Ci sono anche le carceri di Luca Sofri ilpost.it, 7 maggio 2020 Cioè posti in cui il distanziamento fisico è difficile quando non impossibile, e che hanno davanti il grosso problema di come riaprire all’esterno. Il 2 aprile scorso era stato registrato il primo decesso di un detenuto in Italia ufficialmente ricondotto al coronavirus: un uomo di 76 anni che stava scontando la sua pena nel carcere della Dozza, a Bologna. Nelle ultime settimane l’avanzamento del contagio nelle carceri è stato un argomento poco raccontato, e sulle quali sono arrivate in gran parte informazioni confuse e parziali, o comunque trascurate, come avviene spesso alle cose che riguardano le carceri. I problemi riscontrati in questi primi due mesi di epidemia sono stati moltissimi, dalle difficoltà di isolare i malati o i presunti malati ai protocolli da seguire per le guardie carcerarie, e hanno previsto una radicale sospensione di alcuni diritti fondamentali dei detenuti. Per certi versi, queste difficoltà sono però soltanto un’anticipazione di quelle che arriveranno superata la fase di emergenza. I modelli organizzativi attuali, da quelli che regolano le visite dei familiari a quelli delle attività educative e ricreative, si basano sulla continua entrata e uscita di persone dalle carceri. Una cosa che a lungo non sarà più possibile con le stesse modalità e la stessa serenità del mondo prima del coronavirus. Contagi - Secondo il Garante Nazionale dei privati di libertà, al primo maggio erano stati registrati 159 casi di Covid-19 tra i detenuti italiani, e 215 tra il personale penitenziario: ma almeno i primi, dice il bollettino, sono ancora in crescita. I morti sono stati almeno tre: il primo a Bologna, un altro poco dopo detenuto a Voghera, e un terzo a San Vittore, a Milano. Alle persone morte per il coronavirus, poi, andrebbero aggiunte quelle morte nelle proteste di inizio marzo in diverse carceri italiane, per un totale complessivo di 12. Questo bilancio ufficiale del contagio sembra un po’ basso all’associazione Antigone, che si occupa di giustizia e diritti dei detenuti: lo ha spiegato al Post il suo coordinatore dell’osservatorio sulle condizioni di detenzione Alessio Scandurra. Ma avere notizie confermate è complicato, anche perché in diversi casi alcuni racconti allarmati e preoccupanti arrivati direttamente dai detenuti si sono rivelati esagerati o inesatti, ha spiegato. Nei casi in cui Antigone è riuscita ad avere notizie ulteriori, attraverso contatti fidati negli istituti, c’è stata una conferma dei dati ufficiali, dice Scandurra. C’è però il problema che non esistono dati pubblici su quanti detenuti siano stati sottoposti al tampone, dice Gennarino De Fazio, segretario nazionale del sindacato Uil-Pa Polizia Penitenziaria. A metà aprile, De Fazio aveva avvertito che il 50 per cento dei test fatti sui detenuti della Dozza di Bologna erano risultati positivi: una percentuale molto alta, che suggerisce la possibilità che in altri istituti i contagi siano più numerosi di quelli accertati. Sovraffollamento - Non è difficile immaginare perché un’epidemia sia una circostanza particolarmente allarmante per gli istituti penitenziari. Il noto problema di sovraffollamento delle carceri, per cui l’Italia fu condannata nel 2013 dalla Corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo, le rende dei posti tristemente fertili per il diffondersi di un virus. Con celle di pochi metri quadri che ospitano 3, 4 o 5 detenuti ciascuna, con un unico bagno, il distanziamento sociale tanto proclamato come indispensabile per chi è libero non è una possibilità. In un carcere molti contatti tra detenuti e personale non sono evitabili, e la carenza di dispositivi di protezione, rilevata da gran parte delle categorie professionali che hanno avuto a che fare direttamente con il contagio, ha coinvolto anche gli operatori penitenziari e ovviamente i carcerati. In Italia i detenuti nelle carceri al 4 maggio erano 53.139, per circa 47mila posti effettivamente disponibili. Il sovraffollamento rimane ma è diminuito drasticamente da fine febbraio, quando i detenuti in carcere erano 61.230. È stato un risultato combinato: a una diminuzione degli ingressi, dovuta al minor numero di reati commessi durante il lockdown, si è aggiunto un maggiore ricorso alle misure alternative al carcere nelle sentenze emesse dai giudici negli ultimi due mesi. A questo si sono aggiunte le scarcerazioni per il sopraggiungere della fine della pena o per il ricorso a benefici precedenti all’epidemia o previsti in seguito: usuali ma cresciute. Come ha spiegato Scandurra, ci sono stati molti casi in cui le condizioni di salute dei detenuti sono diventate improvvisamente incompatibili con il carcere: una persona che ha bisogno di una dialisi una volta a settimana, per esempio, non può più certamente fare avanti e indietro tra l’istituto e l’ospedale, per gli evidenti rischi di contagio. La carenza di braccialetti elettronici, tuttavia, ha rallentato in parte queste scarcerazioni, limitandole a quei detenuti per i quali potesse essere permesso. Isolamenti - Il problema della mancanza di posti letto e di stanze libere si è rivelato particolarmente grave nel momento in cui gli istituti hanno dovuto provvedere a isolare i detenuti positivi al coronavirus o quelli che presentavano sintomi. Questo ha costretto in diversi casi a trasferire parte dei detenuti in altri istituti, con il rischio - che in certi casi si è concretizzato - di portare il contagio altrove. È successo per esempio con la casa circondariale Dozza di Bologna: dopo la rivolta di inizio marzo, in cui due detenuti erano morti per overdose dopo aver ottenuto accesso a farmaci dell’ambulatorio, molte persone erano state trasferite in altre carceri. Alcuni, portati a Saluzzo, in provincia di Cuneo, hanno probabilmente contagiato altri detenuti: ora ci sono oltre venti positivi al coronavirus tra i carcerati e quattro tra gli agenti penitenziari, più diversi altri in isolamento. A Tolmezzo, in provincia di Udine, cinque detenuti trasferiti da Bologna sono risultati positivi al tampone giorni dopo essere stati messi in isolamento. “Evidentemente i protocolli di accoglienza non hanno funzionato” spiega Scandurra, “ma i trasferimenti erano inevitabili: il carcere più infetto ha bisogno di avere più spazio, e quindi si devono necessariamente spostare i detenuti”. Focolai - Una delle situazioni più preoccupanti era emersa intorno a metà aprile alla Casa circondariale di Torino, quando Leo Beneducci, segretario generale dell’Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria, aveva segnalato come almeno 60 dei 1.250 detenuti fossero risultati positivi al tampone: una decina erano stati fatti uscire, ma 47 erano ancora nella struttura. Un’altra situazione che ha generato preoccupazioni è quella del carcere di Verona, dove il 22 aprile erano stati registrati 29 casi di Covid-19: Maria Grazia Bregoli, direttrice dell’istituto, aveva spiegato che era stato fatto di tutto per contenere il contagio, ma che ormai il rischio era diventato “ingestibile”. Margherita Forestan, garante per i detenuti di Verona, aveva spiegato che per giorni Bregoli aveva scritto “a sindaco, prefettura e Usl senza ricevere risposta”. Una guardia carceraria, però, ha detto al Corriere del Veneto che “all’inizio dell’emergenza, la direzione ha spiegato di non gradire che indossassimo le mascherine perché questo poteva generare preoccupazione tra i detenuti”. Sempre nel carcere di Verona, intorno alla metà di aprile, un detenuto indiano era stato scarcerato perché positivo al coronavirus, ed era stato poi fermato dalle forze dell’ordine 24 ore dopo in stazione: il Corriere aveva spiegato che a rimetterlo in libertà era stata la Corte d’appello di Venezia, che si era basata “su una nota nella quale la stessa direttrice ammetteva la necessità di allontanarlo al più presto dal carcere” perché era impossibile garantire la sicurezza degli altri detenuti e del personale: segnalando la contraddizione difficilmente risolvibile - senza percorsi di uscita - tra la protezione delle persone dentro e quella delle persone fuori. Violenze - Oltre alle violenze avvenute durante le rivolte di inizio marzo, l’associazione Antigone ha denunciato un grave episodio avvenuto il 6 aprile nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. Dopo che un detenuto era risultato positivo al coronavirus, i carcerati di un reparto avevano organizzato una protesta sbattendo sulle sbarre delle celle e trincerandosi dietro una barricata di brande chiedendo dispositivi di protezione individuale. Dopo un’iniziale risoluzione pacifica della protesta, secondo la ricostruzione di Antigone, “circa 400 agenti di polizia penitenziaria sarebbero entrati nel reparto in tenuta antisommossa, con i volti coperti dai caschi, e lì, in gruppi da sette, sarebbero entrati nelle celle prendendo i detenuti a schiaffi, calci, pugni e colpi di manganello”. Secondo le testimonianze raccolte, i detenuti hanno denunciato a familiari e avvocati “persone massacrate di botte, svenute nel sangue o che il sangue lo urinano, traumi cranici, costole e denti rotti”. La procura di Santa Maria Capua Venere sta indagando su quanto successo. Visite - Dall’8 marzo le visite di persona nelle carceri sono state sospese. Questa misura, necessaria dal punto di vista sanitario, ha comportato una grande sofferenza per gran parte dei detenuti e dei loro parenti. Le visite sono state generalmente sostituite da un maggior numero di telefonate mensili e da videochiamate su Skype o WhatsApp. Ma l’introduzione di questi strumenti non è stata omogenea, e i detenuti hanno potuto ricorrervi soprattutto in quegli istituti dove erano già previste possibilità di questo tipo. In certi casi, quando non erano disponibili postazioni per le videochiamate, si è ricorso a smartphone acquistati apposta o ricevuti come donazione. Ci sono stati però spesso problemi tecnici: “le carceri sono posti in cui nessuno si è mai preoccupato di portare il segnale mobile e Internet: anzi, forse il contrario”, spiega Scandurra. Nonostante la diffusa ostilità all’introduzione della tecnologia nelle carceri, lo sforzo nella maggior parte dei casi è stato adeguato all’emergenza, e in certi casi ha avuto inaspettati risvolti positivi. Ornella Favero, direttrice della rivista Ristretti e presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia, ha spiegato al Post che “le videochiamate sono state una cosa bellissima, perché c’erano persone che non facevano i colloqui con i familiari nemmeno prima. Quindi ha potuto rivedere parenti lontani: qualcuno ha visto la madre dopo anni, magari perché vive in un’altra parte d’Italia o più spesso all’estero”. L’auspicio di Favero è che la tecnologia introdotta durante l’emergenza rimanga operativa anche quando la situazione sanitaria si sarà risolta. Piani - A preoccupare chi segue e si occupa del sistema carcerario italiano è principalmente cosa succederà una volta contenuta la diffusione iniziale del coronavirus: “siamo ancora in una fase di preparazione, non c’è ancora niente di pronto”, spiega Scandurra. I protocolli sanitari precedenti all’epidemia si sono rivelati inadeguati, soprattutto al momento di applicarli, così come le strutture a disposizione. “Per usare una metafora, il carcere era una nave che imbarcava acqua quando il mare era calmo: con il coronavirus è arrivata la tempesta, e ha iniziato ad affondare”, dice De Fazio. Le visite di persona, per esempio, devono gradualmente riprendere per tornare a garantire ai detenuti un diritto fondamentale, segnalano gli esperti. In moltissimi casi, però, non ci sono le condizioni strutturali per predisporre sale di attesa sufficientemente capienti, e percorsi protetti che separino gli ospiti dai detenuti, ma anche gli ospiti tra loro. Per questo andranno organizzati sistemi di prenotazione dei colloqui, peraltro già attivi in certe carceri, affiancati a un ampliamento degli orari e dei giorni in cui sono consentiti. Mauro Palma, presidente del Garante nazionale per i diritti dei detenuti, ha spiegato al Post che sarà necessariamente un processo graduale, che comincerà con visite più brevi e diradate nel tempo e che potrebbe essere più facile con l’arrivo dell’estate organizzando le visite negli spazi all’aperto degli istituti. Favero è preoccupata che il ripensamento dei modelli organizzativi delle carceri avvenga escludendo le decine di associazioni educative e di volontariato che operano, o meglio operavano, quotidianamente negli istituti italiani. Oltre alle visite, infatti, dalle lunghe e monotone giornate dei detenuti sono scomparse negli ultimi due mesi anche le attività educative e istruttive, dalle lezioni di lingua a quelle di teatro alle altre iniziative e assistenze di cui si fanno carico le associazioni. Se in certe rare occasioni sono state ripristinate in videoconferenza, nella maggior parte dei casi non è stato possibile. Un’altra questione complicata sarà studiare un modo per riprendere le attività lavorative fuori dal carcere per i detenuti in semilibertà, che cioè tornano in carcere la sera dopo aver lavorato fuori di giorno. Claudio Paterniti Martello ha spiegato sul Foglio che “alcuni tribunali di sorveglianza si sono fatti in quattro perché scontassero la pena a casa almeno fino al 30 giugno”, ma “a volte i magistrati hanno preferito seguire l’irresponsabile strada già segnata da governo e Parlamento, negando le licenze. Allora la mezza libertà si è tramutata nuovamente in prigionia completa”. Secondo Palma, l’emergenza potrebbe servire a ripensare questo tipo di detenzione, che - negando di fatto molte ragioni alla detenzione - spesso prevede che una persona lavori tutto il giorno fuori dal carcere tornando la sera tardi e uscendo la mattina presto: “la possibilità di non gravare sui sistemi penitenziari per il semplice ritorno a dormire forse si dovrebbe ripensare in modo più stabile”. Lo stesso problema varrà per i permessi di uscita: entrare e uscire da un carcere rappresenterà probabilmente un grosso rischio per molto tempo, e al momento c’è grande incertezza su quale strada percorrere per mantenere queste importanti concessioni ai detenuti. Al momento, i protocolli prevedono che i detenuti che rientrano dai permessi siano messi in isolamento per 15 giorni, con tutte le difficoltà e i limiti di questo tipo di operazioni in un carcere. Per quanto riguarda la polizia penitenziaria, invece, una delle prime cose da fare secondo De Fazio sarebbe una condivisione dei protocolli di sicurezza con le organizzazioni sindacali, e una riduzione della densità delle carceri, trasferendo temporaneamente parte dei detenuti in strutture alternative come caserme e alberghi inutilizzati. Dopo la crisi nelle carceri tornerà tutto come prima? di Francesco Maselli linkiesta.it, 7 maggio 2020 Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede è distratto dallo scontro con Nino Di Matteo e annuncia di voler “rimandare dentro tutti i boss”. Ma deve occuparsi anche dei detenuti “normali”, che non meritano meno attenzione degli altri. Il carcere è diventato il terreno da gioco di uno scontro interno alle diverse anime del giacobinismo italiano. Nino Di Matteo, membro togato del Consiglio superiore della magistratura, accusa Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia, di non averlo nominato a capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nel 2018 per presunte pressioni da parte della mafia; un’accusa molto grave, tardiva e peraltro non supportata da fatti. Lo scontro segnala certamente il cortocircuito dell’impianto ideologico del Movimento 5 Stelle, costruito intorno a figure come quella di Nino Di Matteo, ora ferocemente critiche con Alfonso Bonafede, ministro tuttavia molto efficace nel mettere in pratica le riforme da sempre chieste dalla sua base: pene più dure per i corrotti, intercettazioni invasive senza garanzie come i trojan, blocco della prescrizione. Ma lascia passare anche il messaggio che il carcere sia un luogo dove rileva soltanto la sorte dei mafiosi. E quindi tutta l’attenzione del ministro verte sul “rimandare dentro tutti i boss” che avevano usufruito delle disposizioni eccezionali di scarcerazione, 376 secondo quanto rivelato da Repubblica. È in parte dovuto: si tratta di detenuti pericolosi non soltanto per un’eventuale fuga, ma anche e soprattutto per la loro capacità di comunicare con l’esterno e riprendere il controllo degli affari criminali. Il regime del 41bis serve proprio a impedirlo. E tuttavia nel dibattito di questi giorni questa fetta importante ma esigua della popolazione carceraria ha distratto l’opinione pubblica dal problema più generale. Intorno al carcere ruotano decine di migliaia di persone, i 60mila detenuti, i 40mila agenti di polizia penitenziaria, più gli avvocati, gli educatori, i medici e i volontari. Un ecosistema complesso che negli anni si è dimostrato incapace di garantire i diritti basilari di chi deve scontare la propria pena e di chi si trova in carcere per l’applicazione di una custodia cautelare. Le condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo lo confermano, così come la ritrosia nell’ammettere che durante il picco più alto dell’epidemia le carceri avrebbero potuto essere focolai di contagio incontrollabili. Secondo i dati comunicati dal garante nazionale delle persone detenute o private della libertà personale la popolazione in carcere è, al primo maggio 2020, di 53.187 persone rispetto a una capienza di 50.754. Quasi 7mila detenuti hanno abbandonato la loro cella per scontare la pena fuori dagli istituti e alleggerire la pressione sugli altri carcerati e sul personale di polizia. Un risultato impensabile rispetto all’inizio della crisi, quando i detenuti erano circa 60mila, e tuttavia ancora insufficiente, soprattutto alla luce dell’orientamento del ministro Bonafede: finita la crisi, tutto tornerà come prima. E invece sarebbe il caso che al cambiamento ai vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) seguisse anche una diversa politica in materia di carceri. Francesco Basentini, ex capo del Dap costretto a dimettersi la settimana scorsa, riteneva “quello del sovraffollamento negli istituti penitenziari italiani un falso problema, sia dal punto di vista giuridico che dal punto di vista dimensionale-logistico”. Il magistrato che lo ha sostituito, Dino Petralia, non si è mai occupato specificamente di carceri nella sua carriera (come il suo predecessore), ma