Carcere, idee per una Fase 2 di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 4 maggio 2020 Mentre come Volontariato cerchiamo di raccogliere le nostre proposte rispetto alla Fase 2, ci giunge la notizia che sono stati nominati un nuovo Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e un nuovo Vice Capo, tutti e due magistrati esponenti dell’Antimafia. Non abbiamo nessun pregiudizio sulle persone, siamo un Volontariato che lavora a fianco delle persone detenute per una tutela dei loro diritti, ma anche per stimolare una assunzione di responsabilità nei loro percorsi di risocializzazione, e da anni coinvolgiamo in questi percorsi famigliari delle vittime in un’ottica di Giustizia riparativa. Usando il rispetto verso gli “altri da noi”, che sempre è elemento fondante del nostro lavoro, ci permettiamo di sottolineare che a dirigere le carceri dovrebbero essere chiamate ANCHE persone competenti in materia di rieducazione, perché questo è il mandato costituzionale. Quindi chiediamo che, come in passato, in qualità di Vice Capo sia affiancata alle due figure già nominate un’altra figura che si occupi esclusivamente di percorsi di risocializzazione. Queste le nostre riflessioni sulla Fase 2, su cui chiediamo da subito di essere chiamati a un confronto e a una collaborazione costruttiva. I colloqui con i famigliari devono gradualmente riprendere Non è pensabile che le persone detenute non possano incontrare i loro famigliari “a tempo indeterminato” in attesa che si trovi il vaccino per il coronavirus, quindi l’Amministrazione è opportuno che cominci a pensare a misure per permettere una graduale ripresa dei colloqui: dal rafforzare il sistema delle prenotazioni telefoniche all’attrezzare meglio le aree verdi all’aumentare in modo consistente giorni e orari di colloquio, per poter ridurre i numeri e distanziare le persone (pensiamo con sgomento agli sgabelli in acciaio imbullonati al pavimento di Oristano…) al predisporre spazi di attesa più ampi (pensiamo alla stanzetta del carcere di Parma dove sono accatastate di solito decine di famigliari…). Questa emergenza almeno potrebbe costringere a ripensare gli spazi tristi degli affetti, il Volontariato ha sempre avuto una piattaforma articolata su questi temi ed è disponibile a dare senz’altro un contributo forte. Le tecnologie sono “entrate” per il virus, ora non devono più uscire La cosa più drammatica che potrebbe succedere nella fase 2 è che le tecnologie, entrate di prepotenza in carcere, anche per far fronte all’epidemia di rabbia che rischiava di diffondersi e inquinare le condizioni di vita già difficili, ne escano appena si tornerà a un po’ di normalità ripristinando i colloqui visivi. No, non si deve tornare indietro perché anche in condizioni “normali” i rapporti con le famiglie, le telefonate e i colloqui nel nostro Paese sono veramente una miseria. E ci sono persone detenute che non possono fare i colloqui visivi (lontananza, parenti anziani e malati...). Abbiamo visto detenuti piangere dopo aver parlato in videochiamata con un genitore che non vedevano da anni, non è pensabile che questa boccata di umanità a costo zero possa finire. E Skype, dove già c’era, non basta, è comunque uno strumento elitario. Riaprire al Volontariato significa riportare in carcere la funzione costituzionale della pena Di massima importanza risulta riaprire l’accesso ai volontari e agli operatori della società civile, che attraverso il loro impegno realizzano progetti, che costituiscono importanti percorsi di crescita per le persone detenute. Oggi sono ancora interrotti i corsi formativi finanziati dalle Regioni, anche con fondi europei (che rischiano di andare persi), e i progetti pensati e realizzati dal Volontariato, progetti che spesso permettono di maturare dei percorsi di crescita e di consapevolezza sul proprio ruolo all’interno della società e rappresentano l’essenza della funzione rieducativa/risocializzante della pena. I volontari, assieme ai familiari dei detenuti, sono state le prime persone “sacrificate” in nome della sicurezza sanitaria all’interno degli Istituti penitenziari, ma, come sta accadendo per il resto del territorio, anche all’interno delle carceri si deve pensare ad una fase 2. È quindi necessario reintrodurre una “vita sociale” nelle carceri riportando al loro interno la società civile attraverso delle corrette procedure di accesso al carcere a tutela dei volontari stessi, degli operatori e dei detenuti, tra cui l’utilizzo dei dispositivi individuali di protezione (mascherina, guanti e gel). Zoom, Meet, Skype, quando le Videoconferenze sono cibo per la mente Le attività scolastiche in videoconferenza sono state autorizzate anche nelle carceri, e stanno cominciando faticosamente a funzionare. Quella della videoconferenza è una modalità che potrebbe aprire grandi possibilità, soprattutto per ampliare gli spazi dello studio e dei percorsi rieducativi. In tanti oggi mettono le mani avanti dicendo che c’è il rischio che le tecnologie si sostituiscano alla presenza viva della società civile, il cui ruolo è fondamentale nelle carceri. Noi pensiamo che invece le videoconferenze possano essere un autentico arricchimento: mettere insieme per esempio, come si sta facendo a Padova, voci come quella di Fiammetta Borsellino, della figlia di un detenuto dell’Alta Sicurezza e di persone che hanno finito di scontare una pena, che dialogano con gli studenti, è una opportunità che deve coinvolgere stabilmente anche il carcere e le persone detenute: si tratta infatti di un’autentica rivoluzione culturale di enorme valore, che mette al centro le testimonianze dei detenuti e l’assunzione di responsabilità, cioè il cuore vero della rieducazione. Ma dà anche degli strumenti tecnologici fondamentali per il loro futuro alle persone rinchiuse, che non possono restare dei “senzatetto digitali”, se non vogliamo che il reinserimento diventi ogni giorno più difficile in una società, che le tecnologie le dovrà mettere sempre più al centro della sua vita. Quando il deserto rischia di essere sia “dentro” che “fuori” Il reinserimento significa anche accesso ai permessi premio e poi alle misure alternative. I permessi oggi sono bloccati, non possono rimanerlo ancora a lungo, se non vogliamo svuotare di senso e di speranza le pene. Devono essere attuati, nel rispetto della sicurezza sanitaria. Quanto alle misure alternative, se già era complicato prima avere una offerta di lavoro per accedervi, dopo, nella fase 2, diventerà una guerra tra poveri dove chi esce dal carcere avrà ancora meno opportunità. E “dentro” le persone si vedranno intrappolate, senza futuro, spaventate. Inoltre anche dentro è diminuita l’offerta di lavoro negli istituti dove era più alta grazie alle cooperative sociali, anch’esse ora come tutte le aziende sono in seria difficoltà, anche se dove sono presenti stanno lottando strenuamente per mantenere le attività. E anche per le famiglie, con la crisi economica che si sta profilando, sarà più difficile sostenere i propri cari detenuti. Ci vorrà allora il doppio di attenzione, anche rispetto al rischio di patologie come la depressione, da parte delle Istituzioni, ma anche di quel Volontariato che accoglie e sostiene i percorsi di reinserimento, e delle cooperative che sono più attrezzate per offrire opportunità lavorative a soggetti svantaggiati. Già abbiamo collaborato con il Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità sulla questione cruciale dell’accoglienza per chi può accedere a misure come la detenzione domiciliare, vogliamo continuare a farlo perché, nella difficile fase dell’uscita dal carcere, non vengano vanificati percorsi di reinserimento complessi, che richiedono attenzione e accompagnamento. La sentenza della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo non può essere “cancellata” Il coronavirus ha distrutto le nostre illusioni di vivere in un mondo in cui non ci siano malattie che non si possano sconfiggere. In questo quadro già desolante di per sé, in cui il sovraffollamento dovrebbe essere motivo di riflessione sui rischi che si corrono lì dove il distanziamento sociale non è possibile, si inserisce una polemica per detenzioni domiciliari concesse a detenuti in 41bis. Guardiamo il caso che ha creato più scandalo, quello di Francesco Bonura, un esponente di spicco della mafia. Ma davvero siamo messi così male, da vivere in uno Stato che ha paura di un uomo di 78 anni, con un tumore grave, cardiopatico, con ancora da scontare pochi mesi di carcere? una magistrata rispetta la legge e manda quest’uomo in detenzione domiciliare, usando gli strumenti che la legge le dà, non per l’emergenza coronavirus, ma perché semplicemente il diritto alla salute vale per tutti, anche per i criminali. Ricordiamo che le rivolte hanno comunque fatto emergere tanta disperazione, rabbia e morte, ma nessun vero disegno eversivo; e poi non c’è nessuna misura, fra quelle legate all’epidemia da coronavirus, che possa essere applicata in qualche modo alle persone in carcere per reati della criminalità organizzata. Dove c’è stata qualche scarcerazione, di qualche disperato con pesanti patologie, perché comunque anche un mafioso con un tumore gravissimo è un disperato, si è trattato di tutelare il diritto alla salute come vuole la nostra Costituzione. Ed è uno Stato forte quello che sa prendersi cura della salute di TUTTI, anche dei mafiosi. Insieme, a fianco dei Garanti Il Garante Nazionale e i Garanti regionali hanno avviato una prima riflessione sulle prospettive della fase 2. Ai Garanti allora proponiamo, come già abbiamo iniziato a fare nel Veneto, che il confronto avvenga anche con il Volontariato e le cooperative sociali, che chiedono di essere coinvolti da subito, perché è adesso che c’è bisogno che la società civile torni a essere presente capillarmente nelle carceri e nell’area penale esterna: questa deve essere non un’occasione per pensare di “fare da soli” ma un’opportunità per lavorare fianco a fianco, ognuno valorizzando la sua specificità. Vogliamo tornare a portare nelle carceri le nostre idee, le nostre risorse, la nostra capacità innovativa, e vogliamo contribuire con la nostra competenza a informare e sensibilizzare le persone “dentro” e la società “fuori”, bombardata da una informazione, spesso superficiale e imprecisa. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Lo Stato di Diritto deve valere anche per Caino di Roberto Saviano La Repubblica, 4 maggio 2020 Garantire la salute del detenuto è fondamentale: un carcere che non è democratico diventa immediatamente un carcere dove comandano le mafie. Nei giorni scorsi hanno generato scandalo e polemiche i domiciliari dati ad alcuni ex esponenti di clan camorristici e mafiosi tra questi Pasquale Zagaria, fratello di Michele Zagaria, Francesco Bonura, Vincenzino Iannazzo, il corleonese Pietro Pollichino ed altri ancora in conseguenza di condizioni di salute incompatibili con il regime carcerario. Se ne è discusso perché alle richieste dei magistrati di sorveglianza dal Dap non è arrivata alcuna risposta. I domiciliari hanno destato scandalo ma i magistrati hanno agito nel rispetto del diritto e quindi hanno realizzato l’atto antimafia più potente. Garantire la salute del detenuto, di qualunque detenuto, dall’ex boss al 41bis al detenuto ignoto, è fondamentale, è un atto che ha una efficacia antimafia immediatamente misurabile perché un carcere che non è democratico, diventa immediatamente un carcere dove comandano le mafie. Dove non essere picchiato, abusato, ricevere pacchi, avere una cella più decente diventano concessioni dei boss. Un carcere dove i diritti sono rispettati tutto questo lo disinnesca e impedisce. Senza dubbio i boss non dovevano essere scarcerati, ma andavano curati in sicurezza in altre strutture carcerarie e lo Stato doveva mostrarsi pronto a dare risposte, senza temporeggiare o latitare. Quando i diritti iniziano ad essere ignorati nelle carceri pensiamo che a pagarne le conseguenze in fondo siano categorie umane schifose che non meritano nessuna cura, peggio per loro, le bestie, gli assassini, i mafiosi. Ragionando così vincono le persone oneste? Tutt’altro, sono proprio i clan a vincere che in questo modo ribadiscono che solo con il potere dell’intimidazione, della corruzione ci si impone, ci si difende e ci si fa largo. I detenuti, e quindi anche i boss vanno curati non perché siamo caritatevoli o filantropi, anzi al contrario perché il diritto garantito ai detenuti ci salva dalla discrezionalità del potere in ogni altro ambito, dall’essere salvati o dannati a seconda dell’etnia, della classe sociale, dell’appartenenza politica. Il diritto ci garantisce la libertà e la dignità ciò significa che rispettare la salute dei detenuti comporta una maggiore garanzia per i nostri stessi diritti che non saranno violati in nome di antipatia, interesse politico, una sicurezza insomma che lo Stato non sia un’entità che si muove per emotività e consenso. “Dove c’è strage di diritto c’è strage di popoli”, diceva Marco Pannella, che lo scorso 2 maggio avrebbe compiuto 90 anni. E con questo intendeva dire che dove il diritto diventa un privilegio, allora i problemi li ha non solo chi chiede, pretende o ha bisogno di quel determinato diritto, ma tutti i cittadini. Sarebbe importante che, durante gli ultimi anni delle scuole superiori, gli studenti potessero avere rapporti con le carceri, far visita alle carceri, parlare con i detenuti, con le guardie penitenziarie, con psicologi ed educatori. Sarebbe importante che il mondo di fuori avesse consapevolezza di cosa e di chi si muove nel mondo di dentro. Sarebbe un modo non solo per accorciare le distanze, ma anche per toccare con mano l’umanità che popola le carceri che è fatta di detenuti, ma non solo. Che è fatta di tutte quelle persone e quelle professionalità che in carcere lavorano in condizioni difficilissime. Perché se le carceri non funzionano per i 55.036 detenuti (dati forniti dal Dap), non funzionano nemmeno per il personale penitenziario, che sono persone, oltre 30 mila persone, che condividono un dramma quotidiano fatto di sovraffollamento, di strutture fatiscenti, di carenza di cure e oggi, in epoca di pandemia, di impossibilità di incontrare i propri familiari e di paura, paura aumentata dalle difficoltà a poter applicare il distanziamento sociale. Ma chi si interessa di carceri non sarà per caso affetto da una strana forma di buonismo? Al contrario: carceri che funzionano e che rispettano i diritti dei detenuti, sono carceri da cui, scontata la pena, usciranno individui in grado di reinserirsi nella comunità le cui regole avevano infranto. Individui che torneranno a delinquere con una incidenza minore rendendo le vite di tutti noi più sicure. Ogni volta che si afferma: “Ma che ci importa di questa gente che bisogna chiudere dentro e buttare la chiave, rispettiamo invece gli onesti” si sta spingendo un detenuto all’affiliazione, si sta votando quindi per la propria insicurezza sociale. Ma come spesso accade a prevalere è la polemica, la polemica che tutto sommerge sotto strepiti e urla scomposte. La polemica che culmina con le dimissioni del direttore del Dap. Polemica che culmina con il Decreto Bonafede, approvato il 29 aprile dal Consiglio dei ministri, secondo cui per i delitti più gravi, inclusi quelli di mafia, i magistrati di sorveglianza dovranno chiedere l’autorizzazione ai magistrati della procura della città dove è stata emessa la sentenza e la risposta deve pervenire entro 30 giorni anche se, come è evidente, nei casi in discussione 30 giorni sarebbero stati davvero troppi. La differenza vera tra le organizzazioni criminali e la politica è che la politica si occupa del domani più prossimo mentre le mafie ragionano per ere. Le mafie ragionano per ere significa che i boss sanno perfettamente che le loro azioni daranno i frutti più duraturi nel lungo, lunghissimo periodo. Le mafie ragionano per ere significa che quello che paga un affiliato in termini di latitanza, carcere o anche morte oggi, sarà la forza delle generazioni future in termini di potere, denaro e influenza. Il buon funzionamento delle carceri è la misura del buon funzionamento del sistema-paese nel suo complesso; quando vi diranno che le carceri non sono una priorità e che le condizioni dei detenuti vengono dopo ciò che accade fuori, sappiate che non solo non sarete voi la prossima priorità, ma con quelle parole - che sembrano semplici e suonano bene - stanno ipotecando la nostra sicurezza negli anni a venire. Quei boss usciti di cella: esagerazioni e paradossi di Mario Chiavario Avvenire, 4 maggio 2020 Nel “Cura Italia” il nullaosta alla libera uscita di un bel numero di pericolosi boss mafiosi? È bene non fare di ogni erba un fascio. Infatti, le scarcerazioni di cui si parla - e ci si riferisce in particolare a taluni trasferimenti in detenzione domiciliare - risultano per lo più motivate a prescindere dalle norme contenute in quel decreto e dirette ad arginare la diffusione del contagio negli istituti penitenziari. Eppure qualche specifica vicenda appare, a dir poco, paradossale. E proprio dal punto di vista della tutela della salute individuale e collettiva, a cominciare da quella del detenuto sottratto al totale isolamento personale in cui si trovava all’interno di una struttura di massima sicurezza per essere portato, all’altro capo della Penisola, in un’abitazione situata nel bel mezzo di una “zona rossa”. Giusto, d’altronde, accertare eventuali responsabilità per quelle che, tra le concessioni, fossero dovute a leggerezza o peggio. Lecita, però, e già in parte delusa, la speranza di non vedere quest’esigenza liquidata in fretta mediante qualche atto di dimissioni o travolta da polemiche politiche di schieramento. Comprensibili, piuttosto, l’amarezza dei familiari di vittime di crimini crudeli e i timori dell’opinione pubblica per possibili pericoli per la sicurezza collettiva che potessero venire da quelle scarcerazioni. Coronavirus o no, sembra dunque avere qualche buon motivo la decisione governativa di rendere obbligatorio il parere della Procura nazionale antimafia quando la detenzione domiciliare sia chiesta da detenuti sottoposti al cosiddetto “regime 41-bis”. E ciò, in analogia con l’indicazione venuta qualche mese fa dalla Corte costituzionale a essenziale contrappeso della cancellazione dell’inderogabilità dell’ergastolo “ostativo” (ossia del divieto assoluto di permessi di uscita dal carcere per chi a quel regime fosse assoggettato). Ricapitoliamo, allora. Non può essere discusso che in via di principio spetti, come spetta, alla magistratura di sorveglianza - la più idonea a valutare la