Carcere: far rientrare il Volontariato, non far uscire le tecnologie di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 30 maggio 2020 La Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia a fianco dei Garanti territoriali per aprire un dialogo con le direzioni, che apra la fase 2/fase 3 nelle carceri. Riaprire al Volontariato significa riportare in carcere la funzione costituzionale della pena. Ogni giorno entrano nelle carceri migliaia di agenti e di altri operatori penitenziari, di sanitari, operatori esterni delle cooperative, non c’è motivo perché ora non riprendano a entrare, con le dovute precauzioni, anche i volontari. È urgente reintrodurre una “vita sociale” nelle carceri riportando al loro interno il Volontariato, che si impegna nei percorsi rieducativi, previsti dalla Costituzione. Si tratta semplicemente di assicurare delle corrette procedure di accesso al carcere a tutela dei volontari stessi, degli operatori e dei detenuti, tra cui l'utilizzo dei dispositivi individuali di protezione (mascherina, guanti e gel), e la rimodulazione degli orari e degli spazi. Noi volontari chiediamo di rientrare con le stesse modalità con cui, all’interno del carcere, hanno continuato a lavorare anche nella Fase 1 le cooperative sociali. Le tecnologie sono “entrate” per il virus, ora devono restare, per gli affetti ma anche per i percorsi rieducativi/risocializzanti La cosa più drammatica che potrebbe succedere nella fase 2 è che le tecnologie, entrate finalmente in carcere, ne escano appena si tornerà a un po’ di normalità ripristinando i colloqui visivi. Le tecnologie DEVONO restare in carcere: - Per gli affetti - Per le attività rieducative/risocializzanti Il Volontariato sta chiedendo ovunque l’utilizzo di piattaforme come Zoom e Meet, che cominciano a essere usate in qualche carcere (per esempio a Bergamo per la redazione, a Rebibbia e Modena per il teatro), facciamo in modo che diventi generalizzata questa pratica, e che sia monitorato l’impegno di ogni carcere a garantire l’uso delle tecnologie, eventualmente con risorse della Cassa Ammende. Le persone detenute non possono restare dei “senzatetto digitali”, se non vogliamo che il reinserimento diventi ogni giorno più difficile in una società, che le tecnologie le dovrà mettere sempre più al centro della sua vita. Un’informazione che disinforma Il Volontariato si impegna a essere molto più attivo nell’informazione, creando momenti di formazione, anche in remoto (e l’Ordine dei Giornalisti deve adeguarsi a questa nuova modalità), per i giornalisti, che poco conoscono la realtà dell’esecuzione penale e molti danni possono fare anche solo tacendo dati e cancellando pezzi di notizie significativi. Pensiamo, in proposito, di accelerare l’organizzazione del Terzo Festival della comunicazione sulle pene e sul carcere. Vogliamo contribuire con la nostra competenza a informare e sensibilizzare le persone “dentro” e la società “fuori”, bombardata da una informazione, spesso superficiale e imprecisa, e vogliamo valorizzare le esperienze di redazioni nate all’interno delle carceri, anche qui chiedendo che l’uso di Internet non sia più un tabù. Insieme, a fianco dei Garanti Nelle prossime settimane le Conferenze regionali Volontariato Giustizia si riuniranno con i Garanti territoriali perché è adesso che c’è bisogno che la società civile torni a essere presente capillarmente nelle carceri e nell’area penale esterna: questa deve essere non un’occasione per pensare di “fare da soli”, ma un’opportunità per lavorare fianco a fianco, ognuno valorizzando la sua specificità. Vogliamo tornare a portare nelle carceri le nostre idee, le nostre risorse, la nostra capacità innovativa. Misure per un rientro in sicurezza degli operatori volontari nelle carceri (sono le misure che regolano il lavoro delle cooperative che hanno continuato a operare in carcere anche nella Fase 1) 1. uso di mascherine per tutti (meglio mascherine lavabili, che non inquinano. In teoria non sono obbligatorie se tra persona e persona c'è almeno un metro di distanza, ma è preferibile renderle obbligatorie); 2. uso di guanti, o gel igienizzante per uso personale dove non si riesca a fare attività indossando i guanti; 3. presenza di dispenser con gel nei luoghi dove si svolgono le attività; 4. igienizzazione frequente dei tavoli, delle maniglie etc, di tutte le superfici/oggetti di uso comune; 5. dispenser collettivo a disposizione e responsabilizzazione per pulizie a una persona detenuta, gel per tutti gli oggetti, comprese chiavette o registratore o altro; 6. misurazione della temperatura con lo scanner termico ogni inizio attività alle persone detenute, mentre per i volontari c'è la stessa cosa fuori con il triage/dichiarazione comunque che ci si misura la temperatura a casa per chi entra in orari in cui non c'è il triage; 7. distanza di metri 1,5 tra persona e persona (sempre), con segnaposto sul tavolo o sulle sedie. È fondamentale garantire la distanza tra operatore volontario e persone detenute; 8. comunicazione alle persone detenute, scritta e sottoscritta da loro, di queste misure Rimodulare le attività: spazi, presenza di volontari All’Amministrazione chiediamo di rivedere l’uso degli spazi, potenziando in questa fase l’utilizzo delle aree verdi e delle aule scolastiche, che in estate sono state quasi sempre inutilizzate anche in passato. Non è più pensabile che l’estate aggiunga deserto al deserto delle carceri nella pandemia, è fondamentale che a partire dalla prossima estate il Volontariato e la scuola non subiscano riduzioni di orari, di attività e colloqui in presenza e da remoto. Una buona organizzazione degli incontri e dell’uso di tecnologie non dovrebbe comportare maggiori oneri per la Polizia penitenziaria. Anche per palestre, auditorium, teatri interni andrebbe programmato dove possibile un utilizzo per i percorsi rieducativi/risocializzanti, organizzati dal Volontariato. Le associazioni a loro volta potrebbero rimodulare la presenza dei loro operatori adattandola agli spazi disponibili e al numero di detenuti coinvolti, ribadendo comunque che il distanziamento fondamentale è quello tra operatori che vengono dall’esterno e persone detenute. Questa rimodulazione vogliamo condividerla con i Garanti territoriali, che hanno anche un importante ruolo di “mediazione” tra l’amministrazione penitenziaria e quella società civile, che entra in carcere con gli art. 17 e 78 e si occupa proprio di quei percorsi, che devono accompagnare le persone detenute dalla detenzione al rientro nella società. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Da inizio anno 21 detenuti suicidi. Palma: “Serve supporto psicologico aggiuntivo” Redattore Sociale, 30 maggio 2020 Le persone detenute sono oggi 52.622; le detenzioni domiciliari concesse dal 18 marzo sono 3555, di cui 1005 con braccialetto elettronico. Suicidi, il Garante: “La questione induce a una riflessione su come possa essere vissuto tale periodo in persone in cui alla precarietà di vita si sono aggiunte la vulnerabilità connessa alla privazione della libertà e quella dovuta a una collocazione isolata”. Le persone detenute sono oggi 52.622; le detenzioni domiciliari concesse dal 18 marzo sono 3555, di cui 1005 con braccialetto elettronico. Sono i dati resi noti dal Garante nazionale dei detenuti e delle persone private della libertà personale, Mauro Palma. “A questi numeri occorre purtroppo affiancare quello dei 21 suicidi registrati dall’inizio dell’anno fino a oggi - afferma il Garante -, un numero, per quanto può contare una valutazione parziale, superiore a quello degli ultimi due anni (alla stessa data di oggi erano 16 nel 2019 e 18 nel 2018). Quello che colpisce è che in ben due degli ultimi tre casi si è trattato di persone che avevano appena fatto ingresso in Istituto e, conseguentemente, erano state collocate in isolamento sanitario precauzionale”. Per Palma, “questa drammatica questione induce a una riflessione su come possa essere vissuto tale periodo in persone in cui alla frequente precarietà di vita all’esterno dell’istituzione detentiva si sono improvvisamente aggiunte l’intrinseca vulnerabilità connessa alla privazione della libertà e quella dovuta a una collocazione isolata sin dal primo traumatico momento. Il Garante nazionale è ben consapevole della necessità di tale periodo di precauzione per la tutela della salute della collettività e, in particolare, di coloro che operano o vivono all’interno della struttura dove la persona deve essere inserita. Tale consapevolezza nulla toglie, però, alla necessità che vulnerabilità aggiuntive specifiche, quale quella descritta, debbano essere affrontate con strumenti anch’essi di eccezione, come è eccezionale la situazione che li sta determinando”. Per questo Il Garante chiede che “si vada oltre l’attuazione di quel ‘protocollo anti suicidario’ predisposto in situazioni di normalità e che si preveda un aggiuntivo supporto psicologico specifico nei confronti di queste persone, pur con tutte le cautele di caso volte a tutelare la salute di chi è chiamato a operarvi. Nell’attesa di valutare con le Autorità competenti quale proposta possa essere messa in campo per affrontare questo specifico problema - in considerazione anche della dimensione numerica che esso potrebbe assumere qualora aumentassero gli ingressi in carcere - il Garante vuole porre alla considerazione la possibilità di predisporre, almeno temporaneamente, un’équipe di supporto, agendo con una logica analoga a quella che ha portato a fornire gli Istituti di un insieme di operatori socio-sanitari, reclutati con apposito urgente bando”. Sul tema del diritto all’istruzione in carcere, il Garante torna a ribadire “la necessità che l’attività di studio, dopo la brusca interruzione dello scorso marzo, sia ripresa e portata avanti negli Istituti penitenziari con le modalità a distanza previste attualmente per tutti, in modo da consentire almeno la chiusura dell’anno scolastico. Se alcune scuole nelle carceri hanno già assicurato la prosecuzione dei corsi con la Didattica a distanza (Dad), tuttavia, questa modalità è rimasta relegata a poche esperienze. Secondo un sondaggio effettuato da alcuni docenti delle scuole in carcere, solo il 20% degli Istituti ha assicurato agli studenti detenuti una qualche possibilità di non interrompere del tutto l’anno scolastico, talvolta con formule che difficilmente possono essere considerate sufficienti (una videochiamata a settimana per classe con un rappresentante della classe stessa o due ore di lezione una volta alla settimana)”. Tuttavia, In questo ambito, si segnala la positività dell’iniziativa del Ministero dell’Istruzione e della Rai, con l’apertura di una nuova “aula” per studenti iscritti ai Centri provinciali per l’istruzione degli adulti (Cpia) con il programma “La scuola in Tivù - Istruzione degli adulti”, un percorso didattico in 30 puntate rivolto ai quasi 230 mila adulti iscritti a scuola, tra i quali ci sono i 23 mila studenti in carcere. La trasmissione andrà in onda su Rai Scuola (canale 146) dal lunedì al venerdì alle ore 11 e in replica alle 16 e alle 21. Scarcerazioni, il decreto Bonafede finisce alla Corte Costituzionale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 maggio 2020 La questione sollevata dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi. Lesione del diritto della difesa e disparità di un procedimento privo di garanzie solo per gli autori di specifici reati. Il decreto “Bonafede”, quello fatto frettolosamente sull’onda emotiva dello scandalo “scarcerazione” dei circa 500 detenuti macchiati di reati mafiosi, finisce alla Corte costituzionale. A sollevare la questione alla Consulta è il magistrato di sorveglianza di Spoleto Fabio Gianfilippi tramite una ordinanza depositata martedì scorso. Il magistrato solleva due punti critici: la lesione del diritto di difesa e l’ingiustificata distinzione tra reati gravi e “meno gravi”. Partiamo dal diritto alla difesa non contemplato dal decreto Bonafede. Quest’ultimo sarebbe in contrasto con alcuni articoli della Costituzione perché non consente alla difesa di interloquire visto che si tratta di un provvedimento urgente di revoca di quello precedentemente assunto, senza nemmeno conoscere il contenuto delle note del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) che hanno determinato tale revoca. Per comprendere meglio, bisogna spiegare cosa prevede il decreto legge numero 29 del 10 maggio. L’articolo 2 prevede che quando un condannato per uno dei delitti indicati (mafia e terrorismo) è