Lettera aperta a lettori e amici di Ristretti Orizzonti di Ornella Favero Ristretti Orizzonti, 6 maggio 2020 Cari lettori e amici di Ristretti Orizzonti, vorrei aggiornarvi sulla situazione del nostro giornale e delle nostre attività. Ristretti Orizzonti, rivista cartacea: Noi volontari non possiamo entrare in carcere, ed è per questo che siamo così in ritardo con la pubblicazione della rivista. Ora il primo numero, fatto comunicando con i redattori-detenuti e raccogliendo materiali via mail, è pronto, anche se in forte ritardo, ma per fortuna sono quasi pronti altri due numeri, quindi contiamo di recuperare in fretta questo ritardo. Giornata di Studi nazionale, che doveva essere il 15 maggio. Se pensiamo al lavoro fatto in questi anni in redazione, ai percorsi che hanno coinvolto anche tante persone detenute dell’Alta Sicurezza, alla speranza che era nata dopo la sentenza della Corte Costituzionale, e guardiamo quello che sta succedendo in questi giorni, le rivolte e la disperazione, le campagne forsennate contro le scarcerazioni per motivi di salute dei “boss mafiosi”, ci pare che il virus stia riportando il dibattito, la lotta politica, l’informazione a trent’anni fa. Il programma della Giornata di studi era già pronto a febbraio, avevamo già contattato i relatori e scelto un tema, che oggi sarebbe più che mai attuale: la Giustizia e le parole. Il primo capitolo doveva riguardare la necessità di “Rieducare una collettività satura di notizie, ma povera di conoscenza”. In due mesi il mondo si è capovolto, e quella “povertà di conoscenza” della società sulle pene e sul carcere è diventata una vera catastrofe dell’informazione, ma noi vogliamo sperare che questa Giornata di Studi, diventata ancora più necessaria, si farà, speriamo entro la fine dell’anno, e ve ne proponiamo il programma in tutta la sua originalità e capacità innovativa. Giornata Nazionale di Studi Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti Venerdì 15 maggio 2020, ore 9 - 17, Casa di Reclusione di Padova La Giustizia di cui vorremmo parlare è quella che ha di recente descritto la presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia, “una giustizia davvero rinnovata che guarda al futuro piuttosto che pietrificarsi su fatti passati che pure sono incancellabili. È una giustizia volta a riconoscere, riparare, ricostruire, ristabilire, riconciliare, restaurare, ricominciare, ricomporre il tessuto sociale”, una giustizia caratterizzata, appunto, “dal prefisso ‘ri-’ che guarda in avanti e allude alla possibilità di una rinascita: senza cancellare nulla, anzi ricordando tutto, apre una prospettiva nuova per la singola esistenza individuale e per l’intera comunità”. Al magistrato allora spetta una missione fondamentale: saper ascoltare e, al contempo, farsi capire. “Compito del giudice è rendere ragione di ciò che ha deciso: farsi comprendere, convincere, persuadere. Giustizia e parola non possono andare disgiunte: né nell’azione dei soggetti processuali, né tanto meno in quella del giudice, chiamato a motivare, a rendere ragione della decisione presa”. Per ora però, la strada verso questa idea di Giustizia è lunga e lastricata di ostacoli, e tante sono le responsabilità, anche di chi, per dirla con Fabrizio De André, “si crede assolto”. “Rieducare” una collettività satura di notizie, ma povera di conoscenza Per Glauco Giostra, grande esperto di comunicazione in ambito giudiziario, “Limitarsi a disinfettare il vocabolario sociale, eliminando le parole culturalmente inquinanti, non basta. Pur dopo questa bonifica, rimarrebbero messaggi e slogan in grado di corrodere presso l’opinione pubblica la fiducia in alcune scelte di civiltà e di preparare il terreno per opzioni regressive”. Forse allora anche il giornalismo giudiziario ha bisogno di un percorso rieducativo che gli ridia credibilità e autorevolezza. - Glauco Giostra, Professore ordinario di diritto processuale penale, Università di Roma Sapienza Quel “giudichese”, fatto di taglia e incolla, che fa male alla Giustizia Dice la magistrata Stefania Di Tomassi: “Noi magistrati scriviamo in giudichese e spesso parliamo con un linguaggio molto pomposo. Io dico che è perché facciamo taglia e incolla, questo tipo di cose. Però oggi dobbiamo cambiare linguaggio”. Se infatti parliamo di Giustizia parliamo spesso di testi complicati, uso fastidioso del latino, frasi lunghissime, parole che danno l’impressione di essere usate per stabilire una distanza, un dislivello, una superiorità tra chi amministra la Giustizia e chi la Giustizia in un certo modo la subisce. Michele Cortelazzo, linguista e grande studioso del “giudichese”, afferma infatti che “scrivere bene non vuole dire scrivere tanto e complicato”, e si chiede se un certo tipo di linguaggio non sia in certi casi l’esercizio di una forma di potere, o ancora un “vizio” dettato dalla consuetudine e da certe cattive abitudini che si sono consolidate nell’ambito della giustizia. - Maria Stefania Di Tomassi, magistrata, presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione - Michele Cortelazzo, Professore ordinario di Linguistica italiana nel Dipartimento di Studi linguistici e letterari dell’Università di Padova. Il nucleo fondamentale delle sue ricerche riguarda l'italiano contemporaneo e le lingue speciali (linguaggio medico, scientifico, giuridico). Schiacciati dal gigantismo scrittorio-giudiziario Giovanni Fiandaca insegna diritto penale a Palermo e i processi di mafia li conosce e li studia da anni. E solleva il problema di una Giustizia che schiaccia con il peso di montagne di parole: “Di questo gigantismo scrittorio-giudiziario, di questa elefantiasi motivazionale rinveniamo esemplificazioni emblematiche, in particolare, nell'ambito dei grandi processi di criminalità politico-terroristica o di criminalità mafiosa”. - Giovanni Fiandaca è professore ordinario di diritto penale nell'Università di Palermo e Garante dei diritti dei detenuti della Regione Sicilia Avvocato o mediatore linguistico? Qualcuno sostiene che la funzione dell’avvocato è di fare il mediatore linguistico dei suoi clienti, come se non si potesse invece chiedere a giudici e avvocati di usare tutti un linguaggio più vicino alla lingua comune. Dice Guido Guerrieri, grande avvocato creato dalla fantasia di Gianrico Carofiglio, magistrato e scrittore: “Se in un’arringa o una requisitoria parli in italiano corretto, non ti riconoscono come uno del mestiere. Sei uno cui non dare credito”. E se invece di dare credito a quelli che parlano per non farsi capire li si denunciasse per il reato di “oltraggio alla lingua italiana”? - Gianpaolo Catanzariti, avvocato, Responsabile nazionale dell’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane La parola “sofferenza”, quella “degli innocenti” e quella “dei colpevoli” Nel suo libro “La mattina dopo” Mario Calabresi spiega che cos’è quella mattina che tante vittime conoscono, “quel risveglio che per un istante è normale, ma subito dopo viene aggredito dal dolore”. Ma si può distinguere fra sofferenza “degli innocenti” e sofferenza “dei colpevoli”? In carcere spesso ci si finisce da colpevoli, e ci si risveglia la mattina dopo da vittime, e questo non aiuta ad assumersi le proprie responsabilità. Sul valore, il significato, la durata della sofferenza si misureranno Chiara, che nella vita di “mattine dopo” drammatiche, fatte di malattie e dolore, ma anche della forza di rialzarsi, ne ha vissute tante, e le persone detenute della redazione. - A condurre un dialogo su parole come innocenza e responsabilità Matteo Caccia, che raccoglie scrive e racconta storie alla Radio e dal vivo, per iscritto e a voce. Lo ha fatto tra l’altro a Radio2 con Pascal, ora su Radio24 con la trasmissione Linee d’ombra. La parola “paura” nella relazione tra istituzioni, cittadini, informazione Roberto Cornelli è un criminologo che si occupa in particolare di populismo penale, la “politica della paura” con cui si alimentano i timori più irrazionali, spesso occultando le statistiche che documentano un calo della criminalità, al solo fine di ottenere il consenso della popolazione: “Come primo passo, visto che le persone dicono di aver paura di molte cose e non solo di terrorismo e criminalità, dobbiamo chiederci se siamo in grado di dare più spazio pubblico a quelle paure sociali che consentono di ritrovarsi uniti nella condizione di vulnerabilità umana e d’immaginare nuovi equilibri tra libertà e sicurezza all’insegna dell’inclusione nella sfera dei diritti di sempre più persone”. - Roberto Cornelli è Professore Associato presso l’Università di Milano-Bicocca dove attualmente insegna Diritto Penale e Criminologia e Sicurezza Urbana. È mediatore e svolge attività formative sui temi della giustizia riparativa e della gestione dei conflitti. Le parole nuove per dire no alla criminalità organizzata A credere nell’importanza di un cambiamento degli ex appartenenti alla criminalità organizzata, che non passa necessariamente per la collaborazione, a volte sono “insospettabili” come Stefano Musolino, sostituto procuratore a Reggio Calabria: “Diciamo che ho una discreta esperienza quantomeno della ‘ndrangheta e mi sono persuaso sempre di più, con una modifica tutto sommato di quelli che erano i miei convincimenti iniziali, che erano un po’ più tetragoni, un po’ più rigidi e anche radicali, che senza un autentico recupero delle persone, che parte prima di tutto dall’ambiente carcerario, questo problema non si risolve”. - Stefano Musolino, magistrato, per anni ha fatto il giudice a Reggio Calabria, poi per quattro anni il pubblico ministero a Palmi ed ora da più di otto anni lavora alla Direzione distrettuale antimafia a Reggio. Ricostruire un territorio anche a partire dalle parole Ricostruire un territorio devastato è quello che cerca di fare Giacchino Criaco, scrittore calabrese, affidandosi al potere straordinario delle parole: “Troveremo una via solo costruendo. E un modo per costruire è ritrovare le parole giuste per riannodare i fili di una storia che si è trasformata in cronaca nera. Le parole sono essenziali per un’esistenza collettiva, per essere un popolo, per sbagliare meno. Una parola al giorno e in un anno ci sarà un giardino di parole, una Calabria più vera”. - Gioacchino Criaco, scrittore è nato ad Africo. Ha esordito nel 2008 con il romanzo Anime nere, da cui è stato tratto il film omonimo diretto da Francesco Munzi. Di recente è uscito “La maligredi”, romanzo avventuroso di un ragazzo che sogna di cambiare il Sud. Partecipano ai lavori con le loro testimonianze i redattori detenuti di Ristretti Orizzonti, che dialogheranno con i loro famigliari, figli, genitori, fratelli, compagne. Coordinerà i lavori Adolfo Ceretti, Professore ordinario di Criminologia, Università di Milano-Bicocca, e Coordinatore Scientifico dell’Ufficio per la Mediazione Penale di Milano. È da poco uscita la sua autobiografia “”Il diavolo mi accarezza i capelli”. *Direttrice di Ristretti Orizzonti Carcere, l’uso della paura e la sfida per le riforme di Stefano Anastasia Il Manifesto, 6 maggio 2020 “Quindi la lezione è che un ministro della Giustizia conferma fiducia al capo delle carceri (riconoscendosi nel suo operato) se 13 detenuti muoiono in rivolte stile anni 70. Ma non più se pm/giornali/tv autoproclamati antimafia scatenano fuorvianti polemiche, e ottengono controriforme à la carte, quando giudici di sorveglianza applicano la legge nel non far morire in cella detenuti (pure boss) bisognosi di indifferibili cure”. In questa essenziale ricostruzione dei fatti (da me necessariamente sintetizzata) di Luigi Ferrarella (Corriere della sera, 3/5/2020) c’è il succo del passaggio politico-istituzionale che si è compiuto al Ministero della giustizia la scorsa settimana, nel pieno di un delicato cambio di fase in cui i positivi al virus in carcere ancora non diminuiscono, mentre il Ministro annuncia che tra due settimane i parenti potranno tornare a far visita ai loro congiunti detenuti. A governare l’emergenza sono stati chiamati due magistrati di diversa generazione, ma di analoga esperienza professionale, maturata principalmente (se non esclusivamente) nei ranghi della pubblica accusa e specificamente nell’azione penale contro la criminalità organizzata. Due magistrati, il Presidente Petralia e il suo Vice Tartaglia, del cui valore non si può dubitare, ma che dovranno confrontarsi con un mondo complesso e forse a loro in gran parte sconosciuto. D’altro canto, è bene ricordarlo, i detenuti in 41bis - di cui tanto si è discusso nelle scorse settimane - sono poco più dell’1% della popolazione detenuta e quelli a vario titolo coinvolti in associazione criminali poco più del 10%. Poi ci sono gli altri, la stragrande maggioranza, la “detenzione sociale” di cui parlava Sandro Margara, a cui nessuna particolare pericolosità sociale giustifica la compressione di diritti fondamentali e delle opportunità di reinserimento prescritte dalla Costituzione. Speriamo, dunque, che il nuovo vertice sappia ascoltare e prendere in fretta le redini del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Ce lo auguriamo e glielo auguriamo sinceramente. Rimane, però, da interrogare quella lezione messa in luce da Ferrarella: 13 morti non valgono due, tre, forse quattro assegnazioni al domicilio di vecchi capi mafia gravemente ammalati. Sappiamo quanto pesi sulla realtà della giustizia penale il suo abuso populista, che ha nel carcere il suo totem. La resistenza alla necessaria misura deflattiva della popolazione detenuta in occasione della pandemia trova ragione in quella cultura politica. Ma dall’altra parte cosa c’è? Sì, certo: il Papa, la Corte costituzionale, i magistrati e gli avvocati più avveduti, tanti ottimi operatori, professionali e volontari, le associazioni per i diritti e i garanti. Sì, va bene, ma nella scena politico-istituzionale chi persegue un disegno politico opposto a quello fondato sull’uso della paura a fini di consenso? Non si vede, in campo, un progetto opposto a quello della centralità del carcere e della sua esibizione come soluzione alle ingiustizie e alle sofferenze che pure attraversano il nostro mondo. Di questo, si è discusso, giovedì scorso, nell’assemblea de La Società della Ragione, piccola, ma combattiva associazione che ha al suo attivo importanti campagne, come quella che ha portato all’abolizione della legge Fini-Giovanardi, e coraggiose iniziative politiche e culturali per la riforma degli istituti di clemenza o della imputabilità dei malati di mente. Sfide ambiziose e, nell’immediato, forse impossibili, come certo doveva apparire quella di Davide contro Golia. Sfide al senso comune, che riaprirebbe i manicomi piuttosto che porre termine a una misura di sicurezza al di fuori di una istituzione di controllo. Eppure sfide essenziali, altrimenti in campo resteranno solo gli imprenditori politici della paura e la flebile resistenza del buon senso sarà inevitabilmente perdente. Carceri, la salute di Caino sotto il Covid-19 di Angelo Perrone* leurispes.it, 6 maggio 2020 Rivolte e proteste durante i mesi caldi del Covid-19, scarcerazioni eccellenti di mafiosi e narcotrafficanti. Poi l’inevitabile scossone al vertice dell’amministrazione penitenziaria, il ministro Bonafede nomina in gran fretta il nuovo capo del Dap, il magistrato Petralia, insieme al vice Tartaglia, per fronteggiare la situazione. Sono i passaggi più drammatici di questa fase di emergenza negli istituti di pena. Nella quale sono apparse evidenti la sottovalutazione dei problemi e l’impreparazione a fronteggiarli. Il Coronavirus non poteva risparmiare proprio le carceri, istituzioni chiuse per eccellenza, sovraffollate all’impossibile, più esposte al virus. Così ne ha fatto saltare i fragili equilibri interni, mettendo allo scoperto i problemi irrisolti. Era cominciato tutto con l’ammutinamento di alcuni detenuti, da febbraio in poi, nel pieno dell’epidemia, una protesta per le condizioni degli istituti, gravate da un sovraffollamento estremo che rende impossibili le precauzioni necessarie. Sommosse, reparti incendiati, servizi fuori uso, manifestazioni sui tetti. Nessun allarmismo, il virus ha iniziato a far vittime tra detenuti e personale. E oltre ai reclusi tanti altri sono esposti, i 40.000 che lavorano nelle carceri, tra penitenziaria, medici, volontari. Una risposta debole del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e della sua amministrazione, esortazioni a interrompere le proteste, poi si vedrà che cosa fare, con calma. Non saranno mancati scongiuri perché le cose non peggiorassero; invece, è accaduto proprio questo. Arriva l’inevitabile scarcerazione di tanti detenuti: un numero enorme, 376, che crea allarme. Hanno situazioni sanitarie gravi, non trattabili in carcere, soggette a peggiorare per la pandemia e scoppia la polemica perché non sono detenuti qualsiasi. Anzi, tra i più pericolosi e irriducibili. Sorveglianza speciale, casi da 41bis dell’ordinamento penitenziario, ancora in contatto con le organizzazioni criminali. Narcotrafficanti, omicidi, mafiosi. Spiccano i nomi dei boss, dal camorrista Zagaria, allo ‘ndranghetista Iannazzo, ai siciliani Bonura e Di Piazza. Tutti ora a casa, in famiglia, in detenzione domiciliare, con la possibilità, come temono i Pm antimafia, che riprendano, se mai li avevano interrotti, i contatti con le rispettive gang. Anche qui, la risposta è disarmante: andranno approfonditi i singoli casi per vedere il perché delle decisioni, chissà che i giudici, sempre loro, non abbiamo commesso errori marchiani. Poi le ispezioni, gettiamo un’occhiata di persona, ci saranno magari colpevoli da additare al pubblico ludibrio. Si cerca altrove ciò che è sotto gli occhi. Non manca la bacchetta magica, la previsione che i giudici chiedano sempre il parere dei Pm antimafia, quelli oggi più preoccupati, prima di qualsiasi decisione. Così non si potrà dire che le situazioni pericolose non siano state segnalate a dovere. Un agitarsi confuso ed inefficace, come se tutto non fosse già chiaro, eclatante, soprattutto noto, da tempo. Quali cose? Per cominciare, l’affollamento. Perenne questione, mai risolta, presentata ogni volta come emergenza, mentre non lo è. Si tratta di una disfunzione endemica, denunciata più volte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. La disponibilità di posti rispetto alle esigenze? Sempre insufficiente. Oggi sono 53.000 i reclusi a fronte di una capienza di 47.000 posti, ma erano 61.000 prima che tutto questo accadesse. A seguire, c’è la refrattarietà alla costruzione di nuove carceri, come avviene in ogni paese, secondo una normale proporzione tra popolazione, flussi criminali, e casi di detenzione; non si pensa che, tra le infrastrutture necessarie al Paese, ci siano anche queste. Si invoca sicurezza sociale, non si lavora per realizzarne gli strumenti. Ce ne vogliono in tutte le direzioni certo, ma servono anche in questo campo. Per continuare, l’eccesso di criminalizzazione della vita sociale (si è visto anche all’inizio del Coronavirus) a dispetto di sistemi sanzionatori più veloci ed efficaci. E la mancanza di misure alternative al carcere, basate però su controlli sicuri. Si indugia nei proclami, nelle vanterie, come quella recente sulla disponibilità di migliaia di braccialetti elettronici per sorvegliare gli arrestati domiciliari. È cronica la mancanza ovunque di questi strumenti, che non avrebbero un costo elevato e che eviterebbero di sprecare il lavoro della Polizia in continui controlli personali, spesso inefficaci. Infine, la cosa più grave: l’affossamento della riforma (Governo Gentiloni) dell’ordinamento penitenziario, vecchio di 43 anni. Disegnava un altro modello di carcere, sicuro ma attento ai processi di reinserimento sociale perché è documentato che la recidiva è inversamente proporzionale al lavoro. Più si sconta la pena in modo utile, imparando un mestiere, e meno poi si delinque quando si esce. A parte il fine rieducativo della pena, che pure dovrebbe essere assorbente, si tratta di un’impostazione utile alla società, che così con deve fronteggiare la reiterazione del crimine. Che oltre tutto era concepita in modo assennato, escludendo ogni automatismo. Si ottiene ciò che si dimostra di meritare, anche con il ripensamento della propria vita precedente. Questioni mai affrontate seriamente, pretesti buoni per vie di fuga, o per immancabili propositi di condoni come rimedio dell’ultima ora. Accontentano i delinquenti, tranquillizzano le coscienze dei benpensanti a corto di idee, liberano spazio nelle carceri, scongiurano le rivolte, insomma tutto ok. Quanto alla sicurezza da garantire ai cittadini tutti, sarà per un’altra volta. Il Coronavirus coagula tutte le questioni in sospeso e provoca uno scossone all’impianto. Così, da ultimo, cadono le teste. Quella del capo del Dap, Basentini. Protagonista del più eclatante degli episodi di negligenza e trascuratezza. Che fa da detonatore. Il suo ufficio più volte non risponde al Tribunale di sorveglianza di Sassari sulle richieste di provvedere a trovare una nuova sistemazione sanitaria al boss camorrista Zagaria; lo fa solo a tempo scaduto quando ormai i giudici hanno deciso l’inevitabile scarcerazione. La liberazione di Zagaria è di per sé scandalosa, ancorché inevitabile, ma si ricollega alla mancata predisposizione di attrezzature sanitarie adeguate a fronte dell’avanzata nel virus. È questo il vero nodo sul quale tutto si è aggrovigliato, fino a far esplodere la situazione. Una grave sottovalutazione delle difficoltà alle quali il sistema sarebbe andato incontro, ampiamente prevedibili. Difficile non vedere le responsabilità politiche, non solo perché a volere il dimissionato Basentini è stato sempre il ministro Bonafede, che ora ne ha avuto la testa, ma perché dall’inizio del mandato, nel 2008, la situazione non è cambiata, anzi si è aggravata. Non basterà cambiare il capo di un dipartimento per trasformare la vita in cella, e ancor più per restituire alle carceri sicurezza e dignità. *Giurista, è stato pubblico ministero e giudice Il Pd non è giustizialista, avvisare le procure antimafia è buon senso di Franco Mirabelli* Il Riformista, 6 maggio 2020 Le recenti polemiche sulle scarcerazioni di diversi, forse troppi, uomini legati alla mafia e detenuti in alta sicurezza