Carcere: far rientrare il Volontariato, non far uscire le tecnologie di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 31 maggio 2020 La Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia a fianco dei Garanti territoriali per aprire un dialogo con le direzioni, che apra la fase 2/fase 3 nelle carceri. Riaprire al Volontariato significa riportare in carcere la funzione costituzionale della pena. Ogni giorno entrano nelle carceri migliaia di agenti e di altri operatori penitenziari, di sanitari, operatori esterni delle cooperative, non c’è motivo perché ora non riprendano a entrare, con le dovute precauzioni, anche i volontari. È urgente reintrodurre una “vita sociale” nelle carceri riportando al loro interno il Volontariato, che si impegna nei percorsi rieducativi, previsti dalla Costituzione. Si tratta semplicemente di assicurare delle corrette procedure di accesso al carcere a tutela dei volontari stessi, degli operatori e dei detenuti, tra cui l'utilizzo dei dispositivi individuali di protezione (mascherina, guanti e gel), e la rimodulazione degli orari e degli spazi. Noi volontari chiediamo di rientrare con le stesse modalità con cui, all’interno del carcere, hanno continuato a lavorare anche nella Fase 1 le cooperative sociali. Le tecnologie sono “entrate” per il virus, ora devono restare, per gli affetti ma anche per i percorsi rieducativi/risocializzanti La cosa più drammatica che potrebbe succedere nella fase 2 è che le tecnologie, entrate finalmente in carcere, ne escano appena si tornerà a un po’ di normalità ripristinando i colloqui visivi. Le tecnologie DEVONO restare in carcere: - Per gli affetti - Per le attività rieducative/risocializzanti Il Volontariato sta chiedendo ovunque l’utilizzo di piattaforme come Zoom e Meet, che cominciano a essere usate in qualche carcere (per esempio a Bergamo per la redazione, a Rebibbia e Modena per il teatro), facciamo in modo che diventi generalizzata questa pratica, e che sia monitorato l’impegno di ogni carcere a garantire l’uso delle tecnologie, eventualmente con risorse della Cassa Ammende. Le persone detenute non possono restare dei “senzatetto digitali”, se non vogliamo che il reinserimento diventi ogni giorno più difficile in una società, che le tecnologie le dovrà mettere sempre più al centro della sua vita. Un’informazione che disinforma Il Volontariato si impegna a essere molto più attivo nell’informazione, creando momenti di formazione, anche in remoto (e l’Ordine dei Giornalisti deve adeguarsi a questa nuova modalità), per i giornalisti, che poco conoscono la realtà dell’esecuzione penale e molti danni possono fare anche solo tacendo dati e cancellando pezzi di notizie significativi. Pensiamo, in proposito, di accelerare l’organizzazione del Terzo Festival della comunicazione sulle pene e sul carcere. Vogliamo contribuire con la nostra competenza a informare e sensibilizzare le persone “dentro” e la società “fuori”, bombardata da una informazione, spesso superficiale e imprecisa, e vogliamo valorizzare le esperienze di redazioni nate all’interno delle carceri, anche qui chiedendo che l’uso di Internet non sia più un tabù. Insieme, a fianco dei Garanti Nelle prossime settimane le Conferenze regionali Volontariato Giustizia si riuniranno con i Garanti territoriali perché è adesso che c’è bisogno che la società civile torni a essere presente capillarmente nelle carceri e nell’area penale esterna: questa deve essere non un’occasione per pensare di “fare da soli”, ma un’opportunità per lavorare fianco a fianco, ognuno valorizzando la sua specificità. Vogliamo tornare a portare nelle carceri le nostre idee, le nostre risorse, la nostra capacità innovativa. Misure per un rientro in sicurezza degli operatori volontari nelle carceri (sono le misure che regolano il lavoro delle cooperative che hanno continuato a operare in carcere anche nella Fase 1) 1. uso di mascherine per tutti (meglio mascherine lavabili, che non inquinano. In teoria non sono obbligatorie se tra persona e persona c'è almeno un metro di distanza, ma è preferibile renderle obbligatorie); 2. uso di guanti, o gel igienizzante per uso personale dove non si riesca a fare attività indossando i guanti; 3. presenza di dispenser con gel nei luoghi dove si svolgono le attività; 4. igienizzazione frequente dei tavoli, delle maniglie etc, di tutte le superfici/oggetti di uso comune; 5. dispenser collettivo a disposizione e responsabilizzazione per pulizie a una persona detenuta, gel per tutti gli oggetti, comprese chiavette o registratore o altro; 6. misurazione della temperatura con lo scanner termico ogni inizio attività alle persone detenute, mentre per i volontari c'è la stessa cosa fuori con il triage/dichiarazione comunque che ci si misura la temperatura a casa per chi entra in orari in cui non c'è il triage; 7. distanza di metri 1,5 tra persona e persona (sempre), con segnaposto sul tavolo o sulle sedie. È fondamentale garantire la distanza tra operatore volontario e persone detenute; 8. comunicazione alle persone detenute, scritta e sottoscritta da loro, di queste misure Rimodulare le attività: spazi, presenza di volontari All’Amministrazione chiediamo di rivedere l’uso degli spazi, potenziando in questa fase l’utilizzo delle aree verdi e delle aule scolastiche, che in estate sono state quasi sempre inutilizzate anche in passato. Non è più pensabile che l’estate aggiunga deserto al deserto delle carceri nella pandemia, è fondamentale che a partire dalla prossima estate il Volontariato e la scuola non subiscano riduzioni di orari, di attività e colloqui in presenza e da remoto. Una buona organizzazione degli incontri e dell’uso di tecnologie non dovrebbe comportare maggiori oneri per la Polizia penitenziaria. Anche per palestre, auditorium, teatri interni andrebbe programmato dove possibile un utilizzo per i percorsi rieducativi/risocializzanti, organizzati dal Volontariato. Le associazioni a loro volta potrebbero rimodulare la presenza dei loro operatori adattandola agli spazi disponibili e al numero di detenuti coinvolti, ribadendo comunque che il distanziamento fondamentale è quello tra operatori che vengono dall’esterno e persone detenute. Questa rimodulazione vogliamo condividerla con i Garanti territoriali, che hanno anche un importante ruolo di “mediazione” tra l’amministrazione penitenziaria e quella società civile, che entra in carcere con gli art. 17 e 78 e si occupa proprio di quei percorsi, che devono accompagnare le persone detenute dalla detenzione al rientro nella società. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Alla Corte costituzionale il decreto-legge sulle “scarcerazioni” di Marcello Bortolato* questionegiustizia.it, 31 maggio 2020 Il Magistrato di Sorveglianza di Spoleto ha sollevato questione di legittimità costituzionale in riferimento al decreto-legge 29/2020. L’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale ha ad oggetto il meccanismo di rivisitazione cadenzata a intervalli brevi, anzi brevissimi, delle decisioni adottate dalla magistratura di sorveglianza, in epoca di pandemia da Covid-19, emesse a partire dal 23 febbraio 2020, meccanismo previsto dal Decreto Legge 10 maggio 2020 n. 29. Tale norma nasce come risposta alle polemiche insorte dopo la scarcerazione, per differimento della pena nelle forme della detenzione domiciliare, di soggetti appartenenti all’area della criminalità organizzata mafiosa e camorristica. La questione di legittimità costituzionale sollevata dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto riguarda in particolare i profili inerenti la violazione dei diritti di difesa del condannato e l’assenza di un contraddittorio, in piena ‘parità di armi’, tra gli attori processuali nel procedimento che comporta la revoca tout court di una misura alternativa, sebbene concessa in luogo della sospensione della pena, con conseguente rientro della persona in carcere. Acquisiti tutti i pareri obbligatori previsti dalla legge (introdotti con il dl in parola) il magistrato, dovendo ‘rivalutare’ la permanenza dei motivi legati all’emergenza sanitaria ed avendo la Procura Distrettuale antimafia competente espresso parere contrario alla protrazione della misura domiciliare circa il pericolo di reiterazione di reati - non già per comportamenti contrari posti in essere dall’interessato nelle more ma per il ruolo di rilievo da lui svolto in passato nel contesto criminale di riferimento - dubita della legittimità dell’art. 2 dl cit. nella misura in cui non prevede un formale coinvolgimento della difesa tecnica dell’interessato. Da un lato infatti non è prevista alcuna comunicazione formale dell’avvio del procedimento di rivalutazione cui partecipa viceversa, in maniera del tutto inedita, un organo requirente diverso da quello che sarebbe competente in relazione al giudice che procede (Pubblico ministero presso il giudice di sorveglianza), dall’altro l’interessato e il suo difensore restano all’oscuro degli elementi essenziali acquisiti mediante l’istruttoria e sui quali verterà il giudizio che potrebbe portare alla ri-carcerazione. Infine, a differenza dello schema procedimentale tipico che più si avvicina a questa ipotesi (sospensione della misura alternativa per comportamento ‘colpevole’ ex art. 51-ter o.p.), non è prevista alcuna conferma da parte del Collegio che, nei procedimenti di differimento della pena, è viceversa l’organo competente ad adottare il provvedimento definitivo. La previsione del termine meramente acceleratorio di 60 giorni, previsto dall’art. 47 co. 4 o.p. (in quanto richiamato dall’art. 47-ter co. 1-quater o.p.), per la conferma dei provvedimenti interinali assunti dal magistrato di sorveglianza (termine peraltro del tutto assente nello schema procedimentale dell’art. 684 c.p.p., norma applicabile in subiecta materia), non costituisce, a parere del remittente, alcuna idonea garanzia a fronte, per giunta, dell’immediata esecutività, sancita dal co. 3 dell’art. 2 dl cit., del provvedimento di revoca. Inoltre il termine ‘revoca’ sembrerebbe optare per una tendenziale definitività del provvedimento ripristinatorio della detenzione per il quale non è prevista l’incardinazione di una competenza collegiale, se non quella ‘ordinaria’ sulla richiesta di differimento avanzata dall’interessato che tuttavia, nella fissazione dell’udienza, non soggiace, come si è detto, ad alcun termine perentorio. Di conseguenza la revoca della detenzione domiciliare produrrebbe i suoi effetti immediati, con rientro in carcere del soggetto, senza il presidio di un successivo tempestivo riesame nel merito, nel pieno contraddittorio delle parti. Il provvedimento del magistrato, assunto de plano, senza nemmeno lo schema minimo della camera di consiglio, dispiega i suoi effetti, con la privazione massima della libertà, senza che la difesa abbia potuto, a differenza dell’autorità requirente, interloquire. In particolare la difesa non può confrontarsi con i contenuti del parere pervenuto dalla Direzione distrettuale antimafia né con le informazioni fornite dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e dal Presidente della Giunta regionale sull’evidenzia epidemiologica in atto nella Regione di riferimento e dunque non è in grado di fornire, se non eventualmente ed alla ‘cieca’, le proprie osservazioni. L’ordinanza di rimessione alla Corte analizza i vari procedimenti in cui, in materia di giurisdizione penitenziaria, sussiste un contraddittorio dimidiato, differito o largamente sacrificato (art. 678 co. 1-bis e 1-ter c.p.p.; art. 51-bis o.p), in un caso già oggetto di pronunciamento da parte del Giudice delle leggi (art. 69-bis o.p. in tema di liberazione anticipata). Si tratta di ipotesi in cui il merito della decisione è legato a valutazioni con bassissimo tasso di discrezionalità (differimento obbligatorio per madri detenute o sopravvenienza di nuovi titoli esecutivi) oppure è largamente maggioritaria una valutazione di segno favorevole per l’instante (declaratoria di estinzione pena, misure alternative per pene brevi per soggetti ‘liberi sospesi’) ma comunque in questi casi il diritto alla difesa tecnica è sempre garantito o dalla previsione di un termine di impugnazione durante il quale l’esecutività del provvedimento interinale è sospesa ovvero, come nel caso più grave della sospensione ex art. 51-ter o.p., è previsto un termine perentorio entro il quale, se non sopravviene la decisione di ratifica collegiale, il provvedimento perde efficacia. L’ordinanza sottolinea viceversa l’assoluta atipicità della revoca de qua che tra l’altro dispiega i suoi effetti anche retroattivamente (stante la norma transitoria) e che si inserisce in una sequenza che ha già attraversato una fase interinale del procedimento e che dovrebbe avere il suo naturale sbocco solo nella fase collegiale a contraddittorio pieno. E ciò avviene senza che il provvedimento che incide così fortemente sul diritto di libertà personale (riportando in carcere l’interessato per fatti incolpevoli) sia soggetto ad un riesame in un termine entro il quale il provvedimento stesso conservi efficacia solo ove tale tempistica sia rispettata (secondo il meccanismo sopra ricordato dell’art. 51-ter o.p.). A tali criticità (violazione degli artt. 24 co. 2 e 111 co. 2 Cost.) si aggiungerebbe anche la violazione dell’art. 3 Cost. nella parte in cui detta rivalutazione concerne esclusivamente i provvedimenti ammissivi connessi all’emergenza Covid-19 se riferiti ad alcune tipologie di reati, peraltro non coincidenti con quelle dell’art. 4-bis o.p.. Solo per alcuni autori di reato, con scelta della cui ragionevolezza dubita il giudice remittente, si prevede un procedimento meno garantito, con sacrificio del principio del contraddittorio e della ‘parità delle armi’, attribuendo ancora una volta alla presunzione di pericolosità derivante dalla commissione di un certo reato (presunzione già oggetto di recenti interventi ablativi della Corte cost.), in un ambito inciso tra l’altro non dai profili rieducativi o premiali ma dalla tutela di un diritto fondamentale quale quello alla salute, una specifica portata negativizzante che travalica l’apprezzamento in fatto già operato, in forma individualizzata, dal magistrato di sorveglianza. L’ordinanza di rimessione alla Corte segnala in definitiva un fondato dubbio, pienamente condivisibile, di conformità a Costituzione di un intervento normativo assunto d’urgenza (verrebbe da dire ‘frettolosamente’) e sull’onda di polemiche mediatiche, talvolta assai fuorvianti, su presunte scarcerazioni ‘facili’ in tempo di pandemia, intervento che non ha tenuto conto non solo delle necessarie scansioni processuali e delle garanzie che generalmente assistono i provvedimenti de libertate ma anche dell’esigenza di assicurare l’indefettibile contraddittorio che è propria di qualsivoglia provvedimento di revoca delle misure alternative. A tal scopo il giudice remittente opportunamente ricorda che la legge delega 23 giugno 17 n. 103, nella parte in cui indirizzava gli interventi di modifica dell’ordinamento penitenziario in senso ‘semplificatorio’, faceva in ogni caso salvi, quale unica eccezione, proprio i provvedimenti di revoca delle misure alternative alla detenzione in cui doveva essere sempre garantita, unico caso, pienezza di contraddittorio e collegialità. *Presidente del Tribunale di Sorveglianza Firenze Carcere ai boss mafiosi, il decreto Bonafede rinviato alla Consulta di Eleonora Martini Il Manifesto, 31 maggio 2020 Il tribunale di Spoleto: “Discriminante e lesivo dei diritti di difesa”. A meno di tre settimane dall’entrata in vigore, il cosiddetto “decreto Bonafede” finisce già davanti alla Corte costituzionale. A Palazzo della Consulta non è ancora arrivata nessuna ordinanza, ma sembra che più di un tribunale stia preparando il rinvio della discussa norma alla Corte. Messo in piedi in fretta e furia dal ministro di Giustizia per fermare la polemica sulla detenzione domiciliare concessa ad alcuni boss mafiosi, particolarmente malmessi in salute e dunque a rischio durante la prima fase dell’emergenza Coronavirus, il decreto n. 29 del 10 maggio 2020 è in dubbio di costituzionalità. Almeno stando alla questione di legittimità che per primo qualche giorno fa il giudice di sorveglianza del Tribunale di Spoleto, Fabio Gianfilippi, ha sollevato in particolare sull’articolo 2. Perché, secondo il magistrato, viola il diritto di difesa laddove prevede che “il provvedimento con cui l’autorità giudiziaria revoca la detenzione domiciliare o il differimento della pena è immediatamente esecutivo”, senza permettere neppure un contraddittorio sull’eventuale variazione dei motivi che hanno giustificato i domiciliari (“la disponibilità di altre strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta idonei”, per esempio). Inoltre il fatto che tale provvedimento valga solo per i detenuti accusati o condannati di reati di mafia o terrorismo e per coloro che sono reclusi in regime di 41 bis, rende la norma incostituzionale perché equivale ad una pena ulteriore applicata in modo discriminante. Il giudice di sorveglianza di Spoleto ha rinviato alla Consulta, al premier Conte e ai presidenti di Camera e Senato gli atti riguardanti il caso di un uomo condannato a 5 anni e sottoposto a trapianto di organi a cui era stata concessa la detenzione domiciliare e che, secondo il decreto Bonafede, avrebbe dovuto rientrare in carcere malgrado il trattamento post trapianto a cui era sottoposto. I suicidi in carcere e il paradosso dell’isolamento sanitario precauzionale Il Riformista, 31 maggio 2020 Ventuno suicidi in carcere dall’inizio del 2020. Un dato, quello annunciato dall’Ufficio del Garante Nazionale delle persone private della libertà, definito allarmante da Sergio d’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino-Spes contra spem. Si