Carcere, idee per una Fase 2 di Ornella Favero* vita.it, 5 maggio 2020 Riprendere i colloqui con i familiari, incrementare le tecnologie di comunicazione e riaprire gradualmente ai volontari. Mentre come Volontariato cerchiamo di raccogliere le nostre proposte rispetto alla Fase 2, ci giunge la notizia che sono stati nominati un nuovo Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e un nuovo Vice Capo, tutti e due magistrati esponenti dell’Antimafia. Non abbiamo nessun pregiudizio sulle persone, siamo un Volontariato che lavora a fianco delle persone detenute per una tutela dei loro diritti, ma anche per stimolare una assunzione di responsabilità nei loro percorsi di risocializzazione, e da anni coinvolgiamo in questi percorsi famigliari delle vittime in un’ottica di Giustizia riparativa. Usando il rispetto verso gli “altri da noi”, che sempre è elemento fondante del nostro lavoro, ci permettiamo di sottolineare che a dirigere le carceri dovrebbero essere chiamate ANCHE persone competenti in materia di rieducazione, perché questo è il mandato costituzionale. Quindi chiediamo che, come in passato, in qualità di Vice Capo sia affiancata alle due figure già nominate un’altra figura che si occupi esclusivamente di percorsi di risocializzazione. Queste le nostre riflessioni sulla Fase 2, su cui chiediamo da subito di essere chiamati a un confronto e a una collaborazione costruttiva. I colloqui con i famigliari devono gradualmente riprendere Non è pensabile che le persone detenute non possano incontrare i loro famigliari “a tempo indeterminato” in attesa che si trovi il vaccino per il coronavirus, quindi l’Amministrazione è opportuno che cominci a pensare a misure per permettere una graduale ripresa dei colloqui: dal rafforzare il sistema delle prenotazioni telefoniche all’attrezzare meglio le aree verdi all’aumentare in modo consistente giorni e orari di colloquio, per poter ridurre i numeri e distanziare le persone (pensiamo con sgomento agli sgabelli in acciaio imbullonati al pavimento di Oristano…) al predisporre spazi di attesa più ampi (pensiamo alla stanzetta del carcere di Parma dove sono accatastate di solito decine di famigliari…). Questa emergenza almeno potrebbe costringere a ripensare gli spazi tristi degli affetti, il Volontariato ha sempre avuto una piattaforma articolata su questi temi ed è disponibile a dare senz’altro un contributo forte. Le tecnologie sono “entrate” per il virus, ora non devono più uscire La cosa più drammatica che potrebbe succedere nella fase 2 è che le tecnologie, entrate di prepotenza in carcere, anche per far fronte all’epidemia di rabbia che rischiava di diffondersi e inquinare le condizioni di vita già difficili, ne escano appena si tornerà a un po’ di normalità ripristinando i colloqui visivi. No, non si deve tornare indietro perché anche in condizioni “normali” i rapporti con le famiglie, le telefonate e i colloqui nel nostro Paese sono veramente una miseria. E ci sono persone detenute che non possono fare i colloqui visivi (lontananza, parenti anziani e malati...). Abbiamo visto detenuti piangere dopo aver parlato in videochiamata con un genitore che non vedevano da anni, non è pensabile che questa boccata di umanità a costo zero possa finire. E Skype, dove già c’era, non basta, è comunque uno strumento elitario. Riaprire al Volontariato significa riportare in carcere la funzione costituzionale della pena Di massima importanza risulta riaprire l’accesso ai volontari e agli operatori della società civile, che attraverso il loro impegno realizzano progetti, che costituiscono importanti percorsi di crescita per le persone detenute. Oggi sono ancora interrotti i corsi formativi finanziati dalle Regioni, anche con fondi europei (che rischiano di andare persi), e i progetti pensati e realizzati dal Volontariato, progetti che spesso permettono di maturare dei percorsi di crescita e di consapevolezza sul proprio ruolo all’interno della società e rappresentano l’essenza della funzione rieducativa/risocializzante della pena. I volontari, assieme ai familiari dei detenuti, sono state le prime persone “sacrificate” in nome della sicurezza sanitaria all’interno degli Istituti penitenziari, ma, come sta accadendo per il resto del territorio, anche all’interno delle carceri si deve pensare ad una fase 2. È quindi necessario reintrodurre una “vita sociale” nelle carceri riportando al loro interno la società civile attraverso delle corrette procedure di accesso al carcere a tutela dei volontari stessi, degli operatori e dei detenuti, tra cui l’utilizzo dei dispositivi individuali di protezione (mascherina, guanti e gel). Zoom, Meet, Skype, quando le Videoconferenze sono cibo per la mente Le attività scolastiche in videoconferenza sono state autorizzate anche nelle carceri, e stanno cominciando faticosamente a funzionare. Quella della videoconferenza è una modalità che potrebbe aprire grandi possibilità, soprattutto per ampliare gli spazi dello studio e dei percorsi rieducativi. In tanti oggi mettono le mani avanti dicendo che c’è il rischio che le tecnologie si sostituiscano alla presenza viva della società civile, il cui ruolo è fondamentale nelle carceri. Noi pensiamo che invece le videoconferenze possano essere un autentico arricchimento: mettere insieme per esempio, come si sta facendo a Padova, voci come quella di Fiammetta Borsellino, della figlia di un detenuto dell’Alta Sicurezza e di persone che hanno finito di scontare una pena, che dialogano con gli studenti, è una opportunità che deve coinvolgere stabilmente anche il carcere e le persone detenute: si tratta infatti di un’autentica rivoluzione culturale di enorme valore, che mette al centro le testimonianze dei detenuti e l’assunzione di responsabilità, cioè il cuore vero della rieducazione. Ma dà anche degli strumenti tecnologici fondamentali per il loro futuro alle persone rinchiuse, che non possono restare dei “senzatetto digitali”, se non vogliamo che il reinserimento diventi ogni giorno più difficile in una società, che le tecnologie le dovrà mettere sempre più al centro della sua vita. Quando il deserto rischia di essere sia “dentro” che “fuori” Il reinserimento significa anche accesso ai permessi premio e poi alle misure alternative. I permessi oggi sono bloccati, non possono rimanerlo ancora a lungo, se non vogliamo svuotare di senso e di speranza le pene. Devono essere attuati, nel rispetto della sicurezza sanitaria. Quanto alle misure alternative, se già era complicato prima avere una offerta di lavoro per accedervi, dopo, nella fase 2, diventerà una guerra tra poveri dove chi esce dal carcere avrà ancora meno opportunità. E “dentro” le persone si vedranno intrappolate, senza futuro, spaventate. Inoltre anche dentro è diminuita l’offerta di lavoro negli istituti dove era più alta grazie alle cooperative sociali, anch’esse ora come tutte le aziende sono in seria difficoltà, anche se dove sono presenti stanno lottando strenuamente per mantenere le attività. E anche per le famiglie, con la crisi economica che si sta profilando, sarà più difficile sostenere i propri cari detenuti. Ci vorrà allora il doppio di attenzione, anche rispetto al rischio di patologie come la depressione, da parte delle Istituzioni, ma anche di quel Volontariato che accoglie e sostiene i percorsi di reinserimento, e delle cooperative che sono più attrezzate per offrire opportunità lavorative a soggetti svantaggiati. Già abbiamo collaborato con il Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità sulla questione cruciale dell’accoglienza per chi può accedere a misure come la detenzione domiciliare, vogliamo continuare a farlo perché, nella difficile fase dell’uscita dal carcere, non vengano vanificati percorsi di reinserimento complessi, che richiedono attenzione e accompagnamento. La sentenza della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo non può essere “cancellata” Il coronavirus ha distrutto le nostre illusioni di vivere in un mondo in cui non ci siano malattie che non si possano sconfiggere. In questo quadro già desolante di per sé, in cui il sovraffollamento dovrebbe essere motivo di riflessione sui rischi che si corrono lì dove il distanziamento sociale non è possibile, si inserisce una polemica per detenzioni domiciliari concesse a detenuti in 41bis. Guardiamo il caso che ha creato più scandalo, quello di Francesco Bonura, un esponente di spicco della mafia. Ma davvero siamo messi così male, da vivere in uno Stato che ha paura di un uomo di 78 anni, con un tumore grave, cardiopatico, con ancora da scontare pochi mesi di carcere? una magistrata rispetta la legge e manda quest’uomo in detenzione domiciliare, usando gli strumenti che la legge le dà, non per l’emergenza coronavirus, ma perché semplicemente il diritto alla salute vale per tutti, anche per i criminali. Ricordiamo che le rivolte hanno comunque fatto emergere tanta disperazione, rabbia e morte, ma nessun vero disegno eversivo; e poi non c’è nessuna misura, fra quelle legate all’epidemia da coronavirus, che possa essere applicata in qualche modo alle persone in carcere per reati della criminalità organizzata. Dove c’è stata qualche scarcerazione, di qualche disperato con pesanti patologie, perché comunque anche un mafioso con un tumore gravissimo è un disperato, si è trattato di tutelare il diritto alla salute come vuole la nostra Costituzione. Ed è uno Stato forte quello che sa prendersi cura della salute di TUTTI, anche dei mafiosi. Insieme, a fianco dei Garanti Il Garante Nazionale e i Garanti regionali hanno avviato una prima riflessione sulle prospettive della fase 2. Ai Garanti allora proponiamo, come già abbiamo iniziato a fare nel Veneto, che il confronto avvenga anche con il Volontariato e le cooperative sociali, che chiedono di essere coinvolti da subito, perché è adesso che c’è bisogno che la società civile torni a essere presente capillarmente nelle carceri e nell’area penale esterna: questa deve essere non un’occasione per pensare di “fare da soli” ma un’opportunità per lavorare fianco a fianco, ognuno valorizzando la sua specificità. Vogliamo tornare a portare nelle carceri le nostre idee, le nostre risorse, la nostra capacità innovativa, e vogliamo contribuire con la nostra competenza a informare e sensibilizzare le persone “dentro” e la società “fuori”, bombardata da una informazione, spesso superficiale e imprecisa. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Buttare la chiave? Spunti per una riflessione sull’antimafia di Livio Pepino volerelaluna.it, 5 maggio 2020 Mentre in tutte le carceri italiane il virus si diffonde (sono ormai 159 i casi conclamati e non si contano quelli sospetti, con detenuti “in isolamento” in celle multiple) e provoca i primi morti, il dibattito e le polemiche non si appuntano sul numero dei reclusi (53.187), tuttora di gran lunga superiore alla capienza reale degli istituti penitenziari (poco più di 47.000 posti), ma sull’avvenuta concessione della detenzione domiciliare per ragioni di salute ad alcuni condannati in regime di 41bis (quattro, forse cinque, a quanto è dato sapere). La destra populista (da Salvini a Meloni), qualche giornalista affascinato dalle manette e alcuni magistrati antimafia (non tutti, per fortuna) si stracciano le vesti e gridano alla scandalo fino a provocare le dimissioni del direttore dell’Amministrazione penitenziaria (che, in verità, bene avrebbe fatto a presentarle prima per assai più serie ragioni) e a indurre il Governo a varare, il 30 aprile, un decreto legge che inserisce nell’iter decisionale delle domande di detenzione domiciliare di condannati in regime di 41bis il parere obbligatorio della Procura nazionale antimafia. Fin qui tutto prevedibile e previsto e non metterebbe conto parlarne. Il fatto in qualche misura nuovo è che, a quelle, si sono affiancate le voci di esponenti di movimenti antimafia (anche qui non tutti, per fortuna) tradizionalmente sensibili ai temi del carcere e dei suoi ospiti. La cosa impone una riflessione e, auspicabilmente, l’apertura di un confronto. Conviene, come sempre, partire dai fatti. I condannati transitati dal regime di 41bis alla detenzione domiciliare sono stati in questi mesi - come si è detto - poche unità. Le polemiche hanno riguardato, in particolare, due casi. Il primo è quello di Francesco Bonura, 78 anni, condannato per associazione mafiosa a 23 anni di reclusione, con fine pena dicembre 2020 (tenendo conto della liberazione anticipata maturata), portatore di gravi patologie oncologiche e cardiorespiratorie. Il secondo è quello di Pasquale Zagaria, 60 anni, condannato per associazione camorristica a 21 anni e 7 mesi, con fine pena dicembre 2023, costituitosi spontaneamente nel giugno 2007, confesso per gran parte dei delitti contestatigli e di cui, già nel 2015, la Corte d’appello di Napoli, revocandogli la misura di prevenzione della sorveglianza speciale, aveva escluso l’attualità della appartenenza al sodalizio criminale; Zagaria - va aggiunto - è stato sottoposto nel dicembre scorso a intervento chirurgico per una patologia oncologica con necessità di successive cure impraticabili nel luogo di detenzione (carcere di Sassari) o in presidi ospedalieri prossimi e l’Amministrazione penitenziaria, pur sollecitata dalla magistratura di sorveglianza, non aveva ritenuto di disporne il trasferimento in altra struttura idonea alle cure. Dunque, due personaggi caratterizzati, da un lato, da un evidente spessore criminale (come risulta dall’entità delle pene inflitte) e, dall’altro, portatori di gravi patologie e destinati comunque a una scarcerazione non lontana per fine pena (nel primo caso fra soli otto mesi). C’erano conseguentemente, all’evidenza, valori diversi da considerare e bilanciare e - va ulteriormente precisato - la detenzione domiciliare è stata disposta in luogo diverso da quello di commissione dei reati e con rigide prescrizioni (nonché, nel secondo caso, per il solo periodo di sei mesi previsto per le cure). Dopo i fatti, la domanda: i provvedimenti di concessione della detenzione domiciliare, al di là delle sempre possibili diverse valutazioni di opportunità, meritavano le polemiche e i toni cui si è assistito in questi giorni, con accuse ai magistrati di sorveglianza di avere emesso provvedimenti “scellerati”, di avere dato un colpo mortale alla lotta alle mafie e alla stessa democrazia e di avere offeso la memoria delle vittime di Cosa Nostra e della camorra? Francamente mi riesce difficile dare una risposta affermativa. E ciò mi fa ritenere che il problema sia più generale ed abbia a che fare con la stessa concezione dell’antimafia, non da oggi a rischio di puntare soprattutto sulla repressione penale e carceraria (possibilmente inflessibile e all’insegna del “buttare via la chiave”). Su questo, dunque, serve un confronto. Il tema - superfluo dirlo - non è il se dell’impegno antimafia (che è una priorità assoluta, sul piano politico e, prima ancora, su quello etico) ma il modo in cui esso si manifesta e si esprime. La questione è complessa e non si presta a semplificazioni ma c’è, almeno per me, un punto fermo: quello secondo cui lo Stato, per essere - alla lunga - credibile e autorevole agli occhi dei suoi cittadini, deve saper coniugare una risposta alla criminalità senza cedimenti (nella consapevolezza della sua pericolosità e delle sue caratteristiche) con un senso di umanità privo di tentennamenti ed eccezioni. Quel senso di umanità che è mancato in molte prese di posizione al punto da spingere l’ex presidente della Corte costituzionale Giovanni Maria Flik a esplicitare la sua delusione aggiungendo: “Nel decreto del 30 aprile riconosco addirittura un peggioramento del clima. E assisto alla scena desolante di una Corte costituzionale entrata nelle carceri dalla porta mentre era proprio la Costituzione a uscire, per la finestra, dal sistema penitenziario”. Non è la prima volta in cui si pone la questione dell’entità, dei limiti, dei correttivi possibili della pena a fronte di reati gravi ed efferati (anche più gravi di quelli di cui qui si parla, che non comprendono delitti di sangue). È accaduto, per esempio, negli anni bui del terrorismo. Di quei giorni, in cui molti “padri della patria” arrivarono a invocare la pena di morte (a dimostrazione di quanto sia ricorrente la spinta a rispondere al male con il male), ho un ricordo vivido e un insegnamento incancellabile. Era il 3 maggio 1979 ed era in corso a Torino un incontro sul terrorismo organizzato dai consigli di fabbrica di Fiat Mirafiori e Rivalta e da Magistratura democratica con la partecipazione di centinaia di operai. Durante l’intervento dell’allora presidente della Camera Pietro Ingrao arrivò la notizia dell’agguato di un commando delle Brigate Rosse alla sede della Democrazia Cristiana di piazza Nicosia a Roma con l’assassinio di due agenti di polizia. In un’atmosfera di tensione, di emozione e di sconcerto palpabili le parole di Ingrao risuonarono ferme e nette: “Noi vogliamo garanzie profonde delle libertà, del rispetto dei diritti umani e civili anche per chi ha ucciso barbaramente e lo vogliamo non come concessione a chi ha sparato e assassinato, ma perché ne abbiamo bisogno noi; perché se rinunciassimo a tutto questo daremmo la vittoria ai nostri nemici, e non gliela vogliamo dare questa vittoria!”. Il punto, ora come allora, sta qui. Conservare il senso dell’umanità, garantire il diritto alla salute e alla dignità anche di chi ha ucciso non è un cedimento o una concessione al terrorismo e alle mafie ma il modo di salvaguardare la credibilità e la funzione stessa dello Stato, di dimostrare (non ai mafiosi ma) ai cittadini la sua superiorità rispetto alla prevaricazione e alla violenza, di rendere evidente la ragione per cui ad esso occorre affidarsi con fiducia invece che alle mafie. Così interpreto la felice intuizione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (consegnata a Giorgio Bocca in una famosa intervista a la Repubblica del 10 agosto 1982) secondo cui il problema della lotta alla mafia non è solo quello di rinchiuderne, possibilmente per sempre, gli esponenti ma anche, e soprattutto, quello di trasformare “i dipendenti della mafia in alleati dello Stato”: operazione possibile solo in presenza di uno Stato capace, sempre, di anteporre la giustizia alla vendetta e all’annientamento fisico dei suoi “nemici”. È un’utopia? Forse, ma preferisco considerarla una sfida, riprendendo le parole rivolte il 15 novembre scorso dal papa di Roma agli studiosi dell’Associazione di diritto penale: “Tra la pena e il delitto esiste una asimmetria e il compimento di un male non giustifica l’imposizione di un altro male come risposta. Si tratta di fare giustizia alla vittima, non di giustiziare l’aggressore. […] Questi sono valori difficili da raggiungere ma necessari per la vita buona di tutti. […] Non credo che sia un’utopia, ma certo è una grande sfida. Una sfida che dobbiamo affrontare tutti se vogliamo trattare i problemi della nostra convivenza civile in modo razionale, pacifico e democratico” (https://volerelaluna.it/materiali/2019/11/20/il-papa-e-la-giustizia-penale/). Abolire il carcere? Ecco perché io, prete, non sono d’accordo con Gherardo Colombo di Mauro Leonardi ilsussidiario.net, 5 maggio 2020 Sull’Huffington Post, l’ex pm Gherardo Colombo ha ripetuto una sua vecchia tesi: abolire il carcere. La risposta di un prete volontario in carcere. In tempi di Coronavirus non pochi pensano che sia stato eccessivo il ricorso alle misure alternative a favore dei detenuti. Potremmo tutti fare il nome di politici che hanno rimproverato i giudici - lo Stato, in ultima analisi - per aver mandato a casa troppi carcerati: secondo questi, per ridurre l’emergenza sovraffollamento si sarebbe caduti nell’eccesso opposto, quello del buonismo. In questo contesto deflagra come una bomba l’intervista con cui Gherardo Colombo, rilancia il suo vecchio libro “Perdono responsabile” (Ponte alle Grazie) che in occasione della ripubblicazione viene aggiornato. Tesi principale del saggio, che all’epoca fece tanto discutere, è che il carcere vada abolito. Proprio così. Avete letto bene. Non si tratta di renderlo migliore o più rispettoso della dignità della persona, ma proprio di toglierlo di mezzo. E l’aspetto del proteggere la società dalle persone pericolose, il diritto che tutti abbiamo di essere tutelati da chi ci può fare del male, che fine fa? Secondo Colombo, bisognerebbe inventarsi “un luogo a parte” che però dovrebbe consentire di non perdere i contatti con gli affetti o di perdere altri diritti fondamentali. Sarebbero tesi da utopia giovanilista che non interesserebbero a nessuno se non provenissero da un signore che, in trent’anni di magistratura, è stato l’uomo simbolo di Mani Pulite ed il protagonista di inchieste che hanno fatto la storia d’Italia come ad esempio quelle della Loggia P2, il delitto Ambrosoli o i fondi neri dell’Iri. Che le carceri - anche in Italia - siano molto lontani dal rispettare tutti quei requisiti che le rendano pienamente umane, è qualcosa che l’opinione pubblica conosce perfettamente. Ma sostenere che il carcere sia in sé stesso un male da evitare, mi sembra una posizione ideologica: ci vedo la