ammesso alla detenzione domiciliare o usufruisce del differimento pena per motivi connessi all’emergenza Covid-19, il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza che ha adottato tale provvedimento, acquisito il parere del procuratore distrettuale antimafia del luogo in cui è stato commesso il reato, valuta la permanenza dei motivi legati all’emergenza sanitaria entro il termine dei quindici giorni dall’adozione del provvedimento e, successivamente, con cadenza mensile. La valutazione è effettuata immediatamente, anche prima della decorrenza dei termini sopra indicati, nel caso in cui il Dap comunica la disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta adeguati alle condizioni di salute del detenuto o dell’internato ammesso alla detenzione domiciliare. In quel caso il magistrato di sorveglianza può decidere di revocare la misura e il provvedimento è immediatamente esecutivo. Ma qui c’è il problema della lesione del diritto alla difesa. Perché? Il procedimento avviene senza spazi di adeguato formale coinvolgimento della difesa tecnica dell’interessato, senza alcuna comunicazione formale dell’apertura del procedimento e con una conseguente carenza assoluta di contraddittorio, rispetto alla parte pubblica. Ma non solo. Nel decreto Bonafede non è previsto che alla difesa sia data contezza dei risultati istruttori e la stessa è privata della facoltà di confrontarsi con i contenuti delle note pervenute: non può ad esempio sapere dove il Dap ritenga che cure adeguate possano essere svolte in favore dell’assistito e in quale modo. Non può verificare se queste cure siano le stesse che i medici dell’interessato considerano efficaci e risolutive. Non può confrontarle con quelle che, in ipotesi, abbia già intrapreso durante il periodo trascorso in detenzione domiciliare. Non può, soprattutto, prendere atto dei contenuti del parere della parte pubblica, che invece ha potuto leggere l’intera istruttoria pervenuta e svolgere autonomi approfondimenti istruttori, e quindi la difesa non può fornire al magistrato di sorveglianza le proprie repliche. “L’intervento della Procura, mediante il suo parere - scrive il magistrato Fabio Gianfilippi nella sua ordinanza- ed in assenza di una piena interlocuzione con la difesa dell’interessato, appare contraddistinguere della più marcata atipicità la procedura, tanto da non aver eguali nel pur variegato panorama di modelli procedimentali, più o meno semplificati, previsti dinanzi alla magistratura di sorveglianza”. Il problema è evidente. Prima il provvedimento provvisorio di concessione prevedeva espressamente che la posizione del detenuto sarebbe stata valutata, ed eventualmente confermata, dinanzi al tribunale di sorveglianza in pieno contraddittorio delle parti. Oggi, invece, con il decreto Bonafede, una rivalutazione avviene senza che il detenuto stesso e la sua difesa abbiano preso cognizione dei contenuti istruttori raccolti e soprattutto del parere obbligatorio richiesto alla procura distrettuale antimafia, e senza aver potuto adeguatamente interloquire in modo conseguente. L’altro punto è la differenziazione di trattamento a seconda i reati. Qui si violerebbe l’articolo 3 della costituzione perché solo per alcuni autori di reato, con scelta della cui ragionevolezza dubita il giudice remittente, si prevede un procedimento meno garantito. La Corte europea, il diritto alla salute dei detenuti e il Covid-19 dirittiglobali.it, 30 maggio 2020 Tra i più recenti casi seguiti da “Strali”, con il ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani (Cedu), due riguardano il diritto alla salute delle persone detenute, con particolare riferimento al Covid. “Strali” è una associazione di giuristi, con base a Torino (www.strali.org), che lavora per promuovere la strategic litigation, la pratica di ricorrere su casi individuali quando venga leso un diritto fondamentale per l’affermazione di un principio di diritto a livello giurisprudenziale o legislativo. Tra i più recenti casi seguiti da Strali, con il ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani (Cedu), due riguardano il diritto alla salute delle persone detenute, con particolare riferimento al Covid-19. Ne parliamo con l’avvocato Emanuele Ficara, che per l’associazione segue i casi di ambito penale. Quali sono gli scopi e le attività di Strali, e le ragioni che vi hanno portati ad occuparvi di strategic litigation? I due casi relativi al carcere di Torino, che riguardano il diritto alla salute in tempi di covid19, sono un buon esempio di cosa sia la strategic litigation. È una pratica di ricorso su singoli casi, mirata all’affermazione di diritti fondamentali, nata nei paesi di common law in quanto in quei sistemi il precedente diventa vincolante per tutti i casi successivi. Da noi, che siamo un paese di civil law, dove questo meccanismo non si applica, la pratica della litigation è poco nota e praticata nelle aule giudiziarie. Certo è che anche in Italia, sempre più di frequente, le sentenze del “giudice superiore” vengono prese in considerazione nella pratica come fossero precedenti vincolanti, quindi anche in Italia la pratica della strategic litigation può sicuramente avere un ruolo, anche per l’affermazione di principi a livello sovranazionale. Noi siamo la prima associazione che nasce con questo specifico scopo, nel 2018: lavoriamo per promuovere ricorsi su singoli casi, ma anche per informare su questa pratica, dato che ancora in Italia se ne parla poco. In un anno e mezzo siamo cresciuti, fino a 20 membri attivi, inclusi consulenti di diverse discipline. Operiamo in ambiti diversi, penale, dell’immigrazione, dell’ambiente e civile, con attenzione al lavoro. Puoi descrivere i due casi relativi a persone detenute nel carcere torinese Lorusso e Cutugno che avete portato davanti alla Corte Europea dei Diritti Umani e le ragioni che vi hanno spinto a pensare che questo ricorso avrebbe portato a dei risultati? Sono due casi parzialmente diversi, anche se entrambi riguardano il diritto alla salute e le condizioni delle persone detenute in relazione al Covid-19. Il primo riguarda una persona detenuta che ha contratto il Covid a inizio aprile: una relazione della direzione sanitaria del carcere spiegava con chiarezza che non si sarebbe potuta garantire la sopravvivenza del detenuto se i sintomi si fossero aggravati, e quindi la stessa direzione sanitaria aveva inviato alla magistratura di Sorveglianza una richiesta di scarcerazione. Questa richiesta era molto chiara, diceva che se le condizioni si fossero aggravate, la struttura non avrebbe potuto garantire la vita del detenuto, dunque, un parere molto pregnante. C’è stato il rigetto dell’istanza da parte del magistrato, e avrebbe quindi dovuto decidere il Tribunale. Dopo un mese di silenzio, non essendoci reali vincoli di tempo per la decisione per la legge italiana anche se si trattava senza dubbio di un caso di emergenza, abbiamo pensato che le vie interne non avrebbero tutelato la persona e che fosse pertanto legittimo e necessario ricorrere alla Cedu. Quando è a rischio la vita, una dilatazione dei tempi non è accettabile. Questo primo caso nel concreto si è risolto bene, perché la persona, pur tra momenti di picco della malattia, alla fine è guarita, e dunque il procedimento si è concluso, essendone venuti meno i presupposti. In ogni caso, è interessante l’esito, perché la Cedu ha richiesto al governo notizie certe sullo stato di salute della persona, e informazioni dettagliate sulle misure adottate per la tutela della sua salute. La risposta è stata del tutto generica, anche perché, stante la guarigione, il governo sapeva che il ricorso non sarebbe andato avanti. Tuttavia, abbiamo ancora la possibilità di presentare alla Cedu un ricorso in via principale, cioè far valere comunque l’inefficacia delle misure preventive adottate. All’articolo 2 della Convenzione, infatti, si aggiunge l’articolo 3, che tutela le persone contro i trattamenti disumani e degradanti, e c’è giurisprudenza della Corte che qualifica come degradante e disumano il trattamento di una persona detenuta in carcere non adeguatamente curata: la mancata tutela della salute è considerata un trattamento disumano. Dunque, oggi stiamo lavorando per vedere riaffermato dalla Corte questo principio di giustizia. Il secondo caso riguarda sempre il carcere di Torino, dicevi però che è una situazione diversa... Sì, riguarda una persona di 70 anni detenuta nel carcere di Torino, con patologie pregresse molto gravi, anche di tipo cardiaco, per le quali il Covid-19 rappresenta un pericolo per la vita, come dice chiaramente anche l’OMS. Dunque, una situazione ad alto rischio, sia per la mancanza di misure contro il contagio, sia per il numero di persone che in quel carcere hanno contratto il Covid, nonché per il grado elevato di sovraffollamento del carcere di Torino, che è circa del 135%. In questo caso era stata presentata istanza di scarcerazione, con numerosi solleciti rimasti senza risposta; i tempi di trasmissione alla Sorveglianza della cartella clinica sono stati lunghissimi, è seguito più di un mese di silenzio da parte del magistrato e così abbiamo nuovamente deciso di procedere rivolgendoci alla Cedu, sempre in base agli articoli 2 e 3 della Convenzione, per mancata tutela della salute: non gli era stato nemmeno consegnato alcun dispositivo di protezione se non mezzo bicchiere di disinfettante! Mi sembra che in questo caso ci sia stato anche un problema di burocrazia e difficoltà di accesso alla documentazione, è così? Sì, accedere alla cartella clinica è stato faticoso, ma anche nei fascicoli della magistratura di Sorveglianza, dove si dovrebbero trovare tutte le informazioni sulla salute, si registra invece una grave carenza documentale e i dati ufficiali sulla situazione interna del carcere e relativa gestione dell’emergenza sono una chimera. Anche per questo siamo andati avanti con il ricorso: la Corte già solo tramite le sue richieste produce un effetto diretto, obbligando il Governo a rendere noti dati e protocolli gestionali. La Corte ha risposto in tempi record, praticamente dopo meno di 24 ore già avevamo un riscontro e la richiesta al Governo non solo sullo stato di salute della persona, quanto sul contesto, le misure di prevenzione adottate, il numero di contagiati sia tra i detenuti che tra il personale, che può a sua volta veicolare il virus, anche perché le mascherine sono una rarità, per non dire dei tamponi; e questo approfondimento sul contesto per noi è importante, per avere qualcosa che valga poi un po’ per tutti e che possa essere reso pubblico. Il procedimento è in corso, la Corte attualmente ha deciso di non adottare la misura provvisoria in quanto, proprio a seguito del ricorso, il Governo ha sollecitato e ottenuto la fissazione dell’udienza avanti il Tribunale di Sorveglianza, così che la Corte di fatto demandasse nuovamente la questione ai Giudici interni, i quali però sin qui erano rimasti fermi. Quali sono le vostre aspettative circa le ricadute dell’intervento del Cedu, soprattutto su questo secondo caso? E che ricadute può avere un esito positivo più in generale sul diritto alla salute e la gestione del Covid-19 in ambito penitenziario? Innanzitutto, sarebbe già importante avere delle risposte chiare sulla gestione della pandemia in carcere, dove invece a mancare sono state sia la trasparenza sia l’efficacia: proprio per questo, infatti, abbiamo potuto ottenere una risposta dalla Corte europea. A livello di procedura, generalmente la Corte per reprimere la violazione dei diritti della Convenzione manda al Governo un monito per l’adozione di alcune misure; in questo caso poteva essere la scarcerazione, mettendo la persona ai domiciliari, per esempio, o comunque in un luogo sicuro, a minor rischio contagio. Si tratta di direttive, non di semplici raccomandazioni, che però di solito hanno un periodo di esecuzione molto lungo e sono anche spesso farraginose. Nell’ambito del Consiglio d’Europa c’è il Comitato dei ministri che si occupa di vigilare sull’esecuzione dei provvedimenti della Cedu, l’Italia ha aderito alla Convenzione ed è tenuta a rispettarla. Tornando al caso, l’adozione della Corte di una misura provvisoria non è certamente facile, però penso che siamo sulla buona strada, anche perché le domande poste al Governo riguardano la gestione dell’emergenza sanitaria in tutto il carcere di Torino, non solo verso un singolo, e questo dimostra un reale interesse della Corte alla problematica. Del resto, sappiamo che in questi due