o per il 41 bis, richiedono alcune precisazioni. Innanzitutto credo sia senza fondamento l’idea di riconoscere in questo passaggio, nella preoccupazione per l’uscita dei boss e nelle norme contenute nel recente decreto, una svolta giustizialista del Pd. In questi mesi abbiamo lavorato e lavoriamo in coerenza col passato. Sia sull’emergenza carceri come sulla riforma del processo penale per noi resta centrale il tema dell’allargamento degli spazi per l’utilizzo delle pene alternative al carcere, per introdurre misure fondate sul risarcimento a fronte dei reati meno gravi, per non far entrare nel circuito penale gli autori di reati bagattellari. Ricordo che è stato il Pd ad impedire che la direzione delle carceri cambiasse natura dando, come si voleva fare col riordino delle carriere, ai comandanti degli agenti le stesse funzioni attribuite ai direttori. Avevamo e abbiamo questa idea della pena, siamo ancorati ai principi costituzionali e consideriamo prioritario l’obbiettivo di garantire a chi viene condannato la possibilità di trovare percorsi non solo punitivi ma utili per avere a fine pena possibilità di reinserimento e per trovare opportunità di vita che rompano col passato. In secondo luogo non è vero che ci sia da parte nostra alcuna volontà di ridimensionare il ruolo della magistratura di sorveglianza. Abbiamo difeso e continueremo a difendere le prerogative e l’autonomia di chi deve decidere sui benefici e valutare i percorsi e le condizioni di salute dei detenuti. Anzi abbiamo riconosciuto l’importanza delle decisioni assunte, in questi difficili mesi in cui il Covid19 ha reso esplosiva la questione della sovrappopolazione delle carceri, che hanno consentito di ridurre la popolazione carceraria da 61 a 53 mila unità. È grazie alle normative vecchie e nuove, ma soprattutto al lavoro dei magistrati di sorveglianza, se ciò è avvenuto e di questo l’intero Paese deve essere loro grato. Per noi esprimere preoccupazione, che dovrebbe essere di tutti, per il numero significativo di boss mafiosi tornati a casa non significa, e lo abbiamo detto a chiare lettere anche in Antimafia, accusare la magistratura ma piuttosto guardare agli errori e alle sottovalutazioni del DAP nella gestione delle richieste di benefici da parte di detenuti dell’alta sicurezza o per il 41 bis, che, in corrispondenza della pandemia, si sono moltiplicate. Su questo e non certo sul lavoro della magistratura la stessa commissione Antimafia ha deciso di indagare. Detto questo resta il punto di come rispondiamo al clamore che hanno suscitato, in particolare, alcune scarcerazioni. Questo non deve e non può rischiare di tradursi nell’idea di uno Stato che ha abbassato la guardia nella lotta alla mafia. È un problema che riguarda tutti coloro che hanno a cuore la battaglia contro la criminalità organizzata. Affrontare questa questione riproducendo la narrazione di una contrapposizione tra giustizialisti e garantisti è sbagliato. Non è questo il tema. Il tema è come mettiamo i capi mafia nelle condizioni di non nuocere più alla società pur rispettando il loro inalienabile diritto alla salute. Per comprendere meglio e evitare di considerare la norma contenuta nell’ultimo decreto come una violazione dell’autonomia della magistratura di sorveglianza, o peggio un atto ostile o, addirittura, eversivo perché interverrebbe con decreto su una modifica delle competenze, vorrei stare al merito. C’è una norma dell’ordinamento carcerario (l’articolo 4bis al comma 3 bis) che dice che permessi premio e misure alternative al carcere non possono essere concessi se il procuratore nazionale antimafia o il procuratore distrettuale comunicano che permangono collegamenti con la criminalità organizzata. Con la norma contenuta nel decreto si chiede semplicemente ai magistrati di sorveglianza, prima di prendere decisioni, di informare questi soggetti in modo che essi possano verificare se permangono collegamenti dei detenuti con le mafie che renderebbero pericolosa la scarcerazione. Mi pare una norma di buon senso. Trarre da questa misura l’idea che governo e Pd sono appiattiti su posizioni giustizialiste mi pare, onestamente, difficile. *Senatore del Partito Democratico Risponde Piero Sansonetti Senatore Mirabelli, vorrei farle solo una domanda. Secondo lei fare uscire dal carcere un signore di 80 anni, gravemente malato di tumore, che ha già scontato quasi per intero la sua condanna a 18 anni (gli mancano 8 mesi) che non ha mai ucciso nessuno né mai ha ordinato un omicidio (condannato per estorsione) equivale a mettere in libertà il gotha dei boss mafiosi? Sa perché glielo chiedo? Io penso che il giustizialismo sia questo: lanciare allarmi infondati e chiedere misure d’eccezione per fronteggiarli. A spese dei diritti di tutti. Lei non crede che il suo partito, in questi giorni, sia corso appresso ai giustizialisti? 376 boss scarcerati, ecco la lista riservata che allarma le procure di Salvo Palazzolo La Repubblica, 6 maggio 2020 Ecco il documento riservato del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che preoccupa l’Antimafia. Ci sono i nomi dei 376 uomini dei clan e narcotrafficanti messi ai domiciliari per motivi di salute e rischio Covid. Da Palermo a Napoli, a Milano. L’elenco inviato solo una settimana fa alla commissione Antimafia. Ogni giorno, per le forze dell’ordine, è un O lavoro complicato controllarli tutti nelle loro abitazioni. Più volte, anche di notte. Sono 376 fra mafiosi e trafficanti di droga. A Palermo, 61. A Napoli, 67. A Roma, 44. A Catanzaro, 41. A Milano, 38. A Torino, 16. Tutti mandati ai domiciliari per motivi di salute e rischio Covid, nell’ultimo mese e mezzo. Una lista riservata che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha inviato solo mercoledì scorso alla commissione parlamentare antimafia, che l’aveva sollecitata più volte al capo del Dap Francesco Basentini, che alla fine si è dimesso, travolto dalle polemiche per le scarcerazioni. Una lista che preoccupa anche i magistrati delle procure distrettuali antimafia, dalla Sicilia alla Lombardia, che continuano ad opporsi al ritorno dei boss nelle loro abitazioni, sollecitando piuttosto il trasferimento in centri medici penitenziari, che peraltro sono strutture di eccellenza della nostra sanità. “Il diritto alla salute è sacrosanto - hanno ribadito nei giorni scorsi i pm di Palermo in un’udienza in cui si discuteva dell’ennesima richiesta di scarcerazione - ma i domiciliari sono assolutamente inidonei per soggetti ad alta pericolosità”. Perché resta forte il rischio che i mafiosi continuino a comunicare con il clan. Soprattutto quando così tanti, all’improvviso, si ritrovano nei propri territori. Ecco perché i controlli delle forze dell’ordine continuano senza sosta, come disposto dal ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. L’elenco Le cinque pagine della lista riservata del Dap svelano che adesso si trova ai domiciliari uno dei boss più pericolosi di Palermo: Antonino Sacco, l’erede dei fratelli Graviano, gli uomini delle stragi del 1992-1993, per i magistrati faceva parte del triumvirato che ha retto di recente il potente mandamento di Brancaccio. Ai domiciliari è tornato anche Gino Bontempo, uno dei padrini della mafia dei pascoli che fino a gennaio dettava legge sui Nebrodi: dopo aver finito di scontare un’altra condanna aveva messo in piedi una rete di insospettabili professionisti per una maxi truffa all’Unione Europea, così ha razziato finanziamenti per milioni di euro. Ai domiciliari, per motivi di salute, è tornato anche Francesco Ventrici, uno dei principali broker del traffico internazionale di cocaina, che trattava direttamente con i narcos colombiani. Come un altro manager a servizio della ‘Ndrangheta, Fabio Costantino, della famiglia Mancuso di Limbadi. L’elenco del Dap è ordinato per carcere e per giorno in cui è stato emesso il provvedimento del giudice. Dall’inizio di marzo a qualche giorno fa. Alcuni detenuti stanno scontando una condanna definitiva, dunque la decisione è stata dei tribunali di sorveglianza. Altri sono ancora in attesa di giudizio, su questi il ministero della Giustizia non ha alcuna competenza, tutte le valutazioni spettano a gip, tribunali e corti di d’appello. Ma sono i numeri a fare impressione. Anche se dal 41bis sono usciti solo in tre: il camorrista Pasquale Zagaria, il palermitano Francesco Bonura e lo ‘ndranghetista Vincenzo Iannazzo. Tutti di altri erano però inseriti nei reparti della cosiddetta “Alta sicurezza 3”, il circuito che ospita l’esercito di mafie e gang della droga, 9.000 detenuti in totale. Fra loro, i “colonnelli” che secondo le procure e le forze dell’ordine hanno in mano gli affari e i segreti dei clan. La circolare - La lista arrivata alla commissione parlamentare antimafia svela anche un altro numero destinato ad alimentare le polemiche di questi giorni: per 63 detenuti dell’Alta sicurezza sono stati i direttori degli istituti penitenziari a sollecitare la magistratura ad adottare provvedimenti, così come disponeva la circolare del Dap del 21 marzo, quella che voleva preservare i detenuti con alcune patologie dal rischio Covid. E in assenza di un piano di trasferimenti predisposto dal Dap nei centri medici penitenziari i giudici non hanno potuto far altro che disporre i domiciliari per tutti. E, ora, resta quell’elenco dei 376. Dietro ogni nome, le storie di uomini e donne con problemi di salute e il loro diritto a essere curati. Ma anche le storie di uomini e donne che hanno segnato le pagine più drammatiche delle nostre città. Storie che spesso si intrecciano con quelle di chi ha trovato il coraggio di ribellarsi alle mafie. Ciro Quindici, del clan Mazzarella di Napoli, anche lui adesso ai domiciliari, fu denunciato da un ambulante del rione Forcella, stanco di pagare il pizzo. Anche Emilio Pisano, il cognato del boss di Arena ora tornato in Calabria, venne denunciato da un cittadino coraggioso: un imprenditore che non voleva pagare la tassa mafiosa del 5 per cento sull’appalto che si era aggiudicato. A Reggio Emilia, un commerciante aveva invece denunciato gli esattori del clan Grande Aratri, fra loro c’era Marcello Muto, un altro nome segnalato dal Dap. Nella lista adesso al vaglio dell’Antimafia ci sono soprattutto i nomi di chi continua a conservare tanti segreti. Giosuè Fioretto era uno dei cassieri dei Casalesi. Rosalia Di Trapani non era solo la moglie del boss della Cupola Salvatore Lo Piccolo, era la sua consigliera. Nicola Capriati era un manager della droga inviato in missione dalla Sacra Corona Unita a Verona. Vito D’Angelo è uno degli anziani della nuova Cosa nostra dell’imprendibile Matteo Messina Denaro, latitante dal 1993. Eccola, la preoccupazione più grande di magistrati e investigatori. Ognuno di questi uomini tornati a casa conserva un pezzo di segreto. Più o meno grande. Su patrimoni mai trovati, su relazioni mai scoperte. I segreti che potrebbero diventare il terreno della riorganizzazione delle mafie. Il suggerimento manettaro di Martelli a Bonafede: riarrestali! di Tiziana Maiolo Il Riformista, 6 maggio 2020 È quello che aveva fatto lui nel 1991 quando erano stati scarcerati 43 imputati di reati di mafia. Secondo lui l’attuale ministro dovrebbe fare lo stesso rispetto alle decisioni dei giudici di sorveglianza. Nella serata in cui si consumava la rissa di stampo forcaiolo tra un ministro di Giustizia in carica e un magistrato che ambirebbe a sedersi al suo posto, è passato inosservato un suggerimento arrivato da un ex guardasigilli. Il ministro Bonafede, ha detto Claudio Martelli nella puntata della trasmissione “Non è l’arena”, avrebbe dovuto fare come me. I magistrati scarcerano i mafiosi? E tu li fai riarrestare dando una diversa interpretazione della legge che li ha fatti uscire di galera. È storia vera, lui ha proprio fatto così, quando era ministro. Con una grave interferenza del potere esecutivo sull’autonomia della magistratura che quella volta, nel nome della lotta alla mafia, fu accettata in un silenzio tombale da giudici, giuristi e sindacalisti in toga. Era il 1991, era da poco terminato con una raffica di condanne il maxiprocesso di Palermo, voluto tenacemente da Giovanni Falcone. Se la magistratura aveva vinto la sua battaglia, non altrettanto si poteva dire del governo Andreotti che già portava i segni della fine della Prima repubblica. La gran parte dei boss mafiosi, a partire da Totò Riina, era infatti latitante e apparentemente irraggiungibile. Il maxiprocesso aveva segnato anche la fine del sistema inquisitorio, retaggio anch’esso di un sistema che andava morendo. Dal 24 ottobre del 1989 era in vigore il nuovo sistema processuale accusatorio. Solo “tendenzialmente”, purtroppo, recitava la relazione introduttiva. Era giunta l’ora di cominciare ad applicarlo. Da bravo primo della classe, toccherà al giudice Corrado Carnevale, presidente della prima sezione della corte di Cassazione, rompere il ghiaccio. Le carceri traboccavano di detenuti in custodia cautelare, anche a causa di termini lunghissimi di detenzione, che però il nuovo codice riduceva sensibilmente. Così, ricalcolandone i tempi, la Cassazione dispose la scarcerazione di 43 imputati di reati di mafia. Scoppiò il finimondo. Tutti erano d’accordo sul fatto che i termini di custodia cautelare fossero proprio scaduti, ma un’interpretazione di tipo sostanzialistico sosteneva che il legislatore, anche se non lo aveva scritto nella relazione introduttiva alla riforma, avrebbe avuto l’intenzione di “congelare” i tempi processuali in relazione a persone detenute. I 43 furono comunque scarcerati e il mondo politico impazzì. Ecco dunque che cosa inventò un governo debole e incapace di combattere la mafia per esempio scovando e facendo arrestare i latitanti. Su iniziativa dei ministri Scotti (Interni) e Martelli (Giustizia), la coppia più muscolare e sostanzialista della storia passata, il governo emise un decreto legge di interpretazione della norma e, quel che è più grave, retroattiva. Lo fece 16 giorni dopo la sentenza. E quando nella notte le forze dell’ordine andarono a riarrestare i 43, li trovarono tutti nel loro letto, nelle loro case. Nessuno era scappato. Mai si era visto un governo comportarsi come un super-tribunale, come un quarto grado di giudizio inappellabile. Non risulta ci siano stati scioperi di magistrati o vibranti proteste dell’Anm per difendere l’autonomia della magistratura in quei giorni. E chissà che cosa potrebbe accadere oggi se il ministro Bonafede accogliesse il suggerimento di Martelli e facesse votare al governo un decreto “interpretativo” della norma che consente di scarcerare i detenuti le cui condizioni di salute sono incompatibili con il carcere. Il Pds del 1991, che era all’opposizione del governo Andreotti, votò la conversione in legge di quel decreto, con grande mal di pancia di Stefano Rodotà, che non lo condivideva per nulla, insieme a un piccolo drappello di socialisti. Di quei partiti non ne esiste più nessuno oggi in Parlamento, con l’eccezione per gli eredi del Pds. Sarebbe interessante sapere per esempio che cosa penserebbe Matteo Renzi di quel tipo di iniziativa di politica giudiziaria. E anche qualche giurista, visto che allora si scomodarono in favore del provvedimento giuristi come Neppi Modona e Vittorio Grevi. E il giudice Carnevale, il più preparato, puntiglioso e formalista, era rimasto isolato. I ministri Scotti e Martelli poterono così proseguire quel tipo di politica giudiziaria, soprattutto dopo quel che accadde nell’anno successivo, con le uccisioni per mano della mafia di Falcone e Borsellino. Sono i giorni della fretta, il governo ha il fiato sul collo dell’opinione pubblica perché Totò Riina è ancora uccel di bosco, perché c’è una grande debolezza economica, tanto che il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi chiede al governo un immediato risanamento della finanza pubblica con una manovra di 30.000 miliardi di lire per il 1992 e una da 100.000 per il 1993. Viene frettolosamente eletto presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, che sarà uno dei peggiori. E il Parlamento approverà il famoso decreto Scotti-Martelli, ultimo provvedimento di un governo ormai dimissionario, impregnato più di vendetta che di diritto. Che interviene non solo per combattere la criminalità mafiosa, ma in senso peggiorativo sull’intero processo. Da lì nasce per esempio il famoso “ergastolo ostativo”, solo oggi messo in discussione dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e dalla Corte Costituzionale. Questa è la storia. Ed è singolare che colui che, nonostante in quelle occasioni e soprattutto dopo l’uccisione di Falcone abbia imbarbarito il processo sotto un impulso emotivo, è stato comunque un buon ministro, suggerisca oggi di imboccare quella strada a un pessimo ministro come Bonafede. Come mettere un kalashnikov in mano a un bambino. Ed è ancora più strano che Claudio Martelli, che è stato poi a sua volta vittima del furore giustizialista di quegli anni, possa ancora rivendicare a proprio merito quel tipo di provvedimenti. Emergenziali, certo. Ma le peggiori leggi, dai tempi del terrorismo e poi delle stragi mafiose e infine dei reati contro la pubblica amministrazione, sono proprio quelle ispirate dalle emergenze del momento. Ieri e oggi. Sul caso Dap Di Matteo non arretra: “Ho riferito fatti, non percezioni” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 6 maggio 2020 Lo sfogo dell’ex pm: non so se ci siano stati condizionamenti politici. Critiche dai M5S del Csm. Chiuso al lavoro nella sede del Consiglio superiore della magistratura, Nino Di Matteo evita di tornare sulla polemica con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede innescata dalla telefonata in diretta tv sulla sua mancata nomina a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Ma continua a ritenere di non aver sbagliato a rivelare il retroscena di due anni fa. “Ho esposto dei fatti, non percezioni; e non faccio illazioni, ognuno può trarne le conseguenze che crede”, ripete a chi gli chiede se non abbia avuto ripensamenti sull’opportunità della chiamata a “Non è l’arena”, su La7, a trasmissione in corso: “Era stato tirato in ballo il mio nome, e allora ho pensato che fosse giusto intervenire”. Per stabilire la verità dei fatti, che invece Bonafede ha ricostruito in maniera diversa. L’accostamento con i timori dei boss per la sua nomina al ripensamento sull’incarico è la cosa che più ha indignato il ministro, ma anche di fronte a questo Di Matteo non arretra. “Non so se sia stata una scelta autonoma o indotta da altri”, ribadisce a proposito di presunte pressioni, politiche o di altro genere, ricevute da Bonafede per cambiare idea; l’aveva detto in tv e continua a ripeterlo. Lui non ha mai accusato Bonafede di essere stato intimidito, ma nelle sue riflessioni ribadisce che proprio in presenza di quelle intercettazioni in carcere “il voltafaccia del ministro” non fu un bel segnale per il contrasto alla mafia. E l’amarezza provata a giugno 2018 - quando il Guardasigilli gli disse prima “scelga lei” e l’indomani, di fronte alla sua scelta per il vertice del Dap, gli comunicò che aveva già scelto un altro - è la stessa di allora: “Io non ho secondi fini, come non ne avevo quando fui contattato dal ministro. Fu lui a cercarmi, non io. E ho ritenuto di fare quella telefonata anche perché il ministro aveva appena nominato un nuovo capo del Dap, dunque nessuno poteva più strumentalizzare le mie parole sostenendo che volessi quel posto”. Dentro il Csm, a bacchettare l’ex pm sono i tre componenti laici indicati dai Cinque Stelle (Alberto Benedetti, Filippo Donati e Fulvio Gigliotti), che accusano: “I consiglieri dovrebbero più di chiunque altro osservare continenza e cautela nell’esprimere le proprie opinioni, proprio per evitare di alimentare speculazioni e strumentalizzazioni politico- mediatiche che fanno male alla giustizia e minano l’autorevolezza del Csm”. Ma nella base del Movimento si fanno sentire i malumori per le rivelazioni di Di Matteo, sebbene lo stato maggiore del partito sia schierato con Bonafede. E il senatore grillino Nicola Morra, presidente della commissione Antimafia, prova a mediare: “Uomini come Di Matteo, eroe e galantuomo, non possono essere messi in discussione, al pari delle politiche antimafia promosse dal M55”. Il ministro riferirà in Parlamento, forse già oggi o domani, come chiesto ormai da tutti i partiti. Se l’improvviso “voltafaccia” viene derubricato a equivoco dimenticando la trasparenza di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 6 maggio 2020 Le mancate risposte sulla scelta (legittima) del ministro. Un equivoco. Sgradevole quanto si vuole ma pur sempre un equivoco, niente di più. Così il Guardasigilli Alfonso Bonafede prova a chiudere l’incidente con l’ex pubblico ministero antimafia Nino Di Matteo. Icona grillina della prima ora, e forse anche per questo individuato come possibile governatore delle carceri italiane dallo stesso ministro della Giustizia, appena insediatosi nel giugno 2018. Ma nel giro di ventiquattr’ore la proposta fu ritirata, con un “voltafaccia” di cui il magistrato non ha mai avuto spiegazioni. Oggi una spiegazione è arrivata: quella del malinteso, per l’appunto. Che però non può bastare, perché non si può declassare a fraintendimento la ritrattazione di un’offerta così importante che nemmeno il ministro smentisce. Né è credibile immaginare che l’altro incarico prospettato a Di Matteo e improvvisamente ritenuto “più adatto” (il posto di Direttore generale degli Affari penali del ministero), potesse essere considerato equivalente o addirittura migliore. Dire che “fu l’ufficio di Giovanni Falcone” è solo un altro slogan, perché nel frattempo quell’ufficio è stato depotenziato, ha cambiato collocazione e competenze, e si sarebbe dovuto mettere mano a una riforma per riportarlo a qualcosa di equiparabile a quello che era. Le ricostruzioni dei due contendenti divergono soprattutto sulla percezione avuta da Di Matteo nel primo colloquio con il ministro, il quale aveva capito che “fossimo concordi su quella collocazione”, mentre il magistrato intendeva accettare l’altra. Ma al di là dell’equivoco più o meno credibile, il nodo che Bonafede non ha sciolto resta un altro: perché ha