Carcere, idee per una Fase 2 di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 3 maggio 2020 Mentre come Volontariato cerchiamo di raccogliere le nostre proposte rispetto alla Fase 2, ci giunge la notizia che sono stati nominati un nuovo Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e un nuovo Vice Capo, tutti e due magistrati esponenti dell’Antimafia. Non abbiamo nessun pregiudizio sulle persone, siamo un Volontariato che lavora a fianco delle persone detenute per una tutela dei loro diritti, ma anche per stimolare una assunzione di responsabilità nei loro percorsi di risocializzazione, e da anni coinvolgiamo in questi percorsi famigliari delle vittime in un’ottica di Giustizia riparativa. Usando il rispetto verso gli “altri da noi”, che sempre è elemento fondante del nostro lavoro, ci permettiamo di sottolineare che a dirigere le carceri dovrebbero essere chiamate ANCHE persone competenti in materia di rieducazione, perché questo è il mandato costituzionale. Quindi chiediamo che, come in passato, in qualità di Vice Capo sia affiancata alle due figure già nominate un’altra figura che si occupi esclusivamente di percorsi di risocializzazione. Queste le nostre riflessioni sulla Fase 2, su cui chiediamo da subito di essere chiamati a un confronto e a una collaborazione costruttiva. I colloqui con i famigliari devono gradualmente riprendere Non è pensabile che le persone detenute non possano incontrare i loro famigliari “a tempo indeterminato” in attesa che si trovi il vaccino per il coronavirus, quindi l’Amministrazione è opportuno che cominci a pensare a misure per permettere una graduale ripresa dei colloqui: dal rafforzare il sistema delle prenotazioni telefoniche all’attrezzare meglio le aree verdi all’aumentare in modo consistente giorni e orari di colloquio, per poter ridurre i numeri e distanziare le persone (pensiamo con sgomento agli sgabelli in acciaio imbullonati al pavimento di Oristano…) al predisporre spazi di attesa più ampi (pensiamo alla stanzetta del carcere di Parma dove sono accatastate di solito decine di famigliari…). Questa emergenza almeno potrebbe costringere a ripensare gli spazi tristi degli affetti, il Volontariato ha sempre avuto una piattaforma articolata su questi temi ed è disponibile a dare senz’altro un contributo forte. Le tecnologie sono “entrate” per il virus, ora non devono più uscire La cosa più drammatica che potrebbe succedere nella fase 2 è che le tecnologie, entrate di prepotenza in carcere, anche per far fronte all’epidemia di rabbia che rischiava di diffondersi e inquinare le condizioni di vita già difficili, ne escano appena si tornerà a un po’ di normalità ripristinando i colloqui visivi. No, non si deve tornare indietro perché anche in condizioni “normali” i rapporti con le famiglie, le telefonate e i colloqui nel nostro Paese sono veramente una miseria. E ci sono persone detenute che non possono fare i colloqui visivi (lontananza, parenti anziani e malati...). Abbiamo visto detenuti piangere dopo aver parlato in videochiamata con un genitore che non vedevano da anni, non è pensabile che questa boccata di umanità a costo zero possa finire. E Skype, dove già c’era, non basta, è comunque uno strumento elitario. Riaprire al Volontariato significa riportare in carcere la funzione costituzionale della pena Di massima importanza risulta riaprire l’accesso ai volontari e agli operatori della società civile, che attraverso il loro impegno realizzano progetti, che costituiscono importanti percorsi di crescita per le persone detenute. Oggi sono ancora interrotti i corsi formativi finanziati dalle Regioni, anche con fondi europei (che rischiano di andare persi), e i progetti pensati e realizzati dal Volontariato, progetti che spesso permettono di maturare dei percorsi di crescita e di consapevolezza sul proprio ruolo all’interno della società e rappresentano l’essenza della funzione rieducativa/risocializzante della pena. I volontari, assieme ai familiari dei detenuti, sono state le prime persone “sacrificate” in nome della sicurezza sanitaria all’interno degli Istituti penitenziari, ma, come sta accadendo per il resto del territorio, anche all’interno delle carceri si deve pensare ad una fase 2. È quindi necessario reintrodurre una “vita sociale” nelle carceri riportando al loro interno la società civile attraverso delle corrette procedure di accesso al carcere a tutela dei volontari stessi, degli operatori e dei detenuti, tra cui l’utilizzo dei dispositivi individuali di protezione (mascherina, guanti e gel). Zoom, Meet, Skype, quando le Videoconferenze sono cibo per la mente Le attività scolastiche in videoconferenza sono state autorizzate anche nelle carceri, e stanno cominciando faticosamente a funzionare. Quella della videoconferenza è una modalità che potrebbe aprire grandi possibilità, soprattutto per ampliare gli spazi dello studio e dei percorsi rieducativi. In tanti oggi mettono le mani avanti dicendo che c’è il rischio che le tecnologie si sostituiscano alla presenza viva della società civile, il cui ruolo è fondamentale nelle carceri. Noi pensiamo che invece le videoconferenze possano essere un autentico arricchimento: mettere insieme per esempio, come si sta facendo a Padova, voci come quella di Fiammetta Borsellino, della figlia di un detenuto dell’Alta Sicurezza e di persone che hanno finito di scontare una pena, che dialogano con gli studenti, è una opportunità che deve coinvolgere stabilmente anche il carcere e le persone detenute: si tratta infatti di un’autentica rivoluzione culturale di enorme valore, che mette al centro le testimonianze dei detenuti e l’assunzione di responsabilità, cioè il cuore vero della rieducazione. Ma dà anche degli strumenti tecnologici fondamentali per il loro futuro alle persone rinchiuse, che non possono restare dei “senzatetto digitali”, se non vogliamo che il reinserimento diventi ogni giorno più difficile in una società, che le tecnologie le dovrà mettere sempre più al centro della sua vita. Quando il deserto rischia di essere sia “dentro” che “fuori” Il reinserimento significa anche accesso ai permessi premio e poi alle misure alternative. I permessi oggi sono bloccati, non possono rimanerlo ancora a lungo, se non vogliamo svuotare di senso e di speranza le pene. Devono essere attuati, nel rispetto della sicurezza sanitaria. Quanto alle misure alternative, se già era complicato prima avere una offerta di lavoro per accedervi, dopo, nella fase 2, diventerà una guerra tra poveri dove chi esce dal carcere avrà ancora meno opportunità. E “dentro” le persone si vedranno intrappolate, senza futuro, spaventate. Inoltre anche dentro è diminuita l’offerta di lavoro negli istituti dove era più alta grazie alle cooperative sociali, anch’esse ora come tutte le aziende sono in seria difficoltà, anche se dove sono presenti stanno lottando strenuamente per mantenere le attività. E anche per le famiglie, con la crisi economica che si sta profilando, sarà più difficile sostenere i propri cari detenuti. Ci vorrà allora il doppio di attenzione, anche rispetto al rischio di patologie come la depressione, da parte delle Istituzioni, ma anche di quel Volontariato che accoglie e sostiene i percorsi di reinserimento, e delle cooperative che sono più attrezzate per offrire opportunità lavorative a soggetti svantaggiati. Già abbiamo collaborato con il Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità sulla questione cruciale dell’accoglienza per chi può accedere a misure come la detenzione domiciliare, vogliamo continuare a farlo perché, nella difficile fase dell’uscita dal carcere, non vengano vanificati percorsi di reinserimento complessi, che richiedono attenzione e accompagnamento. La sentenza della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo non può essere “cancellata” Il coronavirus ha distrutto le nostre illusioni di vivere in un mondo in cui non ci siano malattie che non si possano sconfiggere. In questo quadro già desolante di per sé, in cui il sovraffollamento dovrebbe essere motivo di riflessione sui rischi che si corrono lì dove il distanziamento sociale non è possibile, si inserisce una polemica per detenzioni domiciliari concesse a detenuti in 41bis. Guardiamo il caso che ha creato più scandalo, quello di Francesco Bonura, un esponente di spicco della mafia. Ma davvero siamo messi così male, da vivere in uno Stato che ha paura di un uomo di 78 anni, con un tumore grave, cardiopatico, con ancora da scontare pochi mesi di carcere? una magistrata rispetta la legge e manda quest’uomo in detenzione domiciliare, usando gli strumenti che la legge le dà, non per l’emergenza coronavirus, ma perché semplicemente il diritto alla salute vale per tutti, anche per i criminali. Ricordiamo che le rivolte hanno comunque fatto emergere tanta disperazione, rabbia e morte, ma nessun vero disegno eversivo; e poi non c’è nessuna misura, fra quelle legate all’epidemia da coronavirus, che possa essere applicata in qualche modo alle persone in carcere per reati della criminalità organizzata. Dove c’è stata qualche scarcerazione, di qualche disperato con pesanti patologie, perché comunque anche un mafioso con un tumore gravissimo è un disperato, si è trattato di tutelare il diritto alla salute come vuole la nostra Costituzione. Ed è uno Stato forte quello che sa prendersi cura della salute di TUTTI, anche dei mafiosi. Insieme, a fianco dei Garanti Il Garante Nazionale e i Garanti regionali hanno avviato una prima riflessione sulle prospettive della fase 2. Ai Garanti allora proponiamo, come già abbiamo iniziato a fare nel Veneto, che il confronto avvenga anche con il Volontariato e le cooperative sociali, che chiedono di essere coinvolti da subito, perché è adesso che c’è bisogno che la società civile torni a essere presente capillarmente nelle carceri e nell’area penale esterna: questa deve essere non un’occasione per pensare di “fare da soli” ma un’opportunità per lavorare fianco a fianco, ognuno valorizzando la sua specificità. Vogliamo tornare a portare nelle carceri le nostre idee, le nostre risorse, la nostra capacità innovativa, e vogliamo contribuire con la nostra competenza a informare e sensibilizzare le persone “dentro” e la società “fuori”, bombardata da una informazione, spesso superficiale e imprecisa. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Carceri, Petralia a capo del Dap di Gianni Santamaria Avvenire, 3 maggio 2020 Cambio della guardia dopo le dimissioni di Basentini. Il nuovo numero uno è il pg di Reggio Calabria. Subito una circolare ai direttori: “Comunicare al Dipartimento ogni richiesta dei detenuti al 41bis”. Cambio della guardia alla direzione del Dap, dopo le polemiche sulle scarcerazioni di mafiosi, che hanno indotto il direttore del Dipartimento, Francesco Basentini, a dare le dimissioni. Ieri il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha chiamato al suo posto il procuratore generale di Reggio Calabria Dino Petralia, magistrato in prima linea nella lotta alle cosche. Le dimissioni di Basentini sono state formalizzate ieri, nel giorno dell’insediamento come vice di Roberto Tartaglia, nominato nei giorni scorsi (e già collaboratore di Petralia a Palermo). E subito arriva un segnale della volontà di evitare nuove scarcerazioni di boss della criminalità organizzata. Una Circolare diramata ieri sera a tutti gli istituti penitenziari invita, infatti, i direttori a comunicare immediatamente al dipartimento le istanze presentate dai detenuti sottoposti al regime “41bis” o appartenenti al circuito di alta sicurezza. La scelta di un nome di peso nella lotta alla mafia trova ampia soddisfazione tra le forze politiche che avevano chiesto una scelta di alto profilo. Ma non sopisce i malumori dell’opposizione, che ha messo nel mirino lo stesso Guardasigilli, chiedendo anche a lui di lasciare. In attesa che il Csm risponda alla richiesta di collocare fuori ruolo Petralia, Bonafede lo definisce “un magistrato che ha speso la sua vita per la giustizia e la lotta alla mafia”. E vari esponenti del M5S, a partire dal capo politico Vito Crimi, sostengono la scelta del loro ministro. Di “ottima notizia” parla anche l’ex collega e oggi senatore di Leu Piero Grasso. Il centrodestra invece continua nella polemica con Bonafede e il governo, accusato da Giorgia Meloni (Fdi) di volere “porre riparo al danno delle scarcerazioni con la burocrazia”. Un esecutivo “senza strategia” e che asseconderebbe la “matrice forcaiola e manettara” di Pd e M5s, incalza Enrico Costa (Fi). Al momento di comunicare al ministro le sue dimissioni l’ormai ex capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha definito le polemiche seguite alle scarcerazioni (non per effetto del “Cura Italia”, ma delle norme già esistenti aveva subito chiarito in un caso il tribunale di Milano) “strumentali e totalmente infondate”, ma che “fanno male al Dipartimento”. Per l’associazione “Nessuno tocchi Caino” Basentini pagherebbe tuttavia una “linea sempre più sguaiata e compulsiva” che per combattere la mafia metterebbe in secondo piano diritti costituzionali come quello alla salute. Secondo +Europa il dossier carceri è stato gestito dal governo “scandalosamente”. I nuovi vertici del Dap dovranno anche affrontare il problema della scadenza, il 18 maggio, delle misure per contenere il contagio. Alcune, come la