tratta di “un numero che ha superato quelli, alla stessa data, del 2019 (16) e del 2018 (18). Il Garante fa notare che in ben due degli ultimi tre casi si è trattato di persone appena carcerate e poste in “isolamento sanitario precauzionale”. “Un paradosso - dice d’Elia - definire “sanitario”, cioè attinente alla salute, e “precauzionale”, cioè attinente alla sicurezza, un “isolamento”, che è il momento più drammatico dello stato di privazione della libertà. Per chi ha fatto l’esperienza del carcere, detenuto o detenente che sia, sa che l’isolamento è il momento e il luogo in cui può accadere che un individuo si perda per sempre. Perché perde, con la sua dignità, quel che è universalmente dichiarato diritto sacro: la vita, la libertà e la sicurezza della propria persona. Ma, a ben vedere, la cella di isolamento è la figura retorica perfetta - la sineddoche, la parte per il tutto - per descrivere il sistema penitenziario. Se vuoi abolire l’isolamento - dannoso per la vita, la libertà e la sicurezza della persona - devi abolire il carcere, appendice mortifera del diritto penale, di cui l’isolamento è l’essenza”. Il Segretario di Nessuno tocchi Caino ha poi concluso ricordando Aldo Moro: “Non cerchiamo un diritto penale migliore, troviamo qualcosa di meglio del diritto penale. Una visione che ha animato il Congresso di Nessuno tocchi Caino nel carcere di Opera. Non smettiamo di essere visionari, non perdiamo questo potere di diventare costruttori di realtà, perché i visionari sono i veri realisti”. Csm, il Colle spinge la riforma di Domenico Cirillo Il Manifesto, 31 maggio 2020 L’invito del presidente Mattarella perché governo e parlamento facciano presto. Il ministro Bonafede presenterà la bozza alle opposizioni, ai magistrati dell’Anm e agli avvocati. Ma il centrodestra rilancia il sorteggio per la componente togata. Dovrebbe essere la prossima la settimana buona per portare il testo della riforma del Consiglio superiore della magistratura in Consiglio dei ministri. Alle speranze del ministro Bonafede ha dato una bella spinta la nota - molto dura - del Quirinale venerdì. Oltre al “grave sconcerto” e alla “riprovazione” per “la degenerazione del sistema correntizio e l’inammissibile commistione fra politici e magistrati”, il presidente della Repubblica ha detto chiaramente che “se i partiti politici e i gruppi parlamentari” vogliono veramente girare pagina, allora “è necessario che predispongano e approvino in parlamento una legge” di riforma del Csm. Il presidente non ha mancato di notare che questo compito è affidato “al governo e al parlamento”. Il governo dunque si muove, con il ministro della giustizia che appena dieci giorni fa è stato sul punto di essere sfiduciato da un partito della coalizione (Italia viva). Ma la situazione di vera e propria emergenza provocata dalla nuova ondata di colloqui riservati tra toghe, confermata e alimentata da parole tanto nette del capo dello stato, è servita a compattare la maggioranza. Tradizionalmente divisi sulla giustizia, i partiti della compagine giallo-rossa dopo due pomeriggi di confronto sono già arrivati a un “sostanziale accordo” sulla riforma. Non c’è ancora un testo, se non la serie di articoli che erano stati messi da parte a febbraio, togliendoli dal disegno di legge delega sulla riforma del processo penale. Dal confronto di mercoledì e giovedì scorsi in via Arenula è uscita l’esigenza di integrarli prevedendo una stretta sul versante della giurisdizione interna alla magistratura, si parla anche di una “autorità indipendente” da affiancare alla sezione disciplinare del Consiglio superiore. Altre novità dovrebbero rendere più rigorose le valutazioni di professionalità, ancorandole a criteri il più possibile oggettivi (come gli indici di produttività degli uffici giudiziari). E ancora si dovrebbe alzare il muro - che c’è già, ma è molto basso - tra la carriera in magistratura e la candidatura in politica, anche a livello comunale. Infine per le toghe si allungherà il periodo di intervallo necessario tra la fine del collocamento fuori ruolo e la possibilità di accedere a incarichi direttivi. Non si tratta insomma di una rivoluzione, non c’è per esempio una vera attuazione del principio di temporaneità degli incarichi direttivi (che restano temporanei solo nello stesso ufficio) né un freno definitivo alla moltiplicazione degli incarichi fuori ruolo. Molte speranze nella lotta al “correntismo”, che talvolta negli attacchi di qualche esponente politico diventa guerra alle correnti, sono ancora riposte nella nuova legge elettorale per la componente togata del Csm. Come già era accaduto con l’ultima e la penultima riforma del sistema di voto, che però non avevano prodotto i risultati auspicati. Ieri la presidente del senato Maria Elisabetta Casellati, esponente della frontiera tra Forza Italia e la Lega e lei stessa ex componente laica del Csm, in un’intervista al Corriere della Sera è tornata a proporre il sorteggio come sistema di selezione ideale per i candidati. Un’idea comune nel centrodestra che era stata anche del ministro Bonafede in una prima fase. Ma che il Pd e Leu, assieme alla magistratura associata, avevano convinto i 5 Stelle ad abbandonare. Il sistema di voto già previsto a febbraio e confermato nei colloqui di maggioranza a metà settimana prevede la moltiplicazione dei collegi: da un collegio nazionale - anzi, tre ma divisi per funzioni: magistrati di legittimità, pm e giudici - si passerà a 19 collegi (in pratica uno per regione) dove tutte le toghe eleggeranno un candidato al primo turno (se supererà la maggioranza assoluta) o al ballottaggio. Nei prossimi giorni il ministro Bonafede incontrerà le opposizioni e poi presidente e segretario dell’Anm - la giunta è in crisi ma ancora in carica fino alle elezioni previste in autunno. Dovrebbe incontrare anche i rappresentanti degli avvocati, visto che la riforma prevede un loro peso maggiore nei consigli giudiziari. Riforma del Csm, il governo accelera: elezioni a doppio turno anti correnti di Marco Conti Il Messaggero, 31 maggio 2020 A sentire il ministro della Giustizia, la riforma dei meccanismi di elezione del Csm sembra in dirittura di arrivo, anche se un testo condiviso ancora non c’è e Alfonso Bonafede non ha ancora fissato l’appuntamento per consultare - come promesso - anche l’opposizione e i vertici dell’Anm e delle Camere penali. Nell’ultimo incontro di maggioranza al ministero di largo Arenula, il Guardasigilli ha promesso a Walter Verini, Andrea Giorgis, Alfredo Bazoli, Franco Mirabelli, Piero Grasso, Federico Conte e Lucia Annibali, una nuova bozza per la prossima settimana. La nota del Quirinale di venerdì ha indubbiamente impresso una nuova accelerazione al tentativo di riforma. Così come contribuiscono le intercettazioni scaturite dal trojan inserito nel cellulare del giudice Luca Palamara, che svelano un sistema spartitori o in grado di travolgere tutte le correnti dell’Anm. Anche se l’intesa non è stata ancora raggiunta, l’abbandono del sistema del sorteggio da parte del ministro ha spostato la discussione su un sistema elettorale a due turni. Circoscrizioni piccole con tre preferenze di diverso peso a seconda dell’ordine, e la possibilità di essere eletto per chi raccoglie più preferenze di “tipo uno” e ballottaggi tra i migliori secondi e i migliori terzi. Una proposta, quella del ministro, che ricalca il sistema australiano ed è anche simile a quella del centrodestra che però componeva la platea dei candidati con il sistema del sorteggio. Da ciò che è emerso dai due incontri che il ministro ha avuto con i responsabili giustizia dei partiti di maggioranza, l’intervento avverrebbe fatto con legge ordinaria e quindi non si stravolge il meccanismo della disciplinare dove verrebbe però stabilita l’incompatibilità con l’appartenenza ad altre commissioni. Non è ancora chiaro il destino dell’attuale Csm in caso di approvazione della riforma. Il Pd non sembra intenzionato a precipitare i tempi proprio per non delegittimare - attraverso la riforma - l’attuale assetto, mentre i renziani si attendono una riforma più coraggiosa e che incida anche sulla Costituzione. Bonafede, dopo due anni di stand-by, ha invece fretta di concludere arrivando alla legge delega che poi avrà bisogno di tempi non brevi per i decreti attuativi. L’obiettivo è quello di portare in aula il testo per la fine di giugno, ma occorre vedere che peso avranno gli incontri promessi con l’opposizione e con i magistrati e gli avvocati. Questi ultimi sono ancora in attesa di sapere che fine farà la legge di iniziativa popolare sulla separazione delle carriere, ora in commissione, frutto di una raccolta di firme delle camere penali e dei radicali. Pd e M5S sono tentati dall’emendamento soppressivo, ma non sarà facile cancellare con un colpo di spugna 80 mila firme. C’è poi il capitolo opposizioni che ieri hanno accolto con soddisfazione le parole contenute nella nota del Quirinale. Sulla necessità della riforma dei meccanismi di elezione dei membri del Csm sono tutti d’accordo e ora si attendono dal ministro “un incontro che non sia una semplice comunicazione delle decisioni già prese”. Le toghe tra le divisioni e la riforma. Come si gioca il match tra correnti di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 31 maggio 2020 Mentre la politica studia i correttivi, le anime della magistratura tentano il rinnovamento. Senza il coronavirus, l’Associazione nazionale magistrati avrebbe già un nuovo parlamento e un nuovo governo. Le elezioni del Comitato direttivo centrale (Cdc) e della Giunta esecutiva centrale (Gec), come si chiamano nel gergo della nomenklatura togata, sarebbero dovute avvenire a marzo, e il “caso Palamara” esploso un anno fa avrebbe avuto il suo peso. L’infezione ha fatto slittare tutto a fine maggio, poi ancora a ottobre, tenendo in piedi la vecchia Gec a sua volta infettata dal “caso Palamara bis”: dopo la diffusione delle chat l’ex presidente indagato per corruzione e molti altri colleghi, è entrata in crisi per le accuse reciproche di reazioni non adeguate tra la sinistra di Area e i centristi di Unità per la costituzione. La Gec resta in carica per gestire l’ordinaria amministrazione, che nel frattempo s’è rifatta straordinaria. Come dimostra il comunicato del capo dello Stato (e presidente del Consiglio superiore della magistratura), tornato a denunciare “la degenerazione del sistema correntizio e l’inammissibile commistione fra politici e magistrati”. Governo e maggioranza sono al lavoro sulla riforma dell’organo di autogoverno dei giudici, e quel che resta dell’Anm sarà chiamata a dire la sua. Con i gruppi impegnati da un lato a fronteggiare le modifiche in cantiere, e dall’altro a fronteggiarsi tra loro in vista delle elezioni non più rinviabili. Il nuovo vertice di Unicost (gruppo di cui Palamara è stata la guida riconosciuta, anche senza cariche ufficiali) proporrà un percorso verso una “assemblea costituente, nel segno di una forte discontinuità con il passato anche recente”, che non preclude alcun esito. Nemmeno l’autoscioglimento e la nascita di una nuova entità, sebbene il presidente Mariano Sciacca non si sbilanci: “Non c’è nulla di deciso. Noi abbiamo cominciato a guardarci dentro, dopo aver consentito l’espansione incontrollata del potere di una persona, senza immaginare la pervasività della rete che aveva tessuto. Ma il problema resta un sistema che s’è nutrito di un trasversalismo da cui nessuno è uscito indenne. Nessuno possiede né può distribuire patenti di superiorità morale, tutti dovremmo osservare ciò che è accaduto attraverso un’unica lente d’ingrandimento: quella dell’autocritica”. Il messaggio è rivolto ad Area, che ha accusato Unicost di non aver avuto lo stesso coraggio dimostrato lo scorso anno dopo le notizie sui tentativi di eterodirezione del Csm da parte di Palamara e i deputati Luca Lotti e Cosimo Ferri (giudice in aspettativa e leader storico di Magistratura indipendente). Ma Eugenio Albamonte, segretario del gruppo della sinistra giudiziaria, ribatte: “Non si tratta di rivendicare una superiorità morale, però è innegabile che noi abbiamo posto il problema prima di altri. Io stesso, da presidente dell’Anm, parlai nel 2017 di degenerazione del correntismo, sebbene il problema non coinvolga solo le correnti: le chat di Palamara dimostrano che molti magistrati chiedevano e ottenevano individualmente le sponsorizzazioni per nomine e promozioni. Anzi, c’è una correlazione tra la perdita di idealità e identità culturale dei gruppi e l’aumento di pratiche clientelari. Ma resta una differenza di fondo tra certe pratiche deteriori e i tentativi di eterodirezione del Csm, mai visti prima; alle riunioni con Palamara e i politici non c’erano magistrati di Area”. Di quegli incontri segreti, un anno fa, fecero le spese soprattutto i “conservatori” di Mi, che si ritrovarono dimezzati al Csm e fuori dalla Giunta dell’Anm. “Fummo estromessi - commenta la segretaria Paola D’Ovidio - solo perché dicevamo che la scelta delle dimissioni dal Csm spettava alle persone coinvolte, non poteva essere un’imposizione dettata da un atteggiamento giustizialista. I fatti di allora erano esterni all’Anm, ora invece sono emerse novità di cui un Cdc serio dovrebbe prendere atto. Bisognerebbe votare subito, per dare volti rappresentativi e credibili a una magistratura che nella stragrande maggioranza è fuori da certi giochi. Anche a luglio, come proposto da noi. Io non nego né rinnego il passato del mio gruppo, ma oggi ci sono persone nuove”. Quando Mi uscì dal governo dell’Anm fu rimpiazzata da Autonomia e indipendenza, che se n’era tirata fuori terminata la presidenza di Davigo, il suo leader. “Denunciammo lo scandalo delle nomine al Csm - spiega il segretario Michele Consiglio - e ora chiediamo che la Giunta abbia un’interlocuzione seria con il governo per evitare una riforma del sistema elettorale del Csm che peggiori le cose. Il metodo maggioritario uninominale proposto rafforzerà le correnti e porterà a una bipolarizzazione del sistema, tagliando fuori i gruppi piccoli e nuovi come il nostro”. Con queste premesse il confronto con la politica non si annuncia semplice. Soprattutto nel pieno di una campagna elettorale interna all’Anm che è già cominciata. Magistratopoli, parla l’ex ministro della giustizia Andrea Orlando: “Subito riforma Csm” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 31 maggio 2020 Andrea Orlando, deputato e già Ministro della Giustizia prima con Renzi e poi con Gentiloni (2014-2018) è vice Segretario del Pd. Lascia sul terreno qualche incompiuta, come la riforma del sistema penitenziario e quella della prescrizione: temi caldissimi nell’agenda della maggioranza; tra Italia Viva e Cinque Stelle il punto di mediazione rimette il boccino nelle mani dei Dem. Vertice di maggioranza in corso. Si riparla anche di riforma penitenziaria? Penso che anche dopo l’esperienza del Covid abbiamo elementi che spingono ancor più verso l’esigenza di distinguere tra detenuti e tra percorsi e di far corrispondere a queste distinzioni un diverso trattamento, che era il cuore della riforma: il carcere non è l’unica forma di esecuzione della pena. Su quel fronte c’è ancora tanto da fare... Basterebbe riprendere la mia riforma, che era il frutto di due anni di un lavoro importante che aveva messo insieme tutti gli studiosi della materia, i più importanti penalisti, con un lavoro interdisciplinare che affrontava tutti i diversi aspetti del pianeta carcere. È sul tavolo di Bonafede? È una richiesta che abbiamo fatto come Pd e che dobbiamo portare avanti. Riteniamo che un sistema intelligente di esecuzione della pena serva ad avere una effettiva corrispondenza alle indicazioni costituzionali ma alla fine anche a garantire più sicurezza ai cittadini. Le linee-guida esposte da Bonafede sono un buon punto di partenza? Le linee-guida erano frutto di un confronto, ma essendo linee-guida possono produrre poi effetti molto diversi, sul cui esito dobbiamo discutere. Credo ci siano alcuni punti che debbono essere sviluppati, ma la strada è quella giusta. Si parla di individuare percorsi di merito. Anziché fare gli indignati perché si scoprono continue trattative che emergono dalle intercettazioni, sarebbe bene chiedersi perché sono possibili quelle trattative. Io dico che sono possibili perché i criteri di individuazione degli incarichi sono molto vaghi. E invece dovremmo avere delle griglie più stringenti, a partire dalle valutazioni che vengono proposte dai capi degli uffici sui magistrati sottoposti. Le valutazioni che si fanno oggi, invece, non rispecchiano la fotografia del magistrato. Italia Viva vuole ridiscutere la prescrizione. È oggetto di un confronto del quale non sono parte diretta, anche per evitare imbarazzi di sovrapposizione tra predecessore e successore al Ministero. Sicuramente è un punto aperto, che noi vogliamo valutare sulla base della riforma del processo penale. La sua priorità qual è? In questo momento vedo un’urgenza estrema nell’approvazione della riforma del Csm. Si rischia la delegittimazione non soltanto dell’organo di autogoverno, ma di tutta la magistratura. È una questione che investe tutta l’infrastruttura della giustizia. Le intercettazioni di cui si parla oggi sono di un anno fa, non si è fatto molto in quest’anno per riformare con urgenza il Csm. Queste intercettazioni non tolgono e non aggiungono niente a quello che già si sapeva. Offrono un quadro deformato, mettono sullo stesso piano conversazioni molto diverse. Si mette a seconda della giornata sulla graticola Tizio o Caio. In realtà è un sistema che va complessivamente rivisto: le correnti non hanno più un carattere ideale e culturale. Le scelte che il Csm è chiamato a compiere sono sempre più discrezionali, per la mancanza di paletti chiari, cosa che può produrre effetti