cambiato idea rinunciando a nominare l’ex pm della trattativa Stato-mafia al vertice dell’Amministrazione penitenziaria? Scelta legittima e persino insindacabile, per carità. Se però si decide di darne conto - sia pure attraverso una irrituale telefonata semi-notturna in diretta televisiva, in risposta a un’altrettanto irrituale chiamata in cui il magistrato ha svelato il retroscena taciuto per due anni -la motivazione dev’essere almeno verosimile. Bonafede s’indigna all’insinuazione che il dietrofront fu dovuto alle proteste dei detenuti mafiosi per il temuto arrivo di Di Matteo, e ne ha tutto il diritto. Tuttavia un’altra ragione ci deve essere per aver virato, dalla sera al mattino, su un altro candidato: Francesco Basentini, nome che al popolo grillino diceva poco o niente. Non per questo non adatto all’incarico, sebbene i due anni di gestione e l’epilogo consumatosi pochi giorni fa possano legittimare i dubbi. Ma continua a mancare un chiarimento. Divenuto ormai ineludibile secondo i canoni istituzionali, prima ancora che del Movimento Cinque Stelle di cui Bonafede guida la delegazione governativa. Se il ministro non avesse replicato all’irruzione di Di Matteo (anch’essa discutibile, visto il ruolo istituzionale che ricopre da componente del Consiglio superiore della magistratura), o si fosse limitato a respingere ogni sospetto rivendicando la propria autonomia nelle scelte politiche di così alto livello, avrebbe forse potuto chiudere il caso. Con spiegazioni poco plausibili invece no. È possibile che la repentina marcia indietro del ministro su Di Matteo sia dovuta a qualche consiglio arrivato nel breve intervallo tra la prima e la seconda proposta, come ipotizzato dallo stesso magistrato. Ma pure in questo caso, visto che ormai l’episodio è stato squadernato in diretta tv, sarebbe meglio dirlo. Senza necessità di svelare altri particolari. Un ripensamento, autonomo o indotto, non è motivo di scandalo. Basta essere chiari, una volta che ci si inerpica sulla strada della trasparenza. Sempre più invocata che praticata, secondo vizi antichi che nemmeno la politica sedicente nuova riesce a scrollarsi di dosso. L’assurdo silenzio di Mattarella e di Ermini di Franco Corleone Il Riformista, 6 maggio 2020 Il capo dello Stato dovrebbe intervenire dopo lo scontro di un esponente del governo e di un rappresentante del Csm. Una volta ci si lamentava che “Porta a porta” di Bruno Vespa costituisse la Terza Camera, oggi con la crisi conclamata del Parlamento ci si è ridotti alla copia riveduta e scorretta di un giornalista che preferisco non nominare. Durante una trasmissione televisiva il magistrato Nino Di Matteo che fa parte del Csm e il ministro della Giustizia Bonafede si sono esibiti in un duetto sgangherato sulla mancata nomina di Di Matteo a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nel 2018. Non si capisce la ragione della rivelazione dopo due anni, ma se viene fatta da chi vive di teoremi e complotti, non può essere casuale. Forse si tratta della ripicca per la mancata seconda offerta dopo le dimissioni di Basentini, messo sulla graticola per una presunta responsabilità nella scarcerazione di alcuni detenuti eccellenti per gravi patologie. Altre erano le responsabilità del vertice del Dap che di fronte a una vera possibile emergenza sanitaria annunciò misure restrittive senza alcun dialogo e provocò rivolte in più di venti carceri come non accadeva da cinquant’anni. Una vera Caporetto che non ha ancora trovato una soluzione di monitoraggio, prevenzione e cura: solo la fortuna ha evitato che in galera non si sia verificata un’ecatombe simile a quella toccata agli ospiti delle case di riposo. Le misure nei decreti per ridurre il sovraffollamento sono state timide, prudenti e condite con il rilancio del rassicurante braccialetto (in realtà cavigliera), fino ad ora noto solo per lo sperpero di denaro pubblico. In realtà nelle celle si continua ad essere troppo vicini e con condizioni igieniche e sanitarie deplorevoli, con i lavandini attaccati alla tazza del cesso. Ma per le vestali della legalità, questa non è una vergogna sesquipedale da eliminare immediatamente. Lo scandalo si concretizza quando alcuni magistrati di sorveglianza decidono l’incompatibilità con la detenzione domiciliare per alcuni detenuti di calibro gravemente malati e prossimi al fine pena. Nessuna considerazione per 13 detenuti morti, invece. Pietà l’è morta, davvero. Torniamo al battibecco tra Di Matteo e Bonafede che ha al centro l’accusa al ministro di non avere proceduto alla nomina del magistrato palermitano al capo del Dap per paura delle reazioni dei capi mafia ristretti nelle sezioni del 41bis. La difesa di Bonafede è patetica. Viene svelato un triste mercato per l’occupazione di fondamentali incarichi di responsabilità. Altro che la vituperata lottizzazione della Prima Repubblica. Di fronte a questo spettacolo increscioso (miserabile, avrebbe detto Ugo La Malfa), è inquietante il silenzio del presidente della Repubblica che nomina i ministri sulla base di un giuramento che impegna a esercitare le funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione e che è il presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Nemmeno una parola da parte del vice presidente del Csm David Ermini. Le istituzioni ricevono un duro colpo e la crisi della democrazia e dello Stato di diritto pare irrimediabile. Sono solo peccati di omissione o segno di complicità? Neppure la pandemia fa prevalere il senso di umanità e l’egemonia giustizialista mette nell’angolo il Papa e la sua Via Crucis, la Corte Costituzionale e le sue sentenze, i magistrati garantisti e gli avvocati impegnati con i volontari e i garanti per i diritti. Manca la politica e un soggetto politico con l’ambizione di perseguire un disegno alternativo al populismo penale. La “Società della Ragione” che negli scorsi anni si è battuta per la cancellazione della legge Fini-Giovanardi sulle droghe e per la chiusura degli Opg, nella sua assemblea del 30 aprile ha deciso di lanciare una sfida ambiziosa. Ripresentare nel Libro Bianco sugli effetti della legge antidroga a fine giugno una proposta di una riforma radicale; il 29 luglio nell’anniversario della morte di Sandro Margara porre sul tappeto i cambiamenti del carcere per rispettare la Costituzione; infine lanciare una campagna per la modifica degli strumenti di clemenza (amnistia, indulto e grazia) e delle norme del Codice Rocco sull’imputabilità dei malati di mente. Proprio ora nel fuoco della crisi sociale va scritta con coraggio un’agenda del cambiamento, contro l’arroganza del senso comune e della paura. Csm. I consiglieri 5Stelle criticano Di Matteo: “Serve cautela e continenza” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 6 maggio 2020 La bacchettata dei membri grillini del Csm. “Continenza e cautela”. Arriva dai consiglieri del Csm in quota M5s il primo “stop” alle esternazioni di Nino Di Matteo. Con una nota, i laici pentastellati Alberto Maria Benedetti, Filippo Donati e Fulvio Gigliotti ricordano che “i consiglieri del Csm, togati e laici, dovrebbero, più di chiunque altro, osservare continenza e cautela nell’esprimere, specialmente ai media, le proprie opinioni, proprio per evitare di alimentare speculazioni e strumentalizzazioni politico-mediatiche che fanno male alla giustizia e minano l’autorevolezza del Consiglio”. Oggetto della reprimenda, pur senza mai citarlo, l’ex pm antimafia Nino Di Matteo e la sua dura presa di posizione nei confronti del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede durante l’ultima puntata della trasmissione Non è l’arena di Massimo Giletti su La7. Di Matteo, intervistato domenica scorsa a proposito delle recenti scarcerazioni di detenuti sottoposti al regime del 41 bis, aveva “accusato” Bonafede di aver sostanzialmente ceduto ai boss non nominandolo al vertice del Dap. Una vicenda “tenuta riservata” (parole del magistrato siciliano) fino ad ora e gettata sulla pubblica piazza a distanza di due anni. Le affermazioni di Di Matteo avevano scatenato una violenta polemica politica con la richiesta, da parte delle opposizioni e dei renziani di Italia viva, di dimissioni di Bonafede che, oltre ad essere il ministro della Giustizia è anche il capo delegazione del Movimento. Esprimiamo, proseguono i tre consiglieri, “forte preoccupazione per il clima venutosi a creare, specie in un momento in cui la giustizia necessiterebbe di unità e collaborazione tra tutti gli operatori, nell’interesse del Paese e dei cittadini. Chi ha l’onore di ricoprire un incarico di così grande rilievo costituzionale, deve sapersi auto- limitare; questo non significa - aggiungono, quindi, i laici del M5s - rinunciare a esprimere le proprie opinioni, ma vuole dire farlo nelle forme e nei modi corretti. È quello che noi facciamo, e convintamente continueremo a fare, da quando, nel settembre 2018, siamo stati chiamati dal Parlamento al ruolo di componenti del Csm”. Una presa di posizione forte che cerca di “salvare” il Guardasigilli, allentando il fuoco di fila di queste ore su via Arenula Domani Bonafede, infatti, risponderà sul punto al question-time alla Camera. Il dibattito si preannuncia incandescente in quanto molti parlamentari hanno già fatto sapere che chiederanno di conoscere i reali motivi per cui il ministro, a giugno del 2018, dopo aver offerto a Di Matteo l’incarico di n. 1 del Dap, decise di cambiare idea, preferendogli Francesco Basentini. La giustificazione fornita da Bonafede sarebbe che aveva proposto a Di Matteo un altro incarico di prestigio sul fronte della lotta alla mafia, lo stesso avuto ai tempi da Giovanni Falcone al Ministero della giustizia, cioè di direttore degli Affari penali. Una spiegazione che non ha convinto dato che quell’ufficio non esiste più da anni, a seguito della riorganizzazione del Ministero, avendo cambiato nome in Direzione Affari interni. Un ufficio non apicale come il Dap e che, soprattutto, non si occupa di contrasto alla mafia. Cosa succederà al Csm adesso è difficile prevederlo. Il fatto che l’attacco a Di Matteo venga dai laici del M5s suscita più di un interrogativo. Di Matteo, oltre ad aver partecipato ad eventi organizzati dal Movimento, è da sempre l’idolo dei grillini che avrebbero voluto lui, e non Bonafede, come ministro della Giustizia. Di Matteo è stato eletto ad ottobre dello scorso anno a Palazzo dei Marescialli nelle liste di Autonomia & Indipendenza, la corrente che ha in Piercamillo Davigo il punto di riferimento ed è oggi “alleata” con le toghe progressiste di Area. A& I ed Area contano cinque consiglieri a testa. A questi dieci togati si sommano i tre laici in quota M5s ed il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi (Area). Sulla carta, dunque, 14 voti che garantiscono una solida maggioranza. La presa di distanza dei laici pentastellati da Di Matteo rischia di mettere in discussione gli equilibri al Csm, dove anche un voto è determinante. “Il dottor Di Matteo a chi risponde dei propri atti politici?” si chiede Caiazza di David Allegranti Il Foglio Quotidiano, 6 maggio 2020 Roma. “Il dottor Di Matteo a chi risponde dei propri atti politici?”, si chiede la giunta dell’Unione delle Camere penali, presieduta dall’avvocato Gian Domenico Caiazza. Nello scontro fra il pm Di Matteo, consigliere del Csm, e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, c’è qualcuno che è eventualmente chiamato a risponderne in Parlamento (il Guardasigilli) e qualcun altro che invece può parlare, o straparlare, senza rischio di sanzioni. Il dottor Di Matteo appunto, contro il quale si sono espressi tre suoi colleghi del Csm, i membri laici in quota M5s Alberto Maria Benedetti, Filippo Donati e Fulvio Gigliotti: “Chi ha l’onore di ricoprire un incarico di così grande rilievo costituzionale, deve sapersi auto-limitare; questo non significa rinunciare a esprimere le proprie opinioni, ma vuole dire farlo nelle forme e nei modi corretti”, hanno detto. Ora, spiega l’avvocato Caiazza al Foglio, “non siamo certo sospettabili di indulgenze nei confronti del ministro Bonafede. Il tema dunque è un altro: a che titolo il dottor Di Matteo bombarda il ministro in carica insinuando con chiarezza che la revoca della proposta della sua nomina a capo del Dap sarebbe avvenuta per timore o compiacenza dopo le banali recriminazioni di alcuni detenuti al 41bis? Recriminazioni peraltro note da diversi giorni, precedenti la proposta fatta dal ministro; dire quindi che sia stata quella la causa che ha fatto cambiare idea al ministro è grottesco, pretestuoso. Oltretutto, un pm, a maggior ragione se componente del Csm, non può permettersi per nessuna ragione al mondo di chiamare un ministro a discutere delle sue valutazioni politiche”. Il fatto che discutiamo se il ministro Bonafede debba o no venire a spiegare una vicenda di due anni fa, aggiunge Caiazza, “mentre il dottor Di Matteo non è chiamato da nessuno a rispondere di quello che dice - quantomeno dal vicepresidente del Csm - è una cosa fuori dal mondo e risponde all’idea, ipertrofica, dell’invadenza della magistratura mediatica sulle dinamiche democratiche. Anche su quelle che non ci piacciono”. Certo, Bonafede è rimasto vittima di sé stesso, c’è sempre qualcuno più puro che alla fine ti epura, dunque siamo giunti “all’implosione di un mondo che ha costruito la propria fortuna politica e non solo, anche editoriale e giornalistica, sul parassitismo dell’antimafia. Alcuni soggetti hanno parassitato l’antimafia per farne una leva politica e di distruzione dell’avversario politico. È un aspetto che dovrebbe far riflettere seriamente. Oltretutto, non abbiamo capito di cosa stiamo parlando: e se anche Bonafede avesse cambiato idea nottetempo? Oppure se, in virtù delle dinamiche della politica (proposte terze, suggerimenti del presidente della Repubblica o dell’Anm) avesse preferito altri equilibri? Non deve renderne conto a Di Matteo. Non si capisce insomma la ragione di questo attacco a distanza di due anni. Forse Di Matteo sperava di andare a dirigere il Dap adesso”. Fossimo dietrologi ci interrogheremmo a lungo. Certo è, dice Caiazza, “che il Parlamento è tornato indietro sulla questione del processo da remoto, sulla quale la corrente di Di Matteo e Davigo si era esplicitamente spesa. E anche l’Anm nei giorni scorsi ha pubblicato una delibera di una durezza sprezzante nei confronti del ministro, che per fortuna ha fatto un passo indietro anche grazie alla nostra iniziativa, recepita da gran parte del parlamento. Non so se il ministro l’abbia gradita o subita, però certamente ha corretto le norme dopo due giorni averle promulgate. In quell’occasione, ci aveva colpito il linguaggio aggressivo nei confronti di Bonafede da parte della giunta dell’Anm, anche questa una cosa mai vista. Anche Area, una corrente della magistratura, ha scritto una nota sgradevolissima. Quindi forse in questo contesto, per varie ragioni, Bonafede sembra aver perso appeal. Forse un giorno lo capiremo, forse non lo capiremo mai, ma tutto appare fuori da ogni parametro ed è di una gravità inconcepibile”. Lo scontro Di Matteo-Bonafede sembra essere messo in sordina: se fosse accaduto con un governo Berlusconi che cosa sarebbe successo? “In questo momento il governo è in difficoltà, specie il M5s. La Rai non ha detto mezza parola, anche gli altri giornali stanno avendo un atteggiamento censorio. Marco Travaglio sul Fatto è stato grottesco, ha scritto che Di Matteo e Bonafede non si sono capiti bene e che è tutto un equivoco. Non sono un frequentatore dei social ma mi dicono che il mondo grillino è spaccato, quindi c’è un interesse a tacitare la questione. Come vede, la vicenda ha molte sfaccettature”. Robledo: “Legittimo che il ministro cambi idea sul Dap, ma deve spiegarne il motivo” di Giuseppe Pipitone Il Fatto Quotidiano, 6 maggio 2020 L’ex procuratore aggiunto di Milano, che ha lasciato la magistratura da un anno e mezzo, commenta lo scontro che ha animato il mondo politico giudiziario: “Se Di Matteo ha chiesto 48 ore di tempo per scegliere, va da sè che il ministro, per la sua qualità istituzionale, ha l’obbligo di mantenere ferma questa doppia scelta per 48 ore. Quindi nel frattempo è accaduto qualcosa”. Cosa? “Io non credo abbia subito pressioni, magari semplicemente qualcuno l’ha convinto”. Lo scontro tra Nino Di Matteo e Alfonso Bonafede? “Il ministro deve chiarire perché non ha mantenuto quell’impegno preso con il magistrato”. Cioè? “Deve spiegare cosa è successo e per quale motivo. Perché non ha aspettato le 48 ore di tempo che gli erano state chieste, prima di modificare la sua proposta? Se ha cambiato idea sul vertice del Dipartimento amministrazione penitenziaria è lecito, ma perché non ne spiega il motivo? È questo il punto centrale della vicenda”. A voler commentare con ilfattoquotidiano.it il botta e risposta che ha animato il mondo della giustizia nelle ultime ore, è un ex magistrato che di scontri tra toghe ne ha vissuto qualcuno in prima persona. Alfredo Robledo, ex procuratore aggiunto di Milano, è stato per mesi al centro di un feroce conflitto con quello che all’epoca era il suo procuratore capo: Edmondo Bruti Liberati. Uno scontro aspro, con Robledo che nel 2016 era stato trasferito dal Csm al Tribunale di Torino in veste di giudice, Bruti Liberati che lo aveva denunciato per abuso d’ufficio. E l’ex aggiunto che da parte sua aveva fatto ricorso al Tar e pure alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro le decisioni del Csm. “Lei lo sa che la Cedu ammette mediamente il 4% dei ricorsi che vengono presentati? Tra quel 4% c’è il mio”, commenta oggi Robledo, che dal dicembre del 2018 ha deciso di lasciare la magistratura per diventare presidente dell’impresa Sangalli, azienda di servizi ambientali con più di mille dipendenti. Ha appeso la toga al chiodo a pochi anni dalla pensione, ma ovviamente ha continuato a guardare da lontano il mondo giudiziario. Lo stesso che nelle scorse ore è stato animato dallo scontro tra Di Matteo e Bonafede. Dottor Robledo, ha detto di essere stato colpito dal botta e risposta Di Matteo-Bonafede. Colpito da cosa in particolare? Dalla disinvoltura con la quale il ministro è passato sopra quest’episodio. Come se non fosse successo nulla di particolare. In realtà Bonafede, tra le altre cose, si è detto esterrefatto... Ed è curioso. Perché? Perché nel momento in cui un ministro della giustizia fa una proposta a un collega del livello di Di Matteo, e gli dice che ha una doppia possibilità di scelta, tra due incarichi prestigiosi, deve attendere la risposta mantenendo nel frattempo intatta quella proposta. Cosa che non è avvenuta? Se Di Matteo chiede 48 ore di tempo per scegliere, va da sé che il ministro, per la sua qualità istituzionale, ha l’obbligo di mantenere ferma questa doppia scelta per 48 ore. Una volta che, passate le 48 ore, Di Matteo avesse comunicato la sua scelta, il ministro avrebbe potuto agire di conseguenza affidando l’altro incarico a un altro magistrato. Così non è stato, visto che - nella ricostruzione di entrambi - il guardasigilli prima chiede a Di Matteo di scegliere tra Dap e ministero, poi gli spiega di preferirlo agli Affari generali del suo dicastero. E intanto ha già contattato un altro magistrato per il vertice dell’Amministrazione penitenziaria. Quindi? Quindi è chiaro che nel frattempo è accaduto qualcosa. Il ministro ha fatto un’altra scelta, senza avvertire Di Matteo che erano cambiate le condizioni. E quindi contraddicendo la propria parola. E questa è una scorrettezza. Bonafede, però, dice che in un primo momento era convinto di aver incassato il via libera del magistrato per il posto agli Affari generali del ministero... Va bene, ma il ministro oggi deve chiarire perché non ha mantenuto quell’impegno preso con Di Matteo. Deve spiegare cosa è successo in quelle 48 ore e per quale motivo ha cambiato idea. A meno che non si tratti di qualcosa non confessabile, ma credo proprio di no. Magari ha semplicemente cambiato idea... Bene, legittimo. Ma allora oggi spieghi perché. Deve rendere trasparente un comportamento che così lascia delle ombre. Secondo lei, preso atto che Di Matteo voleva andare al Dap, Bonafede avrebbe potuto semplicemente chiedere a Basentini di scegliere un altro incarico? Certamente, ma questo sarebbe potuto accadere se ci fosse stata soltanto una sorta di leggerezza del ministro. Cioè se si fosse fatto scappare una proposta a un altro magistrato quando ancora aspettava la risposta di Di Matteo. Invece evidentemente in quelle 48 ore è accaduto qualcosa per cui il ministro ha preso una decisione che non ha voluto revocare. E che oggi non spiega. Si è parlato delle minacce dei mafiosi sull’ipotesi di Di Matteo capo del Dap. Quelle parole però erano già note a Bonafede da giorni, quando ha avanzato la sua proposta al magistrato. Come avrebbe potuto farsi influenzare ex post? Questa ricostruzione a livello cronologico non può reggere, non crede? Intanto vorrei dire che se i mafiosi non sono contenti quando sentono il nome di Di Matteo, questo mi sembra un segno di salute dello Stato. Ma a maggior ragione, proprio perché ci sono di mezzo i mafiosi e le loro parole, il ministro doveva essere chiaro e spiegare i motivi della sua scelta. Bonafede in ogni caso nega qualsiasi tipo di pressione... Io non credo abbia subito pressioni, magari semplicemente qualcuno l’ha convinto sulla necessità di nominare Di Matteo al ministero e un altro magistrato al Dap. Ripeto: tutto assolutamente legittimo. Ma se ha legittimamente cambiato convincimento non c’è alcun motivo ostativo affinché possa chiarirne il motivo. E invece non lo fa. In molti hanno attaccato Di Matteo per aver raccontato questa vicenda quasi due anni dopo. Lei che ne pensa? Non è un po’ tardi? Da parte di Di Matteo è stata una tempistica necessitata, perché avrebbe dovuto intervenire prima? Si trattava di una questione interna, ma adesso che viene data un’indicazione pubblica diversa allora è comprensibile che abbia deciso di porre il problema. Ovviamente questa vicenda ha avuto riflessi sul mondo della politica ma anche dentro al Csm, di cui Di Matteo fa parte. I consiglieri laici eletti dal M5s a Palazzo dei Marescialli hanno fatto una nota per dire che gli esponenti del Csm devono “osservare