mesi alla Corte sono pervenuti da altri paesi molti ricorsi nel merito della condizione detentiva e della gestione Covid in ambito penitenziario e noi stessi stiamo lavorando anche su un terzo caso relativo al carcere di Torino, dello stesso tipo del secondo e anche qui la Corte ha richiesto ulteriori e ancora più dettagliate informazioni al Governo. Speriamo anche in questo caso di poter fornire ulteriori notizie ancora più dettagliate. Quale può essere a tuo avviso il valore e la spendibilità della litigation e del ruolo della Cedu per quanto attiene la difesa e l’esigibilità del diritto alla salute di chi è detenuto/a? La prima cosa è la trasparenza, la Cedu rende il più possibile garantito l’accesso dei ricorrenti alla documentazione, il “rischio” di finire sotto osservazione della Corte può spingere i governi a essere maggiormente trasparenti e loro volta il governo, che deve rispondere, mette in moto un processo di trasparenza presso tutti gli enti coinvolti, fino al singolo carcere. Naturalmente, durante il procedimento la documentazione è riservata, ma poi le sentenze sono pubblicate e lì si trovano tutte le informazioni. Sono una fonte davvero interessante per capire come i vari paesi concretamente gestiscono le problematiche relative ai diritti umani. Nel merito, poi, la Corte può indicare provvedimenti concreti da adottare, perché le norme e i protocolli europei sui diritti umani devono essere comunque rispettati. Il fine della litigation in questi casi mira proprio, attraverso la proposizione del ricorso, ad adeguare il diritto interno agli standard europei. Di litigation si sente parlare più in ambito anglosassone o nordeuropeo, molto meno in Italia. Perché è più difficile promuovere questo approccio da noi? Ci sono ragioni di contesto giuridico o è anche una questione culturale? Le ragioni sono molte. La prima è quella accennata prima, la differenza tra common law e civil law, nel primo caso i ricorsi e le relative sentenze hanno un effetto più concreto perché il precedente ha impatto immediato sulle cause seguenti; da noi questa ricaduta è più debole, anche se, come detto, le sentenze dei giudici superiori sempre più diventano legge, pensiamo al ruolo della Cassazione. Allora questo va a favore di una cultura della litigation, perché avere sentenze e precedenti di un certo tipo può davvero cambiare le cose. Il processo è però lento, anche perché quest’approccio non è ben conosciuto tra i giudici e gli avvocati. Fare strategic litigation, inoltre, non è una strada semplice, implica tempo, tra tutti i gradi di giudizio, e risorse, e molti clienti non se lo possono permettere; un singolo avvocato, da solo, fa fatica. Spesso poi interessi contingenti di udienza, pensiamo per esempio al patteggiamento, scoraggiano dal procedere. Anche per questo è nata Strali: per dare consulenza, per affiancare e sostenere gli avvocati e i clienti che vogliano intraprendere la via della difesa dei propri diritti. E anche per informare tutti che questa via esiste ed è praticabile: per questo siamo in contatto con diverse associazioni attive nell’ambito della tutela dei diritti e ci impegniamo quotidianamente attraverso un’attività di comunicazione capillare, ad esempio tramite i nostri canali social, per raggiungere l’opinione pubblica. Papa Francesco ha incontrato la nostra Barbara: una storia bellissima, contro ogni stereotipo di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 30 maggio 2020 È una storia romantica e bellissima, con due protagonisti accomunati dall’aver saputo rompere ogni stereotipo. Barbara, detenuta nel carcere romano femminile di Rebibbia e calciatrice della società Atletico Diritti, è stata ricevuta da Papa Francesco. Si è presentata con addosso la maglia della squadra, gli ha portato in dono un gagliardetto, gli ha letto una sua poesia e lui l’ha paragonata a Trilussa. L’occasione è stata data dalla presentazione dell’iniziativa ‘We run together’, volta a raccogliere fondi per alcuni ospedali strategici nell’emergenza Covid-19. Atletico Diritti è una società polisportiva di cui mi onoro di essere presidente. Copre il calcio, la pallacanestro e il cricket. È stata fondata nel 2014 dalla mia associazione, Antigone, insieme all’associazione Progetto Diritti e con il sostegno dell’Università Roma Tre. Nelle nostre squadre, tutte iscritte a tornei ufficiali federali tranne una, giocano persone detenute o ex detenute, ragazzi migranti e richiedenti asilo, studenti universitari. Un luogo di contaminazione, dove si mischiano esperienze diverse, dove si impara che esistono prospettive che non si sarebbero mai immaginate prima, dove la solidarietà passa facilmente da dentro a fuori il campo da gioco. “Finalmente si parte”, racconta Barbara nel suo diario di quella mattina in Vaticano. “Io mi aspettavo la macchina di servizio, ma non è stato così, e la mia emozione saliva sia perché ero stata scelta per rappresentare la squadra, ma soprattutto perché in quella macchina con la mia ‘scorta’ mi sono sentita non una detenuta, ma una giocatrice di calcio a 5 che andava in udienza dal Papa, e questo grazie anche a chi era con me, che mi ha trattato benissimo e con assoluto rispetto e professionalità: mi hanno dato fiducia lasciandomi spazio, e io ho cercato di dare il meglio di me e ricambiare il rispetto”. La sola squadra di Atletico Diritti che non disputa un torneo federale è anche l’unica che gioca interamente dentro un carcere: la squadra di calcio a cinque femminile di Rebibbia. Il campo del carcere non è a norma per gli standard della Figc e dunque le ragazze, fino all’inizio dell’emergenza sanitaria, hanno disputato un torneo Csi, con il permesso di giocare tutte le partite in casa. L’alchimia tra l’entusiasmo della nostra società, la bravura delle nostre allenatrici e la stupenda gestione del carcere, caratterizzata da tempo da direzioni eccezionali e da operatori aperti e intelligenti, ha dato il massimo: il calcetto là dentro è diventato il simbolo della rottura di un modello, dello stereotipo femminile della detenzione, dell’idea della donna detenuta piangente con un qualche uomo che aspetta all’esterno e incapace di prendere in mano la propria vita. “Se possiamo migliorare in un campo da gioco allora possiamo farlo anche fuori”, è lo slogan di Barbara e delle altre ragazze. “Più ci avvicinavamo a San Pietro più l’emozione saliva, non facevo che pensare a cosa avrei detto al Santo Padre, come mi sarei rapportata a lui, quali fossero le parole da usare in sua presenza, cosa lui mi avrebbe chiesto”. La trafila per entrare in Vaticano, una stanza, poi un’altra stanza, poi un’altra ancora. “ Eccolo, è lui, il Papa che si avvicina a noi e tutto fa tranne quello che ci avevano detto”. Qualcuno può mai sorprendersi di questo? Ha mai fatto, Papa Francesco, quello che ci si aspettava da lui? “Non segue nessuna etichetta né protocollo, fa ciò che si sente di fare e con molta tranquillità e semplicità”. Parla con Barbara, la ringrazia di essere venuta, lei gli dice di aver scritto una poesia per l’occasione, lui risponde che sarebbe felice di ascoltarla. Papa Francesco in questi anni è stato la guida politica e spirituale più forte che il mondo abbia avuto. Lo è stato rompendo ogni schema precedente, mettendo in difficoltà gerarchie vaticane paludate, trascorrendo nel carcere minorile di Casal del Marmo il primo giovedì santo del suo pontificato, sostenendo i centri di accoglienza per migranti, mandando il proprio elemosiniere a riallacciare la luce di uno stabile occupato, dando parola al carcere davanti a tutto il mondo in una incredibile Via Crucis. Non è stato e non sarà mai un Papa. Sarà solo e sempre Papa Francesco, un unicum di una storia millenaria. Nella loro storia personale, Barbara e le altre ragazze di Atletico Diritti hanno portato avanti un’analoga rivoluzione. Se il carcere vive di stereotipi, ciò è forse ancor più vero per il carcere femminile e per quel grande etichettamento che viene dato dal mondo esterno a ogni donna che con la commissione del reato non ha risposto alle aspettative che l’intera società aveva su di lei. Nelle carceri femminili si organizzano sostanzialmente attività considerate femminili (la cucina, la sartoria…). Nelle carceri femminili non era mai accaduto che un gruppo di donne sentisse di star riprendendo in mano la propria vita attraverso il calcio. “Letta la mia poesia il Santo Padre mi sorride, si alza dalla sua poltrona e mi ringrazia con tanta commozione facendomi molti complimenti e paragonandomi a Trilussa, che tra l’altro è il mio preferito!”. Dai Barbara, tira in porta! *Coordinatrice associazione Antigone L’altolà di Mattarella sul Csm di Giulia Merlo Il Dubbio, 30 maggio 2020 “Sconcerto e riprovazione per la degenerazione delle correnti La riforma resta urgente ma spetta a governo e Parlamento”. Non accenna a spegnersi il fuoco delle polemiche che ormai circonda il Csm. Dopo giorni di furiosi botta e risposta sia sul fronte politico che della magistratura e lenzuolate di intercettazioni date in pasto alla stampa, a bloccare la trottola interviene il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Il capo dello Stato, dopo essere stato a tratti invocato e a tratti tirato in ballo dalle forze politiche, rompe il silenzio con una durissima nota, che silenzia gli strepiti di tutte le parti in causa, ricordando ad ognuno i propri doveri stabiliti dalla Costituzione. “Il Presidente della Repubblica ha già espresso a suo tempo, con fermezza, nella sede propria - il Consiglio Superiore della Magistratura - il grave sconcerto e la riprovazione per quanto emerso, non appena è apparsa in tutta la sua evidenza la degenerazione del sistema correntizio e l’inammissibile commistione fra politici e magistrati”. Basta la prima frase per comprendere lo stato di irritazione del Quirinale, espresso in modo esplicito dopo le notizie trapelate negli ultimi giorni. Mattarella prosegue ricordando come, allo scoppio del Caso Palamara, la Presidenza della Repubblica fosse intervenuta per chiedere alla politica e alla magistratura di assumersi le rispettive responsabilità, sollecitando “modifiche normative di legge e di regolamenti interni per impedire un costume inaccettabile quale quello che si è manifestato, augurandosi che il Parlamento provvedesse ad approvare una adeguata legge di riforma delle regole di formazione del CSM”. Un auspicio, questo, che è rimasto lettera morta davanti alle titubanze della politica a riformare l’organo di autogoverno della magistratura e all’irrigidimento della magistratura stessa, che ha levato gli scudi rispetto a ingerenze esterne e non ha provveduto a mettere in atto cambiamenti sostanziali. Mattarella, inoltre, non rinuncia a bacchettare in modo fermo anche la stessa politica e indirettamente il leader della Lega, Matteo Salvini. Nei giorni scorsi il capo del Carroccio aveva prima chiesto un intervento del Colle dopo la pubblicazione delle intercettazioni di Palamara che lo attaccava; poi aveva a sua volta attaccato l’ex presidente del Csm, Giovanni Legnini (che avrebbe interloquito con alcuni magistrati in merito all’inchiesta del caso Diciotti) e chiesto lo scioglimento del Csm. La risposta di Mattarella è arrivata chiara quanto severa: “Per quanto superfluo va, peraltro, chiarito che il Presidente della Repubblica si muove - e deve muoversi nell’ambito dei compiti e secondo le regole previste dalla Costituzione e dalla legge e non può sciogliere il Consiglio Superiore della Magistratura in base a una propria valutazione discrezionale”. Inoltre, “Per quanto attiene alla richiesta che il Presidente della Repubblica si esprima sul contenuto di affermazioni fatte da singoli magistrati contro esponenti politici va ricordato che, per quanto gravi e inaccettabili possano essere considerate, sull’intera vicenda sono in corso un procedimento penale e diversi procedimenti disciplinari e qualunque valutazione da parte del Presidente della Repubblica potrebbe essere strumentalmente interpretata come una pressione su chi è chiamato a giudicare”, invece “la giustizia deve fare il suo corso attraverso gli organi e secondo le regole indicate dalla Costituzione e dalle leggi”. Da più parti inoltre, era arrivata anche la richiesta di un messaggio alle Camere, per sollecitare la riforma del Csm. Anche su questo fronte, però, il Presidente ha ristabilito le rispettive responsabilità: “Se i partiti politici e i gruppi parlamentari sono favorevoli a un Csm formato in base a criteri nuovi e diversi, è necessario che predispongano e