devastanti per la giurisdizione. Penso che dovrebbe essere la magistratura per prima a chiedere un intervento del Parlamento. Però non l’ha mai fatto. Evidentemente per loro va bene così. E a me questa loro reazione ricorda la sufficienza con cui la politica ha letto con ritardo i vari momenti di crisi che si sono succeduti in questi anni. Davanti a una crisi come questa, pensare che la magistratura non diventi bersaglio dell’antipolitica e del discorso populista è puramente illusorio. È fatale che avvenga una delegittimazione verso la giurisdizione, che è una funzione essenziale per la democrazia. Non bastano più le presunte autoriforme. Credo che la magistratura associata paghi una chiusura alla riforma che spesso è stata coperta con pseudo autoriforme che non hanno affrontato i nodi del problema, e mi aspetterei oggi un sussulto e una capacità di reazione che purtroppo a oggi non c’è stata. Per ora c’è solo il tentativo delle diverse componenti di gettare le responsabilità l’una addosso all’altra. Faccio una valutazione politica: c’è una lettura sbagliata, una risposta non all’altezza della difficoltà della situazione. Che natura hanno oggi le correnti? Gli scontri più violenti sono dentro le stesse correnti, a prova del fatto che un collante è venuto meno. Il tema non è tanto sopprimere le correnti ma limitarne la pervasività e rifondarle sulla base del loro approccio culturale. Questo però non compete alla politica. La politica può solo evitare che mettano mani e naso là dove non è necessario. Come si evita che il processo penale sia sovraccaricato? Il vero nemico del processo penale è il populismo penale, il panpenalismo. L’idea che il processo venga utilizzato per funzioni che non sono le proprie, per quelle fattispecie che non andrebbero sanzionate penalmente. Una legislazione che si occupa di tutto funziona male. Avevate raggiunto un buon compromesso con l’interruzione del calcolo della prescrizione dopo il I grado. Vi state scontrando con una bandiera dei Cinque Stelle? Io penso che bandiere non ce ne debbano essere. Sono convinto che non si misuri su un singolo istituto il funzionamento delle garanzie. Nel senso che se si blocca la prescrizione, bisogna avere certezza che il processo si svolga in un tempo congruo e ci vuole una sanzione nel caso in cui si superi quel termine temporale. Come? Bisogna realizzare un punto di equilibrio, che in un sistema con tre gradi di giudizio, l’obbligatorietà dell’azione penale e una dimensione così ampia della sfera del penale, non è certo facile. Vanno introdotti elementi di drastica riduzione dei tempi del processo stesso. Voglio ragionare sui riti alternativi e gli effetti processuali che devono verificarsi se c’è il superamento di quei termini. Ci sono diversi modelli, si può attingere ad essi. In Germania la pena diminuisce, se passa molto tempo. È una ipotesi allo studio, le piace? È un’ipotesi che avevamo proposto e che rimane sul tavolo. L’armamentario non manca, importante è trovare pesi e contrappesi necessari a mantenere il punto di equilibrio. Com’è il rapporto con M5S sulla giustizia? Il rapporto è quello che ci aspettavamo. Sulla giustizia si misurano con loro le più ampie distanze. Lo sapevamo, quando abbiamo iniziato questa esperienza. Un certo utilizzo simbolico del processo penale è stato uno dei tratti che ha caratterizzato la nascita e lo sviluppo dei Cinque Stelle, e non possiamo che essere distanti da questo. Da Ministro ha vissuto da vicino il Dap. Che idea si è fatto della vicenda Bonafede-Di Matteo? Spero che Di Matteo avrà occasione di chiarire questa vicenda. Non c’è cosa peggiore che dire le cose a mezza bocca. Il ministro della Giustizia può cambiare opinione sul conferimento di un incarico. Con tutte le distanze culturali e politiche che ho con Bonafede, tenderei ad escludere che il condizionamento possa essere avvenuto da mafiosi. Ma se Di Matteo ha delle indicazioni più chiare, è utile ascoltarle per farsi una idea precisa di quel che è avvenuto, a riprova delle sue affermazioni. “Mancano le condizioni per sciogliere il Csm. Ma i colloqui tra giudici fanno rabbrividire” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 31 maggio 2020 Intervista a Cesare Mirabelli, presidente emerito della Consulta. “Il Parlamento deve intervenire in maniera non acquiescente ai magistrati, ma neanche punitiva. Ma non ci sono le condizioni per sciogliere il Consiglio superiore della magistratura”. Lo spiega con chiarezza Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte Costituzionale. Il centrodestra lo chiede, dopo le intercettazioni di Luca Palamara che diceva di attaccare Matteo Salvini… “Quei colloqui fanno rabbrividire. Ma ha ragione il presidente della Repubblica, il Csm non può essere sciolto. Non in questo caso”. E allora quando? “Secondo la Costituzione, solo quando sia impossibile il suo funzionamento. Se venissero meno i suoi membri o il funzionamento della commissione disciplinare. Ma non è questo il caso”. Ma come affrontare una situazione ritenuta grave? “Lo è. Lo dimostrano le dimissioni di consiglieri; il reticolo di trattative che riguardavano le nomine e il voler colpire il ministro. Ma le conseguenze possono essere altre. Di carattere penale (in corso). O disciplinare. E la necessità di un intervento legislativo o costituzionale è evidente”. Perché? E quale? “Ci sono vizi da eliminare. Come l’eccessiva intrusione delle correnti nella gestione delle istituzioni. Il Csm nasce come garanzia dell’indipendenza del giudice che non deve né temere né sperare”. Invece? “Invece è diventato il dominus dei magistrati che aspirano agli incarichi direttivi da cui non si vuole più tornare indietro (come fanno i rettori). E la durata di 4 anni più 4 (dopo una verifica) rende dipendenti dal Csm”. Qual è la soluzione? “Nessun sistema è incorruttibile se non lo sono gli uomini. Lo sconcerto e la delusione nasce dal fatto che i magistrati hanno un grosso potere e un grande riconoscimento. Ora devono fare un piccolo esame di coscienza perché temo che si sia appannata l’immagine di indipendenza. E il Parlamento ha il diritto di intervenire in maniera seria e decisa”. Che intende? “Non deve scrivere una riforma sotto dettatura dei magistrati, ma neanche dargli addosso perché abbiamo tutti diritto ad un giudice terzo e imparziale. Si dice tanto delle “porte girevoli”. Ma chi candida i magistrati?”. Quali interventi sono urgenti? “Diminuire la discrezionalità nella progressione in carriera e cambiare le regole di elezione del Csm. Magari rendendo più legati al territorio i collegi elettorali. Altrimenti le correnti si trasformano in macchine per il consenso”. Le abolirebbe? “C’è libertà di associazione e rivendicano un ruolo culturale. Ma c’è il rischio di una funzione interpretativa para-legislativa che necessita di una investitura democratica. E poi si sono moltiplicate con una logica politica di spartirsi fette di potere. Non possono più essere questo”. Dai siluri di Davigo al carrierismo dei pm: ecco la giustizia decadente di Errico Novi Il Dubbio, 31 maggio 2020 L’emergenza rischia di ridurre le garanzie a fastidioso orpello. Lo dimostrano i nuovi attacchi di Davigo ai tre gradi di giudizio. E le porte dei Tribunali chiuse in faccia agli avvocati. Ma ora anche una parte dell’Anm (da Pasquale Grasso a Silvia Albano e Md) ha intuito la deriva. E chiede una riforma contro il carrierismo. Tribunali deserti, con rare eccezioni. Avvocati senza udienze. E per giunta con sostegni economici diversamente adeguati, diciamo così (e con Cassa forense costretta a metterci le pezze a colori). Riforme della giustizia spesso ispirate alla riduzione delle garanzie: vedi la nuova prescrizione. Insinuazioni colpevolistiche da settori della magistratura secondo i quali la vera causa della paralisi sarebbe nella ritrosia di penalisti e civilisti dinanzi alle mirabilie del video-processo. Il colpo di scimitarra del consigliere Davigo - E come se non bastasse, pure i promemoria come l’intervento di Piercamillo Davigo giovedì sera davanti alle telecamere de La 7, quando nel duello con un attonito Gian Domenico Caiazza ha reiterato la sua diffidenza verso il modello processuale accusatorio. Il consigliere del Csm ci ha messo la consueta verve da grande intrattenitore: “L’errore italiano è stato quello di dire sempre “aspettiamo le sentenze”: se invito a cena il mio vicino di casa e lo vedo uscire con la mia argenteria nelle tasche, non devo aspettare la sentenza della Cassazione per non invitarlo di nuovo”. Il punto è che Davigo - e non solo lui, basti pensare ad altre figure altrettanto rilevanti nella storia recente della magistratura italiana come Giancarlo Caselli - non crede nel modello accusatorio introdotto 30 anni fa dal nuovo Codice, nella formazione della prova attraverso il contraddittorio tra le parti in condizioni di parità davanti a un giudice terzo. Ma fosse solo questo. Fosse questo il problema, sarebbe niente. Perché il brivido che percorre le migliaia di avvocati andate ieri a lasciare i loro codici davanti ai Palazzi di Giustizia, e a cantare l’Inno di Mameli in un disperato appello alla patria perduta (la giustizia), nasce da un timore più grave. Che la pandemia abbia sì prodotto un impulso alla semplificazione, ma nel senso di semplificare i diritti e le garanzie. Il no al carrierismo che avanza nell’avanguardia dei magistrati - La paura è analoga e simmetrica a un’altra, radicatasi in settori della magistratura diversi da quelli che hanno in Davigo il loro leader. Sono posizioni di cui dovrà tenere conto anche il guardasigilli Alfonso Bonafede, quando presenterà in Parlamento la sua riforma del Csm (che mercoledì sarà discussa con le opposizioni, probabilmente con l’Anm e, nei giorni successivi, anche con le rappresentanze forensi, Cnf in testa). È il rifiuto di una tendenza che sclerotizza la magistratura in burocrazia, e che la rende fatalmente permeabile alle lottizzazioni. E cioè dell’eccessiva gerarchizzazione degli uffici giudiziari, da cui deriverebbe lo stesso carrierismo che fa da carburante a quegli intrecci. Ne ha parlato, in un’intervista con il Dubbio di martedì scorso, anche l’ex presidente Anm Pasquale Grasso. Il nodo è nei famosi “criteri per assicurare il merito nelle nomine”. Nelle bozze da cui parte il ddl sul Csm, quelle che Bonafede aveva sottoposto agli alleati già a gennaio, ci sono molti strumenti validi, dall’obbligatorietà delle audizioni alla puntualità con cui i capi adotteranno i piani organizzativi. Meno discrezionalità, più dati di fatto: va bene. Ma il punto è che nel profondo dell’Anm avanza tutt’altra concezione. Lo si era intuito già lunedì scorso, nella riunione a distanza del direttivo Anm, per esempio dall’intervento di una componente della giunta centrale, Silvia Albano, che si riconosce in Area e, culturalmente, in Magistratura democratica: “Forse i più giovani”, ha detto Albano, “non sanno qual è stato il percorso faticoso che l’associazionismo giudiziario ha dovuto affrontare perché si affermasse il valore del pluralismo, e per combattere l’assetto gerarchizzato della magistratura”. Gli obiettivi delle toghe più attente alla riflessione culturale sono questi: meno gerarchie (che sono pure un po’ incostituzionali), meno carrierismo, più spazio a una vita associativa orientata a difendere “il pluralismo delle idee”, vera “ricchezza della magistratura”, sempre per citare Albano. E anche l’esecutivo di Md ha diffuso un paio di giorni fa un documento in cui chiede non solo che l’Anm torni alle urne prima di ottobre, ma anche di ritrovare “l’impegno associativo come impegno culturale” e, soprattutto, di smetterla con la “attenzione parossistica alla carriera”, favorita dal “ritorno a una prospettiva gerarchica”. Bonafede “sorpassato a sinistra” sulla riforma del Csm - Che vuol dire? Che segmenti non marginali del mondo togato tifano per una riforma del Csm, e dell’ordinamento giudiziario, meno ispirata alla gerarchizzazione degli uffici, da cui nascono adesione al volere dei capi e ambizioni poco attente ai diritti. Il punto è che da una quindicina d’anni la politica si è innamorata dell’idea che sia più comodo interloquire con il singolo procuratore che con la schiera dei suoi sostituti. È qui che Bonafede può imbattersi in un sorprendente “sorpasso a sinistra”, sulla radicalità della sua riforma. Ed è qui che avvocatura e magistratura possono saldarsi in un’alleanza contro la giustizia ridotta a fast food del potere e dei diritti. Tribunale che vai protocollo che trovi: così la Giustizia non va lontano di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 31 maggio 2020 Bersagliare il guardasigilli Bonafede con mozioni di sfiducia individuali non ha rappresentato un esempio di coesione e unità. Ma conclusa l’emergenza, il ministro dovrà rispondere del modo in cui ha amministrato la macchina processuale. E dalla sbandata sulle video-udienze ai troppi “manuali” per l’attività nei singoli uffici giudiziari, avrà molto sui cui rendere conto. L’emergenza poteva essere gestita meglio (un caso eclatante in questo senso è rappresentato dal settore della giustizia). Tuttavia, occorrono da parte di tutti coesione e unità di intenti: solo in questa maniera si riuscirà - insieme - a superare la fase due ed evitare una retrocessione economica, che avrebbe effetti irreversibili sul Paese. In questo contesto può essere riletto il delicato passaggio delle mozioni di sfiducia presentate (e respinte) nei confronti del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede a firma di numerosi parlamenti di diversi partiti. Un tornante che ormai pare lontano, ampiamente superato dalla tempestosa vicenda delle nuove pubblicazioni di atti relativi all’indagine di Perugia sul Csm, ma che in realtà merita una riflessione a freddo. Le motivazioni dell’atto presentato al Senato della Repubblica vanno dall’essersi reso inadempiente in ordine alle riforme promesse fino alle critiche di carattere tecnico in relazione, invece, alle riforme approvate, quali, ad esempio, quella sulle intercettazioni e sulla prescrizione, per finire con la recente questione sulle “scarcerazioni dei detenuti più vulnerabili al Covid-19”. In altre parole, le mozioni che sono state portate avanti, seppur bocciate, erano giunte all’asserito “culmine del fallimento complessivo” dell’operato del ministro. L’emergenza ha stravolto i programmi di governo e introdotto nuove - straordinarie - regole. Dunque, evidentemente sono stati diversi anche i criteri di valutazione. Il giudizio sull’operato dell’esecutivo nella gestione della pandemia sarà certamente severo ma non è questo il momento per svolgerlo; la precedenza in questa fase deve essere rappresentata dalla ripartenza, dal sostentamento delle imprese e dalla gestione sanitaria del virus, che ancora oggi, provoca la morte di centinaia di persone e non ha ancora interrotto la sua diffusione. Ed infatti, proprio in relazione al giudizio sulle iniziative che ha assunto il governo in questo periodo occorre fin d’ora annotare, per quanto riguarda il settore giustizia, l’assoluta inadeguatezza delle misure adottate, a partire dall’improvvida idea di celebrare le udienze penali, di ogni genere, tramite i sistemi di Skype e Teams, entrambi di proprietà di Microsoft, coi noti risvolti in punto riservatezza. Una simile iniziativa, le cui derive sono rischiose ed anche foriere di incostituzionalità, è stata fortemente criticata dall’Unione delle Camere penali e da settori della Magistratura stessa, che hanno ottenuto l’eliminazione di tale idea in sede di emanazione del cosiddetto decreto Intercettazioni. Ancora, non si può non evidenziare l’assoluta confusione e mancanza di coordinamento tra i vari Palazzi di Giustizia italiani, ove si è assistito a un’incontrollata emissione di diversi protocolli da parte di ogni ufficio e settore, non allineati tra loro e che, in alcuni casi, portavano - e portano tuttora - a diverse soluzioni. Insomma, il sistema di giustizia con Manuali d’uso differenti secondo il principio “paese che vai, protocollo che trovi” che ha ridotto l’intera Macchina a singhiozzare e non a funzionare. Evenienza della quale il ministro Bonafede, superata l’emergenza, dovrà rendere conto. I problemi in merito alla gestione della crisi sanitaria, sono stati numerosi, ma al momento la priorità è la ripresa del Paese, aldilà di ogni individualismo. La censura, quindi, ad ogni iniziativa che può portare maggior instabilità deve essere chiara e netta ed accompagnata da soluzioni agevoli e connotate da immediatezza d’azione. *Direttore dell’Ispeg - Istituto per gli Studi politici, economici e giuridici Processi via Skype e Teams: a rischio la riservatezza dei dati di Matteo Marcelli Avvenire, 31 maggio 2020 Al di là dei timori di natura costituzionale, già avanzati dall’avvocatura italiana, la decisione di estendere il processo da remoto al settore penale (a causa dell’emergenza sanitaria), pone una questione di protezione dei dati personali. Un problema che l’Unione della Camere penali ha deciso di sottoporre all’attenzione del Garante della privacy. In realtà il “Processo civile telematico” è stato introdotto già negli ultimi anni. Ma il fatto è che - scrive il presidente dell’Ucp Gian Domenico Caiazza nella lettera inviata all’Autorità - “si sostanzia non già in un processo civile da remoto, ma in una piattaforma (proprietaria) e non realtime, di deposito di atti e di documenti inerenti l’avvio e le fasi del processo civile”. Nel settore penale non è ancora stato possibile rendere operativa una piattaforma di questo genere, anche per la delicatezza di una materia che deve garantire la riservatezza dei dati dei cittadini. La partecipazione a distanza è prevista in via eccezionale solo per detenuti che rispondono di reati di particolare allarme sociale. A seguito dell’emergenza