continenza e cautela” quando esprimono “le proprie opinioni”. Che ne pensa? Io penso che Di Matteo abbia avuto misura e garbo, come sempre. Contrariamente a quello che si vuole fare passare, Di Matteo non ha lanciato accuse verso alcuno, ha parlato di fatti. Secondo me non ha travalicato alcuna misura, anzi è stato misurato come è nel suo carattere e come sempre ha fatto. La strumentalizzazione politica si mette in moto sempre in queste occasioni ed è normale che sia così. Ciò non toglie che, come diceva Nenni, i fatti sono testardi. Lei ha lasciato la magistratura ormai più di un anno fa: le manca la toga? Mi manca il mondo che ho conosciuto nei primi 35 anni in magistratura. Non quello degl ultimi cinque. Non mi manca quel mondo, però mi mancano le persone. Anzi: alcune persone. Di Matteo accusa Bonafede di concorso esterno in associazione mafiosa di Tiziana Maiolo Il Riformista, 6 maggio 2020 Ti sei fatto ricattare dalla mafia! E tu parli per sensazioni e travisi la realtà! Ha il sapore della faida il corpo a corpo che domenica sera poco prima di mezzanotte ha visto protagonisti non due ragazzotti sul ring di una palestra di periferia, ma un consigliere del Csm e un ministro della repubblica. Nino Di Matteo e Alfonso Bonafede. Se non proprio mafioso, quanto meno imputabile di concorso esterno. È questa l’immagine che Nino Di Matteo dà del ministro di giustizia Alfonso Bonafede. Lo fa nel corso di una puntata-gogna di una trasmissione che non sarà l’Arena, come pretende il titolo, invece pare del tutto simile al luogo dove venivano perseguitati i cristiani. Con l’esibizione dei corpi, anche. La vittima predestinata questa volta è proprio il guardasigilli, non invitato, mentre il conduttore, con il contorno consenziente di personaggi come Luigi de Magistris e Catello Maresca, una volta ottenute, con la trasmissione precedente, la dimissioni del capo del Dap Basentini, azzanna alla gola una povera funzionaria, rea di aver inviato una mail in ritardo. Anche lei deve essere licenziata. Si canta e si suona tra persone che la pensano allo stesso modo. Ma il boccone è poco consistente, quindi si torna a fare le pulci a tutta quanta l’organizzazione delle carceri italiane, al vertice delle quali finalmente sono arrivati due magistrati cosiddetti, con il solito strafalcione incostituzionale, “antimafia”. Si può stare tranquilli per il futuro, si dice, ma intanto la frittata è fatta, i mafiosi passeggiano giulivi nei parchi delle loro città perché nessuno ha provveduto, come incautamente ricorda l’ex ministro Martelli, magari con una “norma interpretativa” (cioè abrogativa) delle leggi esistenti, a riacciuffarli tutti. Cioè a dire, sia il ministro della giustizia che l’ex capo del Dap sono stati due incapaci, dovevano violare la legge e lasciar morire in carcere qualche vecchio moribondo pur di mostrare i muscoli. Ah, se ci fosse stato a dirigere le carceri Di Matteo, sospira Massimo Gilletti. Lo evoca, ed eccolo. Mancato ministro, mancato capo del Dap, cacciato dall’Antimafia, entrato per il rotto della cuffia dopo dimissioni di altri al Csm con il sostegno del suo amico Davigo, dovrebbe stare un po’ caché, come dicono i francesi. Invece no, alza il telefono quasi fosse stato in attesa della parola d’ordine, ed entra a cavallo nella trasmissione. Lancia subito sospetti nei confronti dell’autonomia del ministro Bonafede, anche lui sottoposto, lascia capire, al ricatto della mafia. Ma è proprio un pallino, il suo. Portare il processo “trattativa” ovunque. Chiunque rappresenti lo Stato, tranne lui, è condizionato dai mammasantissima. Certo, va detto che Alfonso Bonafede gli ha rubato il posto, non dimentichiamolo. Era Di Matteo che avrebbe dovuto diventare ministro di giustizia nel 2018. Lui era pronto e si è visto scavalcato da uno qualunque. Vendetta, tremenda vendetta. È giunto il momento di fargliela pagare. Anche perché, sempre nel 2018, questo modesto ministro riconfermato si è permesso di proporgli la presidenza del Dap o in alternativa il prestigioso ruolo che fu di Falcone come Direttore generale degli affari penali, e poi gli ha soffiato la prima poltrona (preferendogli un Basentini qualunque) e gli ha riservato solo la seconda. Perché? Perché i capimafia nelle carceri avevano protestato: se arriva al Dap Di Matteo, quello butta la chiave, dicevano. Il ministro ci ha ripensato, dice il magistrato. Poi, allusivo: o qualcuno lo ha indotto a ripensarci. Ci risiamo. Dopo aver insultato i giudici di sorveglianza quasi fossero fiancheggiatori della mafia solo perché avevano applicato alcuni differimenti di pena, ora è la volta del ministro. Colpito e affondato. In studio si comportano tutti (con l’eccezione dell’ex jena Giarrusso che non sa più come difendere il suo ministro) come ragazze coccodè intorno al loro mito e alla sua ricostruzione dei fatti. Fedele, onesta e leale, la definisce il suo ex collega de Magistris. Martelli gli domanda come mai lui non abbia chiesto spiegazioni sul dietrofront di Bonafede. Per orgoglio, sussurra con modestia il magistrato. Tutti annuiscono compunti. Si potrebbe chiudere il sipario con il funerale del ministro e la beatificazione dell’ex Pm, tanto che viene accolta con fastidio, mentre è ancora aperto l’audio di Di Matteo, la chiamata di Bonafede, che è “esterrefatto” e quasi piange al telefono, nel ricordare quanto tasso di antimafia e di forcaiolismo lui abbia nel sangue. Dà inutilmente la sua versione dei fatti e viene trattato come la cugina impresentabile che viene nascosta quando arrivano gli ospiti importanti. Faccia presto, si sbrighi che abbiamo cose più importanti, gli fanno capire. Fa tenerezza, anche perché nessuno ricorda che un ministro nomina chi ritiene all’interno del suo dicastero. E non deve certo render conto al partito dei professionisti dell’antimafia. Ma il guardasigilli è ormai diventato un pungi-ball su cui chiunque ritiene di potersi esercitare. Tutti i partiti dell’opposizione ne chiedono le dimissioni ignorando chi detiene oggi il vero potere, e il Pd che non lo sa difendere, tranne l’ex ministro Orlando che ritiene sarebbero scandalose le dimissioni a causa dell’opinione di un magistrato. Persino il Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria, forse vedendolo debole, gli rifila una lezioncina sulla divisione dei poteri, ricordandogli di agire su delega dell’autorità giudiziaria e non del ministero. Intanto per ora la vicenda finirà con una seduta parlamentare in cui ci sarà una gara di forche alte verso il cielo da parte di tutti, speriamo con qualche singola eccezione. Chi salverà il soldato Bonafede? Pier Camillo Davigo, se lo vorrà. È l’unico più potente di Di Matteo. Ieri mattina era dato sul treno della contro-immigrazione Milano Roma, nel primo giorno della fase due anti-covid. Chissà se è andato a consolare il suo allievo. Su Bonafede il governo ha un’idea: far finta di niente di Pietro Salvatori huffingtonpost.it, 6 maggio 2020 I 5 stelle lacerati si attestano sulla linea Travaglio: è solo un malinteso. Il Pd difende il Guardasigilli. Italia viva non affonda il colpo. Mettersi tutto alle spalle. O mettere a tacere, a seconda dell’accezione che gli si vuol dare. Il Movimento 5 stelle deve archiviare al più presto la querelle che ha visto opposti Nino Di Matteo e Alfonso Bonafede. Uno scontro pazzesco, tremendo, tra un membro del Csm e il Guardasigilli, su un argomento che, se fosse preso sul serio, sarebbe ai prodromi di un secondo processo Stato-mafia. I pentastellati contano sull’effimero contemporaneo, per cui tutto viene lasciato alle spalle, e archiviata in tre o quattro giorni la polemica si passa a sbranarsi su quella successiva. Per le identità dei due protagonisti, oltre alla lacerazione istituzionale di un pm che chiama una trasmissione in prima serata per accusare il ministro della Giustizia di essersi lasciato influenzare dai capi mafia nel non dagli una nomina, il problema è tutto interno al Movimento. Perché coinvolge un tetragono dell’ortodossia come Bonafede e un santino delle battaglie giustizialiste di anni quale Di Matteo. Le chat sono infuocate, i sostenitori del magistrato sono una minoranza ma ben nutrita, ma i parlamentari sono stati invitati al silenzio. Dopo una giornata di videoconferenze, messaggi e telefonate, e diversi contatti tra il ministro e Giuseppe Conte, lunedì sera sono uscite in batteria, i vertici, premier compreso, hanno rotto un silenzio di ore. Con due costanti, in tutte le dichiarazioni e le note: la difesa del titolare della Giustizia e la rimozione totale del nome di Di Matteo. Un membro dell’esecutivo ragiona: “Alfonso è totalmente dalla parte del torto, ma questa storia ha un duplice aspetto potenzialmente esplosivo: risveglia antiche inimicizie contro uno che per anni è stato fedele a Di Maio, e vede come controparte uno che il nostro mondo non può attaccare”. Sono un’estrema minoranza (ma ci sono) quelli che dicono non a torto che “se fosse stato di un altro partito saremmo già in piazza a protestare violando i dpcm”. Ha riscosso un enorme successo, perlomeno di condivisioni, l’editoriale mattutino di Marco Travaglio, che ha plasmato i termini delle discussioni fra onorevoli e senatori per tutto il giorno: la destra non può permettersi di difendere uno come Di Matteo che ha sempre attaccato; tra i due è stato solo un malinteso. Una decisione politica, dunque, quella di poche, concentrate nel tempo e stringate dichiarazioni di sostegno e poi più il nulla. Ma si vocifera - notizia che non trova conferme ufficiali - che ci sia stato anche un discreto lavorio dal Quirinale per sminare il campo periglioso, con uno scontro al fulmicotone tra il ministro di Giustizia e un componente di quel Csm di cui Mattarella presiede. Il Csm stesso, fatto salvo per una dichiarazione dei tre laici eletti in quota Csm, si è ritirato in una torre d’avorio di silenzio. Italia viva si è tenuta ben lontana dal reiterare le minacce di sfiducia individuale. I renziani hanno sì chiesto che Bonafede riferisca in Parlamento, ma negano con convinzione di voler percorrere una simile strada. Bonafede è entrato nel meccanismo perverso alimentato per anni dal grillismo, quel clima per cui Leonardo Pucci, vice capo di Gabinetto del ministro, si sente in dovere di dire all’Adnkronos di non essere stato sponsor di Basentini all’epoca della nomina che lo preferì a Di Matteo, come se il compito dello staff apicale di un ministero non fosse anche quello di consigliare il ministro. Una situazione paradossale, dalla quale l’unico che sembra difendere Bonafede tout court è il Pd. In tanti si sono espressi in questa direzione, uno per tutti il vicesegretario Andrea Orlando: Non si dimette un ministro per un dibattito in tv, Bonafede si è detto disposto a riferire in Parlamento”. Si notino bene le parole: in Parlamento. Perché il tentativo è quello di disinnescare un’informativa in aula, magari in diretta tv. È pendente una richiesta di convocazione in commissione Antimafia per Bonafede, avanzata un mesetto fa, nelle ore delle rivolte delle carceri. Proprio la settimana scorsa il presidente Nicola Morra ha annunciato la disponibilità del ministro a essere audito. Un intervento in commissione, che inglobi oltre alla specifica difesa sul punto una relazione completa delle attività delle ultime settimane sarebbe assai meno dirompente. Oltre a evitare una casuale ma pericolosa saldatura con le istanze in queste ore sbandierate da Matteo Salvini. “Bonafede aveva il rapporto del Gom sul tavolo già il 9 giugno - spiega una fonte Dem che ha studiato il dossier - Di Matteo lo ha incontrato il 18. Dire che abbia cambiato idea per quel rapporto è indimostrabile, una pura illazione”. La conclusione, che è anche un auspicio: “Finirà tutto in una bolla di sapone”. Spangher: “Processo da remoto, minaccia sventata: ma la telematica serve” di Errico Novi Il Dubbio, 6 maggio 2020 Intervista al professore emerito di diritto penale della Sapienza: “È la centralità della giustizia nella democrazia a imporre di preservare l’oralità del processo anche in piena emergenza: i correttivi sulle udienze virtuali introdotti dal Dl intercettazioni hanno ribadito il principio. Ma nulla sarà come prima: e anzi, i depositi telematici previsti anche nel penale potrebbero diventare un antidoto alla burocrazia”. “Tutto va colto nell’equilibrio. Senza trionfalismi. E senza illudersi che la giustizia tornerà esattamente al punto in cui era prima del Covid”. Giorgio Spangher, professore emerito di Diritto penale alla Sapienza, è ascoltato dall’avvocatura quasi come un oracolo. Giustamente, per l’esperienza, per l’acutezza della visione, per la rapidità nel trovare significati nascosti tra le pieghe delle norme... Ma Spangher invita appunto a cogliere tutti i frutti positivi delle correzioni sul processo da remoto, incluse le aperture su un futuro più tecnologico: “È stata accantonata l’idea di un diritto di difesa attenuato dalla telematica, ma nello stesso tempo proprio la tecnologia introduce un’opportunità di sburocratizzare che va preservata”. La giustizia è funzione irrinunciabile della democrazia anche durante un’epidemia epocale: ora si è anche ribadito il principio per cui va sempre esercitata nel rispetto delle garanzie? Direi proprio di sì. Si è affermato con chiarezza tale principio. Ma lo si è affermato nella ragionevolezza. Credo si debbano considerare alcuni dettagli del decreto Intercettazioni, forse sottovalutati. Ad esempio la norma secondo cui una deliberazione in camera di consiglio non può svolgersi da remoto, nella fase 2 che inizierà il 12 maggio ed è stata prorogata fino al 31 luglio, se la discussione finale si era tenuta nell’aula di tribunale. Viene così riconosciuta l’oggettiva e razionale necessità dello svolgimento non virtuale dell’attività giudiziaria in determinate circostanze. Forse la sola forzatura, in tal senso, può essere la previsione per cui il giudice civile deve operare fisicamente dal suo ufficio anche quando le parti si collegano da remoto. Dopodiché vedo molti segni di un razionale ritorno alla normalità. Quali sono i più incoraggianti? Anche grazie all’ordine del giorno votato alla Camera, si è giustamente stabilita la necessità di conservare l’aula fisica per l’attività probatoria, per l’esame del teste o del perito. C’è la ricordata norma sulle camere di consiglio e ce n’è ancora un’altra che concede non solo al ricorrente ma anche al pg la possibilità di chiedere la discussione in presenza nei giudizi di Cassazione. È appunto il riconoscimento, importante, di quell’oggettiva funzionalità del ritorno nelle aule e della discussione orale immediata. Però c’è anche qualche limite non superato. A cosa si riferisce? Alle udienze di convalida del fermo o dell’arresto, che potranno tenersi da remoto: forse sarebbe stato necessario segnalare la disfunzionalità di questa previsione, che limita soprattutto la libertà della persona accusata. D’altra parte proprio tali attività hanno prodotto performance abbastanza insoddisfacenti da favorire il ripensamento del governo. Poi si è schierata, con l’avvocatura, anche la dottrina. A remare contro l’udienza da remoto ci sono anche problemi di riserva di legge tutt’altro che irrilevanti. Così come c’erano le serie questioni di privacy rilevate dal garante. Alcune componenti dell’Anm ora puntano il dito contro l’avvocatura: sarà colpa della vostra avversione al processo a distanza, dicono, se le udienze non si terranno affatto, vista la mancanza di sicurezza per la salute... Non ci si deve mettere su una strada del genere. Da una parte i magistrati che accusano gli avvocati di paralizzare tutto. Dall’altra gli avvocati convinti che si terranno solo i processi selezionati da giudici e pm. Non credo che avverrà davvero, al di là di qualche singolo sporadico caso. Ora si tratta di scollinare un momento difficile. I rischi per la salute potrebbero attrarre più risorse per la giustizia? Sì, ma soprattutto potranno incentivare la sburocratizzazione attraverso la tecnologia. Alcune norme appena introdotte dal decreto Intercettazioni vanno proprio in tale direzione. Penso ai nuovi paragrafi aggiunti al 12-quater del Dl Cura Italia, che prevedono depositi e comunicazioni telematiche, nel penale, per difensore, pm e polizia giudiziaria. Ecco, qui vedo il senso di quanto detto all’inizio: non sarà più come prima. È il lascito positivo dei rimedi tecnologici escogitati nell’emergenza... Sì, usciamo dall’emergenza, e attraverso le scelte che i capi degli uffici adotteranno dal 12 maggio in poi si procederà gradualmente verso un ritorno alla normalità. Ma non sarà la normalità del passato. Si tratta di uno scenario nuovo, con un uso più ampio della tecnologia. Vorrei che si considerasse un altro dettaglio, contenuto nella parte del decreto 28 che rinvia l’entrata in vigore delle norme sulle intercettazioni: slitta tutto al 1° settembre tranne le norme sull’accesso da remoto all’archivio riservato, possibile anche per il difensore, che il guardasigilli Bonafede ha giustamente voluto mantenere come vigenti dal 1° maggio. L’ennesima conferma che anche per il processo penale entriamo in una fase nuova, con meno burocrazia, uso più ampio degli strumenti telematici, senza comprimere l’esercizio del diritto di difesa. Nella dialettica sul processo da remoto gli avvocati hanno avuto un ruolo importante: il loro rilievo politico si è rafforzato? Sì, ma nella misura in cui è emersa ancora una volta la necessità di far comprendere all’opinione pubblica la forza delle proprie argomentazioni. Perché è la possibilità di ottenere un consenso diffuso che costringe poi la politica ad accogliere le richieste degli avvocati. Non era avvenuto, purtroppo, con la battaglia sulla prescrizione. Stavolta si è invece riusciti a far passare i rischi di un processo svolto con modalità inadeguate. Sarà sempre così: avvocatura e magistratura dovranno sforzarsi di proporre iniziative coerenti con la natura della giurisdizione, che è servizio ai cittadini. Solo in questo modo riusciranno a convincerli e a rendere inevitabili le conseguenti scelte della politica. La domanda di concordato non ferma l’omesso versamento di Laura Ambrosi e Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 6 maggio 2020 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 5 maggio 2020 n. 13628. La presentazione della domanda di ammissione al concordato preventivo, anche con riserva, non impedisce il pagamento dei debiti tributari che scadono successivamente, con la conseguenza che superando le soglie si commette il reato di omesso versamento. Il delitto è escluso soltanto da un provvedimento del tribunale che vieti il pagamento di crediti anteriori. È questa l’interpretazione, contrastante con una precedente pronuncia, espressa nella sentenza n.13628 della Cassazione, depositata ieri, particolarmente importante nell’attuale contesto di crisi economica e di liquidità. Nei confronti del rappresentante legale di una società, indagato per omesso versamento di ritenute, la Procura richiedeva la misura cautelare, rigettata dal Gip in quanto la società, prima dell’omissione, aveva presentato domanda di concordato in bianco. Il rigetto era confermato dal tribunale del riesame a seguito dell’appello cautelare presentato dal Pm. La Procura ricorreva in Cassazione lamentando che la semplice domanda di concordato in bianco senza presentazione del piano non comporterebbe mai una sospensione degli obblighi tributari. Nella specie, l’ammissione al concordato era avvenuta dopo la scadenza del versamento (omesso). Solo la presentazione del piano concordatario, secondo la Procura, costituirebbe il discrimine, in quanto da quel momento l’imprenditore sarebbe impegnato a garantire il soddisfacimento dei crediti in base al piano non potendo essere obbligato a pagamenti parziali diversi da quelli previsti nel piano stesso. La causa di giustificazione prevista dall’articolo 51 del Cp (adempimento del dovere) potrebbe configurarsi solo in presenza di provvedimenti che impongono di non adempiere all’obbligo tributario come l’ammissione al concordato ovvero, in alternativa, il provvedimento del tribunale di divieto dei pagamenti di crediti anteriori. La difesa dell’imprenditore insisteva invece sulla legittimità della decisione del riesame peraltro avallata da una recente pronuncia della cassazione (36320/2019). In subordine, richiedeva la rimessione alle Sezioni unite. I giudici, aderendo all’interpretazione più rigorosa, hanno accolto il ricorso della Procura e, nonostante la precedente pronuncia contraria, non hanno ritenuto necessario investire della decisione le Sezioni unite. Secondo la sentenza la mera presentazione della domanda di ammissione al concordato preventivo, anche con riserva, non impedisce il pagamento dei debiti tributari in scadenza dopo la sua presentazione. Tale domanda, pertanto, è del tutto irrilevante sia sul piano dell’elemento soggettivo, sia su quello dell’esigibilità della condotta, salvo che, in data antecedente alla scadenza del debito, sia intervenuto un provvedimento del tribunale che abbia vietato il pagamento di crediti anteriori. In tal caso, infatti, sarebbe configurabile la scriminante dell’adempimento del dovere imposto da ordine legittimo dell’autorità (articolo 51 del Cp). Non viene condivisa la sentenza della stessa sezione che, in virtù dell’efficacia retroattiva dell’ammissione al concordato, riteneva le condotte omissive precedenti prive di rilevanza penale, perché non compiute contra ius. Secondo la Corte da tali effetti retroattivi derivanti dal decreto di ammissione al concordato, non può conseguire l’esclusione della rilevanza penale dell’omissione costituente reato scaduta in epoca antecedente. In conclusione, secondo i giudici, la causa di esclusione della punibilità, può essere invocata solo laddove l’imputato sia destinatario di un ordine legittimo del tribunale civile con cui gli viene imposto il divieto di pagamento di crediti anteriori alla proposta di concordato o di una mancata autorizzazione al pagamento. Tale causa di esclusione non può invece individuarsi nel provvedimento di ammissione nei confronti del debito scaduto: non è possibile, infatti, accordare, ai fini penali, valore di scriminante all’ammissione al concordato rispetto