approvino in Parlamento una legge che lo preveda: questo compito non è affidato dalla Costituzione al Presidente della Repubblica ma al Governo e al Parlamento”. Insomma, la responsabilità dell’iniziativa non spetta certo al Colle e anzi, “risulterebbe, peraltro, improprio un messaggio del Presidente della Repubblica al Parlamento per sollecitare iniziative legislative annunciate come imminenti”. La conclusione, infine, è l’ultima stoccata del Colle all’irritualità di molti degli interventi di questi giorni: “In merito alle vicende che hanno interessato la Magistratura, il Presidente della Repubblica, come ha già fatto in passato, tornerà a esprimersi nelle occasioni e nelle sedi a ciò destinate, rimanendo estraneo a dibattiti tra le forze politiche e senza essere coinvolto in interpretazioni di singoli fatti”. La nota del Quirinale è stata accolta dal Pd come “un punto fermo, di chiarezza e rigore costituzionale, sulle speculazioni e le improvvisazioni sul tema della Giustizia e del ruolo del Csm”, ha detto il responsabile Giustizia Walter Verini, aggiungendo che “sarebbe necessario un impegno leale e forte di tutte le forze politiche, facendola finita con polemiche e strumentalizzazioni di basso profilo”. A distanza è arrivata la risposta anche di Matteo Salvini: “Daremo il nostro contributo con impegno e serietà: è l’ora di riformare la giustizia e noi siamo pronti. Accogliamo l’appello del Presidente della Repubblica”. Ora che il Colle ha smontato tutti gli alibi, la realtà dei fatti si incaricherà di scrivere il finale di una tra le più brutte pagine della storia recente. Mattarella: “Grave sconcerto e riprovazione, ma non posso sciogliere il Csm” Il Dubbio, 30 maggio 2020 La nota del Quirinale: “Se i partiti vogliono un Csm diverso devono proporre una legge”. “In riferimento alle vicende inerenti al mondo giudiziario, assunte in questi giorni a tema di contesa politica, il Presidente della Repubblica ha già espresso a suo tempo, con fermezza, nella sede propria - il Consiglio Superiore della Magistratura - il grave sconcerto e la riprovazione per quanto emerso, non appena è apparsa in tutta la sua evidenza la degenerazione del sistema correntizio e l’inammissibile commistione fra politici e magistrati”. È quanto si legge in una nota diffusa dal Quirinale sullo scandalo Csm, a seguito della pubblicazione delle chat tra l’ex presidente ed ex componente del Consiglio superiore della magistratura Luca Palamara e molti colleghi magistrati. “Il Presidente della Repubblica ha, in quella stessa sede, sollecitato modifiche normative di legge e di regolamenti interni per impedire un costume inaccettabile quale quello che si è manifestato, augurandosi che il Parlamento provvedesse ad approvare una adeguata legge di riforma delle regole di formazione del Csm - prosegue la nota. Una riforma che contribuisca - unitamente al fondamentale e decisivo piano dei comportamenti individuali - a restituire appieno all’Ordine Giudiziario il prestigio e la credibilità incrinati da quanto appare, salvaguardando l’indispensabile valore dell’indipendenza della Magistratura, principio base della nostra Costituzione”. Per quanto superfluo, “va, peraltro, chiarito che il Presidente della Repubblica si muove - e deve muoversi - nell’ambito dei compiti e secondo le regole previste dalla Costituzione e dalla legge e non può sciogliere il Consiglio Superiore della Magistratura in base a una propria valutazione discrezionale. ?Il Csm, a norma della Costituzione, conclude il suo mandato dopo quattro anni dalla sua elezione e può essere sciolto in anticipo soltanto in presenza di una oggettiva impossibilità di funzionamento, condizione che si realizza, in particolare, ove venga meno il numero legale dei suoi componenti. Qualora ciò avvenisse il Presidente della Repubblica sarebbe obbligato dai suoi doveri costituzionali a convocare, entro un mese, nuove elezioni dell’intero organo, ovviamente secondo le regole vigenti per la sua formazione”. L’attuale Csm, rinnovatosi in parte nella sua composizione, “non si trova in questa condizione ed è impegnato nello svolgimento della sua attività istituzionale.? Se i partiti politici e i gruppi parlamentari sono favorevoli a un Consiglio Superiore della Magistratura formato in base a criteri nuovi e diversi, è necessario che predispongano e approvino in Parlamento una legge che lo preveda: questo compito non è affidato dalla Costituzione al Presidente della Repubblica ma al Governo e al Parlamento. ?Governo e Gruppi parlamentari hanno annunziato iniziative in tal senso e il Presidente della Repubblica auspica che si approdi in tempi brevi a una nuova normativa. Risulterebbe, peraltro, improprio un messaggio del Presidente della Repubblica al Parlamento per sollecitare iniziative legislative annunciate come imminenti. Al Presidente della Repubblica competerà valutare la conformità a Costituzione di quanto deliberato al termine dell’iter legislativo, nell’ambito e nei limiti previsti per la promulgazione”. Per quanto riguarda la richiesta formulata, in particolare, dal leader della Lega Matteo Salvini affinché il Presidente della Repubblica si esprima sul contenuto di affermazioni fatte da singoli magistrati contro esponenti politici, “va ricordato che, per quanto gravi e inaccettabili possano essere considerate, sull’intera vicenda sono in corso un procedimento penale e diversi procedimenti disciplinari e qualunque valutazione da parte del Presidente della Repubblica potrebbe essere strumentalmente interpretata come una pressione del Quirinale su chi è chiamato a giudicare in sede penale o in sede disciplinare: la giustizia deve fare il suo corso attraverso gli organi e secondo le regole indicate dalla Costituzione e dalle leggi - continua la nota del Quirinale. È appena il caso di ricordare, infine, che un eventuale scioglimento del Consiglio Superiore della Magistratura comporterebbe un rallentamento, dai tempi imprevedibili, dei procedimenti disciplinari in corso nei confronti dei magistrati incolpati dei comportamenti resi noti, mettendone concretamente a rischio la tempestiva conclusione nei termini previsti dalla legge.?? In merito alle vicende che hanno interessato la Magistratura, il Presidente della Repubblica, come ha già fatto in passato, tornerà a esprimersi nelle occasioni e nelle sedi a ciò destinate, rimanendo estraneo a dibattiti tra le forze politiche e senza essere coinvolto in interpretazioni di singoli fatti, oggetto del libero confronto politico e giornalistico”. “Gravi commistioni tra politici e toghe”. Ma il Quirinale non scioglie il Csm di Concetto Vecchio La Repubblica, 30 maggio 2020 Le polemiche per gli sviluppi dell’inchiesta su Palamara spingono il Colle a stilare una nota: “Serve subito una riforma dell’organo”. “Grave sconcerto e riprovazione per quanto emerso”, ovvero “la degenerazione del sistema correntizio e l’inammissibile commistione fra politici e magistrati”, ma no allo scioglimento del Csm, perché sarebbe “una valutazione discrezionale”. Ora urge tuttavia una riforma dell’autogoverno della magistratura, che il ministro della giustizia, Alfonso Bonafede, e il Parlamento si devono affrettare a varare. Tirato per la giacca dal centrodestra, Lega in testa, che gli chiedeva da giorni un intervento sul Consiglio superiore della magistratura - dopo la pubblicazione delle chat dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara - il presidente della Repubblica Sergio Mattarella risponde con una nota scritta. Vi spiega tre cose. Primo. Non ci sono le condizioni per sciogliere il Consiglio, come richiesto ancora ieri da Matteo Salvini: “può essere sciolto in anticipo soltanto in presenza di una oggettiva impossibilità di funzionamento, condizione che si realizza se viene meno il numero legale dei presenti”. Non è questo il caso. Il Csm, che scade nel 2022, è pienamente funzionante “impegnato nello svolgimento della sua attività istituzionale”. Secondo. Il Capo dello Stato non è intervenuto finora nel merito del caso Palamara, perché sono in corso “un procedimento penale e diversi procedimenti disciplinari”. E “qualunque valutazione da parte del Presidente della Repubblica potrebbe essere strumentalmente interpretata come una pressione su chi è chiamato a giudicare in sede penale o in sede disciplinare”. Palamara è da un anno sospeso dalle funzioni di magistrato e dallo stipendio. Il procedimento nei suoi confronti e di altri cinque ex consiglieri è in corso. Ogni intervento avrebbe il sapore di un’interferenza. Terzo. Mattarella ha ricordato che il presidente del Csm parla nelle sedi proprie. Lui lo ha fatto un anno fa, il 21 giugno 2019. Il caso Palamara - l’inchiesta sull’attività indebita nelle promozioni dei magistrati - era appena scoppiata e Mattarella denunciò il “quadro sconcertante” emerso dalle carte. In quella cornice invitò a fare le riforme. Parole inascoltate. Un anno dopo il cambiamento non c’è ancora. Pertanto le ripete di nuovo, auspicando “una riforma che contribuisca - unitamente al fondamentale e decisivo piano dei comportamenti individuali - a restituire appieno all’ordine giudiziario il prestigio e la credibilità incrinati”. Soltanto l’altro giorno la maggioranza giallorossa ha trovato in un vertice in via Arenula un accordo, che dovrà andare in consiglio dei ministri, sulla modalità di elezione con la quale le 9.500 toghe dovrebbero eleggere i componenti del loro parlamentino: ballottaggio col doppio turno. Riformare il Csm spetta al Parlamento, ricorda il Quirinale. Ieri l’ex ministro della giustizia Giovanni Maria Flick, sul Foglio, aveva auspicato un messaggio del Capo dello Stato al Parlamento. “Un messaggio risulterebbe improprio per sollecitare iniziative legislative annunciate come imminenti”, scrive il Capo dello Stato. E fa notare, ai fautori dell’azzeramento, che lo scioglimento del Csm provocherebbe un rallentamento “dai tempi imprevedibili dei procedimenti disciplinari in corso nei confronti dei magistrati incolpati”. Insomma, ci sono più messaggi: al centrodestra, ma anche al Parlamento e al governo. La bussola del capo dello Stato, ricorda Mattarella, è la Costituzione. L’intervento è stato apprezzato dal centrodestra. A Salvini è piaciuto il riferimento “allo sconcerto e alla riprovazione”. Annamaria Bernini (Forza Italia) l’ha definito “costituzionalmente impeccabile”. “Ancora una volta il Presidente ci indica una strada, che è quella migliore: se le forze politiche hanno qualcosa da dire hanno la possibilità di fare una riforma”, ha commentato il ministro Bonafede. Casellati: “Serve una riforma della giustizia, in gioco lo stato di diritto” di Paola Di Caro Corriere della Sera, 30 maggio 2020 La presidente del Senato: “Basta Dpcm, il Parlamento decida sulle libertà personali”. “Aiuti Ue? Soldi subito o sono inutili”. “Lo smart-working non ricacci le donne a casa”. Chiede un ruolo per le opposizioni. Dice basta all’abuso di strumenti straordinari come i decreti del presidente del Consiglio. Avverte: o i soldi dell’Europa arrivano subito, o rischiano di essere inutili. E lancia l’allarme: “Sulla giustizia è in gioco lo stato di diritto”. Nel momento chiave del passaggio dalla Fase 2 al nuovo inizio, è un intervento a tutto campo quello di Maria Elisabetta Casellati, presidente del Senato. Il 3 giugno l’Italia “riapre”: il Paese arriva preparato alla ripartenza o si poteva e doveva fare di più? “Come donna ho imparato che nella vita si può fare sempre di più e meglio. Ci troviamo di fronte ad un Paese stremato e che ha paura. Tre mesi di epidemia e di isolamento domiciliare lo hanno messo in ginocchio. Noi dobbiamo aiutarlo. Sulla ripresa economica pesano ancora troppi interrogativi con un “tira e molla” di risposte che non possiamo permetterci. Serve chiarezza, rapidità ed efficacia. Aprire subito ed in sicurezza tutte le attività economiche. Mettere soldi in tasca agli italiani, sostenendo soprattutto le famiglie e i cittadini che non hanno un reddito fisso”. Lei ha denunciato l’uso troppo massiccio dei Dpcm: difesa delle prerogative parlamentari per ragioni istituzionali o il rischio è un altro? “Il Dpcm è un provvedimento unilaterale del governo, calato dall’alto senza alcun voto del Parlamento. È oggettivamente pericoloso per la democrazia, anche se mi sembra che il governo lo abbia capito. Se così non fosse, sarebbe grave perché può rappresentare un rischioso precedente, soprattutto quando si tratta di diritti fondamentali, come la libera circolazione e l’iniziativa economica. Il ruolo delle Istituzioni