Covid-19, però, è stato introdotto con decreto legge il processo penale a distanza per tutti gli imputati detenuti. “Tale partecipazione non avviene attraverso gli strumenti già esistenti - scrive ancora Caiazza - ma con due programmi commerciali di una società estera, individuati dalla Direzione generale dei sistemi informativi e automatizzati del ministero”. Si tratta di “Skype for business” e “Teams” di Microsoft, secondo l’Ucp regolarmente in funzione senza che sia possibile “comprendere se il loro utilizzo consenta di rispettare le garanzie minime di sicurezza”. Da qui i 21 quesiti posti dalle Camere penali al Garante, ai quali è seguita una lettera del presidente dell’Autorità Antonello Soro al ministro Bonafede, nella quale si riafferma la delicatezza e l’importanza dei beni in gioco. Omicidio Tobagi: fare il punto sulla verità storica di Sandro Padula Il Manifesto, 31 maggio 2020 La mattina del 28 maggio 1980 il cronista del Corriere della Sera e presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti, Walter Tobagi, un uomo cattolico e di area socialista a cui nel gennaio 1979 - dopo il recupero di una valigetta attribuita ai Reparti Comunisti d’attacco - venne proposta una scorta che lui non volle, fu vittima di un attentato mortale nella città di Milano, e precisamente in via Solari. La responsabilità dell’omicidio venne assunta da un gruppetto che, con esplicito richiamo alla data del 1980 in cui a Genova erano stati uccisi quattro brigatisti rossi, si autodefinì Brigata 28 marzo. In questa circostanza le indagini della Procura e dei carabinieri si focalizzarono subito, in alcuni giorni, sull’area delle ex Formazioni Comuniste Combattenti, organizzazione in cui aveva militato Corrado Alunni, e su Marco Barbone, il fondatore della Brigata 28 marzo. Durarono alcuni mesi, ma soltanto allo scopo di ottenere il maggior numero possibile di prove d’accusa e informazioni. Secondo Armando Spataro, il Pubblico Ministero del processo ai responsabili dell’omicidio Tobagi, il merito nell’individuazione della “pista giusta” sarebbe stato dell’allora capitano dei carabinieri Alessandro Ruffino. Costui, sempre a parere di tale magistrato, avrebbe scoperto “che la particolare grafia con cui erano stati scritti gli indirizzi sulle buste spedite per la rivendicazione degli attentati a firma Guerriglia Rossa era identica (non vi fu neppure bisogno di una perizia) a quella di un documento che era stato trovato anch’esso, nel settembre 1978, nel covo di Alunni di via Negroli (…). Fu possibile anche attribuire quella calligrafia a Marco Barbone: un campione era stato acquisito dai carabinieri nel corso delle indagini in precedenza svolte sulla sua fidanzata Caterina Rosenzweig con la quale lui viveva.” (pag. 83 di Ne valeva la pena, A. Spataro, editori Laterza, 2010) A dire il vero, individuare l’autore di una grafia fra centinaia di possibili responsabili, e addirittura senza nemmeno una perizia, non è possibile se non ci sono delle precedenti e più precise informazioni che in qualche modo indirizzino su lui. Specie con le tecnologie d’allora. In realtà, il capo della Brigata 28 marzo era talmente controllato dagli uomini del generale Dalla Chiesa che quest’ultimo, in un’intervista rilasciata a Panorama il 22 settembre 1980, giunse ad esaltare la propria tecnica di “massima riservatezza, conoscenza anche culturale dell’avversario, infiltrazione”. Negli stessi giorni, creando con ciò sconcerto nella Procura di Milano, L’Espresso pubblicò un articolo dal quale si capiva che le indagini per l’omicidio di Tobagi erano concentrate sull’area delle ex Formazioni Comuniste Combattenti. Marco Barbone, figlio ventiduenne di un alto dirigente della casa editrice Rizzoli, costituiva il principale indagato e, per evitarne la possibile fuga, fu arrestato il 25 settembre 1980 con imputazioni che poi saranno relative ad altri reati: rapina e partecipazione a banda armata precedente e diversa rispetto alla Brigata 28 marzo. In seguito, nella prima metà di ottobre del 1980, quel giovane confermò di essere l’omicida di Tobagi e diede inizio a un “pentimento” che ebbe l’effetto di portare in carcere prima gli altri militanti della Brigata 28 marzo e poi, nell’arco grosso modo di un anno, oltre un centinaio di persone legate ad una vasta area del sovversivismo milanese e lombardo. A questi fatti, già di per sé molto significativi, se ne aggiunsero altri di particolare rilievo. Caterina Rosenzweig, la fidanzata e convivente di Marco Barbone, non comparve mai al maxi processo Rosso-Tobagi. Lei non fu imputata rispetto ai reati compiuti dalla Brigata 28 marzo perché, dalle parole dei “pentiti”, non risultava che avesse fatto parte di tale organizzazione. Fu imputata a piede libero per un “esproprio proletario”, rivendicato da un altro e precedente gruppo, e poi assolta per insufficienza di prove. Era una ragazza dell’alta borghesia che, alcuni anni prima della nascita della Brigata 28 marzo,aveva conosciuto direttamente, per motivi di lavoro, il giornalista de La Repubblica ed ex militante di Lotta Continua Guido Passalacqua e, per motivi di studio universitario, lo stesso Walter Tobagi. Il quale, oltre ad essere giornalista, era anche professore di storia moderna alla Statale di Milano. Il primo fu ferito alle gambe il 7 maggio del 1980 dalla Brigata 28 marzo e il secondo, come abbiamo detto, ucciso ventuno giorni dopo. La sentenza di primo grado del processo Rosso-Tobagi Il 28 novembre 1983, quando si concluse il primo grado del processo Rosso-Tobagi, il giudice Cusumano concesse a sei “pentiti” (fra cui Marco Barbone, Paolo Morandini e Rocco Ricciardi) “il beneficio della libertà provvisoria ordinandone l’immediata scarcerazione”. Nell’aula bunker di piazza Filangeri, dove mancava la scritta La legge è uguale per tutti (vedasi pag. 360 del secondo volume de “La Mappa Perduta”, casa editrice Sensibili alle Foglie, Roma, 1995), solo tre ex militanti della Brigata 28 marzo ricevettero lunghe condanne detentive: Manfredi De Stefano, poi morto il 6 aprile 1984 nell’ospedale di Udine dopo una traduzione d’urgenza dal carcere in cui stava scontando la pena, Francesco Giordano, Daniele Laus. La sentenza, considerata da Armando Spataro una “delle più equilibrate e difficili” (pag. 198 di Ne valeva la pena, A. Spataro, editori Laterza, 2010), suscitò lo sgomento di Ulderico Tobagi, padre di Walter, e una rinnovata serie di polemiche. Qualche giorno dopo Bettino Craxi, all’epoca Presidente del Consiglio e segretario del Partito Socialista, riportò in modo approfondito una notizia da lui vagamente anticipata nel mese di giugno, in piena campagna elettorale. Si trattava dell’esistenza di un’informativa dei carabinieri di Milano, datata 13 dicembre 1979, secondo la quale un confidente aveva detto a un sottufficiale dei carabinieri che un gruppo sovversivo era operante in via Solari, dove abitava Walter Tobagi, con la probabile intenzione di sequestrare o uccidere il giornalista del Corriere della Sera. Stando alle dichiarazioni in parlamento del 19 dicembre 1983 da parte dell’allora ministro degli Interni Oscar Luigi Scalfaro, quell’informativa esisteva effettivamente ma il Comando Generale dei carabinieri l’avrebbe considerata alla stregua di una insignificante illazione e comunque sbagliò a non comunicarla alla magistratura. Fedele alla “linea della fermezza” il Pci continuò invece ad appoggiare la versione ufficiale fornita dalla Procura di Milano. Convinto che l’omicidio Tobagi fosse frutto di un “contesto inquinato”, come aveva suggerito il direttore del Corriere della Sera Franco Di Bella (poi rivelatosi uomo della P2), il Psi continuò invece a pensare che per l’omicidio di Tobagi ci fossero dei mandanti esterni alla Brigata 28 marzo, addirittura fra i giornalisti dell’area del Pci, e che il Procuratore Spataro avesse contrattato col “pentito” Barbone allo scopo di nascondere quei presunti mandanti. In seguito emersero fatti nuovi che precisarono meglio i contorni della vicenda. La polemica anti-Pci aveva fuorviato i craxiani, ma l’intuizione che dietro la morte di Tobagi vi fossero molti aspetti da chiarire da parte delle Istituzioni non era sbagliata. Avvenne pure, come abbiamo già accennato, la morte dell’imputato Manfredi De Stefano. La morte di Manfredi De Stefano Manfredi morì il 6 aprile 1984 nell’ospedale di Udine, dopo una traduzione d’urgenza dal carcere in cui stava scontando la pena. Lui era in attesa del processo di Appello, ma cessò di vivere ben prima del suo inizio; si sentì male per motivi naturali nella cella in cui era alloggiato e, secondo la perizia ufficiale, morì per un aneurisma. A confermare ciò c’erano cinque compagni della medesima cella e alcune persone della polizia penitenziaria. Molti anni dopo, nel 2009, ci fu un’esternazione di Giorgio Caimmi, a suo tempo giudice istruttore nel processo Rosso-Tobagi, secondo cui Manfredi De Stefano si sarebbe suicidato (dichiarazione riportata in maniera scandalizzata da Benedetta Tobagi nel numero speciale n. 4, luglio-agosto 2009 di Ristretti Orizzonti e a pag. 281-282 del suo libro intitolato “Come mi batte forte il tuo cuore”, Einaudi, 2009), ma finora è rimasta priva di fondamento. Passiamo perciò a vedere cosa successe alla ripresa del processo “Rosso-Tobagi”. L’infiltrato Rocco Ricciardi e il “pentito” Marco Barbone Nel processo di Appello “Rosso-Tobagi”, e siamo nel 1985, emerse pubblicamente che il “confidente” dei carabinieri era, per propria ammissione, il “pentito” Rocco Ricciardi, un imputato che prima di finire in carcere - fatto avvenuto nel novembre 1981, cioè dopo circa un anno dal “pentimento” di Barbone - aveva abitato nel varesotto. Da quel momento si capì che il ruolo di questo personaggio, divenuto “confidente” dei carabinieri dopo una perquisizione ordinata nel marzo 1979 da Armando Spataro e ufficialmente all’insaputa di quest’ultimo (vedasi pag. 92 del citato Ne valeva la pena), era stato messo in secondo piano dalle chiacchiere sulla presunta spontaneità del “pentimento” di Barbone e sull’eventuale esistenza di mandanti del Pci nell’omicidio di Walter Tobagi. In realtà si trattava di un ex sovversivo e di un vero e proprio infiltrato dei carabinieri. Il 27 maggio 1979 Rocco Ricciardi aveva un appuntamento con diversi esponenti delle Formazioni Comuniste combattenti presso il Bar Umberto I, in piazza Matteotti, a Como. Non ci andò e fece arrestate sette persone. Il 13 dicembre del 1979 invece lui mise al corrente un sottufficiale dei carabinieri di un colloquio avuto con Pierangelo Franzetti. Costui, allora esponente dei Reparti comunisti d’attacco (Rca), un gruppo formato nella seconda metà del 1978 da alcuni militanti usciti dalle Formazioni Comuniste Combattenti, gli avrebbe fatto cenno di un progetto d’azione armata a Milano, operativo nella zona di via Solari e ideato dai Rca. A tale riguardo, Ricciardi fornì l’ipotesi secondo cui quel progetto avrebbe potuto essere contro Tobagi e, per meglio motivare la propria congettura, raccontò che a gennaio o a febbraio del 1978 lui stesso, Marco Barbone e Caterina Rosenzweig avevano tentato di sequestrare il cronista del Corriere della Sera. Tale azione avrebbe dovuto essere rivendicata con la sigla delle Formazioni Comuniste combattenti, organizzazione al cui vertice c’era anche Barbone, ma fallì a causa dell’imprevista presenza di una volante della polizia. Nel processo di Appello “Rosso-Tobagi” e nei giornali, grazie ad una serie di altri dati e riscontri, emerse anche una sottovalutata ricostruzione di alcune vicende successive al tentato sequestro di Tobagi. Barbone fu espulso dalle Formazioni Comuniste Combattenti. Caterina Rosenzweig era stata arrestata per partecipazione a un attentato compiuto nel marzo del 1978, nel varesotto, contro la Bassani Ticino, ma lui non volle diventare clandestino a tutti gli effetti. Ebbe invece una corrispondenza postale con la fidanzata fino a maggio, allorché lei fu scarcerata e sottoposta per alcuni mesi a libertà vigilata. Si sentiva molto sicuro del fatto suo ed ebbe modo di darne prova anche dopo il 13 settembre 1978, giorno in cui le forze dell’ordine irruppero in un appartamento di via Negroli, misero in manette il dirigente delle Formazioni Comuniste combattenti Corrado Alunni e, fra le altre cose, rinvennero il volantino di rivendicazione dell’azione compiuta a marzo da Caterina Rosenzweig. Pur essendo già schedato e facilmente controllabile dalle forze dell’ordine, Barbone continuò ad agire come se nulla fosse accaduto. Dapprima svolse un’attività il cui scopo era quello di formare un gruppo con idee simili alle sue; poi divenne capo di una micro-organizzazione che mise in atto e rivendicò alcuni sabotaggi ad automezzi adibititi alla distribuzione di quotidiani e contro un’agenzia pubblicitaria: quella Guerriglia Rossa in cui, dalla primavera del 1979 al 28 marzo del 1980, militarono diversi fra coloro che, assieme ad altri provenienti da esperienze diverse, andranno poi a formare la Brigata 28 marzo (vedasi pag. 240 del primo volume de “La Mappa Perduta”, casa editrice Sensibili alle Foglie, Roma, 1994). Una sostanziale linea di continuità si ebbe dunque, soprattutto per mezzo delle attività di Marco Barbone, fra il tentativo di sequestro di Tobagi del 1978, il gruppo Guerriglia Rossa e la Brigata 28 marzo. All’Appello del processo Rosso-Tobagi Rocco Ricciardi disse poi la banale verità secondo cui nel dicembre 1979 non aveva ancora mai sentito parlare della Brigata 28 marzo, sigla nata nel 1980 dopo la strage avvenuta nella genovese via Fracchia. Inoltre affermò che dopo la morte di Tobagi i carabinieri gli chiesero se ne sapesse qualcosa e lui avrebbe fatto queste dichiarazioni: “Non avevo alcun elemento. Più tardi, un militante dei Reparti comunisti d’attacco, Luciano Marchettini, mi raccontò che un certo Manfredi Di Stefano aveva cercato un collegamento con la loro struttura, presentandosi come uno della “28 marzo”. Lo riferii. La notizia non fu presa sul serio. Fecero qualche accertamento. Mi mostrarono anche una fotografia e riconobbi Di Stefano che avevo conosciuto anni prima”. (La Repubblica, 14 giugno 1985) Quasi un decennio dopo l’ex carabiniere Dario Covolo, una vecchia conoscenza di Rocco Ricciardi, ha ribadito l’ipotesi, diffusa da Craxi e dal Psi a partire dal 1983, secondo cui le autorità competenti non avrebbero fatto nulla per impedire l’omicidio di Tobagi. Il lavoro giornalistico di Renzo Magosso sull’omicidio di Tobagi Nell’ambito di un’intervista pubblicata sul settimanale Gente il 17 giugno 2004 e rilasciata a Renzo Magosso, Dario Covolo ha detto che nel dicembre 1979 aveva trasmesso ai propri superiori, gli allora capitani Umberto Bonaventura e Alessandro Ruffino, l’informativa di Rocco Ricciardi sull’esistenza di un gruppo che avrebbe voluto sequestrare o uccidere Walter Tobagi. Un’informativa di cui quest’ultimo - sia detto da noi oggi, per inciso - non seppe nulla. A quell’intervista ha fatto seguito una querela per diffamazione presentata da Alessandro Ruffino, nel frattempo diventato generale dei carabinieri in pensione, e dalla sorella del generale Umberto Bonaventura, deceduto. Il 20 settembre 2007 Renzo Magosso e l’ex direttore di Gente, Brindani, sono stati poi condannati a una pena pecuniaria dal tribunale di Monza. Il 22 settembre dello stesso anno, in un procedimento stralciato, ma sempre dal tribunale di Monza, è stato condannato allo stesso tipo di pena anche Dario Covolo. Secondo le sentenze, confermate in Appello il 3 novembre 2009, la ricostruzione oggetto della querela era stata contestata da altre persone e questo avrebbe dovuto essere ricordato nell’intervista. Al di là di queste decisioni della magistratura italiana, la ricostruzione dei fatti dovrebbe essere sempre essere basata su prove concrete e non su altro. Di certo, la verità giudiziaria non corrisponde alla verità storica e non di rado la stessa verità giudiziaria italiana è contestata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Non a caso, il 16 gennaio 2020 la Cedu ha condannato lo Stato italiano per violazione del diritto alla libertà d’espressione nei confronti del giornalista Renzo Magosso e dell’ex direttore di Gente, Brindani: https://www.camera.it/application/xmanager/projects/leg18/attachments/sentenza/sintesi_sentenzas/000/000/739/Magosso.pdf Entusiasta di quest’ultima sentenza, Magosso si è poi lasciato andare ad alcune dichiarazioni, riportate dal giornale Il Dubbio del 19 gennaio 2020, fra cui queste: “A giugno del 1980 venni contattato dal direttore del Corriere, Franco Di Bella, che mi disse: il generale Dalla Chiesa mi ha detto che ad ammazzare Tobagi è stato il figlio del nostro direttore generale Donato Barbone. Così andai a verificare con Umberto Bonaventura, che confermò la circostanza, aggiungendo di essere arrivato a Barbone tramite un manoscritto anonimo su un attentato mai avvenuto ordito dalle Fcc nel quale riconobbe la calligrafia del giovane. Non ci ho creduto, ma lui mi disse che era un’informazione sicura che veniva da Varese. Così gli chiesi di informarmi dell’arresto, cosa che fece. Su L’Occhio scrissi: preso Marco Barbone delle Br, l’informazione viene da Varese. Otto giorni prima che confessasse.”