a una condotta di reato già perfezionatasi. Covid-19 e imprese: con il rispetto del protocollo un riparo dai reati colposi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 6 maggio 2020 Una vicenda intricata. Come non dovrebbe essere quando è in discussione il diritto penale. Eppure l’emergenza sanitaria obbliga ad aprire spazi e scenari del tutto inediti, anche per quanto riguarda le forme di responsabilità dell’imprenditore. Dove il rischio è quello dell’attribuzione di una responsabilità penale per mancato rispetto delle norme di sicurezza sia, come evidente, sul fronte dei lavoratori, sia sul fronte dei clienti dell’impresa stessa. A fare riferimento ai principi generali dell’ordinamento penale, in realtà, il problema potrebbe essere un po’ meno impervio. Perché, detto che la responsabilità penale non può essere oggettiva e che può invece essere ascritta a titolo di dolo oppure di colpa, è soprattutto a quest’ultimo campo del diritto penale che bisognerà dedicare ora attenzione, quello dei reati colposi, dove al colpevole è imputabile un deficit di attenzione, forme gravi di negligenza o di imperizia. Calata nella realtà della pandemia allora, questa imputabilità possibile per colpa ha uno snodo fondamentale nei protocolli messi a punto in queste settimane, nei quali si tenta di sintetizzare la compatibilità tra lavoro e sicurezza. In questo senso punto di riferimento importante è l’accordo firmato da imprese e sindacati, d’intesa con il governo, poi integrato il 24 aprile e inserito come allegato nel Dpcm del 26 aprile. È lì che si traccia una fitta mappa dei presupposti per la ripresa, dagli obblighi di informazione, alle modalità di accesso alla sede di lavoro da parte dei lavoratori, ma anche di fornitori esterni e visitatori; lì si individuano tempi e modi della sanificazione in azienda, le precauzioni igieniche personali e i dispositivi di protezione individuale, come pure i tempi e i modi di gestione degli spazi comuni, dalle mense agli spogliatoi. Ma c’è spazio per indicazioni sugli spostamenti interni, sulle modalità di svolgimento delle riunioni, sulla gestione di un caso sintomatico in azienda. Insomma, un set di regole tutto sommato dettagliate, da arricchire magari con le specificità dei singoli settori produttivi, il cui rigoroso rispetto dovrebbe mettere al riparo l’imprenditore da contestazioni di natura penale. A quel punto, infatti, sarebbe difficile poter sollecitare sanzioni nei confronti di chi si è attenuto con scrupolo al rispetto di prescrizioni concordate tra le parti sociali e con il consenso del governo. Tanto più trattandosi di condizioni del tutto inedite, dove molte attività sono state prima sospese e poi riaperte e altre hanno proseguito la produzione in situazioni del tutto particolari. Però la soglia di allarme degli imprenditori resta elevatissima. Dove, si fa notare, che un conto è l’astrazione dei principi dell’ordinamento e un’altra la realtà dei tribunali, con procedimenti che, magari sulla scia di una malintesa interpretazione dell’articolo 42 del decreto Cura Italia con l’equiparazione tra infortunio sul lavoro e contagio (a esclusivi fini assicurativi, naturalmente, ma intanto la disposizione esiste), potrebbero innanzitutto aprirsi e poi, forse chiudersi solo dopo parecchio tempo con gravi danni però per l’azienda coinvolta. Di qui allora la sollecitazione per una norma che renda in qualche modo esplicito il fatto che nulla possa essere imputato all’imprenditore che ha rispettato meticolosamente i protocolli di sicurezza. Una sorta di scudo penale per rafforzare le garanzie nel corso di una stagione del tutto particolare e comunque non una forzatura dettata dallo stato di emergenza. Un po’ come, nel diritto penale dell’economia, avviene sul versante della responsabilità dell’impresa per reati dei dipendenti. Responsabilità che il decreto 231 del 2001 espressamente esclude per quelle imprese che hanno attuato modelli organizzativi idonei a scongiurare la commissione dei reati previsti. Protezioni inadeguate, condanna 231 per l’azienda di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 6 maggio 2020 Corte di cassazione - Sezione IV - Sentenza 5 maggio 2020 n. 13575. L’azienda responsabile, per colpa specifica, in caso di incidente del dipendente, se non fornisce protezioni adeguate, non informa nel dettaglio sui pericoli e non aggiorna il documento di valutazione dei rischi. La Cassazione (sentenza 13575) dichiara la prescrizione del reato di lesioni personali colpose a carico dell’amministratore unico di una Spa, ma conferma la sanzione di 30mila euro inflitta all’azienda per lesioni colpose gravi, per la violazione delle norme di sicurezza sul lavoro (articolo 25-septies Dlgs 231/2001). L’incidente riguardava un lavoratore che si era ustionato per rimuovere dei residui di plastica da un iniettore, aiutandosi con un’asticella di rame, senza usare i guanti. Un’impudenza che non salva l’azienda, perché i guanti in dotazione non erano adeguati. Alla base della condanna il mancato acquisto di guanti utili ad evitare le ustioni, l’omesso aggiornamento del Dvr, e la scarsa formazione dei lavoratori. Il vantaggio, che la norma richiede per affermare la responsabilità dell’ente, stava nel risparmio di spesa derivato sia dal mancato acquisto di dispositivi più efficaci di quelli in uso, sia nell’assenza di corsi di formazione, oltre che nel maggior guadagno dato da ritmi di produzione resi più veloci dall’assenza di misure stringenti sulla sicurezza. La Suprema corte, ricorda le regole che le aziende devono rispettare per evitare la condanna, indicazioni più che mai utili nel periodo di convivenza con la pandemia sui luoghi di lavoro. Non passa la tesi della difesa secondo la quale serviva la prova che l’incidente si sarebbe verificato anche se il lavoratore avesse indossato la protezione fornita. Né si poteva affermare il nesso causale tra l’evento e il mancato aggiornamento del Dvr, visto che il lavoratore non aveva rispettato le disposizioni di sicurezza. Per i giudici anche i comportamenti scorretti dei dipendenti andavano addebitati alla società a causa delle lacune informative. L’azienda, oltre a fornire le protezioni ottimali, deve mettere il lavoratore nella condizione di fronteggiare tutti i rischi, prevedibili. All’imputato e alla società è stata contestata un’ipotesi di colpa specifica “concernente l’omessa adeguata previsione di un modello organizzativo adeguato, nel quale rientra anche la mancata formazione dei dipendenti”. Campania. È troppo difficile una visita medica per i detenuti di Viviana Lanza Il Riformista, 6 maggio 2020 Dopo il suicidio di un algerino a Santa Maria Capua Vetere Migliaia i controlli all’esterno rinviati per carenze del nucleo di traduzione. Così la prigione diventa un’esperienza disumana. Il diritto alla salute dei detenuti è uno dei temi più attuali, un po’ per l’emergenza Covid-19 che non ha risparmiato detenuti, agenti della polizia penitenziaria e amministrativi che lavorano all’interno degli istituti penitenziari e un po’ per le scarcerazioni chieste (come nel caso dello storico boss della Nco Raffaele Cutolo) o ottenute (come nel caso di Pasquale Zagaria, fratello del capo dei Casalesi) anche da esponenti di spicco della criminalità organizzata. E i dati relativi a questo diritto, nonostante gli sforzi di singoli istituti di pena e dei garanti dei detenuti, rivelano una realtà fatta ancora di carenze, di attese, di rinunce. Nelle carceri campane vengono eseguite in media 70 visite mediche al giorno, ma sono più di 1500 le visite in strutture esterne che si è costretti a rimandare in attesa che sia disponibile il cosiddetto nucleo di traduzione, ossia la scorta con i tre o quattro agenti che devono accompagnare il detenuto a farsi visitare fuori dal carcere. “La prigione è disumana - dice Samuele Ciambriello, garante regionale dei detenuti - Quando alcuni politici dicono buttiamo la chiave usando un lessico di guerra andrebbero perseguiti per apologia contro la Costituzione. Bisogna cambiare lessico e impegnarsi di più perché sia rispettata la funzione rieducativa della pena, altrimenti si rischia di far diventare il carcere un’università del crimine”. La vita dietro le sbarre è difficile, talvolta insopportabile. Il suicidio del giovane algerino, l’altro giorno nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, è solo l’ultimo in ordine di tempo in un elenco che già conta 17 nomi, più 55 detenuti morti in cella per le più diverse cause. Nel 2019 i suicidi in carcere sono diminuiti ma sono aumentati del 32% gli atti di autolesionismo e gli scioperi della fame, gesti disperati con cui si cerca di attirare l’attenzione della politica e dell’opinione pubblica per farle uscire dalla bolla dell’indifferenza. Più dura la condizione di chi in cella ci finisce da innocente o di chi ci resta anni in attesa del processo. “Quanti Abele ci sono tra i diversamente liberi?”, aggiunge provocatoriamente Ciambriello. La risposta è nei dati degli ultimi report: in un anno, in Italia, 27mila persone hanno ricevuto l’indennizzo per ingiusta detenzione. A Napoli in un anno ci sono stati 143 innocenti ingiustamente detenuti e il capoluogo campano è secondo nella classifica nazionale solo dopo Catanzaro che di detenuti usciti dal carcere da innocenti ne ha contati 200, mentre 110 sono stati i casi a Roma. Lombardia. La Regione: no ai fondi per uscita anticipata detenuti askanews.it, 6 maggio 2020 L’assessore Piani: “Ricoventire destinazione risorse Cassa Ammende”. I fondi della Cassa Ammende destinati alla Regione Lombardia devono essere utilizzati “per tutelare la salute degli Agenti di Polizia penitenziaria, come riconoscimento del lavoro che svolgono”. A chiederlo è l’assessore regionale alla Famiglia, Silvia Piani, che ritiene “non condivisibile la scelta di prediligere interventi di deflazionamento della popolazione detenuta, come l’adozione di misure di detenzione domiciliare, anche in funzione delle esigenze di tutela delle persone offese dal reato”. In mancanza di una svolta, la Lombardia è insomma pronta a non aderire al protocollo della Cassa delle Ammende: “Se la destinazione delle risorse non verrà riconvertita, noi non le accetteremo”, mette in chiaro Piani. Argomentazioni che l’assessore lombardo ha espresso in una lettera inviata al presidente della Cassa delle Ammende, manifestando tutte le perplessità dell’amministrazione regionale sul programma di intervento che, per fronteggiare l’emergenza epidemiologica negli istituti penitenziari, prevede il reperimento di alloggi per i detenuti. “Si ritiene di non procedere alla presentazione delle proposte progettuali a valere sul bilancio della Cassa delle Ammende - ha scritto l’assessore della giunta Fontana - valutando che tali risorse possano più proficuamente essere erogate in via straordinaria e in relazione all’emergenza Covid-19, direttamente agli istituti penitenziari per l’implementazione degli standard sanitari nei luoghi di detenzione, anche in riferimento ai presidi in dotazione agli agenti di Polizia Penitenziaria”. Friuli. “No a decreti svuota-carceri, la situazione nei penitenziari è sotto controllo” ilfriuli.it, 6 maggio 2020 “Le proteste scoppiate anche nelle carceri del Friuli Venezia Giulia a seguito dell’emergenza nazionale legate al coronavirus sono state tenute sotto controllo e non hanno provocato particolari criticità. Il problema più generale riguardante il sovraffollamento dei penitenziari non è materia di nostra competenza; non siamo comunque d’accordo con alcun decreto che abbia come obiettivo quello di svuotare le carceri”. Lo ha affermato l’assessore regionale alla Sicurezza Pierpaolo Roberti intervenendo oggi a Udine nella sessione delle interrogazioni del Consiglio regionale. In particolare l’esponente dell’esecutivo ha compiuto una panoramica su quanto accaduto anche in Friuli Venezia Giulia a seguito delle proteste scoppiate nei penitenziari con l’applicazione delle limitazioni conseguenti all’emergenza epidemiologica in atto. “Se durante il mese di marzo in molte carceri italiane si sono svolte delle proteste, sfociate in alcune città in vere e proprie rivolte violente - ha detto Roberti - fortunatamente nella nostra regione le contestazioni si sono svolte tutte senza particolari criticità. A livello nazionale le conseguenze di quegli accadimenti hanno portato alle dimissioni dei vertici del Dap”. “Per quanto riguarda il Friuli Venezia Giulia - ha aggiunto l’assessore - pur nella criticità dovuta al sovraffollamento, alla paura tra personale civile, della Polizia Penitenziaria e tra i detenuti di contrarre il virus e allo stop alle visite così come previsto dai vari Dpcm, la situazione non ha mai destato particolari problemi. Inoltre sono stati attivati presidi sanitari all’ingresso delle case circondariali, a cui si sono aggiunte tamponature di massa nelle carceri di Udine, Tolmezzo e Gorizia dove si era registrato il timore di possibili contagi tra detenuti e agenti di polizia penitenziaria. Gli esiti dello screening non hanno però messo in evidenza casi di particolare gravità e quindi l’epidemia è stata contenuta”. Roberti ha poi evidenziato che, diversamente dal tema sanitario sul quale la Regione ha compiuto i propri passi, sul sovraffollamento delle carceri, “il problema non è sicuramente recente - ha detto l’assessore regionale - ma decennale e che a nostro avviso non può, però, essere affrontato con indulti più o meno mascherati, svuota-carceri e depenalizzazioni. È questa una competenza che non spetta alla Regione; ciò che possiamo fare noi è dare un supporto sanitario utile anche a mantenere l’ordine pubblico all’interno delle carceri per sedare eventuali timori legati a possibili contagi. A tal proposito da marzo ad oggi non si riscontra alcun problema di positività”. Infine l’assessore ha ricordato che la Regione ha attivato un tavolo permanente con le sigle sindacali tra cui anche quella riferita alla polizia penitenziaria per capire come affrontare le problematiche sollevate dagli agenti. Piemonte. La Regione dà il via libera: tamponi ai detenuti e ai poliziotti penitenziari lavocedialba.it, 6 maggio 2020 La richiesta era stata avanzata dal sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria Sappe, che esprime soddisfazione. “Via libera” della Regione Piemonte alla richiesta del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria di sottoporre i poliziotti penitenziari in servizio negli Istituti e servizi regionali ai test ematici ed ai tamponi per l’emergenza Covid-19. Accertamenti che saranno estesi anche a tutti i detenuti del Piemonte. Ricordiamo che nei giorni scorsi erano risultati positivi ben 20 detenuti rinchiusi nel carcere di Saluzzo. Lo annuncia Vincenzo Coccolo, Commissario straordinario regionale, in una lettera inviata al segretario regionale Sappe del Piemonte Vicente Santilli, sottolineando come sia necessario che “il medico competente della Polizia penitenziaria si coordini col medico competente dell’Asl di riferimento al fine di individuare le priorità, i tempi e i modi per l’esecuzione del test in questione, che sarà eseguito presso l’Asl di competenza”. Santilli esprime “soddisfazione” per la risposta di Coccolo, che ringrazia, ed auspica “che le Direzioni delle carceri regionali predispongano tutti gli adempimenti necessari per dare esecuzione a questi importanti accertamenti sanitari, che sono fondamentali per la sicurezza sociale”. Apprezzamento al Commissario straordinario Coccolo anche da Donato Capece, segretario generale del Sappe: “Ringrazio la Regione Piemonte e la struttura del Commissario straordinario regionale per l’emergenza Covid-19 per questa importante disponibilità. Anche alla luce dei tanti contagiati e di già due decessi nella Polizia Penitenziaria avvenuti, sono fondamentali per preservare i poliziotti penitenziari del Piemonte e gli stessi ristretti da eventuali contagi incontrollabili in carcere”. Palermo. Il presunto boss Vincenzo Sucato morto di Covid-19: è omicidio colposo? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 maggio 2020 Il legale della famiglia ha presentato un esposto alla Procura di Palermo. Se le mancate risposte per i trasferimenti presso strutture mediche nei confronti di un detenuto accusati o condannato per reati di mafia con gravi patologie fanno indignare quando viene concessa la detenzione domiciliare, c’è silenzio assoluto quando invece il recluso muore anche a causa dei ritardi. Nessuna indagine da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), nessuna ispezione da parte del ministero della giustizia per verificare se ci siano state qualche omissione o, addirittura, responsabilità sulla morte del detenuto. È il caso del presunto boss Vincenzo Sucato, primo morto di coronavirus a causa delle sue gravi patologie pregresse e in custodia cautelare presso “La Dozza” di Bologna. L’avvocato Domenico La Blasca, per volere dei familiari ha presentato un esposto presso la procura di Palermo richiedendo urgentemente il sequestro di tutta la documentazione per tutelare la genuinità delle prove. Il motivo? L’avvocato chiede alla procura di accertare i fatti per verificare se sussistano condotte penalmente rilevanti, tra i quali l’omicidio colposo. “Quando è iniziata la diffusione nella popolazione italiana del virus Covid 19 chi era responsabile della tutela della salute del Sucato Vincenzo sapeva, o ha colposamente trascurato, che si trattava di un soggetto ad elevatissimo rischio sia di contaminazione che di morte quasi certa in caso di contagio”, si legge nella denuncia. Ma cosa sarebbe accaduto? Come mai c’è la richiesta di verificare se ci siano stare responsabilità da parte dei responsabili dell’istituto penitenziario bolognese, tra i quali la direzione sanitaria? L’esposto ripercorre la cronologia dei fatti. Un vero e proprio calvario, trasferimenti in istituti non adatti per le patologie che aveva il recluso e soprattutto ritardi nel dare la documentazione clinica e inviati solo dopo un ulteriore sollecito da parte del giudice che doveva decidere sui domiciliari. Sucato è stato arrestato agli inizi di dicembre del 2019 per il reato di associazione mafiosa ed estorsione aggravata. Sin dall’interrogatorio di garanzia è stato evidenziato che lo stesso, all’epoca già 74enne, era affetto da diverse gravi patologie fra cui cardiopatia e diabete mellito di II° tipo. Le patologie sono state annotate nel suo diario clinico al suo ingresso al carcere di Palermo Pagliarelli, dove è stato ristretto fino al 3 gennaio 2019, data in cui viene trasferito dal Dap “per motivi di opportunità penitenziaria” al carcere di Tolmezzo. Già nasce un primo problema. L’istituto non era adatto per garantire a Sucato un’assistenza sanitaria h24 a causa delle sue gravi patologie, visto che necessitava di un pronto intervento in caso di crisi. Il legale, avuto contezza delle condizioni di salute di Sucato attraverso i colloqui telefonici, ha quindi depositato a luglio del 2019 una istanza di sostituzione della misura cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari per gravi motivi di salute. Il giudice ha respinto l’istanza, ma ha chiesto subito al Dap di individuare una struttura carceraria con un “servizio medico multi - professionale integrato”. Dopo un mese dalla richiesta urgente per l’immediato trasferimento, il Dap finalmente individua nel carcere di Bologna la struttura adatta. Siamo al 23 agosto del 2019. Ma nell’esposto dell’avvocato La Blasca si legge che “il 20.9.2019 il sig. Sucato comunicava telefonicamente che gli accertamenti a tutela della propria salute che dovevano essere effettuati presso il carcere di Bologna dal 23.8.2019 non solo non erano stati effettuati ma il carcere di Bologna non aveva un’area medica multi-professionale integrata”. A quel punto il legale, con istanza del 23 ottobre del 2019, ha richiesto al Gip la sostituzione della misura cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari alla luce delle carenze sia della struttura carceraria che delle cure prestate a Sucato. Il giudice però ha rigettato l’istanza perché ha acquisito due relazioni sanitarie dal carcere di Bologna le quali hanno attestato che tutto sarebbe filato liscio. Nella prima relazione si legge che “... attualmente il paziente è in discrete condizioni di compenso ed effettua le terapie prescritte ed usufruisce del vitto per diabetici”, mentre la seconda elenca quello che - secondo la direzione sanitaria - sarebbe il sistema di assistenza presso la struttura. Secondo l’avvocato, però, la struttura non sarebbe stato in grado di garantire un’assistenza come descritto dalle relazioni, situazione aggravata dal fatto che aveva avuto un ictus a metà febbraio e ancora non gli avevano fatto l’intervento alla carotidea. Ma non solo. Sucato ha detto telefonicamente ai suoi familiari che gli era stato consigliato di fare domanda di trasferimento perché non sarebbero state più disponibili le medicine per curarlo. Subito l’avvocato ha fatto un’altra istanza urgente, anche questa rigettata il 20 marzo scorso perché mancavano le documentazioni cliniche del carcere. Con richiesta del 23 marzo, la difesa ha chiesto una relazione al direttore della Casa Circondariale di Bologna. Ma non ricevendo nessuna riposta, l’avvocato ha inoltrato una ulteriore istanza per chiedere gli arresti domiciliari per gravi motivi di salute. Con un provvedimento del 25 marzo, il giudice ha chiesto urgentemente la relazione sanitaria da parte del carcere. Ma anche questa volta non ha ricevuto nulla. All’udienza del 26 marzo scorso Sucato ha comunicato telefonicamente alla difesa le medesime circostanze riferite precedentemente ai familiari, ovvero la mancanza di medicine specifiche, poca vigilanza sanitaria e la convinzione che il virus si stesse diffondendo all’interno della struttura carceraria. Lo stesso giorno, Sucato viene sottoposto a visita medica urgente all’interno del carcere e lo trasferiscono al pronto soccorso dell’Ospedale Sant’Orsola di Bologna. La sera sempre del 26 marzo l’ufficio matricola comunica al difensore, mediante telefonata allo studio, il ricovero di Sucato all’Ospedale Sant’Orsola di Bologna per una presunta grave polmonite. Il 27 marzo la difesa informa il Gip che Sucato è stato