è quello di vigilare sull’attività di governo. Ciò che è precluso dal Dpcm. Il Parlamento è per sua natura il luogo dove ci si confronta, si dibatte e si vota. È la voce dei cittadini perché, coinvolgendo tutte le forze politiche, raccoglie le istanze di persone, categorie, territori. E nessuna emergenza può fare venire meno la sua centralità, specie quando si toccano le libertà personali”. Anche per questo il centrodestra chiede di partecipare alla Fase 2: lo auspica anche lei? “Certamente. È necessario che in una pandemia, come in guerra, i popoli siano uniti sotto la stessa bandiera: la difesa della vita personale ed economica. Purtroppo questo non è ancora accaduto. Non si può costruire il futuro del Paese a colpi di Dpcm e decreti legge blindati da voti di fiducia. È inaccettabile che di fronte a un dramma che ha provocato oltre trentamila morti e portato l’Italia in recessione le ragioni della contrapposizione prevalgano su quelle del confronto”. Intanto l’Europa sembra disponibile ad aiuti massicci all’Italia, dal Mes al Recovery Fund: che ne pensa? “In questa settimana abbiamo avuto una buona e una cattiva notizia. La buona notizia è la proposta che vede l’Italia in una posizione rilevante in ordine all’assegnazione dei fondi europei per la ripresa economica. La cattiva notizia è che la proposta ancora deve essere discussa ed approvata nelle sedi competenti. Mi auguro che la decisione ne confermi i contenuti e che arrivi subito. È evidente che il tempo è un fattore decisivo per salvare l’economia. Perché se i soldi non arrivano adesso nelle tasche degli italiani, un’operazione pur conveniente rischia di rivelarsi inutile”. Con quale criterio spendere i fondi che saranno comunque ingenti, perché non sia un’occasione sprecata? “Le dico una cosa. Ero il 1° maggio al Ponte Morandi e ho capito perfettamente come funziona il “modello Genova” di sviluppo economico: occorre investire i soldi che arriveranno in progetti strategici per costruire in sicurezza case, ponti, scuole, ospedali, strade, liberandoli da tutte le pastoie burocratiche e facendo assumere a ciascuno le responsabilità del fare. Gli italiani vogliono lavorare e progettare la crescita con aiuti che producano occupazione. Non servono misure assistenziali a pioggia che creano l’illusione di un benessere che non esiste. Ricordiamoci sempre, come dicevano i fratelli Taviani, che gli italiani sono i figli dei figli dei figli di Leonardo, di Michelangelo e di Raffaello”. Uno dei problemi più in vista della ripresa è la scuola... “Sono molto preoccupata. I bambini e i ragazzi sono stati gli invisibili di questa pandemia. Occupiamoci di loro. Scuole aperte. Tutti in classe in sicurezza da settembre. La scuola non è solo didattica, è socialità. È il luogo dove i giovani si confrontano e parlano della loro vita. La scuola non può essere appaltata alle famiglie che hanno avuto il peso maggiore di questa chiusura. Penso alle donne che hanno raddoppiato il carico di lavoro tra professione, casa, figli e anziani”. Lo smart-working è una soluzione? “Attenzione a vedere una soluzione nello smart-working, il lavoro agile, che rischia di essere un “falso amico” per le donne. Non vorrei che questo strumento, opportuno in una situazione straordinaria, diventi una copertura per ricacciare le donne a casa, portando indietro di 50 anni le lancette dell’orologio dell’emancipazione femminile. Non può, non deve e non lo lasceremo succedere. Le donne hanno già dimostrato la loro capacità di resistenza con manifestazioni di piazza. E ricordiamoci che quando le donne si arrabbiano diventano pericolose”. Nel frattempo è polemica violenta sulla giustizia, con il Csm oggetto di scontri censurati anche dal capo dello Stato: va riformato? “Sì. Ho posto per prima il problema della necessità di un intervento chiaro e definitivo sui problemi in campo. Vedo con piacere che oggi sono al centro dell’attenzione. È chiaro ormai a tutti che non esiste solo il problema Palamara, le cui responsabilità saranno valutate, ma esiste il problema della giustizia italiana. La politica deve fare la sua parte con riforme strutturali, coraggiose e autonome, così come il Csm non può più lasciare margini di opacità. Ho fatto parte del Csm dal 2014 al gennaio del 2018 e queste sono state le mie battaglie. Ho sempre affermato che la giustizia, compreso il Csm, va rivista e riformata: sorteggio dei membri togati del Csm, non obbligatorietà dell’azione penale, separazione delle carriere, divieto di porte girevoli dalla magistratura alla politica e viceversa etc. L’ho detto e lo dico pensando alla maggior parte dei magistrati che stanno scoprendo in questi giorni un suk delle nomine e sono sbalorditi dall’abbassamento della loro credibilità nei confronti dei cittadini spesso inermi di fronte allo strapotere delle correnti. È in gioco il nostro stato di diritto”. Ermini rivendica: “Rinnovamento del Csm già avviato”. E Bonafede lavora alla riforma di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 30 maggio 2020 Nelle nuove conversazioni di Palamara non ci sono riferimenti al lavoro dell’attuale Consiglio. Governo e maggioranza d’accordo su sistema elettorale e nuove regole. Come quelle pronunciate undici mesi fa nell’aula del plenum, le parole del capo dello Stato rappresentano uno sprone per il Consiglio superiore della magistratura. Non più a voltare pagina, come disse Mattarella il 21 giugno 2019, ché quello a palazzo dei Marescialli ritengono di averlo già fatto, bensì a continuare a scriverne di nuove. “Apprezziamo il comunicato del presidente e lo ringraziamo per la fiducia - commenta il vice-presidente del Csm David Ermini - ora si tratta di proseguire il lavoro di rinnovamento che questo Consiglio ha già avviato”. A seguito dello scandalo venuto alla luce esattamente un anno fa, il 30 maggio 2019, insieme all’indagine per corruzione a carico dell’ex consigliere Luca Palamara, l’organo di autogoverno dei giudici ha cambiato 5 componenti togati su 16, e uno di diritto: il procuratore generale della Cassazione, eletto proprio dal “nuovo” Csm. Ed è “impegnato nello svolgimento della sua attività istituzionale”, ricorda Mattarella. Dopo avere sospeso da funzioni e stipendio lo stesso Palamara, la scorsa settimana ha trasferito un pm della Superprocura antimafia perché considerato coinvolto nelle “trame” dell’ex consigliere, ed è in attesa di deliberare sulle ulteriori azioni disciplinari che dovessero essere promosse dal pg della Cassazione, nei prossimi giorni, all’esito dei nuovi atti arrivati dalla Procura di Perugia. Ad esempio sugli ex componenti che avevano partecipato alle manovre extra-consiliari con i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti. I dialoghi di Palamara con molti altri suoi colleghi pubblicati nelle ultime settimane risalgono a periodi precedenti alle intercettazioni svelate lo scorso anno; sono chat del 2017 e 2018, che non riguardano le attività dell’attuale Csm. Ci sono contatti con magistrati che nel frattempo sono stati eletti al Consiglio, ma ciò che è stato rivelato non riguarda l’attività dell’istituzione in cui siedono oggi. E si tratta, in generale, di materiale che sarà valutato sia sul piano disciplinare (il che richiede un Csm in piena attività per non rallentare il corso dei procedimenti, come sottolineato dallo stesso Mattarella) che sul versante della “compatibilità ambientale” con gli attuali incarichi di ogni singolo giudice o pm chiamato i n causa, di cui il Consiglio ha già cominciato a occuparsi. Quanto al resto dell’attività, le audizioni dei candidati ai posti da assegnare, insieme all’ordine cronologico nella trattazione delle pratiche sono regole che il Csm s’è già dato per cercare di uscire dalle logiche correntizie e spartitorie. In attesa della riforma. È l’altro aspetto affrontato dal Quirinale, e il ministro della Giustizia grillino Alfonso Bonafedele ha già elaborato un testo insieme ai partiti di maggioranza. “Ancora una volta il presidente della Repubblica ci indica la strada migliore”, dice il Guardasigilli che insieme a Pd, Leu e Italia viva prepara modifiche che non si fermano al sistema elettorale. Quello è il capitolo principale, ma l’accordo include altri aspetti, come le regole per le nomine dei capi e vicecapi degli uffici giudiziari, o il rientro in magistratura per le toghe che assumono incarichi politici o vanno al Csm. Sull’elezione s’è scelto il doppio turno, con collegi che corrisponderanno, più o meno, ad ogni regione; soluzione che complica in partenza l’auspicato confronto con l’opposizione di centro-destra, se lega e Forza Italia insistono per il sorteggio. Ma su quella strada, imboccata e poi abbandonata dallo stesso ministro, pesano i dubbi di incostituzionalità. Per il resto, la riforma che Bonafede vorrebbe portare al più presto in Consiglio dei ministri, prevede la parità di genere tra magistrati uomini e donne (che sono ormai più della metà delle toghe), una nuova articolazione della sezione disciplinare per velocizzare le decisioni e il divieto per pm e giudici che entrano in politica di tornare a esercitare funzioni giudiziarie; assumeranno incarichi nella pubblica amministrazione, come proposto dal precedente Csm. Nel quale sedeva anche Palamara. 100 magistrati occupano il ministero della Giustizia e fanno saltare l’equilibrio tra i poteri di Giuseppe Di Federico Il Riformista, 30 maggio 2020 La settimana scorsa Il Foglio ha pubblicato un’intervista a Sabino Cassese in cui si sostiene che la numerosa presenza dei magistrati all’interno del ministero della Giustizia (sempre intorno ai 100) e il monopolio che essi hanno delle posizioni dirigenziali al suo interno, rappresenta una violazione del principio della divisione dei poteri, cioè di uno dei cardini di uno stato democratico. Questa denunzia è stata condivisa e rilanciata dal presidente dell’Unione Camere Penali, Giandomenico Caiazza, su due quotidiani, Il Riformista e Il Giornale. Nel considerare questo fenomeno occorre innanzitutto ricordare che esso è collegato alla natura burocratica dell’assetto delle magistrature dell’Europa continentale per cui i dipendenti dello Stato centrale possono essere destinati a svolgere, nell’ambito dell’apparato statale, funzioni diverse da quelle per cui sono stati reclutati. Pertanto non solo in Italia ma anche in altri stati europei numerosi sono i magistrati che svolgono la loro attività nei vari ministeri della Giustizia (in Francia, Germania, Austria. Spagna e così via). Detto questo, rimane da spiegare perché solo in Italia questo fenomeno viene denunziato ripetutamente come una violazione del principio della divisione dei poteri e negli altri Paesi no. Ciò dipende dal differente status del magistrato italiano che opera presso il nostro ministero della Giustizia rispetto a quello dei magistrati di altri paesi. Negli altri stati i ministri della Giustizia hanno, in varia misura, poteri decisori sullo status dei magistrati quantomeno per il periodo in cui sono alle loro dirette dipendenze (disciplina, valutazioni di professionalità, futura destinazione alle sedi giudiziarie alla fine del loro servizio presso il ministero). In Italia, invece, il ministro della Giustizia non ha alcuna influenza nel governare lo status dei magistrati che da lui formalmente dipendono. A differenza dagli altri paesi europei, in Italia solo il Csm può assumere decisioni in materia disciplinare e di valutazione di professionalità dei magistrati anche per il periodo in cui formalmente dipendono dal ministro della Giustizia. Si è con ciò stesso sottratto al nostro ministro della Giustizia uno degli strumenti fondamentali dell’assetto gerarchico che fa capo ai ministri della Giustizia degli altri paesi democratici e su cui poggia in misura rilevante la capacità del ministro di formulare e perseguire autonomamente le iniziative da prendere e quindi di sollecitare ed ottenere dai suoi dipendenti comportamenti conformi alle politiche che vuole perseguire e per le quali formalmente assume la responsabilità politica. In un tale assetto è solo ovvio che i magistrati del ministero privilegino le aspettative del Csm (che coincidono sostanzialmente con quelle del loro sindacato) in tutte le attività di ricerca, elaborazione delle informazioni e proposte al ministro nella sua attività di iniziativa legislativa e operativa. Tener presenti gli elementi sin qui forniti non è però ancora sufficiente ad apprezzare appieno il significato che assume l’autonomia tutta particolare della dirigenza del ministero della Giustizia