. Queste ricostruzioni di Magosso sul caso Tobagi non sono risultano però corrette. A giugno del 1980 il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa (che, secondo gli atti della Commissione Anselmi sulla P2, per motivi mai chiariti, fece richiesta di iscrizione alla Loggia P2 in datata 28 ottobre 1976) potrebbe aver commesso un’imprudenza nel parlare in quel modo al direttore del Corriere della Sera, Franco Di Bella (a quel tempo già membro della Loggia P2), ma non sembra qualcosa di particolarmente strano fra chi apparteneva alla classe dirigente italiana. La circostanza secondo cui l’allora capitano dei carabinieri Umberto Bonaventura sarebbe arrivato a Marco Barbone tramite delle analisi della calligrafia, a differenza di quanto affermato da Armando Spataro secondo cui quel merito lo avrebbe avuto Alessandro Ruffino, qui sembra realistica solo allorché si precisa che sarebbe basata su “un’informazione sicura che veniva da Varese” e quest’ultima potrebbe riferirsi all’estate del 1980, dopo la morte di Tobagi e prima dell’arresto dei militanti della Brigata 28 marzo, e nello specifico alle cose che, sulla militanza di Manfredi De Stefano nella Brigata 28 marzo, Rocco Ricciardi apprese da Luciano Marchettini. Senza dubbio, invece, è del tutto falsa la notizia secondo cui Marco Barbone sarebbe stato un militante delle Br. Vediamo perciò come invece stavano e stanno le cose. Verso una più precisa verità storica Sul piano storico, volendo solo parlare di fatti acclarati e non di polemiche trite e ritrite, abbiamo le prove inconfutabili dell’esistenza di un tentato sequestro di Tobagi nel 1978, del fidanzamento fra Marco Barbone e la pregiudicata Caterina Rosenzweig e della loro passata esperienza nelle Formazioni Comuniste combattenti. Cioè di elementi cognitivi sufficienti alle forze di polizia per controllare meglio Barbone almeno dal 13 dicembre 1979 e soprattutto in seguito al ferimento compiuto il 7 maggio 1980, ai danni del giornalista Passalacqua e rivendicato dalla Brigata 28 marzo. Di conseguenza, pure al di là di quali siano state eventualmente le singole responsabilità dei carabinieri e dei loro vertici, la domanda fondamentale a questo punto è: che uso si fece di tutte quelle ampie informazioni su Marco Barbone e dell’infiltrato Rocco Ricciardi? Una risposta precisa e logica è venuta da alcuni giornalisti addetti a seguire le udienze del processo Rosso-Tobagi. In particolare da Guido Vegani che nel 1985 così scriveva: “Se si sta alla verità di Ricciardi, è legittimo pensare che i carabinieri abbiano, sbagliando, evitato di analizzare quell’abortito sequestro. Se lo avessero fatto, avrebbero automaticamente puntato gli occhi su Marco Barbone che era stato partecipe, e non come comparsa, di quel progetto e che, insieme a Mario Marano, avrebbe, nel maggio del 1980, sparato su Tobagi. Ma la realtà più logica potrebbe essere un’altra. L’errore dei carabinieri (lo è, anche se ci si pone nell’ottica di quegli anni di piombo, in cui mille erano i possibili “obbiettivi” del terrorismo e tante le “soffiate” basate su deduzioni) può essere stato dettato anche dalla volontà di non bruciare quel confidente su piste considerate minori, mentre lo si stava usando per tentare di accerchiare la “Brigata Walter Alasia”, la punta milanese delle Br.” (Milano, depone al processo d’appello Rocco Ricciardi, confidente dei carabinieri. “Tobagi? Dovevamo rapirlo”, La Repubblica, 18 giugno 1985). Si può quindi leggere con una nuova e più chiara ottica cosa intendesse il generale Dalla Chiesa quando, nella citata intervista a Panorama del 22 settembre 1980, parlava della tecnica di “massima riservatezza, conoscenza anche culturale dell’avversario, infiltrazione”. La “massima riservatezza” era tale che il tentato sequestro di Tobagi del 1978 rimase sconosciuto persino al diretto interessato e, per diversi anni, almeno a livello ufficiale, alla stessa magistratura. L’infiltrazione era quella di Rocco Ricciardi. La “conoscenza anche culturale dell’avversario” significava invece che da tempo i carabinieri avevano molte informazioni a proposito di Barbone. D’altra parte fecero degli errori proprio di carattere culturale. Essendo concentrati nel portare l’attacco alle Brigate Rosse, sottovalutarono il rischio che Barbone potesse realizzare un’azione omicida. Il cono d’ombra che ancora oggi opacizza la verità sulla morte di Walter Tobagi e sulle dinamiche del processo “Rosso-Tobagi” trova quindi la propria origine fondamentale nella strategia antiguerriglia condotta dai carabinieri, avente come obiettivo principale l’accerchiamento e la distruzione delle Brigate Rosse, e nella connessa “legislazione dell’emergenza”, entrambe avallate e sostenute soprattutto dalla Dc e dal Pci. Se poi qualcuno pensò di controllare e usare personaggi come Marco Barbone allo scopo di giungere alla colonna milanese delle Br, fece male i conti rispetto alla cultura politica dei brigatisti rossi di quel tempo. Agli occhi delle Br, almeno dal 1976 al 1981, radicali e socialisti, il cosiddetto “partito della trattativa”, apparivano come le forze istituzionali in grado di proporre dignitose soluzioni politiche, ad esempio nel 1978 durante il sequestro Moro e, tra la fine del 1980 e l’inizio del 1981, nel corso del sequestro D´Urso. Nella primavera del 1978 lo stesso Walter Tobagi aveva collaborato strettamente con Giannino Guiso, avvocato a quel tempo di alcuni brigatisti rossi detenuti, e fu una delle poche persone che in Italia fece pubblicare tutte le notizie utili per una soluzione politica rispetto al sequestro di Aldo Moro. Di conseguenza, era del tutto improbabile che le Br potessero aprire spazi o varchi ad esperienze come quelle vissute da Marco Barbone. Rocco Ricciardi continuò nel frattempo a dare informazioni all’antiguerriglia. Ad esempio, come ha riferito l’ex carabiniere Covolo in una udienza del 11 luglio 2007 presso il Tribunale di Monza, Rocco Ricciardi “ci fece pedinare il Serafini Roberto con il Pezzoli Walter, che poi purtroppo furono oggetto di conflitto a fuoco.” Questa affermazione, mai smentita dai carabinieri e dallo stesso Rocco Ricciardi, era senza dubbio vera e come tale bisogna considerarla anche oggi. Serafini e Pezzoli erano i due brigatisti rossi che furono uccisi dai carabinieri la sera dell’11 dicembre 1980, in via Varesina, a Milano. Ricciardi aveva detto che Serafini, ex militante delle Formazioni Comuniste Combattenti e suo ex amico. era un buon tiratore e per questo motivo non ci fu alcun tentativo di arresto ma una mattanza nella quale, oltre ai due brigatisti, morì pure un cane. In pratica, la lotta dello Stato contro il sovversivismo e il brigatismo rosso a Milano e in Lombardia, tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80, fu condotta attraverso infiltrati come Rocco Ricciardi e il controllo di gruppetti come quelli di cui fece parte Marco Barbone dalla primavera del 1979 in poi. L’antiguerriglia si avvalse anche delle “leggi dell’emergenza” a favore dei “pentiti”, ma se Marco Barbone ebbe un altissimo “potere di contrattazione” fu perché, come ben sapevano i vertici dei carabinieri, il “pentito” avrebbe potuto accusare subito Rocco Ricciardi, ma quest’ultimo doveva ancora dare il proprio contributo per giungere alla colonna milanese delle Br. Fatto che avvenne nella sanguinosa giornata dell’11 dicembre del 1980. Parma. Carcere senza direttore né vice direttore. Bonafede: “Poche risorse” dire.it, 31 maggio 2020 Il carcere di Parma è a corto di dirigenti, ma le “scarse risorse umane disponibili”, non consentono allo stato l’arrivo di rinforzi. È il quadro emerso da un’interrogazione presentata dalla Lega alla Camera, prima firmataria la deputata parmigiana Laura Cavandoli, a cui ha risposto il ministro Alfonso Bonafede. In particolare il Carroccio si è fatto portavoce della denuncia dei sindacati della Polizia penitenziaria ducale sul fatto che il direttore aggiunto della struttura di Parma dovrà essere impiegato in maniera continuativa nel carcere di Reggio Emilia, togliendo così con agli istituti parmensi un altro dirigente. Infatti, nonostante nella sede siano presenti “diversi e impegnativi circuiti penitenziari tra cui il regime detentivo 41bis”, a Parma mancano da parecchi anni un direttore titolare e il vice, mentre è presente un solo dirigente provvisorio. A regime, nella pianta organica sono invece previste quattro figure organizzative, che la Lega chiede quindi al Governo di reintegrare. Nella risposta, il ministro contestualizza la questione nel quadro del decreto del presidente del Consiglio dei ministri 84 del giugno 2015 che, spiega Bonafede, “ha dato corso al ridimensionamento delle articolazioni centrali e periferiche dell’amministrazione penitenziaria, prevedendo la riduzione degli uffici dirigenziali generali istituiti presso l’amministrazione centrale, nonché’ la riduzione dei provveditorati regionali”. La carenza di organico tra i dirigenti penitenziari (in Italia sono 254, 46 in meno rispetto ai 300 previsti) “è stata segnalata all’ufficio concorsi perché’ necessita di urgenti soluzioni di intervento, in considerazione dei compiti e delle responsabilità attribuite ai citati dirigenti dall’ordinamento”, concorda il ministro. Che passando dalla realtà nazionale all’istituto parmense, sottolinea: “Si evidenzia che all’esito della prima e seconda fase degli interpelli per il conferimento degli incarichi dirigenziali cosiddetti ‘ordinari’, non è stato possibile conferire i posti di funzione di direttore e vicedirettore dell’istituto di Parma, in considerazione delle disponibilità manifestate dai dirigenti penitenziari”. La reggenza della struttura penitenziaria è assicurata quindi oggi per cinque giorni a settimana, da Tazio Bianchi, vicedirettore della casa circondariale di Bologna. “A conclusione degli interpelli in itinere - conclude Bonafede - la direzione generale del personale e delle risorse valuterà le misure organizzative tendenti a razionalizzare l’allocazione delle scarse risorse umane disponibili”. Ferrara. Il garante: in carcere 105 detenuti oltre capienza La Nuova Ferrara, 31 maggio 2020 Il carcere di Ferrara vive una preoccupante situazione di sovraffollamento. In particolare nel carcere dell’Arginone ci sono 105 detenuti in più rispetto alla capienza della struttura. È uno dei punti affrontati dal garante regionale dei detenuti, Marcello Marighelli durante la commissione parità e diritti della Regione. Il sovraffollamento, dunque, come grande problema. “È un tema che da tempo abbiamo sollevato - ha spiegato il garante - perché è una questione che impedisce di dare dignità a detenuti. C’è grande carenza di spazi per il pernottamento, ma anche per le attività lavorative e per quelle di rieducazione”. Mantova. Il carcere di via Poma in consiglio comunale Gazzetta di Mantova, 31 maggio 2020 Seconda seduta del consiglio comunale in streaming nel giro di poche settimane. L’appuntamento è per venerdì prossimo alle 10. All’ordine del giorno soltanto quattro punti. Si aprirà con una mozione firmata dai consiglieri di centrodestra Baschieri, Gorgati, de Marchi, Zera, Anceschi, Irpo e Badalucco sul carcere di Mantova. In particolare, il documento chiede al ministero della giustizia l’adeguamento dell’organico della polizia penitenziaria, il potenziamento dei servizi sanitari e formativi per i detenuti e interventi di manutenzione straordinaria sull’edificio di via Poma. Alba (Cn). Lavori di ristrutturazione del carcere, a giugno nuova gara ansa.it, 31 maggio 2020 Sindaco Bo, vigileremo perché l’iter si metta finalmente in moto. Nuovo cronoprogramma dei lavori di ristrutturazione della Casa di reclusione Giuseppe Montalto di Alba (Cuneo), chiusa da gennaio 2016 dopo l’epidemia di legionella. Il ministro della Pa Fabiana Dadone, dopo un confronto col ministro Alfonso Bonafede, ha comunicato che la gara potrà essere bandita nel mese di giugno con aggiudicazione a settembre e apertura del cantiere entro la fine dell’anno. “Ringraziamo il ministro Dadone per l’interessamento e per il cronoprogramma - dichiara il sindaco di Alba, Carlo Bo. Nell’ultimo Consiglio comunale abbiamo deliberato un Odg all’unanimità per tenere alta l’attenzione sul nostro carcere e su quella che riteniamo una situazione ormai insostenibile, con i tempi di ristrutturazione procrastinati di volta in volta, una struttura sottoutilizzata da quattro anni, i detenuti presenti costretti in un’ala non adeguata ad ospitarli e il personale disperso in altre carceri. Non è il primo cronoprogramma che ci viene presentato. La gara era attesa già per marzo. Le tempistiche prospettate ora sono davvero molto strette. Da parte nostra vigileremo perché l’iter si metta in moto a giugno come annunciato. Non accetteremo altri rinvii. Ci auguriamo che non sia l’ennesima promessa non mantenuta. Non vorremmo rivivere quanto già accaduto con l’Asti-Cuneo”. Napoli. Detenuto interrompe lo sciopero della fame: voleva un pc per laurearsi Il Riformista, 31 maggio 2020 Aveva già perso quattro chili per il suo sciopero della fame. E oggi ha deciso di interrompere la sua protesta dopo aver ricevuto delle rassicurazioni sul suo caso dal carcere e dal Garante dei detenuti regionale. A. G., detenuto condannato dal 1996, quando aveva 23 anni, aveva detto “tanto vale lasciarsi morire” dopo che nei giorni scorsi le sue richieste non erano state accolte dal carcere di Secondigliano, Napoli. A far sapere della fine dello sciopero è proprio il Garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello, che ha incontrato l’uomo nel carcere napoletano. “Nel corridoio, quando stavo andando via, si è sollevato la mascherina e mi ha fatto vedere il suo sorriso”, dice Ciambriello, il quale aveva già incontrato l’uomo nei mesi scorsi. A. A. era arrivato a Secondigliano a settembre dal carcere di Voghera. Nel carcere di Catanzato aveva conseguito il diploma di istruzione superiore da Geometra. E nel carcere Lombardo aveva cominciato gli studi in Scienze dell’Educazione. A Napoli aveva optato per continuare il suo percorso di formazione in Sociologia con la Federico II di Napoli. Il 26 maggio aveva così cominciato lo sciopero per due distinte problematiche. Una di tipo più spiccatamente organizzativo; la seconda di tipo sanitario. “Sono 92 iscritti della Federico II a Secondigliano - ricostruisce Ciambriello - Un gruppo in alta sicurezza, accusati di reati del 416 bis; un’altra trentina detenuti comuni di media sicurezza che stanno nel reparto Mediterraneo. A questi avevamo fornito materiale come cancelleria, sedie, banchi. Essendo ergastolano, ex 41 bis, A. A. continua a stare nell’alta sicurezza e non poteva andare nella sezione dove sono organizzati i detenuti dell’alta sicurezza che studiano. Aveva così chiesto di utilizzare un pc per studiare”. L’uomo aveva fatto arrivare il pc, acquistato dalla sua famiglia, che doveva essere modificato dalla stessa direzione per la chiusura delle porte Usb e l’installazione dei programmi consentiti, ma non gli era stato consegnato. Non avendo neanche un tutor era impossibilitato a consultare il materiale didattico. “Essendo impossibilitato a consultare il materiale didattico, viene, di fatto, preclusa la possibilità di studiare - aveva lamentato Sandra Berardi, dell’Associazione dei diritti dei detenuti Yairaiha Onlus - infatti, alla data odierna, non ha potuto ancora sostenere nessun esame e ciò costituisce pregiudiziale ed un elemento demotivante che allontanano la persona dal personale progetto di crescita intellettuale e morale”. La seconda questione era invece di ordine sanitario. Trattandosi di un detenuto cardiopatico che soffre di una sindrome di apnee, aveva rifiutato anche l’assunzione di medicine salvavita per il divieto di utilizzare un ventilatore, acquistato presso l’istituto di Voghera previa prescrizione medica. “Ho preso contatti con la delegata della Federico II e l’università si è attivata. Alla direzione del carcere ho chiesto di accelerare la pratica per l’utilizzo del pc e di comprarne altri per i detenuti, qualora fosse necessario”, spiega Ciambriello, il quale ha anche sollecitato una verifica sulla eventuale illiceità del ventilatore in oggetto. Visto l’impegno e la visita del Garante, accompagnato dalla vice-direttrice dell’Istituto Masi, il detenuto ha deciso di interrompere lo sciopero della fame. “Ha avuto prova del nostro impegno e così ho comunicato la sua scelta di sospendere la protesta alla tutor Sandra Berardi. È dimagrito quattro chili ma le sue condizioni di salute sono buone”. Nei prossimi giorni si continuerà a monitorare la situazione. Il Garante ha sottolineato come di 796 studenti nelle carceri italiane 92 si trovano a Secondigliano, tutti iscritti alla Federico II, più un’altra ventina negli altri istituti della Regione. Gli iscritti nel carcere di Napoli Nord studiano scienze politiche, lettere, giurisprudenza, economia, scienze gastronomiche e per l’appunto sociologia. “Grazie alla regione, con la sensibilità dell’assessore Fortini, abbiamo speso già circa 10mila euro di materiale, libri, condizionatori, banchi sedie, toner per stampanti e altro materiale”, aggiunge Ciambriello, sottolineando il valore della cultura e dell’istruzione nel percorso di riabilitazione carceraria. “Da due anni, da quando è aperto il Polo Universitario del Mezzogiorno, abbiamo migliorato la situazione. Ringrazio perciò le università sensibili, i docenti che si mettono a disposizione gratuitamente, le direzioni degli istituti come Secondigliano, che ha firmato un protocollo con Federico II, Regione Campania Provveditorato e ufficio del Garante”. La scuola è vecchia, un decalogo per ripartire di Eraldo Affinati Il Riformista, 31 maggio 2020 Molti continuano a chiedersi come sia cambiata la scuola dopo la traumatica esperienza del Covid-19 e in quali forme possa tornare alla ripresa settembrina. Stiamo parlando dell’istruzione nazionale, da intendersi in senso esteso, quale sistema complessivo di elaborazione del patrimonio culturale nel passaggio mirato fra le varie generazioni. Insomma il futuro dei nostri figli, la loro coscienza, l’idea che ci facciamo degli altri e di noi stessi. Come spesso si dice: questa dovrebbe essere (il condizionale è d’obbligo) di gran lunga la questione più importante da porre all’attenzione pubblica. Perfino le brillanti insegne del Recovery fund, al suo cospetto, dovrebbero ingiallire. Qui di seguito riassumo dieci nuclei tematici emersi nel dibattito delle ultime settimane a mio avviso meritevoli di analisi e riflessione. 