ricoverato il giorno precedente presso l’ospedale di Bologna per polmonite. Il Gip, a quel punto sollecita nuovamente la relazione medica richiesta tre giorni prima e notizie sullo stato di salute attuale del detenuto. Il 28 marzo finalmente il carcere di Bologna relaziona al Gip e trasmette documentazione sanitaria da cui emerge che il 26 Sucato è stato sottoposto al tampone e in seguito alla positività dell’esame è stato trasferito al reparto Covid19. E il 30 marzo, il Gip finalmente dispone degli arresti domiciliari presso l’ospedale. Ma oramai Sucato si è aggravato, viene trasferito in terapia intensiva e muore a mezzanotte del 2 aprile. Tante sono le domande e tante cose vanno chiarite. Si sapeva già del contagio all’interno del carcere di Bologna? Se sì, il direttore sanitario e il responsabile del Dap, come mai non hanno disposto un trasferimento urgente? A questo si aggiunge il ritardo nel fornire la relazione clinica e inviarla al Gip dopo una sua sollecitazione. Sarà eventualmente la procura di Palermo a trovare le risposte. Resta un dato oggettivo. Era ampiamente documentato che Sucato, qualora fosse stato contagiato, sarebbe certamente deceduto. Ed è accaduto. Padova. Due Palazzi, il carcere non vede la fase due. Le coop: “Non gettiamo via un modello” Corriere del Veneto, 6 maggio 2020 Fase 2, per qualcuno è iniziata, per gli altri si programma la ripartenza. L’unico settore in cui sembra non ci sia una certezza sono le carceri. Per questo le cooperative che lavorano al Due Palazzi chiedono incontri urgenti con la direzione del carcere, per avviare i piani necessari. Al momento i colloqui con i parenti sono sospesi, come pure tutte le attività all’interno della struttura. Col cambio al vertice nazionale dell’amministrazione penitenziaria, al centro di polemiche, sono in tanti a chiedere risposte. Lo fanno Ornella Favero di Ristretti Orizzonti e Nicola Boscoletto della Coop Giotto: “Il “modello Padova” di gestione dei detenuti è stato un esempio per molti. Chiediamo che gli sforzi fatti fin qui non siano gettati al vento”. Roma. “Manifestini intimidatori contro i dirigenti sanitari penitenziari” romatoday.it, 6 maggio 2020 I volantini sono comparsi nella notte. La denuncia del Garante Anastasìa: “Azione inqualificabile”. “Manifestini intimidatori e offensivi, all’indirizzo dei dirigenti dei servizi sanitari nelle carceri di Roma, di Rebibbia e di Regina Coeli, sono apparsi oggi sulle mura dell’edificio che ospita la sede amministrativa della Asl Rm2”. È la denuncia diramata, con una nota, dal Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio, Stefano Anastasìa. “Si tratta di un’azione inqualificabile che nulla ha a che fare con la tutela dei diritti dei detenuti e la giusta preoccupazione per la possibile diffusione del virus in carcere”. Nel corso delle ultime settimane il Garante si è espresso più volte a favore del ricorso ai domiciliari per far fronte al sovraffollamento delle carceri, italiane e regionali in particolare, necessario a rendere più sicura la gestione di un eventuale contagio di Coronavirus all’interno del carcere. Sul punto hanno più volte protestato anche i detenuti e le loro famiglie. Le immagini con immagini e testi denigratori nei confronti del personale sanitario, secondo quanto apprende Roma Today, sono comparse questa notte. Sul fatto sta indagando la polizia. Roma. Dietro la rivolta di Rebibbia la regia dei boss romani di Giuseppe Scarpa Il Messaggero, 6 maggio 2020 In 70 si erano sollevati. I detenuti avevano ribaltato materassi, distrutto telecamere, aggredito gli agenti e preso possesso di un’ala del carcere di Rebibbia, nella Capitale. Una protesta, quella del 9 marzo, che aveva trascinato, dietro le barricate, altri 300 ospiti del carcere. Sobillati ad arte da uno zoccolo duro che ne tirava le redini. Attori interni al penitenziario mossi, a loro volta, dal grande crimine. È questa l’ipotesi al vaglio della procura di Roma che indaga per i reati di devastazione e saccheggio. Il pm che ha in mano il fascicolo, grande esperto in materia di carcere, è Francesco Cascini. I detenuti ufficialmente hanno sempre sostenuto di essere preoccupati per la loro salute. Un possibile contagio di Coronavirus dentro Rebibbia, dove sono spesso stipati come sardine, potrebbe avere, se non immediatamente riscontrato, un impatto devastante. Ma in realtà ci sarebbe qualcosa di più profondo. I primi due detenuti a fare le spese del repulisti dentro il carcere sono stati Leandro Bennato, uomo di Diabolik, gambizzato tre mesi dopo l’assassinio del suo capo, e Daniele Mezzatesta. Quest’ultimo è un 38enne romano condannato a 17 anni, perché in casa gli trovarono sei chili di tritolo, un kalashnikov, tre mitragliatori, un fucile a canne mozze, una sfilza di semiautomatiche e di revolver. Mezzatesta non ha mai detto nulla agli inquirenti sull’origine di armi e droga. Ma come capo popolo, assieme a Bennato ha dimostrato di avere una certa eloquenza. Avrebbe fomentato gli altri detenuti. Alla fine la decisione è stata quella di trasferirli nella casa circondariale di Secondigliano. Ad ogni modo l’inchiesta cerca di capire l’evoluzione della protesta. Di certo la stretta delle visite ai detenuti, stabilite all’indomani dell’emergenza Covid-19, è all’origine di tutto. Ma più che un problema di carenza di affetti si tratterebbe di un difetto di comunicazione con il mondo esterno. Una misura che è una calamità per la criminalità organizzata. Un blackout informativo che fa saltare la diffusione di messaggi, destabilizza mafie o la criminalità più in generale. Alcuni dei detenuti non possono fare filtrare all’esterno le loro disposizioni. Gli ordini per tenere in piedi la macchina che fuori continua ancora a girare nonostante il Coronavirus. Come fare se un boss è rinchiuso in cella e non riesce a spedire le sue raccomandazioni fuori? O al contrario se non viene costantemente aggiornato? La protesta ha camminato veloce da un carcere all’altro del Paese, raccogliendo il veleno di molti pesci piccoli che si sono sentiti autorizzati a sfogare tutta la loro frustrazione. Alcune, probabilmente, erano manifestazioni spontanee, altre no. E forse, questo, è proprio il caso di Rebibbia. Milano. Avvocati, come cambia la professione nell’era del Coronavirus di Isidoro Trovato Corriere della Sera, 6 maggio 2020 Se la Lombardia è l’epicentro italiano della “catastrofe Covid-19”, Milano è diventata il modello di riferimento per i professionisti che devono riorganizzarsi durante e dopo l’ondata del Coronavirus. E l’Ordine degli avvocati di Milano è diventato il laboratorio migliore per sperimentare azioni di contrasto alla crisi e immaginare un nuovo assetto della professione. “Questa emergenza sanitaria cambierà inevitabilmente i paradigmi e le grammatiche - avverte Vinicio Nardo, presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano - si mescoleranno le competenze dell’avvocatura e le specializzazioni saranno diverse: ci sarà più interconnessione tra diritto e sanità. Serviranno giuristi che suggeriscano le regole del nuovo mondo nella contrattualistica e nel lavoro”. Le proposte - L’Ordine degli avvocati di Milano conta 24.871 iscritti, con 20.258 avvocati e 4.613 praticanti. Riunisce 1.046 tra studi associati e società tra professionisti. Si tratta di una realtà di primissimo piano nell’avvocatura italiana ed è per questo che sta proponendo alcune soluzioni contro le criticità emerse. “L’amministrazione della giustizia non è un motore a un’unica velocità - ricorda Nardo -. In questa fase il ricorso al processo telematico e alla giustizia a distanza non può valere per tutti: ciò che vale per il civile non si riscontra nel penale. Altro discorso ancora riguarda la giustizia amministrativa, che in questo momento emergenziale avrebbe deciso di fare a meno degli avvocati, introducendo una preoccupante “udienza virtuale”. Quest’ultimo provvedimento ha generato forte allarme scaturito in una delibera del Consiglio dell’Ordine di Milano inviata in primis al capo dello Stato. L’esercizio del diritto di difesa non può essere così compresso, tanto da essere così di fatto sospeso”. Invece il giudice di pace, non dispone al momento di una piattaforma telematica. “Per quanto riguarda il giudice di pace - continua il presidente degli avvocati milanesi - la situazione si aggraverà a partire dal 12 maggio, quando, cessato il periodo di sospensione, alla mole di fascicoli arretrati (anche per le udienze non celebrate) si sommerà quella delle nuove iscrizioni a ruolo. Solo per dare uno spaccato della dimensione del fenomeno, si pensi che il giudice di pace di Milano ha un flusso di quasi centomila procedimenti - civili e penali - all’anno. In quel caso l’apporto telematico diventa una priorità”. Il processo telematico - Sul processo telematico però ci sono opinioni discordanti e soprattutto l’introduzione nell’ambito penale ha suscitato non poche perplessità tra gli avvocati. “Il settore civile era in parte pronto all’emergenza grazie al processo civile telematico, ormai diventato patrimonio comune - ricorda Nardo -. In effetti diverso risulta il discorso per il penale dove, in questo periodo emergenziale, ci sono state luci ed ombre. Si sono fatti salti di 10 anni introducendo opportunità che appena un giorno prima erano ritenute impossibili, ma si teme un salto indietro con un’introduzione indiscriminata di un processo telematico che metterebbe a rischio tutte le garanzie. Quindi sì a alla possibilità di depositare in via telematica atti, liste testi, impugnazioni, memorie, visione da remoto dei fascicoli e la richiesta copie, ma alla fine ci si deve trovare in aula”. Le tutele - La frenata sull’innovazione dei processi potrebbe essere letta come una posizione conservatrice nei confronti di una macchina della giustizia da sempre considerata troppo lenta e poco al passo coi tempi. “La tecnologia entrerà rapidamente nel sistema giudiziario ma i principi non devono rimanere indietro - osserva Nardo. Per il processo penale ci si augura la scomparsa dei fascicoli che viaggiano sui carrelli grazie all’avvento del processo telematico ma la deposizione di un testimone deve essere tutelata al meglio. Nel penale ci sono attività giudiziarie che si potrebbero svolgere con l’ausilio della videoconferenza ma sempre su specifica richiesta dell’imputato (o del difensore munito di apposita procura), formulata in anticipo per consentire l’organizzazione, sia per i detenuti sia per i liberi, in aggiunta a quelle di cui la legge già impone la celebrazione”. Dopo questa crisi epocale lo scenario non sarà più lo stesso, qualcuno ipotizza grandi fusioni, acquisizioni e la fine degli studi con la singola figura del dominus. Bisogna prepararsi a questo? “Bisognerà prima capire quante “vittime” farà questa crisi. È una prova molto complessa: potrebbe crescere il numero degli studi associati, potrebbe prepararsi un futuro di studi aggregati con nuove competenze trasversali. Non credo all’ipotesi di grandi network multinazionali di consulenza che inglobino anche i servizi legali. Il nostro non è un lavoro da catena di montaggio: probabilmente la scarsa liquidità indurrà a studi più numerosi ma la competenza sarà sempre di più un capitale sociale”. Roma. Isola Solidale, nasce il numero verde dedicato alle conseguenze della detenzione agensir.it, 6 maggio 2020 Prende il via, con la presentazione di oggi, l’iniziativa “Oltre il carcere” grazie alla quale verrà messo a disposizione di tutto il mondo legato al disagio e alle conseguenze della detenzione il primo numero verde gratuito in Italia che sarà incubatore di integrazione e solidarietà. Il numero verde totalmente gratuito (800.938.080) sarà attivo dal lunedì al sabato dalle 9 alle 18, è promosso dall’Isola Solidale in collaborazione con il garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale di Roma Capitale e si avvarrà anche della grande rete solidale della Capitale in particolare dello sportello per l’esigibilità dei diritti delle Acli di Roma e provincia e del sostegno dell’associazione “Semi di libertà onlus”. Collaborazione, che soprattutto in questo periodo di emergenza legata al Covid-19 ha cercato di mettere in campo ogni mezzo per sostenere e aiutare famiglie, bambini in stato di disagio economico e sociale soprattutto se con un parente di carcere. “Un servizio - ha spiegato Alessandro Pinna, presidente dell’Isola Solidale - che abbiamo sognato da anni e che oggi diventa realtà per essere più vicini non solo ai detenuti e agli ex detenuti, ma soprattutto alle loro famiglie e in particolare modo ai minori che spesso a seguito della detenzione di un genitore vivono preoccupanti situazioni di disagio e di emarginazione. Con l’arrivo della tempesta Covid-19, poi, ci siamo dovuti confrontare anche con una condizione sociale ed economica disastrosa e per questo motivo abbiamo cominciato anche un’attività di sostegno alimentare, economico e psicologico che verrà messo a regime con l’entrata in funzione del nostro numero verde”. “Questo servizio - ha sottolineato Gabriella Stramaccioni, garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale di Roma Capitale - che viene presentato oggi rappresenta un concreto e indispensabile aiuto per le persone che si trovano in questo periodo ancora di più in difficoltà. L’emergenza sanitaria ha stravolto le nostre vite e per chi esce da una situazione detentiva, già privo di punti di riferimento e spesso senza nessun familiare né una casa, sapere che c’è chi può aiutarli e orientarli significa spesso una salvezza”. “Le Acli di Roma vogliono fare la propria parte anche in questa iniziativa destinata a persone in condizione di estrema fragilità - ha commentato Lidia Borzì, presidente delle AclI di Roma e provincia - mettendo a disposizione le proprie competenze e le proprie capacità a servizio di coloro che necessitano di sostegno per l’esigibilità dei diritti con il Patronato e gli altri servizi, ma anche per il contrasto alla povertà educativa grazie alle numerose iniziative che l’associazione ha attivato su questo tema”. Cosenza. Solidarietà: pasti cucinati dai detenuti distribuiti ai senzatetto di Antonella Barone gnewsonline.it, 6 maggio 2020 Da ieri i volontari dell’associazione “La Terra di Piero” si recano ogni giorno, e lo faranno fino alla fine dell’emergenza, alla porta carraia della casa circondariale “Sergio Cosmai” di Cosenza dove ritirano pasti cucinati dai detenuti per poi distribuirli ai senzatetto della città. L’iniziativa, promossa dall’amministrazione comunale di Rende, è organizzata dall’associazione cosentina in collaborazione con l’Istituto Professionale Artigianale ‘Todaro’ di Rende, i cui docenti coordinano l’attività di preparazione di 23 pasti al giorno. In questo modo anche chi non dispone di una cucina potrà avere assicurato cibo caldo due volte al giorno. “La consapevolezza di avere in minima parte contribuito a dare un senso di utilità a persone che purtroppo rischiano di non sentirla addosso, mi regala gioia e orgoglio”. Questo il commento del presidente dell’associazione Sergio Crocco in un post in cui ha ringraziato anche la direttrice Teresa Mendicino per l’adesione all’iniziativa. Nei giorni scorsi l’associazione “La Terra di Piero”, insieme a una rete di altre realtà sociali affiliate, aveva recapitato in carcere generi alimentari e materiale igienico destinato ai detenuti. Pochi giorni dopo agli organizzatori è arrivata una lettera in cui i reclusi ringraziavano per l’attività a sostegno “degli ultimi e dei più bisognosi”. Un rapporto di scambio reciproco che si è espresso nella nuova iniziativa che ha visto questa volta i detenuti protagonisti di un gesto di solidarietà. “La lettera ricevuta negli scorsi giorni - aggiunge Sergio Crocco - è stata il miglior attestato di stima per il nostro gesto. Per noi è una boccata di ossigeno sapere che chi vive una situazione di privazioni e restrizione decide di dedicare parte della propria giornata e delle proprie energie per lenire le sofferenze dei meno fortunati. Tutto ciò riempie il cuore di gioia e ci rende sempre più orgogliosi della nostra città e di tutti i suoi abitanti”. Bergamo. La polizia del carcere si autotassa per un contributo all’Ospedale Papa Giovanni bergamonews.it, 6 maggio 2020 Il direttore generale Maria Beatrice Stasi: “Questo gesto è un segno tangibile della vicinanza fra le nostre due istituzioni”. Il personale del Corpo di Polizia Penitenziaria e Funzioni Centrali della Casa Circondariale di Bergamo, si è autotassato in segno di solidarietà per esprimere un concreto contributo a sostegno dell’Azienda Ospedaliera Papa Giovanni XXIII. È così che l’Istituzione Carcere ha voluto mostrare la propria vicinanza a tutto il personale medico, infermieristico e paramedico che opera tanto nell’istituto penitenziario, quanto nei reparti ospedalieri dell’ASST “Papa Giovanni XXIII”. Il dramma sanitario che ha colpito Bergamo e l’intera provincia ha reso necessario che la Direzione del carcere rivedesse la propria organizzazione anche rispetto alla prevenzione e alla cura della salute del personale penitenziario e della popolazione detenuta. L’adozione di nuovi protocolli operativi a fronte dell’emergenza e in previsione degli eventuali casi di contagio da Covid-19 è stata in continua evoluzione al passo con le indicazioni governative, della Regione e in linea con le indicazioni dell’Amministrazione Penitenziaria, contestualizzate rispetto alle specificità dell’Istituto di Bergamo. Il lavoro di rete e congiunto, svolto da tutto lo staff sanitario dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII, è meritevole del più ampio apprezzamento. Un particolare ringraziamento va alla Direzione dell’ASST, Dirigente Generale e Direttore Socio-Sanitario, al Dirigente Sanitario Dottor Giampietro Gregis, specialista in malattie infettive e al suo staff medico che ha avuto un ruolo essenziale nella gestione dell’informazione e nella definizione delle linee guida della Regione Lombardia. Al coordinatore infermieristico Davide Togni si riconosce in modo particolare la tempestività con cui, quotidianamente, ha comunicato e reso noto risultati sanitari in segno di puntuale collaborazione e se Comando. Un grazie, inoltre, a tutto il personale infermieristico dell’Istituto, per avere silenziosamente e compiutamente svolto oltre alle consuete incombenze, anche tutti gli adempimenti legati all’effettuazione dei “triage” con assidui controlli sugli accessi in Istituto, presso la postazione di ingresso. La Direzione e il Comandante di Reparto e il personale penitenziario tutto, con la donazione compiuta in favore dell’ASST Papa Giovanni XXIII, desiderano esprimere, un sincero ringraziamento e dare un piccolo contributo al personale medico, paramedico e infermieristico della città di Bergamo, che ha combattuto in prima linea nell’epicentro di massimo contagio con l’unico obiettivo di salvare delle vite umane. Il direttore generale Maria Beatrice Stasi ha voluto esprimere il ringraziamento personale e a nome di tutti i professionisti del Papa Giovanni: “Questo gesto è un segno tangibile della vicinanza fra le nostre due istituzioni, impegnate a tutelare i cittadini in questa pandemia. La collaborazione è stata massima e ha finora consentito di garantire la sicurezza per operatori e detenuti anche in carcere, grazie alla disponibilità e alla professionalità di tutti”. Modena. Sognalib(e)ro, quando i detenuti si trasformano in scrittori Gazzetta di Modena, 6 maggio 2020 Si sta costruendo la nuova edizione del premio nazionale voluto da TuttoLibri Oggi il meeting che vede collegati con Modena educatori di 15 istituti penitenziari. Prende il via con un vero e proprio meeting / seminario telematico il percorso che porterà alla terza edizione del Premio Sognalib(e)ro per le carceri italiane. Oggi si confronteranno online i referenti dei gruppi che svolgono attività con i detenuti in 15 istituti penitenziari di tutta Italia che partecipano al Premio. Si collegheranno con Modena per dialogare insieme agli organizzatori sulle modalità migliori per coinvolgere e favorire una partecipazione positiva al concorso letterario. Sarà il primo passo per la costruzione della nuova edizione del Premio nazionale diretto da Bruno Ventavoli, direttore di TuttoLibri - La Stampa, promosso da Comune di Modena con Direzione generale ministero della Giustizia - dipartimento amministrazione penitenziaria, e con il sostegno e la partecipazione attiva di Bper Banca. “Abbiamo ritenuto - spiega l’assessore alla cultura del Comune di Modena Andrea Bortolamasi - che mantenere l’incontro, anche se online, costituisca un segnale forte e positivo. Lo scopo è condividere modalità ed esperienze con gli educatori degli istituti coinvolti e raccogliere suggerimenti per il prossimo Sognalib(e)ro”. La scaletta dell’incontro, che si svolge dalle 14 alle 16, prevede interventi di Bruno Ventavoli, direttore e ideatore del Premio, dell’assessore Andrea Bortolamasi, di Eugenio Tangerini, responsabile Relazioni esterne e Responsabilità sociale di Bper Banca, e di Stefano Tè, direttore artistico del Teatro dei Venti. Al centro dell’incontro l’illustrazione di Bruno Ventavoli ai partecipanti delle finalità e dei valori del progetto Sognalib(e)ro, nato per promuovere lettura e scrittura nelle carceri come strumento di riabilitazione, secondo il dettato della Costituzione della Repubblica Italiana. Si proseguirà con la condivisione di modalità ed esperienze e un dialogo aperto, per concludere infine con la scelta condivisa dei tre libri da candidare nella prossima edizione del premio. Gli educatori che partecipano al seminario sono referenti per la Casa Circondariale di Torino Lorusso e Cotugno, la Casa Circondariale di Modena, la Casa di Reclusione di Milano Opera, quelle di Pisa, Brindisi, Verona, Saluzzo, Pescara, Firenze Sollicciano, Napoli Poggioreale, Sassari, Paola, Ravenna; quelle femminili di Roma Rebibbia e Pozzuoli. Programmato in origine nella giornata di apertura del Trasparenze Festival di Teatro dei Venti (rinviato a causa della pandemia), il Seminario Sognalib(e)ro, spiega Stefano Tè “è stato ideato per condividere scelte e metodologie con gli educatori che lavorano nelle Carceri coinvolte: solo con il loro apporto possiamo