è considerato un profilo garantista. Membro di Area, l’alleanza delle correnti di centrosinistra, è sicuramente in discontinuità rispetto a Basentini. Repubblica scrive che la sua nomina, oltre a quella di Roberto Tartaglia, nuovo vice capo del Dap, è garanzia di “nessuna concessione ai mafiosi e ai detenuti al 41bis, ma un carcere comunque giusto, senza soprusi, né violenza”. Se è vero lo si capirà a breve, ed è di questo che si dovrebbe tornare a discutere. Il ministro Bonafede non ha mai mostrato particolare interesse per la materia, come dimostra la sua dichiarazione durante la puntata di Otto e mezzo dello scorso 23 gennaio: “Gli innocenti non finiscono in carcere”. Forse la crisi che ha appena attraversato gli farà cambiare idea. 41bis: i veri numeri del finto scoop di Stefano Anastasia Il Riformista, 7 maggio 2020 I “boss” scarcerati non sono 376, ma 3. Tutti gli altri erano detenuti nel circuito di alta sicurezza. In queste scarcerazioni sono coinvolti 200 magistrati: tutti pericolosi eversori dell’ordine costituito? Lo scoop postumo di Repubblica (“Boss scarcerati, la lista segreta”, 5 maggio) ci informa che i boss scarcerati dal 41bis per motivi di salute sono 3, non 376. Gli altri erano detenuti al circuito detentivo di alta sicurezza, cui si accede - non sulla base di una valutazione individualizzata della pericolosità sociale, come nel caso del 41bis - ma per titolo di reato: basta averne uno tra gli ormai innumerevoli ricompresi nell’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario che limita l’accesso ai benefici e alle alternative al carcere. A vario titolo ostativi sono ormai non solo i reati legati alle organizzazioni criminali, ma anche quelli per fatti di corruzione, le rapine aggravate e alcuni reati sessuali. Comunque, certo è che - nonostante i profili criminali tratteggiati nell’articolo citato, nessuno di questi 373 detenuti scarcerati dal circuito di alta sicurezza è stato considerato da Ministro e Procura nazionale antimafia così pericoloso per l’ordine e la sicurezza pubblica da stare in 41bis. D’altro canto, di questi 373 detenuti scarcerati dall’alta sicurezza per motivi di salute, ben 196 erano anche in attesa di giudizio, e dunque, secondo quel vecchio arnese della Costituzione, ancora legalmente innocenti. Questo significa anche che questi 196 detenuti sono stati scarcerati per ordine degli stessi magistrati che ne avevano convalidato l’arresto e la misura cautelare, evidentemente - a loro giudizio - non più necessaria in quella forma e in quella gravità. Solo 155 sono stati invece i provvedimenti di scarcerazione per motivi di salute adottati dai magistrati di sorveglianza, motivati come sappiamo, alla luce della legge e delle Convenzioni internazionali in materia di diritti umani, che ritengono preminente la tutela della salute individuale a quello della esecuzione della pena in forma detentiva, che può essere commutata in detenzione domiciliare o sospesa, a seconda delle necessità. Infine, a conti fatti, è possibile ipotizzare che per 376 scarcerazioni siano stati coinvolti almeno 200 magistrati della Repubblica, servitori dello Stato al pari dei più famosi vocianti da ogni pulpito giornalistico e televisivo: tutti pericolosi eversori dell’ordine costituito? In arrivo il “riempi-carceri” di Bonafede di Rocco Vazzana Il Dubbio, 7 maggio 2020 “È in cantiere un decreto legge che permetterà ai giudici, alla luce del nuovo quadro sanitario, di rivalutare l’attuale persistenza dei presupposti per le scarcerazioni di detenuti di alta sicurezza e al regime di 41bis”. La notizia più importante il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede la riserva per la fine del suo intervento alla Camera. È in Aula il Guardasigilli per rispondere per rispondere all’interrogazione, presentata dal deputato di Forza Italia Pierantonio Zanettin, sullo “scontro” in atto tra via Arenula e il magistrato Nino Di Matteo sulla nomina del Capo del Dap del giugno 2018. Bonafede risponde colpo su colpo alle accuse mosse dalle opposizioni e alle “illazioni” sul suo operato avanzate in tv proprio dall’ex pm palermitano. Ma alla fine cede alle pressioni interne ed esterne al suo partito, il Movimento 5 Stelle, e annuncia la retromarcia. I 376 detenuti per mafia beneficiari delle misure alternative a causa dell’emergenza covid torneranno in galera. Oltre la metà di loro, 196, non ha ancora una condanna definitiva. Anzi, nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di detenuti in attesa del giudizio di primo grado. Bonafede, dunque, torna sui suoi passi per non finire impallinato in Aula (a breve potrebbero arrivare mozioni di sfiducia nei suoi confronti dalle opposizioni ma anche da Italia Viva) ma prima prova a togliersi qualche sassolino dalla scarpa. “Nel giugno 2018 non vi fu alcuna interferenza, diretta o indiretta, nella nomina del capo Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria”, scandisce a Montecitorio, nel tentativo di confutare una volta per tutte il “teorema Di Matteo”, secondo cui il Guardasigilli avrebbe scelto un altro magistrato alla guida del Dap dopo la “reazione di importantissimi capimafia” alla notizia di un possibile arrivo del pm della “Trattativa”. “Ogni ipotesi o illazione emersa in questi giorni è del tutto campata in aria”, spiega Bonafede, “perché, come emerso dalla ricostruzione temporale dei fatti, le dichiarazioni di alcuni boss erano già note al ministero dal 9 giugno 2018 e quindi ben prima di ogni interlocuzione con il diretto interessato”. Il ministro definisce poi “surreale” il dibattito di questi giorni, anche se per attaccare deve difendersi. E ribadire alcuni concetti già espressi nelle ore precedenti. A Di Matteo Bonafede avrebbe voluto affidare “o il vertice dell’amministrazione penitenziaria oppure un ruolo che fosse in qualche modo equivalente alla posizione ricoperta a suo tempo da Giovanni Falcone, a seguito di riorganizzazione”, cioè il direttore degli Affari penali del ministero. E per l’inquilino di Via Arenula, proprio questo secondo incarico calzava a pennello per il pm antimafia, anche “perché avrebbe consentito al dottor Di Matteo di lavorare in via Arenula, al mio fianco”. Il Guardasigilli pulisce gli schizzi di fango arrivati in questi giorni, nella convinzione di non dover dimostrare a nessuno il suo impegno contro le mafie. “La linea della mia azione da ministro è stata, è, e sempre sarà improntata alla massima determinazione nella lotta alla mafia”, continua in Aula. “Basta semplicemente scorrere ogni parola di ogni legge che ho portato all’approvazione in questi due anni, dalla Spazza-corrotti fino all’ultimo decreto legge che impone il coinvolgimento della Direzione nazionale e delle Direzioni distrettuali antimafia sulle richieste di scarcerazione”. E infine mete in chiaro la supremazia della politica sulle chiacchiere: “Anche con riferimento alla recente nomina del nuovo Capo Dipartimento, ho seguito mie valutazioni personali nella scelta, la cui discrezionalità rivendico”. Ma alle opposizioni la risposta del ministro non basta. Lega e Fratelli d’Italia chiedono maggiori chiarimenti a Bonafede, mentre per Forza Italia è il responsabile “Giustizia” Enrico Costa a replicare in Aula. “Nel premettere che noi consideriamo inappropriato che un membro del Csm utilizzi una trasmissione televisiva per accusare il Guardasigilli di essersi piegato alla mafia”, dice il deputato azzurro, “il ministro della Giustizia ha una responsabilità grande come una casa: aver legittimato, coccolato e rafforzato personaggi che mettono sotto i piedi le garanzie, la presunzione di innocenza, che usano i mass media per rafforzare la loro immagine e le loro inchieste, che sparano a zero sulle istituzioni e sui loro rappresentanti”, è l’ammonizione. Ma il passo indietro del ministro sulle misure alternative fa tirare un sospiro di sollievo al capo politico del Movimento, che in mattinata aveva annunciato, ben prima di Bonafede, il provvedimento “correttivo”. La linea Di Matteo ha avuto comunque la meglio. Bonafede, linea dura. Ma la sanità in prigione è inadeguata di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 maggio 2020 I posti nei reparti specialistici sono pochi e insufficienti per garantire tutti i ricoveri. Le polemiche per la detenzione domiciliare a 376 boss reclusi in alta sicurezza, solo tre al 41bis, continuano a essere al centro del dibattito. Indirettamente si ritorna all’attacco dei magistrati di sorveglianza o i Gip che hanno emesso queste ordinanze. In un articolo di Repubblica si grida allo scandalo, perché in realtà i magistrati delle procure distrettuali antimafia dicono che basterebbe trasferirli nei centri medici penitenziari, considerati - a detta loro strutture di eccellenza della nostra sanità. Ma è esattamente così? Forse c’è bisogno di fare chiarezza. Più volte è stato detto che basterebbe mandare i detenuti con gravi patologie fisiche nei centri clinici penitenziari di Roma e Viterbo. Partendo dal fatto chela detenzione domiciliare è stata concessa perché tali patologie sono quelle che possono provocare una morte certa, se contagiati dal Covid 19 (e già tre detenuti sono morti per questo), bisogna capire se effettivamente, allo stato attuale, i magistrati hanno possibilità di scelta e quindi possano assecondare le istanze dei procuratori. Un conto è la teoria, l’altra è la realtà che ben pochi conoscono. Il garante dei detenuti della regione Lazio Stefano Anastasìa, interpellato da Il Dubbio sul punto, spiega: “Vorrei chiarire che parliamo di due situazioni diverse: una cosa sono i vecchi centri clinici penitenziari (ora Sai), destinati a lungodegenze croniche in ambito penitenziario (Regina Coeli a Roma), altro sono i reparti ospedalieri di medicina protetta (Viterbo Belcolle e Roma Pertini), con pochi posti destinati a ricoveri funzionali a diagnostica, terapia e pre-ospedalizzazione per interventi chirurgici. Questi ultimi sono anche qualificati, ma con pochi posti e per periodi brevi. I vecchi centri clinici, invece, sono delle specie di Rsa penitenziarie. Non mi pare che si possa parlare di eccellenze. Almeno fino a quando governo e regioni non decideranno che cosa farne, dopo la riforma del 2008 (il passaggio dalla sanità penitenziaria al Servizio sanitario nazionale, ndr)”. Questo è il punto. I famosi centri sanitari di “eccellenza” più volte citati dai chi si indigna per le scarcerazioni, si trovano nei reparti ospedalieri di medicina protetta di Viterbo e Roma, ma sono pochi i posti per ricoverare i detenuti bisognosi di terapia. Altra questione. A causa dei pochi centri clinici che, come ha sottolineato Anastasìa sono delle vere e proprie Rsa, non il massimo ai tempi del Covid 19, molti detenuti vengono trasferiti nel reparto di assistenza intensiva del carcere di Parma. Il risultato? Non ci sono posti letto liberi, occupati da detenuti con degenze lunghissime, anche di molti mesi e pertanto con un ricambio praticamente inesistente. E tutto ciò crea un altro problema ancora più volte segnalato dal garante locale Roberto Cavalieri: costringe detenuti parimenti ammalati, rispetto a quelli ricoverati al Sai a restare in celle ordinarie di sezioni ordinarie, con i conseguenti problemi di conciliazione tra necessità sanitarie e spazi detentivi inadeguati. Anche Rita Bernardini del Partito Radicale denuncia il problema. Lo ha ricordato durante la trasmissione di Radio Carcere condotta da Riccardo Arena. “La sanità penitenziaria è a pezzi e non è in grado di assicurare a decine di migliaia di detenuti i livelli minimi di assistenza. Il coronavirus porta alla luce il tradimento della riforma di 12 anni fa che prevedeva il passaggio della medicina penitenziaria al Servizio sanitario nazionale. Quanti documenti in proposito ha prodotto, inascoltato, il dottor Francesco Ceraudo?”. Recentemente, infatti, è stata presentata una interrogazione parlamentare da parte di Roberto Giachetti proprio su questa questione. L’altro problema riguarda la Sardegna, dove sono concentrati numerosi detenuti in alta sicurezza o al 41bis. Già nel 2017, in un Rapporto inviato all’Amministrazione penitenziaria, dopo una visita regionale in Sardegna e successivamente pubblicato sul sito, il Garante nazionale delle persone private della libertà aveva evidenziato “l’esigenza di avere nella regione almeno un servizio di assistenza intensiva (Sai) in grado, in base alle caratteristiche strutturali, di proporre assistenza sanitaria ospedalizzata, seppure per brevi periodi, alle persone detenute in regime di alta sicurezza o in regime speciale ex articolo 41bis o.p.”. A tal fine aveva formulato la seguente raccomandazione (tenendo in conto della presenza nella regione rispettivamente di 520 e 90 persone detenute in Alta Sicurezza o in regime speciale): “Il Garante nazionale raccomanda al Provveditorato regionale di provvedere con urgenza ad attivare un Servizio di assistenza intensiva (Sai) in grado di rispondere alle esigenze di tutela della salute di tutte le persone detenute nella regione, compresi coloro che sono in regime di alta sicurezza o in regime ex articolo 41bis o.p., attraverso la stipula di un protocollo con l’Azienda per la tutela della salute (Ats) della regione. Chiede di essere tempestivamente informato sia dell’avvio di tale interlocuzione con le autorità sanitarie sia delle conseguenti scadenze concordate per la risoluzione del problema”. Purtroppo non c’è stata alcuna da parte dell’Amministrazione. Come se non bastasse, in un Rapporto tematico sul 41bis, il Garante aveva osservato le difficoltà di traduzione di una persona detenuta in alta sicurezza o in tale regime speciale laddove non esistesse un Sai che garantisse tutela della salute e sicurezza. Si legge in quel Rapporto: “è il caso della Sardegna, ove non è disponibile un Sai che possa essere utilizzato a tutela della loro salute, giacché quello dell’Istituto di Sassari - strutturato originariamente per tale popolazione detenuta - è stato recentemente trasformato in un Centro di osservazione psichiatrica e l’unico altro Sai della regione, che si trova nell’Istituto di Cagliari- Uta, è riservato al circuito della media sicurezza”. Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria - fa sapere Il garante Mauro Palma tramite il bollettino odierno - aveva risposto relativamente alle traduzioni in termini generali citando l’estrema rarità della ipotesi prospettata dal Garante. Proprio per questo, il tema era stato ribadito nel Rapporto redatto a seguito della visita condotta nel luglio 2019 e il Garante nazionale, richiamando la Raccomandazione già formulata nel 2017, aveva rilevato come la peculiarità della collocazione delle persone detenute in alta sicurezza in istituti della Sardegna potesse rischiare di determinare la compressione di un diritto fondamentale, quale il diritto alla salute. Se da una parte si parla dei detenuti scarcerati per motivi gravi di salute, dall’altra non nasce lo scandalo per tutti quei detenuti che muoiono per patologie. In ognuno di loro c’è una storia, in molte riguarda proprio il diritto alla salute violato. E a proposito di ciò, sarebbe il caso di ricordare della morte dell’ergastolano ostativo Mario Trudu. Da 41 anni in carcere, mai usufruito di alcun permesso. Era gravemente malato e l’unica possibilità di curarsi adeguatamente era quella di andare via dal carcere. Dopo una lunga battaglia condotta dal suo legale Monica Murru, era riuscito ad ottenere la detenzione domiciliare e finalmente avrebbe avuto la possibilità di curarsi adeguatamente. Ma troppo tardi: dopo pochi giorni di “libertà” morì in ospedale. Facile dire che il sistema penitenziario ha strutture di eccellenza per curare i detenuti gravemente malati. Difficile, però, guardare in faccia alla realtà, riconoscere il problema e risolverlo. “Priorità alla salute del detenuto. Però adesso vanno riviste tutte le posizioni dei mafiosi” di Grazia Longo La Stampa, 7 maggio 2020 Intervista a Giovanni Tamburino, magistrato ed ex direttore del Dap. Giovanni Tamburino, lei che è stato presidente del Tribunale di sorveglianza di Roma e Venezia, nonché coordinatore nazionale dei magistrati di sorveglianza e capo del Dap, come valuta l’ipotesi di un provvedimento ministeriale per rispedire in cella i boss scarcerati a causa del coronavirus? “In base alla mia esperienza posso dire che ritengo ragionevole e giustificato che i Tribunali di sorveglianza possano rivalutare la posizione di questi 376 detenuti. Perché è vero che finora i giudici hanno optato per una misura restrittiva diversa dal carcere in base a valutazioni serie e scrupolose, ma è altrettanto vero che la modifica delle condizioni di salute, o del rischio pandemico come in questo caso, non sempre vengono prese in esame per ripristinare il carcere”. Considerazione che vale solo per i detenuti al 41bis, il cosiddetto carcere duro in isolamento, e quelli in Alta sicurezza? “No, è un principio da seguire in generale, quando ovviamente si tratta di questioni di salute e non di diversa progressione trattamentale, nel caso cioè in cui la misura restrittiva è stata ridotta per il progresso, per il miglioramento del comportamento del detenuto”. Con il decreto legge 28 del 30 aprile scorso, si è stabilito che i Tribunali di sorveglianza, prima di emettere le ordinanze sui domiciliari dei boss, debbano consultare le direzioni distrettuali antimafia o, nel caso dei 41bis, la procura nazionale antimafia. Nell’eventualità di un nuovo decreto legge, o di un nuovo provvedimento per rispedire i boss in prigione, questa consultazione sarà ancora necessaria? “Certamente, gli organi di competenza specializzati per le questioni di mafia, come sono appunto le Dda e la Dna, sono chiamate ad esprimersi per una vicenda così delicata com’è l’applicazione di misure meno restrittive peri boss”. Ma com’è possibile una simile inversione di rotta? “Non spetta a me esprimere giudizi sui casi singoli, ma credo che se la scarcerazione delle 376 persone sia dipesa, come pare, dalla diffusione del coronavirus, ora che le condizioni legate all’epidemia sono sostanzialmente cambiate occorre, come in ogni altro caso, rivalutare le misure alternative al carcere”. Facendo un passo indietro, tornando cioè al momento in cui i 376 boss sono stati scarcerati, possibile che non si potesse fare altrimenti? “È innanzitutto necessario premettere che la salvaguardia della salute del detenuto ha la priorità. È una regola che vale in linea generale. Quando