1. L’emergenza ha determinato una radicale modernizzazione tecnologica imponendo per causa di forza maggiore una didattica on line da molti auspicata negli anni scorsi, eppure finora mai realizzata almeno nelle dimensioni che abbiamo adesso conosciuto. Fare lezione a distanza implica nuovi meccanismi logici di trasmissione del pensiero e addirittura una modalità espressiva diversa. Urge una formazione digitale specifica rivolta a docenti e scolari. 2. L’esperienza della scuola a distanza è stata più corale rispetto a quella consueta. In particolare la cosiddetta lezione frontale, che vede il docente da solo al centro dell’aula come uno spartitore di traffico concettuale, croce e delizia di ogni istruzione di stampo classico, non potrà essere abolita, ma dovrà venire integrata con altre forme più laboratoriali in grado di coinvolgere meglio gli studenti nei processi di apprendimento. 3. Pare incontestabile l’insostituibilità della presenza fisica dell’insegnante e degli allievi riuniti in un medesimo luogo: aula o altro. Appena sarà possibile ripristinare questa condizione naturale, nel rispetto delle necessarie misure di sicurezza, la scuola potrà tornare ad essere davvero se stessa. Non l’attrezzato, obbligatorio e provvidenziale suo manichino, come è accaduto da marzo a maggio. 4. La didattica a distanza, quando è stata vissuta nella forma migliore, ha consentito di scoprire gli ingranaggi della valutazione con il risultato di superare la deleteria finzione pedagogica: far finta di spiegare, far finta di ascoltare. Lo spettro del virus, scardinando la struttura scolastica, ha finito per rendere più autentici i rapporti personali fra giovani e adulti, uniti dalla comune, seppur proporzionalmente diversa, vulnerabilità, spingendo il docente a percepirsi come dovrebbe: non il giudice che aspetta al traguardo i concorrenti per registrare chi vince e chi perde, bensì una guida amica ma autorevole impegnata a realizzare l’obiettivo stabilito. 5. La preannunciata esigenza autunnale di creare distanziamenti strategici in funzione anti-contagio porterà a scoprire e provare nuovi spazi didattici, all’interno della struttura scolastica, oppure al di fuori di essa, oltre i confini sempre più asfittici dell’aula ordinaria: ciò, se utilmente sperimentato, potrebbe rappresentare un’ulteriore spinta innovatrice. 6. Lo sconvolgimento del calendario ha talvolta smascherato l’anacronismo e la rigidità di alcuni vecchi schemi di studio: non tutti i contenuti risultano davvero imprescindibili. Da tempo si pensa di dover riscrivere i programmi scolastici anche rimodulandoli secondo ritmi e scansioni calibrate nell’ottica del ventunesimo secolo, lasciandosi alle spalle il concetto di classe chiusa che avanza compatta verso il diploma in tempi fissi. Potrebbe essere venuto il momento di farlo. 7. Il divario digitale emerso durante la pandemia è soltanto la punta di un iceberg, fra scuole e regioni all’avanguardia che marciano veloci su standard europei e altre zone del Bel Paese ancora bisognose di sostegno. In particolare nei mesi del confinamento sono rimasti spesso esclusi dal lavoro scolastico gli alunni disabili e molti ragazzi immigrati che soltanto grazie all’attività delle associazioni hanno potuto fare lezioni on-line. 8. La diseguale diffusione dell’epidemia nel territorio nazionale potrebbe comportare riaperture differenziate in base ai gradi di rischio che verranno accertati con la prevedibile conseguenza di accrescere le già forti autonomie degli istituti: anche questo è a giudizio di molti un fatto positivo. 9. La scuola on-line, oltre a comprimere le iniziative di alcuni alunni, ha incrementato quelle di altri: a volte i ragazzi più timidi, che in classe restavano in disparte, hanno partecipato in modo sorprendente anche agli occhi dei docenti, esprimendo attitudini a loro stessi ignote. Gli episodi di bullismo, a parte certi inediti teppismi informatici, sono diminuiti. Il che aggiunge legna al fuoco della discussione pedagogica. 10. Inutile negare che il periodo di interruzione coatta sia stato traumatico per i bambini e gli adolescenti. Anche i più inquieti e scalmanati, i quali all’inizio avevano festeggiato la chiusura delle scuole, a lungo andare hanno dovuto giocoforza ammettere che, restando a casa da soli di fronte al computer, si stavano annoiando. Il compito degli educatori dovrà quindi ripartire proprio da qui: se non dimenticheremo ciò di cui in molti abbiamo sentito la mancanza, rapporti sociali, promiscuità, animazione, sorrisi, abbracci e pacche sulle spalle, persino dalla tragedia del Covid-19 avremo imparato qualcosa. Povertà digitale, scatta il piano della Caritas per la nuova scuola di Giovanna Maria Fagnani Corriere della Sera, 31 maggio 2020 Uno su cinque non ha il pc: con il progetto “Nessuno resti indietro” sostegno ai più deboli. Raccolta fondi e collaborazione con gli oratori. Se c’è una povertà particolarmente odiosa, è quella educativa, che trasferisce le disuguagliane sociali da una generazione all’altra. Studiare è una delle basi dell’ascensore sociale, la possibilità di migliorare il proprio stato, di generazione in generazione. Ma ci sono studenti che, durante il lockdown, hanno sofferto molto più di altri la trasformazione della scuola in didattica a distanza. Nelle classi virtuali alcuni alunni sono rimasti quasi sempre assenti. Sono i figli delle famiglie più fragili economicamente e meno attrezzate culturalmente. Per questi ragazzi il divario digitale rischia di trasformarsi in abbandono scolastico. A denunciarlo e a cercare di porre rimedio è il progetto “Nessuno resti indietro” lanciato da Caritas Ambrosiana. Durante la quarantena, l’ente ha svolto colloqui con un campione di responsabili dei 302 doposcuola parrocchiali della diocesi. Dalle loro testimonianze è emerso che un allievo su due tra i frequentatori dei servizi di “aiuto compiti” non riesce a seguire le lezioni a distanza. Uno su cinque non possiede un pc, un tablet o una connessione internet. Dagli stessi genitori può arrivare ben poco aiuto. A queste condizioni, imparare in remoto è praticamente impossibile. Stando all’ultimo censimento del 2016, sono circa 10 mila i ragazzi seguiti da oltre 5 mila volontari. La metà frequenta le primarie, il 34,2% le medie, solo il 10 il primo biennio superiori, periodo ad alto rischio di abbandono. Il 13% soffre di dislessia o di altri disturbi dell’apprendimento. Oltre la metà (il 57,8%) è di origine straniera e proviene da famiglie che vivono la povertà nel 34,6% dei casi o la disoccupazione (26,1%). A inviare i loro figli ai doposcuola sono quasi sempre gli insegnanti (70%), perché fra parrocchie e istituti scolastici c’è stretta collaborazione. Ed è stato proprio dalle famiglie o ancora dagli insegnanti, che i responsabili dei doposcuola hanno scoperto subito la gravità del gap digitale. Tre gli obiettivi del progetto e della raccolta fondi: ridurre il divario tecnologico, prevenire la dispersione scolastica, garantire un supporto educativo oltre alla dotazione tecnologica, con l’aiuto di volontari e educatori sempre più formati anche sulla didattica in remoto. Il progetto è partito questa settimana con 25 pc portatili forniti in comodato d’uso a giovani di famiglie numerose o mono-genitoriali in povertà. I pc sono stati acquistati grazie a una donazione di 10 mila euro di un’azienda. Ma l’idea è di raccogliere 100 mila euro e donare 200 computer. Questo permetterebbe di raggiungere potenzialmente una platea di mille minorenni, in vista anche del possibile prolungamento a settembre della didattica a distanza. I volontari dei doposcuola lavoreranno anche d’estate, in sinergia con gli oratori. “I responsabili dei doposcuola parrocchiali hanno da subito intuito e segnalato le gravi diseguaglianze che questi ragazzi stavano vivendo, insieme ad altre emergenze, come quella alimentare, che è stata la prima di cui ci siamo occupati”, sottolinea il direttore di Caritas Ambrosiana Luciano Gualzetti. Per dare una mano si può consultare il sito caritasambrosiana.it. “Stranieri e italiani accomunati. Passo dal valore straordinario” di Anna Pozzi Avvenire, 31 maggio 2020 Inizia domani la presentazione delle istanze per la regolarizzazione dei migranti e l’emersione del lavoro nero. Si andrà avanti poi sino al 15 luglio - come previsto dall’articolo 103 del decreto Rilancio una finestra entro la quale i datori di lavoro possono regolarizzare una situazione lavorativa irregolare (sia con cittadini italiani che con cittadini stranieri), mentre gli stranieri possono richiedere un permesso di soggiorno temporaneo di sei mesi. “Si tratta di una risposta significativa alle istanze provenienti dalle istituzioni e dalla società civile, seppure con alcuni limiti sostanziali” sostiene il dottor David Mancini, magistrato della Dda dell’Aquila, esperto di tratta, sfruttamento e criminalità organizzata. Perché questo provvedimento è così importante? È la prima occasione in cui si accomuna, simbolicamente prima ancora che nei fatti, sotto il concetto di “emersione” dei lavoratori “invisibili” sia i migranti irregolari che gli italiani, gli uni e gli altri ugualmente sfruttati. E questo ha un valore straordinario rispetto alla mera “sanatoria” di migranti irregolari. E tuttavia riguarda solo alcune categorie di lavoratori, sostanzialmente quelli agricoli e badanti e colf. Non è questo un limite grave? È un vulnus della norma, una limitazione irragionevole e iniqua. È vero che i lavoratori stranieri stagionali in agricoltura sono le principali vittime di sfruttamento, spesso anche a causa della loro condizione giuridica. Lo stesso vale sovente per chi lavora nell’ambito dei servizi alla persona. Questa istanza però risponde innanzitutto a esigenze economico-produttive e all’interesse dei cittadini di veder soddisfatti alcuni loro bisogni, ma non presta la dovuta attenzione al tema più ampio e complesso dei diritti delle persone e del rispetto della dignità umana. Insomma, pur partendo da un’esigenza di sanità pubblica, questa normativa sembrerebbe rispondere essenzialmente a un interesse di tipo economico-produttivo... Infatti. La premessa riguarda l’emergenza coronavirus e la tutela della salute anche di persone che vivono in condizioni di precarietà e irregolarità. L’emersione dall’invisibilità è fondamentale anche per garantire una migliore tutela della salute personale e collettiva. Ma questo non può essere fatto solo attraverso la regolarizzazione della loro posizione lavorativa, se poi li si lascia vivere in ghetti insalubri e non si favoriscono reali processi di integrazione. Un altro limite in questo senso non potrebbe essere la temporaneità del permesso di soggiorno per gli stranieri? Questo aspetto mal si concilia con l’affermazione dei diritti fondamentali e con la loro generale valenza, ma anche con le esigenze sanitarie più ampie. O con la possibilità, ad esempio, di trovare un impiego in altri settori non previsti dalla normativa. Il lavoro nero si traduce talvolta anche in situazioni di assoggettamento e privazione dei diritti fondamentali come la tratta... Parliamo di persone che spesso si trovano in situazioni di grande vulnerabilità. È importante mettere in evidenza la sproporzione delle forze nel mondo del lavoro, dove c’è chi sfrutta e chi è sfruttato, chi abusa del proprio potere e chi è privato dei diritti più elementari, sino a pervenire a forme di asservimento ricadenti appunto nel fenomeno della tratta a scopo di sfruttamento lavorativo. Certamente dovranno essere garantiti i controlli per evitare tutti i possibili abusi. Vede il rischio che le organizzazioni criminali ne traggano qualche vantaggio? Il rischio esiste e anche il procuratore nazionale antimafia lo ha ribadito recentemente. Alle vulnerabilità già esistenti, infatti, se ne potrebbero assommare altre o potrebbero emergere nuovi interessi, con pratiche che sembrano rispondere alla legalità, ma di fatto la aggirano. L’articolo 103 del decreto Rilancio è un’iniziativa importante, ma non risolve il problema del contrasto alla criminalità organizzata. Del resto, è un tassello di un mosaico più complesso in cui dovrebbero combaciare molte altre tesserine. Migranti. Il nostro silenzio sulla guerra del mare di Roberto Saviano L’Espresso, 31 maggio 2020 Nel Mediterraneo si continua a morire per cercare di sbarcare sulle coste europee. Nell’indifferenza dell’opinione pubblica che prima si indignava. Quello che accade oggi nel Mediterraneo è preoccupante e le cose non sono cambiate di molto rispetto a quando al Viminale c’era Salvini e il suo umore dettava l’umore del Paese eravamo tutti cani da guardia. Osservavamo attenti, nulla ci sfuggiva, pronti a difendere persone, principi, diritti. Ma quando tutto si normalizza, o quando tutto pare normalizzarsi è proprio lì, in quel momento - in questo momento - che dobbiamo alzare la guardia. È proprio lì, in quel momento - in questo momento - che, pur se ci sembrerà di lottare contro i mulini a vento, dobbiamo prestare maggiore attenzione a ciò che accade. Mi rendo anche conto che dopo anni passati a schivare e incassare i colpi di una comunicazione schizofrenica e continua, lesiva della dignità di persone la cui unica “colpa” sarebbe stata quella di cercare un luogo dove vivere lontano da persecuzioni e fame, oggi ci sentiamo come graziati, tornati a una sorta di normalità. Salvini ha ostentato un tale cinismo nell’affrontare male e senza costrutto il dramma dell’immigrazione che non poteva mancare una reazione uguale e contraria, che provasse a portare equilibrio e buonsenso. Ma ora? Come vanno le cose ora? Vanno male, malissimo. Gli sbarchi di migranti provenienti dalla Libia e più in generale dall’Africa continuano ininterrotti. Spesso non ne abbiamo notizia, come non ci arrivano le cifre che riguardano i naufragi e le morti in mare. Ma esiste un modo per capire quando le cose non funzionano: il silenzio. Meno si parla di un argomento, più questioni irrisolte ci sono. E non c’è spazio per giustificazioni, non è possibile pensare che durante la pandemia i morti in mare siano tollerabili perché non c’è alternativa: una alternativa c’è sempre, solo che non viene mai prospettata. Nel Mediterraneo non ci sono più le imbarcazioni delle Ong che salvavano vite, che testimoniavano e davano informazioni. Oggi tutto accade nel silenzio generale. E mentre in Libia la situazione è sempre più instabile, sulle coste italiane gli sbarchi continuano, a testimoniare che le imbarcazioni delle Ong non fungevano affatto da pull-factor, da fattore di attrazione, ma al contrario esiste un unico fattore di attrazione che è geografico ed economico. Sergio Scandura, giornalista di Radio Radicale, continua a informarci ogni giorno su ciò che accade a sud del Sud. Scandura lo considero il corrispondente di Radio Radicale dal Mediterraneo e considero il Mediterraneo zona di guerra perché nel Mediterraneo si muore. Ma è una strana guerra quella che si combatte nel Mediterraneo, è una guerra che viene usata per fare campagna elettorale (fermiamo l’invasione!) o che viene ignorata (con la pandemia in corso, l’Italia ha smesso di essere un Place of Safety) e in mezzo, tra una fazione e l’altra c’è chi prova a fare informazione e si accorge che sulla pelle delle persone, che sulla pelle di persone che non hanno niente, che non hanno mezzi ma solo un pesante carico di disperazione, accade di tutto. E così, come dice Scandura: chi sarebbero i cattivi, le autorità maltesi? Intendiamoci, buone non sono per niente, ma noi? E le autorità italiane che conoscono la posizione delle imbarcazioni in avaria ma se non entrano nelle aree di competenza non intervengono? Noi cosa saremmo? Noi da quale parte stiamo? Che ruolo ci spetta? A Pasqua, mentre sui cieli italiani si libravano elicotteri con il compito di dissuadere le grigliate sui terrazzi, mentre monitoravano le spiagge per cacciare quell’unico passante solitario, in mare c’erano quattro gommoni alla deriva. Come lo so? Alarmphone ha dato l’allerta: c’erano 250 persone in mare su imbarcazioni in difficoltà e nessun soccorso. E poi ci sono i migranti costretti alla quarantena su imbarcazioni in mare: possibile che non si riesca a farli sbarcare? Possibile che le risorse che investite per la quarantena in mare non si possano utilizzare a terra? Dalla Moby Zazà si è buttato a mare un giovane tunisino e nel tentativo di raggiungere la costa è morto; ha abbandonato l’imbarcazione al largo di Porto Empedocle ed è stato trovato senza vita sulla costa agrigentina. Come fa tutto questo a sembrarci normale? Ma com’è l’adagio? Ah sì: noi non dobbiamo parlarne perché se ne parliamo, se ci incazziamo, se denunciamo, portiamo voti ai sovranisti. E se non ne parliamo noi, chi lo fa? Chi se ne occupa? Intanto grazie a Scandura, grazie per la sua cronaca quotidiana dal Mediterraneo, mare in guerra. Dall’Italia arrivano armi all’Egitto: la “commessa della vergogna” di Umberto De Giovannangeli globalist.it, 31 maggio 2020 Il governo italiano si prepara ad approvare la vendita di 6 fregate, di una ventina di pattugliatori navali, di 24 cacciabombardieri Eurofighter e 24 aerei addestratori M346 all’Egitto di al-Sisi. La “commessa del secolo”. La “commessa della vergogna”. Altro che fare marcia indietro. Si rilancia, e alla grande. Altro che verità e giustizia per Giulio Regeni e per i tanti giovani come lui fatti fuori dal regime del presidente-generale Abdel Fattah al-Sisi. Il governo italiano si prepara ad approvare la vendita di 6 fregate, di una ventina di pattugliatori navali, di 24 cacciabombardieri Eurofighter e 24 aerei addestratori M346 all’Egitto del presidente al-Sisi. Una “commessa del secolo” che per l’Italia non ha