migliorare il progetto, rendendolo più efficace”. La pandemia non diventi un pretesto per l’autoritarismo: partono le petizioni di Vittorio Ferla Il Riformista, 6 maggio 2020 C’è modo e modo di fare il domestico. Dipende dal proprio padrone. Dal modo di interpretare il ruolo. Dalla preparazione per svolgere il servizio. “I padroni e le padrone di solito brontolano con i servitori perché non si chiudono la porta alle spalle”, scriveva più di due secoli fa Jonathan Swift nelle sue Istruzioni per i domestici. E allora - suggerisce Swift con humour nero ai disperati domestici - “datele, alla porta, una tale sbatacchiata nell’uscire da far tremare tutta la stanza e far crepitare tutto quello che c’è dentro, così rammenterete al vostro padrone e alla signora che vi attenete ai loro comandi”. L’appello degli intellettuali a favore del governo pubblicato dal quotidiano il manifesto - già organo della sinistra critica, oggi scivolato sulla buccia della banana populista - fa lo stesso rumore di una porta malamente sbatacchiata. Intendiamoci: non emerge alcun interesse materiale nel rapporto servile tra i firmatari e il governo. Siamo certi che nulla il governo abbia chiesto a costoro. E che l’impulso alla servitù, squisitamente ideologica, sia nato spontaneo e sincero. C’era una volta nel Novecento - D’altra parte, pure Lavrentij Pavlovi? Berija, l’artefice delle purghe staliniane, mostrava non pochi eccessi di zelo nel suo servizio alla causa sovietica. “Lasciate che i nostri nemici sappiano che chiunque tenti di sollevare una mano contro il nostro popolo, contro il volere del partito di Lenin e Stalin, verrà schiacciato e distrutto senza pietà”, ebbe a dire in un discorso nel giugno del 1937. Che sarà mai dunque un appello? Un appello è un genere letterario, in fondo, da giudicare quasi più per il suo valore simbolico e “artistico” che per le sue ricadute concrete. Il Manifesto degli intellettuali fascisti del 1925, vergogna storica della cultura italiana, fu un testo di tragica grandezza. Intriso di idealismo ed hegelismo di ispirazione gentiliana, aveva uno spessore filosofico che quello che oggi commentiamo si sogna. Vi si legge, a proposito dei principi liberali: “… di due principi uno inferiore e l’altro superiore, uno parziale e l’altro totale, il primo deve necessariamente soccombere perché esso è contenuto nel secondo, e il motivo della sua opposizione è semplicemente negativo, campato nel vuoto”. E a proposito dei critici liberali: “…il residuo di vita e di verità dei loro programmi è compreso nel programma fascista, ma in una forma balda, più complessa, più rispondente alla realtà storica e ai bisogni dello spirito umano”. Raffinato e crudele, senza se e senza ma. D’altra parte, tra i firmatari c’erano Giovanni Gentile, Gabriele D’Annunzio, Filippo Tommaso Marinetti, Ugo Spirito, Margherita Sarfatti e tanti altri ancora. I domestici non sono tutti uguali. Ma sono tutti - egualmente e organicamente - filistei. Così, la funzione servile dell’intellighenzia nei confronti del potere costituito - pur cambiando radicalmente i contesti - è il ritorno dell’eguale. Il laboratorio del populismo sudamericano - Storicamente - ormai dovremmo saperlo - l’appello degli intellettuali a favore del governo per tacitare le critiche delle opposizioni è l’arma più educata dei regimi. Ma la storia rivela sempre nuovi interpreti. In tempi recenti, è stata l’America Latina, laboratorio dei populismi di destra e di sinistra, da Peròn a Maduro passando per Castro, il teatro elettivo di queste performance. Come dimenticare le falangi di intellettuali di sinistra schierate in questi anni a favore di Chavez, con quella furia cieca che oggi ci consegna le macerie del Venezuela? L’abbaglio colpisce da decenni una buona parte dell’intellighenzia europea: al punto che, nel 1996, tre intellettuali liberali, Plinio Apuleyo Mendoza, Carlos Alberto Montaner e Álvaro Vargas Llosa pubblicarono un divertente Manuale del perfetto idiota latinoamericano (tradotto anche in Italia a vantaggio degli idioti nostrani). Qualcuno a questo punto avrà già alzato il sopracciglio e ingrottato la fronte. Vogliamo rassicurarlo. In Italia non c’è alcun regime autoritario. Semmai un governicchio, piccolo piccolo come il borghese di Sordi, paternalista e burocratico, mediocre anche a dispetto del suo populismo; ma che pretende un “atto d’amore” e tanto basta per esercitare una “padronanza” culturale. Un governo prima di tutto inetto e ottuso, che sta in piedi solo perché l’alternativa sarebbe peggio: lo ammettono perfino i domestici nel loro appello. Ammissione che ricorda che la grandezza del domestico dipende dalla grandezza del suo padrone. In fondo viviamo nell’epoca delle “passioni tristi”, direbbero Miguel Benasayag e Gérard Schmit. E Conte sta a Chavez come l’operetta sta all’opera. O come il Checco Zalone di Quo Vado? sta al Riccardo III di William Shakespeare. Spegnere la “candela” della libertà - Di fronte a cotanto padrone, che fanno gli intellettuali “appellanti”? Le narrazioni sistematiche non ci sono più. Né servono più le rotonde elaborazioni ideologiche. Il più banale degli schemini populisti - popolo vs élite - è lì a disposizione. L’unico anatema spendibile è questo: la “classe dirigente” e il “ceto intellettuale” (di grazia, scusino, ma lor signori che cosa sono?) hanno tradito! E più di tutti hanno tradito i democratici “liberali”. E così, in un (de)crescendo spettacolare, il manipolo di intellettuali domestici - sedicenti democratici - finisce l’appello con una sola banale richiesta: silenziare i liberali. Tutto ciò accade con un tempismo formidabile, pochi giorni dopo la pubblicazione del manifesto promosso dal Nobel Mario Vargas Llosa - con altri 150 intellettuali liberali - dal titolo programmatico: Che la pandemia non sia un pretesto per l’autoritarismo. Ora, se dovessimo dare uno spassionato - ma convenzionale - parere agli appellanti, suggeriremmo di difendere la libertà di critica contro i rischi dell’autoritarismo invece di tacitare le voci libere in difesa dell’autorità. Ma sarebbe un cattivo consiglio: come insegnano ancora le “istruzioni” di Jonathan Swift, da che mondo è mondo, i domestici devono compiacere il padrone e, anche in assenza degli strumenti adatti, devono ricorrere “a qualsiasi espediente”, “piuttosto che lasciare l’opera incompiuta”. “Vi sono diverse maniere di spegnere le candele, e voi dovreste conoscerle tutte”, scrive Swift: “strusciare il lucignolo della candela accesa contro le boiseries della stanza”, “posarla sul pavimento e pestarne col piede il lucignolo”, “tenerla capovolta finché resta soffocata dal suo stesso grasso”, “schiacciarla nel bocciolo del candeliere”, o addirittura, “quando andate a letto, dopo aver fatto acqua, potete immergere la candela nell’orinale”. Gli esempi e le tecniche di spegnimento sono tanti: dai bolscevichi ai togliattiani, dagli stalinisti ai brigatisti, fino ai populisti di oggi, la storia della sinistra è storia dei tentativi di spegnere le candele riformiste e liberali; una storia di flirt, non proprio occasionali, con il pensiero autoritario. I populisti di sinistra sono dei domestici specialissimi, incaricati di una prestazione “escatologica”: la salvezza del popolo non contempla deviazioni. Ma che si è messo in testa Vargas Llosa?! I rischi della servitù - Nella tragicommedia “Les bonnes”, lo scrittore francese Jean Genet, cantore estremo delle figure marginali, racconta la vicenda di Claire e Solange, sorelle e domestiche al servizio di una ricca signora. Vittime dell’ambivalenza affettiva nei confronti di Madame - amata, ammirata, e insieme invidiata e odiata - vogliono assomigliarle, ma finiscono per annientarsi, prigioniere della loro stessa incapacità di diventare adulte: alla fine Claire beve la tisana avvelenata che insieme avevano preparato per la padrona, mentre Solange si prepara a scontare la pena per quello che appare un omicidio. Cari intellettuali, a fare i domestici si rischia grosso: se non la morte, almeno lo sputtanamento. Armi sì, respiratori no: nel 2020 oltre 26 miliardi in spese militari per l’Italia di Rita Rapisardi L’Espresso, 6 maggio 2020 L’industria bellica non conosce crisi, neanche durante l’emergenza. La produzione italiana di armi per guerre che non esistono aumenta ogni anno, mentre cresce l’importazione delle forniture mediche per 7,7 miliardi di euro. Intanto medici e infermieri sono sempre meno e i tagli alla sanità sempre di più. Gli F35? Valgono centocinquantamila terapie intensive. La portaerei Trieste? Cinquantamila respiratori polmonari. Una manciata di blindati e un elicottero? Trecentotrentamila posti letto oppure dieci miliardi di mascherine. Di fronte alla guerra contro il coronavirus ci siamo trovati impreparati, senza armi. Eppure non ci mancano quelle per combattere una guerra che non esiste: quella sul campo. Le spese militari in Italia crescono da anni, così come i tagli alla sanità. E adesso che mancano ventilatori, posti letto, mascherine e reagenti, è ancora più difficile da accettare. Già perché le forniture mediche dell’Italia dipendono per lo più dall’estero: con quello che produciamo non copriamo neanche il 50 per cento del fabbisogno, per questo importiamo apparecchi elettromedicali per 1,2 miliardi e attrezzature medico-dentistiche per 6,5 miliardi l’anno. Mentre importiamo armamenti per meno di cinquecento milioni. Una scelta di priorità che oggi costa cara. Un esempio sono i 43mila posti di lavoro in meno nella sanità in dieci anni (dati Fondazione Gimbe) o gli scarsi investimenti per le preziose terapie intensive (una, costa 100mila euro). Basta poi confrontare la media dei Paesi Ocse: da noi ci sono 3,2 posti letto ogni mille abitanti, contro il 4,7 di quella europea. Capofila è la Germania (la terza a livello mondiale) con otto, motivo che ha contribuito a controllare meglio la diffusione dell’epidemia. E poi i tagli dei posti letto (15mila euro l’uno): dal 2000 al 2017 si parla di meno il 30 per cento. Più soldi per le armi, sempre meno per la sanità - Nelle ultime settimane abbiamo assistito a medici richiamati dalla pensione, alla corsa alle lauree per buttare in corsia quanti più infermieri possibile e all’assunzione immediata di circa 20mila operatori sanitari per sopperire ai periodi di magra. “Si è voluto anteporre la spesa militare a quella sociale e civile, questo ha portato a un costante indebolimento del Sistema Sanitario Nazionale a fronte di una ininterrotta crescita di fondi per l’industria degli armamenti”, commenta Francesco Vignarca, coordinatore di Rete Disarmo. Mentre da un lato la spesa militare è passata dall’1,25 per cento del Pil fino a raggiungere un picco del 1,45 per cento (con l’amministrazione di Trump che spinge perché i membri Nato raggiungano il 2 per cento, che per l’Italia vorrebbe dire 10 miliardi in più all’anno), dall’altro quella sanitaria è scesa di un punto percentuale, con una previsione per il 2020 che si aggira sul 6,5 per cento del Pil. “E questi sono solo i numeri delle previsioni di partenza - sottolinea Vignarca - perché nei bilanci consuntivi si verifica una spesa effettiva decisamente superiore. Va sottolineato poi che nella previsione per il 2020 quasi 5,9 miliardi di euro sono destinati all’acquisto di nuovi sistemi d’arma”. Secondo i dati elaborati dall’Osservatorio Mil€x nel 2020 spenderemo circa 26,3 miliardi in spese militari, un miliardo e mezzo in più rispetto l’anno precedente. L’industria bellica non conosce crisi, cresce con il lascia passare di tutti i governi che si sono susseguiti negli ultimi 15 anni, anche con l’approvazione da parte del Movimento Cinque Stelle e del Partito Democratico. “Sembra che una volta arrivati al governo cambi tutto, non si riesce a superare quello scoglio, nonostante in passato si siano fatte battaglie opposte”, aggiunge Vignarca. Ci servono tutte queste armi? - “Sa qual è il bilancio della portaerei Cavour, costata 1,3 miliardi ed entrata in servizio nel 2009? Che io sappia ha fatto due operazioni: la prima ad Haiti nel 2010, nell’ambito del cosiddetto “battesimo operativo”, per portare soccorsi dopo il terremoto. La seconda, ancor più incomprensibile per una portaerei, per il tour militare-commerciale-umanitario denominato “Sistema Paese in Movimento” iniziato a novembre del 2013 in cui, col pretesto della lotta alla pirateria, ha toccato diversi porti della penisola araba e dell’Africa per pubblicizzare i prodotti dell’industria bellica italiana. In una parola, finora è servita soprattutto per attività di rappresentanza e per celebrazioni”, commenta Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio sulle armi leggere (Opal) di Brescia. Ecco, lo scorso maggio ne è stata varata una nuova. La Trieste, costo previsto 1,2 miliardi di euro. Non ci sono solo i celebri F-35 dal valore di 15 miliardi di euro. È fresca la conferma dell’acquisto da parte della Marina Militare di due sommergibili dal costo di 1,3 miliardi di euro, che saranno costruiti da Fincantieri: mentre il coronavirus blocca i cantieri, come il comparto delle navi da crociera, la scelta militare sembra la più sensata per non star fermi. “Come si fa a chiedere soldi all’Europa quando in bilancio ho appena inserito due sommergibili?”, commenta Beretta. Senza dimenticare i sette miliardi di euro sbloccati dal Ministero della Difesa e dal MISE per la prevista “Legge Terrestre” che dovrebbe garantire la costruzione di diversi armamenti. E poi ci sono le 36 missioni militari all’estero che ogni anno ci costano 1,3 miliardi. Servono a dare visibilità, ma non solo: “Molti dei mezzi militari usati in questi contesti, come i Lince, sono rivenduti con il valore aggiunto di essere stati “testati in scenari di guerra”“, dice Beretta. Di queste missioni poi, come quella in Afghanistan, denunciano le associazioni, mancano bilanci a lungo termine e risultati raggiunti che vadano oltre il numero dei pasti caldi distribuiti o dei posti letto creati. Neanche il coronavirus ferma il settore - Neanche il lockdown ha fermato il settore. Si legge infatti in una comunicazione dell’Aiad, la Federazione delle Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza, membro di Confindustria, che c’è “l’opportunità per le società e le aziende federate, di proseguire la propria attività, concentrando l’operatività sulle linee produttive ritenute maggiormente essenziali e strategiche, e di rallentare per quanto possibile l’attività produttiva e commerciale con riferimento a tutto ciò che non sia ritenuto essenziale”. Le aziende sono proiettate all’estero: è forte la competizione per accaparrarsi grandi clienti come i paesi del Golfo. Esportiamo per 2,5 miliardi di euro, lo 0,6 per cento del Pil. È di poche ore fa la notizia che Fincantieri ha vinto la gara per le fregate che finiranno alla Marina Usa. “Sostanzialmente è stata concessa totale libertà alle aziende. Per un po’ hanno chiuso quelle legate alle armi leggere, come la Beretta, ma non si è fermato chi produce aerei - conclude Vignarca - questo dimostra lo stato privilegiato rispetto agli altri settori”. Senza dimenticare che pochissime sono state le riconversioni della produzione per venire incontro all’emergenza. Migranti. La destra M5S blocca tutto, il decreto regolarizzazioni ora è più lontano di Massimo Franchi Il Manifesto, 6 maggio 2020 La sacrosanta regolarizzazione dei migranti si sta trasformando: è partita come necessità degli agricoltori, ora sta diventando scontro politico all’interno della maggioranza con la “destra” del M5s a opporsi alla “sanatoria”. Dopo che lunedì la ondivaga ministra Teresa Bellanova aveva rotto gli indugi e - a un mese e mezzo dalla richiesta di sindacati e associazioni di garantire tutele ai migranti chiusi nei ghetti - e aveva chiesto di inserire la regolarizzazione nel decreto (diventato) Maggio, ieri i grillini di destra hanno alzato le barricate, mettendo in difficoltà la ministra Nunzia Catalfo che invece è sostanzialmente a favore della proposta ed anzi la accompagnerebbe con il lancio della piattaforma pubblica per far incontrare domanda e offerta di lavoro agricolo. Il giorno dopo il televertice di lunedì al ministero del lavoro fra Catalfo, Bellanova e le parti sociali, ieri si puntava a chiudere l’accordo nel governo con un incontro allargato al ministro per il Sud Giuseppe Provenzano e, soprattutto, alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, colei a cui spetta la responsabilità della norma per la regolarizzazione. Una riunione che doveva dirimere l’ultima incognita: allargare la regolarizzazione anche a colf e badanti - come chiedono Pd, Leu e Italia Viva - oppure limitarla ai soli braccianti? I numeri spaventavano la stessa Lamorgese che già due settimane fa in audizione alla camera era parsa molto cauta: i braccianti migranti da regolarizzare vengono stimati dalle parti sociali in 150mila, altrettanti sarebbero i braccianti italiani irregolari e sfruttati; inserendo colf e badanti la norma potrebbe riguardare un numero doppio: circa 600mila persone, in prevalenza donne che curano “in nero” gli anziani di altrettante famiglie italiane, fiscalmente irregolari. Sotto il pressing di Provenzano, che ha chiesto di allargare il provvedimento ai braccianti italiani (“La regolarizzazione non solo risponde ad un’esigenza di giustizia, è anche un incentivo a fare ulteriori passi di modernizzazione al settore agricolo”, ha detto ieri in chat con le Sardine), a colf e badanti e ad inserire tutto nel decreto Maggio, la ministra Lamorgese si è convinta. A otto anni dall’ultima regolarizzazione - 2012, governo Monti, ministro Annamaria Cancellieri, altra donna, altro tecnico - il rischio reale è che la paura del M5s di approvare un provvedimento “sanatoria di clandestini”, come sbraitano Salvini e Meloni, blocchi tutto ancora una volta. A ieri sera le possibilità che la norma fosse inserita nel decreto Maggio erano deboli. Le diplomazie - “c’è un’interlocuzione in corso” sono al lavoro per riuscire a far digerire il decreto al M5s entro domani o venerdì, giorni potabili per il consiglio dei ministri in cui Giuseppe Conte dovrà proporre una mediazione che tenga conto anche del “no” di Italia Viva al Reddito di emergenza. Per placare gli animi dei deputati e senatori più contrari, l’ineffabile Vito Crimi ha bollato il vertice ministeriale di ieri come “riunione tecnica”, procrastinando all’ennesima riunione dei capi delegazione di maggioranza la decisione finale. Nel 2012 i datori di lavoro dovettero pagare 1.000 euro per ogni lavoratore: lo strumento sarebbe lo stesso e ha già avuto il via libera di Cia e Legacoop e anche dalla Coldiretti, che però non lo rende pubblico per non mettere in difficoltà Salvini. Ieri per sviare l’attenzione la stessa Coldiretti ha diffuso uno studio su come “gli italiani siano ingrassati di due chili durante il lockdown”. L’idea delle associazioni e dei sindacati è quella di favorire gli spostamenti verso nord dei braccianti bloccati nei ghetti del sud - Borgo Mezzanone in Puglia, San Ferdinando in Calabria - garantendo loro anche l’assistenza sanitaria. A favore della regolarizzazione c’è un ampio fronte parlamentare. “Capisco che parlare di “maxi sanatoria per 300mila immigrati clandestini” solletichi la pancia dei suoi fan e a Salvini faccia comodo giocarsi l’unica carta che gli rimane. Ma se avesse realmente a cuore la salute degli italiani, saprebbe che passa anche dall’accesso dei cittadini stranieri al sistema sanitario e la loro stabilità occupazionale e abitativa. È uno dei doveri primari di una democrazia in tempi di crisi: la sicurezza è nei diritti”, dichiara Erasmo Palazzotto (LeU). “Regolarizzare i lavoratori stranieri significa porre fine allo sfruttamento del lavoro nero, aumentare la sicurezza sociale e sanitaria e portare nelle casse dello Stato italiano centinaia di miliardi di euro di entrate, inserendo in una cornice di legalità migliaia di persone che oggi sono fantasmi senza diritti e doveri. Il governo trovi il coraggio politico per questo provvedimento e il Parlamento modifichi il meccanismo dei flussi per gli ingressi in Italia a partire dalla proposta di legge “Ero straniero” di cui sono relatore”, afferma il radicale Riccardo Magi. Migranti. Dopo gli sbarchi arriva la nave per la quarantena. Sequestrata la Alan Kurdi di Alessandra Ziniti La Repubblica, 6 maggio 2020 Alcune delle donne e bambini, di un gruppo di 137 migranti subsahariani, arrivati con due barconi sull’isola di Lampedusa il 4 maggio. Duecento arrivi in due giorni. Il Viminale ha annunciato al sindaco Martello che metterà a disposizione una nave tra Pozzallo e Lampedusa per ospitare i migranti degli sbarchi autonomi. Lampedusa presa d’assalto. Tre sbarchi in poche ore tra stanotte e stamattina. Circa duecento persone che vanno ad aggiungersi alle cento che hanno trascorso due giorni all’addiaccio sul molo Favaloro sotto il riparo di un solo tendone. Alle proteste del sindaco Totò Martello il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese risponde annunciando l’arrivo di una nave che stazionerà tra Lampedusa e Pozzallo per ospitare per la quarantena eventuali altri migranti in arrivo. E proprio oggi sono scesi dalla Rubettino i 183 soccorsi ad aprile dalle ong Alan Kurdi e Aita Mari, che hanno concluso il periodo di isolamento sotto la vigilanza della Croce Rossa a cui è affidata la gestione della nave. I migranti sono stati trasferiti in centri di accoglienza in attesa della redistribuzione in Europa secondi la richiesta che è stata fatta il 22 aprile dal governo tedesco visto che la Alan Kurdi batte bandiera tedesca, così come aveva chiesto il ministro Lamorgese a Berlino. Precisazione fatta dal Viminale questa sera dopo che un portavoce della Commissione Europea aveva detto che l’Italia non aveva mai avanzato alcuna richiesta di coordinamento per la redistribuzione. Ma intanto la nave, ferma nel porto di Palermo, è stata posta sotto fermo amministrativo dalla Guardia costiera Ispettori della Guardia costiera dopo un’ispezione che ha evidenziato “diverse irregolarità di natura tecnica e operativa tali da compromettere non solo la sicurezza degli equipaggi ma anche delle persone che sono state e che potrebbero essere recuperate a bordo”. E altri 118 ancora in