stessa ideologia che ho visto agire, a volte, negli anni di Tangentopoli, la stessa ideologia che è lontana dalla verità quanto la menzogna. Pieno rispetto per l’uomo Colombo, che in crisi di coscienza con il proprio lavoro di giudice (“ho smesso di fare il pm per non dover più giudicare”) ha da tempo lasciato il proprio lavoro di magistrato per andare, peraltro, non a vivere sotto i ponti ma a ricoprire ruoli di prestigio. Fatico però a trattenere l’indignazione per questa posizione, perché essa ignora la vera condizione esistenziale del detenuto. Ribadito che ancora molti passi devono essere compiuti per rendere dignitose le carceri (e primo tra essi è la soppressione dell’ergastolo) i cappellani delle carceri sanno perfettamente che essenziale per la riabilitazione del detenuto è l’atteggiamento con cui questi affronta la giustezza - ovvero la verità - della sua pena carceraria. “Io sono in carcere perché ho sbagliato, ed è giusto che stia qui”. Questo passo è necessario e consente a un numero non trascurabile di persone di uscire dal carcere riabilitate. Colombo dice che il 68% dei carcerati reincide, ed è vero: ma non dice che reincide solo il 4% dei carcerati che trovano lavoro. La reincidenza cioè non è colpa del carcere - o quanto meno non solo - ma è colpa della società che non accoglie chi ha giustamente espiato. E, in estremo, anche la posizione di Gherardo Colombo va annoverata fra quelle di chi non riconosce al carcere la possibilità di essere un percorso redentivo. La tradizione garantista che ci ha trasmesso Beccaria dice che di fronte ad un reato lo Stato deve rieducare, certamente, ma lo devo fare attraverso la punizione. Che non è vendetta, come tra l’altro dice Colombo, ma è retribuzione che permette di riacquistare dignità. Io, nella mia piccolissima esperienza di volontario nelle carceri ex art. 17, l’ho potuto toccare con mano. Solo comprendendo il male fatto si può tornare pienamente “dignificati” come esseri umani. Solo vedere punito, nella propria vita, un reato commesso, consente, a chi ha danneggiato, di accedere al perdono in primo luogo agli occhi di sé stesso. Il perdono è frutto di grazia ma anche di giustizia. Paradossalmente, lo stiamo sperimentando tutti in questo tempo di Covid-19, la reclusione è limitante per tanti aspetti, ma educa: educa ad apprezzare la libertà propria e altrui, educa a riflettere su sé stessi. Educa a desiderare l’incontro con l’altro, come dimensione essenziale, evitando però lo scontro, il dissidio. Quando si è fatto del male un tempo di privazione della libertà è uno spazio per ricostruirsi, per rimettere al centro le dimensioni fondamentali con sé stessi e con il prossimo. Peccato che Colombo non lo sappia. Effetto Covid, cento mafiosi verso la libertà: c’è anche il fratello di Riina di Salvo Palazzolo La Repubblica, 5 maggio 2020 Aumentano le richieste dei detenuti accusati di mafia che chiedono i domiciliari per motivi di salute. Le istanze di scarcerazione per “rischio Covid” aumentano di giorno in giorno. Sono un centinaio i detenuti siciliani accusati di mafia e droga che chiedono di poter andare ai domiciliari per motivi di salute. Istanze che adesso sono al vaglio di varie autorità giudiziarie: alcuni detenuti sono infatti in attesa di giudizio, dunque la competenza è dei gip, dei tribunali del riesame, delle corte di appello; altri stanno invece scontando delle condanne già definitive, a decidere saranno i tribunali di sorveglianza sparsi per l’Italia, nelle sedi dove i mafiosi sono detenuti. Il nome più rilevante nella lista di chi ha fatto domanda è al momento quello di Gaetano Riina, il fratello del capo dei capi di Cosa nostra, che è detenuto a Torino. “Ha 87 anni ed è gravemente ammalato”, dice uno dei suoi legali, l’avvocato Pietro Riggi. “Nella nostra istanza scriviamo che nel carcere di Torino ci sono 60 detenuti risultati positivi al Coronavirus, una situazione davvero pericolosa per un anziano che ha un solo rene, che ha già rischiato la vita con più infarti e un enfisema polmonare”. Riina deve scontare ancora due anni, l’ultima condanna è stata emessa dal tribunale di Napoli per il reato di concorrenza illecita, nell’ambito di una indagine sul controllo del trasporto ortofrutticolo. Un centinaio le istanze di boss siciliani, altrettante quelle presentate da appartenenti a Camorra e ‘Ndrangheta. La posizione delle procure distrettuali antimafia viene ribadita ad ogni udienza. “Gli arresti domiciliari sono assolutamente inidonei per soggetti ad alta pericolosità”. A preoccupare i pm è soprattutto il ritorno dei mafiosi nelle loro città. A Palermo è tornato ai domiciliari Giuseppe Sansone, imprenditore arrestato nell’estate scorsa perché ritenuto uno degli anelli della nuova riorganizzazione mafiosa. E anche Francesco Bonura, che era al 41bis. Stesso reparto dove era recluso Vincenzo Di Piazza, il capomafia di Casteltermini: adesso è ai domiciliari nella sua abitazione in provincia di Agrigento. Come rivelato domenica da Repubblica sono 376 i mafiosi e i trafficanti di droga che hanno lasciato il carcere per motivi di salute legati all’emergenza Covid. Un dato che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha comunicato alla commissione parlamentare antimafia. Nella parte alta della lista c’è anche l’ergastolano Antonino Sudato, di Avola, era detenuto nel reparto più rigido della cosiddetta “Alta sicurezza”. Tutti gli altri stavano in “Alta sicurezza 3”, il circuito che ospita l’esercito di mafie e gang della droga, 9.000 detenuti in totale. Dei 376, quasi la metà sta scontando una condanna definitiva, gli altri sono ancora in attesa di giudizio. Per tutti, hanno comunque pesato le condizioni di salute precarie attestate da certificati e perizie. E il fatto che il Dap non sia riuscito ad attrezzare soluzioni alternative agli arresti domiciliari, ad esempio nei centri medici penitenziari. Una polemica che ha portato alle dimissioni del capo del Dap Francesco Basentini e alla nomina di un nuovo vertice costituito dal vice, Roberto Tartaglia, che si è già insediato, e dal capo, Dino Petralia. Di Matteo accusa Bonafede: “La mia nomina al Dap avrebbe scontentato i mafiosi” di Liana Milella La Repubblica, 5 maggio 2020 Il ministro: “Ipotesi infondata e infamante”. La replica del magistrato: “Confermo tutto”. Il centrodestra: “Il Guardasigilli si dimetta”. Il vicesegretario dem Orlando: “Niente dimissioni sulla base di sospetti”. Ma il Pd chiede che il grillino riferisca in Parlamento. Renzi: “Voglio la verità”. Di Matteo contro Bonafede. L’ex pm antimafia di Palermo ora al Csm contro il ministro della Giustizia. Non in una sede istituzionale. Ma in una trasmissione televisiva. Poco prima di mezzanotte a “Non è l’arena”, di Massimo Giletti. Tema: il posto di capo del Dipartimento delle carceri. In sintesi: Nino Di Matteo accusa Alfonso Bonafede di avergli prima proposto, nel 2018, quindi nel governo Lega-M5S, di fare il capo delle carceri. Ma dopo due giorni avrebbe fatto marcia indietro. La voce corre. La polizia penitenziaria registra la reazione di importanti boss che tra di loro in cella dicono “se arriva questo abbiamo chiuso”, “faremo ammuina”. Le telefonate diventano pubbliche con un articolo del Fatto quotidiano. Di Matteo afferma adesso di essere tornato da Bonafede per accettare il posto al Dap, ma a quel punto il Guardasigilli gli avrebbe detto di aver scelto Francesco Basentini, mentre per lui era disponibile la poltrona di direttore degli Affari penali. Dopo la telefonata di Di Matteo ecco quella di Bonafede che si dichiara “esterrefatto” e propone una versione del tutto opposta nella ricostruzione della proposta e dei tempi. Avrebbe ipotizzato subito con Di Matteo le due soluzioni, la direzione del Dap o quella degli Affari penali, dicendogli però di preferire la seconda strada, perché quello era il posto che fu di Giovanni Falcone ed era più importante nella lotta contro la mafia. Dopo neppure dieci minuti, da poco passata la mezzanotte, ecco la prima reazione, quella dell’ex magistrato Cosimo Maria Ferri, adesso deputato renziano, ma anche ex sottosegretario alla Giustizia, che dice “ma dov’è finita la sua trasparenza, perché Bonafede non lo ha mai raccontato, ora venga in Parlamento a dire cosa è successo”. A ruota si preannuncia la tempesta leghista con l’ex sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone che già parla di aprire il caso in Parlamento. “Venga subito in Parlamento” - Il caso Di Matteo-Bonafede esplode in Parlamento e diventa l’argomento top della giornata. Fdl e Lega chiedono le dimissioni del ministro. Forza Italia vuole il Guardasigilli subito in Parlamento. Stessa richiesta dal Pd che però mostra cautela sulle dichiarazioni di Di Matteo. Tant’è che l’ex Guardasigilli e oggi vice segretario del Pd Andrea Orlando, che pure ha avuto momenti di tensione con Bonafede sia sulle intercettazioni che sulla prescrizione, e certo sulle carceri è da sempre più garantista, lo difende. E dice che “sarebbe gravissimo se un ministro si dovesse dimettere per i sospetti di un magistrato”. E motiva le sue ragioni: “So che Bonafede forse non ragionerebbe così, ma si creerebbe un precedente gravissimo. Il sospetto non è l’anticamera della verità, sinché non verificato resta un sospetto”. Il Pd conferma la linea con il responsabile Giustizia Walter Verini e il capogruppo in commissione Antimafia Franco Mirabelli che chiedono al Guardasigilli di riferire subito in Parlamento perché “nella lotta alla mafia la confusione non è ammessa”. Verini e Mirabelli definiscono “irresponsabile l’atteggiamento di chi usa un tema come questo per giustificare l’ennesima richiesta di dimissioni di un ministro”. Chiarezza immediata chiede anche Matteo Renzi che non sottovaluta affatto lo scontro ma parla di “un regolamento di conti tra giustizialisti” definendolo “un gravissimo scontro istituzionale”. Dice Renzi: “Vorrei sapere la verità: c’è qualcosa sotto? Si faccia trasparenza. Spero che il Csm chiarisca questa posizione di Di Matteo. È evidente che se Di Matteo dice queste cose deve avere degli argomenti. Siamo in presenza di una clamorosa vicenda giudiziaria che rischia di essere il più grande scandalo della giustizia degli ultimi anni”. Tutta l’opposizione, Lega, Fdl, Forza Italia, chiede in blocco le dimissioni di Bonafede. La voce di maggior peso è quella di Giorgia Meloni, la leader di Fratelli d’Italia che dice “se fossi in Bonafede rassegnerei le mie dimissioni da ministro”. Seguita dalla Lega: i deputati che seguono la giustizia, a partire da Giulia Bongiorno, insistono sullo stesso tema perché dopo “rivolte, evasioni, detenuti morti, agenti feriti, migliaia di delinquenti usciti dal carcere, boss tornati a casa” e ora le parole di Di Matteo, Bonafede “dovrebbe andarsene in fretta per i troppi scandali ed errori”. La Lega chiede se sia vero che “Di Matteo non sia stato messo al Dap perché sgradito ai mafiosi”. Dello stesso tenore la richiesta della capogruppo di Forza Italia Maria Stella Gelmini che chiede a Bonafede di venire “immediatamente in Parlamento” perché “le gravissime accuse del pm non possono cadere nel vuoto: o Di Matteo lascia la magistratura o Bonafede lascia il ministero”. Il responsabile Giustizia Enrico Costa parla di “cortocircuito forcaiolo tra Bonafede e Di Matteo, con un regolamento di conti televisivo indegno degli incarichi che entrambi ricoprono” dopo il quale Bonafede deve precipitarsi in Parlamento “per raccontare come sono andate le cose”. Ironicamente Costa gli suggerisce “già che c’è” di raccontare anche “le trattative e le interlocuzioni che ha avuto prima di nominare i nuovi vertici del Dap in questi giorni”. La telefonata di Di Matteo - Ma cos’ha detto l’ex pm del processo Trattativa Stato-mafia? Innanzitutto Di Matteo non era in trasmissione, ma ha chiamato in diretta. Ecco le sue parole: “Bonafede mi chiese se ero disponibile ad accettare il ruolo di capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria o, in alternativa, quello di direttore generale degli affari penali. Chiesi 48 ore di tempo di tempo per dare una risposta, ma quando ritornai, avendo deciso di accettare la nomina a capo del Dap, il ministro mi disse che ci aveva ripensato e nel frattempo avevano pensato di nominare Basentini”. Cos’era accaduto nel frattempo? Di Matteo dice che “il Gom (una sorta di servizio segreto interno della polizia penitenziaria, ndr) aveva trasmesso alla Procura nazionale antimafia, ma anche alla direzione del Dap, e quindi penso fosse conosciuta dal ministro, la reazione di importantissimi capimafia, legati anche a Giuseppe Graviano e ad altri stragisti che dicevano “se nominano Di Matteo è la fine”. Di Matteo conclude: “Al di là delle loro valutazioni andai a trovare il ministro 48 ore dopo. Avevo deciso di accettare la nomina a capo del Dap ma improvvisamente mi disse che ci aveva ripensato, o qualcuno l’aveva indotto a ripensarci, questo non lo posso sapere”. Di Matteo riassume ancora la sua versione: “Bonafede mi disse ‘la vorremmo come nostro collaboratore, può scegliere o essere nominato al Dap, e lo passo fare io subito, o può scegliere la direzione degli affari penali, ma in questo caso deve aspettare la maturazione di una situazione”. Questa fu la sua prima offerta”. Nel secondo incontro, racconta sempre Di Matteo, “il ministro mi chiese di accettare il ruolo di direttore generale al ministero. Il giorno dopo gli dissi di non contare su di me perché non avrei accettato”. La risposta di Bonafede - Dopo soli cinque minuti ecco Bonafede al telefono. La sua versione non coincide affatto con quella di Di Matteo. L’esordio lo fa capire: “Sono esterrefatto”. Prosegue così: “Lo sono perché viene data un’informazione che può essere grave per i cittadini, nella misura in cui si lascia trapelare un fatto sbagliato, cioè che la mia scelta di proporre a Di Matteo il ruolo importante all’interno del ministero sia stata una scelta rispetto alla quale sarei andato indietro perché avevo saputo di intercettazioni. Gli ho parlato della possibilità di fargli ricoprire uno dei due ruoli di cui ha parlato lui. Gli dissi che tra i due ruoli per me era più importante quello di direttore degli affari penali, più di frontiera nella lotta alla mafia ed era il ruolo ricoperto da Giovani Falcone”. Bonafede aggiunge: “Gli dissi venga a trovarmi e vediamo insieme. Lui mi parlò delle intercettazioni dei detenuti che in carcere dicevano se viene questo butta le chiavi. Sapevo chi stavo per scegliere, e sapevo di quella intercettazione, perché ne dispone anche il ministro”. Il ministro chiude così: “A me era sembrato, ma evidentemente sbagliavo, che fossimo d’accordo. Ma il giorno dopo mi disse di non volere accettare gli affari penali perché voleva il Dap, ma io nel frattempo avevo già scelto Basentini”. Lo sfogo di Bonafede contro Di Matteo: “Io condizionato dai boss? Infamante” di Francesco Grignetti La Stampa, 5 maggio 2020 Il ministro della Giustizia si difende dalle accuse del magistrato: “Ho sempre agito contro le mafie”. Il centrodestra: “Chiarisca o lasci l’incarico”. Amareggiato, offeso e anche preoccupato per le possibili ricadute. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ancora non si capacita dell’attacco di Nino Di Matteo. Proprio lui, il magistrato antimafia che è l’icona preferita del Movimento 5 stelle, ha colpito e affondato il ministro, in diretta tv, con poche micidiali parole. Di Matteo ha raccontato a Massimo Giletti di quando nel giugno 2018 Bonafede lo chiamò per offrirgli il posto di direttore delle carceri oppure di direttore generale degli affari penali al ministero, ma solo 24 ore dopo il ministro aveva già cambiato idea e di carceri non si parlava più. In pratica il magistrato, oggi al Csm, ha suggerito che Bonafede abbia chinato il capo per inconfessabili pressioni. Di Matteo ha ricordato che, nelle ore intercorse tra la proposta del ministro della Giustizia e la sua decisione, “alcune informazioni che il Gom della polizia penitenziaria aveva trasmesso alla procura nazionale antimafia ma anche alla direzione del Dap, quindi penso fossero conosciute dal ministro, avevano descritto la reazione di importantissimi capimafia, legati anche a Giuseppe Graviano e ad altri stragisti all’indiscrezione che io potessi essere nominato a capo del Dap”. Quei capimafia, ha raccontato, dicevano “se nominano Di Matteo è la fine”. Bonafede però non ci sta. Rivendica il suo pedigree di avversario delle mafie e affida a Facebook un puntiglioso sfogo. “Un’ipotesi tanto infamante quanto infondata e assurda: è sufficiente ricordare che, quando decisi di contattare il dottor Di Matteo, quelle esternazioni di detenuti mafiosi in carcere erano già presso il mio ministero da qualche giorno. D’altronde, se mi fossi lasciato influenzare dalle reazioni dei mafiosi non avrei certo chiamato io il dottor Di Matteo per valutare con lui la possibilità di collaborare in una posizione di rilievo”. I colloqui furono più di uno. “Mi sembrava che fossimo concordi sulla scelta di quella collocazione, che gli avrebbe consentito di incidere su tutta la legislazione in materia penale”. Invece poi le cose andarono diversamente. Per Bonafede, tutto qui. Le opposizioni però sono già saltate sul caso e chiedono un dibattito parlamentare. E c’è chi invoca le dimissioni del ministro. Mariastella Gelmini, capogruppo Forza Italia alla Camera, dice di non vedere alternative: “O Di Matteo lascia la magistratura o Bonafede lascia il ministero della Giustizia”. Anche la Lega sollecita il passo indietro. Il deputato forzista Giorgio Mulé fa intanto notare come lo scontro Bonafede-Di Matteo non sia stato nemmeno sfiorato dal Tg1, sospettato di favoritismi grillini. La vicenda crea imbarazzo anche dalle parti di Palazzo Chigi. Giuseppe Conte, che già non aveva gradito la storia delle scarcerazioni dei mafiosi, ha voluto vederci chiaro, contattando il Guardasigilli e cercando con lui di capire che cosa è avvenuto e come il ministro intenda uscirne. Il premier comprende da subito la portata politica della questione. “Sarebbe un disastro...”, se non si dovesse immediatamente chiudere. Non soltanto, infatti, le opposizioni invocano le dimissioni, ma Pd e Italia Viva, che non amano Bonafede, chiedono di riferire in Aula. La difesa dei Pd è più a tutela della carica che dell’attuale ministro. “Sarebbe gravissimo se un ministro si dovesse dimettere per i sospetti di un magistrato”, avverte il vice-segretario Andrea Orlando, che è stato anche lui ministro Guardasigilli. In ogni caso, il Pd non intende andare oltre un’audizione in Antimafia, peraltro nell’aria da giorni. Da Italia Viva, invece, non risparmiano veleno: “Tra il ministro della Giustizia Bonafede e il magistrato Di Matteo è in corso uno scontro tra due giustizialismi - osserva Matteo Renzi - in una querelle che rischia di essere il più grande scandalo della giustizia degli ultimi anni”. Una frattura insanabile fra i 5 Stelle e l’antimafia di Riccardo Lo Verso Il Foglio, 5 maggio 2020 Il magistrato Di Matteo attacca Bonafede sulla propria nomina al Dap e ricicla il canovaccio della Trattativa, diventata verità nei talk prima delle sentenze, e che ora ritorna nelle arene televisive. Si erano tanto amati quelli del Movimento 5 stelle e il magistrato Antonino Di Matteo. Con i primi a prendere l’ex pubblico ministero, oggi al Csm, come esempio, offrendogli di entrare nella macchina del governo, e il secondo pronto ad applaudire il codice etico del grillini prima e poi ad accogliere come una svolta, tanto attesa quanto necessaria, il blocco della prescrizione voluto dal ministro della giustizia Alfonso Bonafede. Ieri sera c’è stata un’insanabile frattura. Bonafede e Di Matteo hanno scelto l’Arena, mai nome è stato più azzeccato, di Massimo Giletti per consumare lo strappo. Di Matteo tira fuori una vecchia storia di due anni fa. Dice che nel 2018 Bonafede gli ha offerto di dirigere il Dap. Non se ne fece più nulla. Alla fine fu scelto Francesco Basentini che pochi giorni fa si è dimesso travolto dalle polemiche per le rivolte carcerarie e per le scarcerazioni dei boss mafiosi. Scarcerazioni che per la cronaca non vengono decise dal capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ma dai tribunali di Sorveglianza. Il Coronavirus in molti casi nulla c’entra, i detenuti vanno ai domiciliari per motivi di salute, ma a Basentini è stata contestata una circolare con cui chiedeva il monitoraggio dei detenuti over 70 e malati. Per molti è stata una sorta di via libera alle scarcerazioni. Bonafede decide di intervenire in diretta. Spiega che a Di Matteo fu offerta anche la direzione degli Affari penali. Mica l’ultimo degli incarichi. Ricorda, infatti, che un tempo fu ricoperto da Giovanni Falcone. È il sospetto appena accennato da Di Matteo, il magistrato più scortato d’Italia, a scatenare il botta e risposta. Il pm della Trattativa stato-mafia ricorda che ricevuta la proposta di ricoprire uno dei due incarichi, al Dap o agli Affari penali, chiese 48 ore di tempo per rifletterci. Quando incontrò Bonafede per dirgli che accettava il Dap “improvvisamente il ministro mi disse che ci aveva ripensato e nel frattempo avevano deciso di nominare il dottor