le condizioni di salute sono molto gravi la detenzione in prigione può essere addirittura sospesa in via definitiva. Ma è evidente che attualmente ci troviamo ad affrontare un’emergenza sanitaria legata alla pandemia del Covid-19. Altrimenti non si spiegherebbe la scarcerazione di un numero così elevato di persone”. Invece di annunciare un provvedimento ancora in fieri per rimandare dietro le sbarre i 376 boss, non sarebbe stato meglio ricorrere a un provvedimento urgente da attuare in tempi più immediati? “Tacere non avrebbe avuto molto senso: escludo che il nuovo provvedimento che verrà adottato possa avere l’effetto diretto di ripristinare il carcere, in quanto dovrà comunque passare il vaglio dell’autorità giudiziaria. E trascorrerà inevitabilmente del tempo”. Le scarcerazioni “facili” dei mafiosi offendono la memoria delle vittime di Raffaella Pessina Il Sole 24 Ore, 7 maggio 2020 Partecipò a sequestro del piccolo Di Matteo, concessi i domiciliari. Il procuratore nazionale Antimafia, Cafiero De Raho: “Sorpreso dalle scarcerazioni”. Maria Falcone: “Boss al 41bis devono restare in isolamento”. Bonafede, intanto, si difende su nomina capo Dap: “Nessuna interferenza”. Le quasi 400 scarcerazioni di detenuti dagli istituti di pena italiani a causa del Coronavirus stanno provocando una levata di scudi contro le istituzioni che hanno assunto tale decisione. Una vicenda esplosa letteralmente durante la trasmissione “Non è l’Arena” di domenica scorsa, a cui sono seguite le dimissioni del capo del Dap Basentini. La vicenda ormai è nota: in mezzo all’esercito di detenuti in uscita o già usciti di livello ordinario, vi sarebbero anche tre sottoposti al regime del 41bis, quindi in isolamento. E la scarcerazione di Franco Cataldo, condannato all’ergastolo per aver tenuto segregato il piccolo Santino di Matteo nell’estate del 1994 è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Le opposizioni sono insorte: su Twitter la deputata di Forza Italia, Annagrazia Calabria parla di un pessimo segnale da parte delle istituzioni “nei confronti dei familiari delle vittime di mafia nonché degli inquirenti e delle Forze dell’Ordine che hanno sacrificato le loro vite per la lotta alla criminalità organizzata. Peraltro, in settimane nelle quali agli italiani onesti è stato chiesto di sacrificare quote importanti della loro libertà, restituirla, seppur in maniera limitata, a chi si è macchiato di orribili delitti è un paradosso gravissimo e inaccettabile”. Di segnale “devastante” parla invece Carolina Varchi, deputato nazionale di Fratelli D’Italia e capogruppo in commissione giustizia. “Questa ennesima scarcerazione è un segnale devastante che arriva in Sicilia se anche uno dei carcerieri del piccolo Di Matteo è libero di tornare a casa”. Sulla necessità che i boss restino in carcere ha parlato la sorella del giudice Falcone, Maria: “Il 41bis è stato creato non dai giustizialisti ma dal parlamento perché si riteneva ed è importante che i detenuti per fatti di mafia, se viene lasciata a loro la possibilità di comunicare con l’esterno continuano ad avere le leve del comando. La cosa più importante - ha concluso - è pensare che nelle carceri ci siano i mezzi idonei per potere trattare anche dal punto di vista della sanità i detenuti”. Questa vicenda delle scarcerazioni facili dei detenuti si intreccia ad un’altra, altrettanto delicata, legata alla mancata nomina a capo del Dap del magistrato Nino Di Matteo, da sempre in prima linea contro la mafia. Stando a quanto riferito da Di Matteo, il ministro Bonafede in un primo tempo era favorevole alla sua nomina ma in seguito cambiò idea. Nel frattempo erano state rese note alcune intercettazioni telefoniche di detenuti che erano a conoscenza di questa possibile nomina e speravano che non accadesse, conoscendo l’abnegazione di Di Matteo per il suo lavoro. Oggi, durante il question time in parlamento, Bonafede si è difeso dall’accusa, pesantissima tra l’altro, secondo cui le intercettazioni dei detenuti gli abbiano fatto cambiare idea sulla nomina di Di Matteo. “Nel giugno 2018 non vi fu alcuna interferenza diretta o indiretta, nella nomina del capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”. Intanto, il procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero de Raho glissa sulla querelle Bonafede - Di Matteo e interviene in merito alla questione delle scarcerazioni: “Il mio ufficio ha appreso nel mese di aprile - ha spiegato - un mese dopo che era stata diramata la circolare, l’esigenza che venisse sottoposta ai magistrati di sorveglianza la situazione patologica in cui versavano alcuni detenuti. E i magistrati di sorveglianza hanno deciso ritenendo che la posizione carceraria di alcuni di essi fosse incompatibile con la prosecuzione del carcere in cui si trovavano. Per quanto riguarda i detenuti al 41bis questo ci ha sorpreso perché chi si trova in regime speciale non può avere rapporti con altri”. De Raho ha specificato che le posizioni degli scarcerati andranno rivalutate, individuando i posti nei centri ospedalieri delle carceri, “ma bisognerà vedere se il magistrato accoglie le istanze che dovrebbero comunque arrivare dalla magistratura. è un quadro che il ministro della Giustizia sta approfondendo e laddove ci sono aperture, è un’ottima soluzione individuare spiragli in cui almeno i più pericolosi possano rientrare nel carcere”. L’emergenza carceri e l’antimafia mediatica di Alfredo Mantovano Tempi, 7 maggio 2020 È sconfortante che al centro del dibattito politico oggi vi sia lo scontro tra Bonafede e Di Matteo, e non la drammatica situazione delle carceri. Sarebbe riduttivo leggere la diatriba fra il ministro della Giustizia e l’ex pm Di Matteo decontestualizzandola da quella che fin dall’inizio della pandemia si è manifestata come l’emergenza nell’emergenza: e cioè la tragica situazione del sistema penitenziario italiano. Per il quale, come per ogni altro settore della nostra vita istituzionale, Covid-19 non ha fatto emergere problemi nuovi, bensì ha radicalizzato ed enfatizzato questioni che si trascinano da anni. Il peggio che può accadere è che, dopo che il Guardasigilli ha riferito in Parlamento e l’attuale componente togato del Csm sarà rientrato in sé stesso, la vicenda carceri riprenda a essere marginale, nonostante quello che ha manifestato negli ultimi due mesi. Ripercorriamoli in ordine cronologico. 29 febbraio. A tale data in Italia risultano detenute 61.230 persone, oltre 10.000 in più rispetto alla capienza, in violazione delle direttive europee che fissano il minimo di 3 mq per recluso al netto delle suppellettili, e delle sentenze di condanna dell’Italia da parte della Corte Edu. Il sovraffollamento potrebbe essere aggredito in vario modo: sulla premessa che quel giorno i detenuti stranieri erano 19.899 - un terzo del totale - facendo funzionare gli accordi conclusi con le Nazioni di provenienza per far espiare la pena per es., in Albania o in Romania (solo la restituzione a tali due Paesi di origine libererebbe quasi 5.000 posti); realizzando nuovi edifici penitenziari; rendendo disponibili i c.d. braccialetti elettronici per gli arresti domiciliari, la cui frequente non reperibilità impedisce al detenuto di proseguire la custodia nella propria abitazione, pur quando ve ne sarebbero i presupposti; rendendo operative le espulsioni degli stranieri irregolari quale misura alternativa al carcere. Tutto ciò non esige nuove leggi: richiede azione di governo, che evidentemente è mancata. Fine febbraio-inizio marzo. In parallelo alla diffusione del virus il Governo adotta non già misure straordinarie deflative - ragionevolmente ipotizzabili per ridurre il contagio -, bensì restrizioni nei contatti fra i detenuti e i familiari in visita. Il mix di timore di contagio e di limitazioni dei colloqui diventa una miscela esplosiva, la cui gravità non viene apprezzata dal ministro e dai vertici del Dap. L’ordinamento avrebbe consentito all’Esecutivo, magari dopo una interlocuzione col Parlamento, un’azione complessiva tesa restringere le maglie della custodia in carcere, a rinviare - in relazione alle condanne a pene meno elevate - il momento della esecuzione della pena, a rendere fruibile la detenzione domiciliare per gli ultimi 18 mesi di espiazione, come la legge già prevede, fornendo i braccialetti elettronici necessari e rinforzando con necessarie applicazioni i Tribunale di sorveglianza. Ma anche questo è mancato. 8-9 marzo. Esplode la rivolta, il cui bilancio sono 13 morti, tutti fra i detenuti, numerosi agenti penitenziari feriti, oltre 4.000 posti resi inservibili dalla distruzione di ambienti e di mobili. A distanza di due mesi il ministro della Giustizia, a parte una informativa al Parlamento, durante la quale si è limitato a raccontare l’accaduto, non ha ricostruito le causali delle rivolte, non ha chiarito per quali ragioni non erano state adottate le misure necessarie per prevenirle (posto che erano prevedibili e ve ne erano stati i segnali), né per quali ragioni - permanendo per i detenuti le restrizioni ai contatti con l’esterno - nelle settimane seguenti la pace è tornata d’incanto negli istituti di pena. 1° aprile. La deflazione, omessa dal Governo, viene realizzata dalla magistratura. In questa data il Procuratore generale della Corte di Cassazione invia una circolare ai Procuratori generali delle Corti di Appello con cui, distinguendo fra i provvedimenti di custodia cautelare in carcere ancora da emettere, quelli già emessi, la pene definitive di cui far iniziare l’espiazione, e quelle già in corso di esecuzione, fornisce per ciascuna di tali categorie indicazioni correlate all’emergenza in atto; e quindi perché la custodia in carcere sia limitata alla stretta necessità, l’esecuzione delle sentenze definitive per pene non elevate sia procrastinata, e nella fase di esecuzione già in atto si facilitino le misure alternative alla detenzione, in primis l’affidamento in prova al servizio sociale. L’intervento del P.G. della Cassazione supplisce all’inerzia del Governo e punta all’utilizzo nella estensione massima di istituti già presenti; nei giorni precedenti e in quelli successivi non mancano, sui differenti piani toccati dalla sua nota, ordinanze di Gip che negano la custodia in carcere per ragioni espressamente collegate al Covid-19 e provvedimenti di giudici di sorveglianza che dispongono la detenzione domiciliare per motivi di salute, o anche di prevenzione del contagio. E se la nota del P.G. della Cassazione ha il pregio della visione d’insieme e della prospettazione di limiti da non valicare, la moltiplicazione di singoli decreti o ordinanze prospetta un quadro frammentato, confuso e contraddittorio. Si deve all’iniziativa dei magistrati, non ad altro, se in meno di due mesi la popolazione carceraria diminuisce di 7.572 unità, passando dalle 61.230 persone presenti - come si diceva - al 29 febbraio alle 53.658 presenti il 26 aprile: ricavo quest’ultimo dato dal Garante dei detenuti, perché il sito del ministero della Giustizia è fermo all’aggiornamento del 31 marzo! Sono soprattutto le scarcerazioni di personaggi significativi della criminalità mafiosa che riattivano le polemiche. In un terreno nel quale l’equilibrio fra le esigenze di salute del detenuto e la difesa sociale da soggetti di elevata pericolosità è difficile da raggiungere pur al di fuori di contesti emergenziali, tanto da imporre un delicato e approfondito esame caso per caso, in più d’una occasione il Dap non risponde alla richiesta dei magistrati di sorveglianza di indicare le strutture infracarcerarie idonee a curare le patologie di volta in volta dichiarate dal recluso; lo stesso Dap diffonde una circolare con la quale chiede che vengano segnalati i mafiosi detenuti a rischio di salute, che viene letta come sollecitazione a farli uscire dal carcere. E i giudici decidono da sé, spesso monocraticamente, e collocano in detenzione domiciliare, facendo gridare allo scandalo addetti e non addetti ai lavori. 1° maggio. Sono proprio queste polemiche a provocare le dimissioni del Direttore del Dap dr. Franco Basentini. La nomina del nuovo Direttore, il dr. Dino Petralia, non è tuttavia accompagnata a livello di Governo da nessuno dei provvedimenti che potrebbero far fronte ai problemi emersi fino a oggi: se non - col decreto legge n. 28 del 30 aprile - dall’obbligo, al fine di disporre la fuoriuscita dal carcere, della richiesta da parte del magistrato di sorveglianza del parere della Procura distrettuale antimafia o di quella nazionale, a seconda del profilo del detenuto, quando è stato condannato per fatti di mafia. La preoccupazione - da apprezzare - è evitare che condannati per delitti gravi lascino gli istituti di pena; non è invece da apprezzare né il “commissariamento” degli uffici di sorveglianza, né il loro mancato rafforzamento, né che le preoccupazioni non si estendano ad altro, in primis a un sovraffollamento che permane, e che va gestito dal Governo, d’intesa col Parlamento, senza surroghe giudiziarie. 3 maggio. Lo scontro Bonafede/Di Matteo si inserisce nel quadro appena riassunto. È sconcertante in sé, certo. Il ministro della Giustizia non ha chiarito le ragioni per le quali, una volta proposto all’attuale componente del Csm l’incarico di Direttore del Dap, ci abbia ripensato dopo appena due giorni. Il dr. Di Matteo non ha spiegato perché, se due anni or sono ha percepito l’interdizione di mafiosi alla sua nomina - fatto che sarebbe di elevata gravità - non lo ha segnalato o denunciato all’autorità giudiziaria: è agevole immaginare che se la vicenda avesse riguardato altri, ed egli ne fosse stato informato come P.M., avrebbe aperto un procedimento, in sequenza con quelli già avviati sul tema “trattativa”. Non c’è solo il tempo trascorso; vi è pure il mezzo scelto: non un rapporto a una autorità sovraordinata - dal Procuratore della Repubblica eventualmente competente al Capo dello Stato, che è pure presidente del Csm - bensì un intervento telefonico in una trasmissione tv. Ancora più sconfortante è però che al centro del dibattito politico oggi vi sia questo scontro, e non la situazione delle carceri italiane, la cui drammaticità resta inalterata; e, con essa, lo squilibrio istituzionale di una politica di deflazione penitenziaria che invece di essere fatta con leggi e azione di governo, passa da decreti e ordinanze. Se questi problemi reali fossero presi in considerazione nella loro drammaticità probabilmente non finirebbero in talk show domenicali, e non farebbero entrare nell’Olimpo dell’antimafia mediatica. Ma sono trascorsi un po’ di secoli da quando ci si è accorti che le divinità dell’Olimpo, così aduse ai capricci e ai dispetti umani, alla fine non erano tanto “divine”. E che per far ripartire la civiltà è meglio arare la terra e studiare. Il ministro vuole dar prova di essere “antimafioso”, contro le nuove accuse di Di Matteo di Eleonora Martini Il Manifesto, 7 maggio 2020 Bonafede: in arrivo un decreto per riportare in carcere i detenuti finiti ai domiciliari a causa del Covid. Ma il presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze, Bortolato, spiega: “Non si può azzerare una sentenza con una legge”. Ricordate Eluana Englaro? Come una favola all’incontrario con un finale che nessuno aveva previsto, nella Camelot a Cinque Stelle i due protagonisti si contendono la spada magica che qui non si chiama “Excalibur” ma “antimafia”. E se le danno di santa ragione. Il consigliere togato del Csm Antonino Di Matteo passa dalla televisione all’on line di Repubblica per ribadire quello che ha già detto e anzi rincara la dose: accusa l’altro di essersi tradito, a suo tempo, parlando di non meglio definiti “dissensi” e “mancati gradimenti” sulla scelta del capo Dap. Sull’altro fronte, il ministro Alfonso Bonafede, rispondendo alla Camera ad un’interrogazione di Forza Italia, definisce l’addebito “surreale”, “un’illazione campata in aria”, e si difende ricordando che di “antimafia” è sempre stato di manica larga. “Basta - dice - semplicemente scorrere ogni parola di ogni legge che ho portato all’approvazione in questi due anni, dalla legge “spazza-corrotti” fino all’ultimo decreto legge che impone il coinvolgimento della direzione nazionale e delle direzioni distrettuali antimafia sulle richieste di scarcerazione”. Anzi, fa di più. Sul campo di battaglia dell’emergenza Covid nelle carceri sovraffollate, con i detenuti inviati ai domiciliari in base ai benefici previsti dalla legge 199/2010 (governo Berlusconi), il Guardasigilli annuncia: “Abbiamo messo in cantiere un decreto legge che permetterà ai giudici, alla luce del nuovo quadro sanitario, di rivalutare l’attuale persistenza dei presupposti per la scarcerazione dei detenuti in alta sicurezza e a regime di 41bis”. Insomma, la saga Di Matteo-Bonafede si arricchisce di una nuova puntata, ma non è il sequel della “trattativa Stato-mafia”. Quando il 20 giugno 2018, due giorni dopo aver ricevuto la proposta, l’allora membro della Direzione nazionale antimafia viene a sapere da Bonafede che a capo del Dap sarebbe andato Francesco Basentini e non lui, Di Matteo torna al ministero e scopre - così riferisce ora, due anni dopo - che il ministro è “informato” sulle intercettazioni in carcere di alcuni boss mafiosi che si agitano per la sua possibile nomina. (In effetti, quel rapporto dei Gom parrebbe essere arrivato al ministero intorno al 9 giugno, ben prima del loro incontro). Ma all’attuale consigliere del Csm la cosa non piacque al punto che, confida alla giornalista che lo ha intervistato ieri, “come nel nostro ultimo scambio di battute, io gli dico di non tenermi più presente per alcun incarico, lui ribatte che per gli Affari penali “non c’è nessun dissenso o mancato gradimento che tenga”. Una frase che, se riferita al Dap, ovviamente, mi ha fatto pensare”. Poi aggiunge: “Pensai allora e ho sempre pensato di essere stato trattato in modo non consono per la mia dignità professionale”. Un “dibattito politico surreale”, lo definisce Bonafede che alla Camera scandisce: “Non vi fu alcuna interferenza diretta o indiretta nella nomina del capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria”. Spiega che avrebbe voluto Di Matteo nella squadra ma poi pensò di affidargli gli Affari penali, ruolo “che fu di Giovanni Falcone”, perché “avrebbe lavorato al mio fianco”. E per mostrare la sua assoluta abnegazione alla lotta alla mafia, il ministro di Giustizia arriva a seguire il consiglio di Claudio