rispetto al ministro. Tale autonomia ha trovato ulteriore nutrimento negli orientamenti, a lungo prevalenti e fortemente radicati nell’ambito della magistratura organizzata e delle sue rappresentanze in seno al Csm e che riguardano le ragioni con cui viene giustificata la presenza dei magistrati al ministero. Secondo questi orientamenti tale presenza sarebbe nella sostanza pienamente legittimata proprio dall’esigenza di tutelare l’indipendenza della magistratura dalle iniziative del ministro che potrebbero lederla. Questo orientamento non solo mi è stato ripetutamente ricordato nel corso degli anni in numerose interviste/conversazioni con magistrati, ma è confermata in vari documenti ufficiali e trova la più chiara esplicitazione in una relazione di vari anni fa della “Sottosezione dell’Anm presso il ministero della Giustizia”. Relazione inviata proprio al ministro della Giustizia e avente per oggetto “Proposte sulla riorganizzazione del ministero”. In tale documento, si forniscono infatti “le ragioni che giustificano questa presenza” (dei magistrati al ministero), e a riguardo si dice: “Innanzitutto essa è volta ad attenuare i pericoli che la funzione servente nei confronti del funzionamento della giustizia - costituzionalmente attribuita al potere esecutivo - si trasformi, nel concreto esercizio, in un condizionamento del potere giudiziario e in una conseguente violazione del fondamentale principio dell’indipendenza della magistratura”. E si prosegue dicendo: “È opportuno che gli ampi poteri riconosciuti al ministro dagli artt. 107 e 110 Costituzione e (come interpretati dalle sentenze n. 168/63 e 142/73 della Corte Costituzionale) nei confronti del funzionamento della giustizia siano esercitati a mezzo di magistrati, anziché di funzionari amministrativi. I primi, pur se posti fuori temporaneamente dall’ordine giudiziario, sono i soggetti istituzionalmente più in grado di conciliare l’autonomia e l’indipendenza del detto ordine con l’osservanza della linea politica-ministeriale”. Una delibera, che a dispetto di quanto possa apparire a un osservatore esterno, non aveva intenti rivendicativi ma si limitava a rappresentare l’assetto interno del ministero. Uno degli autori e firmatari di quella relazione inviata al Ministro era Ernesto Lupo, futuro presidente della Corte di Cassazione, da tutti sempre considerato persona di grande equilibrio, non certo portatore di orientamenti estremisti. Ed è significativo anche il fatto che il ministro dell’epoca nulla obiettò nel ricevere quella delibera dell’Anm, nonostante in essa si teorizzasse un ruolo davvero peculiare dei magistrati al ministero della Giustizia: dovrebbero addirittura svolgere un ruolo di resistenza, di contrasto ai voleri del ministro allorquando questi volesse, con le sue iniziative, ledere in qualche modo, a giudizio della magistratura organizzata o dei suoi rappresentanti in seno al Csm, l’indipendenza (o gli interessi corporativi) della magistratura stessa. Nei ministeri della Giustizia di altri paesi di cui ho conoscenza diretta (come Francia, Germania, Austria, Olanda) i magistrati che vi lavorano sono tenuti alla riservatezza che, se violata, viene sanzionata. Da noi no. Se le iniziative del ministro, persino quelle a livello embrionale, toccano poteri della magistratura o aspetti dell’ordinamento che contrastano con gli orientamenti del sindacato della magistratura esse vengono subito comunicate, e gli esempi a riguardo sono numerosi, ad esponenti della magistratura organizzata e/o al Csm perché possano essere intraprese le eventuali azioni di contrasto. A riguardo è certamente emblematico anche un episodio verificatori nell’ottobre del 2001 che pone in evidenza come i magistrati del ministero della Giustizia si ritengano liberi, nei casi non certo frequenti di contrasti col ministro, di operare in opposizione al ministro stesso da cui formalmente dipendono e come siano appoggiati in tale loro opera dal Csm. In quell’occasione alcuni magistrati dell’Ufficio legislativo fecero pervenire a deputati dell’opposizione un parere che avevano di loro iniziativa predisposto per il ministro della Giustizia e di cui il ministro non aveva tenuto conto; un parere che era fortemente critico proprio nei confronti di un disegno di legge del ministro che in quel momento era in discussione al Senato. È interessante notare che, a seguito di questo comportamento, i magistrati in questione hanno lasciato il ministero ma non hanno subito né procedimenti disciplinari né conseguenze negative sul piano della valutazione della professionalità da parte del Csm. Hanno invece acquisito titoli di benemerenza nella corporazione, tanto che uno di essi è stato quasi subito eletto dai colleghi, nel 2006, componente del Csm. A rinforzare e rendere i comportamenti dei magistrati del ministero aderenti alle aspettative del Csm e del loro sindacato vi è poi anche il fatto che essi sanno, per esperienza, che possono essere gravemente penalizzati dal Csm se sospettati di “collaborazionismo” col ministro su questioni che pregiudicano gli interessi corporativi. Si tratta di casi poco frequenti anche perché i pochi che si sono verificati costituiscono un chiaro ed efficace monito a futura memoria per tutti gli altri. Uno dei casi più noti e clamorosi - certamente il più facile da richiamare - si è verificato allorquando Giovanni Falcone, nel periodo in cui era direttore generale degli Affari Penali del ministero, fu diffusamente sospettato e anche pubblicamente accusato da componenti del Csm e da esponenti dell’Anm di aver assecondato il ministro della Giustizia, Claudio Martelli, nella formulazione di un decreto legge in cui si prevedeva un effettivo e cogente coordinamento nazionale delle attività del pubblico ministero in materia di criminalità mafiosa, minando con ciò stesso l’indipendenza interna dei pm. Durissima fu la reazione dell’Anm e del Csm ed il decreto fu radicalmente modificato. Si pose allora in dubbio pubblicamente persino la credibilità dell’indipendenza di Falcone quale magistrato e quindi, in sede di Csm, anche la sua attitudine e capacità a svolgere con indipendenza il ruolo di Procuratore nazionale antimafia. Tanto che la Commissione per gli incarichi direttivi del Csm - nonostante la fama, anche internazionale di Falcone in quel settore - non si espresse a suo favore. Le proposte della commissione non pervennero al vaglio del Plenum del Csm perché nel frattempo Falcone era stato assassinato dalla Mafia. Falcone non divenne quindi Procuratore nazionale antimafia ma dopo la sua uccisione fu subito riammesso nei favori dell’Anm e da allora celebrato come uno dei suoi martiri più illustri. Mi sembra che quanto detto sin qui, per quanto molto sommario, sia sufficiente a dare sostanza alle preoccupazioni espresse dal professor Cassese e dall’avvocato Caiazza in materia di divisione dei poteri. È tuttavia opportuno aggiungere due postille a questo articolo già troppo lungo. Prima postilla. Vi sono state diverse iniziative legislative aventi per oggetto la presenza dei magistrati al ministero della Giustizia, tutte senza successo. Una limitata, temporanea eccezione è costituita dall’art. 19 del Dpr del 4/8/2000 il quale stabiliva che i magistrati desinati al ministero non dovessero superare le 50 unità. A seguito del parere dato dal Csm (il 16/11/2000) quella limitazione fu abrogata. Ed è comprensibile. L’Anm ed il suo “braccio armato”, cioè il Csm, non potevano consentire che venisse, seppur di poco, messo in discussione l’articolato assetto di potere che fa capo alla magistratura. Seconda postilla. L’Avvocato Caiazza nel suo articolo su questo giornale ci ha ricordato che la divisione dei poteri viene menomata gravemente anche dalla presenza dei magistrati in molti dei gangli decisionali del nostro Stato (posizioni di rilevo in altri ministeri e in Parlamento, presso la presidenza del Consiglio e della Repubblica, presso la corte Costituzionale e altre ancora). Le ricerche da noi condotte sulle attività extragiudiziarie dei magistrati certamente avvalorano la sua tesi. Forse ce ne occuperemo in un altro articolo. È tuttavia difficile da comprendere perché le Camere penali non abbiano inserito questo problema nel loro progetto di riforma costituzionale, visto che la divisione dei poteri è certamente questione di rilievo costituzionale. Il giustizialismo fagocita i suoi stessi sostenitori di Domenico Ciruzzi Il Riformista, 30 maggio 2020 Antonio Pentangelo, deputato di Forza Italia, è indagato nell’ambito dell’inchiesta sulla riqualificazione dell’area ex Cirio di Castellammare. La Procura di Torre Annunziata ne ha chiesto l’arresto sul quale sarà la Camera a pronunciarsi. Su Facebook Teresa Manzo, deputata del M5S e originaria di Castellammare al pari di Pentangelo, ha detto che il collega “avrà modo di chiarire la sua posizione”. Tanto è bastato perché Manzo venisse travolta dalle invettive degli attivisti del Movimento. Ogniqualvolta vi è un arresto “eccellente” - in modo particolare se si stratta di uomini della politica o delle istituzioni - riemergono come un mantra i rigurgiti giustizialisti che inquinano il dibattito pubblico da almeno tre decenni. Ormai, ad eccezione degli avvocati penalisti e di non molti altri garantisti che con pazienza, energia e passione continuano a difendere i capisaldi della democrazia costituzionale, la folla indistinta sembra volere la gogna, la pena esemplare e possibilmente perpetua. Le ragioni di questo decadimento culturale, politico e soprattutto etico sono molteplici e non tutte sufficientemente esplorate (manca, ad esempio, un’analisi seria e rigorosa sul perché, in questo determinato momento storico, le istanze punitive e securitarie facciano così tanto presa sulla pubblica opinione, mentre i principi garantisti siano quasi del tutto oscurati, non potendosi addebitare ogni colpa soltanto alla politica inetta o all’informazione, come si dice, embedded). Senza dubbio la responsabilità di questa esplosione compiaciuta delle pulsioni giustizialiste è, in parte rilevante, della politica. Non solo e non tanto perché in molte occasioni singoli esponenti o interi gruppi politici hanno dato pessima prova di sé, indugiando in comportamenti non consoni ai ruoli ricoperti e talvolta commettendo veri e propri reati. Ma soprattutto la politica - che può essere la più alta tra le “arti” umane - ha, e non soltanto in Italia, abdicato al suo ruolo essenziale: favorire i cittadini ad esprimere la propria personalità, le proprie capacità ed i propri talenti, rimuovendo quegli ostacoli che impediscono a ciascuno di realizzare il massimo delle sue possibilità. Sì, sto parlando proprio di quell’articolo 3 della Costituzione che deve costituire la bussola essenziale dell’agire politico e, nel contempo, la stessa ragione fondativa di una democrazia costituzionale. Ormai la politica si cura sempre meno di abbattere quegli ostacoli, di consentire ai cittadini di avere ciascuno pari e concrete possibilità. Venuto meno nel suo compito essenziale, il potere prova a celare le proprie gravi inadempienze con la terribilità dei poteri punitivi, con i tribunali, con le carceri, affermando attraverso l’uso distorto della giustizia penale - vera e propria scorciatoia del consenso - la sua stessa legittimazione. Si entra così in un circolo vizioso in cui, la macchina infernale repressiva in parte creata dalla stessa politica finisce per fagocitare il suo stesso creatore. Il tutto amplificato dalla cassa di risonanza di molti mezzi di informazione - il famigerato circuito mediatico-giudiziario - che sovente abdicano al loro ruolo di “cani da guardia della democrazia”. Da questo punto di vista viviamo indubbiamente in un’epoca oscura se finanche le esortazioni e l’attivismo del Papa sul tema restano lettera morta o addirittura sono oggetto di dure critiche che mai in passato avevano interessato la figura del Santo Padre. In questo contesto, va tuttavia registrata la recente dichiarazione di Teresa Manzo, deputata del M5S che, nel commentare la richiesta di arresto dei parlamentari di Forza Italia Luigi Cesaro e Antonio Pentangelo, si è augurata che i due esponenti politici sapranno chiarire le proprie posizioni, riconoscendo al Parlamento il ruolo di difensore dei principi garantisti su cui si fonda la nostra Repubblica. Parole semplici, rispettose dei principi costituzionali che, tuttavia, oggi addirittura appaiono quasi come una rivoluzione culturale, un cambio di paradigma. L’auspicio è che simili parole, nel rispetto degli accertamenti