Basentini. Ci aveva ripensato o forse qualcuno lo aveva indotto a ripensarci”, aggiunge Di Matteo che cita alcune informazioni che il Gom della polizia penitenziaria aveva trasmesso alla procura antimafia e anche al Dap. Le intercettazioni avevano carpito il malessere dei boss detenuti: se avessero nominato Di Matteo per loro era la fine. Lo stato che cede al ricatto. Lo stesso stato che in epoca di pandemia sanitaria manda ai domiciliari alcuni boss. Il canovaccio si ripete. Di Matteo, subito dopo le prime scarcerazioni, si è detto preoccupatissimo per il messaggio di debolezza dello stato di fronte alle rivolte carcerarie. Dopo la concessione dei domiciliari al mafioso palermitano Francesco Bonura, malato di cancro, Di Matteo ha fatto un esplicito riferimento alla Trattativa stato-mafia. È sì un canovaccio, e pure circolare. Della Trattativa per anni si è parlato nei talk show televisivi, dove l’esistenza del patto sporco è diventata verità prima ancora che arrivassero le sentenze, e ora ritorna nelle arene televisive. Si consuma una frattura insanabile fra il mondo dei 5 Stelle e l’antimafia. Bonafede, che da ministro attira su di sé critiche e a volte ilarità, va allo scontro con un simbolo dell’antimafia dura e pura. Non sarà facile per lui reggere il confronto. Può solo sperare che la nomina di Dino Petralia al Dap e di Roberto Tartaglia come vice plachi la polemica tenendo conto che Tartaglia assieme a Di Matteo rappresentava l’accusa al processo palermitano sulla Trattativa. Sarebbe imbarazzante, soprattutto per loro il fatto di essere stati scelti da un ministro che ha “scartato” di Matteo perché la sua nomina non era gradita ai boss. Domiciliari ai boss al 41bis e rivolte nelle carceri: torna il romanzo “trattativa” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 maggio 2020 Se uno dovesse inventarsi un teorema giudiziario su una trattativa Stato-mafia odierna, ci sono tutti gli ingredienti giusti per creare suggestioni. Il 7 marzo scoppiano le rivolte nelle carceri italiane, alcune davvero devastanti con tanto di evasione spettacolare e lasciando una scia di 13 detenuti morti, la maggior parte stranieri e con problemi di tossicodipendenza. Dietro le rivolte - come ha detto recentemente il sociologo Nando Dalla Chiesa e adombrato anche dal presidente della commissione antimafia Nicola Morra - ci sarebbe stata una regia mafiosa per fare pressione sul governo per ottenere le scarcerazioni dei boss mafiosi al 41bis. Detto, fatto. Spunta la circolare del Dap che raccomanda alle direzioni del carcere di segnalare ai giudici tutti i detenuti che presentano patologie letali in caso di Covid 19. Esce un articolo de L’Espresso nel quale si denuncia che la circolare avrebbe fatto un favore ai boss al 41bis, i quali ne avrebbero approfittato per chiedere la detenzione domiciliare. Si crea mistero, inquietudine e aleggia nell’aria il famoso “terzo livello”. Il giorno dopo l’allarme viene scarcerato il boss Francesco Bonura per gravi malattie e messo in detenzione domiciliare. Spunta fuori la lista di centinaia di boss che avrebbero o potrebbero beneficiare della scarcerazione. Poco importa che di un centinaio di nomi, solo tre del 41bis sono coloro che hanno usufruito della detenzione domiciliare. Ma il dado è tratto. La presunta nuova trattativa avrebbe quindi dato i suoi frutti. Lo stesso Nino Di Matteo - membro togato del Csm e tra coloro che imbastirono il famoso processo sulla presunta trattativa Stato- mafia - all’indomani delle scarcerazioni si era espresso così: “Lo Stato sta dando l’impressione di essersi piegato alle logiche di ricatto che avevano ispirato le rivolte. E sembra aver dimenticato e archiviato per sempre la stagione delle stragi e della trattativa Stato- mafia”. Gli ingredienti ci sono tutti. Ma durante l’ultima trasmissione “Non è l’Arena” di Massimo Giletti se n’è aggiunto un altro che ha mandato in tilt i seguaci delle “agende rosse”, tutta una certa antimafia che crede alle “entità” e alle regie occulte del fantomatico (Giovanni Falcone non a caso stigmatizzava questa fandonia) “terzo livello” e soprattutto il Movimento 5Stelle, che attualmente è al governo e che del teorema trattativa ne ha fatto un caposaldo della sua narrazione politica. Di Matteo è intervenuto durante la trasmissione affermando che nel 2018 il guardasigilli Alfonso Bonafede gli aveva offerto di dirigere il Dap, offerta che sarebbe poi venuta meno, dopo la reazione di alcuni boss detenuti al 41bis, che in alcune intercettazioni si sarebbero detti preoccupati per la sua nomina al Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria. Ovviamente Di Matteo ha raccontato solo i fatti che sarebbero accaduti, non aggiungendo altro né dando alcuna interpretazione. Ma chi ha ascoltato ha avuto inevitabilmente la percezione che Bonafede stesso avrebbe avuto paura delle pressioni mafiose. Una sorta di minaccia psicologica a un corpo politico dello Stato (reato contestato agli ex Ros per la presunta trattativa). Il ministro della Giustizia ha replicato smentendo quella ricostruzione. Ricorda qualcosa? Ma certo. La stessa narrazione suggestiva e priva di fondamento sulla presunta trattativa Stato- mafia. Anche in quel caso è stato omesso un elemento non trascurabile: viviamo in uno Stato di Diritto e soprattutto c’è la magistratura di sorveglianza che opera secondo legge e in maniera del tutto indipendente. Pensare che le scarcerazioni siano frutto di accordi con la mafia che avrebbe fatto pressione tramite le rivolte, è frutto di superficialità e mancanza di conoscenza. Le rivolte sono provocate dal disagio che imperversa da sempre nelle nostre carceri e l’emergenza Coronavirus ha messo a nudo tutte le fragilità. I mafiosi sono per l’ordine all’interno delle carceri. La ribellione non è nel loro Dna. Le scarcerazioni non hanno ovviamente nulla a che fare nemmeno con quella circolare del Dap, che è un atto amministrativo doveroso in un Paese civile. I magistrati di sorveglianza hanno fatto il loro dovere. Nessun pericoloso boss sanguinario è stato liberato. Nessuna regia occulta. Analoga vicenda è accaduta nel 1993 e c’entra sempre il 41bis. L’unica prova dell’avvenuta trattativa Stato- mafia è il mancato rinnovo del 41bis a centinaia di detenuti. Infatti secondo le motivazioni della sentenza principale sulla presunta trattativa, per la quale sono stati condannati in primo grado gli ex Ros e Marcello Dell’Utri per aver veicolato le minacce ai governi che si sono succeduti tra il ‘ 92 e il ‘ 94, non c’è ombra di dubbio. L’allora capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, si adoperò per rimuovere dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Niccolò Amato, ritenuto troppo duro con i boss, e per sostituirlo con Adalberto Capriotti (con Francesco Di Maggio come vice), nel giugno del 1993. Fu lì, secondo le motivazioni di condanna, che si insinuarono una serie di iniziative per favorire la mafia e quindi la trattativa. Il 41bis sarebbe stato il fulcro di tali iniziative. In realtà c’è stata una sentenza della Corte costituzionale scaturita grazie al ricorso - udite udite - dei magistrati si sorveglianza. Tale sentenza ha invitato il governo a valutare caso per caso il rinnovo o meno del 41bis (all’epoca il rinnovo avveniva automaticamente e indistintamente per tutti). Punto primo. Tale mancata proroga era stata posta in essere dal ministro della Giustizia dell’epoca, Giovanni Conso, il quale non è stato indagato per questo. Punto secondo. Se fosse stato frutto della trattativa, non si capisce quale vantaggio avrebbe avuto Cosa nostra a fronte delle cosiddette “stragi di continente” del 1993. I giudici che hanno assolto l’ex ministro Calogero Mannino, che nel processo trattativa ha scelto il rito abbreviato, hanno sottolineato come dei 336 detenuti non sottoposti al rinnovo, soltanto 18 appartenevano alla mafia (a sette dei quali, peraltro, nel giro di poco tempo, nuovamente riapplicato). Dunque gli aderenti a Cosa nostra erano pari a meno del 5,5% di tutti i detenuti con decreto in scadenza. Ma non solo. I giudici scrivono che “né dalla Procura di Palermo, all’uopo interpellata, né dalla Dia, né dalla Dna, né dalle altre forze politiche richieste di parere, era stato evidenziato uno spessore criminale di particolare rilievo di taluno di loro”. Il terzo fattore che piccona la prova dell’avvenuta trattativa riguarda la necessità di una ragionata distensione del clima di pressione all’interno del carcere “a tratti - scrivono i giudici -, e per lunghi lassi di tempo, luoghi sovraffollati di disumanità”. Una distensione già avviata, tra l’altro, con il precedente capo del Dap Niccolò Amato con la sua nota del marzo 1993. Una distensione, sottolineano i giudici, “che nulla ha a che fare con il venire a patti con la criminalità, ma che molto ha a che fare con la tutela della dignità dei detenuti, di qualunque estrazione sociale essi siano”. Ed ecco qua. Si parla di tutela della dignità dei detenuti, Costituzione, Stato di Diritto. In soldoni nessuna manovra oscura, come oggi non c’è stata alcuna regia occulta dietro la concessione della detenzione domiciliare (di cui tre del 41bis, non centinaia come hanno fatto un po’ credere) odierne. Chissà se il ministro Bonafede, che adesso è anche capodelegazione del M5S nel governo, si sia ora accorto di quanto è facile cadere nell’equivoco. Il teorema trattativa è diventata una spada di Damocle (o addirittura uno strumento di potere) che condiziona il governo nel fare qualsiasi scelta politica. Soprattutto nel campo giudiziario e penitenziario. Bonafede colpito al cuore: l’accusa del guru antimafia di Eleonora Martini Il Manifesto, 5 maggio 2020 Il pm Di Matteo (Csm) incolpa il ministro di aver ceduto ai boss nella scelta del capo Dap. Chi di antimafia colpisce, di antimafia perisce. Potrebbe essere il titolo un po’ ironico di quella che Matteo Renzi definisce “una clamorosa vicenda giudiziaria che rischia di essere il più grave scandalo giudiziario degli ultimi anni”. O, meno enfaticamente, una faida interna al Movimento 5 Stelle che vede per la prima volta rafforzarsi la fronda contraria al capo delegazione, Alfonso Bonafede, accusato di non aver contrastato il parere di alcuni boss mafiosi nella scelta del capo del Dap. A puntare il dito accusatore contro il Guardasigilli è nientemeno che un’icona della lotta alla mafia come il pm Nino Di Matteo, presidente dell’Associazione nazionale magistrati di Palermo, da decenni sotto scorta, da poco membro del Csm, da sempre guru dei grillini. Nel giugno 2018 “Bonafede mi chiese se ero disponibile ad accettare il ruolo di capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria o, in alternativa, quello di direttore generale degli affari penali. Chiesi 48 ore di tempo per dare una risposta”, racconta Di Matteo al giornalista Massimo Giletti durante la trasmissione Non è l’arena, su La7, rivelando che nel frattempo “il Gom aveva inviato alla procura nazionale antimafia e anche alla direzione del Dap, quindi credo fosse conosciuto anche dal ministro”, un rapporto sulle reazioni agguerrite di “importantissimi capi mafia” contrari alla sua nomina. “Quando ritornai, avendo deciso di accettare il ruolo di capo Dap - continua Di Matteo - il ministro mi disse che ci aveva ripensato e nel frattempo avevano pensato di nominare Basentini”. Un’accusa gravissima. Che naturalmente ha sollevato le richieste di chiarimenti immediati e, da parte delle destre di opposizione, delle dimissioni di Bonafede. Il quale riesce solo a balbettare un laconico: “Sono esterrefatto. Dobbiamo distinguere quelli che sono i fatti dalle percezioni”. Eppure il Ministro di Giustizia sembrava essere appena riuscito a districare la matassa che gli si stava stringendo attorno al collo sulla questione penitenziaria, dopo che ad alcuni capi clan, ultrasettantenni e malandati di salute, ai quali rimaneva poco da scontare, nelle ultime settimane era stata concessa la detenzione domiciliare in modo da svuotare le carceri sovraffollate che rischiano ogni giorno di diventare focolai di Covid-19. Bonafede ce l’aveva messa tutta per accontentare i supporter del carcere duro. E dapprima aveva “commissariato” il capo del Dap Francesco Basentini - che obiettivamente ha dato prova di non saper gestire l’emergenza, con le rivolte, le morti dei detenuti rimaste nell’ombra, le violenze, ecc. - affiancandogli un ex pm dell’antimafia come Roberto Tartaglia, molto vicino a Di Matteo. Poi, quando sabato scorso, in seguito alle critiche rivoltegli perfino dal giudice di Sorveglianza di Sassari e presidente di Md Riccardo De Vito, il discusso numero uno del Dap aveva gettato la spugna e si era dimesso, il Guardasigilli lo aveva subito sostituito con il procuratore generale di Reggio Calabria Dino Petralia, in precedenza di stanza a Sciacca e ex consigliere del Csm. Sempre antimafia, dunque. Ma al pm della trattativa Stato-mafia, della strage Borsellino e di tante altre battaglie combattute sul fronte caldo, quest’ultima scelta non deve essere andata proprio a genio. “E un regolamento di conti tra giustizialisti - sintetizza Renzi - Però sono membri delle istituzioni, quindi è un grave scontro istituzionale”. A chiedere la testa di Bonafede hic et nunc sono la Lega e Fratelli d’Italia, ma il capo di Italia viva non esclude di appoggiare eventuali mozioni di sfiducia: “Se ci saranno vedremo e leggeremo, il punto è capire cosa è successo”. La capogruppo in Senato di Forza Italia, Anna Maria Bernini, al momento si limita invece a chiedere al ministro “che venga immediatamente in Aula a chiarire quanto è successo”. Una richiesta che non può essere ignorata neppure da Leu: “Il ministro venga a riferire e a spiegare al parlamento quali sono state le ragioni per le quali ha scelto Basentini piuttosto che Di Matteo”, fa eco il capogruppo in Commissione Antimafia Erasmo Palazzotto puntualizzando però che la “scelta rimane legittima”. “Tutto questo è irreale. Devo essere sincera, non so più cosa pensare”, è la reazione di Piera Aiello, deputata 5S della Commissione Antimafia e testimone di giustizia. Ma ufficialmente il M5S fa quadrato attorno al ministro: “Respingo con convinzione gli attacchi politici o le congetture prive di fondamento”, scandisce Vito Crimi. Ma Bonafede può contare perfino sulla difesa del Partito Radicale che, certo, in questi anni non è stato tenero né con il ministro né con Basentini. “Li abbiamo persino denunciati presso tutte le procure d’Italia per epidemia colposa, in relazione alla gestione delle carceri in periodo di Coronavirus”, dichiara il segretario Maurizio Turco. Ma ora che “Bonafede è sotto il fuoco incrociato per Lesa Maestà del Dottor Di Matteo” per un gesto che si potrebbe configurare al massimo “di maleducazione”, la direzione del partito si augura che questa sia per il Guardasigilli “l’occasione di rivedere le sue politiche sulla giustizia e sul carcere con l’occhio anti-mafista, e si faccia guidare dalla Costituzione”. Ci tocca pure difendere il ministro! di Piero Sansonetti Il Riformista, 5 maggio 2020 Ma guarda un po’ se alla fine ti tocca persino difendere Alfonso Bonafede! È che quando prende la parola Nino Di Matteo ti viene da difendere chiunque lui accusi, perché sai di non sbagliarti. Se lui accusa vuol dire che quello è innocente. La biografia di Di Matteo è abbastanza limpida sotto questo punto di vista. Da giovane si fece strada indagando sull’uccisione di Paolo Borsellino. Fece un bel lavoro: insieme ad altri suoi colleghi scovò un pentito formidabile che raccontò loro per filo e per segno come andarono le cose. Si chiamava Scarantino questo pentito. Loro lo ascoltarono bene e poi arrestarono tutti i colpevoli: l’indagine la chiusero lì. Poi si scoprì che Scarantino aveva raccontato solo balle, e loro si erano fatti prendere in giro e non avevano verificato. Scagionati i condannati, ma ormai era troppo tardi per trovare i colpevoli veri e capire cosa era successo. Non lo sapremo mai. Allora Di Matteo cercò di riscattarsi. E, andando appresso al suo collega Ingroia, mise sul banco degli imputati l’unico personaggio ancora vivente di quelli che la guerra alla mafia l’aveva fatta davvero, incastrando e catturando decine di boss autentici, a partire dal capo dei capi, Totò Riina. Questo personaggio, che è uno dei giganti della lotta alla mafia, è il generale Mori: oggi è in pensione e deve pensare a difendersi da accuse scombiccherate e già smentite molte volte in altri processi, ma purtroppo la giustizia funziona così: un pugno di Pm si è fissato con la storia della trattativa Stato mafia e non molla. Se ne infischia delle assoluzioni che in altri processi arrivano a pioggia e scagionano tutti. E ti processa allegramente, anche se sa che tu sei quello che ha dato il contributo maggiore a ridurre la mafia nelle condizioni di debolezza nelle quali si trova oggi. A questo punto Di Matteo si è dato alla politica politica. Cioè la politica fatta in prima persona dal partito dei Pm. Ha trovato un posto alla Procura nazionale antimafia, ma dopo pochi mesi l’hanno buttato fuori perché parlava troppo con giornali e Tv. E allora lui è riuscito a farsi portare da Davigo al Csm. E ogni giorno tuona contro la mafia, dando a tutti del reggicoda dei mafiosi. Persino a questo povero ministro lo ha detto, che sicuramente è il ministro della Giustizia più forcaiolo della storia della Repubblica e che proprio ‘sto fatto di finire sotto il martello di Di Matteo non se l’aspettava. Come possono succedere queste cose? Succedono quando i partiti liberali si fanno intimidire da quelli delle manette e gli corrono appresso. In questi giorni sta succedendo al Pd e anche a Italia Viva. Chissà se questa nuova esibizione del partito dei Pm, e del suo alfiere più pittoresco, alla fine non li farà ragionare. Giletti e i puri che epurano: ora si impiccano a vicenda di Fabrizio Cicchitto Il Riformista, 5 maggio 2020 La sua trasmissione parla di 40 boss liberati e di “resa dello Stato”, ma si scopre che al 41bis ce n’erano solo 3. L’ex pm telefona in studio. Il ministro risponde piccato. È una rissa tra boia che cercano l’uno lo scalpo dell’altro. Oramai tutto quello che accade al Dap non sfugge a Giletti, che sta sviluppando su di esso un’autentica campagna in più puntate. Domenica la campagna ha avuto un’ulteriore escalation. La settimana prima nel mirino era finito Basentini e solo pochi giorni dopo ci ha lasciato lo scalpo. Il risultato paradossale della seconda puntata è che, con un paio di eccezioni, si è trattato di uno scontro senza esclusione di colpi fra giustizialisti in servizio permanente effettivo. Per non farsi mancar nulla infatti Giletti ha messo in campo anche il sindaco di Napoli De Magistris, che ovviamente si è trovato benissimo in questa parte e che sembrava addirittura un Pm ancora in funzione e anche un membro del Csm. È stato presentato un elenco di circa 40 carcerati ad altissimo livello di pericolosità mafiosa spostati agli arresti domiciliari per ragioni di salute; poi è risultato che al 41bis di essi ce n’erano solo 3 e quindi l’impalcatura politica costruita secondo la quale si era davanti ad una “resa dello Stato” dopo i recenti moti nelle carceri è risultata del tutto ridimensionata. Infatti, a nostro avviso, lo Stato non si arrende a nessuno se 3 criminali finiscono agli arresti domiciliari. Siccome però Giletti deve avere uno scalpo, questa parte della trasmissione si è conclusa con l’invito, urlato come un ordine, che dopo Basentini venga “eliminata” anche la dirigente del Dap che si era occupata del caso Zagaria, ma il punto culminante della trasmissione è consistito in uno scontro durissimo fra ultra giustizialisti (Giletti, il ministro Bonafede, il Pm Di Matteo, il Pm Catello Maresca, l’on. Dino Giarrusso, molto a disagio nei panni per lui inconsueti di avvocato difensore del ministro, il comandante Ultimo), che ha avuto per oggetto la seguente questione: il delitto di lesa maestà nei confronti del Pm Di Matteo presentato come una sorta di icona protagonista di una vicenda politico-giuridica, quella della pretesa trattativa Stato-mafia su cui invece è in corso una durissima discussione perché contestata alla radice da molti giuristi, storici, magistrati e avvocati. Il ministro Bonafede è finito sotto accusa quasi che fosse un pericoloso garantista con tendenze criminogene e amicizie pericolose per una colpa imperdonabile. Stando a Di Matteo che, nella sorpresa generale, a un certo punto ha fatto una telefonata a Giletti, il malcapitato Bonafede nella sua qualità di ministro della Giustizia aveva offerto al Pm Di Matteo di scegliere fra due incarichi, quello di capo del Dap e quello di direttore generale degli Affari Penali del ministero della Giustizia, per capirci il posto di cui fu titolare Giovanni Falcone. Di conseguenza Bonafede si era mosso sul terreno del più organico legame a una tendenza ben precisa della magistratura, quella che fa riferimento a Davigo. Quando si sparse la voce sulla possibilità che Di Matteo andasse al Dap alcuni mafiosi di alto lignaggio si fecero intercettare esprimendo la loro totale contrarietà a quella nomina. Nel frattempo, Di Matteo si prese 48 ore per riflettere, al termine delle