condotta dei reclusi - decidere ogni alleggerimento, sospensione o cessazione della detenzione di una persona; ma quando i precedenti di tale persona configurino rischi connessi alla possibilità del permanere di legami più o meno intensi con la criminalità organizzata, è bene che quantomeno si ascolti chi ne sa di più (sebbene appaia eccessivo il termine di quindici giorni durante il quale la decisione dovrà ora rimanere sospesa in attesa della risposta della Procura). Cautela, insomma. Senza cedere, però, come società civile, alle suggestioni del “devono marcire in galera” e del “buttare la chiave”: slogan contrari all’articolo 27 della nostra Costituzione (che condanna le pene inumane e le vuole invece tendenti alla rieducazione) ma inaccettabili, si può ben aggiungere, anche per chi cerchi di prendere sul serio il Vangelo. Di qui, almeno due conseguenze. Da un lato, anche al più pericoloso criminale va sempre garantito un adeguato trattamento preventivo e curativo di malattie, personali o epidemiche; e non può essere che non si trovi tempestivamente una soluzione umana all’interno del circuito carcerario nei casi estremi in cui, nonostante la gravità delle condizioni di salute della persona, la protezione della sicurezza collettiva impedisce che della reclusione si faccia a meno. D’altro lato, abusi, veri o presunti, a favore dei boss non devono servire da pretesti per radicali dietrofront rispetto alle misure adottate, in via generale, per bloccare la diffusione del contagio tra detenuti e tra lo stesso personale penitenziario o per ritardare ulteriormente il concreto potenziamento del “normale” sistema di misure alternative al carcere. Tra le due cose, del resto, c’è un nesso abbastanza evidente. Perché meno persone ci sono in prigione, minor difficoltà ci dovrebbe essere nel prendere opportune misure di tutela della salute per chi in prigione è purtroppo necessario che ci rimanga. Che poi, pure per chi non è mafioso, la scarcerazione anticipata non debba significare licenza per recidive, e vi sia pertanto l’esigenza di cautele proporzionate ai rischi, e poi di controlli, è - dovrebbe essere - altrettanto chiaro. A tutti. Coronavirus, il ministro Bonafede: “Stiamo lavorando per ripresa colloqui in carcere” Il Fatto Quotidiano, 4 maggio 2020 “Dobbiamo cercare di creare degli spazi per gli incontri in condizioni di sicurezza lavoriamo con monitoraggio e prospettiva” ha detto il Guardasigilli margine della presentazione dei nuovi operatori socio-sanitari che saranno in servizio negli istituti penitenziari. Quando a marzo in diverse carceri italiane diversi detenuti crearono disordini e furono registrate rivolte si ipotizzò che tra le cause ci fosse anche la sospensione dei colloqui con i familiari. Ora quel divieto, deciso per evitare l’esplosione dei contagi negli istituti penitenziari, potrebbe essere rimosso a breve. “Stiamo lavorando per cercare di ripristinare gradualmente i colloqui in carcere”, forse già dal 18 maggio, ha detto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, a margine della presentazione dei nuovi operatori socio-sanitari che saranno in servizio nelle carceri. “Dobbiamo cercare di creare degli spazi per gli incontri in condizioni di sicurezza - ha aggiunto il ministro - lavoriamo con monitoraggio e prospettiva”. Negli istituti “ci sono tensioni, stiamo cercando di dare una risposta pronta”. I contagi sarebbero comunque “bassi”, circa 150 in tutto il Paese. La situazione sanitaria nelle carceri, fino ad ora, è sotto controllo” spiega il Guardasigilli che ha nominato i nuovi vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria scegliendo due magistrati antimafia. “La situazione sanitaria nelle carceri è gestita per fare tutto il possibile. Ci sono stati pochi decessi. Ma ogni persona morta per Covid per noi non è un numero ma è una persona, a partire dai due agenti di polizia penitenziaria e tre detenuti deceduti. Stiamo facendo il massimo - ha aggiunto Bonafede - Stiamo lavorando tutti insieme per cercare di affrontare questa emergenza anche in un contesto difficile come quello del carcere. C’è stato un lavoro delle istituzioni e da questo punto di vista sono orgoglioso di quello che stiamo facendo per il Paese”. Agli operatori sanitari Bonafede ha detto che “la vostra risposta al bando è stata una risposta di grande solidarietà. È stata una risposta molto importante, ci dice che in questo momento ci sono tante persone pronte a dare un contributo anche nelle realtà più difficili fra le quali, ci sono le carceri. Mi spiace non potervi stringere la mano. Ma stiamo imparando in questa emergenza a rispettare le regole come il distanziamento nei limiti del possibile, con tutte le precauzioni. Oggi più che mai rispettare le Regole vuol dire proteggere la salute degli altri e la nostra”. Il ministro ha smentito la notizia di tensioni a Rebibbia: “Non c’è alcuna rivolta la notizia era infondata”, spiegando che si tratterebbe di un episodio isolato, che ha coinvolto una ventina di persone. “Sulle carceri sono state diffuse menzogne, a cominciare dal fatto che si è detto che i mafiosi stanno uscendo dal carcere”. Bonafede ha precisato che per la concessione dei domiciliari a detenuti per reati di mafia, “è necessario il parere del Procuratore nazionale antimafia e di quello distrettuale. Da ministro della Giustizia ho firmato per nuove applicazioni e proroghe 686 provvedimenti sotto 41bis”. Sulle scarcerazioni, ha spiegato, “c’è autonomia e indipendenza della magistratura”, mentre “il ministro può portare avanti delle leggi” generali e “ha attività di accertamento”. Di Matteo: “Io chiamato al Dap, ma poi Bonafede non mi ha voluto” Corriere della Sera, 4 maggio 2020 La replica: “Sono esterrefatto”. Il magistrato antimafia, ora consigliere al Csm, ha anche fatto riferimento ad alcune intercettazioni di colloqui tra i boss che manifestavano timori per il suo arrivo. “Bonafede mi chiese se ero disponibile ad accettare il ruolo di capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria o, in alternativa, quello di direttore generale degli affari penali. Chiesi 48 ore di tempo per dare una risposta”, ma “quando ritornai, avendo deciso di accettare la nomina a capo del Dap, il ministro mi disse che ci aveva ripensato e nel frattempo avevano pensato di nominare Basentini (poi dimessosi, ndr)”. È quanto ha raccontato il magistrato Nino Di Matteo in una telefonata in diretta durante la trasmissione “Non è l’Arena” su La7, condotta da Massimo Giletti. Il magistrato antimafia, ora consigliere al Csm, ha anche fatto riferimento ad alcune intercettazioni di colloqui tra i boss che manifestavano timori per il suo arrivo. “Alla fine dell’incontro mi pare che fossimo d’accordo” - Poco dopo è intervenuto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e ha replicato: “Sono esterrefatto nell’apprendere che viene data un’informazione che può essere grave per i cittadini, nella misura in cui si lascia trapelare un fatto sbagliato, cioè che la mia scelta di proporre a Di Matteo il ruolo importante all’interno del ministero sia stata una scelta rispetto alla quale sarei andato indietro perché avevo saputo di intercettazioni. Gli ho parlato della possibilità di fargli ricoprire uno dei due ruoli di cui ha parlato lui, gli dissi che tra i due ruoli per me era più importante quello di direttore degli affari penali, più di frontiera nella lotta alla mafia ed era stato il ruolo ricoperto da Giovani Falcone. Alla fine dell’incontro mi pare che fossimo d’accordo, tanto che il giorno dopo lui mi chiese un colloquio e mi spiegò che non poteva accettare perché voleva ricoprire il ruolo di capo del Dap”. “Le intercettazioni erano già state pubblicate” - Il Guardasigilli ha poi negato timori per reazioni dei boss affermando che “quando gli feci la proposta, le intercettazioni erano già state pubblicate. Ne parlai con lui durante la nostra prima telefonata”. Gherardo Colombo spiega perché il carcere è da abolire di Nicola Mirenzi huffingtonpost.it, 4 maggio 2020 Intervista all’ex magistrato: “La prigione oggi è disumana e incoerente con la Costituzione; ed educa a ubbidire e non a ragionare. A un certo punto l’idea di mandare in galera una persona è diventata un tormento”. A un certo punto, è diventata insopportabile: “L’idea di mandare in galera una persona mi tormentava, mettendomi davanti a interrogativi insolubili e angosciosi. Ho cominciato a pensare che il carcere non fosse più compatibile con il mio senso della giustizia, la mia concezione della dignità umana, la mia interpretazione della Costituzione. Più che pensare, in realtà sentivo: sentivo tutta l’ingiustizia della prigione. Era ormai intollerabile. Perciò, dopo anni passati a pensarci, ne ho tratto tutte le conseguenze”. Gherardo Colombo si è dimesso dalla magistratura nel marzo del 2007, dopo trentatré anni di servizio, prima come giudice, poi come pubblico ministero di inchieste celebri (la Loggia P2, il delitto Ambrosoli, i fondi neri dell’Iri, Mani Pulite), infine come giudice della corte di Cassazione. La sua conversione è cominciata molti anni fa, presentandosi sotto la forma di una ritrosia: “Ho chiesto l’ergastolo una sola volta nella mia vita. E quando ho saputo che il giudice l’aveva rifiutato, ho tirato un sospiro di sollievo. Ero felice che non mi avesse ascoltato”. Oggi, dopo numerose letture e altrettante riflessioni, è arrivato a una conclusione radicale: “Ritengo il carcere, così com’è, non in coerenza con la Costituzione. L’articolo 27 della Costituzione dice che ‘le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità’. Eppure, basta mettere piede in qualsiasi penitenziario italiano, salvo rare e parziali eccezioni, per rendersi conto che le condizioni in cui vivono i detenuti lo contraddicono scandalosamente”. Il pensiero di Colombo sull’argomento è racchiuso in un libro da poco aggiornato e ripubblicato, “Il perdono responsabile. Perché il carcere non serve a nulla” (Ponte alle Grazie). Nel quale ricostruisce il concetto di pena che si è affermato nelle società occidentali. Racconta la possibilità dischiusa e non esplorata di un’altra idea di giustizia, presente già nell’Antico Testamento e, ancora di più, nel Nuovo. E che poi è simile a quella che risuona nella Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo e nella nostra Carta costituzionale, ed è un invito alla trasformazione: “Il carcere così com’è oggi, in Italia, è da abolire. Non faccio nessuna fatica a dirlo. Conosco l’obiezione e perciò aggiungo: abolire il carcere non significa lasciare chi è pericoloso libero di fare del male agli altri”. Com’è possibile conciliare le due cose? È possibile mettendo le persone pericolose nella condizione di non esercitare la propria pericolosità. Adottando misure che limitino la loro libertà, ma garantendo il loro diritto allo spazio vitale, alla salute, alla dignità, all’affettività. Andando il più possibile verso misure alternative al carcere. È realistico? Nemmeno io riuscivo a concepire una società senza la pena del carcere, quando ho iniziato a fare il magistrato. Credevo che la pena, inflitta rispettando tutte le garanzie del condannato, avesse una forza educativa. Non sbagliavo. Semplicemente, non mi ero mai chiesto a cosa educasse. E a cosa educa? In una società senza perdono, la pena educa solo a obbedire. Insegna a rispettare le regole dicendo che non rispettarle costa molto caro. Anziché mostrare che la regola risponde a un principio di ragione. Lei quando ha cominciato a dubitare? All’inizio facevo il giudice di dibattimento. Mi occupavo di sequestri di persona, reati puniti con pene molto alte. L’idea di doverle infliggere mi metteva a disagio. Dopo tre anni, infatti, chiesi di essere trasferito all’ufficio istruzione. Quantomeno, per allontanare da me l’obbligo di mandare in carcere un’altra persona. Come andò? Credevo che fare le inchieste, rivelare cosa c’era dietro il delitto Ambrosoli, le trame della P2, i fondi neri per l’Iri, nonché le tangenti di Mani Pulite, sarebbe servito ai cittadini per esercitare meglio la democrazia, per aiutarli a scegliere con più consapevolezza. Non fu così. Nemmeno dopo aver scoperto le malefatte peggiori successe niente. Ma come? Tangentopoli fu un terremoto politico. Ma finì perché lo decisero i cittadini. La maggior parte di essi preferì continuare a vivere dentro un humus impregnato dalla corruzione, che in uno incentrato sul rispetto delle regole. Che conclusioni ne trasse? Che le inchieste non assolvevano al compito che gli attribuivo, così come l’idea della pena non corrispondeva a quella che avevo studiato all’università. Perché rimase nella magistratura? Perché il mio percorso - la mia “conversione” - non era ancora completato. In quegli anni, cominciai a leggere Eugen Wienset, un gesuita tedesco che aveva reinterpretato l’idea della pena nelle Sacre scritture. Sosteneva che nei testi biblici esiste un’idea della giustizia non retributiva. Ossia, una concezione della giustizia che non ripaga il male del delitto con il male della punizione, ma punta alla riconciliazione di chi ha sbagliato con la comunità, attraverso il perdono. La conquistò? Mi guidò a sciogliere un nodo che era rimasto irrisolto nella mia vita. Il problema di come relazionarmi con le persone che avevano ucciso miei colleghi, alcuni di essi molto cari. Chi? Il giudice Guido Galli, in particolare. Prima Linea lo uccise nel 1980. Lo avevo incontrato la mattina. Nel pomeriggio, lo assassinarono nel corridoio dell’Università Statale, sparandogli tre colpi di pistola. Furono anni molto dolorosi. Molti magistrati morirono ammazzati. I loro panni erano i miei. Eppure, nonostante l’immenso dolore faticavo a considerare la pena per chi li aveva uccisi utile e giusta. Non è quello che dice la Costituzione? Sono convinto che oggi, dopo l’esperienza dei gulag, i padri costituenti non userebbero più la parola rieducazione per definire il fine della pena. Lo spirito della Costituzione è informato da una concezione che supera l’idea dell’obbedienza. La persona che la nostra Carta vuole formare è un cittadino adulto, responsabile, dotato di spirito critico e discernimento. Sono i presupposti della democrazia. Il carcere va nella direzione opposta. Insegna a sottomettersi all’autorità. Per questo è incompatibile con la Costituzione. Su cosa si baserebbe una società senza carcere? Sull’idea del recupero della relazione con chi commette il reato. Senza la disponibilità a ri-accogliere nella collettività chi ha sbagliato, il tessuto sociale strappato dalla trasgressione della norma non si ricucirà mai. Questo significa il perdono: recuperare il rapporto. Non cancellare il male che è stato fatto. Riconoscendo il dolore della vittima e, per quanto possibile, riparandolo. Fermo restando, lo ripeto, che è necessario mettere chi può fare del male agli altri nelle condizioni di non farlo. Si può imporre il perdono per legge? Non si tratta di cambiare una legge: si tratta di cambiare una cultura, un’educazione, di introdurre trasformazioni politiche, sociali, economiche. Non è troppo augurarsi la palingenesi? Cos’altro propone la Costituzione, se non questo? È la Costituzione che prevede, per esempio, che tutti possano accedere all’istruzione, aver garantita la propria salute, ricevere una retribuzione dignitosa. Tutto sta nel modo in cui la si concepisce. Un monumento da celebrare o un programma da attuare? Per me è la seconda. Lei è cristiano? Sono cristiano filosoficamente, mentre teologicamente ho un problema che qui è superfluo considerare: credere o non credere a Dio. Che significa? Che mi riconosco completamente in molti passi del Vangelo. In particolare nel discorso della Montagna, così come lo riporta il testo di Matteo: là dove Gesù rifiuta la legge dell’occhio per occhio dente per dente e parla di una giustizia completamente diversa. E però si conclude dicendo: “Siate perfetti”... E allora? Lei che ha scritto un libro sul Grande Inquisitore di Dostoevskij sa che a Cristo rimprovera proprio questo: non si può chiedere agli uomini di essere perfetti... È vero che gli esseri umani sono un miscuglio di contraddizioni e debolezze che fanno fatica a stare insieme. Il Grande Inquisitore conosce bene la natura umana, sa che l’uomo è fragile, che la libertà inquieta. Eppure qual è la sua soluzione? Dominare gli uomini. Indurli a deporre ai suoi piedi la libertà e offrirgli in cambio una custodia. Mantenendoli bambini, bisognosi di chinare la testa. Insegnandogli solo a obbedire. È quello che fa il carcere. Ecco perché è necessario abolirlo. Coronavirus, nelle carceri arrivano 1.000 operatori sanitari La Repubblica, 4 maggio 2020 Mille nuovi operatori sanitari per le carceri italiane. È il piano messo in campo dal governo, in collaborazione con la Protezione Civile, per garantire maggior sicurezza sanitaria negli istituti penitenziari. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, quello degli Affari Regionali, Francesco Boccia, e il capo della Protezione Civile, Angelo Borrelli, hanno accolto questa mattina a Rebibbia una delegazione dei nuovi operatori sanitari. “Questa risposta di solidarietà è la dimostrazione che ci sono tante persone a disposizione anche nelle realtà difficili come le carceri - ha detto il Guardasigilli. Dopo aver adottato le misure di contrasto al coronavirus, abbiamo deciso di cercare di dare un contributo in più. La prima risposta è con questo vostro contributo che ci consentirà di gestire ancora meglio la situazione sanitaria all’interno delle carceri arrivando anche nelle situazioni più difficili”. Si tratta di 998 nuovi operatori, che saranno distribuiti nelle diverse case circondariali. “Non escludiamo di utilizzarli ancora sempre su base volontaria - ha aggiunto Boccia -. Se avremo sconfitto il Covid-19 potremmo utilizzare questo modello per altre emergenze, altrimenti non escludiamo di rinnovare questo impegno. Con voi qui ci sentiamo più forti”. Bonafede: “Ringrazio gli operatori sanitari per la risposta di solidarietà” di Gianni Parlatore gnewsonline.it, 4 maggio 2020 “La vostra risposta al bando è stata una risposta di grande solidarietà, una risposta importante che ci dice che in questo momento ci sono tante persone pronte a dare un contributo anche nelle realtà più difficili fra cui ci sono le carceri. Mi spiace non potervi stringere la mano. Ma stiamo imparando in questa emergenza a rispettare le regole come il distanziamento nei limiti del possibile, con tutte le precauzioni. Oggi più che mai rispettare le regole vuol dire proteggere la salute degli altri e la nostra”. Con queste parole il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede si è rivolto ai 62 operatori socio-sanitari che si apprestano a entrare in servizio negli istituti penitenziari per adulti e minorili del Lazio. Si tratta di una parte del contingente di circa 1.000 operatori selezionati con il bando della Protezione civile in collaborazione con i ministeri della Giustizia, della Salute e degli Affari regionali. Lavoreranno nelle carceri italiane fino al 31 luglio, aiutando il personale sanitario. “Avrete la possibilità - ha proseguito Bonafede - di lavorare a fianco degli agenti della Polizia penitenziaria e del personale medico che lavorano dentro le carceri che sono dei veri e propri servitori dello Stato”. Nel corso della presentazione svoltasi stamane a Roma, alla presenza anche del ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia e al capo della Protezione Civile Angelo Borrelli, nell’area esterna della Casa circondariale di Rebibbia Nuovo complesso, il Guardasigilli ha ricordato l’importanza della collaborazione interistituzionale per superare la grave crisi che il Paese sta vivendo: “Stiamo lavorando tutti insieme per cercare di affrontare questa emergenza anche in un contesto difficile come quello del carcere. C’è stato un lavoro delle istituzioni e da questo punto di vista sono orgoglioso di quello che stiamo facendo per il Paese. Stiamo facendo il massimo per tutelare chi lavora e chi vive nelle carceri”. Carceri e Covid 19. Bonafede si nasconde dietro ai nuovi operatori socio-sanitari di Giancarlo Cavalleri farodiroma.it, 4 maggio 2020 Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha voluto accogliere oggi personalmente i 62 neo assunti operatori socio-sanitari che già da domani presteranno la propria attività presso gli istituti penitenziari per adulti e le strutture minorili del Lazio, nel tentativo di alleggerire l’emergenza Covid 19 che ovviamente ha messo in crisi un sistema caratterizzato da sovraffollamento e promiscuità come quello carcerario, che troverebbe sollievo solo nell’applicazione intelligente delle misure alternative almeno nella misura sufficiente a far rientrare il tasso di occupazione delle celle negli standard previsti. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, al 29 febbraio (dato più aggiornato) in Italia i detenuti erano 61.230, a fronte di una capienza regolamentare delle carceri pari a 50.931 posti. Alla fine dello scorso anno, al 31 dicembre 2019, i detenuti erano 60.769. Il numero è progressivamente aumentato dal 31 dicembre 2015, quando erano calati a 52.164, ed è il più alto dal 2013, quando al 31 dicembre erano 62.356. “Stiamo lavorando tutti insieme per cercare di affrontare questa emergenza anche in un contesto difficile come quello del carcere. C’è stato un lavoro delle istituzioni e da questo punto di vista sono orgoglioso di quello che stiamo facendo per il Paese, in una situazione già difficile come quella delle carceri”, ha detto il ministro a margine dell’incontro di benvenuto ai nuovi operatori socio-sanitari, presenti anche il ministro degli Affari Regionali Francesco Boccia e il capo della Protezione Civile Angelo Borrelli. Una cerimonia organizzata al carcere di Rebibbia ed aperta ai giornalisti, nella speranza di far sembrare il mondo carcerario una “casa di vetro”, tentativo tuttavia disperato dopo le morti misteriose dei primi giorni di marzo, nel contesto di una protesta che Bonafede stesso aveva derubricato ad “atti criminali” che sono stati portati avanti “da almeno 6000 detenuti su tutto il territorio nazionale”. “Oltre 40 - aveva detto in Senato il ministro - i feriti della polizia penitenziaria cui va tutta la mia vicinanza e l’augurio di pronta guarigione. E purtroppo 12 i morti tra i detenuti per cause che, dai primi rilievi, sembrano perlopiù riconducibili ad abuso di sostanze sottratte alle infermerie durante i disordini”. Tutto qui, nemmeno un chiarimento su quella che è stata una strage che non ha precedenti. Certo erano ragazzi poveri, sembra fossero tutti tunisini, forse pusher… Ma un paese civile non può accontentarsi di un “perlopiù” come spiegazioni di un fatto gravissimo e senza precedenti come la morte di 12 ragazzi in carcere. È inaccettabile. “Non sono al corrente di nessuna rivolta nel carcere di Rebibbia”, ha ripetuto anche oggi con la stessa logica Bonafede aggiungendo: “Sulle carceri sono state diffuse menzogne, a cominciare dal fatto che si è detto che i mafiosi stanno uscendo”. Sarà… certo è che Bonafede non ha respinto nei giorni scorsi le dimissioni del capo del dipartimento penitenziario, Francesco Basentini. Che allo stesso ministro, durante l’incontro, avrebbe detto: “Le polemiche di questi giorni sono strumentali e totalmente infondate, ma fanno male al dipartimento”. In ogni caso la stampa, sempre alquanto pilotata e distratta in materia, ha attribuito una spiegazione alle dimissioni di Basentini, ovvero collegandole alle scarcerazioni di boss mafiosi considerate inopportune. Dimenticando che i provvedimenti giudiziari attengono ai magistrati dei tribunali delle esecuzioni penali e ai giudici di sorveglianza e non certo all’Amministrazione. In ogni caso Bonafede ha presentato come un grande successo le decisioni prese in materia delle carceri durante l’emergenza coronavirus. “Adesso uno sforzo in più: abbiamo deciso, con una sinergia importantissima tra il ministero della Giustizia, la Protezione Civile, il ministro Boccia e quello della Salute Speranza”. I 62 operatori socio-sanitari fanno parte della task force dei mille operatori selezionati con il bando emanato dalla Protezione civile di concerto con i ministeri della Giustizia, della Salute e degli Affari regionali e che opererà nelle carceri italiane fino al 31 luglio 2020 in ausilio al personale sanitario. Il carcere, le polemiche in tv. Che fine ha fatto la separazione dei poteri? di Enzo Spiezia ottopagine.it, 4 maggio 2020 In quanti Paesi è possibile uno scontro telefonico in tv tra un ministro ed un magistrato, tra un rappresentante del potere esecutivo ed uno di quello giudiziario? In Italia certamente. È andato in scena nella tarda serata di ieri durante la trasmissione di La7 condotta da Massimo Giletti, mentre gli animi si erano surriscaldati per il caso di Pasquale Zagaria, dal 41 bis ai domiciliari, fino a settembre, perché gravemente malato. Una vicenda che ha fatto scalpore per il rimpallo di responsabilità tra il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ed il Tribunale di sorveglianza di Sassari. Il colpo di scena è arrivato all’improvviso, restituito dalla telefonata del pm antimafia e componente del Csm, Nino Di Matteo, che ha ricordato di essere stato invitato nel giugno 2018 dal titolare del dicastero di va Arenula, Alfonso Bonafede, a scegliere tra la carica di direttore del Dap o del Dipartimento degli affari penali. Di Matteo ha spiegato di aver ricevuto una telefonata e di essere andato a Roma il giorno dopo per accettare il primo incarico, ma di aver incrociato, a sorpresa, il dietrofront di Bonafede, che lo aveva invitato a ricoprire la seconda funzione. Il magistrato ha anche sottolineato il contenuto di alcune intercettazioni in carcere nel corso delle quali alcuni detenuti si sarebbero mostrati preoccupati per la soluzione che lo avrebbe visto al vertice dell’amministrazione penitenziaria. Parole che hanno lasciato di stucco gli ospiti presenti in studio, tra i quali l’ex guardasigilli Claudio Martelli, alle quali sono seguite, dopo alcuni minuti, quelle dello stesso Bonafede, che ha offerto la sua versione senza però riferire i motivi che l’avrebbero ispirata. All’epoca, infatti, aveva nominato come capo delle carceri il dirigente che qualche giorno fa si è dimesso per la storia di Zagaria. Fin qui la ricostruzione di ciò che è rimbalzato attraverso gli schermi all’attenzione dell’opinione pubblica: un episodio che dovrebbe riproporre il tema della separazione tra i poteri dello Stato. Ma non servirebbe in un Paese come l’Italia, devastato da anni di populismo giustizialista. Ah, dimenticavo: nelle carceri ci sono 60mila detenuti, solo 1000 al regime del 41 bis. Giustizia, una cabina di regia per la ripresa delle attività Il Messaggero, 4 maggio 2020 Una cabina di regia anche per la ripresa della giustizia. “Nelle prime settimane e nei primi mesi successivi alla cessazione del lockdown sociale (4 maggio) e giudiziario (11 maggio), serve un radicale ripensamento dell’organizzazione del lavoro, della logistica degli spazi di lavoro e delle dinamiche di movimento all’interno degli Uffici”. Una circolare appena uscita del capo dipartimento del Ministero della Giustizia Barbara Fabbrini, ripensa completamente la vita nel mondo giudiziario, fornendo una sorta di “cassetta degli attrezzi”, cui attenersi attraverso il varo di linee guida. E il protocollo di interlocuzione istituzionale, specie nelle sedi più grandi, è funzionale a un raccordo rispetto alle “divergenti indicazioni in sede regionale, spesso più restrittive di quelle nazionali che consigliano un serio confronto con l’Autorità sanitaria locale”. Nella prima fase di avvio della fase 2, sono prescritte: limitazione dell’accesso del pubblico agli uffici giudiziari, salvo che per le attività urgenti; limitazione dell’orario di apertura al pubblico degli uffici; regolamentazione dell’accesso ai servizi, previa prenotazione, anche tramite mezzi di comunicazione telefonica o telematica. Previste misure logistiche con percorsi dell’utenza, differenziando entrata e uscita, chiudendo alcuni accessi. Necessario provvedere al distanziamento sociale, anche attraverso una rimodulazione degli spazi di lavoro con uso di mascherine e guanti. Nei termini in cui sarà possibile la giustizia vuol proseguire con il lavoro agile, combinandolo con orari flessibili, turnazioni, orari multi-periodali, rotazione dei servizi. Via al processo telematico se non indebolisce i diritti di Isidoro Trovato Corriere della Sera, 4 maggio 2020 La sua applicazione nei procedimenti civili e per il giudice di pace può aiutare il sistema a migliorare. Nel penale, invece, le testimonianze di persona vanno tutelate. Le idee di Nardo, presidente degli avvocati di Milano. Se la Lombardia è l’epicentro italiano della “catastrofe Covid-19”, Milano è diventata il modello di riferimento peri professionisti che devono riorganizzarsi durante e dopo l’ondata del Coronavirus. E l’Ordine degli avvocati di Milano è diventato il laboratorio migliore per sperimentare azioni di contrasto alla crisi e immaginare un nuovo assetto della professione. “Questa emergenza sanitaria cambierà inevitabilmente i paradigmi e le grammatiche - avverte Vinicio Nardo, presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano - si mescoleranno le competenze dell’avvocatura e le specializzazioni saranno diverse: ci sarà più interconnessione tra diritto e sanità. Serviranno giuristi che suggeriscano le regole del nuovo mondo nella contrattualistica e nel lavoro”. L’Ordine degli avvocati di Milano conta 24.871 iscritti, con 20.258 avvocati e 4.613 praticanti. Riunisce 1.046 tra studi associati e società tra professionisti. Si tratta di una realtà di primissimo piano nell’avvocatura italiana ed è per questo che sta proponendo alcune soluzioni contro le criticità emerse. “L’amministrazione della giustizia non è un motore a un’unica velocità - ricorda Nardo In questa fase il ricorso al processo telematico e alla giustizia a distanza non può valere per tutti: ciò che vale per il civile non si riscontra nel penale. Altro discorso ancora riguarda la giustizia amministrativa, che in questo momento emergenziale avrebbe deciso di fare a meno degli avvocati, introducendo una preoccupante “udienza virtuale”. Quest’ultimo provvedimento ha generato forte allarme scaturito in una delibera del Consiglio dell’Ordine di Milano inviata in primis al capo dello Stato. L’esercizio del diritto di difesa non può essere così compresso, tanto da essere così di fatto sospeso”. Invece il giudice di pace, non dispone al momento di una piattaforma telematica. “Per quanto riguarda il giudice di pace - continua il presidente degli avvocati milanesi - la situazione si aggraverà a partire da112 maggio, quando, cessato il periodo di sospensione, alla mole di fascicoli arretrati (anche per le udienze non celebrate) si sommerà quella delle nuove iscrizioni a ruolo. Solo per dare uno spaccato della dimensione del fenomeno, si pensi che il giudice di pace di Milano ha un flusso di quasi centomila procedimenti - civili e penali - all’anno. In quel caso l’apporto telematico diventa una priorità”. Sul processo telematico però ci sono opinioni discordanti e soprattutto l’introduzione nell’ambito penale ha suscitato non poche perplessità tra gli avvocati. “Il settore civile era in parte pronto all’emergenza grazie al processo civile telematico, ormai diventato patrimonio comune - ricorda Nardo In effetti diverso risulta il discorso per il penale dove, in questo periodo emergenziale, ci sono state luci ed ombre. Si sono fatti salti di 10 anni introducendo opportunità che appena un giorno prima erano ritenute impossibili, ma si teme un salto indietro con un’introduzione indiscriminata di un processo telematico che metterebbe a rischio tutte le garanzie. Quindi sì a alla possibilità di depositare in via telematica atti, liste testi, impugnazioni, memorie, visione da remoto dei fascicoli e la richiesta copie, ma alla fine ci si deve trovare in aula”. La frenata sull’innovazione dei processi potrebbe essere letta come una posizione conservatrice nei confronti di una macchina della giustizia da sempre considerata troppo lenta e poco al passo coi tempi. “La tecnologia entrerà rapidamente nel sistema giudiziario ma i principi non devono rimanere indietro - osserva Nardo. Per il processo penale ci si augura la scomparsa dei fascicoli che viaggiano sui carrelli grazie all’avvento del processo telematico ma la deposizione di un testimone deve essere tutelata al meglio. Nel penale ci sono attività giudiziarie che si potrebbero svolgere con l’ausilio della videoconferenza ma sempre su specifica richiesta dell’imputato (o del difensore munito di apposita procura), formulata in anticipo per consentire l’organizzazione, sia per i detenuti sia per i liberi, in aggiunta a quelle di cui la legge già impone la celebrazione”. Dopo questa crisi epocale lo scenario non sarà più Io stesso, qualcuno ipotizza grandi fusioni, acquisizioni e la fine degli studi con la singola figura del dominus. Bisogna prepararsi a questo? “Bisognerà prima capire quante “vittime” farà questa crisi. È una prova molto complessa: potrebbe crescere il numero degli studi associati, potrebbe prepararsi un futuro di studi aggregati con nuove competenze trasversali. Non credo all’ipotesi di grandi network multinazionali di consulenza che inglobino anche i servizi legali. Il nostro non è un lavoro da catena di montaggio: probabilmente la scarsa liquidità indurrà a studi più numerosi ma la competenza sarà sempre di più un capitale sociale”. La giustizia “segreta”, sottratta al controllo del pubblico di Ascanio Amenduni* Gazzetta del Mezzogiorno, 4 maggio 2020 Secondo un articolo pubblicato nel 2017 sul giornale inglese “The Guardian”, i soggetti più pericolosi in una società sono i governanti, perché sottratti a ogni controllo. L’unico rimedio contro il loro strapotere sarebbe un soggetto bipartisan che funga da watchman, da osservatorio, per segnalare alla collettività le loro eventuali devianze. Noi avvocati siamo un po’ i watchmen di turno, forse i più qualificati, sui gravi rischi della totale e indiscriminata smaterializzazione del processo penale, laddove venisse totalmente trasferito dall’aula al sito virtuale. Tanto prevede la recentissima legislazione, pur con le correzioni in corso che postulano il consenso del difensore, almeno per le udienze di assunzione probatoria e discussione. E a chi, tra gli amici Magistrati, difende a spada tratta questa mutazione genetica, ricordiamo la riflessione di uno di loro, il compianto Dante Troisi, citata in un libro del Professor Caringella: “Si dovrebbe imporre ai giudici di osservare nell’aula di udienza quanto accade mentre gli altri giudici sono in camera di consiglio. Almeno una volta al mese, mescolarsi alla folla dietro la transenna, guardare gli imputati, i testimoni, gli avvocati; soprattutto guardare gli imputati quando suona il campanello che annuncia il ritorno del collegio per la lettura del dispositivo della sentenza. Non dimenticheranno gli occhi sul crocefisso o sul difensore che pare possa ancora aiutarli, la mano sulla spalla della madre o della sposa, l’espressione di fiducia, di rimorso, la silenziosa promessa di ravvedimento”. Dobbiamo rassegnarci a lasciare dietro le spalle questa giustizia dal volto umano, fatta e celebrata in un’aula d’udienza davanti al pubblico in carne e ossa? La dobbiamo considerare come un fossile, ed esclamare col filosofo Nietzsche “umano, troppo umano”? È proprio inevitabile abdicare a quel reticolo di emozioni, percezioni e sensazioni che il processo smaterializzato, da remoto, non ci potrà mai dare? È proprio necessario accettare il passaggio “dall’habeas corpus all’habeas streaming”, bellissima metafora provocatoria inventata dal giornalista barese Fabio Modesti, che mi ha spronato a scrivere questo articolo? Sembrerebbe di sì, in apparenza! E a dircelo è pure il Presidente emerito della Corte Costituzionale Sabino Cassese, nel suo libro “Dentro la Corte”, pubblicato cinque anni fa, dove, commentando un articolo sull’influenza della discussione orale nella Corte Suprema, così si esprime: “Leggo che le argomentazioni svolte oralmente influenzano il voto finale del giudizio di merito. Quanto diversa la situazione italiana! Ma gli avvocati italiani fingono di non accorgersi che l’udienza pubblica è un mero rituale!”