soltanto un valore commerciale e industriale. L’iniziativa è partita dal Cairo, che ha espresso una manifestazione di interesse per le fregate della Fincantieri. L’azienda ha subito informato il governo italiano per avere l’autorizzazione ad andare avanti. E ha fatto presente di avere due navi già varate, la Spartaco Schergat e la Emilio Bianchi, destinate alla Marina. Potrebbero essere convertite agli standard di approntamento egiziani in tempi rapidi. Media italiani specializzati, come gli italiani Analisidifesa.it e Startmag.it e il libanese Sdarabia.com, hanno ipotizzato la fornitura di altre quattro fregate da costruire, e una ventina di pattugliatori da realizzare in parte in Egitto. La “commessa della vergogna” - Il Mef ha dato il via libera alla vendita delle Fremm, ma nei partiti che sostengono il governo Conte si levano voci contrarie. Lia Quartapelle, capogruppo Pd nella Commissione Esteri, ha sostenuto che “finché le autorità egiziane non collaboreranno per arrivare a un accertamento processuale regolare su chi ha rapito, torturato e ucciso Giulio e sui mandanti, non si può considerare l’Egitto come un paese con cui intrattenere normali relazioni tra alleati. Qualsiasi iniziativa sensibile, che implichi fiducia, condivisione di valori, comunanza di idee, deve essere attentamente valutata”. “Garantire l’approvvigionamento di armi a un paese come l’Egitto ci fa perdere credibilità”, ha detto Erasmo Palazzotto, di Leu, il partito del ministro della Salute, Roberto Speranza. E l’eurodeputato M5S, Fabio Massimo Castaldo, ha detto che è “necessario mandare un chiaro segnale: export di armi da bloccare, veramente e immediatamente”. Fincantieri docet - Voci importanti, ma isolate. Perché, a quanto risulta a Globalist, dopo un confronto incrociato di fonti diplomatiche e analisti militari, al di là di “perplessità” espresse dalla Farnesina, l’ok è cosa fatta. Una conferma viene dall’amministratore delegato di Fincantieri, Giuseppe Bono, che in un’audizione al Senato aveva fatto riferimento alla fornitura all’Egitto: “Stiamo definendo gli ultimi dettagli e questo sarà un successo per il Paese”. Tornando alle autorizzazioni per nuove licenze, che costituiscono il dato politico saliente, i numeri evidenziano immediatamente alcune decisioni altamente problematiche. Il Paese destinatario del maggior numero di licenze risulta infatti essere l’Egitto con 871,7 milioni (derivanti in particolare dalla fornitura di 32 elicotteri prodotti da Leonardo spa) seguito dal Turkmenistan con 446,1 milioni (nel 2018 non era stato destinatario di alcuna licenza). Al terzo posto si colloca il Regno Unito con 419,1 milioni complessivi. Fra le prime 10 destinazioni delle autorizzazioni all’export di armi italiane nel 2019 troviamo 4 Paesi Nato (2 dei quali anche nella UE) insieme a 2 dell’Africa Settentrionale (l’Algeria oltre al già menzionato Egitto), 2 asiatici (Corea del Sud insieme al già citato Turkmenistan) ed infine Australia e Brasile. Complessivamente il 62,7% delle autorizzazioni per licenze all’export ha come destinazione Paesi fuori dalla Ue e dalla Nato. Per quanto riguarda le imprese, ai vertici della classifica delle autorizzazioni ricevute troviamo Leonardo Spa con il 58% seguita da Elettronica spa (5,5%), Calzoni srl (4,3%), Orizzonte Sistemi Navali (4,2%) e Iveco Defence Vehicles (4,1%). Le importazioni totali registrate sono state pari a 214 milioni di euro, per il 68% con origine negli Usa e per il 14% provenienti da Israele (va notato che in queste cifre non compaiono gli import da Ue e area economica europea non più soggetti a controlli Uama). “Riteniamo gravissimo e offensivo che sia stata autorizzata la vendita di un così ampio arsenale di sistemi militari all’Egitto sia a fronte delle pesanti violazioni dei diritti umani da parte del governo di al-Sisi sia per la sua riluttanza a fare chiarezza sulla terribile uccisione di Giulio Regeni. Chiediamo al Governo di riferire il momento del rilascio di tali autorizzazioni per stabilirne la paternità e comunque di sospendere ogni trattativa di forniture militari in corso finché non sia stata fatta piena luce dalle autorità egiziane sulla morte di Regeni”, denunciano Rete Italiana per il Disarmo e Rete della Pace. “In appena quattro anni il valore dell’export militare italiano verso il regime di al-Sisi è centuplicato. Tra le vendite che spiegano l’ultimo valore - rimarca Francesco Vignarca di Rete Disarmo, ci sono 32 elicotteri: Lo scrive la stessa Presidenza del Consiglio. Di questi 24 sarebbero Aw149 e il resto Aw189, elicotteri per operazioni di Search & Rescue, ma che possono anche trasportare truppe ed essere armati. Se sono per uso civile, allora perché chiedere l’autorizzazione militare? Da tempo l’Egitto si sta riarmando. Il Paese è al centro di una regione instabile. Le sue forze armate devono far fronte alle minacce del terrorismo, soprattutto nel Sinai; alle tensioni nella vicina Libia, dove da anni si combatte una feroce guerra civile; alle mai sopite tensioni con l’Etiopia, con al centro la controversia legata alla Grande diga del Millennio e alla possibile riduzione della portata del Nilo. In Egitto è però in corso anche una durissima repressione interna. Dopo il colpo di Stato che nel 2013 ha portato al potere il generale al-Sisi, si è assistito a un’azione durissima contro tutte le forze di opposizione, in particolare della Fratellanza Musulmana, partito molto forte che minaccia e ha minacciato il potere dei militari (di cui il presidente è espressione). Ciò ha comportato numerose violazioni dei diritti umani. Il caso Regeni e quello di Zaky ne sono due esempi eclatanti che toccano da vicino il nostro Paese. Stato di polizia - Elicotteri, fregate, armi leggere. Destinati a nno Stato di polizia in cui i “desaparecidos” si contano ormai a migliaia. E più della metà dei detenuti nelle carceri lo sono per motivi politici. Per contenerli, il governo ha dovuto costruire 19 nuove strutture carcerarie. Il generale-presidente esercita un potere che si ramifica in tutta la società attraverso l’esercito, la polizia, le bande paramilitari e i servizi segreti, i famigerati Mukhabarat, quasi sempre più di uno. Al-Sisi si pone all’apice di un triangolo, quello dello Stato-ombra: esercito, Ministero degli Interni (e l’Nsa, la National Security Agenc.) e Gis (General Intelligence Service, i servizi segreti esterni). Se lo standard di sicurezza si misurasse sul numero degli oppositori incarcerati, l’Egitto di al-Sisi I° sarebbe tra i Paesi più sicuri al mondo: recenti rapporti delle più autorevoli organizzazioni internazionali per i diritti umani, da Human Rights Watch ad Amnesty International, calcolano in oltre 60mila i detenuti politici (un numero pari all’intera popolazione carceraria italiana): membri dei fuorilegge Fratelli musulmani, ma anche blogger, attivisti per i diritti umani, avvocati...Tutti accusati di attentare alla sicurezza dello Stato. Lo Stato di polizia all’ombra delle Piramidi. Sotto la presidenza al-Sisi e col pretesto di combattere il terrorismo, migliaia di persone sono state arrestate arbitrariamente - centinaia delle quali per aver espresso critiche o manifestato pacificamente - ed è proseguita l’impunità per le amplissime violazioni dei diritti umani quali i maltrattamenti e le torture, le sparizioni forzate di massa, le esecuzioni extragiudiziali e l’uso eccessivo della forza. Dal 2014 sono state emesse oltre 2112 condanne a morte, spesso al termine di processi iniqui, almeno 223 delle quali poi eseguite. La legge del 2017 sulle Ong è stata il primo esempio delle norme draconiane introdotte dalle autorità egiziane per stroncare la libertà di espressione, di associazione e di manifestazione pacifica. La legge consente alle autorità di negare il riconoscimento delle Ong, di limitarne attività e finanziamenti e di indagare il loro personale per reati definiti in modo del tutto vago. Nel 2018 sono state approvate la legge sui mezzi d’informazione e quella sui crimini informatici, che hanno esteso ulteriormente i poteri di censura sulla stampa cartacea e online e sulle emittenti radio-televisive. Con questo regime della tortura e dell’insabbiamento della verità sull’assassinio di Stato di cui è stato vittima Giulio Regeni, l’Italia si appresta a festeggiare la “commessa del secolo”. Una sola parola: Vergogna. Stati Uniti. La rivolta si prende l’America e diventa uno scontro di classe di Marina Catucci Il Manifesto, 31 maggio 2020 Da Minneapolis il movimento si allarga a decine di città. Due morti, un 19enne un agente. Vetrine in frantumi, incendi. La polizia picchia e arresta, gli autobus si rifiutano di portare i fermati in prigione Minneapolis, manifestanti si inginocchiano davanti alla polizia. Prima Minneapolis, poi Louisville, New York, Los Angeles e Chicago, alla quarta notte di scontri le proteste si sono diffuse in tutti gli Stati uniti, da una costa all’altra e tutto quello che c’è nel mezzo, smettendo di essere proteste e diventando rivolta. Quello che sta accadendo non si vedeva dagli anni 60, come ripetono i giornalisti e commentatori politici statunitensi ed è molto diverso da altre manifestazioni di Black Lives Matter viste a Ferguson, New York, St Louis e scaturite per la stessa ragione: l’uccisione di un afroamericano disarmato da parte di un poliziotto bianco. Quello che si è visto in tutte le città è stato uno scenario diverso per molti aspetti, non solo per la violenza della protesta che ha portato a incendiare macchine della polizia, cassonetti, innalzare barricate, ma per la non omogeneità razziale di questa protesta. Questa trasversalità si era vista a New York, qualche anno fa, a seguito dell’uccisione di Eric Gardner che aveva portato migliaia di persone a marciare per le strade della città. “Non c’è bisogno di essere neri per sentirsi oltraggiati da questo omicidio”, recitavano i cartelli, ma da una città così interconnessa e multirazziale come New York è difficile aspettarsi qualcosa di diverso. Ora questo approccio è arrivato ovunque e mostra il cambiamento all’interno del movimento per i diritti civili degli afroamericani e il cambiamento della società americana in sé dove il sentimento di appartenenza di classe sembra essere diventato più forte di quello della divisione razziale. Nella notte durante gli scontri un autista newyorchese si è rifiutato di guidare l’autobus che doveva portare i fermati in questura, come ha fatto anche un suo collega di Minneapolis. Solidarietà alle manifestazioni è arrivata da soggetti inusuali come la comunità Amish, e a Minneapolis, dove tutto è partito, finora l’approccio delle autorità è stato di ascolto e comprensione. Potrebbe cambiare nelle prossime ore. Durante la notte a Minneapolis l’ordine di coprifuoco è stato ignorato, nuove vetrine sono andate in frantumi, altri stabili sono stati dati alle fiamme. La mattina seguente mentre i cittadini scendevano in strada per ripulire le strade che si presentavano come uno scenario post apocalittico, la senatrice ed ex candidata presidenziale Amy Klobuchar, il governatore Tim Walz e il sindaco di Minneapolis Jacob Frey, hanno tenuto diverse conferenze stampa per chiedere ai cittadini di restare in casa, che l’arresto del poliziotto che ha ucciso George Floyd è solo l’inizio di un processo di giustizia. Hanno parlato di infiltrati che la senatrice Patricia Torres Ray ha definito “terroristi e suprematisti bianchi infiltrati per creare scontro. Vengono da fuori, vogliono confondere e intossicare gli attivisti. Distribuiscono alcool. Ci sono tattiche, un piano. Noi siamo una città progressista e di attivisti, io lo sono e so riconoscere un agitatore infiltrato”. Per la stessa ragione Walz ha dichiarato che la guardia nazionale verrà impiegata nelle strade per mantenere la calma durante il coprifuoco e ha chiesto agli attivisti locali di non uscire. Pochi minuti dopo il procuratore generale William Barr ha rilasciato una dichiarazione opposta, dicendo che “i facinorosi sono antifascisti di sinistra e non saremo tolleranti”. In molte città, anche senza la guardia nazionale, gli scontri fra manifestanti forze dell’ordine ci sono già stati: a New York la polizia ha affrontato brutalmente le manifestazioni di Brooklyn che sono durate tutta la notte spostandosi in zone sempre più residenziali. Atlanta, Detroit, Oakland e Portland sono state tra le piazze più difficili. A Portland i manifestanti hanno fatto irruzione e devastato il Multnomah County Justice Center, che ospita il carcere e il distretto di polizia. Il sindaco Ted Wheeler ha dichiarato lo stato di emergenza e indetto il coprifuoco dalle 20 di oggi. A Detroit un ragazzo di 19 anni è stato ucciso da colpi di arma da fuoco sparati da una macchina contro la folla. Seguendo la stessa prassi ad Oakland un agente di sicurezza federale è stato ucciso e un altro è rimasto ferito fuori dal tribunale a causa di colpi sparati da una macchina. Ad Atlanta uno scontro molto brutale tra la polizia e manifestanti è avvenuto alla sede della Cnn, in uno stabile che ospita anche un commissariato di polizia. Una delle maggiori firme legali della città, Lawrence Zimmerman, ha fatto sapere che lo studio difenderà pro bono gli attivisti arrestati durante gli scontri. Le proteste sono arrivate fino alla Casa bianca, entrata in lockdown mentre fuori dai cancelli avvenivano scontri violenti con lanci di transenne tra manifestanti e servizi segreti. Mentre la rivolta si diffonde in decine di città, il Pentagono ha fatto il raro passo di ordinare all’esercito di mettere diverse unità di polizia militare in servizio, pronte a schierarsi a Minneapolis, per cominciare. Stati Uniti. Giustizia per George, la minaccia di Trump: “Useremo i fucili” di Vittorio Ferla Il Riformista, 31 maggio 2020 “Essere nero in America non dovrebbe essere una sentenza di morte”, ha detto il sindaco democratico di Minneapolis, Jacob Frey, commentando l’assurda violenza razziale che ha ucciso George Floyd. Come lui la pensano centinaia di manifestanti che, ormai da quattro notti, protestano contro la brutalità della polizia. Chiedono giustizia per George Floyd, l’uomo di colore di 46 anni, ucciso a Minneapolis da Derek Chauvin, un ufficiale di polizia bianco che gli ha schiacciato il ginocchio sul collo per diversi minuti, bloccandolo a terra, fino a soffocarlo. Ieri Chauvin è stato arrestato e messo sotto custodia dagli investigatori che seguono il caso. In passato era stato già coinvolto in episodi di violenza gratuiti. Le proteste si sono diffuse in tutta la città. Migliaia di persone hanno dato fuoco a un distretto di polizia e ad altri edifici. Nella vicina St. Paul, la polizia ha affrontato i manifestanti con i gas lacrimogeni. Più di 170 imprese sono state danneggiate o saccheggiate e la Guardia Nazionale del Minnesota è stata mobilitata in entrambe le città. Una troupe della Cnn, guidata dal giornalista Omar Jimenez, è stata arrestata dalla polizia locale e poi rilasciata ieri mattina con tanto di scuse all’emittente da parte del governatore del Minnesota, Tim Walz. Nel frattempo le manifestazioni riempiono le strade a Denver, in Colorado, a New York City, a Memphis, nel Tennessee, a Phoenix, in Arizona, e a Columbus, in Ohio. Non è la prima volta per l’America. Perfino l’Alto Commissario dell’Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet, dice basta agli omicidi degli afroamericani e chiede agli Stati Uniti di agire per fermare gli abusi della polizia. Nel 2014 era già toccato a Eric Garner, morto nello stesso modo di Floyd durante un fermo avvenuto a Staten Island, New York. Nel 1992 una rivolta simile era scoppiata a Los Angeles a fine aprile dopo l’assoluzione di quattro agenti della polizia di Los Angeles per il pestaggio di Rodney King, ripreso e diffuso su tutti i canali tv. In quel caso, il presidente George H. W. Bush fu costretto a schierare due divisioni di militari per ristabilire l’ordine. Ma 63 persone restarono uccise, con più di duemila feriti e 12mila arresti. Circa 25 anni prima, un’altra rivolta era scoppiata a Detroit, dopo che, nella notte del 23 luglio 1967, la polizia locale aveva fatto irruzione in un club senza licenza e aveva arrestato 82 afroamericani. Nei giorni successivi le proteste misero a ferro e fuoco la città, provocando 43 morti, più di mille feriti, oltre 7mila arresti. Per ricordare i fatti di Detroit, nel 2017, la regista Kathryn Bigelow ha realizzato un film che ricostruisce la vicenda di tre giovani afroamericani uccisi dopo una notte di torture da tre agenti della polizia locale. Negli Stati Uniti, la polizia è gestita a livello statale, non federale: molto spesso gli agenti sono membri di spicco di piccole comunità, un po’ sceriffi da far west, un po’ guida morale del luogo. E se è vero che il Minneapolis Police Department ha già licenziato gli agenti coinvolti nella morte di Floyd e che Chauvin è stato arrestato, non è affatto detto che, visti i precedenti, la giustizia faccia il suo corso. Ecco perché, dal 2013, il movimento Black Lives Matter - che significa: “le vite dei neri hanno un valore” - con il motto I can’t breathe - “non posso respirare”, l’ultimo rantolo di supplica pronunciato dal povero Floyd - lotta contro l’oblio che circonda la morte dei cittadini afroamericani e contro l’impunità di cui ancora gode la polizia. E che fa in tutto questo Donald Trump? Nessun commento agli episodi di brutalità della polizia contro i neri. Viceversa un tweet incendiario contro i manifestanti: “Questi criminali stanno disonorando la memoria di George Floyd - ha scritto - e non lascerò che ciò accada”. Infine la minaccia: “Qualsiasi sia la difficoltà assumeremo il controllo ma, quando cominciano i saccheggi, cominciamo a sparare”. Twitter ha poco dopo nascosto il post ufficiale della Casa Bianca, perché rappresenta una “glorificazione della