quali comunicò a Bonafede che preferiva l’incarico al Dap. Nel successivo incontro (è sempre Di Matteo che ha raccontato i termini di questo colloquio a due assai riservato) mentre Di Matteo comunicò di aver scelto la carica di capo del Dap a quel punto il ministro Bonafede (trattato nel corso della trasmissione un po’ da tutti, da Giletti a De Magistris allo stesso Pm Catello Maresca come se fosse un ragazzo di bottega) gli rispondeva che avrebbe preferito averlo con sé al ministero nella carica altissima di direttore degli Affari Penali che era stata addirittura di Falcone e che ha poteri e un ruolo molto rilevanti. A quel punto, siccome Giletti ha stabilito che la carica del Dap è mille volte superiore per importanza a quella di direttore degli Affari Penali egli ha investito Bonafede del delitto di lesa maestà spalleggiato da De Magistris, dal comandante Ultimo, dal Pm Maresca, mentre a quel punto l’avvocato difensore batteva in ritirata: come si era permesso Bonafede di non accettare in ginocchio la scelta fatta dall’icona e invece gli aveva controproposto la carica di direttore degli Affari Penali a quel punto considerata dagli interlocutori un incarico del tutto subalterno e trascurabile? Allora Bonafede è stato trattato non come un ministro dotato della sua autonomia di giudizio e di decisione, ma come una sorta di passacarte, di esecutore in automatico della scelta fatta dall’icona che nella gerarchia dei giustizialisti ha una collocazione molto superiore anche a quella del ministro. È così avvenuto che il ministro della Giustizia più ottusamente giustizialista della storia della Repubblica è stato letteralmente sballottato fra diversi accusatori uno più scatenato dell’altro. Vedendo l’andamento di quel pezzo di trasmissione è risultata del tutto confermata una famosa battuta di Pietro Nenni: “A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura”. Un’altra trattativa di Giuseppe Sottile Il Foglio, 5 maggio 2020 La piccola bugia di Bonafede da Giletti e l’ira del magistrato che non dà tregua a nessuno. Sì, proprio lui, l’eroe dell’antimafia che Beppe Grillo in persona aveva indicato, nel pieno della campagna elettorale, come il candidato più idoneo a ricoprire addirittura la poltrona che poi Luigi Di Maio, capo politico dei Cinque stelle, preferirà affidare al suo fraternissimo amico siciliano Alfonso Bonafede, dj in quel di Mazara del Vallo. Altro che trattativa tra lo Stato e la mafia. Nel patto scellerato del 1992, mentre era ancora caldo a Palermo il sangue delle stragi mafiose, i colloqui malsani con i boss li avrebbero tenuti due alti ufficiali del Ros, il raggruppamento speciale dei carabinieri: Mario Mori e Antonio Subranni, portati alla sbarra proprio dal sostituto procuratore Di Matteo e condannati in primo grado a dodici anni di carcere per il “grave attentato alle istituzioni”. Nella presunta trattativa del 2018 invece, quella che lo stesso Di Matteo ha lasciato intravedere domenica sera su La7, la decisione di accogliere le istanze dei mafiosi sarebbe stata presa direttamente dal ministro della Giustizia. Come finirà? Massimo Giletti aveva apparecchiato una trasmissione con l’ambiziosa pretesa di stabilire se la scarcerazione di tre pericolosissimi boss, passati con suo grande scandalo dal 41bis ai domiciliari, fosse da attribuire ai giudici di sorveglianza o alle distrazioni e alle inefficienze del Dap, Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria. Tra gli ospiti c’erano l’ex ministro della Giustizia, Claudio Martelli, il sostituto procuratore antimafia Catello Maresca, il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris e il capitano Ultimo, ormai conosciuto dal pubblico televisivo come “l’eroe mascherato”. Il clima era arroventato, ma Bonafede credeva di essere già al riparo: pochi giorni prima aveva spinto Basentini alle dimissioni e aveva pure nominato al suo posto Dino Petralia, procuratore generale di Reggio Calabria. La tempesta scatenata dalle scarcerazioni sembrava ormai placata, ma l’intervento a sorpresa di Di Matteo ha scombinato tutte le certezze e il ministro, al telefono con Giletti, ha cercato di rattoppare in fretta e furia la situazione con una pezza che, come capita spesso, si è rivelata peggiore del buco. Ha detto che al magistrato aveva in un primo tempo proposto due soluzioni: o la direzione del Dap o quella degli Affari penali; e che poi aveva autonomamente deciso di offrirgli l’incarico di “maggiore importanza”, quello degli Affari penali, sia perché riteneva quel ruolo “più di frontiera nella lotta alla mafia” sia perché “era stato ricoperto da Giovanni Falcone”. Ma Di Matteo “gli spiegò che preferiva non accettare”: o il Dap o niente. Una piccola bugia quella che Bonafede ha raccontato domenica sera ai telespettatori di “Non è l’arena”. Nel 2018, quando l’esponente grillino si è insediato al vertice di via Arenula, la mappa del potere interno era già stata rivoluzionata dalla riforma della Pubblica amministrazione firmata dal ministro Bassanini. La direzione degli Affari penali, che ai tempi di Martelli e Falcone era il cuore pulsante del ministero, era stata ridotta al rango di un ufficio subordinato all’interno del Dipartimento affari di giustizia, meglio conosciuto come Dag. Ma non è tutto. Quando il ministro grillino la propone a Di Matteo su quella poltrona - indubbiamente autorevole, ci mancherebbe altro - c’è Donatella Donati, nominata dal predecessore di Bonafede, Andrea Orlando, e perciò inamovibile per almeno altri tre anni. Dunque non solo la direzione degli Affari penali non era disponibile, ma era stata ridotta a una cosuzza, si fa per dire, che difficilmente avrebbe coronato le ambizioni del magistrato più in vista e più applaudito sul palcoscenico dell’eroismo e della lotta alla mafia. Il Dap, invece, avrebbe consegnato a Di Matteo un impero di 191 istituti carcerari, con un bilancio di due miliardi e settecento milioni di euro, con un esercito di 36 mila agenti di polizia penitenziaria e con una squadra speciale, i famigerati Gom, in grado di controllare e intercettare ciascuno dei 740 boss in regime di carcere duro e di gettare un occhio anche sugli altri 53 mila detenuti esposti, dal sovraffollamento, a ogni insofferenza, a ogni promiscuità e a ogni contagio. Per avere un’idea della differenza di peso, di responsabilità e di prestigio basta raffrontare gli stipendi che il ministero prevede per i due incarichi: alla dottoressa Donati, a capo della direzione degli Affari penali, è assegnato un compenso annuo di 180 mila euro; mentre per il direttore del Dap il compenso lordo sfiora i 300 mila euro e con una clausola che fa passare in second’ordine tutti gli altri privilegi: se il capo delle carceri, come è successo a Basentini, si dimette o viene cacciato prima che scada il suo mandato, non avrà da preoccuparsi perché quel lauto stipendio gli sarà garantito fino alla pensione. Se la sua personale trattativa con Bonafede fosse andata in porto, Nino Di Matteo - che è già il più puro, il più duro e il più scortato - sarebbe diventato anche il magistrato meglio pagato d’Italia. Ma lui non lo avrebbe fatto per i soldi, bisogna riconoscerlo. Il suo obiettivo era ed è quello di contrastare la mafia ovunque si annidi, di scovare le sue complicità e le sue trame oscure, di smascherare i registi occulti e di tenere nelle patrie galere, fino all’ultimo giorno di condanna, boss e picciotti di Cosa nostra, della ‘ndrangheta e della camorra. A costo di contrastare il monito di San Tommaso d’Aquino secondo il quale “la giustizia senza castigo è un’utopia ma il castigo senza misericordia è crudeltà”. Solo che Bonafede ha deciso diversamente e Di Matteo non gli darà tregua. Quando annusa un odore di trattativa tra stato e mafia, il più coraggioso dei magistrati coraggiosi non perdona e va fino in fondo. Anche nei confronti del ministro. L’altra sera lo ha sputtanato in televisione. Per il resto, chi vivrà vedrà. Il romanzone “Trattativa” rischia di allungarsi di Giuseppe Di Lello Il Manifesto, 5 maggio 2020 Scontro di titani della giustizia quello tra Alfonso Bonafede e Nino Di Matteo, e senza nessuna ironia, trattandosi del ministro della giustizia e di un componente del Csm, nonché scontro abbastanza strano all’interno del campo politico del movimento grillino, data la notoria tifoseria di quest’ultimo per il magistrato adottato come simbolo dell’antimafia. La diatriba è nota e non vale la pena ripercorrerla per intero se non per un punto cruciale che, se vero, dovrebbe portare alle dimissioni di Bonafede e se farlocco alle dimissioni di Di Matteo dal Csm: l’avere il ministro scartato l’incarico di Di Matteo come capo del Dap, Direzione degli affari penitenziari, per accertati malumori per una tale nomina dei boss mafiosi detenuti. Bonafede nega decisamente, Di Matteo insiste nella sua versione dei fatti: chi ha ragione? L’offerta iniziale del ministro a Di Matteo sarebbe stata duplice, o il Dap o la Direzione degli affari penali del ministero. Questa opzione, detto per inciso, non deporrebbe troppo a favore della competenza di Bonafede nella organizzazione del suo dicastero, dato che le due cariche sono sostanzialmente diverse, richiedono diverse attitudini e non sembra logico offrirle alla stessa persona. Bene dunque avrebbe fatto Di Matteo a scegliere il Dap, più consono alla sua storia professionale e proprio in ragione della stessa non avrebbe avuto il placet dei boss mafiosi e a tale opposizione il ministro si sarebbe piegato. Il nodo va sciolto perché, come detto, l’accusa è grave e ha pesanti implicazioni istituzionali, specie dopo la nomina di Dino Petralia alla direzione del Dap. A lume di naso e conoscendo Petralia e la sua storia professionale, sono certo che nel cambio i boss non abbiano fatto un buon affare, e allora? Bisogna chiarire, altrimenti potrebbe aprirsi un nuovo capitolo del romanzone “trattativa stato mafia”, altamente dannoso per lo stato e nel quale questa volta Di Matteo si troverebbe a contrastare nientemeno che un componente dello schieramento che lo sosteneva nell’originaria inchiesta ora in corso di dibattimento. Fuori Bonafede dal ministero o fuori Di Matteo dal Csm? Siamo in Italia e, comunque vada a finire, rimarranno entrambi ai loro posti. Bonafede e la lezione di Nenni di Massimo Adinolfi Il Mattino, 5 maggio 2020 Dopo le incredibili dichiarazioni rese da Nino Di Matteo in tv, una cosa è chiara fin d’ora: la morale della favola, già sentita (ma evidentemente non abbastanza): “A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura”. Lo diceva Pietro Nenni, mille anni fa. Le parole del consigliere del Csm Di Matteo, magistrato tra i più impegnati sul versante della lotta alla mafia sono, va da sé, gravissime. Di Matteo ha raccontato un episodio risalente a poco meno di due anni fa: il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede - allora in carica nell’esecutivo gialloverde: Bonafede è uno dei pochissimi transitati in questa legislatura da un governo all’altro, mantenendo lo stesso incarico - lo chiamò per proporgli di guidare il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, o in alternativa di fare il direttore generale degli Affari Penali. Lui si prese quarantotto ore per decidere, ma quando, l’indomani, tornò per accettare l’incarico di capo del Dap scoprì che il ministro aveva già deciso, e che quella posizione non era più disponibile. Bonafede aveva semplicemente cambiato idea? Va’ a sapere. Com’è come non ‘è, Di Matteo aggiunge però - “e questo è molto importante”, sottolinea - che la polizia penitenziaria aveva raccolto nel frattempo le frasi allarmate di alcuni boss in carcere, che temevano l’eventuale nomina del magistrato, e le aveva trasmesse alla procura nazionale antimafia e al Ministero. Infine chiosa: “Forse qualcuno aveva indotto il ministro a ripensarci”. Indotto. Il ministro. Ora, siamo dinanzi al caso di un consigliere del CSM che formula un sospetto pesantissimo e infamante nei confronti del Guardasigilli. Lo fa, a quanto ha dichiarato, perché non sembri che sia stato lui a rivolgersi alla politica in cerca di qualche incarico, e non viceversa. Ma questo dovrebbe indurre anche altri, forse, a prendere posizione: è accettabile che un alto magistrato avanzi il dubbio che un ministro della Repubblica sia stato indotto a compiere o a non compiere un certo atto di governo dalle parole di qualche capomafia? Ed è pensabile che un magistrato, con questo dubbio che gli frulla in testa, se ne stia quieto per un paio d’anni, mentre pensa che forse il ministro della Giustizia fa o disfa a seconda di quel che si orecchia nelle carceri, per poi risolversi a tirare fuori tutta la storia a favore di telecamera? Bonafede, che ha fornito del tutto “esterrefatto”, nel corso stesso della trasmissione, la sua versione su quei colloqui con Di Matteo, sarà chiamato con ogni probabilità a riferire in Parlamento. E dirà quanto ha già affermato: si sarebbe trattato di un malinteso, e ovviamente le dichiarazioni dei boss non c’entrano nulla. Ma c’è, oltre a ciò, la morale della favola. C’è che il ministro milita in un movimento politico che ha sempre considerato Nino Di Matteo, il magistrato più scortato d’Italia, un simbolo dell’antimafia, il campione della moralità pubblica, l’uomo che più tenacemente di tutti ha lottato per fare luce sui più torbidi misteri e le trame più oscure della storia della Repubblica, osando finalmente strappare il velo che ricopriva, secondo l’atto d’accusa, l’ignominiosa trattativa fra lo Stato e la mafia, e anche il candidato naturale alla carica di ministro della Giustizia (tenuta pro tempore proprio da lui, Alfonso Bonafede). E c’è pure che un’insinuazione come quella avanzata dal pm siciliano, a margine dei fatti riferiti, avrebbe spinto i Cinque Stelle a chiedere le dimissioni di chiunque si trovasse nel posto in cui si trova oggi uno dei suoi più autorevoli esponenti. C’è, ora, un puro più puro di te, molto più puro di e di tutto il Movimento, che sospetta vi sia una grave macchia sulla tua giacca di ministro e no, non puoi limitarti a dire che si sbaglia, che le cose sono andate diversamente o che comunque non vi siete intesi, perché non solo non hai mai concesso agli altri il beneficio d’inventario, ma hai costruito l’intera tua fortuna e quella della forza politica alla quale appartieni sull’essere come la moglie di Cesare, e sulla celebrazione di impeccabili cavalieri dell’onestà chiamati a dare l’avallo morale a una politica posta sempre sotto tutela. Ora uno di questi prodi paladini, il più integerrimo di tutti, certo uno dei più ascoltati da te, dai tuoi militanti, dalla tua parte politica, è tra quelli che pensano che forse, per timore o per altro, decidi e nomini sentendo le parole che si scambiano i boss. Come pensi di uscirne? Il Pd, nella versione masochista che lo porta a continui esercizi di pazienza verso l’alleato pentastellato, cerca di cogliere la palla al balzo per tornare almeno a rivendicare il primato della politica, e sperare che anche dalle parti del Movimento lo comprendano una buona volta: i consiglieri consiglino pure, resta ai politici di decidere e nessuno, e neanche il più prestigioso dei magistrati può ledere una simile prerogativa con il venticello del sospetto. Ma se una cosa Di Matteo ha messo in chiaro, è che lui non s’è mai sognato di ledere alcunché: gli è stata fatta una proposta, che nel giro di poche ore il ministro si è rimangiata. E però aggiunge: va’ a sapere perché. È questa aggiunta che non è facile digerire. Oppure, se Bonafede la digerirà, vorrà dire che ormai da quelle parti, dalle parti dei grillini, sono disposti a digerire di tutto. Processo da remoto, ora si cambia, ma è scontro Anm-penalisti di Simona Musco Il Dubbio, 5 maggio 2020 Dal 12 la “fase 2” della giustizia, con i limiti alle udienze virtuali. E Area attacca gli avvocati: “A rischio la nostra salute”. Il processo da remoto cambia e viene riportato, alla fine, sui binari dell’equilibrio. Così, dopo aver accolto le sollecitazioni del Parlamento, ma innanzitutto dell’avvocatura, il nuovo decreto che stabilisce le modalità d’udienza durante la fase 2 dell’emergenza coronavirus prevede l’esclusione del collegamento da remoto per le udienze penali di discussione finale, sia pubbliche sia in camera di consiglio, nonché - salvo che vi acconsentano le parti - per le udienze in cui devono essere esaminati i testi, le parti, i consulenti tecnici o i periti. Lo svolgimento dell’udienza civile deve in ogni caso avvenire “con la presenza del giudice nell’ufficio e con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti”. Ma non solo: il periodo di emergenza viene esteso ben oltre il 30 giugno - termine fissato dal primo decreto “Cura Italia” - ovvero fino al 31 luglio, contrariamente, in questo caso, a quanto richiesto dall’avvocatura. La nuova norma, però, non ha placato la polemica. Così da un lato, ancora una volta, ci sono le posizioni intransigenti di una parte della magistratura, pronta a giurare che gli avvocati stiano intralciando il corso della giustizia, mentre dall’altra proprio loro, le rappresentanze forensi - in primis Unione Camere penali e Cnf - chiedono rispetto per la tutela dei diritti. La nota più dura è quella della Giunta esecutiva dell’Anm, che si è definita “sconcertata” dall’alluvione di atti normativi auto sconfessanti prodotta dal governo, norme “irrazionali”, soprattutto perché chiedono la presenza in aula dei giudici civili, gli unici a poter contare su un sistema rodato di processo telematico. L’Anm si spinge a definire “demagogico” il decreto modificato dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, nonché “privo di progettualità e di consapevolezza delle reali esigenze organizzative del sistema giudiziario”, mettendo a rischio “la salute della collettività imponendo ad alcuni lavoratori di recarsi in ufficio anche per attività che possono essere sicuramente svolte da remoto”. Parole rincarate da quelle dei magistrati di Area Dg, secondo i quali Bonafede sarebbe privo di una “strategia politica e giudiziaria per la gestione dell’emergenza sanitaria nel settore giustizia”. Ma i principali colpevoli sarebbero proprio loro, gli avvocati: “Là dove non sarà possibile tornare nelle aule” a causa del rischio contagio, la responsabilità sarà esclusivamente dell’avvocatura, “che non avrà collaborato”, cioè dato l’ok per celebrare da remoto le udienze. È irrazionale, per Area Dg, pretendere che i magistrati stiano in aula, anche e soprattutto per la mancata predisposizione, allo stato attuale, di tutte le regole per garantire la sicurezza nei tribunali. “L’intera magistratura - prosegue la nota - deve pretendere che tali misure vengano messe in atto prima della ripresa parziale delle attività fissata per il 12 maggio e, in caso contrario, denunciarne pubblicamente le palesi responsabilità politiche”. E la polemica non ha tardato a trovare il proprio contraltare nella voce dell’Unione Camere penali, che ha definito “scomposta” la reazione della magistratura associata di fronte alla “prudente volontà del Parlamento” di ridimensionare il processo da remoto, che aveva sovvertito, dicono i penalisti, “i principi fondativi e secolari del processo penale”. La posizione della magistratura, per l’Ucpi, svelerebbe “l’investimento politico” dell’Anm, ovvero “una insperata accelerazione verso la burocratizzazione autoritaria del processo penale mediante la riduzione a icona del diritto di difesa dei cittadini”. Se, da un lato, viene condivisa la richiesta di una messa in sicurezza immediata delle aule di giustizia, dall’altro “la sola responsabilità che noi avvertiamo - afferma la giunta dell’Unione - è quella di rimuovere quanto prima la paralisi della giurisdizione”, riaprendo le aule, “magari anche di sabato e per qualche settimana in agosto, senza odiose ed ingiustificabili pretese di protezioni privilegiate rispetto a quelle che spettano ai milioni di cittadini”. Una posizione alla quale hanno contribuito ieri, attraverso una nota, anche i penalisti di Milano, che sin da subito, assieme ad altre Camere penali, hanno manifestato disponibilità “ad aderire a protocolli che prevedono per le urgenze il cosiddetto processo “da remoto”“, per salvaguardare al massimo “non soltanto il diritto alla salute ma anche il diritto di difesa”. Ma ciò non si traduce in una “adozione indiscriminata del rito “da remoto” per tutti i processi”. Di fronte a una situazione sanitaria ritenuta dalla politica tale da consentire la ripresa di attività anche non essenziali, affermano dunque i penalisti, l’unica outsider rimane la Giustizia, che pure essenziale lo è. Tornare in aula in sicurezza è possibile, affermano, senza “sacrificare il diritto di difesa in nome di una malintesa tutela della salute”. E le soluzioni, con la dovuta organizzazione, ci sono, afferma la Camera penale di Milano, anche attraverso “una scansione temporale dell’udienza”, evitando assembramenti e disagi. “Questa è la responsabilità che ci assumiamo come avvocati e la assumiamo volentieri”, concludono. Ora si attendono le indicazioni del ministro della Giustizia che uniformino le misure organizzative anti-contagio in tutti gli uffici giudiziari, come