. Questa riflessione parrebbe canzonatoria verso la classe forense, ma è un atto d’accusa verso il sistema giudiziario italiano, che invece di dare un contenuto al rito, ha pensato progressivamente di eliminarlo! Non in nome della giustizia, ma della propria comodità! Cioè, non adeguando l’essere al dover essere, ma adeguando il dover essere alla sciatteria e alle degenerazioni della prassi. Si procede per mutilazione, non per accrescimento, il tutto in nome dell’efficienza! Il Ministero di Giustizia, però, prima di pensare all’efficienza, dovrebbe pensare a migliorare il tasso qualitativo dei provvedimenti in cui sfocia la giurisdizione. Altrimenti l’efficienza diventa fine a sé stessa: serve, cioè, ad appagare le aspettative e gli interessi degli operatori, anziché quelle degli utenti! Il giurista britannico Richard Susskind si chiede: il Tribunale è un luogo oppure un servizio? Certamente un servizio! Che può essere molto aiutato dalla tecnologia, ma attenzione: esiste una tecnologia di sostegno e una tecnologia dirompente, quella che gli inglesi chiamano disruptive! La prima agevola, la seconda stravolge e sovverte, dipende dai settori e dalle occasioni! Sicuramente agevola nel civile, dove il processo, più scritto è, meglio è, anche perché il Giudice non è obbligato a emettere la decisione in udienza, può portarsi le carte a casa, passarle al setaccio e decidere con tutta calma; ma nel penale la decisione finale dev’essere presa con la lettura del dispositivo, in quel poco tempo trascorso in Camera di Consiglio. E lì la compresenza fisica, l’oralità, l’immediatezza, l’influsso del pubblico che vigila, sono quasi sempre essenziali, anzi imprescindibili! “Civilizzare” il processo penale, escludendo l’udienza pubblica, pure per l’assunzione delle prove e per la discussione, è “quasi un delitto”, dunque! Perché è una mutilazione di garanzie. Non tanto e non solo per l’imputato, ma per il sistema giudiziario. Ed è per questo che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha più volte sanzionato l’Italia nei casi di esclusione dell’udienza pubblica. L’art. 6, comma 1 della Cedu, sancisce, infatti, il diritto di ogni persona a che la sua causa sia esaminata pubblicamente. La logica di siffatta disposizione è stata rintracciata dalla Corte Edu, nella necessità di tutela “contro una giustizia segreta sottratta al controllo del pubblico”, “il mezzo per realizzare la trasparenza dell’amministrazione della giustizia”. E si deve tenere “in un luogo facilmente accessibile, in un’aula capace di contenere un certo numero di spettatori, normalmente raggiungibile e riconoscibile attraverso adeguata informazione”, in modo da poter preservare la fiducia nelle corti e nei tribunali da parte della collettività. Dall’altro lato la pubblica udienza in aula mira a rendere l’imputato intimamente persuaso che la sua causa sia stata instaurata innanzi a un organo giudicante di cui egli ha potuto verificare direttamente indipendenza e imparzialità. Allora che vogliamo fare, cari Ministro Bonafede, e Parlamento italiano, generare una serie di sentenze penali contrarie alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e quindi revisionabili, perché non emesse in aula d’udienza accessibile al pubblico, sicuramente più accessibile e più sicura di una piattaforma digitale? La Corte Europea sembra stare più dalla parte di Troisi, che di Susskind, autore tre anni fa, di questa inquietante profezia, ora tradotta in legge: “Sono persuaso che già nel 2020 potranno diventare norma. In futuro, molte aule di tribunale non saranno troppo diverse dai centri di controllo della Nasa” (dal libro “L’Avvocato di domani”). Susskind si starà sicuramente compiacendo di quanto il nostro Parlamento italiano ha legiferato, al momento, sul Processo penale da remoto. E par che ci dica: “Ma non siete contenti voi avvocati, in fondo minore fastidio e maggiore comodità anche per voi, che non sarete più costretti a lunghe attese e tempi morti e potrete fare tutto il lavoro da studio?” La risposta, caro Susskind, è “No”, non siamo contenti, perché la nostra comodità andrebbe a danno del nostro cliente; cioè del popolo nel cui nome viene resa quella Giustizia, da amministrare necessariamente in un’aula e possibilmente ampia e confortevole, per garanzia di tutti e di tutto il sistema. Siamo i custodi e le sentinelle di questi principi, anche perché il popolo, quello in carne e ossa, non va a sfogarsi dal Giudice, ma viene nei nostri studi a farlo. Poco ci importa se lo Stato non vuole creare cittadelle, preferendo disfunzionali arcipelaghi della Giustizia, perché è nostro dovere chiedere più investimenti e più attenzione su un’edilizia giudiziaria accorpata. Anche per non ripetere l’emergenza barese delle tendopoli, che, come tante altre emergenze, ha colto impreparate le Autorità preposte! Però, a pensarci bene, le udienze sotto la tenda sono una privazione più accettabile di nessuna udienza in nessun luogo. Almeno per la giustizia penale, almeno per le udienze destinate all’assunzione delle prove e alla discussione, dove il capitale umano rende migliore quella giurisdizione, di cui nemmeno l’eventuale consenso del difensore può privarci. *Avvocato Cortocircuito sul carcere per i giornalisti di Andrea Di Pietro articolo21.org, 4 maggio 2020 Perché la memoria depositata alla Corte Costituzionale appare incongruente rispetto agli orientamenti del Parlamento e della Corte Europea dei Diritti Umani. Aprile doveva essere il mese della decisione, attesissima, sulla legittimità costituzionale dell’articolo 595 del codice penale e dell’articolo 13 della legge sulla stampa n. 47 del 1948. Oggetto di scrutinio doveva essere la parte in cui queste norme prevedono ancora oggi la pena detentiva per il reato di diffamazione che, se commesso con il mezzo della stampa, diventa un problema serio per la professione giornalistica. La questione è strategica ed è dibattuta da molti anni. Dal 2001 si sono succeduti, infatti, vari disegni di legge che hanno previsto espressamente l’abolizione del carcere per la diffamazione, ma, con fortune alterne, nessuno di essi è mai riuscito a diventare legge dello Stato. La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, dal canto suo, sin dal 1996 (con la sentenza Cumpana e Mazare c. Romania) invita gli Stati membri a rimuovere le norme che prevedono il carcere per i giornalisti perché in contrasto con l’articolo 10 della Convezione Edu. Successivamente a Strasburgo c’è stata la sentenza Belpietro del 2013 e da ultimo la sentenza Sallusti del 7 marzo 2019. Queste due ultime pronunce, ancora una volta, hanno condannato l’Italia per violazione dell’articolo 10 Cedu. Nonostante l’univoca e costante giurisprudenza europea, sempre critica nei confronti delle norme italiane sul carcere per i giornalisti, il legislatore non è mai riuscito ad approvare una legge abrogativa di quelle norme. Lo scorso anno, prima il Tribunale di Salerno e poi quello di Modugno-Bari hanno rimesso la questione di costituzionalità alla Consulta che, prima di pronunciarsi, avrebbe dovuto sentire le parti costituite nelle pubbliche udienze del 21 e del 22 aprile 2020. Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, anch’esso intervenuto nel giudizio di legittimità, non ha però prestato il consenso alla trattazione camerale della questione, ritenendo necessaria la partecipazione delle parti e insistendo quindi nell’affermazione di principio secondo cui la questione, quando l’emergenza sanitaria sarà finalmente rientrata, deve meritare un dibattito nell’ambito di una pubblica udienza. Per completezza deve essere ricordato che il legale del Sugc, Sindacato unitario giornalisti della Campania, che aveva sollevato la questione dinanzi al Tribunale di Salerno, aveva espresso consenso alla rinuncia alla discussione pubblica, così come l’Avvocatura dello Stato che, con una breve memoria, ha sorpreso tutti chiedendo che la questione dell’illegittimità costituzionale delle norme che prevedono la pena detentiva per i giornalisti sia dichiarata inammissibile e comunque infondata. Con ciò, di fatto, difendendo il mantenimento dello status quo che prevede una pena fino a sei anni di reclusione per il giornalista condannato per il reato di diffamazione a mezzo stampa aggravata dall’attribuzione di fatto determinato. Ed è proprio la posizione inopinatamente assunta dall’Avvocatura dello Stato che ha indotto l’Ordine nazionale a invocare un confronto interno alle istituzioni governative. Occorre infatti comprendere quale sia effettivamente la posizione dello Stato italiano, considerata la palese incongruenza che emerge dalla memoria difensiva depositata dalla Avvocatura rispetto alle pregresse iniziative legislative assunte in materia di abolizione del carcere per i giornalisti. Questo confronto, per ragioni sin troppo ovvie, non può esserci in questo momento storico. Al netto della accesa polemica poi innestatasi tra Ordine e Sugc sull’opportunità o meno del rinvio dell’udienza, che rischia effettivamente di rimandare sine die una decisione fondamentale per la libertà di informazione, credo che la posizione assunta dalla Avvocatura dello Stato, sia detto con il dovuto rispetto, appaia ormai anacronistica rispetto all’evoluzione giurisprudenziale europea sulla materia. Già con la proposta di legge Pecorella-Costa presentata l’8 maggio 2008 si prevedeva l’abolizione del carcere per i giornalisti e così con le proposte di legge successive, tutte diverse, tutte naufragate, ma tutte accomunate dalla volontà politica di modificare il regime sanzionatorio della diffamazione a mezzo stampa. Viene quindi da interrogarsi del perché l’Avvocatura dello Stato abbia imboccato la via del regresso giuridico, assumendo una posizione che appare incurante non soltanto della volontà del Parlamento, ma anche degli ultimi governi in carica, dell’opinione pubblica tutta (basti pensare alla trasversalità del sostegno ricevuto dal caso Sallusti) e, soprattutto, dei continui richiami della Corte Edu. Per comprendere in che cosa concretamente consista il contrasto giuridico tra le norme italiane che prevedono il carcere per i giornalisti e l’articolo 10 Cedu, non esistono forse parole migliori di quelle spese dalla Corte Edu nella sentenza Cumpana e Mazare c. Romania del 1996, dove si dice efficacemente che “L’effetto dissuasivo che il timore di sanzioni di questo tipo [il carcere, n.d.r.] comporta per l’esercizio da parte dei giornalisti della loro libertà di espressione è evidente e nocivo per la società nel suo complesso. La Corte considera che una pena detentiva inflitta per un reato commesso nell’ambito della stampa sia compatibile con la libertà di espressione giornalistica sancita dall’art. 10 solo in circostanze eccezionali, in particolare quando altri diritti fondamentali siano gravemente lesi, come nel caso, ad esempio, della diffusione di un discorso di odio o di incitazione alla violenza”. In tutti gli altri casi, invece, quando si ha a che fare con il giornalismo vero e proprio, indipendentemente da quanto sia grave la diffamazione, la pena detentiva non dovrebbe mai trovare spazio in una previsione di legge. *Coordinatore dell’Ufficio di Assistenza Legale Gratuita di Ossigeno per l’Informazione Messa alla prova, valutate adeguatezza del risarcimento e condizioni economiche dell’imputato di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 4 maggio 2020 Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 27 gennaio 2020 n. 3179. La sospensione del procedimento con messa alla prova prevede che questa comporti, “ove possibile”, il risarcimento del danno, in tal modo escludendo che ex se vi sia necessaria subordinazione della messa alla prova all’integrale risarcimento del danno, onde, laddove si voglia pervenire al rigetto dell’istanza, è necessario che il giudice faccia precedere la sua decisione dalla richiesta di informazioni in relazione alle condizioni economiche dell’istante. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza 3179/2020. Nella fattispecie in cui la messa alla prova era stata chiesta in relazione al reato di cui all’articolo 5 del decreto legislativo n. 74 del 2000, il giudice l’aveva rigettata per essere mancato l’integrale pagamento del debito tributario: la Corte ha ritenuto il diniego immotivato proprio per essere mancato un adeguato approfondimento sulle condizioni economiche dell’istante, che risultava, tra l’altro, essere stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato. Di recente, in ordine all’apprezzamento del giudice sull’adeguatezza del programma e del risarcimento del danno, si è affermato che, dalla disciplina della sospensione del procedimento con messa alla prova, ed in particolare dall’articolo 464-quater del Cpp, si desume che il giudizio formulato in merito alla adeguatezza del programma presentato dall’imputato ai fini della sospensione del processo a suo carico va operato, discrezionalmente, sulla scorta degli elementi di valutazione evocati dall’articolo 133 del codice penale potendo inoltre il giudice procedere agli accertamenti ritenuti necessari o opportuni ai fini della sua decisione. Ciò impone di ritenere che la valutazione del giudice debba investire la “adeguatezza” del programma presentato dall’imputato, che va intesa non soltanto nel senso della sua idoneità a favorire il suo reinserimento sociale, ma anche nel senso di verificarne la effettiva corrispondenza alle condizioni di vita del prevenuto: in altri termini, la “adeguatezza” del programma deve essere indagata anche sotto il profilo dell’essere esso espressione dell’“apprezzabilità dello sforzo” sostenuto dall’imputato per elidere le conseguenze dannose o pericolose del reato e risarcire il danno. In quest’ottica, l’inciso “ove possibile”, contenuto nel comma 2 dell’articolo 168-bis del Cp, deve essere letto nel senso che il risarcimento del danno deve corrispondere “ove possibile” al pregiudizio patrimoniale arrecato alla vittima sicché, ove esso non sia tale, deve comunque essere la espressione dello sforzo “massimo” pretendibile dall’imputato alla luce delle sue condizioni economiche che il giudice ha la possibilità di verificare con i propri poteri ufficiosi. Il giudice è quindi tenuto a valutare la “adeguatezza” del risarcimento del danno che non può non avere, quale parametro di riferimento, il pregiudizio patrimoniale arrecato alla vittima e, per contro, le effettive capacità patrimoniali dell’imputato. A tal fine, il legislatore ha avuto appunto l’accortezza di predisporre dei poteri di indagine (specie) a fronte della manifesta “sproporzione” tra il danno patrimoniale cagionato e l’offerta risarcitoria, cui il giudice deve fare ricorso al fine di verificare l’“adeguatezza” del risarcimento quale effettiva e reale espressione di uno sforzo apprezzabile e concreto dell’imputato (si veda la Sezione II, 13 giugno 2019, Proc. Rep. Trib. Arezzo in proc. Nassini: nella specie, accogliendo il ricorso del pubblico ministero, la Corte ha annullato con rinvio l’ordinanza di accoglimento dell’istanza di sospensione in cui il tribunale si era limitato a recepire il programma proposto dall’imputato, dove questi aveva previsto una offerta risarcitoria pari a euro 30.000 a fronte di un pregiudizio patrimoniale complessivo - derivante dalle condotte plurime di appropriazione indebita aggravata in contestazione - di ammontare superiore ai 360.000 euro: secondo la Cassazione, per ritenere ammissibile e meritevole di accoglimento la richiesta, il giudice, piuttosto che attestarsi sulle dichiarazioni dell’imputato, avrebbe dovuto allora attivare i propri poteri di indagine proprio al fine di verificare la effettività delle condizioni economiche e patrimoniali dell’imputato e valutare, a quel punto, se quella somma fosse espressione del “massimo sforzo” pretendibile e, per questa ragione, apprezzabile). C’è violenza sessuale anche in un rapporto coniugale se la vittima è obbligata a subire di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 4 maggio 2020 Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 26 febbraio 2020 n. 7590. Ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale, è sufficiente qualsiasi forma di costringimento psico-fisico idoneo a incidere sull’altrui libertà di autodeterminazione, senza che rilevi in contrario né l’esistenza di un rapporto di coppia coniugale o para-coniugale tra le parti, e né la circostanza che la donna non si opponga palesemente ai rapporti sessuali, subendoli, laddove risulti la prova che l’agente, per le violenze e minacce poste in essere nei riguardi della vittima in un contesto di sopraffazione e umiliazione, abbia la consapevolezza di un rifiuto implicito da parte di quest’ultima al compimento di atti sessuali. Così la sentenza 7590/2020 della Corte di cassazione. È principio pacifico quello secondo cui integra il reato violenza nella forma cosiddetta “per costrizione” qualsiasi forma di costringimento psico-fisico idonea a incidere sull’altrui libertà di autodeterminazione, ivi compresa l’intimidazione psicologica che sia grado di provocare la coazione della vittima a subire gli atti sessuali, a nulla rilevando l’esistenza di un rapporto di coppia coniugale o para-coniugale tra le parti, atteso che non esiste all’interno di un tale rapporto un “diritto all’amplesso”, né conseguentemente il potere di esigere o imporre una prestazione sessuale senza il consenso del partner. E anzi, in questa prospettiva, non avrebbe valore scriminante neppure il fatto che la donna non si opponga palesemente ai rapporti sessuali e li subisca, quando è provato che l’autore, per le violenze e le minacce ripetutamente poste in essere nei confronti della vittima, abbia la consapevolezza del rifiuto implicito della stessa agli atti sessuali. Migranti, il giudice nega l’asilo ma l’espulsione è congelata per l’emergenza Covid-19 di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 4 maggio 2020 Tribunale di Milano, decreto del 1° aprile 2020. Il pericolo di diffusione del Covid-19 è motivo di sospensione degli effetti del diniego della protezione internazionale allo straniero, che non potrà essere espulso fino a che il giudizio sulla fondatezza della sua richiesta di asilo non sia definito dalla Corte di cassazione. Mentre giuristi e politici si interrogano su come disciplinare la condizione degli immigrati irregolari in tempo di emergenza epidemiologica, con un decreto dello scorso 1° aprile il Tribunale di Milano (presidente Tragni, relatore Condino) si è pronunciato su una questione sollevata da uno straniero che aveva avanzato senza successo domanda di riconoscimento dello status di rifugiato alla Commissione territoriale per il diritto di asilo, aveva poi impugnato il provvedimento negativo dinanzi al Tribunale e, dopo che anche questo ricorso era stato respinto, aveva impugnato la decisione del Tribunale dinanzi alla Corte di cassazione. Lo straniero al quale viene respinta la domanda di protezione internazionale non avrebbe titolo a rimanere nel territorio nazionale, proprio per effetto della bocciatura del ricorso da parte del Tribunale. Le disposizioni - In base all’articolo 7 del decreto legislativo 25 del 2008, al richiedente asilo è consentito rimanere in Italia fino alla decisione della Commissione. Ottiene infatti un permesso di soggiorno a questo titolo, che tra l’altro comporta d’ufficio la sua iscrizione nel Servizio sanitario nazionale. Se la Commissione respinge la domanda di asilo, l’immigrato ha la facoltà, in