sospensione delle visite dei familiari, sono state all’origine della rivolta del 9 marzo. Ma sinora hanno permesso di contenere la diffusione del virus (159 i detenuti e 215 i poliziotti penitenziari contagiati, i dati del Garante per i detenuti). Cambiato capo, è ora di cambiare la vita in cella di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 3 maggio 2020 Quindi la lezione è che un ministro della Giustizia conferma fiducia al capo delle carceri (riconoscendosi nel suo operato) se 13 detenuti muoiono in rivolte stile anni 70. O se teorizza che l’ereditato sovraffollamento (all’epoca 12.000 reclusi in più) è illusione ottico-aritmetica, ricalcolando la quale ci sarebbe anzi ancora posto. O se a Strasburgo prima si scrive di 6.000 braccialetti disponibili, e poi però che non va interpretato alla lettera. Ma non più se pm/giornali/tv autoproclamati antimafia scatenano fuorvianti polemiche, e ottengono controriforme à la carte, quando giudici di sorveglianza applicano la legge nel non far morire in cella detenuti (pure boss) bisognosi di indifferibili cure non assicurate da quel Dap che sbaglia pure la mail del tribunale. Allora sì, ecco le dimissioni “spontanee” di uno dei meno difendibili direttori del Dap, voluto nel 2018 da Bonafede che ora fischietta come se non stesse “scaricando” il più coerente esecutore della propria filosofia carcerocentrica. Non delira dunque chi, come Salvini, ironizza che dovrebbe dimettersi pure Bonafede. Peccato che l’ultimo a poterlo dire sia proprio Salvini. Il quale, quando governava con Bonafede nel Conte I, inneggiava a questa muscolare politica penitenziaria, fino alla gara tra i due ministri a chi fosse più arcigno ai fianchi dell’estradato Cesare Battisti, sulle note del filmino Facebook di Bonafede prodotto dall’amministrazione penitenziaria. Cambiare il capo delle carceri è solo un diversivo se non cambia l’idea di cosa devono essere. Al vertice delle carceri il pg di Reggio Calabria di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 3 maggio 2020 Travolto dalle polemiche si dimette Basentini. Il Guardasigilli nomina Petralia alla guida del Dap. Prima le rivolte, con morti e feriti; poi le scarcerazioni, comprese quelle di qualche famoso boss di mafia e camorra, con annesse polemiche; ora il cambio al vertice dell’amministrazione. Il terremoto coronavirus continua a provocare conseguenze nelle prigioni italiane fino travolgere il capo del Dipartimento Franco Basentini, dimessosi il primo maggio. Al suo posto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che l’aveva scelto a giugno 2018, ha nominato una coppia di magistrati dalla chiara e decisa impronta antimafia: Dino Petralia, fino a ieri procuratore generale di Reggio Calabria, sarà il nuovo responsabile affiancato, come vice, da Roberto Tartaglia, già pubblico ministero a Palermo, che ha preso servizio ieri. Un’operazione d’immagine, oltre che di sostanza, per spazzare via le accuse rivolte al Guardasigilli di aver in qualche modo agevolato la liberazione di nomi grandi e piccoli del crimine organizzato. Ma a parte le strumentalizzazioni politiche, con la sua doppia mossa Bonafede tenta di porre rimedio a una gestione che durante i suoi due anni di guida del ministero di via Arenula si può forse riassumere in una parola: sottovalutazione. Sia di ciò che bolliva nel grande calderone delle carceri italiane; sia del sovraffollamento, che aveva riportato la popolazione detenuta alle soglie dei numeri sanzionati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo; sia di ciò che l’emergenza Covid poteva provocare in un universo chiuso come quello penitenziario (l’altro ieri c’è stato il terzo detenuto morto per il virus, oltre a 2 medici e 2 agenti). La decisione di affidarsi a Petralia e Tartaglia, infatti, mira a un governo meno burocratico dell’amministrazione penitenziaria, e più attento alle dinamiche interne a un mondo fatto non solo dei circa 53.000 reclusi (a fronte di 47.000 posti disponibili; a inizio emergenza erano oltre 61.000) ma anche di quasi 40.000 uomini e donne della polizia penitenziaria, personale amministrativo, operatori, volontari e molti altri impegnati a garantire applicazione delle pene, rispetto delle regole e diritti dei detenuti. “Le polemiche sono strumentali e totalmente infondate ma fanno male al Dipartimento”, aveva detto Basentini annunciando le dimissioni dopo il clamore suscitato dagli arresti domiciliari concessi al camorrista Pasquale Zagaria, anche per la mancata risposta del Dap alle richieste del tribunale di sorveglianza per trovare una diversa collocazione al detenuto malato. Prima di approdare a Reggio Calabria nel 2017, Dino Petralia, palermitano di 67 anni, ha svolto la sua carriera di magistrato in Sicilia; da Trapani, dove lavorò con Gian Giacomo Ciaccio Montalto (ucciso dalle cosche nel 1983) e Carlo Palermo (vittima di un attentato nel 1985) a Sciacca, da Marsala a Palermo, dove è diventato procuratore aggiunto nel 2013. Prima, dal 2006 al 2010, è stato componente del Consiglio superiore della magistratura, eletto nelle liste del Movimento per la giustizia, fondato tra gli altri da Giovanni Falcone. In quell’esperienza e poi negli uffici che ha guidato ha dato prova di capacità manageriali che gli saranno utili nel nuovo incarico. Oltre che di mafia, s’è occupato di corruzione soprattutto quando, a Palermo, ha guidato il pool dei reati contro la pubblica amministrazione. Nel quale cominciò a lavorare, appena sbarcato a Palermo da Napoli dov’è nato 38 anni fa, Roberto Tartaglia, passato successivamente alle indagini su Cosa nostra prima di essere nominato, un anno fa, consulente della commissione parlamentare antimafia. Ora Petralia avrà nuovamente al suo fianco Tartaglia. Ancora per occuparsi di boss, ma non solo. Perché l’universo carcerario non si riduce ai “41bis” e al crimine organizzato. Mafiosi e trafficanti. In 376 fuori dal carcere per l’emergenza virus di Liana Milella e Salvo Palazzolo La Repubblica, 3 maggio 2020 Il ministro Bonafede: verifiche sui domiciliari già concessi e quelli futuri. Cambio al Dap: al posto dì Basentini ecco il pg di Reggio Calabria Petralia. Sul tavolo del Guardasigilli Alfonso Bonafede c’è una lista con un numero - 376 - che crea allarme. Perché nell’elenco figurano i nomi di boss del rango di Zagaria, Bonura, Iannazzo e Sudato, messi agli arresti domiciliari dai giudici per l’emergenza virus. Ma anche quelli di altri 372 oggi ex detenuti comunque legati alle cosche e operativi Sul piano criminale, visto che nessuno di loro risulta essersi dissociato. La lista è stata inviata tre giorni fa dal Dipartimento delle carceri alla commissione parlamentare Antimafia, che l’aveva espressamente richiesta, e che adesso fa capire la fretta di Bonafede nel nominare i nuovi vertici delle prigioni italiane. E spiega perché di sabato il ministro ha immediatamente fatto insediare al Dap il vice capo Roberto Tartaglia e ha comunicato alla maggioranza il nome di Dino Petralia come nuovo direttore. Entrambi magistrati antimafia. A Tartaglia, il ministro ha affidato anche il primo incarico, esaminare i fascicoli degli scarcerati uno per uno, per un primo monitoraggio che proseguirà, qualora fosse necessario, con gli ulteriori accertamenti. Inoltre, già ieri pomeriggio, il nuovo Dap ha diramato una circolare con cui chiede ai direttori di comunicare immediatamente al Dipartimento ogni istanza presentata dai detenuti al 41bis o comunque inseriti nei circuiti della cosiddetta Alta sicurezza. Ma cosa c’è nella lista? Un elenco dei boss di vario spessore che nell’ultimo mese e mezzo sono stati scarcerati dai giudici per il rischio Covid (o per altre patologici e che oggi vivono ai domiciliari, nei loro territori. Si tratta di capi, gregari delle cosche, esattori del pizzo e narcotrafficanti. Il monitoraggio del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha fatto emergere un numero che non ha precedenti. Nei giorni scorsi la polemica era già scoppiata per la concessione dei domiciliari a quattro mafiosi al 41bis: il camorrista Pasquale Zagaria, i siciliani Francesco Bonura e Vincenzo Di Piazza, lo ‘ndranghetista Vincenzo Iaro. Quei nomi sono in cima alla lista. Ma ora il monitoraggio ne aggiunge un altro, l’ergastolano Antonino Sudato, detenuto nel reparto più rigido della cosiddetta Alta sorveglianza, quella etichettata con il numero 1. Nessun domiciliare per l’Alta sorveglianza 2, dove sono reclusi i terroristi. Tutti gli altri scarcerati crani) nell’Alta sorveglianza 3, il circuito che ospita l’esercito di mafie e gang della droga, 9.000 detenuti in totale. Circa 200 dei 376 complessivi sono comunque ancora in attesa di giudizio, e su questi il ministero della Giustizia non ha alcuna competenza. Le preoccupazioni dei pm Per tutti, hanno comunque pesato le condizioni di salute precarie attestate da certificati e perizie. E il fatto che il Dap non sia riuscito ad attrezzare soluzioni alternative agli arresti domiciliari, per esempio nei centri medici penitenziari, come quelli di Roma, Viterbo, Milano. Così era stato chiesto dal tribunale di sorveglianza di Sassari per Zagaria, ma la risposta del Dap, sollecitata più volte, è arrivata solo il giorno dopo il provvedimento dei giudici che lo avevano già mandato a Brescia dalla moglie. A preoccupare le procure antimafia è soprattutto il ritorno dei mafiosi nei loro territori. “Gli arresti domiciliari sono assolutamente inidonei per soggetti ad alta pericolosità” ribadiscono i pm della Dda di Palermo, ricordando che comunicano spesso anche dal carcere, figurarsi da casa. E per le forze dell’ordine scatta un superlavoro per controllare tutti i mafiosi ai domiciliari, per accertarsi che rispettino l’obbligo di non incontrare o telefonare a nessuno. Il nuovo corso In questo clima Bonafede dimissiona l’ex capo del Dap Francesco Basentini a cui si addebita la responsabilità di aver gestito male le rivolte di febbraio e ancora peggio la stagione del Covid, soprattutto per le scarcerazioni dei mafiosi. Arrivano al Dap il nuovo capo Petralia e il suo vice Tartaglia. Il primo arriva dalla procura generale di Reggio Calabria, il secondo dalla commissione parlamentare Antimafia e dopo una lunga stagione a Palermo come pm, dove ha lavorato anche con il procuratore aggiunto Petralia. Il quale, a parte una parentesi al Csm nella corrente che fu di Falcone, è stato in città di frontiera come Trapani, Sciacca e Marsala. Correva per la procura di Torino l’anno scorso quando seppe che Palamara e soci lo sponsorizzavano, ovviamente senza dirglielo, e ritirò subito la sua candidatura. Carcere e diritto alla salute nello Stato di Diritto di Fabio Viglione agenziaradicale.com, 3 maggio 2020 I recenti fatti di cronaca che hanno riguardato provvedimenti adottati da Tribunali di Sorveglianza in materia di esecuzione con riferimento a detenuti affetti da gravi patologie hanno suscitato molto clamore nell’opinione pubblica, ondate di indignazione e iniziative politiche volte a modificare l’assetto normativo. Permettetemi alcune considerazioni, nella quasi certezza di essere confinato, come molto frequentemente accade, in una minoranza di pensiero, vera e propria nicchia di riflessione non omologata. E chiedo scusa ai rumorosi maitre a pensier, opinionisti e muscolari demagoghi, abilissimi a tirar fuori dal loro arsenale di retorica, il dolore delle vittime e la frustrazione di tutti i buoni ed onesti cittadini di fronte a queste esecrabili dimostrazioni di inefficienza del sistema giustizia. Trattandosi di principi alla prova di resistenza rispetto a detenuti condannati per l’appartenenza ad associazioni di tipo mafioso ed in regime di 41bis, risulta inevitabile non mettere in discussione il maggior livello di attenzione e di preoccupazione. Nessuna sottovalutazione nei confronti di rischi concreti da valutare singolarmente, per ogni situazione detentiva. Ciò posto, sento comunque di ribadire alcuni principi che ho l’impressione finiscano talvolta per essere travolti dalle modalità con le quali si affrontano i dibattiti all’indomani di casi rumorosi. Riflessioni che non suonino affatto come mancanza di rispetto nei confronti del lavoro encomiabile di contrasto alla criminalità che spesso è stato pagato con il sacrificio della vita per l’affermazione dei valori più alti e nobili dello Stato e della Comunità. “Ma da che parte stai allora?”