chiesto dal Cnf con la lettera della presidente Maria Masi a Bonafede, a cominciare dall’accesso da remoto del personale amministrativo ai registri, che consentirebbe di ridurre le presenze negli uffici. Il processo penale “smart”? Incostituzionale. Lo dice pure il Consiglio di Stato di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 5 maggio 2020 Non si poteva far altro che limitare, com’è avvenuto col Dl Intercettazioni, la modalità da remoto a casi come le udienze filtro. Anche perché solo pochi giorni fa un’ordinanza di Palazzo Spada ha ribadito in maniera ferma che il cosiddetto “contraddittorio cartolare coatto” non è conforme ai principi della nostra Carta. La diffusione del Covid-19 ha costretto tutto il Paese ad adattarsi in brevissimo tempo alle misure estreme adottate dal governo per limitare la profusione del contagio: fino ad appena poche ore fa tutti i cittadini sono sottoposti al cosiddetto lockdown, non potendo lasciare le proprie abitazioni se non per motivi di motivata necessità e di lavoro. Proprio dal punto di vista lavorativo, le misure restrittive, oltre a incidere fortemente sulle attività quotidiane di tutti i cittadini, hanno costretto aziende, enti pubblici e organizzazioni professionali in generale a confrontarsi con lo smart working, costringendoli a compiere - senza avere, in gran parte tutt’ora, alternative - quel processo di digitalizzazione di cui da anni si parla, soprattutto nell’ambito della pubblica amministrazione, e che da tempo era oggetto di continui rinvii. Ancora per molte settimane, una parte delle attività continuerà ad obbedire allo schema imposto nelle scorse settimane: evitare spostamenti e usare gli strumenti che abbiamo a disposizione per interloquire, sostituendo alle sessioni fisiche le video conferenze su skype, teams e via discorrendo. Vi sono settori lavorativi, tuttavia, nei quali simili modalità di lavoro e di interazione a distanza mal si conciliano con prerogative tipiche di determinate professioni e possono, quindi, se non vengono dettagliatamente disciplinate, condurre a gravi conseguenze, soprattutto alla luce dell’attuale decretazione d’urgenza, in occorrenza della quale alcune norme rischiano di passare inosservate, andando, però, a sconvolgere irrimediabilmente determinate attività. Il rischio è quello, insomma, di strumentalizzare la crisi per varare riforme di certa incostituzionalità. Da questo punto di vista, uno dei settori su cui è bene porre la lente di ingrandimento - come fortunatamente, peraltro, sembra essere avvenuto - è rappresentato dal processo penale, la cui incontrollata smaterializzazione e digitalizzazione porterebbe con sé irreparabili lesioni dei diritti delle persone coinvolte. Sul punto, risulta opportuno specificare che, sempre nell’ottica di evitare di creare assembramenti di persone, il governo ha disposto la sospensione dei procedimenti giudiziari fino all’11 maggio. Tuttavia, nel settore penale alcuni procedimenti, nell’ambito dei quali gli imputati sono ristretti, alcune udienze hanno continuato a essere celebrate, ma da remoto. Ed è così che, a seconda dello strumento a disposizione dell’ufficio giudiziario e della casa circondariale, nelle ultime settimane l’udienza penale, i cui risvolti legati alla presenza di dati sensibili sono enormi, è stata celebrata, la maggior parte delle volte, su skype. Le condivisibili preoccupazioni degli avvocati penalisti legate a una simile evenienza, che vengono acuite in ragione dell’iniziale decisione di ampliare - in sede di conversione dei decreti legge che si sono susseguiti sul punto - ulteriormente le ipotesi delle cosiddette udienze virtuali, possono essere ricondotte a un duplice ordine di ragioni. Le associazioni hanno sollevato una questione di privacy e tutela dei dati in ordine alle piattaforme utilizzate, che sono, come detto, Skype e Teams, entrambe riconducibili alla società Microsoft Corporation: in sintesi, l’Unione Camere penali ha richiesto al Garante della privacy di verificare le “caratteristiche delle piattaforme indicate dalla Dgsia, nonché l’opportunità della scelta di un fornitore del servizio in questione stabilito negli Usa e, come tale, soggetto tra l’altro all’applicazione delle norme del Cloud Act (che come noto attribuisce alle autorità statunitensi di contrasto un ampio potere acquisitivo di dati e informazioni)”. La richiesta - legittima - è stata fatta propria dal Garante che ha immediatamente chiesto e ottenuto chiarimenti sul punto dal guardasigilli Bonafede. Come anticipato, in un processo penale vengono trattati dati di natura assolutamente privata, ed è quindi opportuno avere una tutela piena ed effettiva in ordine agli strumenti utilizzati, al fine di evitare una violazione non solo della privacy dei cittadini ma anche dei principi costituzionali. Nel processo - telematico - civile è stata istituita una piattaforma ad hoc dove poter depositare i vari atti processuali: si è, quindi, deciso di utilizzare uno strumento slegato da qualsivoglia società privata, che garantisce il rispetto e la tutela dei dati ivi contenuti. In secondo luogo, le criticità sollevate dagli avvocati penalisti sono collegate all’opportunità di sostituire l’udienza fisica con quella virtuale: è noto, infatti, che, nel processo penale a differenza di quello civile, la difesa e l’oratoria dell’avvocato - che tutt’oggi ancora, unico tra i vari professionisti della società civile, indossa la toga nell’aula di giustizia - rivestano un ruolo preponderante nell’ottica di un pieno ed efficace rispetto del principio del contraddittorio, così come garantito dall’articolo 111 della Costituzione. In particolare, all’avvocato, ma anche al giudice e al pubblico ministero, non può essere preclusa la possibilità di interagire fisicamente con le parti processuali, evenienza che per ovvie ragioni sarebbe fortemente limitata in seno a un’udienza virtuale. Concludendo, come in ogni situazione, in medio stat virtus: è, quindi, possibile, a parere di chi scrive, poter pensare di introdurre, gradualmente e con raziocinio, e non con una decretazione di emergenza, attesi gli interessi coinvolti, nel processo penale alcune modalità telematiche, come il deposito degli atti, mediante una piattaforma istituzionale e garantita. Sul versante delle celebrazioni virtuali delle udienze, chi scrive ritiene che nell’ottica dell’ingresso del Paese nella cosiddetta fase due, in cui gli spostamenti continuano a essere contingentati, per evitare un totale arresto del sistema giustizia, non si sarebbe potuto far altro che limitare, come è avvenuto, l’evenienza della celebrazione virtuale - sempre, è bene precisare, su canali istituzionali e controllati - ad alcune tipologie di udienze. E infatti il decreto 28 del 30 aprile 2020 ha lasciato la possibilità di tenere “da remoto”, ad esempio, le cosiddette udienze filtro, ove l’attività difensiva si esaurisce nella richiesta di mezzi istruttori o di riti alternativi, facendo salve invece le udienze in cui il principio del contraddittorio deve continuare a essere garantito nella maniera più piena ed efficace possibile, senza alcun limite. Se l’obiettivo è quello di evitare i contatti, perché non smaterializzare gli incombenti di cancelleria: deposito liste testi, memorie e copia atti post chiusura indagini? Peraltro, occorre anche osservare come sul punto si sia iniziata ad esprimere anche la giurisprudenza, ponendosi in linea con quanto sostenuto con forza dagli avvocati penalisti: è, infatti, di questi giorni l’ordinanza emessa dal Consiglio di Stato (Consiglio di Stato, Sez. VI, ord. 16 aprile 2020, dep. 21 aprile 2020), la cui Sesta Sezione, ancorandosi ai principi fondamentali brevemente su richiamati, ha ribadito in maniera ferma il principio secondo cui il cosiddetto “contraddittorio cartolare coatto” - soprattutto in materia penale - non può essere ritenuto conforme ai principi costituzionali. In particolare, l’organo supremo amministrativo ha sancito che tale modalità di esecuzione dei processi rappresenterebbe “una deviazione irragionevole rispetto allo “statuto” di rango costituzionale che si esprime nei principi del giusto processo e del contraddittorio tra le parti?”. L’udienza penale vive nell’aula e non si può rimettere a uno scambio di videate on-line: il difensore deve guardare il Giudice durante la propria attività di assistenza; il Giudice deve guardare l’imputato anche al fine di valutare il suo comportamento processuale, nel senso più ampio e vivo del termine. *Direttore dell’Ispeg - Istituto per gli studi politici, economici e giuridici Per i giudici civili e tributari udienza in remoto ma nell’ufficio giudiziario di Federica Micardi Il Sole 24 Ore, 5 maggio 2020 È bagarre sulla norma che obbliga il giudice civile alla presenza fisica. La norma, contenuta nel decreto legge giustizia, il n. 28 del 2020, modifica le misure previste per i processi da remoto, sia sul versante penale (smantellando la possibilità che le udienze e parte delle attività d’indagine possano svolgersi in forma dematerializzata) sia su quelli civile, stabilendo che lo svolgimento dell’udienza, oltre che con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e con l’effettiva partecipazione delle parti, “deve in ogni caso avvenire con la presenza del giudice nell’ufficio giudiziario”. Per l’Anm, in questo modo, oltre a modificare la norma di un precedente decreto appena convertito, lasciando alla volontà delle parti la scelta sullo svolgimento da remoto delle attività nel processo penale, “si introduce l’innovativa previsione dell’udienza civile “da remoto” necessariamente celebrata in ufficio”. Una disposizione che, per i magistrati, è irragionevole nella parte in cui, non riguardando i magistrati penali, amministrativi o contabili, richiede una presenza sul luogo di lavoro, in contraddizione con le perduranti esigenze di tutela della salute pubblica, proprio per i giudici che, invece, attraverso il processo civile telematico, possono condividere con le parti e con gli altri componenti del collegio tutti gli atti processuali senza necessità di consultazioni su carta. Se davvero la presenza in ufficio del giudice civile, sottolinea l’Anm, “diventa oggi la priorità, tanto da richiedere la decretazione di urgenza, lo si doti allora di aule di udienza e assistenza, come la legge e la dignità della funzione esigerebbero”. L’obbligo di presenza fisica sembra riguardare anche i magistrati tributari. In virtù delle disposizioni introdotte prima dall’articolo 1, comma 4, Dl 11 dell’8 marzo 2020, e confermate poi dal Dl 18/2020, all’articolo 83, infatti, le norme procedimentali previste per la magistratura ordinaria, si applicano “in quanto compatibili” alla magistratura tributaria e militare. “Eppure - sottolinea il presidente dell’Associazione magistrati tributari Daniela Gobbi, che ha già chiesto la correzione della norma al Governo e ai ministeri - il processo tributario, per la tipologia di svolgimento, è molto simile a quello amministrativo perché è snello, prevalentemente cartolare, si esaurisce, di norma, in una sola udienza, c’è un collegio giudicante. Date queste caratteristiche - prosegue Gobbi - non si capisce il perché ci venga ora richiesta la presenza fisica”. Prima dell’approvazione del Dl 28 /2020 le norme sul processo tributario prevedevano la facoltà per il presidente di richiedere la discussione della causa con modalità da remoto, che veniva disposta con decreto; la segreteria era tenuta a comunicare l’ora e le modalità di collegamento e i giudici si collegavano da loro domicilio, considerato aula di udienza. “La norma introdotta dal Dl 28/2020 - spiega Gobbi - è intervenuta su una procedura che si stava mettendo a regime, che ha visto il Mef in campo per fornire ai giudici tributari gli strumenti necessari per operare a distanza, interrompendo un percorso logico di modernizzazione del processo. Non vengono portati vantaggi, ma vengono a crearsi situazioni di rischio, sia per gli spostamenti imposti ai giudici, sia a causa della contemporanea presenza di più persone in uno spazio ristretto”. Le Sezioni Unite chiariscono la natura dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa di Chiara Savazzi Il Sole 24 Ore, 5 maggio 2020 Corte di Cassazione - Sezioni Unite - Sentenza 3 marzo 2020 n. 8545. Con la sentenza n. 8545 del 3 marzo 2020, le Sezioni Unite della Cassazione hanno posto rimedio ad una querelle interpretativa riguardante la natura della circostanza aggravante dell’agevolazione mafiosa, contenuta nel recente articolo 416 bis-1 del codice penale. La norma - L’articolo 416 bis-1 è stato inserito all’interno del codice penale, con il Dlgs 21 del 2018, per dar seguito alla concreta attuazione del cosiddetto principio della riserva di codice, come sancito dalla riforma Orlando. La consapevolezza delle norme e la conoscibilità dell’entità delle pene derivanti dalle stesse, sono apparse al legislatore come due priorità che non potevano più esistere, nel sistema penalistico italiano, solo su un piano astratto. Pertanto, si è proceduto - e si procede tutt’oggi - ad inserire nel codice, molti dei precetti presenti in numerose leggi, esterne alle linee guida codicistiche, tra cui gli articoli 7 e 8 del Dl 152 del 1991, confluiti nel predetto articolo. Esso disciplina, al comma 1, due figure circostanziali attinenti ai reati connessi ad attività mafiose. Al di là della costituzione e dell’attività in sé dei partecipanti - a vario titolo - di un’associazione di tipo mafioso, già punita in base all’articolo 416 bis c.p., il legislatore intende porre l’attenzione sui reati-fine legati alla stessa. Invero, essi, muniti di una illiceità propria, vengono ad aggravarsi qualora siano collegati ad un sodalizio criminoso, del quale condividono gli strumenti o le finalità. Si tratta delle circostanze dell’utilizzo del metodo mafioso e dell’agevolazione dell’attività delle associazioni di cui all’articolo 416 bis c.p. É bene precisare, per sciogliere ogni dubbio, che tali circostanze non siano inerenti all’istituto del concorso esterno, di cui all’articolo 110 c.p. in combinato disposto con l’articolo 416 bis c.p. Questo, infatti, presuppone un’atipicità della condotta del soggetto agente, poiché non facente parte del sodalizio, il quale pone in essere un agito necessario ed infungibile, funzionale alla struttura associativa, che non potrebbe di fatto farne a meno. Inoltre, un concorrente esterno non potrebbe mai essere, al contempo, un associato, per una contraddizione logica. Al contrario, colui che commette una fattispecie di reato aggravata dalle circostanze in esame, può operare in qualità di associato o di avventore, sempre allo scopo di commettere un determinato illecito penale, caratterizzato dal dolo specifico inerente uno degli elementi accessori circostanziali. La sua azione appare utile al gruppo, ma non imprescindibile, sebbene volta ad un sostegno effettivo della compagine criminosa. Accanto a ciò è fondamentale che l’azione del concorrente esterno raggiunga il suo scopo; mentre non è ugualmente essenziale per chi intende attuare il reato-fine. La decisione - Le Sezioni Unite intervengono con una pronuncia che appare significativa non solo per il motivo specifico trattato, ma altresì per far luce sulla caratterizzazione e sull’individuabilità degli elementi circostanziali, nel loro complesso, di qualsiasi specie. Se infatti, la differenziazione tra circostanze oggettive e circostanze soggettive, di cui all’articolo 70 c.p., è rimasta invariata, l’applicabilità delle stesse, nel corso del tempo, ha subito delle modifiche, le quali hanno suscitato - prima facie - qualche incertezza. Prima della legge 19 del 1990 il combinato disposto di cui agli articoli 59e 118 c.p., prevedeva che le circostanze oggettive fossero attribuite all’autore del reato anche se da lui non conosciute e che quelle soggettive fossero estese alla condotta di uno o più correi, nel caso in cui esse avessero assunto una sostanziale rilevanza per l’agevolazione della commissione del fatto. Con le modifiche apportate dalla novella, ad oggi si prevede l’applicazione delle aggravanti oggettive solo se conosciute dall’agente e la non estensibilità solo di talune - determinate - tra quelle soggettive. Nell’analizzare l’estensibilità di una determinata circostanza ad uno o più concorrenti, ci si rende conto che essa non sembra dipendere dalla natura oggettiva o soggettiva che la contraddistingue, bensì da ciascuna di esse, singolarmente presa in considerazione. L’articolo 118 c.p. non menziona più, nel novero delle circostanze applicabili solo alla persona cui si riferiscono, le condizioni e le qualità personali del colpevole e i rapporti tra il colpevole e l’offeso, che quindi non subiscono tale preclusione. Come affermano le Sezioni Unite: “l’analisi storica della modifica porta a correggere l’assunto generalizzato secondo cui le circostanze soggettive devono essere escluse dall’estensione ai concorrenti, posto che, a ben vedere, tale esclusione, sancita solo dall’art. 118 c.p., è circoscritta a quelle aggravanti attinenti alle sole intenzioni dell’agente, pertanto potenzialmente non riconoscibili dai concorrenti”. La percezione ab externo della circostanza appare il reale discrimen tra la possibilità o meno di attribuirla al compartecipe, in base all’evidenza che egli, appurandola, sia stato dissuaso dall’agire oppure abbia proseguito nell’intento comune insieme agli altri concorrenti. La Corte prosegue analizzando, più nello specifico, l’aggravante in commento. Il metodo mafioso, di cui alla prima parte dell’articolo416 bis 1 c.p., è costituito dall’avvalersi della forza intimidatoria, caratteristica dell’organizzazione mafiosa, così da ingenerare, a scapito dei soggetti passivi coinvolti, un clima di timore e di assoggettamento. L’incidenza di tale metodo sull’azione, rende la circostanza inevitabilmente oggettiva, non palesandosi pertanto, alcun dubbio sulla natura della stessa. L’agevolazione dell’attività mafiosa, di cui alla seconda parte dell’articolo, si configura quando un soggetto agevoli, mediante una propria condotta il sodalizio mafioso, a prescindere dall’essere parte integrante in modo stabile della compagine. Su di essa si sono formate, nel corso degli anni, tre orientamenti. Secondo il primo, essa si sostanzierebbe in una circostanza di tipo soggettivo, incentrata sull’intenzione del soggetto agente, e dunque caratterizzata dal dolo specifico della finalità di supporto al sodalizio. Il secondo, viceversa, sostiene la natura oggettiva dell’aggravante, in quanto afferente alla modalità dell’azione ma necessitante, comunque, del dolo specifico in capo ad almeno uno dei correi. Secondo l’ultimo orientamento, cosiddetto misto, è necessario valutare in concreto caso per caso, in base al reato cui la circostanza accede. Risulta importante comprendere se si configura in modo tale da oltrepassare l’intenzione del singolo, e riguardare la commissione del reato da parte degli altri concorrenti, coinvolgendo il piano dell’azione. A fronte delle tre tesi, i punti cruciali individuati dalla Suprema Corte appaiono due: la presenza del dolo specifico o della mera consapevolezza ed il requisito necessario per l’estensibilità ai concorrenti. Quanto al primo punto, la Corte ritiene indispensabile la presenza dell’intento specifico di arrecare vantaggio all’associazione, sebbene poi, l’effettivo raggiungimento del fine possa non verificarsi. La circostanza assume quindi connotati soggettivi. Riguardo, invece, all’estensibilità della aggravante ai correi, in base alla novella legislativa di cui si è detto, l’applicabilità di una circostanza soggettiva ai concorrenti, dipende - ad oggi - dalla riconoscibilità della stessa da parte degli altri soggetti agenti. L’estensibilità non può basarsi sul mero sospetto o su un’ignoranza colposa, necessitando, al contrario, del dolo diretto anche nella forma del dolo eventuale. Si valuta la riconoscibilità all’esterno di quel determinato intento agevolatore e la conseguente condotta del compartecipe, che non venga dissuaso dal porre in essere il reato. Per l’intestazione fittizia necessario il dolo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 5 maggio 2020 Corte di cassazione, Seconda sezione penale, sentenza 4 maggio 2020 n. 13552. Il reato di intestazione fittizia di beni richiede il dolo specifico. Per questo va provato che l’intestazione ha come obiettivo l’elusione della normativa in materia di prevenzione patrimoniale. Lo ricorda la corte di cassazione con la sentenza n. 13552 della Seconda sezione penale depositata ieri. La pronuncia ha così accolto il ricorso presentato dalla difesa contro una misura di sequestro preventivo di un nutrito elenco di beni aziendali, mobili e immobili. Il provvedimento si riferiva a un trasferimento ritenuto fittizio, con l’attribuzione di valori in precedenza di proprietà di persona a sua volta sottoposta a misure di prevenzione. Per la Cassazione, invece, l’ordinanza è da annullare perché ha ritenuto non conestabile l’esistenza dell’elemento psicologico del reato sulla base della semplice consapevolezza del carattere fittizio dell’intestazione dei beni, trascurando però del tutto