base all’articolo 35 dello stesso decreto legislativo 25 del 2008, di impugnare dinanzi al Tribunale il provvedimento a lui sfavorevole. In tal caso, in base al successivo articolo 35-bis, la presentazione del ricorso, di norma, sospende l’efficacia della decisione della Commissione. Pertanto il permesso di soggiorno rimane valido fino alla decisione del Tribunale. La sospensione degli effetti del provvedimento di diniego viene meno se il Tribunale respinge il ricorso. Ma allo straniero il comma 13 dell’articolo 35-bis del decreto legislativo 25 del 2008 dà un’ultima chance fino alla definizione dell’ultimo grado di giudizio. Dopo aver presentato il ricorso per Cassazione, egli può chiedere al Tribunale di sospendere il proprio decreto e conseguentemente di ripristinare la sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento della Commissione. Deve però allegare “fondati motivi”. La giurisprudenza sinora ha ritenuto che questo presupposto ricorresse in presenza di una positiva delibazione sommaria dei motivi di ricorso (come ha affermato la Cassazione con la sentenza 32319/2018) e al più anche in presenza di un danno grave e irreparabile al richiedente asilo. L’impatto del Covid-19 - La pandemia ha invece introdotto una prospettiva nuova e il “fondato motivo” per sospendere gli effetti del provvedimento può prescindere dal pregiudizio del singolo straniero e può invece derivare dal pericolo per la salute pubblica. Il Tribunale di Milano ricorda che i Dpcm susseguitisi nel mese di marzo hanno vietato a chiunque di allontanarsi dalla dimora attuale e che il ministero della Salute il 9 marzo ha impartito specifiche prescrizioni per le persone che presentino sintomi di malattia, tra le quali la permanenza in casa, la consultazione continua con il medico di famiglia o con la guardia medica e il divieto di recarsi in ospedali o ambulatori. Se non venissero sospesi gli effetti del decreto che rigetta il ricorso del migrante, il permesso di soggiorno dovrebbe essere immediatamente revocato con conseguente cancellazione dal Servizio sanitario nazionale. Ai cittadini stranieri irregolari, secondo l’articolo 35 del decreto legislativo 286 del 1998, sono assicurate cure ambulatoriali e ospedaliere anche per le malattie infettive, ma solo nei presidi pubblici e per attività urgenti. Sicché, senza permesso di soggiorno, allo straniero sarebbe impedito di osservare le prescrizioni di rivolgersi al medico di famiglia e di non accedere al circuito ospedaliero, con conseguente incremento del rischio per la salute pubblica che le misure vigenti mirano a prevenire. Per evitare questi pregiudizi, quindi, gli effetti del decreto di rigetto sono stati sospesi. Estinzione del reato per condotte riparatorie nel procedimento davanti al Giudice di pace Il Sole 24 Ore, 4 maggio 2020 Giudice di pace - Definizioni alternative - Estinzione del reato per condotte riparatorie - Valutazione di congruità - Criteri. In tema di estinzione del reato per condotta riparatoria nel procedimento dinanzi al giudice di pace, la valutazione di congruità rimessa al giudice si fonda su una comparazione tra le attività poste in essere dall’imputato e la gravità del fatto, al fine di ricomporre il conflitto attraverso la compensazione dell’offesa, in modo coerente con gli obiettivi di prevenzione generale e speciale che caratterizzano l’ordinamento penale e per evitare che la mancata applicazione della pena abbia ripercussioni negative sulla tenuta general-preventiva del sistema. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 24 aprile 2020 n. 12926. Giudice di pace - Giudizio - Definizioni alternative - Estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie termine per procedere alla riparazione - Udienza di comparizione - Natura perentoria - Sussistenza - Fattispecie. In tema di processo avanti al giudice di pace, il termine dell’udienza di comparizione, previsto per procedere alla riparazione del danno cagionato dal reato, ha natura perentoria, con la conseguenza che, in caso di inosservanza, l’imputato decade dall’accesso al trattamento di favore nè grava sul giudice alcun onere di informare l’imputato della possibilità di provvedere alle condotte riparatorie. (In applicazione del suddetto principio, la S.C. ha ritenuto immune da vizi la decisione del giudice di merito che aveva escluso l’applicabilità della causa di estinzione del reato prevista dall’art. 35 del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 per essere stato effettuato in data successiva all’udienza di comparizione il deposito della documentazione attestante l’avvenuto risarcimento, non idonea a dimostrare la data di sottoscrizione degli atti di quietanza a opera delle parti civili). • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 31 ottobre 2017 n. 50020. Giudice di pace - giudizio - Definizioni alternative - Estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie - Presupposti di operatività - Consenso della persona offesa - Necessità - Esclusione - Valutazione di congruità del giudice - Sufficienza. Nel procedimento davanti al giudice di pace, l’art. 35, comma primo del D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, nel correlare l’estinzione del reato alla valutazione di congruità del giudice, presuppone che siano state sentite le parti ma non che sia stato acquisito il consenso della persona offesa; ne deriva che è legittima la declaratoria di estinzione del reato per intervenuta riparazione del danno qualora, pur nel dichiarato dissenso della persona offesa per l’inadeguatezza della somma di denaro posta a sua disposizione dall’imputato quale risarcimento, il giudice esprima una motivata valutazione di congruità della stessa con riferimento alla soddisfazione tanto delle esigenze compensative quanto di quelle retributive e preventive. • Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 31 luglio 2015 n. 33864. Giudice di pace - Giudizio - Definizioni alternative - Estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie - Presupposti di operatività - Riparazione del danno ed eliminazione delle conseguenze dannose del reato - Alternatività - Esclusione. Nel procedimento davanti al giudice di pace, l’operatività della speciale causa di estinzione del reato, prevista dall’art. 35, D.Lgs. 28 agosto n. 274 del 2000, presuppone sia la riparazione del danno cagionato mediante le restituzioni o il risarcimento sia l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, non essendovi alternatività tra le due condotte previste dalla norma, atteso che tali esigenze, ove sussistenti, devono essere entrambe soddisfatte. • Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 31 luglio 2015 n. 33864. Giudice di pace - Giudizio - Definizioni alternative - Estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie meccanismo di estinzione del reato ex art. 35, d.lgs. 274 del 2000 - Consenso della parte offesa - Irrilevanza. Nel procedimento davanti al giudice di pace, il rifiuto opposto dalla parte lesa ad accettare la somma offerta quale integrale risarcimento del danno non può avere efficacia preclusiva all’applicabilità dell’art. 35, D.Lgs. n. 274 del 2000, se il Giudice di pace ha ritenuto la somma congrua e proporzionata alla gravità del danno (e, quindi, adeguata ad estinguere il reato), sulla base dell’imputazione (nella specie: lesioni personali colpose lievi) formulata sulla scorta di quanto la stessa parte lesa aveva esposto e sostenuto. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 18 marzo 2010 n. 10673. Roma. Bonafede a Rebibbia, il ministro parla di distanziamento sociale e i detenuti insorgono Il Riformista, 4 maggio 2020 Protesta nel carcere romano di Rebibbia. I detenuti di un reparto hanno messo in atto una manifestazione in concomitanza con la visita presso l’istituto del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che si è recato nella sala teatro della Casa circondariale romana. Insieme con il guardasigilli anche il ministro degli Affari Regionali Francesco Boccia e il capo della Protezione Civile Angelo Borrelli. L’Amministrazione carceraria ha fatto sapere che si sarebbe trattato di una protesta di una ventina di detenuti. Bonafede in un punto stampa ha illustrato come un grande successo le decisioni prese in materia delle carceri durante l’emergenza coronavirus. “Adesso uno sforzo in più: abbiamo deciso, con una sinergia importantissima tra il ministero della Giustizia, la Protezione Civile, il ministro Boccia e quello della Salute Speranza”. Il ministro ha presentato a Rebibbia i 62 operatori socio-sanitari che già da domani presteranno la propria attività presso gli istituti penitenziari per adulti e le strutture minorili del Lazio. Fanno parte della task force dei mille operatori selezionati con il bando emanato dalla Protezione civile di concerto con i ministeri della Giustizia, della Salute e degli Affari regionali e che opererà nelle carceri italiane fino al 31 luglio 2020 in ausilio al personale sanitario. Secondo il ministro la situazione sarebbe sotto controllo nelle carceri, perché “i contagi sarebbero comunque bassi, circa 150 in tutto il Paese”. Per Bonafede non sono quindi preoccupanti le norme di distanziamento sociale difficilmente osservabili nelle carceri, la possibilità che si trasformino in un focolaio, il sovraffollamento e le rivolte che si sono animate il mese scorso. E infatti il ministro ha annunciato di aver “firmato per nuove applicazioni e proroghe 686 provvedimenti per 41 bis”. Nella stessa struttura di Rebibbia, allo scoppio dell’epidemia all’inizio della quarantena, si era verificata una rivolta come in altre decine di carceri italiane. A causare in quel caso le proteste, anche violente, la sospensione dei colloqui con i familiari a causa dell’emergenza coronavirus. Le rivolte di inizio marzo avevano provocato la morte di 13 detenuti. Appelli per le condizioni in cui versano le carceri italiane, e per il pericolo coronavirus, sono stati lanciati dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, da Papa Francesco, dalla Corte di Cassazione, dall’Unione delle Camere penali, da ong e organizzazioni di volontariato. Il Garante Nazionale dei Detenuti Mauro Palma ha dichiarato che al primo maggio i detenuti contagiati sono 159, un dato in ascesa, 215 gli agenti di polizia penitenziaria. Sono 53.187 le persone nelle carceri italiane, un numero in riduzione, ma che secondo Palma lascia inalterata la necessità di un “ulteriore impulso affinché sia possibile, in termini di spazi di gestione e di tutela della salute di chi negli istituti opera e di chi vi è ospitato, disporre di sufficienti possibilità per fronteggiare ogni possibile negativo sviluppo dell’andamento del contagio”. Sassari. Solidarietà ai Magistrati di sorveglianza dall’Osservatorio carcere Ucpi di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 4 maggio 2020 Un documento di solidarietà ai magistrati del Tribunale di sorveglianza di Sassari è stato sottoscritto dai responsabili Sardegna dell’Osservatorio carcere Ucpi Franco Villa e Maria Teresa Pintus e dai presidenti delle camere penali sarde Rodolfo Meloni, Marco Palmieri, Rosaria Manconi, Salvatore Murru, Marcella Lepori e Giovanni Azzena. “In questi giorni - scrivono riferendosi alle polemiche nate dopo la scarcerazione del boss Pasquale Zagaria, detenuto nel carcere di Sassari - abbiamo assistito con preoccupazione a un indegno attacco alla magistratura di sorveglianza in relazione ad alcuni provvedimenti di differimento pena per motivi di salute nella forma della detenzione domiciliare nei confronti di detenuti sottoposti al regime del 41bis. Tale campagna denigratoria ha trovato cassa di risonanza nella politica e anche in alcuni autorevoli esponenti della magistratura”. La scarcerazione di Zagaria ha creato molto dibattito, accesissimo quello nella trasmissione di Massimo Giletti “Non è l’arena” dove era intervenuto telefonicamente anche il direttore del Dap - che sabato si è dimesso dall’incarico - Francesco Basentini. “Nessuno degli ospiti - si legge nel documento - ha fatto riferimento al necessario bilanciamento tra la salute, la vita umana, l’esigenza di sicurezza e di tutela sociale. Valutazione che deve essere necessariamente demandata al magistrato. E che in questo caso è stata operata con coraggio, nel rispetto di quella autonomia di giudizio che viene sistematicamente messa in discussione e che non è stata tutelata neanche dalla magistratura. Assordante in questo senso il silenzio del Csm e della giunta di Anm”. Ieri, intanto, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha destinato il procuratore generale presso la corte d’appello di Reggio Calabria, Bernardo Petralia, a capo del Dap. Napoli. Fase 2, in Tribunale tre processi per collegio ma è paralisi nella sezione lavoro di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 4 maggio 2020 Tre processi (con detenuti) al giorno per ogni collegio; cinque processi al giorno per ogni giudice monocratico, con una scansione cronologica rigorosa, in grado di coprire l’intera giornata (fino alla sera). È questa la bozza organizzativa su cui stanno lavorando i capi degli uffici, in vista della riapertura del Palazzo di giustizia, dal 12 maggio in poi. Prove tecniche di fase due, tornano a riempirsi le cancellerie, personale amministrativo richiamato fisicamente in servizio (quando non è possibile lavorare con strumenti agili, da remoto), si prova a recuperare il gap di questi due mesi di quarantena. Oltre diecimila udienze rinviate, poche attività svolte nella cittadella di piazza Cenni, per lo più legate a direttissime e convalide (svolte con l’ausilio di connessioni internet o videoconferenze), bisogna ripartire. Spiega il presidente del Tribunale di Napoli Elisabetta Garzo: “Abbiamo studiato i ruoli delle rispettive sezioni fino alla fine di giugno, stiamo lavorando per consentire lo svolgimento delle discussioni dei processi con detenuti, nel rispetto delle norme sanitarie. Orari e scadenze saranno comunicati, ci aspetta un periodo di rodaggio, insieme ce la possiamo fare a rimettere in moto la macchina giudiziaria”. Fase due senza strappi, dunque, anche alla luce di quanto previsto dall’ultimo decreto ministeriale, che ha ridotto di gran lunga il peso del processo penale da remoto. Cosa cambia allora nelle aule di giustizia? Spiega Ermanno Carnevale, presidente della Camera penale, “reduce” da un confronto via Facebook seguito da centinaia di penalisti, al quale ha preso parte anche il presidente di Unioncamere Gian Domenico Caiazza: “Siamo pronti a ripartire. Con senso di responsabilità, nel rispetto dei protocolli sanitari e organizzativi, noi ci siamo, compatti e uniti. Abbiamo ottenuto un punto fermo, a leggere l’ultimo decreto: il processo penale si fa in aula, almeno per quanto riguarda il dibattimento, il confronto tra le parti, al cospetto di un giudice. Altra cosa è la possibilità di usare più telematica per evadere alcune pratiche che, altrimenti ingolferebbero cancellerie e ascensori, oltre ad appesantire le nostre mattinate. Mi riferisco alla necessità di rafforzare gli scambi di comunicazioni tra avvocati e cancellerie dell’autorità giudiziaria, ma anche all’esigenza di costruire solidi presìdi telematici per tante delle nostre attività”. A cosa fa riferimento il presidente Carnevale? “Ancora oggi non è possibile depositare una impugnazione a mezzo pec, perché occorre la copia cartacea; invece, deve diventare ordinario chiedere e ottenere a mezzo pec la copia di una sentenza, ovviamente pagando i diritti di cancelleria; oppure poter inoltrare una querela sempre a mezzo pec (al netto del confronto con un ufficiale giudiziario): si tratta di attività che si possono svolgere in modo smart, agevole, ma occorrono presìdi telematici facilmente accessibili a tutti i professionisti, altrimenti continueremo a stare in fila dinanzi agli ascensori anche solo per depositare una impugnazione”. Fase due allo start, non ci sono solo i penalisti a chiedere ascolto. In questi giorni, anche il civile (dove però il canale telematico è decisamente più avanti) attende le nuove disposizioni. Si lavora per rafforzare i presìdi all’ingresso del giudice di pace di Barra e di caserma Garibaldi, mentre anche in piazza Cenni da giorni si lavora alla ripartenza. Soffrono alcuni settori, come le sezioni famiglia e lavoro, che richiedono la presenza delle parti in alcune udienze, rendendo difficile il distanziamento sociale, anche al netto di guanti e mascherine. Spiega l’avvocato Giuliana Quattromini, componente della commissione lavoro del Coa: “In questi due mesi c’è stata la quarantena dei diritti per quanto riguarda i processi urgenti di Lavoro, parliamo di licenziamenti e trasferimenti che non dovevano essere rinviati, invece abbiamo registrato addirittura il blocco delle fissazioni”. Potranno ripartire alcune attività commerciali, come il bar tabacchi e come la storica edicola di piazza Cenni. Avanti per step, almeno fino al 31 luglio, sempre con un occhio ai numeri del virus, nel tentativo di scongiurare un pericoloso rebound di contagi. Piacenza. “I detenuti hanno capito l’emergenza”, parla la direttrice del carcere di Bruno Contigiani* Il Fatto Quotidiano, 4 maggio 2020 “Credo che nelle situazioni di emergenza l’espressione e lo sviluppo della resilienza dell’organizzazione richiedano alcune attitudini come lavoro di squadra, trasparenza della comunicazione, capacità di rivedere il già visto, chiarezza di obiettivi”. Non ci troviamo nel Consiglio di amministrazione di una grande impresa, ma a colloquio con Maria Gabriella Lusi, che da poco meno di un anno dirige Le Novate, la Casa Circondariale di Piacenza, dove la situazione sanitaria e di sicurezza sono sotto controllo. Ogni carcere è un mondo a sé, i recenti tumulti scatenati in molte carceri italiane, ma anche in varie parti del mondo, non hanno colpito allo stesso modo gli istituti penitenziari. Ci sono state distruzioni e anche morti. Nonostante da più di 10 anni “Vivere con Lentezza”, operi a Piacenza, Pavia e Lodi, con puntate a San Vittore, Bollate, e al Minorile Beccaria di Milano, continuo ad avere delle difficoltà a capire quali siano stati i fattori che hanno determinato un andamento molto differenziato, a Piacenza i danni sono stati praticamente inesistenti. Quando parliamo di carceri la parola che più viene ripetuta è sovraffollamento, immaginate che cosa può aver voluto dire recepire e contestualizzare le norme che progressivamente sono state introdotte avendo come obiettivo non solo la salute delle persone ristrette, ma anche di quanti ogni giorno operano fra queste mura. Il carcere è un luogo in