quarantena nell’hotspot al completo mentre a poche miglia dall’isola resta in attesa di istruzioni un mercantile che in zona Sar maltese ha soccorso altre 60 persone. Molti sono donne e bambini. La situazione sull’isola sembra fuori controllo. Impossibile così far rispettare le misure anti Covid. E Il bel tempo lascia presagire che gli arrivi sono solo cominciati. Da giorni il sindaco Salvatore Martello chiede al Viminale di poter avere una nave fissa davanti le coste dell’isola dove ospitare i migranti in arrivo senza farli passare dall’isola rispettando così la sicurezza per i cittadini lampedusani. Storia di Petro e degli immigrati invisibili che il Parlamento ignora di Eraldo Affinati Il Manifesto, 6 maggio 2020 Da molte parti si sta chiedendo la regolarizzazione degli stranieri per motivi sanitari legati all’emergenza dettata dal Coronavirus, anche nel tentativo di far emergere, a beneficio di tutti noi, il lavoro nero nelle campagne e nelle periferie urbane di cui solo adesso sentiamo la mancanza: chi raccoglierà i pomodori nel foggiano senza il contribuito degli immigrati? In quale modo ripartiranno i cantieri dell’edilizia se non ci saranno più gli operai disponibili? Come spesso accade le frasi dei protocolli di legge presenti nelle bozze parlamentari finiscono col nascondere le storie delle persone che dovrebbero invece tutelare e sostenere. Può quindi forse essere utile accendere una luce sotto il volto di ciascuno. Insomma, da chi è composto il popolo dei cosiddetti invisibili chiamati a uscire dal cono d’ombra dove sembrano essere relegati? Ricordo di aver conosciuto Petro diversi anni fa: ucraino di età indecifrabile senza arte né parte, abitava a nord dell’Anagnina, oltre il raccordo romano, in una baracca rattoppata col nastro isolante. Mangiava nelle mense di beneficienza ma non chiedeva l’elemosina; se qualcuno gliela dava, l’accettava. Era divorziato con figli già grandi che non vedeva mai. Una volta mi mostrò sul cellulare le fotografie del giorno di nozze: col cravattino e la giacca nera accanto alla sposa sorridente e ai parenti festanti, sembrava irriconoscibile. Storie di mondi sbagliati, sogni falliti, rancori e invidie familiari, rabbia, violenza e solitudine. Frutti staccati a forza dall’albero fiorito che non è il tuo. Tradimenti e genuflessioni. Grida, accuse, carte bollate. E via di questo passo, sullo sfondo del Sol dell’Avvenire con la Falce e il Martello sulla bandiera sventolante delle Repubbliche Popolari: insomma l’adesivo staccato del Socialismo Reale. Gomma secca di vecchie utopie. L’autobus delle badanti che fa la spola fra Kiev e la stazione Tiburtina lo aveva portato in Italia. Stanco, disilluso, sembrava già allora una controfigura di se stesso. Dopo qualche esperienza come muratore in giro per il Bel Paese era diventato il classico vagabondo, sfuggendo persino ai radar della nuova civiltà digitale. Quando si presentò nella nostra scuola di lingua italiana in realtà non avrebbe voluto studiare, fu spinto solo dalla oziosa curiosità che può essere la bussola degli artisti, ma anche la negligenza degli smidollati. A quel tempo eravamo ospiti di una canonica nella chiesa di san Saba all’Aventino e lui si era spinto sin lì all’unico scopo di ritirare il pacco di viveri che ogni martedì, in una stanza accanto alla nostra, un impiegato della Caritas distribuiva ai poveri. Roba semplice: pane, pasta e scatolette di tonno, ma se lo stomaco protesta, oro prezioso. Vedendo molti immigrati seduti ai banchi, ognuno di fronte al proprio docente, impegnati a scrivere e sillabare, seppur titubante, s’era avvicinato e l’avevamo intercettato. Siamo abituati così: appena arrivano, li accogliamo senza chiedere i documenti. Loro acquistano fiducia, noi ci carichiamo rafforzando la motivazione. Mia moglie, dopo aver compilato la sua scheda, lo affidò a un volontario anziano, pensionato, ex dipendente pubblico. Gli fornimmo la penna, il quaderno e lo facemmo entrare in azione. Fu quello il primo giorno di Petro che non andava in classe da chissà quando. Tuttavia capimmo subito che non era uno sprovveduto perché da piccolo aveva conosciuto l’istruzione russa: fiore all’occhiello del collettivismo. Lo confessò con un moto di malcelato orgoglio. Abituato al rigore e alla disciplina, dimostrava il naturale ossequio all’autorità costituita dell’ex cittadino sovietico: il costume anarchico che lo caratterizzava era una risposta sconclusionata e bislacca al proprio sentimento di smagata inadeguatezza. Non ci voleva molto a immaginare quali fossero gli stagni in cui annaspava: appena lo accostavi l’odore di alcol lasciava pochi dubbi. Tuttavia, dietro il ghigno sardonico del disertore, conservata un’innegabile purezza. Al massimo si poteva ubriacare col Tavernello. Ancora oggi mi tornano in mente i suoi esercizi ordinati per colonne distinte, di qua il verbo essere, di là il verbo avere, coi relativi schemini sui tempi verbali, le caselle colorate, i disegni per illustrare il lessico del volto e delle mani: occhi, naso, bocca, dita, unghie, pollice, mignolo, anulare e medio. Venne da noi solo poche lezioni. Che, a pensarci oggi, furono persino tante. Poi inevitabilmente staccò la spina, come quasi sempre gli capitava. Che fine avrà fatto? Sarà tornato indietro, in qualche scalcinata campagna del suo Paese, magari accolto da una di quelle vecchiette che portano le candele coi lumicini nelle chiese ortodosse? Oppure è ancora fra noi, nascosto nelle intercapedini della capitale, insieme ai duecentomila che in Italia aspettano un ufficiale riconoscimento? Di una cosa credo di essere certo: ammesso e non concesso che venisse a sapere della possibilità di uscire dalla sua tana, non si metterebbe in fila per ricevere il permesso della questura. Covid, nelle prigioni russe si rischia una vera catastrofe di Riccardo Amati Il Riformista, 6 maggio 2020 518mila detenuti, 14mila con la tubercolosi, il 10 per cento positivo all’Hiv. Pochi medici e senza attrezzature. Se nelle galere di Putin dilagasse il virus gli effetti sarebbero devastanti. Un pericolo che si aggiunge a torture e abusi. Fine pena, fra meno di cinque mesi. Che ora gli sembrano un’eternità: “Ho paura. Nella mia sezione ci sono parecchi malati: tosse e febbre alta. No, non vengono isolati. E nessuno usa guanti e mascherine. Tamponi? Mai visti”. Aleksey, ma il suo vero nome è un altro, risponde al Riformista da una colonia penale qualche centinaio di chilometri a sud di Mosca. Ha 32 anni. Ne ha passati ormai quasi tre a scontare una condanna per possesso di droga. I tribunali ci vanno pesanti col possesso, in Russia. Chiede di rimanere anonimo anche perché sta parlandoci da un telefonino, e i telefonini in prigione sono proibiti. “Vivo in una “zona” di 600 detenuti”, continua nello slang degli zek, i carcerati. “Niente celle: dormitori, tipo caserma. Nel mio siamo in settanta. Letti a castello. Sopra di me c’è uno malato. Gli danno vitamina C e antibiotico ma non guarisce. Un altro che non riusciva più a respirare l’hanno portato via. I medici in tutta la “zona” sono tre, con tre infermieri. Non hanno attrezzature. Non possono far molto”. Da quando il Covid-19 attanaglia il Paese - oltre 145mila casi al 4 di maggio, con balzi di anche 10mila contagi ogni giorno - sono decine le testimonianze simili a quelle di Aleksey raccolte dalle associazioni per i diritti umani. Grazie ai telefonini proibiti, perché da più di un mese il già opaco sistema carcerario russo è diventato impenetrabile. Niente più visite dei familiari, niente più pacchi, limiti ai colloqui con gli avvocati. Una nuova legge sulle fake-news è stata usata contro i resoconti di attivisti e giornalisti. Ma alla fine il Servizio penitenziario federale (Fsin), equivalente russo del nostro Dap, ha dovuto ammettere che il coronavirus è arrivato dietro le sbarre: ufficialmente, i positivi sono una quarantina tra i detenuti e oltre 270 tra il personale dell’amministrazione. “Questi dati vanno moltiplicati per dieci”, dice al Riformista Olga Romanova, responsabile di Rus’ Sidyashchaya (“Russia imprigionata”), una Ong che aiuta i reclusi e le loro famiglie. “Ci contattano molti dipendenti del Fsin, terrorizzati dalla situazione e dai tentativi dei loro capi di minimizzarla”. Nelle istituzioni penali russe “né i prigionieri né gli agenti hanno modo di soddisfare regole di distanziamento sociale”, afferma la sociologa della vita carceraria Olga Zeveleva. “I dispositivi di protezione personale sono troppo pochi, e non vengono fatti test a chi ha i sintomi del Covid: le testimonianze sono univoche”. E se i dirigenti dell’amministrazione penitenziaria dicono “tutto sotto controllo” “è solo perché non vogliono passare per i guardiani di prigioni- focolaio”. Manca la volontà di acquisire dati certi e implementare misure conseguenti, dice Zeveleva. “Una ricetta per il disastro”. Se l’epidemia travolgesse in pieno le prigioni russe, le conseguenze sarebbero devastanti. La Russia ha la quarta maggior popolazione carceraria del mondo: 518mila persone. Altamente vulnerabili: oltre 9.500 hanno più di 60 anni; il 10% dei detenuti è positivo all’Hiv; almeno l4mila sono affetti da tubercolosi conclamata. “C’è tanto Hiv perché un terzo dei carcerati è dentro per droga, spesso ne fa uso e non ci sono programmi di recupero né assistenza igienico-sanitaria specifica”, spiega Ksenia Runova, ricercatrice di sociologia della salute all’Università Europea di San Pietroburgo. “La diffusione della tubercolosi è invece dovuta in buona parte alla scarsa ventilazione di celle e ambienti comuni”. Le stesse pareti del carcere sono un ricettacolo di insetti, sporcizia e agenti patogeni: sono rivestite di un cemento poroso che sembra lava solidificata. Lo chiamano shuba (“pelliccia”), nel gergo della galera. È abrasivo, a spuntoni irregolari. Ed è “impossibile da sanificare”, sottolinea Olga Romanova. Il pericolo sanitario è un incubo permanente, per i detenuti russi. Associato alla tortura: “Per estorcere delazioni, le guardie ti mettono in cella un malato di tubercolosi”, racconta Romanova. Una cinquantina di casi di tortura e abusi in carcere sono stati perseguiti dalla magistratura dopo la diffusione sui social, due anni fa, di un video shock che li documentava. Violenza gratuita e abusi risultano anche da immagini riprese dopo la rivolta scoppiata il 10 aprile scorso nella colonia penale n.15 di Angarsk, in Siberia. Almeno un morto. E di 69 insorti le famiglie e gli attivisti di Rus’ Sidyashchaya non hanno più notizie. Viste le caratteristiche del sistema carcerario, “il rischio di infezione è molto alto”, e un’amnistia per chi non ha commesso reati violenti o è a fine pena “potrebbe aiutare a limitarlo”, dice Olga Romanova. Ma non si sta andando in questa direzione. Un piano per scarcerazioni mirate elaborato dall’Istituto dei diritti umani di Mosca è rimasto sulla carta. Non ci sarà nemmeno l’amnistia attesa per il 75° anniversario della vittoria nella “Grande guerra patriottica” (la II Guerra mondiale). Oltretutto, non si tengono più le udienze per la liberazione condizionale: non rientrano tra le attività giudiziarie “essenziali” sopravvissute al lockdown. “Una parziale amnistia sarebbe auspicabile, concorda la sociologa Runova. “Ma in Russia abbiamo difficoltà con la risocializzazione, molti ex detenuti diventano dei senza tetto: la situazione peggiore, durante un’epidemia”. All’amnistia quindi, “si dovrebbe accompagnare un adeguato programma di supporto”. Semmai, sta succedendo il contrario: “Il corso tecnico-universitario di idraulica che stavo seguendo è stato sospeso”, racconta il detenuto Aleksey: “Probabilmente non potrò avere il diploma su cui contavo per ricostruire la mia vita”. Riattacca. Se lo scoprono, insieme alla sim gli sequestrano l’ultimo contatto col mondo. Intanto, niente più studio. Forse lo metteranno a cucire mascherine chirurgiche. Sta avvenendo in 120 istituti. In altri va molto peggio: i detenuti della colonia penale n. 37 di Primorsky Krai, nell’estremo oriente russo, devono rimpiazzare nei campi la manodopera cinese tagliata fuori dalla chiusura della frontiera: “Lavorano senza paga, in condizioni di schiavitù”, denuncia Olga Romanova. Paure, abusi, annullamento delle speranze, rischio sanitario intollerabile. E lavoro forzato, nella miglior tradizione dei vecchi gulag. È quanto offre il sistema carcerario russo al tempo della pandemia. C’è aria di catastrofe imminente, nelle galere di Vladimir Putin. “In Africa la lotta al Covid diventa repressione” di Stefano Mauro Il Manifesto, 6 maggio 2020 Censure e violenze. Il rapporto di Human Rights Watch e la denuncia di Michelle Bachelet: dal Kenya all’Uganda, dalla Nigeria al Ghana polizia e governo usano le misure di contenimento per attaccare giornalisti, cittadini e opposizioni. Armati di pistole, con fruste, bastoni e gas lacrimogeni, gli agenti di sicurezza di diversi paesi africani hanno picchiato, arrestato e in alcuni casi ucciso persone mentre applicavano misure volte a prevenire la diffusione di Covid-19”. È il quadro evidenziato da Human Rights Watch sul comportamento di forze di polizia e militari in numerosi paesi in Africa. Riguardo alla denuncia di Hrw, Michelle Bachelet, Alta Commissaria Onu per i diritti umani (Ohchr), ha dichiarato che le misure di emergenza imposte durante la pandemia “non devono diventare strumento di repressione”. “I poteri straordinari non dovrebbero diventare un’arma che i governi possono usare per reprimere il dissenso, controllare la popolazione, mantenere il potere o censurare la stampa, ma dovrebbero essere usati per affrontare efficacemente la pandemia, in maniera non discriminatoria e con una durata limitata”, ha detto Bachelet. Forte la condanna in merito alle numerose uccisioni di questo periodo che rischiano di trasformare “la pandemia in una catastrofe peggiore, con l’ampliarsi di crisi, rivolte e tensioni sociali, pericolose e nocive quanto il virus”. In Kenya un ragazzo di 13 anni è stato ucciso a colpi d”arma da fuoco dopo essere stato colpito da quello che la polizia ha descritto come un “proiettile vagante”. Come “casuali” sono le morti di almeno altre otto persone, tra cui un motociclista deceduto dopo essere stato violentemente picchiato dai militari. Almeno 25 le vittime delle forze di sicurezza in Nigeria, dove sono stati rilevati dalla Nigerian Human Rights Center (Nhrc) oltre 500 episodi di violenze nei confronti della popolazione, tra i quali venditori ambulanti e tassisti di auto e motociclette. Nel vicino Uganda, Hrw ha accusato la polizia di aver usato “forza eccessiva” verso la popolazione e di aver effettuato raid e persecuzioni contro “giovani senzatetto, lesbiche, gay e transgender accusandoli di negligenza nella diffusione del virus”. Le indagini hanno portato all’imputazione di 10 ufficiali accusati anche di “torture e violenze nei confronti di donne”. Alla stessa maniera vengono condannate le centinaia di arresti per la violazione delle norme di restrizione, visto che le carceri sono un “ambiente ad alto rischio e bisognerebbe concentrarsi piuttosto sul rilascio delle persone in sicurezza, come i prigionieri politici e d’opinione”, ha affermato Bachelet. Perplessità anche per quanto riguarda le restrizioni e il loro utilizzo politico. I gruppi di opposizione in Ghana sono preoccupati per una nuova legge che conferisce al presidente ampi poteri: “Volevamo che il presidente facesse uso di poteri di emergenza venendo in parlamento per valutare la loro necessità, ma non è avvenuto e ci preoccupa il nostro futuro democratico” ha dichiarato alla Bbc Ras Mubarak, deputato del Congresso nazionale democratico, all’opposizione. Critiche ancora più forti nei confronti del presidente del Malawi, Peter Mutharika, che sta usando il coronavirus per “risolvere i suoi problemi politici” schierando l’esercito nelle strade e “annientando le proteste e gli oppositori”. Ultimo aspetto analizzato da Hrw è “il targeting di giornalisti” in riferimento alla giornata mondiale della libera stampa del 3 maggio, “con la libertà di espressione e informazione sempre più a rischio nel mondo”. In Tanzania, Ghana, Kenya e Somalia le autorità governative hanno sanzionato e oscurato alcune emittenti televisive per aver trasmesso contenuti “fuorvianti e non veritieri” sulla strategia dei governi nella lotta contro il coronavirus, mentre sono decine ormai i giornalisti arrestati o picchiati dagli agenti di sicurezza in numerosi paesi dell’Africa occidentale (Mali, Senegal, Camerun, Costa d’Avorio) e del Maghreb (Algeria, Marocco ed Egitto) secondo Reporters sans Frontières. “Mentre la pandemia di Covid-19 si diffonde, ha anche dato origine a una seconda pandemia di disinformazione, dai consigli sulla salute dannosi, alle teorie della cospirazione fino alla censura. La stampa fornisce l’antidoto: notizie e analisi verificate, scientifiche e basate sui fatti”, ha affermato ieri il segretario generale Onu, Antonio Guterres. Camerun. Incertezza sulla diffusione del Covid-19 nelle prigioni di Riccardo Noury focusonafrica.info, 6 maggio 2020 Dalle prigioni del Camerun arrivano notizie confuse e allarmanti sulla diffusione del Covid-19. Di certo, almeno un detenuto della prigione centrale “Kondengui” di Yaoundé è risultato positivo al tampone ed è stato trasferito in ospedale. Altri due detenuti sono morti pochi giorni dopo il rilascio. Ma i numeri potrebbero essere molto alti. Un detenuto di “Kondengui” ha detto ad Amnesty International che ci sono molti ammalati e non si capisce da dove parta il contagio. I detenuti hanno paura di recarsi nell’infermeria perché lì ci sono molti positivi. A chi presenta sintomi viene somministrata una bevanda a base di zenzero e aglio. In una lettera inviata al ministero della Giustizia, un gruppo di detenuti ha denunciato che l’infermeria è “satura di prigionieri” e il personale medico non riesce a gestire la situazione. Il decreto emanato dal governo il 15 aprile ha favorito il rilascio di centinaia di prigionieri: 831 solo nella regione dell’Estremo Nord. Ma il sovraffollamento resta una realtà spaventosa: 432 per cento a “Kondengui”, 729 per cento nella prigione di Bertoua, 481 per cento in quella di Sangmelima e 567 per cento in quella di Kumba. Come in molti altri casi, il decongestionamento non ha riguardato i prigionieri di coscienza. Tra questi Mamadou Mota, vicepresidente del partito di opposizione Movimento per la rinascita del partito del Camerun; Mancho Bibixy Tse, che sta scontando una condanna a 25 anni solo per aver preso parte a proteste pacifiche contro l’emarginazione delle province anglofone del paese; Amadou Vamoulke, 70 anni, in cattive condizioni di salute, ex direttore della tv di stato, in detenzione preventiva dal 2016; e il più recente, Franck Boumadjieu, un attivista politico che aveva denunciato il silenzio del presidente Paul Biya all’inizio della pandemia. Egitto. Ancora un rinvio, liberare Zaki è una battaglia di tutti di Francesco Battistini Corriere della Sera, 6 maggio 2020 È imperdonabile quel che sta accadendo al ricercatore egiziano di Bologna che per la settima volta in sette settimane s’è visto rinviare il processo. Sette volte sette. È imperdonabile quel che sta accadendo a Patrick Zaki, il ricercatore egiziano di Bologna che per la settima volta in sette settimane s’è visto rinviare il processo. Domani saranno tre mesi dal suo arresto e tutto fa credere che ci saranno un ottavo rinvio, poi un nono, quindi un decimo e così via, almeno per tutt’e due gli anni di detenzione cautelare che il regime di solito riserva ai dissidenti. Zaki langue nel supercarcere di Tora alla periferia del Cairo, “lo Scorpione”, così chiamato perché è lì che gli sgherri del generale Al Sisi torturano gli oppositori. Prigioniero della pandemia, il mondo s’è dimenticato di questo giovane detenuto in eterna attesa di giudizio. E prossimo al giudizio eterno, se non si fa qualcosa per tirarlo fuori: qualche notte fa e qualche cella più in là, sempre a Tora, è morto un videomaker che aveva osato definire “un dattero” il presidente egiziano. Erano appena scaduti i due anni di carcerazione preventiva e anche Shady Habash, così si chiamava, non aveva mai avuto un processo. Il nostro Zaki soffre d’asma, più d’altri è a rischio Covid. Eppure ogni lunedì mattina i giudici lo beffano, decidendo che non si può decidere proprio per colpa del virus: sapete com’è, è l’epidemia a impedirci di celebrare le udienze… “Non è la prigione che uccide, ma la solitudine”, ha scritto Shady a un amico, prima di morire. Vero. E la solitudine di Zaki, la battaglia per liberarlo è qualcosa che ci riguarda. Perché serve a liberare tutti noi. Un ceffone per il presente, un avvertimento per il futuro a chiunque voglia approfittarsi del virus e cancellare diritti umani fondamentali, rivedere universali regole di libertà, limitare elementari diritti del lavoro. A chiunque ripete che niente sarà più come prima, e in realtà sogna che tutto diventi molto peggio. Malesia. Arresti di massa tra i migranti e una giornalista finisce sotto inchiesta di Riccardo Noury Corriere della Sera, 6 maggio 2020 Durante la pandemia da Covid-19 le autorità avrebbero di meglio da fare anziché perseguitare i giornalisti. Invece la giornalista malese Tashny Sukumaran è finita sotto inchiesta per aver scritto un articolo per il South China Morning Post sulle centinaia di migranti e rifugiati arrestati nella capitale Kuala Lumpur il 1° maggio. Quel giorno centinaia di agenti del dipartimento Immigrazione hanno fatto irruzione in vari alloggi per lavoratori migranti e rifugiati, accompagnati da soldati, funzionari del ministero della Salute e personale delle Forze della difesa civile: una caccia all’uomo con evidenti intenti discriminatori. Le operazioni sono state giustificate dalle autorità sulla base del Decreto sul controllo rafforzato dei movimenti, adottato per contrastare la diffusione del coronavirus. Sukumaran è indagata per violazione dell’articolo 504 del codice penale (“offesa deliberata allo scopo di provocare la rottura della pace”) e dell’articolo 233 della Legge sulle comunicazioni (“uso improprio dei social network per danneggiare altre persone”). Dovrà presentarsi domani, 6 maggio, al quartier generale della polizia malese.