di proporre argomentazioni sugli obiettivi perseguiti con l’intestazione fittizia da parte della persona indagata, elemento indispensabile anche solo per valutare l’esistenza del fondamento per la misura cautelare. La pena è proporzionata reazione al delitto, non vendetta contro il reo di Rodolfo Bettiol* vicenzapiu.com, 5 maggio 2020 Ai sensi dell’art. 146 del Codice Penale è obbligatorio il differimento della pena quando la persona sia affetta da malattia particolarmente grave per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione. Ai sensi dell’art. 47 ter dell’Ordinamento Penitenziario quando potrebbe essere disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo della pena ai sensi degli articoli 146 e 147 del codice penale il Tribunale di Sorveglianza può disporre l’applicazione della misura della detenzione domiciliare anche in relazione a pena detentiva superiore ai quattro anni. In via provvisoria nei casi in cui vi sia prova di grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione la detenzione domiciliare può essere disposta dal magistrato di Sorveglianza. La detenzione domiciliare è una misura alternativa alla detenzione e può essere espiata nella abitazione del condannato o in altro luogo pubblico di cura, assistenza ed accoglienza. Nella sostanza la legislazione penale riconosce la prevalenza del diritto alla salute, rispetto al diritto punitivo dello Stato quando ricorrono particolari condizioni che rendono incompatibile il carcere col rispetto della salute del detenuto. Si tratta di normativa di ispirazione umanitaria diretta ad evitare situazioni che finirebbero per trasformare il carcere da luogo di rieducazione secondo i principi costituzionali in strumento di crudeltà. Ricorrendo le condizioni di differimento della pena con l’eventuale applicazione della detenzione domiciliare è prevista per tutti i detenuti quali che siano i reati per i quali sono stati condannati. La salute e la dignità dell’uomo vanno riconosciuti in ogni caso. Va rilevato come il differimento della pena e la possibile disposizione della detenzione domiciliare sono disposti dopo un rigoroso esame da parte della magistratura di Sorveglianza. Spesso si ricorre ad una perizia medica. Non si tratta di provvedimenti adottati con facilità. Molto rumore ha sollevato i recenti caso di detenuti condannati per delitti di mafia dei quali è stata disposta la scarcerazione. Chiaramente il riferimento alla mafia crea una attenzione particolare per il pubblico che si viene a chiedere come possa un mafioso essere scarcerato. In realtà il mafioso ha diritto alla salute e alla dignità come ogni altro detenuto. La pena va in ogni caso intesa come proporzionata reazione dell’ordinamento al delitto, non come crudele vendetta nei confronti del reo. Fatte queste premesse va valutata le decisioni dei magistrati di Sorveglianza di applicare la normativa suindicata. Le stesse hanno provocato grande scalpore, tanto che si è inteso procedere ad una inchiesta, ed addirittura si è emesso un decreto legge che prevede per i provvedimenti in questione il parere obbligatorio del Pubblico Ministero, della Polizia Distrettuale Antimafia ed addirittura nei casi di cui all’art. 41bis dell’ordinamento penitenziario del Procuratore Generale Antimafia. Si temono invero ulteriori scarcerazioni di detenuti per i reati di mafia. Tanto appare ingiustificato con riferimento ai casi che hanno suscitato scalpore. In un caso, invero, il primo, il detenuto prossimo ormai alla scarcerazione era affetto da una gravissima forma tumorale. Analoga situazione ricorreva per un altro detenuto scarcerato affetto da cancro alla vescica. Inutilmente il Magistrato di Sorveglianza aveva assunto informazioni sulla possibilità di cure nell’ambito carcerario. Da quello di cui si ha notizia pertanto i magistrati non hanno fatto altro se non applicare la legge. Ad evitare scarcerazioni si dovrebbe provvedere ad un idoneo servizio ospedaliero carcerario. Stiamo in realtà vivendo un periodo, definito di populismo giudiziario. La pena ora non viene più intesa come razionale e proporzionale reazione al delitto, ma come vendetta nei confronti del reo. Da parte di molti si sta tornando indietro rispetto agli sviluppi della cultura illuministica fondata su criteri razionali del diritto penale. Si torna praticamente a concessioni medioevali della stessa; si perde il senso dell’umanizzazione delle pene. Si tratta all’evidenza di un regresso culturale, regresso purtroppo che è dato riscontrare non solo nell’ambito del diritto penale. Tanto preoccupa perché come è stato efficacemente detto il sonno della ragione genera i mostri. *Avvocato e docente di Diritto Piemonte. Il Garante: “Scende il numero dei detenuti ma non basta” cuneo24.it, 5 maggio 2020 Permane la preoccupazione per la situazione nelle carceri poiché nell’ambito penitenziario i nodi fondamentali rimangono gli stessi: l’uso dei dispositivi individuali di protezione e il monitoraggio dei tamponi, in un contesto in cui le regole di distanziamento sociale che valgono per tutti i cittadini non sono ancora applicabili. “Dall’inizio dell’emergenza Covid 19 il Piemonte ha registrato casi positivi ad Alessandria, Saluzzo e Torino, soprattutto tra i detenuti, ma non solo. Torino con 66 detenuti contagiati e Saluzzo con 14 sono balzati alle cronache nazionali, ma nell’ambito penitenziario i nodi fondamentali rimangono gli stessi: l’uso dei dispositivi individuali di protezione e il monitoraggio dei tamponi, in un contesto in cui le regole di distanziamento sociale che valgono per tutti i cittadini non sono ancora applicabili”. Lo denuncia il garante regionale delle persone private della libertà personale Bruno Mellano. “In Piemonte - continua Mellano - la capienza regolamentare complessiva delle carceri è di 3.783 posti. La presenza di circa 4.200 detenuti continua a far sì che il sovraffollamento sia superiore alla media italiana: Alessandria San Michele, Asti, Biella, Ivrea e Vercelli sono carceri con un sovraffollamento ancora superiore al 130%”. Per quanto riguarda la situazione complessiva italiana, l’ultimo bollettino informativo del garante nazionale segnala che, al primo maggio, la popolazione detenuta risultava composta da 53.187 detenuti, sottolineando la conferma di un trend di riduzione del numero complessivo dei reclusi, ma rimarcando la necessità di un ulteriore impulso deflattivo “affinché sia possibile disporre di sufficienti possibilità di fronteggiare ogni eventuale negativo sviluppo dell’andamento del contagio”. Al momento - infatti - la capienza nazionale regolamentare effettiva è inferiore ai 47.000 posti. Il garante nazionale ha anche segnalato, in ambito penitenziario, 159 casi di detenuti positivi dall’inizio della pandemia e 215 casi fra il personale (in gran parte agenti), sottolineando come il dato relativo ai reclusi sia “tuttora in ascesa”. In Italia, inoltre, le detenzioni domiciliari sono state dall’inizio di marzo 2.810, di cui 704 con applicazione del braccialetto elettronico. “Detenzioni - sottolinea - che nulla hanno a che vedere con la questione di alcune scarcerazioni che hanno avuto grande sugli organi d’informazione”. Mellano sottolinea infine la soddisfazione per la nomina di Michela Rivelli a garante comunale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà del Comune di Fossano (Cn) al termine del mandato di Rosanna Degiovanni. “Grazie a questa nuova nomina - conclude - la Regione Piemonte continua ad essere l’unica ad avere una figura di garante comunale per ogni città sede di carcere: una sfida non da poco in un momento e in un contesto culturale che fatica a riconoscere il senso vero della pena e a dare reali prospettive ad un’esecuzione penale volta al reinserimento sociale”. Lombardia. Panarello (Uepe): tra marzo e aprile 300 detenuti hanno ottenuto l’affidamento agenzianova.com, 5 maggio 2020 Sono 300 le persone che in Lombardia a marzo e aprile hanno ottenuto la misura dell’affidamento in prova. Lo ha fatto sapere alla sottocommissione consiliare Carceri di Palazzo Marino la direttrice dell’Ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe) di Milano e coordinatrice Uepe della Lombardia, Severina Panarello. “Quasi tutte queste persone - ha precisato - provenivano dagli istituti. Sono tutte persone che potevano ottenere l’affidamento in prova alle stesse condizioni anche in situazione pre-Covid, ma l’emergenza ha dato sicuramente un’accelerazione ai provvedimenti”. Panarello ha assicurato poi che “mai come adesso le misure alternative sono state sotto controllo. Per quella che è la sicurezza sociale, questo periodo è stato caratterizzato da un provvedimento più corposo anche sui controlli delle misure alternative, quindi di fatto non ci sono situazioni di allarme”. L’Uepe lombardo ha ricevuto dalla direzione generale dell’esecuzione penale esterna 78mila euro per interventi di housing, rivolti a detenuti che non abbiano una casa o ne abbiano una inadeguata a svolgere la pena alternativa. “Il finanziamento - ha spiegato Panarello - si esplicita in un contributo di 20 euro al giorno per ogni ospite. Sta partendo la fase della co-progettazione che si concluderò questa settimana: abbiamo selezionato 10 posti per l’area metropolitana, 2 posti per Pavia, 2 posti per Mantova e Cremona, 2 posti per Varese e 5 per Brescia. Sono 21 accoglienze di sei mesi, per le quali abbiamo utilizzato tutti i 78 mila euro”. Al più presto si procederà alla selezione dei detenuti, che dovranno però essere sottoposti al tampone per il Covid-19, prima di poter lasciare gli istituti penitenziari e trasferirsi negli alloggi messi a disposizione. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Il Garante: “Detenuto muore nel carcere delle rivolte” di Luigi Nicolosi stylo24.it, 5 maggio 2020 Giallo nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, disposta l’autopsia sul corpo del 27enne algerino. Nuova bufera sul carcere di Santa Maria Capua Vetere. Dopo i violenti disordini delle scorse settimane, con tanto di presunti pestaggi da parte della Polizia penitenziaria, l’istituto sammaritano torna suo malgrado alla ribalta dalla cronaca. Un detenuto di 27 anni è morto questa mattina in circostanza ancora da accertare. La salma è stata infatti sequestrata su disposizione della Procura e si trova adesso in attesa di essere sottoposta all’esame autoptico. A comunicare la drammatica notizia è stato nel pomeriggio di oggi il garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello: “Lamine H., algerino nato a giugno del 1992, è morto nel carcere di santa Maria Capua Vetere. L’autopsia stabilirà le reali cause del decesso. In Italia dall’inizio del 2020 i morti in carcere sono 55, mentre i suicidi sono 17. Noi parliamo di queste persone sia per farle uscire dall’anonimato, dalle statistiche sugli “eventi critici”, sia per capire come sono morti. Dietro ogni morte in carcere e di carcere, c’è una persona, la sua famiglia, c’è uno “spaccato” del carcere oggi in Italia”. Napoli. Tribunale, torna la paura negli uffici. Positivi una gip e due carabinieri di pg di Titti Beneduce Corriere del Mezzogiorno, 5 maggio 2020 La ripartenza delle udienze è prevista il 12 maggio. Si riaccende la polemica sui processi in aula. Avvocati in pressing, l’Anm chiede test sierologici. Positivi al coronavirus una giudice e due carabinieri della sezione di pg della Procura: a pochi giorni dalla ripresa dei processi, fissata per uil 12 maggio, torna la paura negli uffici giudiziari napoletani. La notizia dei nuovi contagi si è diffusa rapidamente tra gli addetti ai lavori, suscitando una profonda preoccupazione e riaccendendo la polemica sul processo da remoto, in particolare per il settore penale. Gli uffici in cui lavorano la giudice (una gip descritta dai colleghi come attentissima al rispetto delle regole) e i carabinieri sono stati disinfettati; si sta ora procedendo a identificare le persone con cui sono entrati in contatto. Dei militari, uno lavora nell’edificio della Procura, l’altro nell’isola F4 del Centro direzionale, dove ha sede la sezione di polizia giudiziaria. Intanto ferve il dibattito sulle modalità di ripresa dei processi: l’unica cosa certa è che non saranno quelle del passato. Il presidente della Corte d’Appello, Giuseppe De Carolis di Prossedi, e quella del Tribunale, Elisabetta Garzo, stanno mettendo a punto le linee guida. La priorità sarà, ovviamente, dare la precedenza ai processi con gli imputati detenuti per i quali è prossima la scadenza dei termini di custodia cautelare. Dall’11 maggio al 30 giugno, è stato calcolato, dovrebbero essere celebrati ben 400 processi con imputati per cui la scadenza dei termini è a novembre. Si cercherà in tutti i modi di mantenere il distanziamento sociale, per esempio tenendo le udienze a porte chiuse e fissando orari distanziati; ciascun presidente di sezione valuterà caso per caso. Ci si è attrezzati per i dispositivi di sicurezza, dalle mascherine al gel sanificante ai termo laser per la misurazione della temperatura di chi entra negli uffici giudiziari. L’Anm non nasconde la preoccupazione: “La recente notizia di ulteriori casi di positività - si legge in una nota a firma di Marcello De Chiara, segretario della Giunta - getta i magistrati in uno stato di dolorosa prostrazione. Non è un caso che ciò sia avvenuto nell’ufficio Gip e nella Procura, uffici che richiedono la continuativa presenza di magistrati e personale ausiliario. È perciò giusto sgomento dei magistrati che, pur costretti ad operare in condizioni non adeguate, ancora oggi vedono non riconosciuta la propria condizione di categoria a rischio. Se si vuole evitare che l’imminente riapertura del Tribunale determini un incontrollabile aggravamento della situazione è necessario procedere ad una completa mappatura, mediante test sierologi, del personale degli uffici giudiziari”. Intanto, dopo l’ultimo decreto, l’ipotesi del processo penale telematico si allontana: c’è bisogno infatti del consenso delle parti. Il flash mob che gli avvocati avevano organizzato per stamattina davanti all’ingresso principale di Palazzo di Giustizia si svolgerà, ma per via telematica. Davanti al Tribunale ci sarà una bilancia con una toga e l’avvocato Raffaele Esposito leggerà un documento. Quanti sono favorevoli al processo nelle aule potranno partecipare tramite Zoom. L’argomento in queste ore è molto dibattuto sui social. Ieri pomeriggio diretta Facebook sulla pagina “L’Italia che merita”; tra i partecipanti all’incontro, la presidente Garzo. In serata altra diretta con gli interventi dell’avvocato Claudio Botti e del consigliere di Corte d’Appello Alberto Maria Picardi, protagonista nei giorni scorsi di schermaglie con i penalisti. Picardi infatti è scettico sulla possibilità di celebrare i processi in aula senza esporsi a rischi. Su Facebook ha sottolineato “la notevole differenza di esposizione a rischio virale di un negozio rispetto ad un Tribunale organizzato come quello di Napoli (struttura verticale, ascensori, affluenza media di decine di migliaia di persone, assenza di ricambio di aria, presenza di reflusso di aria da strumenti di ventilazione meccanica)”. Avellino. Scarcerati 61 detenuti grazie al decreto coronavirus cronachedellacampania.it, 5 maggio 2020 Via dal carcere grazie alle norme anti Covid contenute nel decreto del marzo scorso emanato dal presidente del Consiglio. Sono 61 detenuti del carcere di Avellino che, avendo meno di 18 mesi di pena, potranno scontare il periodo residuo in regime di arresti domiciliari a casa o presso altre strutture autorizzate. Il numero di detenuti nella struttura di Bellizzi Irpino scende dai 556 conteggiati a fine febbraio scorso, a 495, risolvendo anche il problema del sovraffollamento della struttura penitenziaria adeguata per un numero di ospiti non superiore a 500. Nel carcere di Avellino è stata attrezzata fin dal primo momento una tenda esterna per il triage rispetto ai nuovi arrivi e per verificare le condizioni di detenuti sospetti ma sono sospese le visite specialistiche e soprattutto psichiatriche all’interno. Solo in casi di emergenza i detenuti vengono condotti in ospedale. Finora non si è registrato alcun caso di contagio nel carcere di Avellino, dove i colloqui con i familiari sono bloccati fino al 17 maggio prossimo, come in tutti gli altri istituti di pena, ma sono stati potenziati i mezzi per favorire le videochiamate, sempre alla presenza di agenti penitenziari. Da alcuni giorni la direzione del carcere di Avellino ha avviato la procedura per consentire la didattica a distanza per i detenuti che seguivano corsi scolastici e di formazione. Reggio Calabria. Garante detenuti: “Fase 2, preoccupa la ripresa dei colloqui coi familiari” ilreggino.it, 5 maggio 2020 Praticò sottolinea l’importanza di piccoli accorgimenti: utilizzo dell’area verde all’aperto per i colloqui, almeno per il periodo emergenziale, la possibilità di rendere permanente l’aumento di un’ora dell’aria. “Inizia la fase 2 anche nelle carceri di via San Pietro e Arghillà, bisogna dire che la prima fase è stata gestita egregiamente dagli operatori dei due Istituti, infatti nessun caso è stato rilevato anche per il corretto comportamento dei detenuti. Una qualche preoccupazione desta l’avvio della seconda fase, quando saranno riaperti i colloqui con i familiari”. Così, in una nota, Paolo Praticò, Garante Metropolitano dei diritti delle persone private o limitate nella libertà personale. “Il Ministero della Giustizia ha predisposto l’assunzione di circa mille operatori sanitari da destinare nei vari istituti di pena, sarebbe auspicabile che un numero sufficiente venisse destinato alle carceri della città metropolitana che dal punto di vista sanitario, soffre per la carenza di personale. Inoltre, questo ufficio è stato interessato dai detenuti per una serie di problematiche che viste dall’esterno sembrano irrisorie ma, per chi è ristretto assumono un’importanza rilevante come: la possibilità di rendere permanente l’aumento di un’ora dell’aria che è stata concessa per l’emergenza, la scelta mirata degli alimenti per evitare sprechi, attrezzare a palestra i bordi del campo di calcio con attrezzi che già sono in possesso dell’amministrazione, acquisto di congelatori per la conservazione del cibo e quindi evitare ancora sprechi, utilizzo dell’area verde all’aperto per i colloqui, almeno per il periodo emergenziale, film in Dvd da proiettare come di consueto e questo ufficio si è interessato presso un club service perché possa fornirli. Sono tutti piccoli accorgimenti che servono per allentare la tensione che inevitabilmente si crea quando ci si trova costretti a condividere spazi ristretti. Il nostro ruolo è anche questo, cioè portare all’attenzione dell’opinione pubblica ma, soprattutto di chi può decidere per la soluzione dei problemi, nel rispetto della dignità della persona”. Ferrara. Reinserimento detenuti, Colaiacovo (Pd) non ci sta e vuole spiegazioni estense.com, 5 maggio 2020 Il Consigliere presenta interpellanza per conoscere le ragioni del diniego alla richiesta avanzata dal Consorzio di Cooperative e dalla Ats di partecipare al bando. Ritiene non pertinenti e pretestuose le argomentazioni dell’assessore Cristina Coletti ed è per questo che il consigliere comunale Pd Francesco Colaiacovo ha presentato un’interpellanza per sapere dal sindaco e dalla sua giunta con quali motivazioni si sia respinta la richiesta avanzata da un consorzio di cooperative e da una Ats di partecipare al bando per il reinserimento sociale dei detenuti ammessi alle misure alternative ma non aventi fissa dimora. L’assessore Coletti aveva risposto a una lettera di protesta inviata dall’associazione Viale K (una delle associazioni facenti parte della Ats), sostenendo che al Comune di Ferrara non è pervenuto alcun progetto dettagliato, ma solo,” a pochissimi giorni dalla scadenza del bando, una richiesta generica di approvazione, su ipotesi di lavoro non specificate nel dettaglio, senza indicare chiaramente né le risorse utilizzate, né le interrelazioni del progetto con le realtà territoriali, nè le reali possibilità di successo, né tantomeno chi siano i destinatari”. Nella sua interpellanza Colaiacovo fa presente che “la richiesta è stata inoltrata in una settimana dove tre giorni erano di festa e che risorse e destinatari erano “esplicitate nell’avviso pubblico”. Il consigliere ricorda inoltre che “l’associazione Viale K da anni svolge attività di volontariato presso la Casa Circondariale di Ferrara, con progetti volti alla formazione professionale e al recupero sociale dei detenuti” e che “la Giunta ha una perfetta conoscenza della capacità progettuale delle associazioni, delle imprese sociali e delle cooperative partecipanti al bando, la professionalità dei loro operatori, i contesti in cui vengono realizzati i singoli progetti in rete con le tante realtà del territorio”. Fatte queste premesse, dunque, Colaiacovo vuole sapere “quali siano le ragioni del diniego alla richiesta avanzata dal Consorzio di Cooperative e dalla Ats”, diniego che sta “privando le persone detenute nella Casa Circondariale di Ferrara, con i requisiti per usufruire delle pene alternative al carcere, di poter sperimentare