cui la parola ha ancora un grande valore, e quindi l’ascolto e il dialogo, l’interlocuzione, con le rappresentanze dei detenuti sono stati determinanti, per cogliere gli umori, le difficoltà, le sintomatologie, anche attraverso un servizio ad hoc, come spiega il direttrice: “I detenuti, con poche eccezioni, hanno capito la situazione e dimostrato senso di responsabilità, apprezzando le iniziative adottate per favorire i contatti con le famiglie, come i video colloqui o l’ampliamento delle telefonate”. Non tutto è andato bene, ma se si tiene conto che Piacenza è stata dichiarata Zona rossa e che, come ben sanno gli operatori carcerari, un carcere è parte del suo territorio, estremizzando mi sento di affermare che Le Novate sono andate in controtendenza rispetto a città e provincia (ndr). La popolazione carceraria italiana è composta in misura molto ridotta da donne: “Le detenute in particolare manifestano adesione consapevole e pacifica (seppur ovviamente sofferta) alle misure introdotte”. Riflettendo su questa affermazione mi accorgo che nelle Case Circondariali in cui stiamo operando la direzione è affidata a delle donne, ma questa riflessione non può certo risolvere il quesito iniziale. “Il nostro Istituto ha sofferto per mille comprensibili ragioni in questo periodo - mi spiega la direttrice - ma ha anche espresso tante importanti virtù: l’impegno dello staff Direttivo e della Polizia Penitenziaria, in prima linea nella gestione dell’emergenza, è stato in diverse situazioni riconosciuto dagli stessi detenuti, ed è questa a mio avviso la sintesi più efficace della sicurezza penitenziaria in tempi di emergenza”. *Scrittore e fondatore de “L’Arte del vivere con lentezza” Napoli. A Poggioreale zero contagi tra i reclusi Il Mattino, 4 maggio 2020 Si è chiusa la Fase dell’emergenza epidemiologica determinata dal coronavirus e “nel carcere di Poggioreale non ci sono contagiati”. Lo sottolinea, in una nota, Luigi Castaldo, vice segretario dell’Osapp in Campania che loda le efficaci prevenzioni adottate dal direttore del carcere, Carlo Berdini, e dal dirigente medico competente Vincenzo Irollo, con il supporto dell’equipe della “sicurezza sul lavoro”. Castaldo definisce veri e propri eroi medici, infermieri, operatori socio-sanitari e, infine, il Corpo della Polizia Penitenziaria, a Poggioreale diretta dal dirigente aggiunto Gaetano Diglio, afflitto “dalla cronica carenza di organico e dotato di scarse risorse strumentali”. A questo, inoltre, dice ancora Castaldo, stanno andando a gravare “pensionamenti in atto a fronte dall’aumento in questi anni di benefici a favore dei ristretti” che determinano maggiori carichi di lavoro e quindi serve più personale. Brescia. Un gigante dall’animo buono e gentile: addio al medico del carcere bresciatoday.it, 4 maggio 2020 Gli ospiti di Canton Mombello e Verziano piangono la scomparsa di Salvatore Ingiulla, medico carcerario amato da tutti. Grande e grosso, ma con l’animo gentile e premuroso. Tra le tante vittime mietute dal Covid-19, tra i tanti medici e sanitari scomparsi, Brescia piange anche una persona che lavorava con pazienti speciali, gli ospiti delle carceri di Canton Mombello e Verziano. Nei giorni se n’è andato il dottor Salvatore Ingiulla, medico carcerario nelle due strutture. Per onorare il ricordo del medico, ed esprimere la loro vicinanza ai familiari, gli ospiti dei due istituti di pena cittadini hanno scritto una lettera accorata, nella quale hanno ricordato le doti - non solo strettamente professionali - del dottore. “La popolazione penitenziaria di Brescia - si legge nella lettera, pubblicata dal quotidiano Brescia Oggi in edicola stamane - piange la morte di un uomo buono e gentile a causa del Covid-19, per questa ragione abbiamo sentito la necessità di dimostrare la nostra solidarietà alla famiglia, con un pensiero che intendiamo rivolgere al nostro amato medico, rappresentando il rammarico per la sua inattesa dipartita. Ha sempre saputo trasmetterci tutto il senso di umanità di cui era dotato. Non ci ha mai fatto sentore emarginati e per ognuno di noi ha avuto parole di conforto”. Ferrara. Reinserimento dei detenuti, “il Comune nega il nulla osta” estense.com, 4 maggio 2020 Don Bedin scrive al Sindaco, risponde l’assessore Coletti: “Mancano elementi per una valutazione approfondita”. La lettera aperta di don Domenico Bedin al sindaco di Ferrara. “Egregio Signor Sindaco, da trent’anni attraverso l’associazione Viale k e in collaborazione con altri gruppi e cooperative del nostro territorio ci dedichiamo all’accoglienza e al sostegno di persone detenute o ex per favorire la concreta possibilità di usufruire delle misure alternative al carcere e per l’inserimento successivo nella società. Sono passati dai nostri centri decine e decine di persone che poi non sono ricadute nei reati e che si sono rifatti una vita. Alcuni hanno anche deciso di vivere presso le nostre comunità dove svolgono attività per gli altri. Normalmente questa forma di servizio è stata svolta gratuitamente dall’associazione, anzi questo ne era un requisito previo: non accettare denaro dai detenuti o dalle loro famiglie e così accogliere i più poveri e senza prospettive soprattutto del nostro territorio. Per un breve periodo abbiamo ricevuto i fondi da un progetto chiamato Acero che ci ha permesso di fare numerosi inserimenti lavorativi. Da tanto tempo insistiamo con le varie amministrazioni locali e statali perché si promuovessero progetti finalizzati a questo scopo. Finalmente il Ministero della Giustizia e in particolare l’Ufficio per l’esecuzione penale esterna Emilia Romagna-Marche ha aperto un bando per favorire queste misure alternative. Il 4 maggio gli enti che intendono proporre una loro manifestazione di interesse devono comunicarlo e tra le tante richieste a cui si deve rispondere si deve allegare il parere positivo del Comune dove si svolge il progetto. Bene, Signor Sindaco, Lei, attraverso l’assessore ai servizi alla persona dott. Coletti ha risposto no! Il Comune di Ferrara non vuole che questo progetto si realizzi nel nostro territorio. Dunque Lei ritiene che le condanne siano scontate esclusivamente in carcere fino all’ultimo giorno senza applicare ciò che la legge non solo permette ma caldeggia non tanto e solo per la questione dell’emergenza sanitaria ma per andare sempre più verso una pena finalizzata al recupero… O forse ha paura che la città e il comune si riempia di delinquenti. Non si preoccupi questo avviene proprio se non si organizzano queste iniziative di accoglienza e accompagnamento. Il giorno che il detenuto solo e in bolletta uscirà verrà a bussare alla porta dei servizi sociali e poi da Lei o dall’Assessore e allora il numero della Caritas, di Viale k, della Filippo Franceschi, delle cooperative sociali comincerà a squillare. Caro signor Sindaco si ricreda e dia il nulla osta”. Pronta la replica dell’assessore alle Politiche Sociali, Cristina Coletti: “In relazione alla richiesta avanzata da alcune realtà cooperative e associative del territorio che intendono inviare la manifestazione di interesse per il “Progetto inclusione sociale per persone senza fissa dimora in misura alternativa in E-R” e per la quale risulterebbe necessario un preventivo parere positivo del sindaco del Comune di riferimento, è importante chiarire alcuni punti. Al Comune di Ferrara non è pervenuto alcun progetto dettagliato relativo al tema dei carcerati da reinserire. Gli enti intenzionati ad avviare percorsi di recupero, si sono limitati ad inviare, a pochissimi giorni dalla scadenza del bando, una richiesta generica di approvazione, su ipotesi di lavoro non specificate nel dettaglio, senza indicare chiaramente né le risorse utilizzate, né le interrelazioni del progetto con le realtà territoriali, né le reali possibilità di successo, né tantomeno chi siano i destinatari. Il tema del sovraffollamento carcerario e delle difficoltà che comporta è già noto da tempo a livello nazionale e la nostra amministrazione si è già distinta nel supportare concretamente, in questi mesi, azioni ed interventi a favore dei detenuti. In questo frangente riteniamo il tema della scarcerazione legata all’emergenza Coronavirus particolarmente complesso e, dunque, inopportuno agire su sollecitazione di un bando in scadenza e senza gli elementi fondamentali per una valutazione approfondita”. Milano. San Vittore, torna il coro (a distanza) degli ex detenuti con i volontari di Paolo Foschini Corriere della Sera, 4 maggio 2020 Grazie alla piattaforma “Suonate le campane” nata su impulso dell’arcivescovo Delpini ritrova voce anche la “Canzone della Nave”, il reparto per la cura delle dipendenze nel carcere milanese. E all’impresa partecipano, di nuovo, anche alcuni artisti della Scala. A volte, e in questi mesi si è visto spesso, anche solo una canzone può far molto: non risolve, ma serve a dire “ci siamo”. E questa volta a far sentire la loro voce sono gli ex detenuti del reparto La Nave di San Vittore, insieme con i volontari dell’associazione Amici della Nave. Lo hanno fatto grazie all’iniziativa “Suonate le campane” con cui un altro gruppo di musicisti, a loro volta volontari del carcere milanese, ha accolto da diverso tempo l’appello della diocesi ambrosiana sull’importanza di diffondere - sempre, ma in questo periodo più che mai - messaggi di “bellezza”. Così ex detenuti e volontari hanno potuto, ciascuno da casa propria, rimettere insieme la loro Canzone della Nave composta sulle note di “Bella ciao” e cantata nelle occasioni più diverse negli ultimi anni sia dentro sia fuori dal carcere: compresa la festa per il primo compleanno di Buone Notizie nel 2018 ma anche con i volontari del coro della Scala per un concerto benefico prima del Natale scorso. Il testo della canzone si deve a un detenuto marocchino, Yassin, che lo scrisse quando aveva diciannove anni. Non è più a San Vittore da molto tempo. Racconta del suo viaggio che lo portò a perdersi in un “mare senza uscita”, quindi della Nave e dei marinai che lo salvarono, infine del suo ritrovarsi ora di nuovo come in mare: ma un mare diverso, con l’orizzonte della libertà. I cori in realtà sono diventati due da tempo. Uno con i detenuti della Nave, il reparto che sotto la guida di Graziella Bertelli con la sua équipe dell’Asst Santi Paolo e Carlo si occupa di chi ha problemi di dipendenza; e uno con gli “ex”, avviato con gli Amici della Nave, per proseguire anche fuori dal carcere un percorso di reinserimento nella società. Entrambi attualmente fermi, come è ovvio, poiché poche cose come un coro - va da sé - configurano in questo periodo il “reato” di assembramento. È soprattutto in carcere che se ne sente la mancanza, così come di tutte le altre attività di gruppo volte al recupero e all’uso del “tempo della detenzione” in un modo che sia (ri)costruttivo e non meramente punitivo: praticamente tutte sospese da febbraio - già settimane prima che l’Italia intera si fermasse - insieme con l’ingresso dei parenti per i colloqui e dei volontari per le attività medesime. Qualcosa sta ripartendo, ma i tempi non saranno brevi. Nell’attesa che questo avvenga è il coro esterno degli Amici della Nave a essersi rimesso insieme “a distanza”. E ha potuto farlo grazie alla collaborazione e condivisione del progetto suonatelecampane.it costruito per iniziativa di Fulvio Matone, Walter Muto e Francesco Lorenzi, a loro volta parte di un ulteriore gruppo di musicisti volontari che da anni portano arte e bellezza a San Vittore e non solo. L’idea della piattaforma era nata per raccogliere l’invito dell’arcivescovo milanese Mario Delpini, che ospitato in video sulla piattaforma stessa lo ha appena rilanciato di persona: “Far suonare le campane del bello soprattutto adesso, in questo tempo così difficile”. Loro lo stanno facendo da settimane con cadenza quotidiana, vedere il link appena citato per credere: “Ogni giorno due campane nuove - spiega Fulvio - e giusto oggi siamo arrivati a cento. Di volta in volta possono essere una musica, un brano letterario, una riflessione, con il denominatore comune di aiutarci a vedere ciò che di buono esiste sempre in ogni momento della vita, anche in quello più difficile”. “E in questo la musica - aggiunge Walter, che sul fronte delle note è l’architetto della costruzione - aiuta forse più di ogni altra cosa: con il Coro della Nave abbiamo fatto diverse cose insieme e averli qui, almeno una parte dei detenuti usciti e i volontari che conosciamo da anni, è un regalo che loro hanno fatto a noi”. In sottofondo, con discrezione, senza per forza mostrarsi, anche qualche artista della Scala che dopo le esperienze già vissute insieme non ha resistito alla chiamata del volerci essere. Ciascuno da casa propria, ciascuno con la propria parte cantata (o suonata) su una traccia-base, e tutte infine rimontate insieme dal vero mago tecnico dell’intera operazione: Giovanni Assandri, maestro del digitale. E premio Nobel per la pazienza. Modena. Sognalib(e)ro: i vincitori della seconda edizione del Premio di Roberto Di Biase emiliaromagnanews24.it, 4 maggio 2020 Per la narrativa italiana Rosella Postorino; detenuti di Pozzuoli, Pescara, Opera, per gli inediti. Nella seconda edizione del premio Sognalib(e)ro per le carceri italiane, conclusa a febbraio 2020, per la sezione narrativa italiana, che chiedeva ai gruppi di lettura degli istituti penitenziari di scegliere tra tre libri indicati dalla giuria, ha vinto Rosella Postorino con “Le assaggiatrici” (Feltrinelli 2018). L’autrice è stata prescelta rispetto a Claudia Durastanti con “La straniera” (La nave di Teseo, 2019) e a Marco Missiroli con “Fedeltà” (Einaudi, 2019). Tra gli inediti scritti dai detenuti (62 testi di 60 autori) in concorso alla seconda edizione, la giuria degli scrittori, diretta da Bruno Ventavoli di TuttoLibri, ha individuato tre vincitori. Senza distinguere tra romanzo, racconto e poesia, i giurati scrittori Paolo Di Paolo, Barbara Baraldi e Marco Makkox Dambrosio hanno scelto gli scritti, sul tema “Ho fatto un sogno…”, inviati da un detenuto a Milano Opera, una del femminile di Pozzuoli e un altro dall’istituto penitenziario di Pescara. Il premio consiste nella donazione di libri alla biblioteca del carcere dove sono reclusi i vincitori. Il Comune di Modena pubblicherà una antologia dei testi, con la casa editrice civica digitale “il Dondolo” diretta da Beppe Cottafavi. Alla vincitrice Rosella Postorino è andato anche il Premio di Bper Banca. Come previsto dal meccanismo del premio, Postorino ha indicato nel suo messaggio quattro libri che hanno avuto per lei una importanza particolare. Quattro titoli di cui Comune di Modena e Bper Banca forniranno copie alle biblioteche delle carceri partecipanti. Si tratta di “Il grande Gatsby” di Francis Scott Fitzgerald; “Il posto” di Annie Ernaux; “Cecità” di José Saramago; e “Il racconto dell’ancella” di Margaret Atwood. Modena. L’attività in carcere del Teatro dei Venti di Roberto Di Biase emiliaromagnanews24.it, 4 maggio 2020 La compagnia collabora dalla prima edizione al Premio e ha ripreso l’attività a Sant’Anna e a Castelfranco Emilia. Anche la terza edizione del Premio Sognalib(e)ro, come già le due precedenti, prevede una stretta collaborazione tra gli organizzatori-promotori, in particolare Comune di Modena e Bper Banca, e il Teatro dei Venti, forte di una attività nelle carceri che dura da anni. Quest’anno, dopo oltre due mesi di stop a causa della pandemia, riparte da remoto anche il laboratorio del Teatro dei Venti nelle Carceri di Modena e Castelfranco Emilia. La Direzione degli Istituti e il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria (Prap) hanno autorizzato l’avvio delle attività dal 28 aprile alla Casa di Reclusione di Castelfranco e dal 4 maggio alla Casa Circondariale di Modena. Le attività sono rese possibili dalle donazioni di computer e materiale informatico effettuate da diversi cittadini, che hanno risposto a un appello del Teatro dei Venti. A Castelfranco il laboratorio seguirà un calendario di due appuntamenti a settimana, martedì e giovedì, dalle ore 15 alle 17. A Modena le attività sono previste a partire dal 4 maggio, con 2 incontri a settimana. Il laboratorio da remoto sarà condotto dal regista Stefano Tè e dagli attori del Teatro dei Venti e consentirà di portare avanti le prove di “Odissea” (un primo studio era stato proposto proprio alla serata finale della seconda edizione di “Sognalib(e)ro”), riprendendo il lavoro che era stato sospeso, proponendo letture per i detenuti e continuando il loro percorso di produzione creativa e scrittura. Lo spettacolo è realizzato nell’ambito del progetto europeo Freeway, con debutto previsto nel 2021. Il progetto è ideato dal Teatro dei Venti, che ne è capofila, insieme a tre partner, aufBruch (Germania), Fundacja Jubilo (Polonia) e Upsda (Bulgaria), e promuove la creazione artistica e lo scambio di buone pratiche di Teatro in Carcere a livello europeo. Il primo studio di “Odissea” sarebbe dovuto andare in scena a Trasparenze Festival, VIII edizione “Abitare Utopie”. Ora è rinviato a data da destinarsi. Bologna. Pedagogie impossibili tra carcere e società di Andrea Zangari teatroecritica.net, 4 maggio 2020 Se a Bologna si dice Pratello, l’immaginario subito si biforca in proiezioni complementari: la via di circoli culturali e locali notturni, e l’Istituto Penale Minorile. L’ultimo si affaccia sulla prima con un’anonima facciata moderna, oltre un pesante cancello. Di qua, un ghetto dato all’appetito nottambulo della comunità universitaria espansa fino ai margini della generazione Y; di là, un “luogo chiuso delimitato da muri e da sbarre”. Con questa ulteriore biforcazione dello sguardo, Massimo Marino apre il volume edito da Titivillus Teatro del Pratello. Venti anni tra carcere e società. Testi processi spettacoli, accompagnandoci nell’Istituto Penale Minorile “Pietro Siciliani”. Prima il luogo, l’ambiguità del muro che isola e protegge; poi la ventennale storia di teatro in carcere fatta da Paolo Billi. Regista e drammaturgo, per Bologna uno di quei nomi che accompagnano immancabili il ritmo annuale dell’agenda culturale. Dalla compenetrazione “tra carcere e società”, conquistata giorno dopo giorno tra diffidenze istituzionali, tagli di fondi, problemi legati alla transitorietà degli attori etc. la città e il carcere sono usciti trasformati. Chi negli anni ha avuto opportunità di dialogare coi giovani attori, dopo gli spettacoli fra gli spazi del carcere e dell’Arena del Sole, lo sa: l’ha sperimentato nella nascita di un pubblico, e dunque di uno sguardo. Teatro del Pratello è il diario di questa trasformazione, ma è anche molto