violenza” che vìola le regole per la pubblicazione sulla piattaforma. Ma è solo l’ultimo episodio di un conflitto acerrimo. Proprio giovedì Trump ha emesso un ordine esecutivo che toglie a Twitter e agli altri social media lo scudo penale per i contenuti postati sulle loro piattaforme e che, secondo Trump, servirebbe a tutelare la libertà di parola contro la censura. Ancora una volta, con un tweet che ricorda Floyd e invita a condurre proteste pacifiche, Melania Trump ha cercato di mettere una pezza all’ennesimo eccesso del marito. Ma, come al solito, non basterà. Stati Uniti. Pena (e) capitale. Kenneth Reams ci racconta il suo caso dal braccio della morte di Vittorio Giacopini Left, 31 maggio 2020 Kenneth Reams è stato condannato a morte per rapina nel 1993 quando aveva 18 anni. La sentenza arrivò dopo un processo che presentava numerose incongruenze. Da allora non smette di lottare contro le storture di un sistema carcerario e punitivo profondamente razzista. “Negli ultimi 25 anni, ho sopportato la vita in isolamento, con lo stress mentale ed emotivo di dover affrontare la morte. Nonostante ciò, e contro ogni previsione, sono riuscito a riabilitarmi e a crescere. Ho fatto male da ragazzo, non sono innocente. Ma non ho mai ucciso”. Sono le prime righe della lettera aperta di Kenneth Reams detenuto nel braccio della morte di una prigione nordamericana dall’età di 18 anni. È stato il più giovane detenuto in attesa di pena capitale in Arkansas. Quella che Kenneth e i suoi amici mi hanno raccontato al telefono è una storia di speranza e resilienza, ma anche un esempio delle contraddizioni che affliggono la società americana e il suo sistema carcerario. È una storia che ci pone degli interrogativi, mettendoci di fronte all’inaccettabilità della perdita forzata di una vita umana, che sia per mano di un comune criminale o da parte dello Stato nel suo tentativo di affermarsi e legittimarsi. È una storia che ci costringe anche a riflettere sulla differenza fra pena e vendetta, e sulla nostra capacità di accettare la riabilitazione di un condannato. Il 5 maggio 1993, a Pine Bluff (Arkansas), piccola cittadina considerata tra le più pericolose degli Stati Uniti, Kenneth, insieme al suo amico Alford, decide di compire una rapina. La loro giovane vita fino a quel giorno era stata definita dalla povertà, dalla violenza e dalla mancanza totale di opportunità. I soldi rubati dovevano servire a comprare il mantello e il tocco per la cerimonia del diploma. Ma gli eventi prendono una strada diversa, Alford spara accidentalmente un colpo ed è così che un furto da 50 dollari si trasforma in un omicidio. Alford Goodwin, autore materiale dell’assassinio, ha accettato un accordo con la procura, si è dichiarato colpevole ed è stato condannato all’ergastolo. Kenneth Reams, in macchina al momento dello sparo, ha scelto di andare a processo ed è stato condannato alla pena di morte tramite iniezione letale. L’iter giudiziario presentava fin da subito grosse lacune. L’avvocato d’ufficio che seguiva centinaia di casi, tra cui altre cinque sentenze capitali, non ha chiamato alla sbarra né gli esperti né i testimoni chiave. La giuria era composta da undici bianchi su dodici, dopo che tre afroamericani furono ricusati senza che la procura si sia dovuta giustificare, come lo prevede il sistema americano di selezione del collegio di giudici popolari. Nel novembre 2018, infine, è stata revocata la pena di morte perché il caso è stato dichiarato incostituzionale. La cella dove Kenneth è stato rinchiuso per tutta la sua vita da adulto è una scatola di cemento buia, grande come un posteggio auto, composta da un gabinetto, da una doccia che non riesce a regolare e da un materasso appoggiato su una branda di cemento. Gli è concesso uscire un’ora al giorno all’aria aperta per fare esercizio in uno spazio ancora più angusto della sua cella. Racconta che molti detenuti rifiutano questo loro “diritto” poiché li fa sentire come animali nella gabbia di uno zoo. Non sono permessi contatti umani, se non per l’assistenza sanitaria e le visite. La colazione e il pranzo vengono serviti alle 2 di notte e alle 9 del mattino. La maggior parte dei detenuti, per colpa di questo trattamento disumanizzante e di questo dover “vivere” nell’attesa dell’esecuzione (un quarto dei reclusi nel braccio della morte muore di cause naturali dopo decenni di incarcerazione), cedono psicologicamente, spegnendosi lentamente o dando segni di squilibrio mentale. La sua voce profonda e quieta contrasta con gli echi della prigione. Abbiamo venti minuti cronometrati prima che la sua unica telefonata settimanale si esaurisca. Puoi raccontarci la quotidianità fra le mura di un carcere di massima sicurezza statunitense? I miei giorni scorrono come scorre la mia mente. Non c’è un giorno che assomigli all’altro. Ho delle attività quotidiane come l’esercizio fisico, la meditazione, provo anche a leggere il più possibile. Tutte quante servono alla mia crescita personale e spirituale. Certi giorni creo arte, altri scrivo poesie, altri ancora rispondo ad un’intervista come oggi. Vedi, ci sono tanti elementi, ma non ho nessun tipo di routine da portare avanti, come fanno di consueto molte persone nella società civile. Sai, ti alzi ad un’ora precisa ogni mattina, vai al lavoro, torni dal lavoro, dedichi del tempo alla tua famiglia e ai tuoi bambini. La mia vita in isolamento non me lo permette. A volte mi sveglio alle tre del mattino, altre vado a letto alle due. La tua passione per l’arte è nata fra le mura della cella. Negli ultimi anni, hai realizzato più di cinquanta opere, fra poesie, installazioni, sculture, disegni e pitture. Chi si avvicina alle tue creazioni non può che rimanere colpito dalla loro forza denunciatrice. Mi sovviene l’immagine del tuo dipinto dove le strisce rosse della bandiera americana finiscono con dei cappi ad uno dei quali è stato impiccato un afroamericano e il tuo modellino di sedia elettrica realizzato interamente con bastoncini di gelato. Affermi che la tua arte non riguarda te stesso, ma temi più ampi come la pena di morte, la disumanità della vita in isolamento, i fallimenti del sistema di giustizia penale americano, e le discriminazioni razziali. Qual è il contributo dell’arte alla tua capacità di resilienza? La mia arte è totalmente centrata sulla libertà. E per libertà intendo che ho impugnato il pennello per sbloccare le porte della mia cella. Riguarda tutte le forme di libertà. La libertà di creare. La libertà di pensare. La libertà di essere semplicemente in movimento. La mia arte non ha una fonte di inspirazione, la mia arte è libertà pura. L’idea secondo la quale negli Usa le ingiustizie giudiziarie siano strettamente legate alla questione razziale percorre la quasi totalità delle tue opere. Approfondiresti questo concetto per noi. Negli Stati Uniti, la commedia della morte si è sempre incentrata attorno a due elementi chiave: la vendetta e il razzismo. Questo vale fin dall’inizio della storia degli Stati Uniti e resta valido tutt’ora. Perché il mio è solo uno dei tanti casi di ingiustizia giudiziaria che esistono in questo Paese. Se guardi la composizione razziale della popolazione americana, vedrai che su un totale di 320 milioni di abitanti, ci sono circa il 30% di afroamericani. Però se osservi le statistiche, ti rendi conto che solo un maschio bianco su 17 può aspettarsi di andare in prigione durante la sua vita, a fronte di un afroamericano su tre (come emerge dai dati del Bureau of justice statistics - Bjs - del 2013) Se pensi che questo non sia razzismo o sei ingenuo o sei cieco. Questo si ripercuote sull’intera società. Se sottrai una fetta così importante della popolazione, in prevalenza maschile, di una comunità, ad un certo punto crei degli squilibri enormi, una vera voragine. Assieme alla piaga del razzismo, le carceri americane si stanno confrontando con il problema del sovraffollamento. Un Paese che rappresenta solo il cinque per cento della popolazione globale, ma che conta quasi un quarto dei detenuti di tutto il mondo, appare chiaro che abbia un sistema giudiziario fondato sulla carcerazione. Cosa si evince dall’interno? Ho passato più della metà della mia vita in isolamento, intrappolato nel sistema giudiziario. Ho avuto l’opportunità di osservarlo attentamente. Si presume che il carcere serva a punire e a riabilitare. Però, qui, non è quello che io ho visto, non è quello che io ho capito, non è quello che io ho imparato. Ciò che ho constatato io, è che è tutto una mera questione di soldi. Di quanti guadagni loro sono capaci di fare. E quando dico “loro”, intendo le corporazioni. Ecco cosa ho imparato durante tutti questi anni. Ciò che stanno facendo non viene regolato e così queste corporazioni sono libere di fare pressioni sui politici per promulgare leggi che permettono di pronunciare sentenze ingiuste, contro persone che vengono ingiustamente rinchiuse, e che devono ingiustamente trascorrere tempo in carcere. In che modo le corporazioni che evochi lucrano sulla pelle dei carcerati? Per le corporazioni non c’è un unico modo per fare soldi: più c’è gente incarcerata, più ci sono guadagni. Quando sono arrivato in carcere, nel 1993, era il periodo di attuazione della legge californiana dei Three strikes: commetti tre reati e veni incarcerato per il resto della tua vita. Questo è nient’altro che un modo di rinchiudere più facilmente la gente per fare ancora più soldi. Così le lobby si arricchiscono. Lo fanno in modi diversi. Per esempio, ci sono delle aziende che sono specializzate nella produzione di scarpe per i carcerati: più gente è rinchiusa e più scarpe possono vendere. Stessa cosa per le compagnie telefoniche che fanno soldi con le chiamate dei carcerati ai loro familiari: più gente è rinchiusa e più ci sono chiamate da fatturare. E poi i prezzi non hanno niente a che vedere con quelli praticati nella società civile. Fuori una chiamata di quindici minuti non costa venti dollari, qui in carcere sì. Fuori una caramella non costa un dollaro e cinquanta centesimi, qui in carcere sì. Per farti un esempio, circa un anno fa, ho realizzato un’opera d’arte riciclando imballaggi che avevo accumulato. Confezioni di caramelle, di merendine e buste di patatine. Le ho assemblate tutte assieme per parlare del come queste compagnie esterne fanno soldi sugli indigenti (due terzi della popolazione carceraria americana vive sotto la soglia di povertà, dati Bjs 2013). È un business colossale e non si ferma qui. Prendi il caso dei giubbotti antiproiettile. Non c’è bisogno che le guardie ne siano dotate: non si spara mai a nessuno in carcere. Ciò nonostante, le compagnie sono riuscite a stipulare dei contratti con il sistema penitenziario. Ecco un ennesimo modo in cui fanno soldi. Ed è così che il sistema funziona. C’è un’organizzazione che si chiama Alec (una lobby ultraconservatrice evangelica accusata in più occasioni di suprematismo bianco), è una corporazione che raggruppa diverse aziende che fanno pressioni in modo da incoraggiare la promulgazione di leggi, così da mantenere la gente in carcere e quindi poter fare i maggiori profitti possibili. Così dissezionano la società, ancora e ancora, sempre di più. Due anni fa, un docu-film che narra la tua storia - Free man, di Anne-Frédérique Widmann - è stato presentato in numerosi festival di cinema per i diritti umani, le tue opere sono state esposte in diverse mostre in giro per l’Europa e gli Stati Uniti, la tua campagna “Who Decide?” contribuisce a sensibilizzare l’opinione pubblica statunitense contro la pena di morte, e il tuo comitato di sostegno “Free Kenneth” moltiplica le iniziative a favore della tua liberazione, quali sono i prossimi passi? Personalmente, continuerò a sforzarmi ad evolvere ogni giorno per elevare la mia individualità, provando a capire i grandi principi della vita, come la pace, la felicità, l’amore e provando a capire come io mi relaziono al mondo. È un percorso quotidiano per diventare una persona migliore. Riguardo la battaglia giudiziaria, la prossima tappa consiste nel lottare per convincere l’Arkansas ad aprire gli occhi. È un caso molto complicato in cui non si capisce esattamente cosa sia necessario per spingere lo Stato a porre attenzione sulla mia vicenda. Però è allo stesso tempo un caso molto semplice perché è chiaro che non ho ucciso nessuno ed è altrettanto chiaro che ho subito un’ingiustizia, ma che per una ragione o un’altra, il sistema non vuole fare la cosa giusta. È il motivo principale per il quale faccio questa intervista, provare ad attirare l’attenzione sull’ingiustizia del mio caso. Libia. L’inferno del centro migranti di Zintan: nessuna protezione anti Covid di Fabio Tonacci La Repubblica, 31 maggio 2020 L’inferno del centro libico di Zintan, documentato da un filmato girato pochi giorni fa da uno dei migranti detenuti. Ci sono circa 500 rifugiati eritrei ed etiopi che vivono in condizioni disperate, con poca acqua, poco cibo e zero protezioni anti-Covid. Non ci sono mascherine, non è possibile il distanziamento sociale (dormono in celle anguste in cui devono stare in 20-25) e non hanno acqua per lavarsi. Di recente si sono aggiunti altri 200 migranti - sudanesi, somali, egiziani e nigeriani - intercettati dalla guardia costiera libica mentre cercavano di attraversare il Mediterraneo. La drammatica testimonianza di Kidane, uno dei 700 ospiti del campo a sud ovest di Tripoli. “Costretti a dormire in 24 in una cella di sei metri quadrati, è impossibile difenderci dal virus”. A 160 chilometri a sud-ovest di Tripoli c’è un non luogo dove Kidane (il nome è di fantasia ndr)e altri cinquecento eritrei ed etiopi sono rinchiusi da un anno e nove mesi. Sono richiedenti asilo con bisogno di protezione internazionale, registrati dall’Alto Commissariato Onu per i rifugiati come tali. Eppure, come tali, incredibilmente abbandonati. Sospesi nel niente. E stanno morendo uno dopo l’altro. Non sanno quando usciranno, non sanno se usciranno, hanno già visto 25 persone crollare a terra e morire di fame, stenti e tubercolosi. Come se non bastasse, sono assediati dal Covid-19, che non ha risparmiato la Libia precipitata da mesi nella guerra civile. Ma in questo non luogo nel distretto di Al-Jabal al-Gharbi che risponde al nome di “Centro governativo di Zintan” non esiste possibilità di difesa dal virus. Non c’è acqua per lavarsi, non c’è sapone, non ci sono mascherine e il distanziamento sociale è impossibile anche solo da immaginare. “Dormiamo in ventiquattro in una cella due metri per tre”, racconta Kidane, eritreo di 30 anni, uno dei pochissimi detenuti che ha il cellulare. Due metri per tre, cioè sei metri quadrati. Ventiquattro persone. “Sì sì, hai capito bene...”, ripete. Kidane è anche riuscito a girare un breve filmato nel cortile del Centro di Zintan, dove l’unico riparo dal sole bollente è un coperchio di latta. Quanti siete precisamente? “Fino a pochi giorni fa eravamo 442, tra eritrei e somali. Ora sono arrivate altre 200 persone, che avevano tentato di raggiungere l’Europa via mare ma sono state catturate dai libici”. Com’è la situazione? “Disperata. E siamo terrorizzati dal Covid-19: non sappiamo se qualcuno dei nuovi arrivati è infetto, o se lo siamo noi. Ogni giorno entrano ed escono dal Centro sei guardie libiche, che vengono ad osservarci, non ci dicono niente e non ci danno informazioni”. Personale dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni, all’inizio dell’epidemia, è entrato per spiegarvi quali precauzioni prendere. “Sì, certo. Ci hanno detto di lavarci spesso le mani. Solo che non abbiamo il sapone, e l’acqua per l’igiene personale, che è salata, è scarsa. Mascherine? Non so nemmeno come sono fatte. Siamo talmente tanti, sporchi e abbandonati a noi stessi, che dobbiamo solo pregare che il virus non entri mai. Altrimenti moriremo tutti”. Da quanto è nel centro di Zintan? “Da un anno e otto mesi, dal settembre del 2018. Sono arrivato in Libia nel giugno del 2017, fuggendo dalle persecuzioni e le torture che avvengono nel mio Paese. Sono finito a Zintan, dove l’Unhcr (l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, ndr), che qui è composto da personale libico, mi ha registrato come richiedente asilo. Pensavo che fosse la fine dell’incubo, perché loro sono l’Onu...”. Non sa quando uscirà? L’Unhcr cosa vi ha comunicato? “Nessuno ci dice niente, non c’è speranza. L’unico supporto che abbiamo è quello dei ragazzi di Medici Senza Frontiere, che vengono a portarci medicinali e acqua da bere. Senza di loro, avrei visto morire più di 25 persone”. Vi danno da mangiare? “Le autorità libiche ci portano una piccola porzione di pasta bollita, senza alcun condimento, due volte al giorno. Abbiamo una bottiglia d’acqua dolce che siamo costretti a condividere in dieci”. E dove dormite? “Ci sono due sezioni: nella prima 8 celle, nella seconda 14 celle. Ma lo spazio è ridottissimo, da soffocare. Dobbiamo dormire avvolti in coperte sudicie e ammassati a gruppi di venti”. Le guardie libiche vi picchiano? “A volte è capitato, ma non così di frequente come in altri centri di detenzione dove torturano la gente. Ma stiamo lo stesso morendo, di paura e di fame. È come essere all’inferno. Vi prego, fate qualcosa per noi...”. La comunicazione si interrompe, il segnale è debolissimo. Mentre Kidane parlava si sentiva qualcuno che alzava la voce, come se stesse litigando. “Zintan è uno dei centri ufficiali di detenzione più disumani in Libia”, chiosa l’avvocato Giulia Tranchina, dello studio legale londinese Wilson Solicitors. “È diretto dalle autorità di Tripoli, che ricevono i finanziamenti dell’Unione Europea, gestiti proprio dall’Italia. Le autorità di Tripoli costringono centinaia di esseri umani a vivere in condizioni disperate, e sono responsabili dei 25 morti di Zintan. Il tutto nell’impotenza delle agenzie Onu”.