esperienze di reinserimento nella società”. Vuole infine sapere “quali siano i progetti per il reinserimento sociale di quelle persone detenute, prive di domicilio, quando avranno terminato la pena detentiva e saranno rimesse in libertà”. Fossano (Cn). Michela Revelli è la nuova garante dei detenuti cuneodice.it, 5 maggio 2020 È stata eletta lo scorso 30 aprile. Lei: “Sono onorata della nomina, mi impegnerò per svolgere al meglio questo compito”. Il Consiglio Comunale di Fossano, nella seduta dello scorso 30 aprile, ha eletto la dottoressa Michela Revelli come garante dei detenuti. “Questo è un ruolo molto sentito in città ed è un tema molto delicato per questo alla base dell’incarico ci deve essere l’assoluto rapporto fiduciario tra il Garante il Sindaco Dario Tallone, la Giunta ed il Consiglio comunale. Spiega l’assessore competente Ivana Tolardo: il garante dura in carica fino al termine del mandato del Consiglio che lo ha eletto ed avrà vari compiti a tutela delle persone private della libertà personale, come indicato dall’art. 3 del suddetto regolamento. Riferirà al Sindaco, alla Giunta, al Consiglio comunale e alle commissioni consiliari”. “Mi sono messa al lavoro fin da subito analizzando nel dettaglio quelle che sono le linee guida dell’OMS sull’emergenza Covid-19 in merito alle case di reclusione, ed essendo uno dei compiti del Garante quello di vigilare, avere competenze mediche, in un momento così delicato potrebbe essere davvero un vantaggio per la massima tutela dei detenuti. Ho sentito nei giorni scorsi anche Bruno Mellano, Garante dei Detenuti della Regione Piemonte e ho già in programma una videoconferenza con lui e gli altri nuovi colleghi. Sono onorata della nomina, mi impegnerò per svolgere al meglio questo compito” il commento di Michela Revelli. Cosenza. Rete solidale Rende si allarga ai detenuti: pasti per i più bisognosi cn24tv.it, 5 maggio 2020 “Vedere orizzonti dove vengono segnati confini, in un momento storico che ci richiede di ripensare a noi stessi e superare quello che ci rende distanti dal rimanere umani è ciò che muove il nostro welfare resiliente”: il sindaco di Rende Marcello Manna ha spiegato così lo spirito dell’ultima delle iniziative che la sua amministrazione ha messo in moto all’indomani dello scoppio della pandemia a sostegno delle famiglie più bisognose. In collaborazione con la casa circondariale “Sergio Cosmai”, la Terra di Piero e l’IIS “Cosentino-Todaro”, il comune dell’oltre Campagnano promuove “CuciniAmo” progetto che coinvolgerà alcuni dei detenuti nella preparazione dei pasti da destinare alle persone in difficoltà. Da lunedì al sabato i fornelli della cucina all’interno delle carceri cosentine ritorneranno ad accendersi alimentando la rete solidale che “sinora ha raggiunto più di seicento persone con generi di prima necessità e pasti”, ha dichiarato l’assessore alle politiche sociali Annamaria Artese che ha aggiunto come: “le scelte di vita possono essere messe in discussione solo se prima si è compreso come si è vissuto ed essere quindi trasformate in azioni reali nella vita fuori dal carcere. Questa iniziativa dimostra come, nonostante la situazione detentiva, queste persone dimostrino vicinanza a chi soffre”. “Gli studenti iscritti alle cinque classi della sezione carceraria dell’istituto alberghiero rendese a turno prepareranno il pranzo seguendo il menù dei docenti Marigliano e Caloprese che hanno realizzato, per l’occasione, un ricettario con il procedimento dei pasti. I ragazzi sono particolarmente motivati perché è emersa la volontà di aiutare chi adesso si trova in difficoltà” ha affermato la dirigente dell’istituto alberghiero Tina Nicoletti. Ma a cucinare saranno idealmente tutti i detenuti che, proprio nei giorni scorsi hanno scritto una lettera di ringraziamento alle ragazze e ai ragazzi che ogni giorno operano: “per gli ultimi e i bisognosi”. “Abbiamo creduto molto in questa iniziativa - ha affermato Francesco Chiarello, chef e a capo della squadra di volontari che prepara i pasti per tutta l’area urbana- perché in questo percorso di riabilitazione il fattore umano e sociale deve essere sempre garantito”. “Siamo certi - ha sottolineato la direttrice del carcere Maria Luisa Mendicino - che sentirsi di nuovo utili per la società è processo fondamentale. Per questo è importante che negli istituti penitenziari venga offerta la possibilità di professionalizzarsi, imparare un mestiere, studiare, in modo che chi sconta la pena possa strutturare la fiducia in sé stesso, negli altri, nelle istituzioni e nello Stato”. Se il virus spegne i polmoni della democrazia l’Italia rischia più di altri di Ugo Intini Il Dubbio, 5 maggio 2020 Enorme debito e basso sviluppo: mix micidiale i pericoli di un collasso. Sino a ieri tutta l’attenzione era concentrata su come evitare i rischi economici indotti dal Coronavirus. Ma adesso ci si comincia a preoccupare anche di quelli democratici. Una copertina dell’Economist denunciava un’ondata di autoritarismo (“Una pandemia di arraffamento del potere”) in tutto il mondo. Non meno di 84 Stati infatti - scrive - si sono attribuiti strumenti eccezionali e ciò, ancorché spesso necessario, “diventa rischioso dove le radici della democrazia e i contro bilanciamenti del sistema istituzionale sono fragili”. In Italia si discute sulla costituzionalità di alcune scelte del governo (e questo quotidiano ha ospitato interventi molto autorevoli). Alcune restrizioni sembrano evocare ora l’ipocrisia, ora lo Stato di polizia. Il presidente del Consiglio ci ha spiegato che all’estero sono ansiosi di leggere le sue disposizioni per trarne un esempio. Ma l’esempio è anche di indeterminatezza e confusione. Anche se, grazie ai burocrati italiani (forse non se n’è accorto) Conte almeno un merito l’ha avuto verso chi ci segue dall’estero: quello di regalare un sorriso. Visto che il nostro Governo ha definito “Faq” (che si pronuncia in inglese come “fuck”) il sistema di risposta dello Stato italiano alle domande più frequenti dei cittadini. Non è questo tuttavia il tema principale. L’allarme degli analisti internazionali va infatti molto oltre il contingente. La crisi economica del 2008 - osservano - ha provocato una avanzata precedentemente inimmaginabile dei movimenti estremisti, antisistema e populisti. La crisi da pandemia potrebbe fare molto peggio. Ed è qui che noi dobbiamo preoccuparci in modo particolare, perché i rischi, non solo per l’economia ma anche per la democrazia, sono tanto più gravi quanto più la situazione è compromessa dal passato. Temiamo il collasso economico più degli altri Paesi europei a noi vicini perché abbiamo un debito pubblico di un terzo più grande; nell’ultimo ventennio siamo andati indietro rispetto a loro sempre di un terzo (quanto a Prodotto interno lordo); abbiamo un tasso di sviluppo tra i più bassi del mondo. Lo stesso vale per la democrazia, perché il rischio è di tutti, ma lo è di più per chi come l’Italia ha una debolezza strutturale che deriva dal “pregresso”. Tale pregresso può essere riassunto con un semplice elenco di casi italiani unici in Europa e spesso nel mondo, da esporre nella loro obiettività, senza giudizi di merito. Dalla crisi economica del 2008, siamo i soli a non esserci ancora ripresi. E infatti i movimenti di contestazione non soltanto si sono rafforzati, ma sono arrivati al potere. Abbiamo un capo del Governo scelto per caso, completamente sconosciuto sino a due anni fa e mai votato da nessuno. Sostenuto prima da un partito, poi dal suo esatto opposto (Lega e Pd). Il Movimento di maggioranza relativa, che controlla un terzo delle Camere, ha perso secondo i sondaggi la metà dei suoi consensi, così che la rappresentatività dell’attuale Parlamento è discutibile. I dubbi sulla reale rappresentatività e autorevolezza riguardano da tempo non soltanto questo Parlamento, ma l’istituzione del Parlamento in quanto tale. La “rivoluzione” del 1992- 94 ha portato al predominio della magistratura sulla politica. Poi è giunta la moda dei tecnici, ritenuti più credibili dei politici nel curare la “azienda Italia”. Poi è giunta la teorizzazione M5S dell’uno vale uno e della “democrazia diretta”, ovvero del parlamentare inteso come semplice portavoce della volontà espressa dalla rete. I deputati e i senatori non sono più davvero “eletti”, ma “nominati” da partiti per lo più a guida personale. Non ci sono più partiti con continuità storica e radici. Il più “antico” è ormai la Lega. Che però, da padana e separatista, si è trasformata in italianissima e sovranista. I parlamentari (e i politici in genere) sono stati individuati dalla maggioranza dell’opinione pubblica come una “Casta” di privilegiati. In segno di purificazione perciò, tutte le generazioni precedenti di tale Casta sono state colpevolizzate e “private dei privilegi”. Secondo il rapporto Demos 2019 ordinato dal gruppo Espresso, l’indice di fiducia nel Parlamento è al penultimo posto (15 per cento). Peggio fanno soltanto i partiti (9 per cento), mentre al primo posto (73 per cento) stanno le forze di polizia. Il fatto che il Parlamento sia rimasto sostanzialmente inattivo e assente durante l’emergenza della pandemia ha sollevato dibattiti e allarme tra gli addetti lavori, ma non nell’opinione pubblica, che si è abituata a considerare l’argomento del tutto ininfluente. Per sfoltire la “Casta”, si è deciso di ridurre di un terzo il numero dei deputati e senatori. Ma ciò rende impossibile persino votare, perché bisogna prima ridisegnare i collegi elettorali. Inoltre, si prepara una rissa sul sistema di voto e pende un referendum sulla riduzione stessa del numero dei parlamentari. Tutti questi casi unici hanno a monte il più grosso di tutti, che in parte ne è forse la causa. L’Italia ha avuto prima l’autoritarismo monarchico, poi il fascismo, poi la democrazia, sì, ma accompagnata da una egemonia culturale comunista unica in Occidente. Infine, nel 1992-94, i partiti che tale democrazia hanno garantito dal Secondo dopoguerra, sono stati cancellati, lasciando in piedi i soli eredi del comunismo e del fascismo. Tra pochi mesi dovremo affrontare non il problema di quando aprire i parrucchieri, ma di come salvare il Paese dalla disoccupazione di massa e dalla disgregazione sociale che ne conseguirebbe. Come sempre nella Storia, questi pericoli mortali (il 1919 e il 1929 insegnano) mettono a rischio la democrazia. Mentre (più fragile di tutti) l’Italia attende la tempesta, la memoria storica, ancorché ormai cancellata, potrebbe aiutare. Pietro Nenni diceva a noi ragazzi: “La libertà e la democrazia non sono una conquista raggiunta una volta per tutte. Le si conquista e riconquista tutti i giorni”. I vecchi che hanno conosciuto fascismo, nazismo e stalinismo, da Milano a Monaco e Praga, dicono: “La libertà e la democrazia sono come la salute. Ci si accorge del loro valore quando non ci sono più”. Regolarizzazione migranti, forse è la volta buona di Massimo Franchi Il Manifesto, 5 maggio 2020 Agricoltura e Diritti. D’accordo le ministre Bellanova e Catalfo. Norma per 150mila braccianti, con colf e badanti si arriva a quota 600mila. Resistenze nel M5s. Riunione al ministero del Lavoro: via a piattaforma Anpal. Ma il decreto dovrà scriverlo Lamorgese. Alla stipula del contratto, il datore di lavoro pagherà un contributo forfettario per il rilascio del permesso di soggiorno al migrante. Dovrebbe essere questo - lo stesso usato nel 2012, ultimo provvedimento del tipo in Italia - lo strumento scelto dal governo per regolarizzare i lavoratori migranti. Non solo nell’agricoltura - i braccianti irregolari sono stimati in 140-160 mila, ma allargando la modalità anche per colf e badanti, categorie finora escluse da ogni ammortizzatore sociale, per giungere ad un totale di 600mila persone. Dopo mesi di attendismo la ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova sembra essersi convinta della necessità di agire subito. Anche come capo delegazione di Italia Viva. Meno convinta sul metodo e sull’allargamento a colf e badanti pare essere la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, alla quale spetterà comunque la responsabilità della norma che Bellanova punta ad inserire nel prossimo decreto. Sulla stessa lunghezza d’onda anche la ministra del lavoro Nunzia Catalfo che però deve vincere le resistenze interne al M5s con Vito Crimi che non vede di buon occhio una norma che sarà bollata come “vergognosa sanatoria” dalla destra. Ieri al ministero del Lavoro si è tenuta una lunga tele riunione, presenti Bellanova e le parti sociali, con sostanziale via libera alla regolarizzazione. La ministra Catalfo ha poi annunciato che l’Anpal sta per far partire una piattaforma digitale per far incontrare domanda e offerta di manodopera agricola, idea già contenuta - mai applicata - nella legge 199 del 2016 sul Caporalato: dovrebbe prevedere anche un ruolo per enti bilaterali e agenzie interinali. La piattaforma pubblica dell’Anpal dovrebbe poi evitare l’introduzione dei voucher, chiesti a gran voce dalla destra e da Coldiretti. In mattinata Bellanova aveva reso pubblica la sua posizione: “L’Italia deve decidere di combattere definitivamente questo fenomeno scegliendo la giustizia sociale e la civiltà, sapendo che lasciare immutato lo stato di cose significa alimentare l’illegalità, la concorrenza sleale e il caporalato. E danneggiare lavoratori e aziende oneste, la maggioranza, che rischiano di lasciare i prodotti nei campi. Da anni nei distretti agricoli, con percentuali differenti, c’è manodopera immigrata, molta senza permesso di soggiorno. Davanti a questa situazione: o si lasciano i campi incolti o si sceglie di regolarizzare queste persone sottraendole ai caporali”. Non mancava però un richiamo al rischio sanitario, ma dal punto di vista degli italiani: “Il punto non è quanti ospedali costruisci ma quante persone metti in sicurezza; e se questi lavoratori saranno costretti a rimanere nei ghetti, irregolari e invisibili, sarà un rischio enorme per la loro salute e quella di tutti”. La sortita di Bellanova ha provocato subito il giubilo della Cia, l’associazione datoriale agricola alternativa alla Coldiretti. “Ha ragione la ministra Bellanova, siamo noi ad avere bisogno degli immigrati - dichiara il presidente Cia Dino Scanavino - ma è necessario che la regolarizzazione si concretizzi subito, velocizzando e semplificando le procedure senza intralci burocratici. Se non si agisce in fretta, la sanatoria rischia di avere effetto fra troppi mesi, quando la stagione della raccolta sarà terminata e i prodotti saranno abbandonati nei campi per mancanza di forza lavoro, con la conseguenza per le famiglie di trovare scaffali vuoti nei supermercati”. Secondo le stime di Cia, un provvedimento di regolarizzazione oltre a coinvolgere una platea di almeno 150mila operai agricoli e a inserire in una cornice di legalità i lavoratori già presenti nel nostro Paese, potrebbe portare nelle casse dello Stato anche nuove entrate per 1,2 miliardi di euro, tra Irpef e contributi previdenziali. Ottimisti ma guardinghi i sindacati. “È dal 25 marzo, quando mandammo una lettera appello al presidente Mattarella, che attendiamo un segnale concreto dal governo - sottolinea il segretario generale della Flati Cgil Giovanni Mininni. La regolarizzazione sarebbe un segnale di civiltà e libererebbe dal giogo di caporali, aziende sfruttatrici e malavita centinaia di migliaia di migranti, a rischio sanitario nei tanti ghetti presenti in Italia. Dare a loro un contratto regolare e senza voucher garantirebbe poi di aiutare anche i braccianti italiani che subiscono un sotto salario diffuso”, chiude Mininni. Migranti, arriva il decreto ma si tratta sui numeri di Giovanna Casadio La Repubblica, 5 maggio 2020 La proposta di Bellanova per regolarizzare gli invisibili: “Sarà per 600 mila”. Il Viminale frena: 250-300mila. Provenzano: “Così stronchiamo illegalità e mafie”. Malumori 5S, Sibilia: “Non è una priorità del governo”. Il dado è tratto: la regolarizzazione degli stranieri che lavorano nei campi o presso le famiglie come badanti, colf e babysitter si farà, forse già con il decreto di maggio e potrebbe riguardare tra i 400 mila e i 600 mila immigrati. Teresa Bellanova, la ministra renziana dell’Agricoltura, ha lanciato l’offensiva chiedendo una regolarizzazione immediata: “Non si può più tergiversare, stop alle indecisioni del governo. Se non ci sarà, lo Stato si rende non solo complice, ma fautore dell’illegalità in cui questi lavoratori sono costretti, alimentando criminalità e caporalato”. Denuncia la situazione disastrosa dei ghetti dei braccianti dal punto di vista sanitario e lancia l’sos per i raccolti nelle campagne. Il Viminale parte da una stima inferiore: 250mila-300 mila regolarizzabili subito. Bellanova ha l’impegno della responsabile del Viminale, Luciana Lamorgese, sul cui tavolo il provvedimento è ormai pronto. Ne hanno discusso ieri le ministre in vista del vertice di maggioranza con il premier Giuseppe Conte. Nella riunione in tarda serata Bellanova è tornata all’attacco. Ma la tensione è altissima con i 5S. Se la ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo sembra più possibilista, il sottosegretario all’Interno, Carlo Sibilia è contrario. Sostiene infatti che “la regolarizzazione non è una priorità. Ci sono altre soluzioni per affrontare la problematica, come quelle di fare incontrare domanda e offerta agricola”. I grillini si convinceranno? Potrebbero chiedere un compromesso, escludendo dalla regolarizzazione per ora il lavoro domestico. Si fronteggiano da un lato Dem, renziani, la sinistra di Leu e Emma Bonino che con +Europa e Radicali ha organizzato una campagna per restituire dignità e visibilità ai “sans papier”. Le opposizioni di Salvini e Meloni sono sul piede di guerra contro quelli che giudicano favori ai clandestini. Il leader leghista contrattacca: “Prima lasciano che decine di mafiosi e assassini escano dal carcere, poi provano una sanatoria di centinaia di migliaia di clandestini, dobbiamo fermarli”. “Il Pd sta spingendo, così come Bellanova. E l’occasione per creare percorsi di emersione e stroncare illegalità e mafia”, spiega il ministro dem per il Sud Pepp e Provenzano. Il provvedimento del Viminale è perciò pronto ma ancora aperto. Ci sono diverse ipotesi all’esame. Sembra tuttavia escluso che la regolarizzazione riguardi i lavoratori dell’edilizia. E al Viminale preferiscono parlare di nonne di “emersione” del lavoro nero degli irregolari. Non è una sanatoria, nel senso che non riguarderà coloro che non abbiano un contratto di lavoro in mano. In qualche modo ricalca le regolarizzazioni decise dai governi di centrodestra guidati da Berlusconi. Molti i dettagli tecnici da definire. Ad esempio, gli stranieri saranno chiamati a dimostrare da quanto tempo sono in Italia. Basterà un tempo massimo di soggiorno di 3-4 mesi? Bellanova insiste: “Per me è una questione che va risolta in queste ore. Cos’altro vogliamo aspettare?”