. Inevitabile sembra risuonare la domanda, nelle semplificazioni alle quali ci siamo ormai assuefatti. “Dalla parte della Costituzione” è l’unica risposta che ritengo di offrire se proprio mi devo dare una collocazione mentre mi accingo a fare alcune modeste riflessioni. È vero, il riferimento alla Costituzione è quello più abusato ma mai come in questi tempi occorrerebbe tenerla sul comodino e (ri)leggerla, magari prima di andare a letto. E dire che l’emergenza Covid aveva in qualche modo richiamato l’attenzione sui principi costituzionalmente orientati della umanizzazione della pena e sulla necessità di recuperare la funzione rieducativa mettendo al bando ogni trattamento disumano e degradante. Ma è durato davvero poco quel momento. Alla prima occasione di acceso dibattito sul tema dell’esecuzione della pena su casi di cronaca che ha riguardato detenuti di certificata caratura criminale, ha preso nuovamente il sopravvento, a mio avviso, il facile ricorso all’attitudine demagogica nell’affrontare le questioni. E forse si sono confuse e omologate, con facili semplificazioni dotate di maggiore appeal comunicativo, situazioni eterogenee e, in ogni caso, molto distinte tra loro. Ancora una volta, il dibattito è stato soverchiato dalle urla populiste amplificate da una informazione scandalistica e sensazionalistica. Inevitabile il risultato. Vibrate proteste per alcune decisioni della magistratura di sorveglianza con le quali, per esempio, veniva disposto - temporaneamente - il differimento dell’esecuzione della pena in regime di detenzione domiciliare per la cura di gravi patologie nei confronti di reclusi in regime di 41bis. Per dovere di una corretta informazione, va sottolineato che i provvedimenti discussi sono stati stimolati, naturalmente, dall’assenza della possibilità di eseguire il trattamento sanitario, per la specifica patologia, all’interno dell’istituto o in una diversa struttura penitenziaria. Come sempre, non entro nei singoli casi specifici ma mi fermo alla valutazione della situazione generale con riferimento alla necessità di tornare a riflettere su alcuni principi. Le reazioni alla notizia dei provvedimenti citati sono state di generalizzata indignazione (anche nei confronti dei magistrati che, applicando la legge, hanno emesso i provvedimenti) ed hanno portato il Governo a mettere immediatamente mano ad una riforma allo scopo di introdurre nel procedimento dinanzi al Tribunale di Sorveglianza il parere della Procura Nazionale Antimafia. Si tratta dell’ennesima iniziativa adottata sullo slancio emotivo di casi singoli rispetto ai quali si è immediatamente voluta dare una risposta securitaria, tranquillizzante per l’opinione pubblica alla quale era stata data in pasto la notizia, come sovente capita, in modo poco circostanziato nella narrazione dei fatti e non sufficientemente chiara nel rendere conto delle motivazioni giustificative dei provvedimenti. Temo che questa modifica, concepita sull’onda emotiva, abbia finito per depotenziare il Tribunale di Sorveglianza che ha tutti gli strumenti per verificare il percorso di riabilitazione del detenuto e decide dopo aver condotto un’istruttoria completa con relazioni aggiornate sull’evoluzione della espiazione della pena. Temo che rifletta una visione “carcerocentrica” che si nutre della identificazione della certezza della pena con la esclusività del modello di reclusione inframuraria. Ma questa modifica richiesta a “furor di popolo” porta a rimettere al centro dell’attenzione non il percorso intrapreso dal condannato ma piuttosto il suo passato criminale. Come se fosse un secondo tempo delle indagini o del processo di merito e non una nuova fase, dimensionata soprattutto sull’attualità del percorso intrapreso con l’esecuzione della pena. Ma qui il punto non è la legittima rivendicazione del fine rieducativo della pena del sempre invocato art. 27 della Costituzione. La modifica, infatti, si inserisce nell’ambito della richiesta di detenzione domiciliare per un detenuto gravemente malato che necessita di cure specifiche non praticabili all’interno della struttura. Il nous della questione è il riconoscimento del diritto alla salute che non può essere negato né degradato a diritto sbiadito o compresso e trasformato in simulacro di un diritto quando si è in presenza di detenuti. Anche se condannati per reati gravi. Affermare questi principi e vigilare sulla loro concreta applicazione non ha nulla a che vedere con un perdonismo o con un eccesso di buonismo. Nessuno è disposto ad indebolire il principio della certezza della pena né a sottovalutare i rischi relativi alla pericolosità sociale valutati in concreto. Valutazioni necessarie e doverose. Tuttavia, a nessun detenuto può essere negato il diritto di curarsi soprattutto quando le gravi patologie dalle quali è affetto necessitano di strutture specifiche idonee al trattamento. Uno Stato non può concepire la pena e tutto ciò che da essa discende come una vendetta consumata con cieco furore solo in ragione delle malefatte del condannato. Nella carta d’identità della nostra democrazia, che è appunto la Costituzione, la pena è concepita con una funzione nient’affatto ancorata ad una volontà vendicativa. In questo senso, poi, non venendo mai meno il rispetto della dignità, ben a prescindere dalla privazione della libertà, non è possibile non salvaguardare quei diritti riconosciuti a ciascun essere umano in quanto tale. Non si tratta di principi derogabili e, di conseguenza, discostarsi dall’applicazione per tutti e per ciascuno dei detenuti significherebbe tradire la Costituzione che vieta che le pene possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. La Costituzione non è una legge come un’altra e non può essere messa in discussione nei suoi basilari principi sull’onda emotiva di un singolo fatto di cronaca. Un fatto che può aver messo in luce disfunzioni o criticità in singole situazioni. La Costituzione è il fondamento di ogni altra legge e non uno statico totem! Quando la gravità della patologia non consente una cura all’interno della struttura non si può acconciare il diritto alla salute con un pallido indietreggiamento. O il circuito penitenziario assicura al proprio interno le cure necessarie o il ricorso all’esterno diventa un dovere, non un atto spregiudicato. L’abbandono di un detenuto nella sostanziale impossibilità di curare gravi patologie equivale alla negazione del diritto alla salute, ovvero ad una pena disumana, ad una condanna a morte anticipata per negazione del diritto al trattamento. È allora bene ribadirlo con forza che il diritto alla salute è un diritto che è riconosciuto a tutti. Si, a tutti. Uno Stato che salvaguarda questi diritti a tutti è tutt’altro che uno Stato debole. Al contrario, è uno Stato forte, uno Stato che sa contrapporre al crimine ed all’illegalità la fermezza dei propri principi, dei propri valori e del proprio livello di coerenza e credibilità nella tutela dei diritti. Lo Stato di Diritto. Con il lavoro in carcere da protagoniste di Davide Dionisi L’Osservatore Romano, 3 maggio 2020 Il coronavirus non ha fermato i laboratori artigianali nelle case di reclusione femminili. Le donne in carcere spesso vivono un doppio dramma: quello della detenzione e quello dell’essere mamme non in grado di svolgere il proprio ruolo. Inoltre hanno per natura un modo differente di vivere la reclusione; per questo le sbarre dovrebbero essere l’ultima risorsa prima di considerare forme di pena alternativa. Sono due i momenti più duri della vita in carcere all’interno degli istituti femminili: il periodo di agosto e quello natalizio. Comprenderne le ragioni è fin troppo facile. Ma se a questi due appuntamenti segnati in nero sul calendario della cella se ne aggiungesse un terzo? Un tempo inatteso, caratterizzato da ulteriore sofferenza e da nuove restrizioni, scandito da azioni quotidiane mai compiute. Un tempo imposto da un nemico invisibile, chiamato Covid-19, che aumenta le distanze, di per sé già incolmabili, tra carcere e società. Come reagire? “Lavoro e solidarietà sono state le due carte vincenti per affrontare al meglio questo periodo”, spiega Luciana Delle Donne, fondatrice di “Made in carcere”, associazione che dal 2007 realizza corsi di taglio e cucito nelle case circondariali di Lecce e Trani. “Abbiamo subito cercato di coinvolgere le ragazze in un progetto mirato dalla duplice finalità: mantenere l’occupazione e dare una mano a chi ne aveva bisogno. Da qui è nata la riconversione delle nostre sartorie che, in questi giorni, stanno producendo mascherine. È un tassello importante che abbiamo aggiunto alla nostra esperienza”, continua Delle Donne. Dopo un primo momento di disorientamento, “abbiamo subito pensato alla sicurezza e alla dignità della comunità carceraria. Sono emerse tutte le caratteristiche individuali. Abbiamo capito che ci sono tante detenute che hanno voluto essere protagoniste in questo momento di difficoltà nazionale. Papa Francesco dice che non possiamo andare avanti ciascuno per conto proprio, ma solo insieme. Nessuno si salva da solo. Questo le ragazze lo hanno ben capito”. E, al Papa, Luciana Delle Donne ha fatto indossare, in occasione della visita nel penitenziario di Poggioreale (21 marzo 2015), uno dei braccialetti realizzato dalle sue ragazze riportante la frase Non fatevi rubare la speranza. Stesse dinamiche, con risultati altrettanto sorprendenti, si sono manifestate a Forlì. “Il 24 febbraio sono state sospese tutte le attività. Interrompere la filiera e privare le ospiti dell’abituale occupazione avrebbe aperto la strada a una nuova sofferenza”, racconta Manuela Raganini, presidente di “Formula solidale”, cooperativa sociale che si pone come obiettivo l’inserimento lavorativo di persone particolarmente svantaggiate e che opera con le ospiti del carcere della città romagnola. “Ci siamo date subito da fare per realizzare mascherine in cotone lavabile, per noi, per il personale che si occupa delle pulizie, per chi lavora nelle case di riposo e chi consegna i pacchi a domicilio. Abbiamo consegnato le macchine da cucire alle ragazze che lavorano fuori e tessuti ai laboratori interni. Una piccola iniziativa promossa senza tanti clamori, oggi si è estesa anche ad aziende e a privati che ne hanno fatto richiesta. Alla fine, stipendio garantito e impiego di pubblica utilità. Le nostre ragazze hanno subito una trasformazione degna di nota: da assistite ad assistenti del territorio”, conclude. Fermare a Napoli la pizza e il caffè non è certo impresa facile. Lo sanno bene le ragazze delle “Lazzarelle”, cooperativa di sole donne nata nel 2010 che produce caffè artigianale, secondo l’antica tradizione napoletana, all’interno del più grande carcere femminile di Pozzuoli. “Fortunatamente l’istituto ci ha consentito di entrare perché la torrefazione è al suo interno. Dato che gli esercizi che abitualmente serviamo - bar e ristoranti su tutti - hanno chiuso, ci siamo, per così dire, reinventate”, chiarisce Imma Carpiniello, presidente della cooperativa. “Visto che possiamo contare su un laboratorio molto grande, siamo riuscite a mantenere le distanze di sicurezza e a rispettare i dettami della prevenzione utilizzando mascherine e gel disinfettante. Abbiamo poi lanciato un post su Facebook e inviato una mail ai nostri contatti dicendo: “Noi siamo tornate”, spiega Carpiniello, che aggiunge: “Per abbattere i costi di spedizione abbiamo stretto un accordo con i corrieri e questo ci ha consentito di continuare a lavorare spedendo ovunque il nostro caffè”. C’è dunque chi si è rimboccato le maniche e chi, invece, ha giocato d’anticipo puntando sulla solidarietà. A Venezia, nella casa di reclusione femminile della Giudecca, “il virus ha colto un po’ tutti di sorpresa”, chiarisce suor Franca Busnelli, religiosa delle Suore di Maria Bambina, che presta servizio da sei anni nel carcere della laguna. “Questo è stato uno dei primi istituti che si è distinto per gesti molto significativi di solidarietà. Fra tutti, la raccolta fondi (110 euro) poi donati al reparto di terapia intensiva dell’Ospedale dell’Angelo di Mestre. Le ragazze hanno voluto così testimoniare la loro vicinanza agli ammalati, ai loro familiari, ai medici e agli infermieri. Nel contempo hanno inviato una lettera al presidente della Repubblica italiana alla quale lo stesso Mattarella ha risposto, elogiando l’iniziativa delle ospiti”, racconta la religiosa. L’investimento sulla formazione personale e lavorativa è una componente fondamentale e irrinunciabile della proposta trattamentale diretta alle donne detenute. Lo è ancora di più in questo momento anche se le filiere di produzione sono ferme. “Il lavoro si è bloccato per due settimane”, rivela suor Franca. Sartoria chiusa, così come la lavanderia, l’area della cosmesi e perfino l’orto. Ma “da alcuni giorni l’attività è ripresa e le ragazze stanno producendo mascherine sia per l’interno sia per l’esterno”. Per la religiosa, “manifestare solidarietà in un momento così difficile le aiuta a sentirsi parte attiva di una comunità, nella speranza che quando giungerà il momento di tornare a casa troveranno una società disposta ad accoglierle e a farle sentire donne e cittadine utili alla società come tutti gli altri”. Ricerca: “Detenuti italiani leggono fino a 15 libri l’anno” adnkronos.com, 3 maggio 2020 I detenuti italiani sono in assoluto i maggiori consumatori di libri, superando di gran lunga la media nazionale. È quanto emerge da una ricerca svolta dall’agenzia di comunicazione di Klaus Davi realizzata su un campione di 285 ex detenuti che hanno lasciato il carcere negli ultimi dodici mesi e che verrà presentata a luglio nel comune di San Luca (Reggio Calabria), dove Klaus Davi è consigliere comunale. Il campione comprende carcerate e carcerati provenienti dai penitenziari di Milano (Opera e San Vittore), Reggio Calabria, Vibo Valentia, Catanzaro, Napoli, Firenze, Palermo, Bologna, Genova, Pisa, Padova. Secondo la ricerca di mercato, un detenuto legge in media fino a 15 libri l’anno, ma ci sono anche dei detenuti modello che arrivano alla cifra record di 25 libri divorati in 12 mesi. Per leggere attingono prevalentemente dalle biblioteche del carcere (alcune - come a Padova e Bologna - dotate di veri e propri ‘servizi bibliotecari’), ma anche da libri che vengono spediti da parenti e amici. Non mancano i volumi ricavati dal web e stampati con l’ausilio del personale carcerario e degli assistenti sociali. In testa c’è la saggistica con il 13% (con forte prevalenza di libri dedicati alla politica e al diritto), segue la narrativa (9%), testi universitari (7%). Apprezzata anche altro tipo di lettura, con i libri dedicati alla cucina (12%) che vanno per la maggiore, seguita dal giardinaggio (8%) e dai viaggi (5%). Nella narrativa va forte il genere fantasy (14%) mentre chi ama la saggistica non disdegna i volumi di storia (15%) e di politica (11%). Fra i libri più letti spicca la biografia di Mao curata da Gennaro Sangiuliano dal titolo ‘Il Nuovo Mao’ (13%), ‘Basta’ di Lilly Gruber (12%), ‘Il Nome della Rosa’ di Umberto Eco (11%), ‘Diritto Costituzionale’ di Giuseppe De Vergottini (9%). Molto letti sono anche le ‘Memorie della Casa dei Morti’ Fëdor Dostoevskij (5%) e ‘Le Mie Prigioni’ di Silvio Pellico (3%). Molto citati anche quelli di Nicola Gratteri e Alfonso Nicaso (8%). Le detenute e i detenuti italiani sono anche forti consumatori di televisione con una media di 5 ore al giorno. Tra i personaggi più amati spiccano Barbara D’Urso, che ai detenuti dedica sempre molta attenzione nei suoi programmi (15%). Non potevano mancare Roberta Petrelluzzi di ‘Un Giorno in Pretura’ (13%) e Federica Sciarelli con ‘Chi l’ha visto?’ (11%). Molto seguito anche Gianluigi Nuzzi con ‘Quarto grado’ (10%). Tra le trasmissioni informative spiccano ‘Report’ (17%) e ‘Le Iene’ (14%). Fra i talk più strettamente politici domina ‘Porta a Porta’ di Bruno Vespa (15%) che batte di poco ‘Di Martedì’ di Giovanni Floris (13%). Tra le trasmissioni sportive la più seguita, soprattutto dal campione maschile, è la ‘Domenica Sportiva’ condotta da Paola Ferrari seguita da ‘Tiki Taka’ condotta da Pierluigi Pardo. Più contenuto il consumo di internet visto che in carcere è spesso sottoposto a restrizioni. I detenuti sono anche forti consumatori di quotidiani con una media di un giornale al giorno letto. Molti istituti penitenziari offrono l’opportunità di abbonarsi anche a quotidiani locali. Processi da remoto, è scontro di Gianni Santamaria Avvenire, 3 maggio 2020 Serve intesa tra le parti. Anm: “Modifiche irrazionali dal governo”. Sulla celebrazione dei processi da remoto, che tanto ha fatto arrabbiare gli avvocati che l’hanno definita incostituzionale, la “palla” della protesta passa ora nelle mani dei magistrati. Ieri infatti l’Anm ha tuonato, definendole “irrazionali”, contro le modifiche contenute nel “decreto giustizia” varato nei giorni scorsi dal governo. Questo prevede, a differenza di quanto faceva il precedente decreto in materia, che siano le parti (dunque anche i difensori) a scegliere se svolgere le attività processuali da remoto. Mentre per quanto riguarda le udienze civili viene stabilito che, pur svolte da remoto, debbano prevedere la presenza del magistrato in ufficio. Cosa che per le toghe non tiene conto delle norme di sicurezza legate al coronavirus. Innanzitutto l’Anm, esprimendo “sconcerto”, se la prende con l’iter legislativo adottato. “Nella storia della Repubblica non è mai accaduto che una norma processuale introdotta con legge di conversione, contenente modifiche ad un precedente decreto legge sia stata a sua volta emendata, il giorno stesso della sua entrata in vigore, da un ulteriore decreto legge contenente modifiche delle modifiche”. Secondo l’Anm, poi, a giustificare il cambiamento non ci sarebbero novità né sul fronte sanitario né su quello tecnologico “tali da smentire le ampie rassicurazioni” sugli strumenti telematici da usare. In particolare le toghe se la prendono, però, con quella che ironicamente definiscono “l’innovativa previsione” dell’udienza civile da remoto, ma “necessariamente celebrata in ufficio”. Una prescrizione “irragionevole”, visto che non riguarda i magistrati penali, amministrativi o contabili, ma chiede di recarsi sul posto di lavoro proprio a quei giudici che possono usufruire del già esistente processo civile telematico. Il tutto “in contraddizione con le esigenze di tutela della salute”, ambito nel quale viene imputato al ministero di non aver fatto abbastanza per sicurezza dei palazzi di giustizia. Altrettanto secca la replica degli avvocati penalisti, che continuano nella protesta (ieri hanno aderito anche quelli di Bari) contro l’utilizzo a loro dire eccessivo del processo da remoto, avviato nella prima fase di emergenza per celebrare le udienze “indifferibili e urgenti” e poi allargato ad altre tipologie di processi. Per il presidente dell’Unione camere penali, Giandomenico Caiazza, “è evidente la natura politica della reazione dell’Anm. Sanno di avere perso una partita clamorosa”. E la durezza per il presidente dell’Ucpi sarebbe “dissonante rispetto alla posizione dell’80% dei magistrati italiani che il processo da remoto non lo vogliono fare”. Anm contro il governo: “Sconcerto per le nuove norme per il processo da remoto” Il Dubbio, 3 maggio 2020 Il sindacato delle toghe dice no “alla volontà delle parti la scelta sullo svolgimento da remoto delle attività nel processo penale” e all’udienza civile “da remoto necessariamente celebrata in ufficio”. L’Anm attacca duramente il governo per la scelta di rimettere “alla volontà delle parti la scelta sullo svolgimento da remoto delle attività nel processo penale” e l’introduzione dell’innovativa previsione dell’udienza civile “da remoto necessariamente celebrata in ufficio”. In una nota, il sindacato dei magistrati stigmatizzano la decisione, a pochi giorni dalla conversione in legge del decreto 18/2020, di cancellarne “tutte le principali norme processuali”. Le critiche di Anm - “Modificando la norma di un precedente decreto appena convertito viene rimessa alla volontà delle parti la scelta sullo svolgimento da remoto delle attività nel processo penale e si introduce l’innovativa previsione dell’udienza civile “da remoto necessariamente celebrata in ufficio”. Quest’ultima disposizione è irragionevole nella parte in cui, non riguardando i magistrati penali, amministrativi o contabili, richiede una presenza sul luogo di lavoro - in contraddizione con le perduranti esigenze di tutela della salute pubblica - proprio per i giudici che, mediante il processo civile telematico, possono condividere con le parti e con gli altri componenti del collegio tutti gli atti processuali senza necessità di consultazioni cartacee”. Se davvero la presenza in ufficio del giudice civile - dice la Giunta Esecutiva Centrale dell’Anm - “diventa oggi la priorità, tanto da richiedere la decretazione di urgenza, lo si doti allora di aule di udienza e assistenza, come la legge e la dignità della funzione esigerebbero. Siamo di fronte a un altro caso di norma dal sapore insensatamente demagogico, che si inserisce in un quadro di interventi privi di progettualità e di consapevolezza delle reali esigenze organizzative del sistema giudiziario e che, di fatto, mette a rischio la salute della collettività imponendo ad alcuni lavoratori di recarsi in ufficio anche per attività che possono essere sicuramente svolte da remoto”. Ancora una volta, poi, in materia di intercettazioni, “si rinvia un termine il giorno prima della scadenza, mentre il termine finale della fase intermedia (cd. fase 2) viene prorogato di un mese dopo che i rinvii delle udienze erano già stati fissati in previsione della scadenza al 30 giugno.Tutto questo in assenza di una assunzione di responsabilità del Ministro in materia di sicurezza dei palazzi di Giustizia, e dunque - conclude la nota - delle condizioni in cui rendere possibile la presenza fisica, che oggi si impone anche quando non necessaria, in evidente contraddizione con il persistere dell’emergenza sanitaria”. L’attacco al governo - “Nella storia della Repubblica non è mai accaduto che una norma processuale introdotta con Legge di conversione contenente modifiche ad un precedente Decreto Legge sia stata a sua volta emendata, il giorno stesso della sua entrata in vigore, da un ulteriore Decreto Legge contenente modifiche delle modifiche”. Le toghe hanno scritto di assistere “sconcertate all’ultimo della serie alluvionale di atti normativi che dovrebbero guidare l’organizzazione della giustizia nella fase dell’emergenza; e sono ancor più sconcertate nel constatare che, a distanza di pochi giorni dalla conversione in legge del Decreto 18/2020, se ne cancellano tutte le principali norme processuali, senza che nessun elemento nuovo sia nel frattempo sopravvenuto in relazione all’emergenza sanitaria, senza che vi sia stata la minima verifica della funzionalità ed utilità di norme pensate per garantire l’esercizio della giurisdizione e senza che siano state indicate ragioni di carattere tecnico tali da smentire le ampie rassicurazioni che erano state fornite sulla funzionalità e sicurezza degli strumenti tecnologici apprestati per lo svolgimento delle attività da remoto”. Si tratta di un intervento “incomprensibile nel suo impianto e nei suoi presupposti, che contiene norme che appaiono irrazionali”. I penalisti: “Reazione scomposta dell’Anm, che sperava di burocratizzare il processo” Il Dubbio, 3 maggio 2020 “Esprimiamo stupore e allarme per la scomposta reazione dei vertici della magistratura associata di fronte alla prudente volontà del Parlamento italiano di sostanzialmente revocare le norme introduttive del cosiddetto processo penale da remoto”. I penalisti rispondono a stretto giro alla dura nota dell’Anm contro le nuove norme sul processo a distanza volute dall’Esecutivo. Se i giudici hanno criticato la scelta di rimettere alla volontà delle parti la scelta sullo svolgimento da remoto delle attività nel processo penale e dicono no all’udienza civile da remoto necessariamente celebrata in ufficio, penalisti hanno risposto con toni altrettanto netti. “Esprimiamo stupore e allarme per la scomposta reazione dei vertici della magistratura associata di fronte alla prudente volontà del Parlamento italiano di sostanzialmente revocare le norme introduttive del cosiddetto processo penale da remoto”. Lo sottolinea in una nota la giunta dell’Unione delle camere penali (Ucpi), in merito alla posizione dell’Anm, che secondo i penalisti “disvela e conferma l’investimento politico che la dirigenza della magistratura associata aveva affidato a questo sconclusionato ed avventuristico progetto di celebrazione di processi su piattaforme commerciali di conversazione tra persone, e cioè una insperata accelerazione verso la burocratizzazione autoritaria del processo penale mediante la riduzione a icona del diritto di difesa dei cittadini”. “Non appaiono innanzitutto credibili le indignate censure sulle tecniche legislative adottate - sottolineano i penalisti - da parte di chi aveva invece salutato con giubilo e senza battere ciglio l’introduzione di una radicale sovversione dei principi fondativi e secolari del processo penale mediante un improvvisato emendamento a un decreto-legge in sede di sua conversione, scritto per di più sotto la dettatura di un dirigente ministeriale dei servizi informatici: un grave errore a cui ora si è posto responsabilmente rimedio”. “Piuttosto, colpisce la siderale distanza di questi toni, di queste aspettative deluse e di questi aggressivi proclami rispetto al comune sentire della stragrande maggioranza della magistratura italiana, con la quale i penalisti da oltre due mesi stanno costruttivamente confrontandosi nelle concrete realtà dei vari uffici giudiziari, per organizzare prima la contrazione e ora la graduale ripresa del comune ed inderogabile dovere di esercitare la giurisdizione, mediante il ritorno nelle aule di giustizia e non certo sullo schermo dei rispettivi computer”. Le camere penali replicano anche alla presa di posizione di Area, la corrente delle toghe progressiste, assicurando di “condividere la richiesta al Governo perché fornisca tutto ciò che è necessario ed indispensabile per un ritorno in sicurezza sanitaria nelle aule di giustizia, ma respingono con sdegno i minacciosi riferimenti a non si sa bene quali responsabilità che, secondo il direttivo di Area, ci assumeremmo non acconsentendo a questo scempio del diritto e dei diritti che è il videogame del processo penale. La sola responsabilità che noi avvertiamo - sottolineano i penalisti - è quella di rimuovere quanto prima la paralisi della giurisdizione, non già facendone la parodia telematica ma riaprendo le aule”. Cambi di stagione di Michele Passione* Ristretti Orizzonti, 3 maggio 2020 Francesco Basentini si è dimesso. Una buona notizia, fin troppo tardi. Presentatosi con linee guida il cui contenuto è già stato qui commentato in passato da chi scrive (in sintesi, tutto intra moenia), in totale adesione ideologica col Ministro che non sa, la sua epifania scolorisce in un balbettio telefonico in prima serata, incapace di dire quel che andava detto, a proposito della scarcerazione (per motivi di salute, per disposizioni introdotte nel codice del ‘30, non certo da questo Governo ipocrita) di detenuti di alta sicurezza (ed anche in regime differenziato). A chi strumentalmente lo incalzava per censurare la bontà delle scelte che la magistratura aveva compiuto, l’oscuro (ex)Capo avrebbe dovuto dire che quelle decisioni erano legittime, giuste, in linea con quanto lo stesso Dipartimento aveva adottato, id