altro. Incroci fra laboratori di scrittura, scenografia e coreografia attraverso cui ogni lavoro al Pratello è messa in causa integrale dei giovani detenuti, del loro corpo, del loro immaginario, senza mai farsi didascalia della reclusione. Verso un lavoro artistico, mai dilettantistico, attraverso le “pedagogie impossibili” del carcere: impossibili a priori per l’ideologia funesta della reclusione, ma anche per i materiali letterari scelti. Da Rabelais a Nietzsche, da Jarry a Tasso, parole caustiche, sfide da digerire e da pronunciare per quegli attori non conformi. “Mi piaceva questa lingua detta male” dice Billi in un’intervista riportata: la subalternità sociale produce eccentricità culturale, ma in questo scivolamento Billi trova una centralità nuova, per un linguaggio teatrale che nasce politico, inclusivo, sognante ma non trasognato. Teatro del Pratello è una trama complessa, mai complicata: la penna di Marino vibra di prossimità emotiva, ma le fughe riportano puntualmente ai testi degli spettacoli, in stralcio o interi. Così muovendosi, si compone una polifonia (dove i movimenti sostituiscono i capitoli) in cui lo storico cede la voce allo spettatore implicato, e viceversa. Articoli di giornale, interviste, frammenti da Il Patalogo, fotografie tracciano peraltro la storia parallela del modo di guardare e raccontare il teatro in carcere, in un processo di maturazione storico della spettatorialità e della critica stessa. P.s.: questa lettura ci riporta all’emergenze nell’emergenza di chi fa laboratori in carcere, nell’evidente difficoltà a proseguire pratiche di cura e di arte a distanza di sicurezza. Con la grazia dello spirito patafisico, “scienza delle soluzioni immaginarie” evocata quale spirito guida in esergo al libro stesso, confidiamo che questa nicchia continui a godere oggi del supporto dei suoi spettatori e soprattutto delle istituzioni. La pandemia della povertà di Chiara Saraceno La Repubblica, 4 maggio 2020 Non è vero che siamo tutti uguali di fronte al Covid 19. Non lo siamo rispetto al rischio di contagio, perché alcune professioni e condizioni di vita espongono più alcuni di altri. Riguarda, ovviamente, le professioni sanitarie, ma riguarda anche le commesse, gli addetti alle pulizie delle strade, alla raccolta dei rifiuti, i trasportatori, tutti coloro, con professioni non prestigiose e pagate relativamente poco, che nelle settimane della chiusura hanno continuato a lavorare in “presenza”. Non siamo uguali neppure di fronte all’esperienza del “restiamo in casa”, non solo perché qualcuno la casa non ce l’ha, ma anche perché “casa” si declina molto diversamente e per qualcuno significa vivere stretti, talvolta in situazioni precarie. “Stare in casa” significa una costrizione insopportabile per il 41% dei bambini e ragazzi che vive in abitazioni sovraffollate, con disagi che spesso si sommano ad altri. Non siamo uguali neppure di fronte alla perdita di reddito e al rischio di povertà provocati dalla chiusura di gran parte delle attività produttive. Qui le disuguaglianze sono molteplici. I più a rischio sono i giovani, vuoi perché avevano più spesso contratti temporanei o precari, vuoi perché stavano per entrare nel mercato del lavoro quando tutto si è chiuso. Come era già successo con la lunga crisi finanziaria iniziata nel 2008 e non ancora conclusa, sono le generazioni più giovani le più colpite e quelle che porteranno più a lungo le ferite. Sono più a rischio di non rientrare al lavoro le donne degli uomini, perché l’apertura selettiva delle attività produttive riguarda settori a prevalenza maschile e perché la persistente chiusura dei servizi sociali, educativi e delle scuole pone molte lavoratrici di fronte alla antica necessità di decidere tra lavorare fuori casa o rimanere a casa senza stipendio. Ma sono anche più a rischio molte categorie di lavoratori autonomi rispetto ai lavoratori dipendenti (a tempo indeterminato) e, tra questi, più quelli nel settore privato che nel pubblico. A più rischio di tutti sono coloro che lavoravano solo nell’economia informale, non per vocazione all’evasione fiscale, ma per mancanza di alternative. Il lockdown, lungi dall’aver ridotto le disuguaglianze, le ha allargate, aggiungendovene di nuove come paradossale, ma non inaspettata, conseguenza di scelte pubbliche per fronteggiare la pandemia. Il forte aumento della povertà assoluta - quella che comporta l’impossibilità di mettere insieme il pranzo con la cena, di far fronte alle bollette, all’affitto - e le caratteristiche dei “nuovi poveri”, evidenziati da osservatori come la Caritas e altri soggetti che in queste settimane hanno cercato di fronteggiarla, mostrano quanto incidano queste molteplici disuguaglianze. Rendono ancora più inaccettabile il ritardo con cui gli aiuti sono programmati e ancora di più resi effettivamente disponibili, la loro frammentazione categoriale che continua a distinguere tra più, meno o affatto “meritevoli” di aiuto, nonostante non vi sia alcuna responsabilità individuale in quanto è accaduto e anzi i singoli sono letteralmente impotenti di fronte alle decisioni prese in nome della sicurezza collettiva. Il vizio tutto italiano di fare graduatorie tra i poveri e di considerarli come persone tendenzialmente inaffidabili, quando non pigre - che ha dato il peggio di sé nel dibattito sul Reddito di cittadinanza - continua a fare danni anche oggi, quando la povertà è chiaramente prodotta da circostanze al di fuori del controllo individuale e per decisione dell’autorità pubblica in nome del bene collettivo. Emerge nel dibattito attorno al Rem, a chi darlo, a come distinguerne i beneficiari da quelli del Reddito di cittadinanza. Ma riguarda anche la puntigliosa distinzione tra chi ha diritto a quale tipo di sostegno, in base non al bisogno, ma alla categoria di appartenenza. Intanto le file alla Caritas e agli altri centri di aiuto si allungano e, insieme alle disuguaglianze, aumenta il malcontento. La libertà di stampa non può cadere vittima del Covid-19 Corriere della Sera, 4 maggio 2020 L’intervento e l’appello del Ceo della Thomson Reuters Foundation nel World Press Freedom Day. Mentre il mondo cerca di far fronte alla velocità e alle dimensioni della devastazione provocata dal Covid-19, la necessità di accedere a informazioni fidate, accurate e indipendenti è più intensa che mai. Con tassi mondiali di mortalità che non sembrano voler rallentare, un’economia mondiale sbalzata dal suo asse e la società in una situazione di stallo, questa è un’emergenza che non ha precedenti. Lo faremmo con gli occhi bendati. Ogni giorno che passa ci costa migliaia di vite. Ma senza la libera e vitale circolazione delle informazioni - insegnamenti appresi da altri paesi, avvertimenti dei medici, perizie degli scienziati, comunicazioni di orientamento al pubblico - non siamo nemmeno in grado di lottare. La presenza di media liberi e vitali è più importante che mai. Eppure, uno degli effetti catastrofici di questa crisi è che sta spianando la strada alla repressione della libertà di stampa in tutto il mondo. Sembra che stia emergendo uno schema pericoloso: alcuni governi approfittano sempre più della pandemia per adottare misure di severità via via crescente, che impongono limitazioni alla copertura giornalistica. A breve termine tali misure sono estremamente dannose. Ma le conseguenze a lungo termine della soppressione del giornalismo indipendente potrebbero erodere in modo significativo le libertà civili. Perché si sta verificando tutto ciò? Esistono tre ragioni principali alla base della limitazione della libertà di stampa diretta dallo stato. La prima: alcuni governi, mossi dalla disperazione, stanno intervenendo soprattutto per contrastare la rapida diffusione di informazioni fuorvianti, alimentata dall’elevata fiducia riposta nei social media e da una maggior sete di notizie. Ma le misure adottate da questi paesi - persino da nazioni democratiche che finora hanno sostenuto la prosperità e la diversità dei media - non conoscono precedenti. Solo un mese fa, il governo del Sudafrica ha varato una nuova legge che criminalizza la disinformazione sul Covid-19, sanzionandola con pene detentive. Questa mossa ha destato la preoccupazione delle organizzazioni mondiali di difesa della libertà di stampa, tra cui il Committee to Protect Journalists, che fa notare che, per contrastare la minaccia della disinformazione, il governo dovrebbe concentrarsi esso stesso sulla comunicazione di informazioni affidabili, invece di aprire la strada alla censura della stampa. Nel Regno Unito, la forte reazione del governo a determinate coperture mediatiche che criticavano la sua gestione della crisi, ha indotto Richard Horton, direttore della rivista medica The Lancet ad accusare il governo di “riscrivere deliberatamente la storia, con la sua continua campagna di disinformazione sul Covid-19”. Nel frattempo, il primo ministro Narendra Modi ha presentato una serie di richieste che incoraggiano le principali agenzie di stampa indiane a pubblicare “storie positive e ispiratrici” sulla risposta del governo alla pandemia, citando la necessità di respingere le “dicerie” e la “negatività”. La seconda ragione per limitare la libertà di stampa è quella di sopprimere attivamente le notizie che potrebbero far sollevare critiche alle politiche e alla leadership in risposta alla crisi. Il Presidente Trump ha attirato le critiche delle organizzazioni per la libertà di stampa dopo aver biasimato apertamente i giornalisti che pongono domande sulla sua gestione della crisi durante le conferenze stampa. In Serbia è stato segnalato che alcuni giornalisti sono stati arrestati per avere pubblicato servizi sulle carenze di attrezzature mediche, mentre in Slovenia e nella Repubblica Ceca ai giornalisti viene impedito di partecipare alle conferenze stampa. Nel frattempo, a marzo l’Egitto ha espulso Ruth Michaelson del Guardian a causa del suo articolo sullo studio di un team di specialisti di malattie infettive che metteva in dubbio il numero ufficiale di casi di coronavirus nel paese. Analogamente, ad aprile l’Iran ha revocato la licenza dell’agenzia di stampa Reuters per aver segnalato una discrepanza tra le cifre ufficiali e quelle effettive del coronavirus. La sospensione è stata in seguito revocata. Infine, nei paesi in cui la libertà di stampa si trova già sotto attacco, l’intervento di controllo delle informazioni per il “bene pubblico” viene attualmente sfruttato per acquisire maggior potere politico. Solo tre settimane fa, il parlamento ungherese ha varato una legge che autorizza il Primo Ministro Viktor Orbán a governare per decreto, assegnandogli poteri d’emergenza senza precedenti, apparentemente fino al termine della pandemia. Chiunque diffonde “informazioni false” rischia una condanna a cinque anni di reclusione. Le misure hanno attirato le dure critiche della Commissione in data europea, e tredici Stati membri dell’UE hanno rilasciato una dichiarazione congiunta che esprime grave preoccupazione in merito al potenziale impatto sui diritti e sulle libertà fondamentali. Lo stato di emergenza recentemente dichiarato dalla Giordania attribuisce al Primo Ministro Omar Razzaz il potere di “monitorare il contenuto di giornali, annunci e di ogni altro metodo di comunicazione prima della pubblicazione, e di censurare e chiudere qualsiasi agenzia senza giustificazione”, oltre che di imporre numerose altre limitazioni ai diritti fondamentali. La violazione della legge può essere sanzionata anche con pene detentive. La Cina intanto insiste che grazie alle sue misure autoritarie - tra cui la revoca dei visti di un ampio numero di giornalisti internazionali - è riuscita a controllare il virus. Questa tesi è difficile da contestare in mancanza di notizie da parte della stampa libera. (La giornalista freelance Li Zehua, una delle prime a coprire la pandemia, è scomparsa). Dagli arresti in Venezuela e Turchia al decreto di emergenza della Romania che consente alle autorità di chiudere siti web ed eliminare i contenuti considerati “fake news”, fino alla Russia, dove nuove leggi vengono utilizzate per censurare i servizi sulla pandemia: la legge viene trasformata in un’arma contro la libertà di stampa, e i giornalisti vengono azzittiti. Se ignorate, le conseguenze reali e devastanti per il libero accesso alle informazioni saranno durature e catastrofiche. Thomson Reuters Foundation utilizza il potere del giornalismo insieme a quello della legge per difendere e promuovere la libertà di stampa, il vero fondamento della democrazia. La nostra risposta più immediata alla pandemia comprende la collaborazione con organizzazioni partner - tra cui il World Economic Forum, il Global Fund, Google e l’Ocse - al fine di valutare le capacità giornalistiche nei paesi su cui incombe la pandemia. Il Covid-19 ha fatto molte vittime. Ma non possiamo permettere che tra le vittime della pandemia ci sia anche la libertà di stampa. *Ceo della Thomson Reuters Foundation Egitto. Viaggio nell’inferno del “faraone” al-Sisi, dove anche l’ironia è una condanna a morte di Umberto De Giovannangeli globalist.it, 4 maggio 2020 Shady Habash è morto a soli 22 anni, da 26 mesi attendeva il processo. Era a Tora, la stessa prigione dove è detenuto Patrick Zaki”. “Colpevole” di aver fatto un video su Al-Sisi. Nell’Egitto del “faraone” al-Sisi si muore in una cella dove sei stato rinchiuso per avere girato un video ironico sul presidente-generale. Nello stato di polizia egiziano, l’ironia è una minaccia alla sicurezza nazionale, e chiunque si macchia di questo “delitto” va messo a tacere. Definitivamente. È la storia di Shady Habash. “Con i compagni di cella hanno gridato tutta la notte per chiedere un medico ma nessuno è intervenuto. Shady Habash è morto a soli 22 anni, da 26 mesi attendeva il processo. Era a Tora, la stessa prigione dove è detenuto Patrick Zaki”. Così all’agenzia Dire Amr Abdelwahab, un amico di Zaki, il ricercatore egiziano arrestato l’8 febbraio scorso con l’accusa di sedizione tramite i social network e da allora in detenzione cautelare nel carcere di massima sicurezza del Cairo. Colpevole di ironia - Habash era stato arrestato nel marzo 2018 con l’accusa di “diffusione di notizie false” e “appartenenza a un’organizzazione illegale”, secondo la procura, ma mai processato. Aveva realizzato il videoclip della canzone “Balaha” (dattero), di Rami Issam, un cantante rock che si era fatto un nome durante la rivolta popolare del gennaio-febbraio 2011 contro l’allora presidente Hosni Mubarak e fuggito in esilio in Svezia. Un tempo censurato in Egitto, il filmato è stato visto più di 5 milioni di volte su YouTube. Secondo la Rete araba per i diritti umani e l’informazione (Anhri) Habash è morto per “negligenza e mancanza di giustizia”. Il giovane regista non è mai stato processato. Nessun commento al momento del governo egiziano. In una lettera pubblicata lo scorso ottobre dai suoi colleghi, Habash aveva scritto: “Ho bisogno del vostro sostegno per scampare alla morte. Negli ultimi due anni ho cercato di resistere essere la stessa persona che conoscete una volta uscito dal carcere, ma non posso più farlo”. Sulle cause ufficiali della morte di Habash ci sono notizie contrastanti e non è chiaro se sia stato contagiato dal Covid-19 o morto per altri motivi. Da due mesi a questa parte il governo del Cairo ha deciso di interrompere i processi e soprattutto le visite e i contatti dei familiari, specie per i detenuti politici. Il giovane regista non è mai stato processato. Silenzio da parte del governo egiziano. “Quanto è accaduto - aggiunge Amr Abdelwahab all’agenzia italiana - la dice lunga sullo stato in cui versano i servizi medico-sanitari all’interno del carcere di Tora, nel bel mezzo di una epidemia poi”. Da tempo difensori per i diritti umani e associazioni egiziane e internazionali denunciano arresti arbitrari e gravi violazioni all’interno delle carceri. Le organizzazioni sostengono che dopo il colpo di stato del 2013, che ha portato al potere il presidente al-Sisi, decine di migliaia tra manifestanti, intellettuali ed oppositori politici sarebbero finite dietro le sbarre. E così Shady è finito nell’immenso cimitero dei deceduti, dentro e fuori le galere, che è l’Egitto di al-Sisi. Dove prosegue il perfido tormento dello “stop and go” che una magistratura asservita all’esercito ha adottato nei confronti di migliaia di giovani. Fermati, arrestati, rilasciati e ricondotti alla spirale di partenza. Amr Abdelwahab alla Dire conclude: “Nel suo ultimo messaggio, Shady aveva scritto: ‘Sostengono che la prigione non possa ucciderti, ma la solitudine può. Per questo ho bisogno del sostegno di ognuno di voi all’esterno affinché io sopravviva”. In pratica - dice l’attivista - ci chiedeva di non essere dimenticato”. Anche Patrick Zaki, attivista e ricercatore iscritto a un master dell’Università di Bologna, ha chiesto tempo fa la stessa cosa. Per lui si è creata una mobilitazione internazionale per chiederne la scarcerazione sostenendo che le accuse a suo carico “sono false e illegali”. Ma Zaki resta in galera. E cresce di giorno in giorno la preoccupazione per le sue condizioni psico-fisiche e per la sua stessa vita. Desaparecidos - Nell’Egitto di al-Sisi i “desaparecidos” si contano ormai a migliaia. E più della metà dei detenuti nelle carceri lo sono per motivi politici. Per contenerli, il governo ha dovuto costruire 19 nuove strutture carcerarie. Il generale-presidente esercita un potere che si ramifica in tutta la società attraverso l’esercito, la polizia, le bande paramilitari e i servizi segreti, i famigerati Mukhabarat, quasi sempre più di uno. Al-Sisi si pone all’apice di un triangolo, quello dello Stato-ombra: esercito, Ministero degli Interni (e l’Nsa, la National Security Agenc.) e Gis (General Intelligence Service, i servizi segreti esterni). Se lo standard di sicurezza si misurasse sul numero degli oppositori incarcerati, l’Egitto di al-Sisi I° sarebbe tra i Paesi più sicuri al mondo: recenti rapporti delle più autorevoli organizzazioni internazionali per i diritti umani, da Human Rights Watch ad Amnesty International, calcolano in oltre 60mila i detenuti politici (un numero pari all’intera popolazione carceraria italiana): membri dei fuorilegge Fratelli musulmani, ma anche blogger, attivisti per i diritti umani, avvocati...Tutti accusati di attentare alla sicurezza dello Stato. Lo Stato di polizia all’ombra delle Piramidi. L’inferno all’ombra delle Piramidi - Le autorità egiziane tengono i detenuti minorenni insieme agli adulti, in violazione del diritto internazionale dei diritti umani. In alcuni casi, sono imprigionati in celle