Martelli che gli suggerisce di riportare in carcere i boss mafiosi scarcerati in queste settimane, come fece lui nel 1991. Ma l’annuncio di un decreto legge governativo per consentire ai giudici di tornare indietro sulle loro decisioni di “scarcerazione”, essendo entrati nella “fase 2” dell’emergenza Coronavirus, ha il suono di una boutade. “Partendo dal presupposto che tutti i provvedimenti dei giudici sono ricorribili - spiega Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze -, per decreto si possono solo cambiare i presupposti di applicabilità delle norme, ma per il futuro. Non in modo retroattivo”. Tanto più perché dei 300 detenuti mafiosi scarcerati in questi giorni la maggior parte è passata ai domiciliari non per scelta dei magistrati di sorveglianza ma per decisione dei giudici. “Non si può azzerare una sentenza con una legge - fa notare Bortolato - basti ricordare il caso di Eluana Englaro e il decreto con il quale l’allora governo Berlusconi tentava di fermare la decisione del giudice che aveva disposto il rispetto delle volontà della paziente: l’allora presidente Napolitano non firmò il decreto, a tutela della separazione e dell’indipendenza dei poteri dello Stato”. Ma Bonafede, che come dice il deputato di FI Enrico Costa ora “rischia di impiccarsi all’albero che ha concimato giorno dopo giorno”, fa finta di non saperlo. Il ministro sbagliato nel governo stanco di Stefano Folli La Repubblica, 7 maggio 2020 In altri tempi la vicenda dei capi della malavita scarcerati in massa avrebbe provocato le dimissioni del ministro della Giustizia per responsabilità politica oggettiva. E forse avrebbe dato la spinta decisiva alla caduta del governo. Nella Repubblica dei Cinque Stelle il guardasigilli per ora resta al suo posto e si sforza di rimandare in carcere i boss come uno che si affanna a rimettere nel tubetto il dentifricio spremuto. Ma è impossibile non vedere che nelle ultime ore l’esecutivo Conte ha sofferto un altro colpo alla sua credibilità, stavolta sul terreno assai delicato dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini. Pur volendo accantonare per un attimo le polemiche sulle mascherine mancanti o sui sussidi economici fantasma, resta un senso d’incertezza il cui fondo è tutto politico. L’intesa tra Pd e M5S è fragile e lo diventa ogni giorno di più. È chiaro che in questa fragilità l’astuto Renzi coglie l’occasione per riprendere le sue scorrerie corsare, fino alla tentazione di firmare con la Lega salviniana la mozione di sfiducia individuale contro Bonafede: il che sarebbe un gesto di rottura plateale con il resto della coalizione dagli esiti destabilizzanti. Ma se il capo di Italia Viva ha ritrovato smalto, lo si deve solo in parte alla sua spregiudicatezza. Il resto dipende dalla debolezza politica dell’asse Pd-5S, tanto solido in apparenza quanto contraddittorio nella sostanza. I democratici di Zingaretti sono per ingessare lo status quo senza limiti di tempo, ma ogni giorno temono qualche trappola e vorrebbero Conte sotto controllo. I Cinque Stelle ormai si fidano poco del loro premier troppo ambizioso, ma non hanno carte di ricambio da giocare. Come del resto non le ha nessuno, compreso Renzi. Quest’ultimo tuttavia, non pilotando una nave mercantile bensì un veloce barchino, può permettersi cambi di rotta veloci. Così mette in mora Bonafede in una chiave “legge e ordine” e al tempo stesso lancia la sua fidata Bellanova in una battaglia “di sinistra”, qual è l’ipotesi di regolarizzare alcune centinaia di migliaia di immigrati irregolari che si caricano dei lavori più umili, soprattutto al Sud ma non solo. Così si apre una frattura di nuovo con i Cinque Stelle, timorosi di lasciar spazio ai leghisti su questo terreno. È una guerriglia quotidiana che potrebbe essere contenuta in un unico modo, quello suggerito con antica saggezza da Emanuele Macaluso: ricostruendo un vero patto politico tra Pd, grillini e LeU, magari esteso ai renziani sulla base di accordi chiari. Un patto - bisogna aggiungere - che dovrà comprendere gli scenari economici che si delineano, non meno del quadro internazionale: la questione Cina non è una bazzecola di scarso rilievo, ma un tema cruciale del prossimo futuro, chiunque siederà nei prossimi anni alla Casa Bianca. Gli alleati europei lo hanno compreso, in Italia ci sono ancora troppe ambiguità. In assenza di un’iniziativa del genere, per la quale forse siamo già fuori tempo massimo, ci si deve solo affidare al senso istituzionale del presidente della Repubblica e al suo monito sulle elezioni anticipate a breve. I partiti farebbero bene ad ascoltarlo, tuttavia l’esperienza insegna che quando il tessuto politico si lacera non basta il rispetto delle istituzioni per evitare di inciampare. Anche se non ci sono alternative a portata di mano. L’antimafia contesa di Adriano Sofri Il Foglio, 7 maggio 2020 L’insipienza del ministro Bonafede, che ha fatto del rigore contro Cosa nostra uno schermo al saccheggio. La mafia siciliana, Cosa nostra, si è valsa a lungo, a lunghissimo, di due atteggiamenti. Uno, del potere pubblico, esemplarmente compendiato dall’elogio di Andreotti per il “quieto vivere”. L’altro, delle persone, compendiato nell’alzata di spalle: “Si ammazzano fra loro”. Erano morti, per decenni, tanti che non avevano potuto o voluto vivere quietamente con la mafia, che non c’entravano e non volevano piegarsi a “loro”. Non era bastato. Quando furono trucidati, con chi li accompagnava e proteggeva, Falcone e Borsellino, la misura fu colma anche per chi si era creduto estraneo. Era una sfida smisurata e toccava il sentimento intimo del sacro, di fronte all’abnegazione di persone che andavano avanti sapendo verso dove. Quel martirologio diede alla vergogna e alla ribellione della gente comune, dei giovani specialmente, una emozione religiosa: era inevitabile e giusto. Siccome le cose cambiano, la religiosità si mutò troppo spesso in un atteggiamento chiesastico, e dunque nella tentazione di interdetti, scismi, scomuniche - si erano già manifestati con Falcone e Borsellino vivi, e proprio contro di loro. “Antimafia”, una certificazione moralmente obbligatoria, fu contesa in concorrenza e in esclusiva, e si frantumò in una diaspora di reciproci sacrileghi e rinnegati e apostati. L’accusa di non essere abbastanza antimafiosi scivolò alla svelta nell’accusa di essere complici della mafia. Il disorientamento e la stanchezza, e anche lo scandalo, che ne derivarono nelle persone comuni provocarono via via un ritorno dell’estraneità, simile a quella antica del quieto vivere e del si ammazzano fra loro. Cosa nostra era stata intanto colpita e indebolita - ha perso, “per ora”, o “non ha vinto”, come intitola Salvatore Lupo - ma la contesa clericale e feticista sulla proprietà della vera fede, la vera antimafia, era entrata a gonfie vele negli organi deputati a perseguire le mafie. Siamo arrivati alla scena televisiva Di Matteo-Bonafede. Ero esterrefatto dagli effetti enormi che l’insipienza di Bonafede ministro della Giustizia ha potuto provocare, oltre che nella normale (anormalissima) amministrazione della giustizia, nella stessa legislazione, con un governo ostaggio della propria precarietà e della propria necessità. Si è maneggiata la giustizia come avrebbero fatto dei topi di appartamento in una casa vuotata per allontanarsi dalla pandemia. Il rigore antimafioso è stato per Bonafede e i suoi consiglieri uno schermo al saccheggio. Dunque si direbbe una nemesi quella che lo accusa di essersi piegato alle minacce di boss mafiosi: in realtà, la vicenda che ho sopra sbrigativamente riassunto ha fatto di questa accusa la peggiore degradazione che nella nostra società si possa fare di un suo cittadino. Un Giuda - se anche su Giuda non ci fossero fondati dubbi. Non occorre essere senza peccato per non meritare un attacco così infamante, e Bonafede non lo merita, semplicemente. Ho una postilla, perché questo era già successo, e l’hanno ricordato molti. Ricordo specialmente un nome, quello di Giovanni Conso. È morto nel 2015, era stato un giurista autorevole, presidente della Corte costituzionale e ministro della Giustizia. Lo conobbi bene, nella sua qualità di avvocato e di visitatore assiduo e discreto di carcerati. Lo si volle degradare allo stesso modo che oggi infierisce fra fedeli e più fedeli. Non è il 41bis il vero guaio della Giustizia di Claudio Cerasa Il Foglio, 7 maggio 2020 Bonafede pensa al rientro dei boss in carceri che non garantiscono la salute. L’indecorosa bagarre tra il Guardasigilli Bonafede e il dottore Di Matteo ha trovato la scintilla nel caso dei boss di mafia detenuti in regime di 41bis mandati ai domiciliari per l’emergenza Covid (sono 376, secondo l’elenco fornito dal Dap). Ah, ci fossi stato io al Dap, recrimina Di Matteo. La vicenda è costata il posto a Francesco Basentini, ma non lascia tranquillo nemmeno il ministro. Bonafede annuncia infatti la sua “fase 2”, e anziché concentrarsi sul problema di tutti i cittadini in (pessimo) stato di reclusione, si occupa solo del 41bis: “Un decreto legge che permetterà ai giudici, alla luce del nuovo quadro sanitario, di rivalutare l’attuale persistenza dei presupposti per le scarcerazioni di detenuti di alta sicurezza e al regime di 41bis”. Siccome insultare la memoria di Falcone fa sempre gioco, ieri Repubblica scriveva che “se Bonafede dovesse fare un decreto, questo ricorderebbe il provvedimento che fu fatto nel ‘92 da Falcone e Martelli per rimandare in carcere i boss per i quali era in scadenza la custodia cautelare”. La situazione è evidentemente non paragonabile Qui c’è in ballo il diritto alla salute che lo stato deve garantire a tutti i cittadini, e tanto più a quelli che si trovano fisicamente costretti e affidati alla sua custodia, compresi i 41bis. È ovvio che la situazione provochi problemi di sicurezza e un aggravio nel lavoro di controllo delle forze dell’ordine, del resto predisposto dal Viminale. Ed è pacifico che non si tratta per i boss di una “vacanza premio” e che dovranno tornare in carcere non appena possibile. Ma invece di sbandierare emergenze attorno a un regime di pena già di per sé molto contestato, Bonafede dovrebbe interrogarsi sul fatto che le carceri italiane non sono in condizione di garantire la salute dei detenuti, e questo è il vero vulnus allo stato di diritto. Va poi osservato che, storicamente, il dibattito sul 41bis è strettamente legato a quello sull’ergastolo ostativo - due temi su cui più volte l’Italia è incorsa in rimproveri da parte dell’Europa. Per l’antimafia chiodata e per i fautori del fine pena mai la sospensione momentanea del 41bis suona a minaccia della propria visione di giustizia e pena. Ma sono temi di riflessione costituzionale, non certo di “fase 2” di Bonafede. Dal Grand Hotel Ucciardone all’inferno del 41bis. La guerra Stato-mafia sulle carceri di Attilio Bolzoni La Repubblica, 7 maggio 2020 Sono pochi i palermitani di una certa età che non sappiano cosa ci sia in via Enrico Albanese numero 3. È un monumento della città, un po’ come il Palazzo dei Normanni, le catacombe dei Cappuccini con le sue mostruose mummie o la chiesa di San Giovanni degli Eremiti con le sue arabeggianti cupole rosse. E per alcuni è anche qualcosa decisamente di più familiare, intimo, quasi una seconda casa. Il carcere dei mafiosi per eccellenza è sempre stato quello: l’Ucciardone. “Vado in villeggiatura”, dicevano con compiacimento alle loro mogli i boss quando stavano per varcare il portone arrugginito di via Enrico Albanese numero 3, e poi lì dentro s’ingozzavano di aragoste o s’intrattenevano nottetempo con le “signorine” che gli agenti di custodia facevano scivolare dietro l’orto. Lo Stato lasciava fare. Palermo felicissima, sembrava che non dovesse finire mai. E invece nella storia dei mafiosi e della loro molto speciale frequentazione con il carcere e del loro rapporto con la giustizia italiana, c’è un prima e un dopo. C’è il Grand Hotel Ucciardone e ci sono le isole dei dannati - l’Asinara e Pianosa - ci sono gli ospiti più riveriti che ricevevano le visite dei latitanti e c’è la fossa dove hanno sepolto per un quarto di secolo Totò Mina, c’era il Dom Pérignon che scorreva a fiumi e ci sono le finestre a sbarre incrociate delle celle che “oscurano il paesaggio”. Tu non puoi vedere fuori e fuori non possono vedere te. Il confine è il 1992, l’estate delle stragi. Al 20 di luglio, il giorno dopo l’uccisione di Borsellino, cambia tutto nell’Italia delle mafie e nell’Italia dello Stato che combatte le mafie. E quel tutto è in un numero: 41bis. Sino ad allora il carcere non aveva mai fatto paura ai boss. Perché loro avevano sempre avuto una certezza: il carcere non è mai definitivo, è sempre provvisorio. Anche con una condanna all’ergastolo in primo grado, lo sapevano che prima o poi sarebbe arrivata un-aggiustatina” al processo. Era andata sempre così. Il carcere quindi bisognava farlo e pure con “dignitudine”, con decoro. Era andata sempre così dalla metà dell’Ottocento quando i Borboni avevano costruito la fortezza Ucciardone in un pianoro dove crescevano i cardi, les chardons (da lì il nome) dietro le casupole del Borgo Vecchio. Nel Ventennio lo chiamavano Villa Mori, in onore del prefetto di ferro che aveva ingabbiato i briganti della Madonie su mandato del Duce. Ma lo splendore della prigione di Palermo, la prigione della mafia, è giunto con i favolosi anni 60 e 70, l’infermeria regno dei summit, il parlatorio come un suk, la settima sezione come il salotto della Cupola. Lo Stato lasciava fare. In tutti gli istituti penitenziari d’Italia scoppiavano le rivolte dei detenuti ma all’Ucciardone non si muoveva foglia. Un carcere modello, lo definivano gli ispettori ministeriali. Certo: comandavano Pietro Torretta, Tommaso Buscetta, i fratelli La Barbera, i cugini Greco, i Fidanzati dell’Arenella. Poi il maxi processo, poi ancora le bombe. Neanche dodici ore dopo l’uccisione del procuratore Borsellino, i parà della Folgore scendono dall’alto sull’Ucciardone e trasportano tutti i boss a Pianosa. Il ministro della Giustizia Claudio Martelli aveva appena firmato il decreto che diventerà, nell’immediato e negli anni futuri, l’incubo di tutto il popolo mafioso. I141bis, il carcere duro. È la fine delle certezze sull’impunità che avevano sempre avuto, è l’inizio di una vicenda che da quel luglio 1992 - fra ricatti veri e presunti, appelli inquietanti contro il 41bis, trattative rotolate nei processi fra detenuti eccellenti e uomini delle istituzioni - non si è mai chiusa. Il carcere sempre come luogo di “compensazione” fra lo Stato e la mafia, una sorta di camera iperbarica, terra di mezzo per scorribande. La tensione delle mafie si misura lì dentro. Perché il 41bis ha sfregiato un mondo criminale, ha reso il mafioso più prigioniero degli altri, strappato ogni privilegio. Soprattutto quello del comandare. E il mafioso non può più fare il mafioso. E la cronaca degli ultimi anni. Li hanno portati via, lontano dalla Sicilia. A Tolmezzo, all’Aquila, ad Ascoli Piceno, a Spoleto, a Badu e Carros. Una deportazione di massa. Davanti a via Enrico Albanese numero 3, l’unica attrattiva rimasta è ormai un albergo a quattro stelle. L’hanno naturalmente chiamato Hotel Ucciardhome. E naturalmente tutto quello che abbiano sin qui scritto è, in qualche caso, pura teoria. Di “buchi” dentro il famigerato 41bis ne sono stati scoperti già tanti, troppi. Telefonini per comunicare fuori, pizzini, misteriosi visitatori. La storia più clamorosa del carcere duro che tanto duro poi non è risale però fra il settembre e il novembre del 1996 quando le due mogli dei fratelli Graviano, Giuseppe e Filippo - quelli delle bombe ai Georgofili - diventarono papà a141bis. Le loro mogli partorirono due bei bambini mentre loro erano “totalmente isolati”. Lo Stato ha lasciato fare. Per tornare all’attualità. Il ministro della Giustizia Bonafede ha solennemente annunciato: “Rimando dentro tutti i mafiosi”. Una boutade? Nel nostro Paese è già capitato, nel febbraio del 1991. Con un cavillo, Sua Eccellenza Corrado Carnevale, presidente della prima sezione penale della Cassazione meglio conosciuto come l’Ammazzasentenze, ordinò la scarcerazione di 43 boss. Qualche giorno dopo il ministro della Giustizia Martelli firmò, consigliato da Falcone che era direttore degli Affari Penali, un decreto per riportare dentro quei 43. A Palermo lo chiamarono “il mandato di cattura del governo”. Carceri e giudici, nomine e correnti: l’eterna lotta tra la mafia e lo Stato di Francesco La Licata La Stampa, 7 maggio 2020 La telenovela che da qualche giorno va in scena fra talk show e Parlamento sulle contrastanti versioni fra il giudice Di Matteo e il ministro Bonafede a proposito della mancata nomina del primo a capo della direzione delle carceri italiane non sembra poter offrire il giusto chiarimento, neppure dopo che il Guardasigilli si è immolato al fuoco di fila dei colleghi parlamentari. C’è qualcosa che non quadra nella ricostruzione del ministro, confermata anche ieri alla Camera. Attenzione, nessuno vuol sposare tout-court la tesi che Bonafede abbia cambiato idea, sul ruolo (direttore del Dap) da assegnare a Di Matteo, per aver ceduto alle pressioni dei detenuti mafiosi intercettati in cella a lamentarsi per l’eventualità della nomina di un magistrato visto dai boss come fumo negli occhi. È molto probabile che non sia, questa, la causa del ripensamento del ministro. E c’è da dargli ragione quando afferma che le “lamentele” dei detenuti “importanti” erano conosciute già da qualche settimana prima del contatto col magistrato a cui proponeva l’incarico di direttore dell’amministrazione penitenziaria. Se già era al corrente delle reazioni “pericolose” dei boss è abbastanza logico pensare che non avrebbe dovuto neppure pensare a Di Matteo per quel ruolo, se avesse avuto in animo di cedere alle pressioni. Ma così non è avvenuto. Il ministro, in sostanza, conferma di avere fatto la proposta a Di Matteo, offrendogli la possibilità di scegliere fra il Dap e la Direzione degli Affari penali. Ma quando Di Matteo, che aveva chiesto un po’di tempo per pensarci, torna e chiede la direzione delle carceri, Bonafede gli comunica che quel posto è già stato assegnato al magistrato Francesco Basentini. Quindi sembra avere ragione Di Matteo quando avanza il dubbio che “qualcosa”, nel frattempo, deve essere intervenuto a modificare l’iniziale determinazione del Guardasigilli. Già, ma cosa può essere accaduto? Anche se non lo ha