affermano che per le società private è più economico gestirle rispetto al governo, sostenendo che è più facile annullare i contratti e vi sono maggiori incentivi per fornire un servizio migliore. Questo porta a migliori condizioni di vita e una reintroduzione più efficace degli incarcerati nella società, con l’obiettivo finale di ridurre la recidiva. Il gruppo di difesa Worth Rises non è d’accordo. Giovedì il gruppo ha pubblicato un rapporto che descrive in dettaglio circa 4.100 società che traggono profitto dalle carceri del paese. Per la prima volta, ha identificato le società che supportano il lavoro penitenziario direttamente o attraverso le loro catene di approvvigionamento. Il gruppo ha inoltre raccomandato di disinvestire da oltre 180 società quotate in borsa e società di investimento. “L’industria dietro l’incarcerazione di massa è più grande di quanto molti apprezzino. Così è il danno che causano e il potere che esercitano”, ha dichiarato Bianca Tylek, fondatrice e direttrice del gruppo. “Sfruttano e abusano delle persone con conseguenze devastanti”, ha detto Tylek. “Certo, non sono unilateralmente responsabili dell’incarcerazione di massa, ma fanno parte dell’ecosistema che lo sostiene”. Il rapporto include i venditori che immagazzinano commissari con detersivo per bucato Cup Noodles e Tide, insieme a fornitori di servizi sanitari convenuti che sono stati citati in giudizio per aver fornito una copertura limitata o inadeguata a quelli dietro le sbarre. Ci sono aziende come Smith & Wesson che producono dispositivi di protezione per agenti di correzione e che fornisce bracciali elettronici alla caviglia. Altri nomi familiari, come Stanley Black & Decker, hanno intere unità dedicate alla produzione di accessori per le porte della prigione. Anche i prigionieri lavorano, realizzando di tutto, dalle targhe ai giubbotti e materassi per armature. In California, alcuni servono anche come vigili del fuoco. Ma in alcuni luoghi, le persone incarcerate sono impiegate da grandi aziende come la 3M con base in Minnesota. Fatturati come un’alternativa economica all’outsourcing straniero, i detenuti hanno anche fornito beni a Starbucks, Victoria’s Secret e Whole Foods, scatenando un tumulto che ha provocato l’abbandono di molte grandi aziende. Alcuni prigionieri lasciano i loro blocchi per fare lavori nella comunità, come i fast food. Le imprese di proprietà statale sono anche spuntate attorno alle massicce industrie del lavoro penitenziario, comprese alcune con nomi quasi comici, come i prodotti Big House in Pennsylvania e Rough Rider Industries nel Nord Dakota. Mentre alcuni lavori potrebbero pagare un salario minimo come richiesto dalla legge federale per i prodotti che entrano nel commercio interstatale, la retribuzione da portare a casa dei lavoratori nelle industrie correzionali può essere inferiore al 20% del loro salario dichiarato dopo il pignoramento di vitto e alloggio, restituzione, e altri costi. Nel frattempo, le società private commercializzano cataloghi pieni di prodotti da bloccare. Un sito Web pubblicizza una serie di articoli bondage costosi: cinture in pelle per 267 dollari, cavigliere per 144 dollari e una catena in metallo con le manette che costano 76,95 dollari. Un’azienda dell’Alabama commercializza sistemi di video sotto una cabina telefonica con il volto di una donna anziana con gli occhiali mostrata sul monitor all’interno. Accanto si legge lo slogan: “Tieni le torte dello stinco della nonna lontano dalla tua struttura”. Bobby Rose, uno dei ricercatori del rapporto, ha scontato 24 anni nelle carceri dello stato di New York, dove ha trascorso molto tempo a pensare al ruolo del denaro nel sistema legale americano. Ma rimase scioccato nell’apprendere quante società di spicco erano coinvolte e quanto si guadagnava non solo da quelle dietro le sbarre, ma anche dalle loro famiglie - un concetto particolarmente toccante durante la pandemia. Pensa ancora agli amici rimasti in prigione - due dei quali hanno ceduto al Covid-19. “Sento”, ha detto, “che alcune di queste aziende che hanno davvero beneficiato potrebbero aver fornito disinfettante o addirittura dato sapone gratis”, ha concluso. Venezuela. “Il massacro nel carcere di Guanare è stato per fame: detenuti denutriti” agensir.it, 8 maggio 2020 Le dichiarazioni di Carlos Nieto, difensore dei diritti umani nei penitenziari. A quasi una settimana dal massacro nel carcere “Cepello” (Centro penitenciario de Los Llanos Occidentales), a Guanare, nello Stato venezuelano centro-occidentale di Portoguesa, ancora non ci sono notizie ufficiali sui responsabili dei gravi fatti accaduti, a cominciare dall’uccisione di 51 detenuti e dal ferimento di altri 75. “La ministra ha detto che si sta indagando, la Procura pure, ma a oggi non abbiamo alcuna notizia certa su quanto è accaduto”. Lo afferma al Sir Carlos Nieto, coordinatore di “Una ventana a la libertad” (Una finestra sula libertà), Ong che si occupa delle condizioni delle carceri venezuelane. Nieto, tuttavia, un’idea se l’è fatta: “A mio avviso si è trattato del primo massacro per fame in un carcere venezuelano. Le terribili foto scattate dopo l’uccisione di tanti detenuti mostrano persone in stato di denutrizione. Verosimilmente, la protesta è scattata quando è stato impedito ai familiari dei detenuti di portare il pasto ai propri congiunti. Qui in Venezuela, infatti, sono i familiari ad assicurare il pasto ai detenuti, che altrimenti non mangiano. Credo che sia stato un massacro per la mancanza di alimenti. Probabilmente le guardie, nel momento della protesta, hanno iniziato a sparare. Va ricordato che la maggioranza delle vittime era ancora sotto processo, attendeva una sentenza e che anche in quella struttura la situazione è allo stremo con 1.500 detenuti stipati in un luogo che dovrebbe contenerne 750”. Nieto, sulla scia dei report di “Una ventana a la libertad”, spiega che quanto accaduto è solo la punta d’iceberg di una condizione generalizzata: “Nelle strutture penitenziarie si vive in povertà estrema. Questo accade particolarmente nei centri di detenzione preventiva, che dovrebbero accogliere le persone che vengono arrestate solo per pochi giorni, cosa che invece non accade, sono in pratica strutture permanenti. Va anche detto che il 70% dei detenuti, in Venezuela, non ha ancora avuto una sentenza”. In generale, nelle carceri venezuelane, “mancano cibo, condizioni igieniche di base, assistenza medica. È diffusa la tubercolosi e altre malattie. Per fortuna, non si registrano ancora focolai di Covid-19, data la situazione di partenza si tratterebbe di una vera tragedia”.