est un catalogo di morbilità’ da valutarsi tra i detenuti per l’eventuale applicazione di detenzioni domiciliari in surroga. Non è stato così. Non pervenuto durante i terribili giorni di inizio marzo, mentre le prigioni italiane bruciavano e corpi senza nome venivano avvolti nei lenzuoli, non ha mai saputo accostarsi alle esigenze dei detenuti e di chi il carcere lo vuole in contatto col mondo. Così ritorna a Potenza, dove potrà dedicarsi al suo antico mestiere. Al suo posto Dino Petralia e Roberto Tartaglia. Mentre il Governo corre ai ripari con decretazione di urgenza, che qualche benpensante non aveva fatto mancare la censura di “badanza” ai magistrati, ora obbligati a raccolta di pareri delle procure antimafia (art. 2 dl n. 28/2020) anche quando stai per crepare, la guida del Dipartimento passa in mano a due magistrati inquirenti, particolarmente versati e impegnati in materia di criminalità organizzata. Ovviamente, com’è giusto che sia, auguriamo loro buon lavoro. Starà a loro dimostrare che il sistema è in grado di tutelare Diritti assolvendo a doveri; tra questi, il primo, quello di cui all’art. 27/3 Cost. Sarebbe bello se la risposta appena fornita con la loro nomina alla solita sguaiata narrazione mediatica, sapientemente alimentata dai cantori delle manette e dei braccialetti (introvabili), venisse accompagnata da altra scelta per altro incarico, magari scegliendo non solo (e sempre) tra la magistratura inquirente. Nel frattempo, tra gli avanzi di galera si contano i morti. *Avvocato Plexiglas di Michele Passione* Ristretti Orizzonti, 3 maggio 2020 Negli ultimi giorni che abbiamo alle spalle sono accadute alcune cose che meritano una riflessione; apparentemente distinte, come vedremo in realtà è possibile scorgere tratti comuni. Provando ad andare con ordine: il 19 aprile Area Democratica per la Giustizia licenziava un primo documento “sulle sfide della nuova crisi globale”. Muovendo da alcune considerazioni sulla situazione data, si affermava che “il parametro di riferimento delle scelte non può essere certamente quello della difesa di interessi corporativi, così della magistratura, come quello dell’avvocatura, ma esclusivamente nel modello costituzionale di processo e nella scala di valori che la stessa Costituzione ha fissato”. Seguivano elenco ed esempi, nonché i “temi dell’emergenza”. Non era davvero difficile scorgere sin da subito una lettura dimentica di alcuni capisaldi procedurali, poi resa manifesta dal successivo documento di cui si dirà più avanti. A mero titolo di esempio, si auspicava un maggior utilizzo di attività investigativa in remoto (“opportunità che dovrebbero essere colte anche dopo l’emergenza”) e si sosteneva la bontà della scelta di trasformare il difensore in ufficiale giudiziario, rendendosi unico recettore delle notifiche del proprio assistito. Il giorno prima della Liberazione è stato convertito in legge il dl “Cura Italia”: con l’introduzione dei commi da 12 a 12 quinquies il Parlamento ha licenziato un articolato mostruoso, del tutto antitetico alle regole del Giusto Processo. Termini di custodia cautelare e prescrizione sospesi, indagini in remoto, camere di consiglio in camera da pranzo, processo in remoto, in Cassazione a richiesta (e ovviamente, nel caso si sospendono - di nuovo - termini e prescrizione). Eccetera. Come Altan, fautore di una tecnica di drafting da osteria, il legislatore “impegnava il Governo” (il documento consta di ben 268 pagine) a modificare quanto la Camera aveva appena approvato. Seguiva il decreto legge 30 aprile n.28, che eliminava (in parte) la Santa inquisizione. Salvi (“immuni”, sta all’art.6) la Liberazione e il Primo Maggio, uno potrebbe dirsi al sicuro. Salvi i Diritti? Manco per idea. Resta lo sconcio delle indagini in remoto, della Cassazione turris eburnea, della possibilità di trasmettere all’ufficio di Procura (a sua richiesta, hai visto mai?) atti in via informatica. Resta l’assurdo di colloqui sospesi in carcere con familiari e terzo settore “sino alla data del 22 marzo”, non modificato con la legge di conversione. Il passato è una terra straniera, il futuro non si sa. Tutti contenti? Non proprio. La Giunta UCPI delibera lo stato di agitazione, pur rivendicando di aver sventato una iattura epocale, attraverso il recepimento dei richiamati ordini del giorno, sollecitando i penalisti italiani a non prestarsi alle udienze in remoto (che’ il rischio non è ancora sventato). Area licenzia un nuovo documento a commento, segnalando la schizofrenia del Governo, denunciando la “mezza sconfitta dell’avvocatura associata, che per la verità mirava alla totale abolizione del processo da remoto”. Si sostiene addirittura la “responsabilità della ripartenza in capo all’avvocatura, perfino laddove non sarà possibile tornare nelle aule in ragione del perdurante pericolo di contagio”. Un’affermazione grave. Gli Avvocati chiedono da mesi di poter fare il loro lavoro in aula, in sicurezza, con la toga sulle spalle. La responsabilità della gestione delle udienze è - per legge - dei Capi degli Uffici, ma qui si invera la realtà. Infine, voce dal sen fuggita, ma in realtà rivelatrice di un retro pensiero intollerabile, la critica di far sedere “sul proprio scranno nell’aula” (tanto valeva scrivere “trono”) i magistrati, anche quando il processo è remotizzato, ponendo a rischio la propria salute. Non una parola, in precedenza, sulla disposizione che pone il difensore accanto al suo assistito e nel suo studio. Una vergogna. Ma siccome al peggio non c’è fine, ecco che l’ANM detta alle agenzie i suoi strali, lamentando come “venga rimessa alla volontà delle parti la scelta sullo svolgimento da remoto delle attività nel processo penale”. Una visione proprietaria del processo, secondo la quale i Diritti possono essere unilateralmente sviliti, il processo annichilito e trasformato in reality, con Avvocati “usi a obbedir tacendo”. Infine, la chiosa della Giunta UCPI, circa “l’investimento politico che la magistratura associata aveva affidato a questo sconclusionato ed avventuristico progetto”. Un salto indietro. Era il 9 marzo 2019, e altri confronti (i tavoli...) avevano luogo, su altri temi di (contro)riforma del processo penale. Quel giorno, al Comitato direttivo ANM l’allora Presidente Minisci segnalava ai suoi la tattica adatta alla bisogna (come integralmente registrato dalla benemerita Radio Radicale): “sull’udienza preliminare non mi posso incontrare con le Camere Penali così, non mi posso presentare con l’eliminazione del l’udienza preliminare... al Ministro gliela faccio avere, ma gliela mandiamo a latere”. A latere. Resta, a margine di questo tremebondo inseguirsi di comunicati, la sensazione acre di un sistema autopoietico, che la magistratura associata propone e tende ad imporre. Così, percossa e inaridita, se ne sta la Giustizia italiana, in quest’anno bisestile e quasi palindromo. Domani riaprono le fabbriche, qualche saracinesca la tiran su; metteremo il plexiglas alle nostre scrivanie, un grande futuro dietro le spalle. Per i Tribunali si prega di attendere; fate i bravi, se potete. *Avvocato Brindisi. La direttrice: “In carcere affrontiamo l’emergenza tutelando i detenuti” di Marina Poci senzacolonnenews.it, 3 maggio 2020 La situazione nell’istituto di pena di Brindisi non ci preoccupa. Confermo che ci sono 11 detenuti e 4 agenti penitenziari che, venuti in contatto con un soggetto risultato positivo al coronavirus, sono stati isolati, gli uni in un’ala apposita del carcere e gli altri presso il loro domicilio. Nessuno di loro al momento presenta sintomi. Due degli agenti, residenti in provincia di Lecce, sono già stati sottoposti a tampone e risultano negativi. Gli altri due saranno sottoposti al test nella giornata del 30 aprile. Tutto è sotto controllo”. Esordisce con poche, semplici e chiare parole, la dottoressa Anna Maria Dello Preite, direttrice della casa circondariale di Brindisi: è un messaggio che libera il campo da equivoci e da eventuali speculazioni e che tranquillizza non soltanto popolazione carceraria ed agenti di polizia penitenziaria, ma anche le loro famiglie e i soggetti che per i più svariati motivi hanno accesso all’istituto, i politici che hanno mostrato interesse per la vicenda, i magistrati, gli avvocati e l’opinione pubblica tutta. La procedura di isolamento è iniziata quando, nel pomeriggio di venerdì 24 aprile, la direzione del carcere è venuta a conoscenza del fatto che un operaio dell’impresa che distribuisce il vitto all’interno dell’istituto è risultato positivo al Covid-19. Immediatamente sono state attuate, di concerto con il medico competente, tutte le misure idonee a scongiurare la diffusione del contagio, identificando i contatti stretti e ponendoli in quarantena. I detenuti coinvolti (si tratta di persone facenti parte della commissione del controllo vitto, che lavorano in cucina e si occupano della distribuzione dei pasti all’interno delle sezioni) hanno avuto circa 10 giorni addietro contatti diretti con l’operatore positivo e, allo stato, risultano asintomatici. Tuttavia, tutti e 11 nella giornata del 28 aprile sono stati sottoposti a tampone e, in attesa dell’esito che dovrebbe arrivare a breve, sono stati individuati i detenuti che li sostituiranno nelle attività lavorative in cui erano impegnati. Benché fosse rientrata a casa da poco, immediatamente dopo essere stata informata che una persona positiva al Covid-19 era stata in carcere, la direttrice Dello Preite è tornata in istituto per incontrare sia le persone che stavano per essere isolate, sia il resto della popolazione carceraria e rassicurare personalmente che non c’è ragione di allarmarsi. Considerato che per tutti coloro che entrano in carcere è quotidianamente verificata la temperatura corporea tramite termo-scanner, si presume che l’operatore dell’impresa incaricata del vitto, poiché ha superato il triage, fosse asintomatico nel momento in cui ha effettuato l’accesso in istituto... Sì, è così. Come tutti gli uffici pubblici, ci siamo attrezzati per la misurazione della temperatura. Ogni mattina tutti noi dipendenti, me compresa, all’arrivo in istituto non timbriamo il cartellino se non viene accertato che la nostra temperatura sia inferiore ai 37,5°. Oltre a ciò, ogni giorno siamo obbligati a sottoscrivere una autocertificazione nella quale ognuno di noi attesta di non essere venuto in contatto con situazioni potenzialmente a rischio. Posso assicurare che tutte le procedure anti-contagio si svolgono nel rispetto delle prescrizioni e nulla viene lasciato al caso. Nella situazione di emergenza sanitaria che stiamo vivendo, chi può entrare in istituto? Devo dire che, da quando è esploso il virus, gli ingressi di soggetti estranei all’organizzazione sono veramente pochi, essendo sospese le attività scolastiche e trattamentali ed essendoci divieto dei colloqui in presenza con i famigliari. Non abbiamo sospeso i colloqui visivi con gli avvocati, purché si presentino muniti di mascherine, ma nella maggior parte dei casi i legali preferiscono i colloqui via Skype o tramite telefonata. Esiste un’ala specifica dell’istituto destinata ai soggetti che debbano eventualmente essere posti in isolamento? È stata individuata una sezione apposita, quella che, prima dell’emergenza sanitaria, accoglieva i detenuti semiliberi. Siccome con i Dpcm delle scorse settimane i semiliberi sono stati autorizzati a pernottare presso le loro abitazioni, abbiamo un’intera area non più occupata e possiamo utilizzarla per i soggetti che debbano essere isolati. Aggiungo anche che ormai da qualche settimana tutti i detenuti che arrivano da noi (sia che prima fossero liberi, sia che provengano da altri istituti), prima di essere ubicati nelle sezioni ordinarie, per 14 giorni vengono accolti in questa speciale ala, dove vivono la loro quarantena distanti dagli altri. Il primo triage sanitario avviene all’interno di una tenda donata dalla Protezione Civile e allestita nel cortile antistante l’ingresso dell’istituto. Inoltre, entro il settimo giorno dall’ingresso in carcere tutti vengono sottoposti a tampone. Soltanto in presenza di esito negativo, vengono ammessi a vita comune. Il Dpcm datato 8 marzo 2020 ha sospeso i colloqui in presenza con i famigliari, determinando la compressione di un diritto fondamentale della persona che, per quanto giustificata dall’emergenza sanitaria, aggrava la condizione di isolamento dei detenuti. Quali sono state le reazioni dei detenuti e delle famiglie alla notizia che i colloqui in presenza erano stati sospesi? Avete registrato proteste di particolare gravità? Soltanto nei primissimi giorni, all’indomani del decreto che ha sospeso la possibilità di effettuare i colloqui visivi, c’è stato un momento critico, ma niente di ingestibile. I famigliari si sono limitati a venire una sera nei pressi dell’istituto per chiedere amnistia e indulto, sospinti dal timore che il contagio potesse sfuggire di mano. Ma si è trattato di proteste generiche, che facevano parte di un disegno nazionale e non avevano niente a che vedere con la gestione specifica dell’istituto. Per quanto riguarda i detenuti, dopo una primissima fase in cui è stata dura accettare che le famiglie non potessero più venire a trovarli, sono stati comprensivi e, pur nella sofferenza, si sono adattati alle nuove modalità di svolgimento dei colloqui. Sappiamo