detto mai esplicitamente, l’idea che avanza Di Matteo è legata alla minacciata “rivolta” dei boss, preoccupati che un uomo come quel pubblico ministero potesse stringere le maglie del carcere duro, nell’ultimo periodo abbastanza allargate. È, questa, una tesi abbastanza in linea con la caratterizzazione di uomo duro e obiettivo preminente di Cosa nostra, che è andata a crearsi sul personaggio Di Matteo. Ma è una tesi che il ministro liquida come “banalizzazione”. E allora si torna alla domanda iniziale: cosa ha fatto cambiare idea a Bonafede, tanto da indurlo ad offrire, in alternativa, un posto che neppure era libero (era stata appena nominata agli Affari penali Donatella Donati) e non sarebbe stato facile “liberare”, se non “convincendo” la titolare ad accettare un trasferimento? E se la Donati non si fosse fatta convincere, in quale guaio maggiore si sarebbe trovato il ministro, costretto a deludere per la seconda volta un magistrato considerato “amico”? Le vicende di giustizia e politica non sono mai state “storie semplici” nel nostro Paese. E le nomine, per tradizioni decennali, sono state sempre sottoposte al vaglio e al giudizio di più protagonisti: i partiti, gli amici dei politici, le correnti della magistratura, gli interessi di gruppi di potere e i “debiti di riconoscenza” che si intrecciano nel tempo. È legittimo pensare, dunque, che un posto come la direzione del Dap possa aver fatto gola (soprattutto lo stipendio) a qualcuno in grado di intervenire sul ministro per fargli cambiare idea, dando il “consiglio” di nominare Francesco Basentini. Il sospetto è che nelle more della decisione di Di Matteo possa essere intervenuto un input, anche molto qualificato e “pesante”, che ha fatto prevalere il “consiglio” su Basentini. Anche se questi, sia detto con tutto il rispetto, non si presentava come il candidato ideale per un ufficio “strategico” nella lotta alla criminalità mafiosa, avendo prevalentemente lavorato in un territorio (la Basilicata) abbastanza immune dal contagio della grande criminalità. All’attivo di Basentini un’inchiesta su una “rimborsopoli” alla Regione lucana e un’altra sulle estrazioni petrolifere “sospette” che coinvolsero 10 società importanti ed anche l’Eni. Indagine che suscitò parecchio interessamento e coinvolgimento politico e clamore mediatico. Ma c’è un altro aspetto che può avere influito sull’indecisione di Bonafede. Questa storia risale al 2018 e da Caltanissetta aveva appena avuto inizio il terremoto che ha poi smascherato il “grande depistaggio” sulla strage di via D’Amelio. Una vicenda che ha coinvolto anche il giudice Di Matteo (indagò sul pentito Scarantino, poi rivelatosi un depistatore), anche se il Pm è rimasto estraneo alle successive indagini. Ci può essere stato imbarazzo da parte del ministro? Ma Bonafede non fa cenno alla vicenda, come pure tace sull’errore di aver nominato un direttore del Dap rivelatosi inadeguato nella gestione dell’emergenza Covid nelle carceri. Che ha pure mentito sul numero dei detenuti “liberati”: non una quarantina, ma 376. Tre domande sul 41bis a Bonafede e Di Matteo di Vincenzo Vitale L’Opinione, 7 maggio 2020 Per prima cosa i fatti. Nel corso della trasmissione di Massimo Giletti di domenica scorsa, Nino Di Matteo per telefono racconta che il ministro Alfonso Bonafede nel giugno del 2018 gli aveva offerto di collaborare con lui, o quale capo del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), da cui dipendono le carceri, o quale direttore degli Affari Penali, posto a suo tempo occupato da Giovanni Falcone; che lui aveva chiesto e ottenuto 48 ore di tempo per riflettere e scegliere fra le due possibilità; che il giorno dopo aveva raggiunto Bonafede, comunicandogli di aver scelto la direzione del Dap; che nelle ore intercorrenti fra i due contatti, intercettazioni ambientali a cura dello stesso Dap avevano svelato che diversi mafiosi già in regime di 41bis vedevano la sua nomina al Dap come una vera rovina; che però Bonafede, inaspettatamente, gli aveva risposto che preferiva affidargli la direzione degli Affari Penali; che perciò lui, con sorpresa e disappunto, visto che il ministro gli aveva precluso il Dap, aveva preferito rinunciare a tutto. Bonafede, intervenuto pure per telefono, dice che quelle intercettazioni non avevano nulla a che vedere con la sua scelta circa Di Matteo e che la preferenza per gli Affari Penali era dovuta al semplice fatto che lo riteneva più adatto a tale ruolo, in prima linea contro la mafia, più e meglio del Dap. Si tratta di una matassa così aggrovigliata, dal punto di vista politico e istituzionale, da sollecitare almeno tre domande. Prima domanda. Se è vero, come afferma Di Matteo, che nel lasso di tempo intercorrente fa i due colloqui con Bonafede - cioè circa 24 ore - intercettazioni fatte in carcere erano pervenute a lui medesimo presso la Direzione nazionale antimafia, rivelando che diversi mafiosi al 41bis ne temevano molto la nomina al Dap, come mai può questo essere avvenuto? Infatti, il 41bis dovrebbe essere un regime tale da escludere in ogni caso che dall’esterno possano giungere notizie di ogni tipo, ancor più se afferenti - come quella qui in esame - alle nomine ministeriali più delicate, materia riservata, anzi riservatissima. E allora, come la mettiamo? Dobbiamo forse dedurne che il 41bis, di cui tanto si favoleggia, e che viene posto a base di inchieste di rilevante valore politico, come quella del presunto patto Stato-mafia (che ha visto lo stesso Di Matteo fra i pubblici ministeri procedenti) non funzioni? Che si tratti di un colabrodo camuffato da carcere duro? Che sia altro da ciò che si crede e si dice che sia? E se pure volessimo ammettere che queste intercettazioni - come ha adombrato Bonafede - fossero note da un tempo precedente, la domanda di cui sopra rimane intatta nella sua rilevanza per l’inquietudine che suscita. In entrambi i casi, il 41bis apparirebbe non un regime di effettivo contrasto dei mafiosi più pericolosi, come sempre e da tutte le sedi predicato, ma una sorta di presa in giro se - come nella prima delle ipotesi sopra indicate - in poche ore chi vi sia detenuto riesca a sapere cose dette in via confidenziale fra il ministro della Giustizia ed un suo potenziale collaboratore, in relazione alla nomina di questi alla direzione del Dap. Se invece fosse vera la seconda ipotesi - che cioè quelle intercettazioni fossero di data precedente al colloquio tra Bonafede e Di Matteo - allora i detenuti al 41bis godrebbero addirittura di un potere profetico, conoscendo in anticipo - per dolersene molto - di una sua possibile nomina al Dap, prima ancora che lo stesso Di Matteo lo sapesse da Bonafede. E come avrebbero fatto a sapere ciò che neppure lo stesso Di Matteo sapeva? Chi lo avrebbe detto loro? Inquietudine doppia, tripla, all’ennesima potenza! Seconda domanda. Come mai né Bonafede né Di Matteo né Giletti si sono posti questa domanda? Come mai ci vuole un giornale come questo per porsela? Come mai nessuno di loro ha provato, neppure di passaggio, l’inquietudine che invece avrebbe dovuto provare? Come mai la questione è passata del tutto inosservata? Non basta, perché ne vengono altri quesiti. Siccome è un fatto che nessuno di costoro abbia minimamente accennato alla domanda sopra formulata, che tipo di sensibilità istituzionale possono essi vantare? Se ne sono accorti o no di questo problema? E se non se ne sono accorti, perché non lo hanno visto o sospettato? E se invece se ne fossero accorti, perché non vi hanno neppure accennato? E perché hanno preferito risolvere questa faccenda di enorme portata pubblica e istituzionale in una contesa di carattere privato - un potenziale capo del Dap esautorato inaspettatamente da chi prima lo aveva illuso e poi scartato - tutta giocandola fra di loro? Terza domanda. Si è accorto Di Matteo che, lasciando si pensasse - pur senza averlo detto in modo espresso - che i timori dei detenuti al 41bis abbiano potuto condizionare le scelte di Bonafede - cosa che non risulta per nulla provata o provabile - ha finito con l’offrire proprio a questi signori, pericolosi mafiosi, una involontaria patente di efficienza operativa, di capacità di incidere sulle istituzioni? Il fatto è che le domande qui poste sono le sole domande che interessano gli italiani perché riguardano le istituzioni e il loro corretto funzionamento. Invece, le altre domande - quelle che Bonafede e Di Matteo si scambiavano davanti a Giletti - interessano soltanto loro e non interessano agli italiani perché riguardano in definitiva soltanto beghe personali. Di queste, gli italiani possono benissimo fare a meno. Di quelle no. Aspettano risposta. Bonafede: “Da Di Matteo parole campate in aria” huffingtonpost.it, 7 maggio 2020 “Nessuna interferenza diretta o indiretta” nella nomina al Dap, “dibattito politico surreale”. Il ministro della Giustizia annuncia un dl sulle scarcerazioni dei boss. L’Anm a Di Matteo: “Misura nelle dichiarazioni”. “Non ci fu alcuna interferenza, diretta o indiretta, nella nomina del capo del Dap”. Risponde così Alfonso Bonafede, in Aula, all’interrogazione di Forza Italia. Un atto, quello di Fi, che arriva in seguito all’accusa fatta dal pm Nino Di Matteo domenica sera. Il magistrato antimafia, oggi consigliere del Csm, è intervenuto in diretta alla trasmissione Non è l’Arena per dire che il Guardasigilli gli aveva offerto la guida del Dap, per poi fare marcia indietro: “Ha avuto un ripensamento, o qualcuno glielo ha fatto venire”, ha detto in sostanza Di Matteo. Bonafede nega: “Ero già a conoscenza intercettazioni dei boss (cui allude l’attuale membro del Csm, ndr) da prima del colloquio con Di Matteo”. E sostiene che quelle del magistrato siano “parole campate in aria”. Bonafede sta studiando una norma che consenta ai magistrati di sorveglianza di rivalutare le scarcerazioni già disposte di boss della criminalità organizzata alla luce del mutato quadro dell’emergenza Coronavirus. Lo ha ribadito in Aula il Guardasigilli, dopo le anticipazioni di stampa: “Voglio annunciate al parlamento che è in cantiere un decreto legge che permetterà ai giudici, alla luce del nuovo quadro sanitario, di rivalutare l’attuale persistenza dei presupposti per le scarcerazioni di detenuti di alta sicurezza e al 41bis”. Gran parte delle scarcerazioni sono state disposte per gravi patologie, ma molte ordinanze fanno esplicito riferimento all’emergenza da Covid-19. In tutto sono 376 i boss mafiosi usciti dal carcere durante la crisi sanitaria: quelli che stanno scontando una condanna definitiva, e sono trasferiti in detenzione domiciliare o affidati ai servizi sociali, sono meno della metà, 180. Gli altri 196 sono anch’essi andati a casa, ma agli arresti domiciliari; una dizione diversa da cui si evince che ancora stanno aspettando la sentenza di primo grado (la maggior parte), o di appello o di Cassazione. L’annuncio di Bonafede è stato salutato positivamente dal procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho. Sul punto si era espresso anche Sebastiano Ardita, consigliere del Csm: “La questione del Covid 19- spiega il consigliere- è stata un pretesto probabilmente che ha fatto scaturire delle conseguenze che sono andate molto oltre. Il punto è che quando si è determinata l’emergenza ci sono state le rivolte carcerarie che sono state il punto di caduta in una crisi del sistema penitenziario, una crisi evidente che dura da molto tempo e che riguarda probabilmente anche un modo di intendere la vita e la gestione penitenziaria. Per esempio, ci sono degli indici che danno il senso della corretta vita penitenziaria che sono gli eventi critici che gli addetti ai lavori conoscono e che sono le aggressioni alla polizia penitenziaria, le liti all’interno del carcere, la circolazione di droga o di telefonini. Insomma dando la misura di come nel carcere manchi una condizione di sicurezza interna che normalmente corrisponde a mancanze da parte del sistema penitenziario. Questi indici, all’incirca dal 2011-2012, si sono impennati. In certi casi si sono addirittura decuplicati, cioè abbiamo aumenti dal 200 per cento al 2 mila per cento di indici di aggressioni, reati commessi in carcere, infrazioni disciplinari e di tutto questo chi si è fatto carico in questi anni? e come mai nessun ‘medico’ ha guardato il termometro che saliva nella realtà penitenziaria? ecco, le rivolte hanno preso spunto da un problema che non è stato provato scientificamente, cioè il fatto che il Covid si diffonda di più in carcere, questo doveva essere oggetto di uno studio attento, anche epidemiologico, è non è stato fatto. Sono state decise delle misure di cui non sono stati informati i detenuti, andava fatto un piano, andava fatto un progetto per evitare che i detenuti andassero incontro a dei rischi, andava loro comunicato tutto questo perché lo stato ha tra i suoi compiti principali quello di garantire le condizioni di sicurezza sanitarie anche dei detenuti. Questo è fondamentale, se si squilibra il sistema evidentemente poi ci sono dei contraccolpi che sono state le rivolte alle quali si è risposto con un provvedimento normativo che non riguardava affatto i mafiosi ma che conteneva un presupposto, ossia che nelle carceri anche nelle zone rosse la diffusione è stata molto minore che all’esterno. Sulla base di questo presupposto è stato fatto un provvedimento deflattivo che non riguarda i mafiosi, però il presupposto stesso del pericolo esistente in carcere si è trasferito in altre procedure che si fondano su altre normative precedenti a questa che hanno sostanzialmente portato poi alla scarcerazione di moltissime persone, si parla di 376 boss mafiosi e questo è un fatto grave, un fatto unico nella storia della repubblica. Io sono stato 9 anni e mezzo direttore dell’ufficio dei detenuti, fortunatamente in condizioni diverse, anche di maggiore vivibilità e in condizioni di civiltà della pena, nei quali per ragioni di salute non è uscito un solo detenuto mafioso”. Il consigliere ardita conclude che “non è semplice definire perché si sia creato il disastro” e “trovare un colpevole come sempre si cerca di fare nel nostro paese”. Dopo giorni di silenzio, interviene nella vicenda l’Anm. “Per i magistrati, ferma la libertà di manifestazione del pensiero, è sempre doveroso esprimersi con equilibrio e misura, valutando con rigore l’opportunità di interventi pubblici e le sedi ove svolgerli nonché tenendo conto delle ricadute che le loro dichiarazioni, anche per la forma in cui sono rese, possono avere nel dibattito pubblico e nei rapporti tra le Istituzioni. Ciò è richiesto, ancor di più a coloro che fanno parte di organi di garanzia costituzionale”. E il messaggio è chiaro. Il perché del carcere europeo di Enrico Sbriglia Il Riformista, 7 maggio 2020 Seppure l’Italia primeggia negativamente nell’UE, a motivo delle condizioni carcerarie, aggravate dall’emergenza del Covid-19, sarebbe d’attendersi che il Governo e i ministri della sanità e della giustizia, avvalendosi dei loro massimi vertici amministrativi, abbiano comunque predisposto dei piani d’emergenza per affrontare la situazione attuale e per contrastare le nuove che potrebbero insidiare la Comunità dei detenuti e detenenti, ove si ripresentassero altre infezioni virali di uguali se non maggiori pericolosità. Al riguardo, dovrebbero avere la consapevolezza che ci si imbatta innanzi a tematiche d’affrontare con una vision più ampia rispetto al solo quartiere “Italia”, al fine di non rovinare nella trita disputa tra i “celoduristi” del diritto esemplare ed i “liberiamoli tutti” di quello compassionevole. Oggi, al contrario, si imporrebbe, una strategia sistemica e condivisa tra tutti gli Stati dell’UE, corollario della tutela del diritto di mobilità e salute di ogni cittadino europeo, all’interno del medesimo spazio geografico, pure quando si imbatta con il mondo del Carcere. Disponiamo, com’è noto, delle “Le regole penitenziarie europee”, delineate dal Consiglio d’Europa, che avrebbero già dovuto obbligare gli Stati aderenti a conformare i propri sistemi penitenziari ai quei principi che discendono dalla Convenzione Europea del 1950; eppure, all’interno delle carceri italiane, grandi straordinarie evoluzioni non se ne sono viste e ci si muove, quando è possibile, solo additando, qua e là, realtà “di eccellenza”, a riprova che nella generalità dei casi il risultato è modesto. Le location, insieme con le posture di tanti figuranti attuali ci consentirebbero di replicare il film “Detenuto in attesa di giudizio” di Nanni Loy e con Alberto Sordi (edito nel 1971). Dovremmo francamente ammettere che è un esercizio inutile affinare temi e principi di diritto se poi non si traducano in pratica. Ma forse, grazie al virus incoronato, potremmo rimettere le cose in ordine, non solo in Italia, ma anche in tutta la UE, con intelligenza ed umanità. È il momento di proporre il primo Carcere Europeo, cioè un istituto di pena che, coerente con i dettami precitati, sia il prototipo, costituisca il modello, al quale tutti gli stati UE dovranno conformarsi. Così si ridurrebbero pure i contenziosi innanzi alla Cedu per la trasgressione delle più volte richiamate regole. L’Italia, insieme ad altri Paesi partner, potrebbe proporsi, diventando il primo laboratorio di una sfida di civiltà, pure ove il concorso e la partecipazione di altri Stati UE fosse graduale e progressiva. C’è una città, anzi due, anzi tre, meglio un territorio transfrontaliero, che potrebbe essere la perfetta sede del primo carcere europeo, tra Gorizia e Nova Gorica, sulla linea di confine che divideva fino a pochi anni fa l’Italia dalla Ex Repubblica Federativa Jugoslava, e che aveva scisso in due la popolazione, distinta in diversi gruppi linguistici. Un confine che, dopo la Seconda guerra mondiale, veniva percepito come freddo e tagliente, trait importante della Cortina di Ferro. Ebbene, con la realizzazione del primo Carcere Europeo, il limine si trasformerebbe in una robusta cerniera che unisce e rafforza l’Europa che vorremmo, quella non solo economica, ma anche dei diritti e delle Libertà. Le amministrazioni locali, attraverso il Gect, Gruppo europeo di cooperazione territoriale, che già vede insieme i territori dei comuni di Gorizia (Italia), Mestna ob?ina Nova Gorica (Slovenia) e Ob?ina Šempeter-Vrtojba (Slovenia), potrebbero confortare tale possibilità, avendo le stesse ben compreso come non i muri che separino, ma i luoghi pubblici delle istituzioni europee di rilevanza sociale