sovraffollate e non ricevono cibo in quantità sufficiente. Almeno due minorenni sono stati sottoposti a lunghi periodi di isolamento. Un quadro agghiacciante è quello che emerge da un recente rapporto di Amnesty International. “Le autorità egiziane hanno sottoposto minorenni a orribili violazioni dei diritti umani come la tortura, la detenzione in isolamento per lunghi periodi di tempo e la sparizione forzata per periodi anche di sette mesi, dimostrando in questo modo un disprezzo assolutamente vergognoso per i diritti dei minori”, denuncia Najia Bounaim, direttrice delle campagne sull’Africa del Nord di Amnesty International. “Risulta particolarmente oltraggioso il fatto che l’Egitto, firmatario della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, violi così clamorosamente i diritti dei minori”, sottolinea Bounaim. Minorenni sono stati inoltre processati in modo iniquo, talvolta in corte marziale, interrogati in assenza di avvocati e tutori legali e incriminati sulla base di “confessioni” estorte con la tortura dopo aver passato fino a quattro anni in detenzione preventiva. Almeno tre minorenni sono stati condannati a morte al termine di processi irregolari di massa: due condanne sono state poi commutate, la terza è sotto appello. Sulla base del diritto internazionale, il carcere dev’essere solo l’ultima opzione per i minorenni. Sia la legge egiziana che le norme internazionali prevedono che i minorenni debbano essere processati da tribunali minorili. Tuttavia, in Egitto ragazzi dai 15 anni in su vengono processati insieme agli adulti, a volte persino in corte marziale e nei tribunali per la sicurezza dello Stato. Sotto la presidenza al-Sisi e col pretesto di combattere il terrorismo, migliaia di persone sono state arrestate arbitrariamente - centinaia delle quali per aver espresso critiche o manifestato pacificamente - ed è proseguita l’impunità per le amplissime violazioni dei diritti umani quali i maltrattamenti e le torture, le sparizioni forzate di massa, le esecuzioni extragiudiziali e l’uso eccessivo della forza. Dal 2014 sono state emesse oltre 2112 condanne a morte, spesso al termine di processi iniqui, almeno 223 delle quali poi eseguite. La legge del 2017 sulle Ong è stata il primo esempio delle norme draconiane introdotte dalle autorità egiziane per stroncare la libertà di espressione, di associazione e di manifestazione pacifica. La legge consente alle autorità di negare il riconoscimento delle Ong, di limitarne attività e finanziamenti e di indagare il loro personale per reati definiti in modo del tutto vago. Nel 2018 sono state approvate la legge sui mezzi d’informazione e quella sui crimini informatici, che hanno esteso ulteriormente i poteri di censura sulla stampa cartacea e online e sulle emittenti radio-televisive conclude Bounaim. La tortura di Stato non risparmia i bambini - “Ci sono bambini che descrivono di essere stati vittime di ‘“waterboarding” e di scariche elettriche sulla lingua e sui genitali, senza alcuna conseguenza giuridica per le forze di sicurezza egiziane,” spiega Bill Van Esveld, responsabile del settore diritti dei bambini di Human Rights Watch (Hrw). Nel rapporto di 43 pagine, Hrw sostiene di aver documentato abusi contro 20 ragazzi di età compresa tra 12 e 17 anni al momento dell’arresto. Quindici di loro hanno dichiarato di essere stati torturati in detenzione preventiva, di solito durante un interrogatorio tenuto mentre erano in isolamento. Sette bambini hanno riferito che gli agenti di sicurezza li hanno torturati con l’elettricità, incluso il “taser”. Tra le storie riportate nella denuncia quella di un ragazzo che ha raccontato di essere stato arrestato all’età di 16 anni e che temeva di non poter “sposarsi o essere in grado di avere figli” a causa di ciò che gli avevano fatto gli agenti di sicurezza durante la detenzione. Le accuse di Hrw sono confermate da Belady, un’organizzazione non governativa che aiuta i bambini di strada che ha raccolto testimonianze verificate dei ragazzi, delle loro famiglie e degli avvocati difensori, e documenti giudiziari, ricorsi alle autorità, cartelle cliniche e video. “I racconti strazianti di questi bambini e delle loro famiglie rivelano come il meccanismo di repressione egiziano abbia sottoposto i bambini a gravi abusi,” spiega Aya Hijazi, condirettrice di Belady. Hijazi, che ha la doppia cittadinanza egiziana e americana è stata arrestata per l’attivismo di Belady, che in arabo significa “la nostra nazione”. È stata arrestata insieme a suo marito e ad altri sei nel maggio 2014 con l’accusa di abuso di minori per poi essere assolta e rilasciata ma dopo aver trascorso in carcere quasi tre anni. Questo è l’Egitto ai tempi di al-Sisi. Va ricordato al nostro Governo, in nome di Giulio Regeni, vittima di un assassinio di Stato che a distanza di anni è rimasto impunito. Egitto. Muore in carcere il regista di un video critico di al Sisi di Francesca Caferri La Repubblica, 4 maggio 2020 Shady Habash aveva 24 anni: da più di due anni era in attesa di processo. Un fotografo e regista egiziano è morto venerdì nel carcere di Tora, alla periferia del Cairo, lo stesso in cui è rinchiuso Patrick Zaky: da oltre due anni era in attesa di processo dopo essere stato arrestato per aver diretto il video musicale di una canzone critica nei confronti del presidente Abdel Fatah al Sisi. Le cause della morte di Shady Habash, che aveva 24 anni, non sono state rese note. Ma la sua morte porta di nuovo alla ribalta le condizioni in cui i detenuti vivono all’interno delle carceri egiziane, già normalmente sporche e sovraffolate e in queste settimane rese ancora più pericolose dal dilagare del coronavirus. Una condizione già evidenziata dalla famiglia e dagli avvocati di Zaky, il ricercatore 28enne dell’università di Bologna arrestato al Cairo a febbraio. Habash era stato arrestato nel marzo 2018 per aver curato la regia di “Balaha”, una canzone di Ramy Essam, uno dei più famosi cantanti egiziani, icona della rivoluzione di piazza Tahrir, a sua volta arrestato, torturato e poi fuggito in Svezia. “Shady non aveva niente a che vedere con il contenuto della canzone. Da regista affermato lavorava costantemente su progetti in Medio Oriente e quello di “Balaha” non era che uno dei tanti video che aveva diretto”, scrive Essam sulla sua pagina web. Anche l’autore della canzone era stato arrestato e condannato, nell’agosto 2018, a tre anni di carcere. Contro Habash invece non c’era stata sentenza, né processo: i capi di imputazione contro di lui (diffusione di notizie false, appartenenza a un gruppo terroristico ecc) sono simili a quelli che pendono sulla testa di migliaia di egiziani accusati di essere oppositori del presidente al Sisi. Incluso Patrik Zaky. Per mesi il ragazzo è stato convocato dai giudici e la sua detenzione prolungata di 45 giorni in 45 giorni senza poter discutere delle accuse. Un meccanismo più volte denunciato da Amnesty International e da altri gruppi che si occupano di diritti umani. “A uccidere non è la prigione ma la solitudine. Resistenza in prigione significa cercare di non perdere la testa e non lasciarsi morire lentamente perché sei stato buttato in una cella due anni fa senza motivo e non sai se e quando finirà e se fuori si ricordano di te”, scriveva Habash in una lettera fatta uscire dal carcere lo scorso inverno e diffusa da Ramy Essam. Turchia. Dissenso, storia di Helin e Ibrahim di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 4 maggio 2020 “Ci hanno lasciato solo i nostri corpi per combattere”. Lei, la cantante Bölek, si è spenta il 3 aprile a Istanbul dopo 288 giorni di sciopero della fame. Aveva 28 anni. Lui, Gökç ek, 40 anni, le è sempre stato accanto, condividendone la lotta. Musicisti ridotti a scheletri da un regime che non sopporta le critiche. “Questa resistenza è la nostra ultima risorsa, non ci hanno lasciato nient’altro da fare. Moriremo per cantare? Sì, perché il nostro è amore per le persone e per la patria”. Ibrahim Gökçek, 40 anni, è su una sedia a rotelle, stremato dal “digiuno alla morte” iniziato lo scorso maggio e dal decesso della sua compagna di lotta, la cantante Helin Bölek che si è spenta il 3 aprile a Istanbul dopo 288 giorni senza cibo: “Lei è morta, ora morirò io. E che succederà? Siete contenti adesso?” ha detto con un filo di voce il giorno del funerale. Le foto della ragazza, 28 anni, ridotta a uno scheletro hanno fatto il giro del mondo e acceso i riflettori sulla band Grup Yorum, punto di riferimento nell’ambito della musica di protesta turca con 20 album realizzati, 2 milioni di dischi venduti, concerti e tournée in diversi Paesi fino a quando, nel 2015, non sono iniziati i guai giudiziari e i raid della polizia nell’Idil Kültür Merkezi, il centro culturale nel quartiere di Okmeydan?, un’area di Istanbul da sempre antigovernativa, dove i musicisti spesso si esibiscono o provano i loro pezzi. Il gruppo, così, si è ritrovato con le spalle al muro: “Da cinque anni i nostri concerti, piccoli o grandi, sono vietati. Le nostre sale prova chiuse. Ci sono rimasti solo i nostri corpi per combattere” spiega Gökçek a 7. Non a caso l’ultimo disco uscito nel 2017 si intitola Ille Kavga (Lotta ad ogni costo) e mostra sulla copertina una fotografia degli strumenti musicali distrutti dalla polizia durante i blitz. Helin e Ibrahim hanno iniziato lo sciopero della fame il 16 maggio scorso. Lei era stata arrestata il 23 febbraio del 2018, lui il 4 marzo del 2019. L’accusa per entrambi è di appartenenza o sostegno al Dhkp-C, un’organizzazione armata di estrema sinistra considerata terrorista non solo dalla Turchia, ma anche dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea. I due hanno sempre smentito qualsiasi legame: “Non esiste una cosa del genere”, dice Gökçek. “Siamo un gruppo con un pensiero marxista-leninista e sappiamo pensare con la nostra testa”. Di prove reali della loro colpevolezza non ne sono mai state trovate ma questo non ha impedito una lunga detenzione preventiva. La protesta dei due artisti è volta ad ottenere la scarcerazione immediata di tutti i membri del gruppo arrestati, l’annullamento del mandato di cattura per gli altri musicisti, la fine delle irruzioni della polizia nel centro culturale Idil e la cancellazione del divieto di esibizione. Richieste che sono rimaste lettera morta. Per questo i due attivisti a gennaio hanno deciso di alzare la posta e convertire lo sciopero della fame in “digiuno alla morte”, una forma di resistenza che prevede di non mangiare fino a perdere la vita. Processo alla musica - Il 14 febbraio 2020 si è svolta la prima udienza del maxi processo che porta il nome del gruppo e che coinvolge circa 30 membri. In carcere ci sono ancora cinque musicisti mentre due sono fuggiti all’estero nel 2018 e gli altri sono in libertà vigilata. L’11 marzo le condizioni fisiche di Bölek e Gökçek erano diventate critiche e le autorità avevano deciso il trasferimento forzato in ospedale ma i due avevano rifiutato le cure mediche ed erano tornati nelle loro abitazioni, che avevano chiamato “case della Resistenza”. La mamma di Helin, Aygül Bilgi, aveva implorato le autorità: “Mia figlia soffre di dolori indicibili, voglio che possa tornare a cantare. Non volete vedere queste persone brillanti tornare sul palco? Vi prego fate qualcosa”. La morte per la ragazza è arrivata il 3 aprile mentre Ibrahim continua a lottare, anche se non si sa per quanto: “Potrebbe morire in qualsiasi momento”, dice al telefono il suo avvocato Ezgi Cakir, “vomita in continuazione, ha piaghe da decubito e gli duole tutto il corpo”. “Bella ciao” in turco - Eppure, nonostante i divieti e gli arresti, Grup Yurum, fondato nel 1985 da quattro giovani universitari, continua ad avere un grande seguito. “Perché noi siamo il nostro pubblico”, spiega Gökçek che nella band suona il basso. “Negli anni più di 50 musicisti hanno suonato con noi. Anche se i nostri concerti sono proibiti la nostra gente va sul palco e canta. Noi siamo la loro voce”. Il genere è quello della musica popolare ispirata dal cantore popolare turco Ruhi Su ma anche dagli Inti-Illimani. I testi, ovviamente, sono politici, parlano di lavoratori sfruttati, di minoranze perseguitate e incitano alla rivolta. Una delle loro canzoni è un rifacimento di Bella ciao in turco. Ibrahim non nasconde che il messaggio sia rivoluzionario e, quindi, inviso a un potere politico che sembra poco incline a dare spazio al dissenso. “Sì è vero abbiamo incitato alla resistenza, abbiamo sempre voluto mostrare alla nostra gente quanto possiamo essere forti quando siamo insieme ai concerti. Loro si sentono coinvolti in prima persona. Per questo esisteremo sempre, proprio come le poesie di Pir Sultan Abdal (un poeta Alevi vissuto tra il 1450 e il 1550 ndr)”. Funerali senza pace - Per essere più inclusivi nei testi delle canzoni vengono usate le diverse lingue del territorio anatolico, tra cui il kurmancî, l’arabo, il laz, lo zazaki, l’armeno. La morte della cantante, che si era unita al gruppo nel 2015, non poteva non scatenare la polemica politica. A cominciare è stato Özgür Özel, vicepresidente del principale partito di opposizione, il Chp: “Siamo rattristati”, ha scritto in un tweet il 4 aprile, “che l’artista Helin Bölek, componente di Grup Yorum, abbia perso la vita digiunando. Oggi è arrivato il momento di agire per tenere in vita Ibrahim Gökçek. Le loro richieste devono essere esaudite, non vogliamo che un’altra persona sia sepolta”. A rispondere sul social network, molto risentito, il ministro dell’Interno Süleyman Soylu: “I vostri rappresentanti, che sono stati portati in ospedale ma a loro il Dhkp-C ha negato ogni trattamento e li ha fatti uscire. Voi, @eczozgurozel (il nome di Özgür Özel su Twitter) siete quelli che santificano la morte e portano decessi al mulino del Dhkp-C. Avete mostrato ancora una volta il vostro vero volto”. Accuse pesanti che danno l’idea di quanto la corda sia tesa tra il governo e l’opposizione. Per Bölek non c’è stata pace neanche il giorno dei funerali. La polizia è intervenuta per impedire la sepoltura della cantante nel quartiere di Okmeydani. In manetta l’autista del carro funebre - Centinaia di persone si erano date appuntamento davanti al centro culturale Idil ma si sono trovate di fronte gli agenti. In manette sono finiti l’autista della vettura che trasportava la salma e quello della vettura con a bordo la famiglia della cantante. Perché tanto accanimento? Ufficialmente l’intervento è stato giustificato sulla base del fatto che non era stata autorizzata una sepoltura pubblica. Ma dietro c’è la paura che il decesso abbia una risonanza mediatica internazionale e attiri nuove critiche nei confronti di Ankara. D’altra parte la fama del gruppo è talmente grande che nel 2015 la stella del folk di protesta americano Joan Baez aveva partecipato a un concerto davanti al tribunale di Istanbul per protestare contro le incarcerazioni. Alla cantante era stata regalata una chitarra distrutta e lei aveva invitato a ricomporne i pezzi “con amore e gentilezza”. La moglie di Ibrahim - L’occasione per un gesto di clemenza è appena sfumata. Il 15 aprile il Parlamento turco ha approvato una legge per il rilascio di 90 mila detenuti in modo da contrastare la diffusione del coronavirus nelle carceri ma dal provvedimento sono esclusi i detenuti per reati legati al terrorismo, vale a dire centinaia di oppositori politici, intellettuali e giornalisti, tra cui, oltre al leader curdo Selahattin Demirtas, che soffre di problemi cardiaci, i cinque membri di Grup Yorum: Özgürcan Elbiz, Ali Arac?, Emel Ye il?rmak, Bergün Varan e Sultan Gökçek. Quest’ultima è la moglie di Ibrahim e non potrà essere al fianco del marito morente. Algeria. Amnesty: liberate Khaled Drareni, giornalista algerino incarcerato di Irene Soave Corriere della Sera, 4 maggio 2020 Il giornalista ha filmato e documentato manifestazioni: un reato che gli può costare fino a 10 anni. Le Ong: in Algeria i regimi usano il Covid-19 come museruola per la stampa. Giornalisti da tutto il mondo - dall’Italia finora sono 5, su 29 video raccolti da Amnesty International nella giornata mondiale della libertà di stampa - stanno girando appelli video per la liberazione del collega algerino Khaled Drareni, molto celebre in patria e agli arresti da marzo. Il giornalista, corrispondente per il canale francese Tv5 Monde e fondatore del portale di informazione indipendente Casbah Tribune, è stato arrestato il 7 marzo, poi rilasciato e nuovamente arrestato per avere seguito, come di consueto, una manifestazione del movimento antisistema Hirak, che da febbraio 2019 protesta contro la corruzione del governo. Le accuse, di “incitamento a manifestazione non armata” e “danno all’integrità territoriale della nazione”, potrebbero costargli una condanna a 10 anni. Inizialmente incarcerato ad Algeri, è stato da poco tradotto nel carcere di Kolea, nella regione settentrionale di Tipaza, dove peraltro si è acceso un focolaio di Covid-19. Da molto tempo Amnesty International denuncia le limitazioni alla stampa indipendente in corso in Algeria, dove da gennaio, dopo le dimissioni del ventennale presidente Abdelaziz Bouteflika lo scorso anno e un governo provvisorio, il nuovo capo di stato è Abdelmadjid Tebboune, e il capo del governo Abdelaziz Djerad. Il movimento Hirak era nato proprio a febbraio 2019, chiedendo le dimissioni di Bouteflika e che non si ripresentasse per un quinto mandato: ogni martedì e venerdì studenti e militanti scendevano in strada a manifestare. Cacciato Bouteflika, il movimento ha seguitato a protestare comunque, contro la corruzione del regime; Drareni è stato tra i giornalisti più attivi nel dare voce alla protesta, che si è fermata solo quest’anno quando, il 17 marzo, il governo ha vietato ogni assembramento o corteo a causa del coronavirus. Pochi giorni dopo, l’arresto preventivo di Drareni, che in Algeria è anche il rappresentante nazionale di Reporters sans Frontieres. Diverse Ong, oltre a Rsf e a Amnesty, si sono mobilitate dopo il suo arresto. “Il regime usa il Covid-19 per mettere la museruola al giornalismo indipendente”, recita un comunicato di Rsf. E un’altra figura chiave del movimento Hirak, Karim Tabbou, è stato condannato in questi giorni a un anno di prigione; altri due militanti sono stati arrestati all’ultima manifestazione di Hirak, il 7 marzo, e sono detenuti ad Algeri, e una giornalista, Sofiane Merakchi, corrispondente di una tv libanese, è in carcerazione preventiva da settembre per avere fornito immagini delle manifestazioni a Al-Jazeera. Infine, il giornalista Belkacem Djir è in carcere “per motivi sconosciuti”, riporta Rsf.