bene che, oltre alla privazione della libertà, in questo momento vivono una sofferenza ulteriore causata dalla mancanza di contatti diretti con le famiglie, per questo ci siamo attrezzati per limitare al minimo i danni di questo nuova condizione, soprattutto con l’ausilio della tecnologia, che serve a loro per colmare il vuoto e a noi per gestire con più tranquillità una situazione che, quanto meno all’inizio, è stata difficile. A proposito di tecnologia, l’Osservatorio Antigone, che - tra le altre cose - si occupa di documentare lo stato dei penitenziari italiani e le condizioni in cui versano i detenuti nelle strutture di pena, ha inserito il carcere di Brindisi tra le criticità, rilevando, a titolo meramente esemplificativo, che c’è una sola postazione Skype per i colloqui con famigliari e avvocati e che i detenuti avrebbero diritto a tre telefonate a settimana. È corretto? Non è così. Mi sembra di capire che l’Osservatorio Antigone non sia aggiornato. Ho fornito delle informazioni ai primi del mese di marzo, all’inizio dell’emergenza, quando nessun carcere in Italia era preparato ad affrontare la sospensione dei colloqui in presenza. Abbiamo avuto bisogno di qualche giorno per attrezzarci e mi piace sottolineare che, rispetto ad altri istituti, quello di Brindisi si è mosso velocemente ed efficacemente. In ogni caso, smentisco categoricamente che ci sia soltanto una postazione Skype. Al momento le postazioni Skype sono ben 4, un numero congruo rispetto al numero di detenuti, considerato che i colloqui visivi, consentiti nel numero di sei al mese, sono oggi sostituiti dalle videochiamate. Preciso anche che, al contrario di quanto riportato da Antigone, ogni detenuto ha a disposizione una telefonata al giorno della durata di dieci minuti, oltre alle telefonate straordinarie che vengono concesse nel caso abbia figli minori di dieci anni. Dalle notizie che ho confrontandomi con i direttori degli altri istituti della regione, posso dire che Brindisi sia l’unico istituto ad avere consentito la possibilità della telefonata giornaliera. In un ambiente in cui gli spazi condivisi sono molti, come è possibile praticare il distanziamento sociale? Non è possibile, diciamocelo senza ipocrisie. L’affollamento carcerario è un problema con cui facciamo i conti da decenni e diventa di gestione ancora più difficile in questa fase. Non c’è dubbio che in una stanza detentiva sia impossibile mantenere un metro e mezzo di distanza tra una persona e l’altra. Però cerchiamo di utilizzare tutti gli accorgimenti necessari a preservare la salute dei detenuti, della polizia penitenziaria e dei dipendenti dell’amministrazione carceraria. Tutti i detenuti lavoranti vengono muniti dei dispositivi di protezione individuale adeguati (mascherine e guanti), anche e soprattutto coloro che prestano attività lavorativa all’esterno e devono rientrare nella sezione di appartenenza per la notte. I detenuti hanno a disposizione otto ore al giorno al di fuori della stanza detentiva, cinque ore di permanenza all’aperto e tre ore nelle sale di socialità, attrezzate con libri, giochi di società e attrezzi ginnici. I detenuti isolati o in attesa di tampone svolgono queste attività in spazi appositi, distanti dal resto della comunità carceraria. Laddove non vi siano provvedimenti di isolamento, si continua a fare vita comune, per cui parlare di distanziamento sociale è complicato. Secondo lei, per una “Fase 2” realmente efficace per il sistema penitenziario quali interventi sarebbero necessari? Io ritengo di poter affermare con tranquillità che i colloqui visivi si potrebbero riprendere, anche soltanto ammettendo a colloquio un solo famigliare, con tutte le precauzioni del caso (distanza di un paio di metri, mascherina, guanti). La situazione di Brindisi, sia nel carcere che in città, è tale da poter assicurare che il tutto si svolga senza grandi impedimenti. Rispetto alla ripresa delle attività trattamentali, ricreative e scolastiche, purtroppo temo che, sino a quando la situazione sanitaria non sarà migliorata, sia sconsigliabile: le nostre aule e i nostri laboratori sono talmente piccoli che non saremmo in grado di garantire le distanze di sicurezza. Possiamo soltanto pensare a delle iniziative che coinvolgano un numero esiguo di detenuti per volta, ma sarebbe complicato, e forse anche ingiusto, dover scegliere chi far partecipare. Vorrei però sottolineare che non tutto è fermo. Per coloro che frequentano corsi scolastici si prosegue attraverso la didattica a distanza, con tutti i limiti che questo comporta. Poi qui a Brindisi abbiamo un bellissimo progetto di sostegno alla genitorialità, chiamato “Altrove”, attuato con l’appoggio dell’associazione “Bambini senza sbarre”, grazie al quale un’esperta in counseling a cadenza settimanale incontra un gruppo di detenuti e promuove attività a supporto del ruolo genitoriale, mentre a cadenza quindicinale organizza laboratori che coinvolgono, assieme ai detenuti, i figli minori. Ovviamente il progetto in sé, curato dalla dottoressa Angela Corvino, attualmente è sospeso, ma i referenti si sono comunque messi a disposizione per ricevere le telefonate di famigliari, soprattutto bambini privati della possibilità di incontrare i genitori detenuti, e offrire consulenza psicologica in questo momento così delicato. Il servizio, denominato “Telefono giallo”, è attivo dal lunedì al venerdì dalle ore 10 alle ore 18, telefonando al numero 392/9581328. Mi sembra un bel modo per testimoniare che, nonostante la pandemia, l’istituto è vicino ai detenuti e alle loro famiglie. Malgrado le difficoltà di gestione che il sistema penitenziario sta vivendo in questi mesi, le chiedo di chiudere con una nota positiva... Lo faccio volentieri: i detenuti del carcere di Brindisi stanno donando alla Caritas diocesana parte della loro spesa settimanale. È il segno che, nonostante le difficoltà personali, si stanno preoccupando di chi ha meno di loro e questo non può che incoraggiarci. Padova. Accordo con la Protezione civile, adesso in carcere arrivano le mascherine Il Gazzettino, 3 maggio 2020 Nessun nuovo contagio, mascherine in arrivo e controlli più stringenti grazie all’assunzione di operatori sanitari. Dopo settimane difficili la situazione nel carcere Due Palazzi sembra ad oggi sotto controllo. É quanto traspare dall’ultima comunicazione ufficiale del Provveditorato regionale per il Triveneto che, dal 28 aprile, diramerà settimanalmente ai 15 penitenziari di competenza gli aggiornamenti sulla situazione del contagio da Covid-19 tra la popolazione carceraria e gli agenti di polizia penitenziaria. Al Due Palazzi è confermato il contagio dei soli due agenti in servizio al circondariale il cui tampone aveva dato esito positivo quasi due mesi fa. Il 21 aprile un detenuto era finito al pronto soccorso ed era risultato affetto da Coronavirus seppur asintomatico, tuttavia quel tampone non compare tra i casi conteggiati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e nessun altro ne sarebbe stato riscontrato nella campagna di test eseguita nelle ultime due settimane. Una buona notizia riguarda l’incremento degli operatori sanitari, con oltre cento assunzioni nelle carceri del Triveneto per incrementare i servizi di triage. Altro dato confortante è l’accordo con la Protezione civile per l’approvvigionamento di mascherine e dispositivi sanitari. Un ingente quantitativo è stato depositato ieri al Due Palazzi. A chiedere maggiori aiuti erano state le sigle sindacali: “Abbiamo lavorato con mascherine usate per ore e giorni interi, oggi finalmente speriamo che recuperarle non sarà più un problema spiega Mattia Loforese, segretario di Sinappe - Ben venga il supporto della Protezione civile, ma certo è stato strano che ad esempio la cooperativa Giotto che opera dentro il carcere con i detenuti e ha recentemente convertito la produzione dai dolci alle mascherine, non abbia dato alla polizia penitenziaria nemmeno la possibilità di acquistarle”. Roma. Protesta dei penalisti per i cellulari pubblici di Franco Mariani Il Tempo, 3 maggio 2020 Il Dap: per parlare con i detenuti devono mettere sul sito il telefono. Protesta degli avvocati penalisti del Coa di Roma per la decisione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di fargli inserire sul sito dell’Ordine il numero del cellulare per poter avere colloqui con i propri assistiti che sono detenuti. “Allora mettiamo online anche il numero del telefonino dei loro familiari, è sconcertante e illogico”. “Sconcertante” disposizione del Dap in materia di colloqui in carcere fra detenuto e difensore, che in periodo di emergenza Coronavirus si svolgono in videoconferenza da remoto. Protesta infatti il presidente dell’Ordine degli Avvocati di Roma, Antonino Galletti, spiegando che secondo “le ultime, incredibili disposizioni dell’Amministrazione Penitenziaria”, sarà consentito al difensore il video colloquio con l’assistito “solo qualora l’utenza mobile dell’avvocato sia stata preventivamente resa reperibile nell’albo online tenuto dall’Ordine di appartenenza; ciò al fine di consentire la corretta identificazione del richiedente e la riferibilità al professionista della chiamata”. Una decisione che il Coa Roma, in una dura nota indirizzata al Ministro Bonafede e ai vertici del Dap, definisce “del tutto illogica, irrazionale e sproporzionata”. La questione “assume rilievi di forte violazione della privacy del professionista, costretto a pubblicare il numero di cellulare online, disponibile alla vista di chiunque, oppure a dotarsi di un’altra utenza telefonica allo scopo”, ma diventa ancor più “una pretesa inutile, odiosa e vessatoria se si pensa che per i familiari dei detenuti nessuna verifica viene effettuata in ordine alla rispondenza del numero di cellulare al parente che ha titolo per il esercitare il diritto al colloquio - sottolinea Galletti - per cui i difensori subirebbero controlli ancor più stringenti di quelli imposti ai familiari dei detenuti, a meno che non si voglia fare anche un albo online dove pubblicare i numeri di cellulare dei familiari dei detenuti”. Di qui la proposta del Coa Roma di “ritirare immediatamente la disposizione del Dap” e, allo scopo di identificare il difensore nell’ambito della videochiamata, semplicemente “chiedere all’inizio del colloquio l’esibizione in video, oltre che del volto, anche del tesserino professionale con la foto identificativa, così com’è stato fatto con ottimi risultati dall’inizio dell’emergenza coronavirus fino adesso”. E per il futuro, “l’auspicio in un coinvolgimento diretto degli Ordini professionali in un processo decisionale che altrimenti può portare ad assurdità ed inutili appesantimenti burocratici come questi”. Si tratta soltanto dell’ultima presa di posizione degli avvocati, che soltanto alcuni giorni fa hanno contestato il processo telematico, ma allo stesso tempo hanno presentato proposte per poter affrontare la situazione di emergenza Coronavirus nel migliore dei modi e con tutte le garanzie per i detenuti. Livorno. Videochiamate dal carcere: “Non ho ancora deciso se farmi rivedere da mio fratello” livornotoday.it, 3 maggio 2020 Vincenzo è siciliano e una volta la madre e la sorella lo andavano a trovare. Il fratello invece, da quando è finito dietro le sbarre non gli parla ma adesso vorrebbe apparire nel prossimo collegamento. Piccole cose che diventano grandi. La solitudine che si fa più sopportabile. La mente che torna a casa e gli occhi che si poggiano, di nuovo, su un dettaglio della cucina che sembrava dimenticato. Un cassetto della memoria che si apre e porta con sé profumi e sensazioni. Le videochiamate in carcere ai tempi del Coronavirus hanno restituito, seppure in maniera virtuale, un briciolo di libertà a chi l’ha persa dietro le sbarre, rendendo la pena più sopportabile. L’educatrice Alessia La Villa ha raccolto le storie dei detenuti della casa circondariale di Livorno, storie che raccontano la vita dietro le sbarre, che fanno intravedere un sorriso dietro la paura. Dopo aver narrato i dubbi e le paure di Enrico e Karim, oggi raccontiamo quelli di Vincenzo. Vincenzo è siciliano ha gli occhi piccoli e neri che strizza quando non è convinto di quello che dice l’interlocutore, come per mettere meglio a fuoco. Si dice sempre che gli occhi siano lo specchio dell’anima, ecco per Vincenzo è esattamente così. Chi vive a contatto con il mondo del carcere impara col tempo che dietro le sbarre il corpo parla una lingua tutta sua, in cui le parole arrivano sempre dopo. Se si vuole veramente comprendere un essere umano privato della libertà o almeno provarci è il suo corpo che dobbiamo ascoltare prima di tutto. Nell’ultima settimana Vincenzo è stato piuttosto nervoso, mascella serrata, andatura a scatti su e giù per il corridoio: “Mi ricordi uno di quei piccoli robottini a cui si dava la carica”, gli ha detto sorridendo l’educatrice, quando si siamo incontrati davanti alla porta dell’ufficio. “Quando si è seduto sulla sedia davanti a me - racconta La Villa - sembrava invece un piccolo palloncino che si stava lentamente sgonfiando”. “È pesante educatrice, è pesante. Tutta questa storia è veramente pesante”. “La chiusura?” chiede l’educatrice ricordandosi come il detenuto aspettasse con ansia ogni mese l’arrivo della mamma e della sorella dalla Sicilia. “Sì anche, tutto è pesante”. Quando la