andrebbero invece promossi ed edificati. Il progetto coinvolgerebbe le migliori intelligenze europee; il forum poenae chiamerebbe all’appello le discipline ingegneristiche, l’architettura e il design, la medicina, quelle sociali, il mondo europeo dell’istruzione e della formazione professionale: insomma, sarebbe anche luogo permanente di studio, ricerca giuridica e pedagogica, a mente delle finalità rieducative della pena, come imporrebbe l’art. 27, 3° comma della Costituzione Italiana. Risulterebbe, tra l’altro, anche una intelligente e fruttuosa risposta contro le criminalità sovranazionali che oggi minacciano e condizionano la sicurezza degli stati UE. Oramai i reati più allarmanti e dannosi sono quelli che superano gli stretti confini dei condomini nazionali, incidendo pesantemente sulla sicurezza ed economia dei cittadini europei e dei loro stati. Lasciando gli innumerevoli che potrei citare, è bastevole richiamare i reati sempreverdi di traffico di armi convenzionali e di sistemi d’arma, di droga, di esseri umani, di organi, di donne e bambini da avviare alla prostituzione, di farmaci, di valute false straniere e di euro, di oggetti d’arte, di automobili, di generi contraffatti, di idrocarburi, di sigarette, di animali esotici, di alimenti contaminati, etc. Si potrebbe convenire che alle persone condannate per tali reati nei singoli paesi, su richiesta delle stesse, sia concesso di espiare la detenzione nel carcere UE, che all’uopo impiegherebbe del personale proveniente dai paesi aderenti, con la periodica rotazione degli staff. In esso si applicherebbero tutte le prescrizioni e le indicazioni contemplate dalle Regole Penitenziarie Europee, trasfuse nel regolamento interno dell’istituto. Si farebbe così chiarezza su tante questioni, frequentemente motivo di contenzioso presso la Cedu (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo). Ancora oggi, non c’è assoluta uniformità sugli spazi “minimi” sufficienti da assicurare ai detenuti (altro che distanziamento sociale…), neanche si parla di servizi igienici da fruire in modo esclusivo e personale (WC, doccia, bidet, lavabo), o di asciugacapelli, specchi, di adeguati e funzionali elementi di arredo (tavoli, sedie con schienale, armadi, tipologia di letti) e quali caratteristiche e materiali al fine di assicurarne la costante igienicità e la sicurezza penitenziaria, di quali elettrodomestici si possano servire, quali le dotazioni e corredi individuali e con quali scadenze (dagli indumenti intimi a quelli da lavoro, dagli effetti letterecci a quelli necessari a persone incontinenti, dagli assorbenti per le donne ai rasoi monouso per gli uomini, etc.). Spesso irrisolte e/o insufficienti sono le questioni in tema di assistenza sanitaria, alimentazione, risocializzazione, mediazione, riparazione sociale e, senza la pretesa di esaurire le problematicità, quella della affettività. Ma ulteriori e di ancora più complesse andrebbero definite: ad esempio, le modalità e la frequenza dei colloqui visivi e telefonici con familiari, amici, avvocati, ministri di culto, etc.; come accedere alle proprie informazioni attinenti ai propri processi e alle condizioni sanitarie; la tempistica di risposta ad istanze di diversa natura; le modalità di percorsi trattamentali e di adesione ad attività scolastiche e di formazione professionale, etc. Con il Carcere Europeo si disporrebbe finalmente di “standard”. Non più indicazioni “a sentimento” e confusive per gli operatori del diritto sostanziale, ma descrizioni esplicative e circostanziate. Dal preciso standard dell’ampiezza di una stanza alla larghezza di una finestra e del flusso di ricambio di aria naturale che debba assicurare in relazione al numero delle persone occupanti, idem per i lux di luce naturale, tipologia ed intensità di quelle notturne di controllo nel locale, se si possa disporre di un telefono fisso nella stanza di pernotto per comunicazioni su utenze autorizzate, sull’impiego di personal computer e sulla connessione internet, per quanto controllati, sulle pubblicazioni acquisibili, sulla frequenza e modalità dei colloqui visivi, se in parlatori collettivi, con o senza divisori, o in spazi riservati. Quali i corredi personali e le scadenze periodiche per il rinnovo (esigenza, oggi, ancora più avvertita per gli di indumenti intimi, asciugamani e lenzuola, maglioni, tute e abiti da lavoro, etc.); come assicurare le diverse esigenze di alimentazione per motivi religiosi o perché persone vegetariane, celiache, obese, sportive, anemiche, etc., come fare volontariato gratuito e a favore di chi, se si sia obbligati o meno a lavoro e con quali retribuzioni e come, in caso di rifiuto, ciò verrà considerato sul piano trattamentale. Quali servizi gli debbano essere garantiti se disabile, come favorire i contatti con la famiglia e gli uffici pubblici esterni, come debba svolgersi la socialità e con quante persone detenute possa incontrarsi giornalmente e contemporaneamente. Sembrano questioni banali e che dovrebbero essere perfettamente note e risolte da tempo. La risposta la troverete visitando le carceri italiane ed europee, dove potreste imbattervi in situazioni opache e mortificanti, che possono generano nei prigionieri profondi sentimenti di ingiustizia, prodromi di ulteriori possibili conseguenze, contribuendo a rendere attrattive le lusinghe delle criminalità organizzate e le pretese di vendetta delle organizzazioni terroristiche, come la Storia potrebbe ricordarci. Con il Carcere Europeo, al contrario, sosterremmo i principi europei della legalità. Non poco... Sicilia. Totò Cuffaro: “Serve una nuova filosofia di gestione per le carceri” siciliaogginotizie.it, 7 maggio 2020 Intervista all’ex Presidente della Regione Siciliana, con cui abbiamo affrontato il tema dell’emergenza carceri in Italia, acuita ancor di più dall’emergenza sanitaria di questi mesi. Presidente, la situazione delle carceri era già difficile prima…. Le carceri, nel nostro Paese, sono in emergenza da tempo. Nel passato si è tentato di fare qualche intervento legislativo per svuotarle ma credo che i risultati siano stati inconcludenti. Cosa non ha funzionato secondo lei? Da un lato, nella trasformazione da decreti legge a legge, si è vanificato il risultato. Dall’altro, perché credo che il Parlamento abbiamo legiferato non tanto per risolvere davvero il problema ma più che altro per rispondere all’Europa. Come sapete, l’Italia è stata condannata dal Tribunale dei Diritti dell’Uomo a causa del sovraffollamento delle carceri. La legge più che altro uno specchietto per le allodole. Ad esempio, la norma che era stata fatta per dare 3 giorni premio ogni mese per chi viveva in sovraffollamento non ha trovato poi effettiva applicazione. L’emergenza è storica, datata, continua. E oggi? C’è un’emergenza nell’emergenza. In carcere si vive in otto o dieci in una cella, in promiscuità, in una mancanza d’igiene purtroppo conclamata. È chiaro che, in una situazione come quella attuale dove è necessario mantenere le distanze e prestare attenzione ad una maggiore igiene, il sovraffollamento diventa un problema ulteriore che non si è provveduto in tempo a risolvere: sono passati due mesi e forse solo adesso stanno dando qualche risposta. Non mi sembrano però risposte concludenti. Il problema non si risolve impedendo i colloqui ai detenuti che per loro rappresentano motivo di esistenza, di speranza, di forza ma bisogna farli nei modi che non mettano a rischio detenuti, familiari e agenti di polizia penitenziaria. Ad oggi questo ancora non è avvenuto. La capacità di tenuta dei diritti civili in un Paese si vede quando non si fa mancare questi diritti alle persone più in difficoltà. È vero, stiamo parlando di persone che hanno sbagliato, che non hanno avuto in passato rispetto per lo Stato ma lo Stato non può non avere rispetto per loro: sarebbe motivo di diseducazione. Lo Stato tiene le persone in carcere non per punirle ma, come afferma la nostra Costituzione, per “rieducarle”. Verona. Quaranta posti per senzatetto ed ex detenuti positivi Corriere di Verona, 7 maggio 2020 Grazie ad un accordo fra Diocesi, Comune di Verona, Prefettura e Ulss 9, non succederà più che una persona risultata positiva al virus ma senza sintomi sia costretta, non avendo una casa, a girare pericolosamente per le strade della città. La giunta comunale ha approvato ieri un protocollo d’intesa. Proprio il Vescovo di Verona, monsignor Zenti, ha messo a disposizione una quarantina di posti a San Fidenzio, per ospitare senzatetto o anche detenuti scarcerati che siano risultati positive al Covid 19 ma asintomatici e quindi non ricoverabili in ospedale. Nella struttura sarà assicurato il controllo sanitario da parte della Ulss 9, mentre i servizi sociali del Comune garantiranno pasti ed assistenza, col coordinamento della Prefettura. Il tema era finito sotto i riflettori dopo la scarcerazione, il 17 aprile scorso, di un cittadino indiano, individuato solo molte ore dopo in stazione da una pattuglia dei carabinieri. Su quell’episodio ritorna polemicamente Flavio Tosi, secondo il quale “Sboarina ha ingiustamente accusato la direttrice del carcere dottoressa Bregoli, mentre la colpa è solo del sindaco, che è anche autorità sanitaria a Verona. La Bregoli per due volte - prosegue Tosi - ha sollecitato il Comune a trovare un alloggio all’ex detenuto, ma l’assessore Bertacco le ha risposto liquidandola in tre righe, affermando che il Comune non aveva posti disponibili. Quindi Sboarina non può dichiarare che lui si era attivato e che la Bregoli ha agito da sola: la dottoressa Bregoli - conclude Tosi - non poteva aspettare oltre perché il provvedimento della magistratura era indifferibile e Sboarina era stato avvertito due volte; ma l’alloggio è stato trovato solo quando è esploso il caso a livello mediatico”. Napoli. Detenuto ricoverato con un’emorragia cerebrale. La moglie: “Non è stato curato” di Massimo Romano napolitoday.it, 7 maggio 2020 Si tratta di Francesco Petrone, ritenuto dalla Dda uno dei capi della malavita del Rione Traiano e condannato a 19 anni. Il garante dei detenuti: “Boss o non boss ha diritto a tutte le cure. Vogliamo chiarezza”. “Le condizioni di mio marito sono pessime da diversi anni, ma in carcere non è stato curato. Adesso è in ospedale che non può né parlare né muoversi”. La denuncia è di Carmen D’Angelo, moglie di Francesco Petrone, detenuto a Poggioreale dal 2017, in seguito a un blitz delle forze dell’ordine nel Rione Traiano. Per la Direzione distrettuale antimafia, Petrone sarebbe una figura apicale della malavita della zona. Sconta in carcere una condanna di 19 anni. “Noi non abbiamo mai chiesto né la scarcerazione, né i domiciliari - spiega la moglie - noi volevamo solo che fosse curato, magari trasferito in una struttura ospedaliera, anche fuori città”. La situazione clinica di Petrone sarebbe delicata da tempo. Nel 2014, in seguito a un incidente, l’uomo è finito in coma. “Non è stato più lo stesso. Gli è stata impiantata una placca di metallo, è invalido a un braccio, è spastico. Si stava riprendendo con la riabilitazione. Poi, nel 2017 c’è stato il blitz. Ho inviato in carcere diversi medici che hanno segnalato i suoi problemi di salute, ma la direzione sanitaria ha sempre risposto che stava bene. Da ottobre soffre di fuoriuscite di sangue e pus dall’orecchio. Avrebbe dovuto fare anche un intervento plastico all’orecchio, ma non è stato mai effettuato. Fino al 24 aprile, quando ha perso i sensi in cella”. Sassari. “Contro i magistrati di sorveglianza attacchi populisti e immotivati” di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 7 maggio 2020 “Solidarietà incondizionata alla magistratura di sorveglianza che resiste ai pesanti condizionamenti mediatici e politici e in un periodo così drammatico riesce a contemperare la necessità di garantire il rispetto della legalità con il diritto alla salute e alle cure, assicurate anche ai condannati per gravi reati e sottoposti a disumani regimi detentivi”. È un documento forte, di dura condanna, quello deliberato dal consiglio dell’ordine degli avvocati di Sassari e inviato, oltre che a Csm e Anm, anche ai presidenti della Repubblica e del Consiglio dei ministri, al ministro della Giustizia e ai presidenti di Camera e Senato. La vicenda riguarda la discussa scarcerazione del boss Pasquale Zagaria detenuto in regime di 41bis a Bancali. E scarcerato dal magistrato di sorveglianza di Sassari a causa dell’indisponibilità da parte delle strutture sanitarie di poter garantire al detenuto la prosecuzione dell’iter diagnostico e terapeutico di cui ha bisogno a causa di una grave patologia. Il giudice aveva inoltrato più richieste al Dap per capire se fosse possibile individuare un’altra struttura penitenziaria dove effettuare il “follow -up” diagnostico e terapeutico, ma non sarebbe arrivata nessuna risposta. Ora Zagaria trascorrerà 5 mesi ai domiciliari a casa della moglie. Circostanza che ha sollevato un polverone. “Esprimiamo sdegno - scrivono gli avvocati di Sassari - per gli attacchi populisti cui detta parte della magistratura è stata sottoposta, da un lato senza alcuna adeguata ragione e dall’altro senza neppure attendere l’irrevocabilità dei provvedimenti emessi, sottoposti agli ordinari mezzi di impugnazione”. Il consiglio dell’ordine forense presieduto da Giuseppe Conti ha anche manifestato “forte preoccupazione” per via della “recente decretazione d’urgenza (art. 2 DL 30.4.2020 n. 28) che potrebbe rappresentare una sostanziale menomazione dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, attraverso l’introduzione surrettizia nella giurisdizione di soggetti estranei al procedimento”. Dura la condanna ai “ripetuti attacchi originati dal fronte giustizialista di una parte dell’opinione pubblica male informata e strumentalizzata da forze politiche e programmi televisivi di rilevante audience, mossi ai magistrati di sorveglianza “colpevoli” di aver applicato rigorosamente la legge, disponendo il differimento dell’esecuzione della pena nei confronti di condannati che versano in gravissime condizioni di salute incompatibili con il regime di detenzione e, per di più, soggetti a rischio contagio da Covid 19 e a tutte le complicanze conseguenti”. Gli avvocati hanno sottolineato anche “l’imbarazzante silenzio di quasi tutte le forze politiche e la timida presa di posizione da parte della Magistratura associata. Resta all’avvocatura di opporsi con vigore alla strisciante delegittimazione dell’Ordine giudiziario”. Milano. Notizie dal carcere di San Vittore, la nostra testimonianza naga.it, 7 maggio 2020 Molto si è temuto per l’effetto che il Covid-19 poteva produrre nelle carceri milanesi. Il virus in effetti è arrivato nei tre istituti penitenziari di Bollate, Opera e San Vittore, ma poteva andare molto peggio, soprattutto nella fatiscente, sovraffollata, caotica struttura di Piazza Filangeri, resa ancora più precaria dopo le devastazioni seguite alla rivolta dello scorso 8 marzo. Qui c’è stato, sì, un certo alleggerimento delle presenze (circa 250 unità), ma non tanto, come si auspicava, per l’applicazione delle norme presenti nell’articolo 124 del Decreto salva Italia, che raccomanderebbero ampio ricorso alla detenzione domiciliare, quanto per trasferimenti e misure di revoca della custodia cautelare in carcere ottenute grazie all’impegno di molti magistrati di sorveglianza, dei garanti, dei direttori penitenziari. Il sovraffollamento resta e resterà comunque anche, post Covid, il problema strutturale di fondo del sistema carcere. Ma se la situazione sanitaria, a dispetto di ciò, è rimasta sotto controllo lo si deve molto a una circostanza di cui pochissimo si è trovato notizia nel marasma mediatico che ci assilla da settimane e seriamente minaccia la nostra lucidità mentale. La direzione sanitaria di San Vittore, infatti, per gestire la gravità della situazione ha chiesto e ottenuto il supporto di Medici senza frontiere, e così in breve tempo si è riusciti a trasformare il locale Centro clinico, un reparto in tempi normali ad alta problematicità, in una unità Covid in grado di gestire farmacologicamente i casi di media gravità di tutte le carceri regionali e di diagnosticare chi dovesse necessitare di terapia intensiva presso l’Ospedale San Paolo. Sempre grazie a questa collaborazione si è potuto inoltre organizzare in parallelo un lavoro capillare di informazione e prevenzione per detenuti e personale penitenziario che sono stati dotati dei presidi necessari. Ne avevamo avuto notizia informale dal cappellano e da un volontario del Naga che il 6 di aprile è stato a sua volta chiamato a soccorso dalla Direzione di San Vittore come mediatore culturale per consentire anche ai detenuti arabofoni (numerosissimi e molto spesso non in grado di capire l’italiano) di apprendere le regole fondamentali di comportamento e le misure da rispettare per fronteggiare l’epidemia. Il Naga rafforzerà la sua collaborazione anche nelle prossime settimane con un altro volontario che, in stretta collaborazione con la Direzione Sanitaria e con Msf, parteciperà all’attività di sensibilizzazione dei detenuti stranieri per il contenimento del contagio secondo un protocollo preciso e sacrosanto, ma quanto mai duro per chi già vive ristretto. Qualche giorno fa nella riunione online della Sottocommissione carceri del Comune di Milano cui come Naga abbiamo potuto assistere abbiamo avuto conferma ‘ufficialè di questa strategia che sta mostrando la sua efficacia. Questa vicenda ci è parsa di grande significato e riteniamo importante renderla nota e condividerla in un momento di così forte scoramento. Quel che è successo, infatti, è che nella situazione di emergenza un’istituzione come il carcere ha lavorato in sinergia con il personale di diverse Ong (qualcosa di analogo è successo infatti anche a Bollate con Emergency), dissipando così nella concretezza dei fatti e di un agire comune la cappa di infame discredito che le politiche degli ultimi anni hanno gettato sull’operato delle associazioni non governative. Qui non si trattava di soccorrere migranti in mare, ma peggio ancora: di dare assistenza - in quella grande nave alla deriva che è la galera nel centro della nostra città - agli scarti sociali che ospita, molti dei quali, fra l’altro, migranti lo sono stati. Forse non è un caso che la notizia non abbia trovato spazio nei media, troppo impegolati ormai nella retorica tricolore cui questa vicenda avrebbe potuto creare magari un certo