. Se tuttavia lo scontro nella maggioranza si alzasse, allora la regolarizzazione potrebbe procedere con un provvedimento ad hoc, senza essere inserita nel decreto di maggio. Maurizio Martina, ex segretario del Pd ed ex ministro, autore della legge sul caporalato, ricorda che un “provvedimento rapido ed efficace è indispensabile perché solo così ci sarà anche sicurezza sanitaria”. Bellanova procede per esempi. “A Borgo Mezzanone in provincia di Foggia ci sono 3 mila persone ammassate in un campo di fortuna. Nel momento in cui riprendono una attività, salta tutto per aria in termini di emergenza sanitaria”. Detenuti in libertà forzata nella lotta alla pandemia di Roberto Bongiorni Il Sole 24 Ore, 5 maggio 2020 Il sovraffollamento spinge le autorità a ridurre i rischi rilasciando parte dei reclusi. Il Brasile ne ha rilasciati 30mila, la Malesia altrettanti, l’Indonesia è arrivata per ora a 18mila ma intende raggiungere presto quota 30mila. Le Filippine sono vicine a 10mila. L’Iran, dal canto suo, ha precisato di averne liberati 85mila, quasi metà di tutta la sua popolazione carceraria. Quanto alla Turchia, il governo di Ankara ne ha rilasciati 45mila e in giugno si prepara a liberarne altre 45mila (anche se i prigionieri politici restano dietro le sbarre). Perfino il Myanmar avrebbe rimesso in libertà 30mila prigionieri. Che sia l’Asia, le Americhe, l’Africa o l’Europa, la pandemia di coronavirus sta alleggerendo le popolazioni carcerarie di molti Paesi. La lunga lista dei rilasci, degli sconti o delle amnistie include decine di Stati. Non poteva essere altrimenti. Coronavirus e sovraffollamento nelle carceri costituiscono un connubio esplosivo. Le carceri sono spesso un habitat congeniale allo sviluppo di pericolosi focolai pronti a diffondersi con forza, attraverso il personale penitenziario, anche al di fuori delle mura. “Il sovraffollamento nelle carceri e le pessime condizioni igienico- sanitarie riscontrate in molti Paesi - spiega Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia - costituiscono un’autostrada per la diffusione del Covid 19”. D’altronde sono almeno 125 i Paesi nel mondo ad avere un sistema carcerario sovraffollato. Venti Paesi ospiterebbero addirittura il doppio dei detenuti rispetto al numero originariamente concepito. “Certo, si parla spesso di sovraffollamento. Meno del fatto che il numero eccessivo di detenuti sia formato da una percentuale abnorme di persone ancora in attesa di un processo. In Russia su mezzo milione di carcerati sono il 19%. Amnesty chiede a tutti i governi il diritto alla presunzione di rilascio”, continua Noury. Ad aggravare un quadro già molto preoccupante vi è sovente un altro connubio: povertà e regimi autoritari. L’allarme di Human Rights Watch sullo stato delle carceri nella martoriata Repubblica democratica del Congo è solo uno dei numerosi, e tristi, casi. C’è un “grave rischio di diffusione dell’epidemia di Covid-19”, ha dichiarato Hrw. In queste prigioni definite “insalubri e sovrappopolate” Hrw teme che vi sia il rischio di “un’ecatombe”. Il virus che ha messo in ginocchio l’economia planetaria, contagiando ufficialmente tre milioni e mezzo di persone e uccidendone quasi 25omila, sta provocando dunque la liberazione di centinaia di migliaia di detenuti. Ma quali saranno gli effetti di queste decisioni, che in molti casi appaiono inevitabili? E chi sono questi detenuti? Ogni Paese segue i suoi criteri. Ma si tratta per lo più di scarcerazioni definite “temporanee”. E a essere rilasciati per primi sarebbero - il condizionale è d’obbligo considerando che gli annunci provengono anche da molti regimi - persone che hanno scontato buona parte della pena, condannati per reati meno gravi o che hanno oltrepassato una certa età. A volte minorenni. La temporaneità del rilascio è tuttavia un concetto piuttosto labile considerando il periodo eccezionale, il settore, e i soggetti coinvolti. Il Regno Unito ha scarcerato 5mila detenuti munendoli di braccialetti elettronici. “Ma Paesi come Venezuela, Brasile o regimi mediorientali non dispongono di sistemi per monitorie gli spostamenti di una tale massa d detenuti. Peraltro sappiamo molti poco dei detenuti liberati. In alcuni soggetti l’ipotesi di recidive o di fuga resta reale” spiega da Londra Sauro Scarpelli, vicedirettore delle campagne di Amnesty International. Certo ci si domanda se davvero non escano anche pericolosi delinquenti. In Afghanistan, per esempio, il presidente Ashraf Ghani ha promesso che avrebbe rilasciato 30mila persone dalle carceri - un’enormità - lasciando dietro le sbarre i pericolosi jihadisti. Ma sarà vero? Chi potrà realmente controllare che non vi siano detenuti pericolosi tra i 4mila liberati in Etiopia, o tra i 1.700 in Nicaragua o tra i 4.200 del Sudan? Un dato, pressoché certo, purtroppo ricorre costantemente. A restare dietro le sbarre sono sempre gli stessi, gli ultimi, le persone innocenti ma ritenute dai regimi che li hanno incarcerati più pericolosi di feroci criminali: ovvero quelli che Amnesty definisce i prigionieri di coscienza. “Ancora una volta a pagare il prezzo più alto sono i prigionieri di coscienza, persone che non hanno commesso un crimine ma imprigionati spesso solo perle loro opinioni o per le loro attività sul fronte dei diritti umani. Sono esposti a un grave pericolo sanitario”, continua Scarpelli. Proprio ieri Amnesty International ha così diffuso un manifesto per la loro liberazione immediata. Sottolineando come il sovraffollamento e la mancanza di servizi igienico-sanitari in molti centri di detenzione del mondo renda impossibile l’adozione di misure di protezione dalla pandemia, come la distanza fisica e il lavaggio regolare delle mani. “L’ingiustificata detenzione mette queste persone ancora più in pericolo”, ha precisato Scarpelli. I regimi da sempre pensano prima di tutto alla propria sopravvivenza. Ai loro occhi è meno preoccupante liberare anche pericolosi criminali, legati al crimine organizzato e potenzialmente capaci di recidive, piuttosto che liberare i prigionieri di coscienza. Scarcerarli significherebbe liberare le idee che li hanno portati in carcere. Aldilà dei prigionieri di coscienza, e della loro drammatica vicenda, il coronavirus ha dunque riportato l’attenzione sul problema delle carceri. Divenute pericolosi focolai quasi dappertutto. Eppure, quasi ne trascurassero la pericolosità, fino a poco fa diversi governi hanno effettuato davvero pochi tamponi all’interno degli istituti penitenziari. Quello che sta avvenendo in Brasile, per esempio, resta un mistero. Il gigante del Sudamerica ha la terza popolazione carceraria del mondo, 72mila detenuti, eppure ne avrebbe sottoposti a tampone solo 682. “In Brasile il sovraffollamento nelle carceri è gravissimo (+168% del numero concepito, ndr). Molte persone finiscono in prigione e rimangono per anni prima che il processo venga celebrato”, precisa Scarpelli. Ma a figurare nella lista dei “poco virtuosi” vi sono anche Paesi occidentali. Come gli Stati Uniti. La loro popolazione carceraria è la più grande del mondo: 1,2 milioni di detenuti. Eppure in questo Paese, che sta pagando il prezzo più alto nel mondo in termini di vite umane, i tamponi eseguiti nelle carceri sono del tutto inadeguati. Un dato rilasciato due settimane fa dal Bureau of Prisons parla molto chiaro: su 2.700 tamponi effettuati (i detenuti che scontano una pena nei centri federali sono 150mila) ne sono risultati positivi quasi 2mila, in altri termini più del 70%. Se si dovessero sottoporre a tampone più detenuti i risultati sarebbero facilmente immaginabili. Se si vuole fermare il contagio fuori dalle prigioni, occorre fermarlo primo dentro. Ridurre il sovraffollamento è certo un primo passo. Ma certamente non il solo. Venezuela. Il massacro nel carcere di Guanare non deve restare impunito 4 maggio 2020 amnesty.it, 5 maggio 2020 In risposta a quanto riferito in merito all’uccisione di almeno 46 detenuti e il ferimento di oltre 70 durante un violento scontro avvenuto il 1° maggio all’interno del Centro Penitenziario di Los Llanos (Cepella) a Guanare, nello stato di Portuguesa, Erika Guevara-Rosas, direttrice di Amnesty International per le Americhe, ha dichiarato: “Non è la prima volta che vediamo detenuti in Venezuela subire tremende violazioni del diritto alla vita. Le immagini orribili trasmesse nel mondo dovrebbero servire da spinta affinché tutti coloro che sono responsabili di questa atrocità siano assicurati alla giustizia. È necessario svolgere indagini ed esami approfonditi sulla reazione letale delle autorità affinché questi crimini internazionali non restino impuniti”. Secondo quanto riportato, un agente della Guardia nazionale bolivariana e il direttore del penitenziario risultano tra i feriti. Le autorità agli ordini di Nicolás Maduro hanno cercato di giustificare l’uso della violenza nei confronti dei detenuti dicendo che questi ultimi avevano tentato di evadere dalla struttura. Tuttavia, secondo l’Osservatorio venezuelano delle carceri (Ovp), la protesta del penitenziario è iniziata in risposta alle restrizioni relative alla consegna di cibo ai detenuti da parte dei familiari, provvedimento introdotto a causa della pandemia da Covid-19. Secondo l’Ovp, per molti giorni i detenuti non avevano ricevuto cibo dai propri familiari. Il Cepella ha una capacità di 750 persone, ma attualmente, secondo i dati dell’Ovp, ospita oltre 2500 detenuti. Oltre al sovraffollamento, il penitenziario è in condizioni di estrema precarietà e le famiglie delle persone detenute devono fornire loro cibo, medicinali e altri beni di prima necessità. Questo meccanismo è stato limitato all’inizio dello stato di allerta per la pandemia decretato da Nicolás Maduro il 13 marzo. Attualmente, è in corso da parte della procura della Corte penale internazionale un esame preliminare per stabilire se in Venezuela siano stati perpetrati crimini contro l’umanità durante il governo di Maduro. Inoltre, il Consiglio Onu dei diritti umani ha nominato una missione di accertamento dei fatti per definire responsabilità individuali nelle gravi violazioni dei diritti umani. Egitto. La denuncia dell’attivista: “Come Habash rischiano la morte migliaia di detenuti” di Alessandra Fabbretti dire.it, 5 maggio 2020 “Chiunque contesti il governo finisce in detenzione cautelare, una tattica con cui il governo tiene dietro le sbarre a tempo indefinito migliaia di persone”. “La morte di Shady Habash è una tragedia inquietante che conferma i nostri crescenti timori sulla sicurezza delle persone attualmente in cella in Egitto. Ciò che è successo ad Habash rischia di accadere a molte altre persone”. A parlare con l’agenzia Dire è Leslie Piquemal, responsabile campagne di advocacy per il Cairo Institute for Human Rights (Cihr), ong nata nel 1993. Habash, regista e fotografo di 22 anni, era in detenzione cautelare dal marzo 2018 e attendeva il processo con l’accusa di adesione a un gruppo terrorista e diffusione di false notizie per aver diretto un videoclip ironico sul presidente Abdel Fattah Al-Sisi. Il Cairo Institute da tempo segue la questione dei detenuti di coscienza in Egitto, su cui “non ci sono stime ufficiali” chiarisce Piquemal, ma “sappiamo essere un numero sproporzionato”. L’esperta precisa: “La maggior parte di loro ha meno di 50 anni. Sono manifestanti, attivisti politici, difensori dei diritti umani, intellettuali, giornalisti, sindacalisti. Chiunque contesti il governo finisce in detenzione cautelare, una tattica con cui il governo tiene dietro le sbarre a tempo indefinito migliaia di persone”. Stando al legale di Habash, i compagni di cella del regista avrebbero gridato per ore per ottenere assistenza medica, dato che Habash accusava lancinanti dolori allo stomaco. “Non è una novità che l’assistenza medica sia inadeguata” commenta Piquemal. “Non riceve cure sia chi presenta patologie croniche come il cancro o cardiopatie sia chi sviluppa problemi in carcere a causa delle torture o per via di cibo e acqua scadenti”. Negli ultimi tempi le Nazioni Unite e tante ong hanno invocato un provvedimento “svuota carceri”, soprattutto per scongiurare il rischio che l’attuale epidemia di Covid-19 si diffonda nelle carceri con ulteriore danno per chi è già in condizioni di salute precarie. “Non solo le autorità non lo hanno fatto ma dal 10 marzo hanno vietato le visite a familiari e legali dei detenuti, e persino le telefonate” dice Piquemal. “Ai detenuti di coscienza poi non è permesso neanche inviare o ricevere lettere”. Secondo la responsabile del Cairo Institute, in questo modo da quasi due mesi “non sappiamo nulla di quelle persone, se sono vive e in quali condizioni”. Il governo, oltre a non decongestionare le carceri, secondo Piquemal “ha continuato ad arrestare e incarcerare in modo arbitrario”. E spesso viene ammanettato proprio chi contesta il governo nella gestione dell’emergenza Covid-19, come è successo a due donne, Marwa Arafa e Kholoud Said, rispettivamente di 27 e 35 anni. La responsabile denuncia che da fine aprile “di loro si è persa ogni traccia” e che “dopo l’arresto sono scomparse”. Secondo Piquemal, i giornalisti stranieri che hanno denunciato il pericolo del sovraffollamento delle carceri nella diffusione del virus, oppure le stime sui contagi e i decessi, “sono stati costretti a lasciare il Paese”. L’attivista del Cairo Institute ricorda il caso della corrispondente del quotidiano britannico Guardian, Ruth Michaelson, a causa di un articolo di questo tenore. Le tre epidemie del focolaio Iran di Federica Zoja Avvenire, 5 maggio 2020 Il Covid, gli avvelenamenti da metanolo ritenuto una cura e la crisi economica stanno piagando il Paese. Ma il governo riapre le attività. Rohani: “La produzione è essenziale quanto le precauzioni”. Il metanolo continua a fare strage in Iran, di tutti i Paesi mediorientali il più colpito dal coronavirus e, dramma nel dramma, pure dagli effetti della diffidenza nei confronti delle autorità. Sono 728 i cittadini iraniani morti dopo aver ingerito una bevanda a base di alcol metilico, altamente tossico per l’uomo. Un presunto rimedio contro il Covid-19, per molti assai più efficace di quanto indicato dal ministero della Sanità: mascherine, gel igienizzanti e distanziamento fisico. Il numero di morti ufficiali correlate al virus, intanto, è di oltre 6.100 unità, per un totale di contagi di oltre 96mila. In realtà, si stima che i decessi per Covid siano almeno il doppio e gli infetti il triplo di quanto dichiarato da Teheran. Di riflesso, anche il bilancio della strage da metanolo non è certo: il portavoce del ministero della Sanità iraniano, Kianoush Jahanpour, ha dichiarato alla tv di Stato che dal 20 febbraio a fine aprile sono morte 525 persone per ingestione di metanolo; un secondo consulente ministeriale, invece, ha corretto il tiro riferendo che altre 200 persone sono morte al di fuori delle strutture ospedaliere. Insomma, la curva di entrambe le epidemie non è ancora in discesa. Ma c’è un altro pericolo che spaventa le autorità iraniane ancora di più: quello del collasso socio-economico e, di conseguenza, dell’implosione politica della Repubblica islamica. Per evitare il tracollo, Teheran ha disposto la riapertura degli uffici pubblici e delle attività private a partire dalla capitale e, via via, nelle province. Così il presidente Hassan Rohani ha motivato la decisione: “Vista l’incertezza su quando la diffusione del virus finirà, ci stiamo preparando per riprendere il lavoro, le attività e la scienza. Dobbiamo seguire le indicazioni mediche, ma il lavoro e la produzione sono essenziali quanto queste precauzioni”. Al momento sono operative le attività commerciali considerate “a basso rischio” e i parchi pubblici. Restano però ancora chiusi centri commerciali, scuole e università e sono limitati, tra le altre cose, gli assembramenti dei fedeli nelle moschee. Una misura essenziale, visto che in Iran si ritiene che il primo focolaio sia deflagrato nella città di Qom - sede di importanti scuole teologiche frequentate da studenti cinesi e di santuari islamici visitati da migliaia di fedeli - per poi raggiungere ogni angolo della nazione e del Medio Oriente in poche settimane. Ora la crisi economica galoppa. La Banca mondiale stima che già nel 2019 il Pil dell’Iran si fosse contratto di circa il 9 per cento rispetto a quello del 2018 in conseguenza delle sanzioni contro Teheran reintrodotte da Washington. Il Fondo monetario internazionale prevede un’ulteriore flessione, anno su anno, del 6 per cento a fine 2020. Ma la riduzione della crescita potrebbe essere ancora peggiore, aggravata dalla guerra dei prezzi del petrolio fra Paesi esportatori. In questo frangente, l’azione di Teheran segue due binari: il primo, che il Brookings institute ha battezzato della “Corona-diplomazia”, vede un battage diplomatico internazionale per ottenere l’alleggerimento delle restrizioni in vigore; il secondo, invece, più operativo, punta al rafforzamento della cooperazione con gli alleati asiatici. Ha dichiarato il rappresentante speciale russo a Teheran, Rustam Zhiganshin: “Nonostante le gravi restrizioni legate alla pandemia, il flusso di merci tra Russia e Iran continua, sia via terra che via mare”. E dopo il crollo dell’interscambio fra Iran e Cina nel primo trimestre 2020, in settimana Pechino ha annunciato la ripresa e il pieno sostegno “agli amici iraniani” contro virus e isolamento economico. Siria. Nella gola di al-Hota le fosse comuni con migliaia di corpi gettati lì dall’ISIS La Repubblica, 5 maggio 2020 Il dossier diffuso oggi da Human Rights Watch. Un luogo a 85 chilometri a Nord della città di Raqqa, dal 2013 al 2015 sotto il controllo dello stato islamico. In Siria rinvenute più di 20 fosse comuni. Il cosiddetto stato islamico (IS) ha usato una gola nel Nord-Est siriano come “discarica” per i corpi delle persone che aveva rapito o detenuto. Lo rende noto Human Rights Watch (Hrw) in un rapporto pubblicato oggi. Un’indagine dell’organizzazione umanitaria effettuata con un volo di droni nella gola, che imporrebbe alle autorità di proteggere il sito, rimuovere i resti umani e conservare le prove per i procedimenti penali contro gli assassini. L’IS ha controllato il territorio attorno alla gola di al-Hota - 85 chilometri a Nord della città di Raqqa - dal 2013 al 2015. In Siria sono state rinvenute più di 20 fosse comuni contenenti migliaia di corpi in aree precedentemente detenute dal gruppo armato. L’indagine di Human Rights Watch su al-Hota è stata anche realizzata con interviste a residenti locali, video registrati dall’IS, analisi di immagini satellitari e del drone nella gola, profonda 50 metri. Da bellissimo sito naturale a luogo di orrori. “La gola di Al-Hota, un tempo un bellissimo sito naturale, è diventata un luogo di orrore e resa dei conti - dice Sara Kayyali, ricercatrice siriana di Human Rights Watch - racconta ciò che è accaduto sia lì che presso altre fosse comuni in Siria. È cruciale per determinare cosa è successo alle migliaia di persone che l’IS ha sterminato e tenerne conto per perseguire i loro assassini”. L’area intorno ad al-Hota è attualmente controllata dall’esercito nazionale siriano, appoggiato dalla Turchia, mentre la città di Raqqa rimane sotto il controllo delle forze democratiche siriane a guida curda. Chiunque controlli la gola - è il richiamo perentorio di Human Rights Watch - ha l’obbligo di preservare il sito, identificare i dispersi e indagare sulle loro morti. Un video dell’IS che mostra i corpi gettati nella gola. Quando l’IS ha controllato l’area di Raqqa, i suoi membri hanno minacciato le persone di essere gettati ad al-Hota, hanno ricordato i residenti locali. Alcuni hanno detto di aver visto corpi sparsi lungo il bordo della gola. Un video, registrato dai miliziani tagliagole dell’IS, pubblicato su Facebook nel 2014, mostra un gruppo di uomini che gettano due corpi nella gola. Gli abiti degli uomini corrispondono a quelli indossati da due persone che sono mostrate in un altro video, sempre diffuso dall’IS. L’ispezione di al-Hota con un drone Parrot Anafi ha rivelato sei corpi galleggianti nell’acqua sul fondo. Considerato lo stato di decomposizione dei corpi, si ritiene che possano essere stati scaricati lì molto tempo dopo che l’IS aveva lasciato l’area. Le identità di quelle vittime e le loro cause di morte rimangono sconosciute. Molti corpi si trovano in fondo sott’acqua. Le mappe geologiche e un modello topografico 3D di al-Hota dalle immagini dei droni suggeriscono che la gola si fa più profonda di quanto il drone fosse in grado di vedere quindi, molto probabilmente, i resti umani si trovano sotto la superficie dell’acqua. Alcuni residenti locali hanno riferito di aver sentito parlare di altri gruppi armati antigovernativi che hanno gettato corpi di soldati governativi e combattenti della milizia filo-governativa in al-Hota, prima che l’IS controllasse l’area, sebbene nessuno di loro avesse visto questo da solo. Lo sforzo vacillante e incompleto di riesumare le vittime. Un rapporto di Human Rights Watch pubblicato nel febbraio 2020 documentava che l’IS aveva rapito e arrestato migliaia di persone durante il suo governo in Siria, giustiziandone molte. Tra i dispersi vi sono attivisti, operatori umanitari, giornalisti e combattenti anti-IS, appartenenti a diversi gruppi, oltre a residenti locali che si sono scontrati con il gruppo armato. Lo sforzo di riesumare le fosse comuni dell’IS è stato vacillante e incompleto, in parte a causa della fluida situazione della sicurezza. Con risorse limitate e un supporto esterno minimo, i gruppi locali, come il team dei primi soccorritori di Raqqa, hanno condotto riesumazioni parziali. I siti comunque non sono ancora protetti e non sono stati esaminati secondo le migliori pratiche internazionali. Nessuna squadra sta lavorando ad al-Hota o nella fossa, che è una zona attualmente sotto il controllo turco. Gli impossibili equilibri tra curdi e turchi. In una fase positiva, il 5 aprile scorso, il Syrian Democratic Council (DSC) - l’insieme di milizie a prevalenza curda e araba formatesi nelle aree della Siria nord-orientale (il cosiddetto Rojava) durante la guerra civile siriana, di fatto un’autorità civile responsabile delle aree che erano state controllate dall’IS - ha annunciato la creazione di un nuovo gruppo di lavoro, per aiutare a identificare cosa è realmente successo ai dispersi e alle persone rapite dall’IS. È tuttavia improbabile che la DSC, a guida curda, abbia accesso alle aree controllate dalla Turchia e dalle fazioni sostenute dalla Turchia. “Scene del crimine” da preservare e sgomberarle da trappoli inesplose. Secondo il dossier di Hrw, con il forte richiamo che contiene, la Turchia e l’Esercito nazionale siriano dovrebbero trattare al-Hota e le altre fosse comuni nell’area come “scene del crimine” e proteggere quei siti in modo che le prove potenziali non vengano distrutte. Dovrebbero garantire che al-Hota sia sgombrato da trappole esplosive e munizioni inesplose, in modo che gli esperti forensi possano scendere nella gola, localizzare e rimuovere i corpi e iniziare il minuzioso lavoro di identificazione. “Qualunque autorità controlli l’area di al-Hota è obbligata a proteggere e preservare il sito”, ha ribadito Kayyali. “Dovrebbero facilitare la raccolta di prove per ritenere i membri dell’IS responsabili dei loro orrendi crimini, così come quelli che hanno scaricato corpi ad al-Hota prima o dopo le regole imposte dall’IS”.