donna gli chiede se riesce a fare le videochiamate, capisce che stava entrando in un terreno paludoso: “Ecco appunto le videochiamate. Mia sorella mi ha detto che alla prossima ci vuole stare anche mio fratello”. “Non so se voglio rivedere mio fratello” - La parola ‘fratello’ ha fatto accendere una lampadina nella memoria di La Villa visto che i due non si parlano da quando Vincenzo è finito in carcere perché “lui mica è come me che faccio solo rovine. Ci dovremo vedere domani mattina, ma io non so se lo voglio vedere. Un conto è sentirsi per telefono, un altro è vedersi in faccia dopo tutti questi anni”. “Non sei obbligato” ha risposto subito l’educatrice intuendo il disagio dell’uomo: prima c’erano solo le telefonate adesso con i video è lui che deve scegliere senza che nessuno gli dica cosa fare. “Ne abbiamo parlato tante e tante volte - confida La Villa -, ma non avrei mai pensato che la prima vera scelta dopo tanto tempo Vincenzo l’avrebbe dovuta fare davanti ad un pc. Che sarebbe entrato in crisi per colpa di un virus che, beffardo, sembra dirgli ‘Ho chiuso tutti dentro casa ma a te sto dando la possibilità di uscire da qui e vedere tuo fratello. Forza scegli. Il suo personalissimo amletico dubbio adesso è: ‘Apparire sullo schermo o non apparire’. Con Vincenzo ho parlato a lungo e quando è uscito dalla stanza mi ha detto che non sapeva ancora se si presenterà all’appuntamento oppure no. Credo che lui abbia forse già deciso ma, a prescindere da tutto, ha voglia di godere ancora per qualche ora del sapore inebriante della libertà”. Lecce. “Made in Carcere”, anche le mascherine diventano “sostenibili” ladiscussione.com, 3 maggio 2020 Trasformare il tempo “sospeso” della quarantena in un tempo “attivo” grazie alla produzione di mascherine da donare a chi ne ha bisogno. È la risposta alla crisi legata all’emergenza Covid-19 di Made in carcere, il brand dedicato alla produzione di oggetti “sostenibili” che coinvolge le donne detenute di alcune carceri del Sud. Sono già oltre 6 mila le mascherine realizzate e distribuite sul territorio. Made in Carcere è considerato un modello di impresa sociale e si inserisce nel Progetto BIL (Benessere interno lordo), avviato nell’ambito del bando “E vado a lavorare” della Fondazione con il Sud, che ha l’obiettivo di favorire l’inclusione socio-lavorativa delle persone detenute nel Mezzogiorno, costruendo una rete di relazioni socio-professionali. Borse, braccialetti, cuscini, presine, accessori e gadget personalizzati, tutti realizzati con materiale da recupero, permettono di dare una seconda possibilità a chi si trova in carcere. Un’iniziativa che crea una catena di solidarietà e risulta utile per il reinserimento successivo al periodo di detenzione. Questi oggetti unici sono realizzati in un vero e proprio “laboratorio sartoriale” organizzato all’interno delle carceri. L’iniziativa, poi, coinvolge anche i minori detenuti rendendoli pasticceri impegnati nella preparazione di biscotti. La consueta attività, però, anche in questo settore, ha subito un blocco dovuto alla diffusione del virus. I bisogni del territorio hanno determinato la necessità di riconvertire la produzione. Anche le imprese e le attività del Sud dedicate al sociale e fortemente legate alla comunità si stanno, quindi, reinventando per affrontare la crisi. Le restrizioni delle norme anti-contagio hanno inciso sul lavoro ma non hanno frenato la voglia di fare delle imprese sociali del Mezzogiorno. Così anche le detenute del carcere di Lecce, durante il periodo di quarantena, possono usufruire, grazie alle videochiamate, della formazione a distanza, in collegamento diretto con le sarte che continuano a trasmettere l’arte del cucire. Le mascherine realizzate da circa 13 donne delle carceri di Lecce e Trani sono dotate di filtro in Tnt che può essere sfilato e sostituito, mentre l’involucro può essere lavato e riutilizzato. I prodotti delle detenute pugliesi sono colorati, con stampe fantasiose, ma anche ecologici perché, come riassume all’Italpress la fondatrice di Made in Carcere, Luciana Delle Donne, “il rispetto dell’ambiente ci renderà liberi”. Dopo una prima fase di produzione e donazione gratuita, Made in Carcere ha potenziato il commercio delle mascherine online e ha studiato, prodotto e avviato la vendita di un “nuovo modo di protezione” con filtri ecosostenibili. Una soluzione per ripartire dallo stop forzato, dovuto all’emergenza coronavirus. “Tutte le persone seguite da Made in Carcere hanno acquisito non solo la competenza tecnica delle sartorie ma anche le competenze trasversali per poter affrontare la vita e qualsiasi altro nuovo lavoro”, afferma Delle Donne. “Lo scenario attuale ci obbliga a una ridefinizione delle priorità con buon senso. Al momento ci si sta dedicando principalmente al trasferimento delle competenze, il modello di impresa sociale e così via. Saranno quindi coinvolte le sartorie sociali per recuperare le competenze artigianali. Stiamo ripensando a come ripartire potenzialmente in modo diverso. L’emergenza Covid-19 ci impone di attivare quanti più laboratori possibili per produrre mascherine ad uso civile: Lequile, Lecce, Taranto e Bari. Le carceri di Lecce e Trani sono già attive, mentre Matera e Taranto devono essere avviate”. Desiderio di fuga dalle città di Enzo Scandurra Il Manifesto, 3 maggio 2020 La pandemia in corso sta creando il desiderio diffuso di allontanarsi (provvisoriamente o no) dalle città, evocando la storica contrapposizione tra città e compagna. L’ideologia anti-urbana, l’odio contro misfatti, si snoda nei secoli, almeno dal Quattrocento ad oggi. I suoi più illustri rappresentanti furono, nel tempo, Torquato Tasso (la città come luogo d’ira), i fisiocratici: Quesnay e Turgot (la città come luogo del lusso e dei consumi), fino a Charles Fourier (che ideò il Falansterio), Jean Batiste Godin, Robert Owen, Etienne Cabet, Owen per arrivare ai nostri giorni, stemperandosi nelle proposte delle città-giardino (Garbatella, Montesacro vecchio) che avrebbe dovuto risolvere il conflitto storico tra città e campagna. Ne “Il manifesto del Partito comunista” del 1848, Marx ed Engels liquidarono le utopie ottocentesche, attaccandole per le loro caratteristiche radicali e la fondamentale natura antistorica. Il processo di agglomerazione urbana (la nascita delle città industriali) veniva letto da Marx come condizione necessaria, storica e quindi non eterna, della missione “civilizzatrice” del Capitale, per strappare le persone dall’idiotismo della vita rustica e rendere possibile la socializzazione delle esperienze, in pratica la formazione della coscienza di classe. La storia moderna, affermerà Marx nei Grundrisse, è urbanizzazione della campagna e non, come nell’antichità, ruralizzazione della città. L’utopia anti-urbana, meglio sarebbe dire il desiderio di fuga dalla città, viene riproposta oggi in vari articoli di stampa (vedi l’intervista a Stefano Boeri sulla necessità di “tornare” ai borghi italiani e il conseguente dibattito che ne è scaturito), come ritorno ai luoghi salubri, lontano dalla pandemia che impazza nelle grandi città. Ciò che la pandemia ha messo in luce in realtà non è la riproposizione di un’utopia anti-urbana con tutta la sua carica ideologica di rifiuto del progresso e delle fabbriche, ma piuttosto un’insopportabilità delle condizioni di vita cui siamo costretti dalle regole della produzione e dello sviluppo ad ogni costo. Il distanziamento sociale adottato non fa altro che aggravare la privatizzazione di spazi pubblici dove è possibile l’incontro delle persone. L’abitare non si riduce semplicemente ad avere un appartamento (con tutto il rispetto per quelli che nemmeno lo possiedono), abitare significa vivere in un luogo, un paese, una piazza, una strada. Tommaso Montanari riportava la celebrazione di un matrimonio nel quale il sacerdote (David Maria Turoldo) diceva agli sposi: fate una casa non un appartamento e lo scrittore Francesco Piccolo affermava: abito in una città del sud e per questo dimentico gli ombrelli, a conferma che l’abitare si estende ben oltre il perimetro della propria casa. Le nostre grandi aree metropolitane sono spazi attraversati da flussi di merci, di informazioni, di dati ma nessuno di noi abita i flussi. Adriano Olivetti contestava l’irresponsabilità delle multinazionali, organizzate sul principio della a-territorialità, anziché verso le comunità locali e diceva: “È nella comunità che la gente nasce, vive, lavora, si sposa e muore”. Milano è considerata l’esempio della modernizzazione; le sue recenti realizzazioni urbanistiche ed architettoniche. Citylife, piazza Gae Aulenti, il Bosco verticale, sono portati ad esempio di spazi moderni. In realtà sono piazze artificiali contornate (Citylife) da appartamenti lussuosi abitati da fantasmi e circondati di mura di cinta a proteggere la privacy dei loro ricchi abitanti fantasma. La pandemia, tra le altre cose, dovrebbe metterci in guardia di come l’abitare che significa anche costruire come già ci ricordava Heidegger, può tuttavia trasformarsi in una costruzione distruttiva, la distruzione del mondo naturale. Perché il nostro abitare, l’abitare dei moderni, è ortogonale alle leggi della natura: distruggiamo ambienti vitali, deforestiamo, cementifichiamo, intubiamo corsi d’acqua, riduciamo la complessità del vivente, la biodiversità. Dovremmo piuttosto abitare nel rispetto della natura: non Grandi Opere, ma foreste di alberi (orizzontali però), strade pedonali, mezzi pubblici, coltivazione di orti anziché parcheggi. Così il desiderio di ritornare alla campagna non sarebbe più così forte e potremmo apprezzare il vivere in città e godere delle sue bellezze. Coronavirus e migranti, intervista a Filippo Grandi (Unhcr) di Paolo Valentino Corriere della Sera, 3 maggio 2020 “Se non interveniamo ora su guerre e Paesi poveri il virus tornerà a colpirci”. Il commissario Onu per i rifugiati: “Siria, Afghanistan e Venezuela e le emergenze: ci servono più di 2 miliardi di dollari”. Coronavirus e migranti, intervista a Filippo Grandi (Unhcr): “Se non interveniamo ora su guerre e Paesi poveri il virus tornerà a colpirci C’è un grande assente nello sforzo globale per contenere la pandemia e contrastare le sue devastanti conseguenze economiche. Anzi, ci sono oltre 70 milioni di assenti. Sono i dannati della Terra, le masse di profughi e sfollati, che hanno bisogno come e più di noi di essere salvati, ma che al momento appaiono fuori dai radar dei governi del mondo. Attenzione, avverte Filippo Grandi, l’Alto Commissario dell’Onu per i Rifugiati, “se non si prendono misure sia di contenimento che di sostegno economico anche in Paesi lontani, il virus tornerà”. Nella prima intervista dallo scoppio della crisi, l’unico italiano alla guida di un’organizzazione internazionale lancia anche un drammatico appello ai governi europei perché, nei limiti del possibile, non venga distrutto il sistema dell’accoglienza: “E’ possibile sia garantire la salute pubblica che proteggere i rifugiati”. Quale è l’impatto della pandemia sull’universo dei profughi? “La crisi è globale, non è dei rifugiati. Ma più di 70 milioni di persone, tra profughi o sfollati, appartengono alle categorie più vulnerabili al Covid e alle sue conseguenze. Quasi il 90% di loro si trova in Paesi poveri e con strutture sanitarie deboli, eppure sono realtà nelle quali finora non abbiamo per fortuna visto grossi focolai dell’epidemia, che finora sono stati la Cina, poi l’Europa, ora il Nord America, meno l’Africa, il Medio Oriente, il Sud-Est dell’Asia. Ma l’Oms ci ricorda purtroppo che è solo questione di quando non di sé succederà anche lì. Ben altra cosa è l’impatto economico, che è già devastante: la gran parte di rifugiati e migranti è fatta di persone che vive di mestieri alla giornata e salari precari, cioè di quelle opportunità di reddito che spariscono per prime in situazioni di lock down”. Quali sono i casi più drammatici? “Fra gli altri, sicuramente quello degli afghani nel loro Paese e in tutta la regione circostante, quello dei siriani in Medio Oriente e specialmente in Libano, e quello dei 5 milioni di venezuelani in numerosi Paese latinoamericani. Per molti di questi ultimi l’alternativa è tra la miseria nera e la disperazione in esilio o il ritorno in Venezuela, dove il sistema sanitario è già in gravissime condizioni”. In che modo si muove l’Alto Commissariato? Cosa è cambiato nel vostro lavoro? “Dall’inizio, lavorando in equipe con il sistema delle Nazioni Unite, il motto è stato quello di restare, di non andarsene, anche nei Paesi in quarantena, che ormai sono la maggior parte, anche nelle situazioni più a rischio e pericolose. Pensiamo ai campi rifugiati dei Rohingya in Bangla Desh, a quelli in Africa o sulle isole greche. Ai governi abbiamo chiesto di trattare i nostri operatori umanitari così come trattano il personale sanitario. È stato un problema equipaggiarli per svolgere il loro lavoro, parlo di mascherine, indumenti protettivi, disinfettanti. Dov’è stato possibile usiamo la tecnologia, per interviste con i richiedenti asilo o dialogo con le comunità”. Quali sono le situazioni che vi preoccupano di più? “La sfida è proibitiva in Siria, Yemen, Libia. Perché lì si prepara la tempesta perfetta: la guerra, i problemi economici e sociali e ora la pandemia. Proprio questo rende fondamentale, non