disturbo, come così spesso accade nel toccare il tema carcere. Ed è per questo che noi sentiamo l’urgenza di farla circolare: perché in questo segnale che viene da dietro le sbarre si riconosca e si dia il benvenuto all’avvio di buone pratiche che ci auguriamo possano prodursi dall’immane disastro che stiamo vivendo. Roma. “Oltre il carcere”: presto un numero verde contro il disagio di Antonella Barone gnewsonline.it, 7 maggio 2020 Un numero verde totalmente gratuito sarà presto a disposizione di tutto il mondo legato al disagio e alle conseguenze della detenzione. È quanto prevede l’iniziativa “Oltre il carcere” messa in campo da una rete di realtà operanti nel sociale in collaborazione con Roma Capitale. Il servizio è stato presentato ieri nel corso di un incontro cui sono intervenuti Daniele Frongia, Assessore allo Sport, Politiche giovanili e Grandi Eventi cittadini di Roma Capitale, Gabriella Stramaccioni, Garante comunale dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive, Alessandro Pinna, presidente di “Isola Solidale”, Lidia Borzì, presidente delle Acli di Roma e provincia, e Paolo Strano, presidente dell’associazione “Semi di libertà Onlus”. “Il numero verde 800.938.080 - spiega Paolo Strano - è promosso dall’ Isola Solidale in collaborazione con il Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale di Roma Capitale e si avvarrà anche della grande rete solidale della Capitale, in particolare dello sportello per l’esigibilità dei diritti delle Acli di Roma e provincia nonché del sostegno della nostra Associazione. La prossima settimana si terrà una riunione operativa per definire le modalità di attuazione del servizio e terremo un breve corso agli operatori telefonici per dargli strumenti e soprattutto riferimenti per la gestione dell’utente”. L’iniziativa ha anche l’obiettivo di fare emergere le criticità legate al mondo carcerario. “Stiamo lavorando - ha dichiarato la garante Gabriella Stramaccioni - con ogni mezzo per contenere il disagio e prevenire l’eventuale rischio di recidiva”. Alessandro Pinna, presidente di Isola Solidale, ha raccontato come il numero verde rappresenti la realizzazione di un sogno inseguito da anni. “Ci permetterà di essere più vicini non solo ai detenuti e agli ex detenuti, ma soprattutto alle loro famiglie e in particolare modo ai minori che spesso a seguito della detenzione di un genitore vivono preoccupanti situazioni di disagio e di emarginazione”. Una collaborazione virtuosa e collaudata quella delle varie realtà coinvolte nel progetto che ha consentito, nel corso dell’emergenza Covid-19, di e aiutare famiglie, e minori in stato di disagio economico e sociale, soprattutto se con un parente di carcere. Da metà marzo sono stati distribuiti 1.340 pasti donati da McDonald’s, consegnati oltre 600 pacchi viveri con generi di prima necessità e generi per l’infanzia a 100 bambini, 700 colombe e 1.000 uova di Pasqua donate a Roma Capitale da Rocco giocattoli. “Le tante realtà romane che si sono impegnate in questo periodo hanno rivestito - ha commentato l’assessore Frongia - un ruolo di primo piano nell’affrontare con estrema partecipazione una situazione di straordinaria emergenza nell’emergenza. Quello che viene presentato oggi è un servizio che potrà davvero aiutare le persone che hanno terminato di scontare la pena detentiva e hanno ancora più bisogno di un sostegno, così come le loro famiglie”. Pavia. I detenuti producono mascherine lavabili di Daniela Scherrer La Provincia Pavese, 7 maggio 2020 I detenuti di Torre del Gallo si improvvisano sarti e cominceranno a produrre mascherine lavabili antivirus. Per uso interno innanzitutto e poi, se sarà possibile, anche per l’esterno. In tre giorni il sogno della direttrice Stefania D’Agostino è diventato realtà, grazie alla rete di collaborazioni e di solidarietà attivata dalla garante per i diritti Vanna Jahier. Mancava tutto, infatti. Ieri invece al gruppo di educatori del carcere -il coordinatore dell’area Federico Traversetti e le educatrici Manuela Socionovi e Daniela Bagarotti - sono state consegnate due macchine da cucire (una Necchi e una Singer) giunte dalla Cooperativa Marta e infiniti metri di tessuto di cotone colorato donati dalla tappezzeria Benenti di corso Garibaldi e della Lavgon di Zinasco, che ha anche fatto pervenire un’altra macchina da cucire professionale, ancora da collocare in laboratorio. Aghi, filo e tutto il necessario per cucire sarà infine fornito dalla Caritas di Pavia. Ora si può dunque partire con le borse lavoro del progetto “Vai” di Apolf, che garantiranno un introito a due-tre detenuti, sia della sezione comune che protetti. “L’idea è nata una decina di giorni fa -spiega Stefania D’Agostino - i detenuti attualmente hanno a disposizione le mascherine donate dalla sartoria della sezione femminile del carcere di Bollate (due a testa, lavabili). Ma grazie agli incontri con gli infettivologi e i tecnici della prevenzione di Medici senza Frontiere è nata la proposta di produrle internamente, ma noi non abbiamo la sartoria e mi sembrava difficile poter concretizzare l’idea. Invece Vanna Jahier è stata vulcanica e in una sola giornata aveva già reperito il necessario per partire”. Ora i detenuti selezionati cominceranno a lavorare, in maniera che i compagni potranno beneficiare di mascherine colorate. Un tocco di fantasia per tutti loro. E magari per i familiari e gli esterni, se si troverà la formula per una commercializzazione del prodotto. E se gli apprendisti sarti saranno all’altezza, l’intenzione della direttrice è quella di estendere l’attività anche alla produzione di camici usa e getta per i detenuti e per il personale. “Ringrazio la società esterna che si è mobilitata per consentirci di attivare la produzione - conclude D’Agostino - la formula della borsa lavoro ritengo sia molto importante nel cammino verso il reinserimento”. Caserta. Attivata didattica a distanza per i detenuti cronacacaserta.it, 7 maggio 2020 Il Cpia di Caserta a livello regionale, per primo ha ottenuto la possibilità di utilizzare la Piattaforma telematica certificata “Sogi Agorà” per la didattica a distanza. In questo difficile momento storico, dovuto alla corrente emergenza epidemiologica da virus Covid-19, il Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti di Caserta (CPIA Caserta) non fa mancare il proprio supporto alle esigenze formative degli studenti detenuti nei quattro Istituti Penitenziari della Provincia di Caserta (Arienzo, Aversa, Carinola e Santa Maria Capua Vetere), mediante la piena attivazione della didattica a distanza anche nelle predette scuole carcerarie gestite dal CPIA. Infatti, grazie al proficuo rapporto di collaborazione e l’ottimale sinergia interistituzionale intercorrente fra le Direzioni delle quattro Case di Reclusione ed il Dirigente Scolastico del CPIA di Caserta Avv. Raffaele Cavaliere, è stato possibile organizzare in breve tempo e, di poi, continuare a svolgere i corsi di istruzione per adulti di alfabetizzazione della lingua italiana e per il conseguimento della licenza media, mediante delle videoconferenze quotidiane, che vengono regolarmente seguite dagli studenti ristretti con l’ausilio della Piattaforma per la didattica a distanza certificata AGID SOGI Agorà, già utilizzata dal CPIA per le lezioni a distanza di tutti gli oltre 1500 studenti iscritti ai corsi del CPIA nel corrente anno scolastico in tutta la Provincia. Questo strumento innovativo consente non solo di assistere alle video lezioni tenute dai docenti del CPIA, ma anche di scaricare il materiale didattico da essi selezionato e, soprattutto, permette allo studente di poter sottoporre alle opportune correzione il lavoro svolto, alimentando un continuo feedback tra il docente ed il discente. “La nostra precipua convinzione è che l’istruzione per gli adulti, anche declinata con le differenti modalità proprie della didattica a distanza, sia una risorsa importante e centrale, nel percorso rieducativo di ogni singolo detenuto e, per questo, abbiamo cercato di superare tutti i numerosi ostacoli che sembravano impedire il prosieguo dei corsi formativi per i nostri oltre 400 corsisti ristretti nelle quattro carceri della Provincia di Caserta. Per questo motivo, l’obiettivo programmatico che ci siamo prefissi è quello di implementare ulteriormente tale servizio didattico, attraverso la realizzazione di un progetto formativo sempre più articolato e più specifico, che possa garantire in modo ottimale il diritto allo studio e l’istruzione dei detenuti nei mesi a venire ed almeno fino a quando non sarà possibile tornare alle ordinarie lezioni in presenza. Un vivo ringraziamento per l’attenzione, l’impegno profuso e la preziosa collaborazione dimostrate in tale direzione va indirizzato a tutti i Direttori delle quattro Case di Reclusione coinvolte ed al Personale educativo dell’area trattamentale ivi impegnato nonché ovviamente al nostro personale docente, mentre fondamentale è risultato il supporto ed il coordinamento offerto dall’Ufficio Scolastico Regionale per la Campania nelle persone del Direttore Generale dott.ssa Luisa Franzese, sempre straordinariamente e fattivamente vicina al mondo della Scuola campana e della Dirigente Prof.ssa Angela Mormone, responsabile e referente dell’Ufficio III per l’Istruzione degli Adulti. Così interviene in merito il Dirigente Scolastico del CPIA di Caserta, Avv. Raffaele Cavaliere, sintetizzando in poche battute l’importanza del traguardo formativo raggiunto. L’esperienza formativa a distanza instaurata nelle carceri casertane rappresenta un esempio da seguire anche per altri Istituti Scolastici e, infatti, diversi insegnanti si sono messi in contatto recentemente con il CPIA di Caserta per informarsi sulle metodologie di attuazione della didattica a distanza negli istituti penitenziari dove operano. In questo preciso momento storico, la gravità delle conseguenze della Pandemia in corso sulla situazione economica della Provincia di Caserta è imprevedibile e preoccupante. Il CPIA è l’istituzione scolastica preposta alla formazione ed all’istruzione permanente degli adulti dai 16 anni di età e con questo ulteriore progetto di didattica a distanza in fase di avvio nelle carceri della Provincia, aspira a definire un modello valido per tutti ed un percorso che sappia integrare istruzione, formazione e lavoro. Il CPIA di Caserta, infine, a livello regionale, per primo ha ottenuto la possibilità di utilizzare la Piattaforma telematica certificata “Sogi Agorà” per la didattica a distanza, sia per garantire una adeguata formazione a distanza in modo strutturato nelle sedi carcerarie nonché per raggiungere più agevolmente tutti gli studenti in età adulta del territorio casertano già iscritti ai propri percorsi d’istruzione presso le nove sedi associate di Caserta, Aversa, Casal di Principe, Macerata Campania, Maddaloni, Marcianise, Teano, Sessa Aurunca e Piedimonte Matese e presso gli altri punti di erogazione del servizio didattico ad esse afferenti. Cremona. Computer in dono ai detenuti grazie a partnership fra Ufficio scolastico e C2 Group La Provincia di Cremona, 7 maggio 2020 Il dirigente dell’Ust Fabio Molinari: “Un contributo importante per i programmi di istruzione e formazione a distanza pianificati dall’istituto penitenziario”. Computer in dono ai detenuti per le attività didattiche e formative in e-learning: l’iniziativa benefica è nata dalla partnership fra l’Ufficio Scolastico Territoriale di Cremona e la società informatica cremonese C2 Group. Sette dispositivi sono stati consegnati alla direttrice della casa circondariale di via Cà del Ferro, Rossella Padula, e alti tre verranno assegnati nei prossimi giorni al penitenziario di Sondrio. La donazione è stata ispirata e fortemente voluta da Fabio Molinari, dirigente degli Ust di entrambi i capoluoghi di provincia lombardi, che, tra l’altro, di recente ha offerto volontariamente all’istituto penitenziario cremonese la propria esperienza di docente attraverso un progetto di istruzione specificamente indirizzato ai detenuti. “Alcuni mesi fa il Provveditorato di Cremona ha siglato con C2 Group un accordo per la diffusione delle buone pratiche in campo informatico all’interno degli istituti scolastici del territorio cremonese - dichiara Molinari. Ha così preso vita una importante sperimentazione incentrata sull’utilizzo delle nuove tecnologie in ambito didattico. Quest’intesa ha consentito di offrire a docenti e studenti nuove possibilità di insegnamento e apprendimento a distanza che sono state applicate in questo periodo di chiusura obbligata delle scuole in conseguenza dell’emergenza epidemiologica”. C2 Group, infatti, ha sviluppato le piattaforme e gli strumenti per l’e-learning che in questi mesi stanno garantendo lo svolgimento delle attività scolastiche nella configurazione da remoto. “Da quest’esperienza - prosegue Molinari - è scaturita la donazione di computer a favore dei detenuti che hanno intrapreso percorsi didattici in modalità e-learning. Ringrazio di cuore la società informatica cremonese per questo gesto di solidarietà che radica ulteriormente la sua presenza nel tessuto sociale del territorio”. C2 Group è un’azienda di riferimento nel settore dell’informatica: fornisce, integra e sviluppa soluzioni tecnologiche ed innovative per aziende, scuole, istituti ed università: “In questo periodo - spiega il titolare, Stefano Ghidini - abbiamo offerto supporto a numerose scuole di tutta Italia per la diffusione delle buone pratiche in campo didattico. Tra le altre cose, abbiamo lavorato per conto di Google e Microsoft per la formazione degli insegnanti dell’intero Stivale, rendendo possibile lo svolgimento di webinar e lezioni a distanza. La donazione dei computer ai detenuti, avvenuta anche grazie alla collaborazione di Acer, vuole rappresentare un segno di solidarietà nei confronti di chi vive una condizione di particolare difficoltà e fragilità nell’attuale fase di emergenza sanitaria”. Perugia. Anche i detenuti di Capanne dicono grazie all’ospedale ansa.it, 7 maggio 2020 Donazione e messaggio, “siete i veri eroi, i nostri salvatori”. Anche i detenuti dell’Istituto penitenziario di Capanne hanno voluto essere vicino concretamente agli operatori sanitari impegnati nell’emergenza Covid-19 facendo una donazione a favore dell’ospedale di Perugia. La somma di danaro raccolta dai detenuti è stata consegnata dalla direttrice del carcere Bernardina Di Mario, al commissario straordinario dell’azienda ospedaliera Antonio Onnis. La donazione è stata accompagnata una lettera firmata dai detenuti: “Vi giunga il soave suono del nostro amore, dell’immensa stima e del conforto, poiché voi siete i veri eroi, i nostri salvatori. Con orgoglio vogliamo esprimere a tutti voi il nostro rispetto e preghiamo Dio per averci regalato un grande dono, quel dono che siete voi medici e infermieri, che combattete questo mostro senza tirarvi indietro. Nel nostro piccolo - è scritto ancora nella lettera - abbiamo voluto devolvere questa piccola somma, tenendo presente che poche parole scritte con sentimenti valgono più di tutto il denaro del mondo”. Dopo il Covid, cambierà la parola libertà di Gioacchino Criaco Il Riformista, 7 maggio 2020 La pandemia ci ha spinti a modificare i comportamenti ma anche il nostro lessico. Parole su parole, per spiegare il cambiamento, per dire di come e se l’umanità si trasformi nello scorrere degli eventi pandemici. E nemmeno una parola sulla parola, sul suo essere la stratificazione storica della relazione che incorre fra l’uomo e ciò che lo circonda, fra l’uomo e i propri sensi, i dettami dei suoi sentimenti. Nemmeno un accenno su quali e quante parole spariranno o usciranno mutate dal lockdown, termine che è entrato prepotentemente nella vita relazionale: la fuga per vivere, o solo sopravvivere. Cambia soprattutto il valore che si dà alla parola libertà, che per alcuni è stata più importante della vita, per pochi lo sarà anche dopo il Covid. I vecchi aspromontani del fascismo non ricordano granché, quasi nessuno nei territori dispersi lo sceglieva come parte, e a nessuna parte passata si era aderito che rappresentasse un potere, né si sarebbe aderito a quelle che sarebbero venute dopo. Il potere lo si subiva come calamità, al pari delle epidemie, delle siccità. Libertà era non dipendere dagli ordini, dai bisogni. Il resto, comunque messo, era costrizione. I sopravvissuti ricordano la passeggiata serale del podestà, che mandava a casa quelli che si spartivano con le parole la fatica cominciata all’alba. Quando lo raccontano sui volti antichi si disegna la mirabilia, la meraviglia: un evento straordinario, inatteso, che spezza un rapporto fra l’uomo e la sua essenza. La pandemia ha compresso tantissimi piccoli spazi di libertà che ognuno, a modo proprio si era costruito: il caffè alle cinque del pomeriggio, i passi sul molo di un porto, un quadro o un panno dietro una vetrina, uno struscio, le pagine rubate a un libro in libreria. Qualunque cosa, anche un gesto di scaramanzia, cose a corredo della vita, di tutte le vite, le più diverse. Molte libertà e molte parole che ne spiegano le relazioni le riavremo, ci verranno di nuovo concesse. Ciò che sparirà o sarà mutilato, è la meraviglia: quel disegno ingenuo, bambino che ci incorniciava il volto per l’inatteso, il mirabolante, ciò che non poteva essere, che non avrebbe potuto essere, e invece lo abbiamo visto normale. Normale, abbiamo trovato normale ogni restrizione, che anche sia stata giusta, non abbiamo preteso ci fosse spiegata. Non abbiamo chiesto di essere convinti: abbiamo eseguito tutto, abbiamo urlato dalle finestre ai trasgressori, ingiuriato i corridori, e puntato dita e dita contro chi attentava alla nostra sicurezza, fosse essa il bene supremo, l’unico su cui arroccarci, e non fosse la vita nelle sue parole complesse, nelle stratificazioni storiche delle proprie relazioni, il traguardo a cui ambire. La meraviglia abbiamo perso, o l’abbiamo lasciata mutilare. Per la meraviglia non si combatte da tempo, da prima della pandemia, che in molti posti nemmeno si è vista. Nulla ci sorprende più, e dopo il Covid ci sorprenderemo sempre meno di cose un tempo mirabolanti e ora tristemente normali. Il virus ha tagliato la società svelando di cosa è fatta di Ignazio Masulli Il Manifesto, 7 maggio 2020 Se si taglia il tronco di un albero si possono vedere i cerchi concentrici formati durante la sua vita. Il boscaiolo vi legge i tempi della sua crescita, vi