giurisdizionali, diventino la normalità e che la presunzione di innocenza valga sempre per tutti gli indagati, di tutti i ceti sociali. Impegno del governo con la Fnsi: “Il carcere per i giornalisti sarà cancellato” di Giulia Merlo Il Riformista, 30 maggio 2020 La maggioranza è pronta a prendere in esame la proposta di legge per abolire il carcere per i giornalisti. Giornalisti e governo sono d’accordo: il carcere per i cronisti andrebbe abolito, e la maggioranza è pronta a prendere in esame la proposta di legge che a breve dovrebbe arrivare sui banchi della commissione Giustizia del Senato. Il tema torna di attualità anche perché la settimana prossima, il 9 giugno, la Corte costituzionale dovrebbe pronunciarsi sulla norma del codice penale che ancora prevede la possibilità di pene detentive per i giornalisti ritenuti colpevoli di diffamazione. Proprio su questo punto si sono confrontati il segretario generale della Federazione nazionale della Stampa Italiana, Raffaele Lorusso, con il sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi. In una nota, la Fnsi ha riportato le parole del sottosegretario secondo cui “il governo e la maggioranza parlamentare sono favorevoli all’abolizione del carcere per i giornalisti”. La proposta di legge che va in questa direzione, specifica il sindacato nazionale, “è in dirittura d’arrivo in commissione Giustizia al Senato, a prescindere da quello che sarà l’esito dell’udienza dinanzi alla Corte costituzionale sulla legittimità dell’articolo 13 della legge 47/1948 in relazione all’articolo 595 del codice penale”, vale a dire appunto la legittimità della pena detentiva tuttora prevista per il reato di diffamazione a mezzo stampa. Durante il colloquio, il segretario generale Lorusso ha auspicato che la Consulta possa dichiarare incostituzionale, appunto, la previsione della pena detentiva e spiegato che in questa direzione va anche la memoria scritta depositata dalla Fnsi. “La notizia che il governo ritiene necessaria la cancellazione del carcere per i giornalisti - ha commentato Lorusso - è di straordinario rilievo. Ci auguriamo che la questione possa concludersi in tempi brevi”. Inoltre, il segretario della Federazione nazionale della Stampa ha ribadito la necessità di approvare nel minor tempo possibile anche la norma per il contrasto alle querele-bavaglio, già approvata in commissione Giustizia, sempre a Palazzo Madama, ma non ancora calendarizzata per l’Aula. Ad essersi battuto con tenacia per il provvedimento, che prevede sanzioni pecuniarie nei confronti di chi proponga querele al solo fine di tacitare il giornalista, è stato un senatore che, come Ferraresi, proviene dal Movimento 5 Stelle: Primo Di Nicola. Anche in questo caso, il sottosegretario alla Giustizia ha confermato la piena volontà del governo di arrivare, nel più breve tempo possibile, alla conclusione dell’iter approvativo della nuova legge. Illegittimo il divieto assoluto di scambio di oggetti fra detenuti in regime di 41bis di Fabrizio Fico Il Sole 24 Ore, 30 maggio 2020 Corte costituzionale. Oggetto del giudizio: art. 41bis, comma 2-quater, lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (“Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”), in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., “nella parte in cui prevede che siano adottate tutte le necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di scambiare oggetti per i detenuti in regime differenziato appartenenti al medesimo gruppo di socialità”. La questione: i dubbi di costituzionalità prospettati dalla prima sezione penale della Corte di Cassazione, con due ordinanze di analogo tenore adottate in pari data e nella medesima composizione collegiale, riguardano l’infelice formulazione dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), Ord. Pen., che impone l’adozione di tutte le necessarie misure di sicurezza “volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti” (“e cuocere cibi”, recitava la disposizione prima della sentenza n. 186 del 2018 della Corte costituzionale). Secondo il giudice a quo, l’interpretazione letterale della norma risulterebbe chiara nell’estendere il divieto di scambiare oggetti anche all’interno del medesimo gruppo di socialità: come sostenuto dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (Cass., I sez., 4 luglio 2019, n. 29301 e n. 29300; Cass., I sez., 1 febbraio 2018, n. 4993; Cass., I Sez., 8 febbraio 2017, n. 5977), l’inserimento del segno di interpunzione della virgola fra le parole “socialità” e “scambiare” sarebbe inequivocabile nel separare da un lato le condotte di divieto di comunicazione, riferibili soltanto a soggetti appartenenti a diversi gruppi di socialità, e dall’altro il divieto di scambio di oggetti, come tale sempre applicabile. Considerata pertanto l’impossibilità di procedere ad un’interpretazione costituzionalmente orientata, il Collegio rimettente evidenzia i profili critici della norma rispetto agli artt. 3 e 27 della Costituzione. In primo luogo, se le esigenze di prevenzione connesse al particolare regime carcerario possono giustificare restrizioni ulteriori della libertà personale, finalizzate ad evitare contatti con l’esterno e con le consorterie criminali di riferimento, tali restrizioni dovrebbero essere in ogni caso congrue e ragionevoli rispetto allo scopo, senza risultare inutilmente afflittive; in secondo luogo, le restrizioni disposte ai sensi dell’art. 41-bis non potrebbero mai violare il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e risultare tali da vanificare completamente la necessaria finalità rieducativa della pena. Così, mentre il divieto di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità appare oggettivamente funzionale a prevenire contatti con sodalizi criminosi, il divieto di scambio di oggetti tra persone che possono comunque colloquiare risulterebbe assolutamente non funzionale alla finalità, rivelandosi una misura del tutto sproporzionata. La decisione della Corte costituzionale: con una pronuncia “manipolativa”, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 41bis, comma 2-quater, lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354, nella parte in cui prevede l’adozione delle necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata “la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti” anziché “la assoluta impossibilità di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità”. La Corte costituzionale mostra ancora una volta, e coerentemente con la sentenza n. 186/2018, particolare equilibrio nel giudicare il regime di cui all’art. 41bis, non facendosi trascinare nella prospettiva giustizialista che pervade l’attuale dibattito politico-giudiziario. Senza assolutamente porre in discussione il regime detentivo differenziato, la Consulta pone al contempo un argine a misure afflittive assolutamente irragionevoli rispetto alle stesse finalità preventive. La Corte ricorda che i gruppi di socialità rappresentano la modalità prescelta dal legislatore per conciliare, da una parte, l’obiettivo di evitare che i detenuti più pericolosi possano mantenere vivi i propri collegamenti con le organizzazioni criminali di riferimento e, dall’altra, l’esigenza di garantire forme indispensabili di socialità. La composizione di ciascun singolo gruppo, sempre opportunamente modificabile secondo le esigenze che via via si presentino, è governata da complessi criteri (attualmente previsti al punto 3.1 della circolare del 2 ottobre 2017, n. 3676/6126, del Dap), ispirati alla necessità di impedire ogni occasione di rafforzamento delle consorterie criminali, nonché ogni possibilità che vengano scambiati con l’esterno ordini, informazioni e notizie. Nondimeno, se i soggetti che appartengono al medesimo gruppo sociale possono comunicare in forma orale o gestuale, il divieto di scambiarsi oggetti “non risulta né funzionale né congruo rispetto alla finalità tipica ed essenziale del provvedimento di sottoposizione del singolo detenuto al regime differenziato, consistente nell’impedire le sue comunicazioni con l’esterno”. Sarebbe infatti assurdo ritenere che lo scambio di oggetti sia più efficace nel celare messaggi verso o dall’esterno rispetto alle consentite forme di comunicazioni vocali e gestuali. In altre parole, la compressione della possibilità di scambiare oggetti con gli altri detenuti del medesimo gruppo, e la conseguente deroga all’applicazione delle regole ordinarie, potrebbe giustificarsi solo là dove sussistesse la necessità concreta di garantire la sicurezza dei cittadini, prevenendo contatti tra il detenuto e la sua organizzazione criminale di appartenenza; mancando tale nesso funzionale, la norma risulta in contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. Toscana. Tre morti nelle carceri, il Garante dei detenuti: “Dramma non tollerabile” gonews.it, 30 maggio 2020 Un “inaccettabile dramma continuo”. Tre decessi in circostanze ancora tutte da chiarire, tre detenuti che in pochi giorni perdono la vita a Prato e Siena impongono una presa di posizione forte del Garante regionale Giuseppe Fanfani: “La Toscana è scossa da tre morti in carcere sulle quali ancora non vi sono notizie ufficiali. Al mio ufficio nulla è pervenuto ma da quanto è dato sapere sono tre i detenuti morti nelle nostre strutture penitenziarie”. “Ieri a Prato, dopo giorni di agonia, un giovane ventenne di nazionalità Turca che aveva tentato il suicidio domenica scorsa è morto. Pare soffrisse di problemi psichiatrici. Oggi - dichiara Fanfani - nel carcere di Prato è deceduto a seguito di un malore un giovane magrebino di 35 anni. Le cause sono ancora tutte da accertare. Sempre oggi si è tolto la vita nel carcere di Siena un giovane di nazionalità Italiana, trasferito da altro istituto, e posto in isolamento per motivi sanitari legati al Coronavirus”. Il Garante regionale, pur nella difficoltà di avere notizie precise sulle vicende, e pur non avendo avuto alcuna comunicazione ufficiale, manifesta tutta la sua preoccupazione per il susseguirsi di episodi di tale gravità. “Queste situazioni - afferma - sono la conseguenza, difficilmente evitabile, di esasperazione psichica dovuta alle terribili e talvolta inumane condizioni in cui la detenzione carceraria viene eseguita. Il suicidio soprattutto si manifesta nelle persone psichicamente più fragili come appare fossero i giovani che si sono tolti la vita a Prato e Siena”. “Uno Stato moderno e civile non può assistere silente a situazioni come queste che mettono in discussione i principi di umanità che devono sempre presiedere alla detenzione carceraria” continua. Il Garante si attiverà immediatamente per “conoscere la verità sulle morti di questi giorni” e ne farà “oggetto di attenta interlocuzione al fine di evitare che drammi di questo genere possano ripetersi”. Sardegna. Fase 2: protocolli virus frenano gli incontri tra familiari e detenuti cagliaripad.it, 30 maggio 2020 Più videochiamate e meno colloqui di persona. In Sardegna la ripresa dei colloqui visivi tra detenuti e familiari, avviata l’11 maggio scorso per un massimo di 60 minuti, al momento non incontra particolari favori. “Familiari e detenuti, anche in considerazione delle forti limitazioni anti.contagio, sembrano preferire le video chiamate - spiega Maria Grazia Caligaris, esponente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme - Nelle prime due giornate dei colloqui visivi il numero delle adesioni è stato irrisorio”. “A Cagliari-Uta - riferisce - solo una ventina di persone ha incontrato i parenti, a Massama, Sassari e Nuoro, una decina. Anche nelle colonie penali le richieste per ora sono state davvero rare”. Secondo Caligaris a scoraggiare gli incontri sono “le oggettive difficoltà a poter fruire dei colloqui visivi. I familiari ritengono sia meno dolorosa una videochiamata piuttosto che una visita ai propri cari, dopo mesi di distacco, con mascherina, senza poter avere un contatto fisico, mantenendo una distanza di un metro e con un divisorio in policarbonato. Ciò soprattutto quando la persona privata della libertà è affetta da problemi psichici e sente come indispensabile una stretta di mano e un abbraccio”. “Il fatto poi - sottolinea infine l’esponente dell’associazione - di poter incontrare solo un parente adulto alla volta impedisce di avere contatti con i figli minori. Mamme o papà rischiano così di allontanarsi ulteriormente dai loro bambini”. Siena. Si impicca in carcere, era in isolamento anti-Covid di Laura Valdesi La Nazione, 30 maggio 2020 Disposta l’autopsia sul trentenne che era stato