solo sul piano morale, che venga accolto l’appello del segretario generale dell’Onu per un cessate il fuoco globale: se il coronavirus arrivasse in modo aggressivo nei Paesi in guerra, non potremmo fare nulla per arrestarlo. E allora ritornerebbe. La verità è che siamo forti come l’anello più debole della catena. A preoccuparci moltissimo sono anche le situazioni di superaffollamento: in una delle mie ultime visite, prima che scoppiasse la crisi, sono stato nel Sahel, in Paesi come il Burkina Faso e il Niger. Lì ho visto una delle situazioni umanitarie più catastrofiche della mia vita, donne violentate, bambini decimati dalla malnutrizione, centinaia di migliaia di persone cacciate dai propri villaggi che si accalcano nei centri di raccolta. Se il Covid-19 esplodesse lì, sarebbe l’Apocalisse. Ci sono anche gravi situazioni di povertà urbana, come in Ecuador dove c’è stato un forte focolaio di Coronavirus”. E in Grecia? “I centri sulle isole da anni traboccano di profughi e migranti. Nessuna regola igienica o di distanza può essere rispettata, l’acqua è scarsa. Lavoriamo con il governo greco in modo costruttivo, abbiamo offerto alcuni spazi che possono essere usati per le quarantene. La Grecia, seguendo i nostri appelli, ha cominciato a trasferire persone su altre isole o sulla terraferma. Ora grazie alla disponibilità di alcuni Paesi europei, sono riprese le partenze dei primi gruppi di bambini e minori non accompagnati, che sono 5 mila in tutto, ricollocandoli finora in Germania, Lussemburgo, Portogallo, Slovenia”. Cosa chiedete e cosa vi aspettate dai governi europei in questa situazione? “Direi alcune cose essenziali. Prima di tutto ricordarsi che la pandemia è un problema collettivo, non solo in termini morali o umanitari: se non si prendono misure di contenimento anche in Paesi molto lontani, può tornare a colpire. L’Onu ha pubblicato un appello chiedendo 2 miliardi di dollari per le sue agenzie umanitarie. In questi giorni chiederemo di rivedere questa cifra al rialzo. Le operazioni di sostegno ai governi più deboli vanno finanziate. Secondo, l’intervento dev’essere non solo sanitario ma anche economico, soprattutto per gli strati più poveri: la crisi economica sta già colpendo quei Paesi e questo può provocare nuovi movimenti di popolazioni che premerebbero ai confini d’Europa. C’è una terza cosa, che capisco sia spinosa in termini politici e di comunicazione, ma è ineludibile: ci sono al momento imbarcazioni piene di migranti nel Mediterraneo e non solo, anche nel golfo del Bengala sono state salvate barconi con quasi mille persone a bordo, ci sono movimenti migratori in America Centrale. È chiaro che in questo momento i governi chiudano frontiere, porti e aeroporti, ma ci sono anche persone che fuggono perché la loro vita è in pericolo. Torno all’esempio della Libia: la nostra posizione non è cambiata, la Libia non è un Paese sicuro, non è possibile ritornare laggiù le persone. Allora diciamo, nei limiti del possibile non distruggete il sistema dell’accoglienza, le restrizioni siano temporanee. Non siamo di fronte a un dilemma: è possibile sia garantire la salute pubblica che proteggere i rifugiati. Si possono adottare quarantene e controlli sanitari, ma il salvataggio in mare resta un imperativo umanitario e un obbligo del diritto internazionale. Vorrei aggiungere che se oggi avessimo avuto un meccanismo di ricollocazione degli arrivi sarebbe tornato utile”. Oggi è tutto bloccato in Europa su questo fronte? “I ministri degli Interni di Francia, Germania, Italia e Spagna hanno inviato una lettera con idee molto interessanti, fra i quali un nuovo meccanismo di salvataggio in mare comune perché quello attuale funziona malissimo, non ultimo a causa della pandemia”. Cosa succede con i rifugiati nell’Italia del lock down? “Abbiamo segnalato che ovunque in Europa si registrano moltissimi casi di singoli o di gruppi di rifugiati e richiedenti asilo che contribuiscono alla risposta collettiva. In Italia ci sono per esempio rifugiati in Calabria che fabbricano mascherine e le donano alle strutture, altri lavorano da interpreti, molti rifugiati con qualifiche mediche o paramediche si sono attivati. Noi abbiamo lanciato un’iniziativa con il Consiglio d’Europa per accelerare il riconoscimento delle qualifiche professionali soprattutto in campo medico: diamo loro una specie di passaporto professionale valido per 5 anni col quale le autorità di un Paese possono verificarne scrupolosamente la preparazione dei rifugiati in specifici settori professionali e, ad esempio, se dimostrano competenze in ambito medico possono impiegarli nel sistema sanitario in modo più veloce. Sta funzionando in diversi Paesi europei e viene sempre più richiesto”. Egitto. Fu arrestato per un video ironico su Al-Sisi: Shady è morto in galera a soli 26 anni Il Dubbio, 3 maggio 2020 Ii compagni di cella hanno gridato tutta la notte per chiedere un medico ma nessuno è intervenuto. Il ragazzo, in attesa del processo, è morto a Tora, nella stessa prigione dove è detenuto Patrick Zaki. “Con i compagni di cella hanno gridato tutta la notte per chiedere un medico ma nessuno è intervenuto. Shady Habash è morto a soli 22 anni, da 26 mesi attendeva il processo. Era a Tora, la stessa prigione dove è detenuto Patrick Zaki”. Così all’agenzia Dire Amr Abdelwahab, un amico di Zaki, il ricercatore egiziano arrestato l’8 febbraio scorso con l’accusa di sedizione tramite i social network e da allora in detenzione cautelare nel carcere di massima sicurezza del Cairo. Anche Shady Habash era in attesa del processo: era stato arrestato a marzo del 2018 perché aveva diretto un video clip musicale in cui il cantante Ramy Essam, esule all’estero, faceva della satira sul presidente Abdel Fattah Al-Sisi. A dare la notizia della morte del giovane regista è stato Ahmed el-Khawaga, il suo avvocato, secondo cui Shady Habash sarebbe morto dopo aver accusato forti dolori allo stomaco, ma né lui ne’ i suoi compagni sono riusciti a far intervenire un medico nonostante abbiano gridato per ore attraverso la cella. Dall’istituto carcerario non avrebbero ancora confermato il decesso tuttavia secondo Abdelwahab, diverse voci sarebbero trapelate dopo la sua morte: “Famigliari e amici di Habash- ha detto ancora l’attivista alla Dire- si sono recati a Tora e in qualche modo hanno ottenuto queste informazioni”. Quanto alle cause della morte, “potrebbe essere stato avvelenato”. Oltre al regista Shady Habash, la polizia egiziana aveva arrestato anche l’autore della canzone incriminata, Galal El-Behairy, che ad agosto 2018 è stato processato da un tribunale militare e condannato a tre anni di reclusione. “Quanto è accaduto - aggiunge Amr Abdelwahab all’agenzia Dire - la dice lunga sullo stato in cui versano i servizi medico-sanitari all’interno del carcere di Tora, nel bel mezzo di una epidemia poi”. Da tempo difensori per i diritti umani e associazioni egiziane e internazionali denunciano arresti arbitrari e gravi violazioni all’interno delle carceri. Le organizzazioni sostengono che dopo il colpo di stato del 2013, che ha portato al potere il presidente Al-Sisi, decine di migliaia tra manifestanti, intellettuali ed oppositori politici sarebbero finite dietro le sbarre. In Egitto non esistono stime ufficiali sul fenomeno, ma il carcere di Tora è diventato tristemente noto per accogliere i dissidenti che, tramite la legge sul terrorismo promulgata nel 2015, vengono accusati di attività terroristiche anche solo a causa di un post critico contro il governo condiviso sui social network. Prima della sentenza possono passare degli anni e stando alle associazioni, ai familiari dei detenuti o ai racconti di coloro che sono usciti, dietro le sbarre si subirebbero torture. Le celle sarebbero sovraffollate, il cibo scadente e le cure mediche negate nella maggior parte dei casi. Amr Abdelwahab alla Dire conclude: “Nel suo ultimo messaggio, Shady aveva scritto: “Sostengono che la prigione non possa ucciderti, ma la solitudine può. Per questo ho bisogno del sostegno di ognuno di voi all’esterno affinché io sopravviva”. “In pratica - dice l’attivista- ci chiedeva di non essere dimenticato”. Iran. Censura e inazione del governo condurranno a una catastrofe umanitaria nelle prigioni ncr-iran.org, 3 maggio 2020 Rapporti ottenuti dall’Organizzazione del Mojahedin del Popolo Iraniano indicano che, a causa della diffusione del coronavirus e dell’inazione e della censura da parte del regime, la situazione nelle carceri iraniane è diventata molto grave. Gli effetti della diffusione del Covid-19 sono terribili. La maggior parte dei prigionieri nel Reparto 4 della prigione di Evin è stata infettata dal coronavirus e soffre di tosse secca, febbre, brividi e diarrea. Dall’inizio dell’epidemia di coronavirus in Iran, il regime dei mullah, al fine di evitare una rivolta popolare, è ricorso a un insabbiamento criminale e all’inazione. Il regime ha cercato di minimizzare la crisi. La gente non è stata allertata e il periodo di quarantena è iniziato molto tardi e non è stato accompagnato dal sostegno finanziario alla popolazione da parte del governo. Pertanto, il popolo iraniano è stato devastato dalla povertà e dalla fame. Temendo che un esercito di persone affamate si sollevasse, il regime ha costretto la gente a tornare al lavoro, accettando il rischio che ci sarebbero state più vittime e la possibile indignazione sociale. La situazione nelle carceri iraniane era più deplorevole. Invece di rilasciare prigionieri o migliorare le strutture igieniche, il regime ha ulteriormente aumentato le misure oppressive e negato ai detenuti l’accesso alle cure mediche. Il sistematico insabbiamento e le misure oppressive da parte del regime hanno provocato decine di ribellioni di detenuti che giustamente chiedono di essere rilasciati. Tuttavia, il regime ha risposto con proiettili. Decine di detenuti sono stati uccisi. Mostafa Salimi e due rei minorenni, Shayan Saeedpor e Danial Zeinolabedini, sono stati uccisi, i primi due per impiccagione e il terzo sotto tortura, per avere partecipato alle rivolte. I disordini nelle prigioni in varie città del Paese hanno indebolito le argomentazioni del regime e indicato che le sue affermazioni erano ingannevoli e che i prigionieri, in particolare i prigionieri politici, sono ancora rinchiusi in condizioni estremamente pericolose. Sebbene la destabilizzazione del controllo delle carceri da parte del regime dimostri la profondità della sua instabilità e della sua disperazione nel controllo dell’esplosiva società dell’Iran, che si trova in una prigione di fatto più grande, la decisione criminale del regime di non rilasciare i prigionieri non dovrebbe essere ignorata. Il regime iraniano, attraverso i suoi lobbisti e apologeti, ha cercato di usare il coronavirus come una leva della pressione sulla comunità internazionale per revocare le sanzioni. Il regime cerca di descrivere le sanzioni degli Stati Uniti, che hanno in effetti paralizzato la sua macchina del bellicismo e il suo finanziamento del terrorismo, come motivo dell’elevato tasso di mortalità del coronavirus in Iran. Il modo in cui i mullah gestiscono la situazione nelle carceri e il loro approccio nei confronti dei detenuti bastano a rendere evidente quanto sia falsa tale affermazione. Pertanto, è dovere della comunità internazionale non soccombere al ricatto del regime e intervenire immediatamente per evitare una catastrofe umanitaria nelle carceri iraniane. La signora Maryam Rajavi, presidente-eletto del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana (Cnri), ha espresso sgomento per l’inazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sullo stato eclatante dei prigionieri in Iran. Ha detto: “I prigionieri politici di Evin e di altre carceri hanno contratto il coronavirus, ma il regime non li sta rilasciando, né mettendo in quarantena, né curando”. Questa è morte per logoramento. Allo stesso tempo, il regime sta effettuando una serie di impiccagioni anche nel mese di Ramadan per intimidire e terrorizzare il popolo, comprese le impiccagioni di oggi nelle carceri di Urmia e Sanandaj. La signora Rajavi ha nuovamente esortato la comunità internazionale, in particolare il Consiglio di Sicurezza, ad agire per fermare le esecuzioni e garantire la liberazione di prigionieri, in particolare dei prigionieri politici. Ha aggiunto: “Il silenzio nei confronti delle atrocità perpetrate nelle carceri dal regime clericale equivale a ignorare i principi umanitari che l’umanità ha offerto a milioni di vittime”. Congo. Human Rights Watch: “Rischio ecatombe causa coronavirus nelle prigioni” ansa.it, 3 maggio 2020 Rischio “ecatombe” causa coronavirus nelle prigioni “insalubri e sovrappopolate” della Repubblica democratica del Congo, dove ogni anno già muoiono decine di detenuti. La denuncia è di Human Rights Watch (Hrw) secondo la quale c’è un “grave rischio di diffusione dell’epidemia di Covid-19”. Un totale di 43 detenuti è risultato positivi al test negli ultimi due giorni nella prigione militare di Ndolo, nel pieno centro della capitale Kinshasa, che ospita quasi 2 mila persone. Ma i dati potrebbero peggiorare poiché “sono in corso i tamponi per tutti i detenuti”, ha precisato il ministro della Sanità Eteni Longondo, secondo il quale il virus è entrato in carcere attraverso “una donna che portava del cibo”.