scorge le tracce delle sue malattie, vede i segni delle intemperie che l’anno scosso. Anche nella storia della società umana vi sono eventi che ne tagliano la struttura e mostrano il modo in cui si è formata e lo stato in cui si trova. La pandemia che ci sta colpendo è uno di quegli eventi taglienti e mette a nudo lo spaccato del sistema-mondo in cui viviamo. Quel che vediamo è un sistema malato, ormai privo di linfa vitale. È cresciuto avvolgendosi sempre più intorno alla spirale di una logica meramente utilitaria e contingente cui l’hanno costretto i gruppi economici e politici dominanti. Una logica irresponsabile perché incurante dei guasti provocati da sfruttamento e mercificazione sempre più sfrenati delle risorse naturali e del lavoro umano. La conseguenza è che abbiamo una percezione oltremodo incerta del nostro futuro. Viviamo nell’incubo che il riscaldamento del pianeta raggiunga il limite fatale di 2 gradi centigradi entro trent’anni. Lo squilibrio demografico tra Nord e Sud del mondo, con un aumento previsto della popolazione mondiale di 2,4 miliardi entro il 2050, che sarebbe concentrato per il 97% nei paesi più poveri prospetta un’altra situazione insostenibile. Così come insostenibile sta diventando il dilatarsi della diseguaglianza sociale tra paesi ricchi e poveri, e all’interno sia dei primi che dei secondi. Sulla pericolosa china di un piano tanto inclinato non meravigliano le grandi difficoltà e le stridenti contraddizioni in cui dibattiamo nel tentativo di arginare l’infezione di un virus sconosciuto e di facile trasmissibilità. Ed è comprensibile che il trauma che stiamo vivendo ci spinga a considerazioni, critiche e proposte tutte volte ad intervenire sulla contingenza. Ma, così facendo, corriamo il rischio di muoverci a valle dello stato delle cose. In altre parole rischiamo di pensare e agire conformandoci al modo di funzionare del sistema sociale in cui ci troviamo. Quasi dimentichi che proprio l’esperienza che stiamo attraversando mostra tutti i limiti di questo sistema e l’urgenza di modificarlo radicalmente. Questo evento sta mettendo in tutta evidenza la fragilità della struttura economica, la debolezza dell’organizzazione sociale, per non dire dell’incapacità del ceto politico, quali si appalesano anche nei paesi che consideriamo più sviluppati. Tutto ciò che questo “evento tagliente” impietosamente mette in evidenza ci deve far riflettere su un limite di fondo della nostra costruzione sociale. Essa è stata edificata sulla falsa contrapposizione tra uomo e natura e tra uomo e uomo come se non fossimo parte della natura e non fossimo accomunati nell’evoluzione, sia naturale che sociale, della nostra specie. Il prezzo pagato da questa duplice alienazione che ci contrappone alla natura e a noi stessi è ben visibile nella nostra insipienza e impotenza. Accade così che le mura che siamo andati costruendo intorno a noi e dentro di noi sono quelle stesse in cui siamo rimasti prigionieri. Riappropriaci del nostro futuro richiede perciò un completo cambiamento dei valori, morfologie sociali e modelli di comportamento su cui si basano le mappe cognitive dominanti. È, questa, condizione imprescindibile per un mutamento di prospettiva che ci metta in grado di dirigere le nostre azioni non per combattere un male ma per costruire un bene, così da passare dalla lotta contro la morte alla salvaguardia della vita, dalla reazione alla malattia alla difesa della salute, da comportamenti dovuti a costrizioni esterne a comportamenti di autodisciplina, dalla logica della separazione alla tendenza all’interezza. Migranti. Trattativa nel governo sul via libera ma M5s vuole permessi brevi di Maria Teresa Meli Corriere della Sera, 7 maggio 2020 Mancano 600 mila braccianti, senza l’accordo l’agricoltura rischia di andare incontro a enormi problemi per il raccolto estivo. A che gioco stanno giocando gli oppositori interni ed esterni di Giuseppe Conte? Non sembra esserci un’unica regia, a dire il vero, ma le manovre di accerchiamento continuano, emergenza sanitaria o meno. E gli attori di questo assedio non sono solo politici. La Confindustria versione Carlo Bonomi incalza, i sindacati sono insoddisfatti... Morale della favola il decreto aprile rischia di non essere varato nemmeno in questa prima settimana di maggio. Benché il premier si affanni a ripetere: “Vogliamo chiudere presto”. Ma anche la politica non dà tregua a Conte. La sua maggioranza ha presentato più di mille emendamenti al decreto sulla liquidità alle imprese. Insomma, questa fase due per il premier sembra partire in salita. Era l’incubo di Dario Franceschini la “gracilità” di questo governo nato per stato di necessità. Perciò il ministro della Cultura in questi giorni ha fatto un pressing forsennato su Conte per convincerlo che “la sburocratizzazione è decisiva”. Perché, come dice il segretario del Pd Nicola Zingaretti, “i ritardi sull’attuazione dei provvedimenti minano la credibilità dello Stato”. Il Pd cerca di mettere una rete di protezione intorno al premier, con la preoccupazione che quando imprese e cittadini non vedranno arrivare i soldi si allarghi il disagio sociale. Conte, nel frattempo, cerca di sminare gli ordigni (politici, ben si intende) disseminati da Italia viva. Dice di non avere “nessuna ostilità” nei confronti del partito di Renzi e definisce quelli di Iv “utili contributi”. “Si è messo paura”, dice ai suoi il leader di Italia viva. Già, perché Renzi non molla comunque la presa. Si racconta che sia stato lui a spingere Teresa Bellanova a minacciare le dimissioni sulla regolarizzazione. Fonti di Italia viva smentiscono. E, comunque, anche dopo la mediazione di Conte, questo problema non sembra essere più sul tappeto. In serata si raggiunge un compromesso: via libera alla regolarizzazione di lavoratori del settore agricolo e di colf e badanti, sia italiani che migranti. Resta da definire quanto durerà il permesso di soggiorno “straordinario” per questi ultimi. Pd e Iv propongono sei mesi, i 5 Stelle uno o al massimo due, si finirà con un compromesso su tre, anche se i grillini fedeli a Luigi Di Maio continuano ad alzare l’asticella. Ma, come si diceva, Renzi non si ferma, tanto più adesso che il nuovo corso di Confindustria non sembra concedere molto alla mediazione al ribasso. “Si sta giocando una partita complessa - spiega l’ex premier ai suoi - che riguarda il governo a tutti i livelli. Piaccia o non piaccia, riusciranno ad affrontare questa crisi solo se daranno dei segnali a Italia viva e Conte sembra averlo capito”. E Conte in serata un segnale lo dà. Basterà? Nei palazzi della politica, semideserti ma non vuoti, torna a circolare l’ipotesi che Iv possa sfilarsi dando l’appoggio esterno al governo. Uno scenario questo che destabilizzerebbe la maggioranza. E l’esecutivo. Per questa ragione Zingaretti continua a ripetere che “in questa legislatura esiste solo questo governo, non ci saranno rimpasti o altre astruserie: si va al voto”. Una minaccia per stoppare Iv che nei sondaggi continua a non andare bene. Renzi però non crede alle elezioni: “Per quanto possa sembrare paradossale - dice l’ex premier - qui c’è un’unica persona che ha interesse a votare ed è Conte. Perché adesso è sopra nei sondaggi e punta su uno scontro tra lui e Salvini, visto che il Pd è scomparso, sperando di vincere e di governare poi senza problemi. Del resto sa che con le misure che sta prendendo per la fase due tra cinque mesi è politicamente morto. Ma le elezioni non le vuole nessuno, nemmeno l’opposizione, non prendiamoci in giro”. Quell’opposizione che è divisa anche sulla mozione di sfiducia ad Alfonso Bonafede. La Lega insiste, Forza Italia e Fratelli d’Italia vorrebbero desistere. Iv fa sapere che potrebbe votarla, anche se alla fine non lo farà. E Di Maio non sembra essere più rassicurante di Renzi: la sua difesa di Conte appare solo rituale. Non muove un dito in favore del premier e attende gli eventi. È questo il quadro in cui Conte si deve barcamenare. Con suo grande rammarico: “È incredibile che in un momento così grave - dice il premier ai suoi - non si pensi solo al bene degli italiani ma alle polemiche e ai giochini di potere”. Crimi boccia la sanatoria per i migranti nei campi. Bellanova furiosa: “Valuto le dimissioni” di Giulia Merlo Il Dubbio, 7 maggio 2020 Scontro in maggioranza tra Italia Viva e 5 Stelle. La ministra aveva già trovato un accordo col Pd per regolarizzare temporaneamente gli irregolari che lavorano nei campi. e i 5 s si spaccano al loro interno. Spento un focolaio se ne riaccende un altro nella maggioranza inquieta. A dar fuoco alle polveri è una esplosiva intervista del capo politico del Movimento 5 Stelle, Vito Crimi, che detta la linea ai suoi con un’entrata a gamba tesa sulla ministra dell’Agricoltura di Italia Viva, Teresa Bellanova, che a sua volta a minacciato le dimissioni. La ministra aveva annunciato un disegno di legge da portare in Consiglio dei ministri, nel quale si prevedeva la regolarizzazione dei migranti con un “permesso temporaneo” per permettere loro di lavorare come braccianti nei campi, senza finire nelle maglie del lavoro nero. “Sono fondamentali per portare avanti alcune attività, non solo in agricoltura dove rischiamo sperperi enormi per la mancata raccolta, ma anche le badanti che assistono tante persone anziane. Puntiamo a concedere un permesso di soggiorno temporaneo per sei mesi, rinnovabile per altri sei, per le aziende e le famiglie che vogliono regolarizzare” aveva spiegato, dopo aver raggiunto un accordo di massima sulla sua proposta anche con il Partito democratico e la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese. Invece, Crimi ha messo di traverso i pentastellati, bocciando per via giornalistica l’iniziativa: “Il tema non è la regolarizzazione degli immigrati irregolari ma l’emersione del lavoro nero. Se su quello vogliamo lavorare va bene. Ma se come ho potuto leggere c’è anche una parte di testo di intenzioni di fare una sanatoria modello Maroni, noi non ci stiamo”. Parole pesantissime che hanno fatto insorgere Bellanova, la quale ha subito chiamato alla conta: “Se la mia proposta non passa, medito le dimissioni”, ha tuonato, aggiungendo di non essere al governo “per fare tappezzeria”. Poi ha aggiunto, piccata, che la sua “non è una battaglia strumentale per il consenso. Queste persone non votano”. La polemica è infiammata velocemente, mostrando il nervo scoperto di una maggioranza divisa. Da una parte Italia Viva con la spalla del Pd, con in particolare Matteo Orfini che ha ricordato come “Qualche settimana fa insieme ad altri parlamentari del Pd lanciai un appello al governo chiedendo di svuotare le baraccopoli in cui tanti migranti che lavorano nei campi vivono in condizioni disumane e di procedere alla regolarizzazione di quei migranti, per sottrarli al caporalato e alla criminalità che li sfrutta. Per rispondere a una esigenza del nostro paese che ha bisogno di lavoratori agricoli, ancor più in questo periodo. Ma soprattutto perché è giusto farlo” e ha difeso Bellanova, aggiungendo che “si deve fare di tutto per superare le difficoltà politiche. È la cosa giusta, non ci manchi il coraggio di farla”. Sul fronte del governo, sulla stessa linea è intervenuto anche il ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano, che ha provato a gettare acqua sul fuoco pur sostenendo la proposta Bellanova: “Troveremo la soluzione e credo che sia urgente”. Favorevoli all’iniziativa della ministra anche Stefano Fassina di Liberi e Uguali ed Emma Bonino di Più Europa, rafforzando il fronte della maggioranza schierato con Bellanova. La sortita di Crimi, oltre a far infuriare gli alleati, ha lasciato spaesata anche una parte del Movimento 5 Stelle. La corrente di pensiero del capo politico, infatti, non è condivisa da numerosi esponenti parlamentari, di cui almeno due allo scoperto. Il primo è Giuseppe Brescia, presidente della commissione Affari costituzionali alla Camera, il secondo è il senatore Matteo Mantero. “Bisogna lavorare velocemente ad un’operazione di emersione del lavoro nero, mirata ai comparti che servono al Paese per ripartire. Un’operazione che deve coinvolgere anche gli italiani, come chiedo da settimane e come ha detto giustamente oggi il ministro Lamorgese. Non è una battaglia ideologica. Lo Stato ha solo da guadagnarci” è la tesi esplicitata da Brescia. Anche perché la posizione di Crimi, di fatto, offre la sponda alle posizioni contrarie di Lega e Forza Italia, che si sono espressi compatti contro quella che hanno definito “una sanatoria per gli irregolari”. Il groviglio, dunque, si fa più fitto e rischia di aprire più di un piano di difficoltà: non solo al governo, ma anche nello stesso Movimento 5 Stelle. Migranti afghani gettati nel fiume dai poliziotti iraniani di Giuliano Battiston Il Manifesto, 7 maggio 2020 Almeno 23 sarebbero annegati, ma testimoni parlano di 70 morti. Kabul denuncia, Teheran nega: non è successo sul nostro territorio. Tra gennaio e aprile in 240mila sono tornati in Afghanistan dall’Iran, uno dei paesi più colpiti dal Covid-19, suscitando timori per la tenuta del fragile sistema sanitario. Interrogati, picchiati, torturati dalle guardie di frontiera iraniane e poi spinti nel fiume, dove molti di loro sono affogati. È la storia di decine di migranti afghani che, dopo aver cercato di attraversare illegalmente la frontiera con l’Iran, sono stati catturati dalle forze di polizia iraniane e spinti verso la morte: secondo le ricostruzioni dei sopravvissuti e le denunce delle organizzazioni per i diritti umani, almeno 23 sarebbero affogati dopo essere stati costretti ad attraversare il fiume Harirud, che parte dal Turkmenistan, scende in Iran e poi attraversa l’Afghanistan. Secondo fonti del ministero della salute afghano, sarebbero almeno 12 i corpi ritrovati finora, ma i testimoni parlano di cinquanta o settanta persone prima torturate, poi derise e ricacciate nel fiume. Il governo di Kabul ha chiesto un’inchiesta indipendente, ma dal ministero degli Esteri di Teheran fanno sapere che l’incidente non sarebbe avvenuto su territorio iraniano, pur dichiarandosi disponibile a collaborare. Il lungo confine tra Afghanistan e Iran è uno dei più porosi del mondo. Tra gennaio e aprile, e soprattutto dopo la diffusione del Covid-19 in Iran, 240mila afghani hanno fatto ritorno a casa. Da allora è alta la preoccupazione del governo afghano, che oggi registra la presenza del virus in 29 delle 34 province. I numeri sono ancora bassi, ma il timore è che possano alzarsi in fretta, aggravando la situazione di un Paese con un sistema sanitario molto fragile, dove un quarto della popolazione dipende dalle agenzie umanitarie. E dove il confitto continua, tanto da spingere molti migranti economici a riprendere la strada per l’Iran. Martedì il segretario della Difesa Usa, Mark Esper, ha dichiarato che i Talebani non stanno contraddicendo gli impegni assunti con il trattato firmato il 29 febbraio a Doha con l’inviato Usa, Zalmay Khalilzad. Quel trattato impegna i Talebani a ridurre la violenza contro le forze straniere, che hanno cominciato il ritiro, non contro quelle afghane, ha ricordato Esper rispondendo a quanti criticano l’attivismo militare talebano: 4.500 attacchi nei 45 giorni successivi all’accordo. L’accordo con gli Usa è preliminare al negoziato vero e proprio tra Kabul e Talebani. Avrebbe dovuto iniziare prima del 10 marzo, ma si fatica a trovare il passo giusto. Eppure di settimana in settimana aumenta il numero di detenuti rilasciati dall’una e dall’altra parte. Per i Talebani si può cominciare a negoziare solo dopo il rilascio di 5mila studenti coranici. Nel frattempo, a Kabul il presidente Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah assicurano che i colloqui per porre fine alla diatriba sul risultato delle elezioni presidenziali del settembre 2019 proseguono. E che la soluzione è vicina. I due favoriti alle presidenziali, già alla guida di un governo di unità nazionale instabile e conflittuale, hanno dichiarato entrambi vittoria. Ma il dipartimento di Stato Usa ha minacciato di tagliare un miliardo di dollari nel 2020 e un altro nel 2021 se non trovano un accordo. Le ultime notizie lasciamo intendere che l’accordo potrebbe essere vicino. Ma quello con i Talebani sarà molto più difficile da trovare. L’accordo firmato con gli Usa gli ha concesso una patente di legittimità politica, oltre alla consapevolezza che a Washington preme il ritiro, prima della stabilità del Paese. Gli studenti coranici possono permettersi di tergiversare. E perfino di rifiutare come “inopportuno” l’appello del segretario dell’Onu Guterres per un cessate il fuoco umanitario. Egitto. Regista morto in carcere, le autorità: “Aveva ingerito alcol per proteggersi dal Covid” ansa.it, 7 maggio 2020 La ricostruzione è stata confermata da alcuni compagni di cella. Il regista egiziano Shady Habash, morto a 22 anni nel carcere di Torah al Cairo, lo stesso dove si trova Patrick George Zaky, lo scorso fine settimana, aveva bevuto dell’alcol, per errore e per proteggersi dal Covid, prima del decesso. È questa la ricostruzione fornita dall’ufficio del procuratore generale, Hamada al Sawi, rispetto alla morte di Habash, in carcere da oltre due anni per aver realizzato un video musicale in cui veniva preso in giro il presidente Abdel Fatah al-Sisi. La procura ha riferito di aver ricevuto lo scorso primo maggio un rapporto sulla morte di Habash dall’ospedale della prigione, dove i pubblici ministeri hanno esaminato il corpo senza trovare lesioni. Un medico del carcere ha riferito che il giorno della sua morte Habash aveva avuto mal di stomaco e vomito dopo aver ingerito per errore dell’alcol pensando che fosse acqua. Gli era quindi stata fatta un’iniezione contro il vomito, prima di rimandarlo nella sua cella. Secondo il medico, quella stessa notte le condizioni di Habash sono peggiorate e i tentativi di rianimarlo sono falliti. La procura ha quindi riferito dell’interrogatorio di tre compagni di cella di Habash. Uno di loro ha detto che il regista aveva raccontato di aver per sbaglio bevuto un sorso di alcol per disinfettare le mani dei prigionieri come precauzione contro il coronavirus. Il detenuto ha quindi aggiunto che sono stati trovati due contenitori vuoti di alcol nella spazzatura. Altri due prigionieri hanno confermato le sue dichiarazioni, mentre il procuratore generale ha ordinato il completamento dell’indagine e un’autopsia sul corpo del regista.