arrestato qualche giorno fa per maltrattamenti. L’angoscia l’ha sopraffatto. Chissà quale tormento interiore. Una persona fragile, con tanti problemi. Anche se così giovane. Trent’anni appena. Aveva bisogno di aiuto. Non tanto di quello dei suoi cari, che hanno provato a stargli vicino nonostante le difficoltà, ma di chi sa come sostenere quanti affrontano la dipendenza, magari dall’alcol. L’ha fatta finita in cella, nel carcere di Santo Spirito a Siena dove si trovava da una manciata di giorni. Una vicenda umanamente drammatica che merita rispetto e su cui adesso indaga la procura. Come anticipato oggi da La Nazione, è stato infatti aperto un fascicolo contro ignoti per il reato di istigazione al suicidio e saranno svolti accertamenti per ricostruire con esattezza il contesto nel quale il gesto estremo è maturato. Disposta anche l’autopsia. L’uomo, che vive nella provincia di Siena, si trovava a Santo Spirito da pochissimo. Era stato arrestato qualche giorno fa dai carabinieri per maltrattamenti alla madre, non sarebbe stata la prima volta che accadeva. Si sarebbero aperte a breve per lui le porte di una struttura di recupero di cui aveva necessità. Prato. Detenuto trovato morto nella sua cella, ancora una tragedia alla Dogaia notiziediprato.it, 30 maggio 2020 Si tratta di un 35enne. L’allarme poco dopo mezzogiorno ma purtroppo non c’è stato niente da fare per l’uomo. Due giorni fa il decesso di un 23enne che si era impiccato. Dura presa di posizione del garante dei detenuti. Ancora una tragedia all’interno del carcere della Dogaia. Poco dopo mezzogiorno di oggi, 29 maggio, un detenuto di 35 anni è stato trovato privo di vita all’interno della sua cella. Immediato l’allarme al 118 da parte degli agenti di polizia penitenziaria ma i sanitari, una volta arrivati nella struttura, non hanno potuto fare altro che constatare il decesso dell’uomo. Si tratta di un cittadino di nazionalità tunisina, detenuto per scontare una condanna per droga e vicino all scarcerazione per fine pena. Secondo i primi accertamenti potrebbe essere rimasto vittima di un malore di natura cardiaca che l’ha stroncato nel sonno. Solo due giorni fa era morto un altro detenuto, un 23enne turco, che era stato ricoverato in ospedale domenica in gravissime condizioni dopo essersi impiccato nella sua cella. Di “inaccettabile dramma continuo” parla il garante regionale dei detenuti, Giuseppe Fanfani: “Tre morti in carcere, due a Prato e uno a Siena: queste situazioni sono la conseguenza, difficilmente evitabile, di esasperazione psichica dovuta alle terribili e talvolta inumane condizioni in cui la detenzione carceraria viene eseguita. Uno Stato moderno e civile non può assistere silente a situazioni come queste che mettono in discussione il principio di umanità che deve essere presiedere alla detenzione carceraria”. Ancona. Rivolte e solitudine, il carcere ai tempi del virus di Chiara Gabrielli Il Resto del Carlino, 30 maggio 2020 Abbiamo incontrato i comandanti di Montacuto e Barcaglione che hanno gestito questi giorni così difficili: “Ma ha vinto il dialogo”. Se la pandemia ha chiuso ovunque porte e confini, dentro il carcere ha creato nuove solitudini e paure, ma ha anche nuove, importanti responsabilità. Negli istituti penitenziari di Ancona, a Montacuto con i suoi 324 detenuti e a Barcaglione che ne conta un centinaio, il coronavirus non ha colpito nessuno ma ha cambiato le vite dei carcerati e del personale, e loro familiari. Il timore più grande, dietro le sbarre, quello per i propri cari a casa. Parole chiave: dialogo e informazione. Il Covid ha modificato il mondo del carcere: in Fase 1 niente corsi scolastici e professionali, niente messe, permessi premio sospesi, colloqui con i familiari solo in video. Mentre fuori da quelle mura l’Italia entrava nel lockdown, in carcere scattava il divieto d’accesso a ogni persona esterna, e dalle celle i detenuti chiedevano notizie sul virus, volevano sapere come stavano le famiglie. La confusione era molta all’inizio, arrivavano indicazioni contrastanti. Si temevano disordini. Due i tentativi di rivolta a marzo, subito stroncati. Sul campo di battaglia, a fronteggiare pandemia e tensioni, i due comandanti, Nicola Defilippis a Montacuto e Barbara Omenetti a Barcaglione, impegnati sul doppio fronte della prevenzione dei contagi e dell’organizzazione delle videochiamate. I comandanti ricordano quei momenti drammatici, quando in una trentina di istituti ci sono state rivolte che hanno causato 12 decessi. A Montacuto nulla o quasi, per merito della direzione di Manuela Ceresani e dei comandanti ma anche, sottolineano, dei detenuti “che hanno dimostrato senso di responsabilità. Altrove il virus è stato preso come pretesto per attuare rivolte. Qui non è accaduto. Abbiamo puntato sul dialogo, spiegando che comprendevamo il loro disagio. Il primo giorno di lockdown - specifica Defilippis - ho trascorso sei ore in sezione, incontrandoli uno per uno. “Vogliamo sapere come stanno i nostri familiari”, dicevano tutti. Abbiamo quindi disposto video-colloqui su Skype e Whatsapp, con più telefonate rispetto al solito, e così molti si sono rasserenati. Alcuni temevano poi di essere contagiati dalla polizia penitenziaria, ma ci siamo attivati subito con i dispositivi di protezione individuale e procedure rigorose”. Nonostante ciò, per due volte si è dovuto far fronte a situazioni potenzialmente esplosive: “Durante la prima - ricorda il comandante - c’è stata la battitura delle inferriate messa in atto dalla totalità delle sezioni tranne che dagli As (Alta Sicurezza, criminalità organizzata). Abbiamo individuato e trasferito immediatamente i promotori. Una settimana dopo, hanno rifiutato il vitto a colazione, avevano intenzione di non mangiare nemmeno a pranzo e cena e di battere le inferriate. Stroncato sul nascere anche questo episodio”. Si tratta di campanelli d’allarme, spiegano i comandanti, perché “possono risolversi in un nulla di fatto o rappresentare il preludio di qualcosa di violento. Si comincia con lo sbattere le scodelle e a volte si finisce con l’incendio dei materassi”. Anche a Barcaglione “è stato fondamentale il dialogo - sottolinea Omenetti - e il personale ha risposto all’emergenza dando tutto sé stesso, ciascuno con i suoi problemi, con colleghi bloccati qui per due mesi, lontani dalle loro famiglie”. Poi, la Fase 2, non meno complicata della prima. Sono ricominciati i corsi scolastici in video e da lunedì si tornerà a celebrare la messa. A chi accede, con mascherina e guanti, viene misurata la temperatura. Se un detenuto deve uscire (permesso di necessità) al ritorno dovrà stare in isolamento per 14 giorni (ricavati spazi appositi). Le visite dei familiari sono solo su prenotazione, e i pacchi vengono consegnati dopo 24 ore dall’arrivo in carcere, inoltre non è più garantita la ricezione di contanti ma sono permessi bonifici on line. All’esterno c’è una tensostruttura adibita al pre-triage, sia per i nuovi giunti dalla libertà sia per i trasferiti da altri istituti. Gli arrestati comunque vanno nel reparto di isolamento preventivo precauzionale. In sala colloqui, sanificata dopo ogni incontro, distanza di due metri tra detenuto e familiare e tra le postazioni. Vietato ogni contatto. “Ci dicono che gli incontri così sono molto freddi - spiegano Defilippis e Omenetti. Ci rendiamo conto che è difficile vedere i propri cari e non poterli abbracciare ma, se dovesse accadere, saremmo costretti a mettere in isolamento il detenuto. Così, tanti continuano a preferire il colloquio via Skype”. Piacenza. Sovraffollamento carceri, 79 detenuti “extra”. Lusi: “Cinque positivi al Covid” piacenzasera.it, 30 maggio 2020 Le rivolte, il sovraffollamento e l’emergenza Covid dentro le carceri. Sono i punti affrontati dal garante regionale dei detenuti Marcello Marighelli durante la commissione Parità e diritti, presieduta da Federico Amico. Il sovraffollamento, il grande problema. “È un tema che da tempo abbiamo sollevato - ha spiegato il garante -, perché è una questione che impedisce di dare dignità a detenuti. C’è grande carenza di spazi per il pernottamento, ma anche per le attività lavorative e per quelle di rieducazione. C’è anche un ulteriore problema: nella nostra regione sono detenute molte persone che non hanno un legame con la regione, quindi diventa difficile il reinserimento sociale”. Per quanto riguarda i numeri, “prima dell’emergenza si registravano quasi 4 mila detenuti rispetto a una capienza regolamentare inferiore a 3 mila posti, poi gradualmente questa presenza si è ridotta soprattutto a causa della necessità di provvedere a importanti trasferimenti (in totale 457) a causa dei disordini e delle rivolte provocate nelle carceri di Modena, Bologna e Reggio Emilia. Ma se anche le persone detenute sono diminuite, i problemi ancora ci sono: ci sono 177 persone in più nel carcere di Bologna, 105 a Ferrara, 99 a Reggio Emilia e 79 a Piacenza”. Un’altra criticità è rappresentata dalla detenzione delle donne. “A Modena si registrava la presenza di 41donne, poi la struttura è stata completamente evacuata, le donne sono state trasferite principalmente a Trento. Attualmente la situazione di Forlì è tornata alla normalità con 13 presenze, ma ce ne sono state anche 25, a Bologna adesso ci sono 68 donne ma ce sono state anche 80. Per prima cosa - ha spiegato Marighelli - abbiamo cercato di verificare che non fossero presenti nelle carceri donne con bambini in questa fase emergenziale, perché la presenza di bambini nelle carceri è un problema serio nella nostra regione, colgo l’occasione per segnalare nuovamente questo problema. Nel 2019, nella nostra regione, sono stati 15 i neonati presenti, rimasti diversi giorni nelle nostre carceri nonostante non siamo dotati dell’istituto a custodia attenuata per madri detenute, di casa famiglia protetta o della sezione penitenziaria nido”. “Dopo le rivolte nelle carceri, l’11 marzo - ha rimarcato il garante - ho visitato la casa circondariale di Modena. La rivolta era appena terminata e ho trovato una situazione incredibile, gli edifici erano danneggiati dal fuoco, gli arredi e gli impianti elettrici erano distrutti, sia nel nuovo che nel vecchio padiglione. Rispetto alla crisi degli spazi, è stato importante il provvedimento del governo dentro il Cura Italia, che non ha consentito di fare uscire i colpevoli di gravi reati, ma è intervenuto sulla legge già esistente, che permette di far scontare nel proprio domicilio gli ultimi 18 mesi della pena, purché non siano condanne per gravi reati”. Per quanto riguarda la tecnologia ormai ‘entrata’ dentro il carcere, quella non uscirà più. “I colloqui via skype tra detenuti e familiari proseguiranno, addio ai telefoni a gettoni”. Entrando nel tema coronavirus, la direttrice del carcere di Piacenza, Maria Gabriella Lusi, ha sottolineato che “da subito si è capito che la nostra zona era fra le più colpite, quindi abbiamo subito preso provvedimento e studiato un piano d’azione. Già dal 25 febbraio abbiamo interrotto i colloqui e gli accessi e tutto il personale è stato sottoposto a tampone. Tra i detenuti, solo 5 sono risultati positivi al Covid”. Stefania Bollati della Cgil ha rimarcato la “cronica carenza di personale, edilizia vecchia, con spazi non idonei in periodo pre Covid, figurarsi ora con le misure anti contagio. Noi ci siamo mossi subito su vari campi d’azione, chiedendo con forza che il personale venisse dotato di dispositivi di protezione e fossero eseguiti test sierologici e tamponi a tutto il personale e ai detenuti”. Le funzionarie della Regione Anna Cilento e Monica Raciti hanno spiegato che “le rivolte sono state tragiche e hanno colpito duramente anche il personale sanitario; sono state distrutte apparecchiature e presi d’assalto gli ambulatori. La rivolta di Bologna ha provocato una grossa promiscuità, ma tutto sommato il sistema ha retto bene”. Altro problema è che “in molti casi molte persone non hanno un domicilio dove svolgere la detenzione domiciliare, quindi abbiamo cercato di mettere le persone nella condizione di anticipare un percorso di reinserimento, anche in un’ottica di contrasto alla recidiva”. Proprio sui danni è intervenuto il consigliere della Lega Simone Pelloni, chiedendo se sia vero che “i danni provocati ammontano a 450mila euro. Inoltre, se si fosse comunicato e concordato meglio, predisponendo un’opera di mediazione, dal mondo del volontariato a tutto il personale, forse qualcosa si sarebbe evitato”. L’altra esponente leghista Valentina Stragliati è tornata sul tema dei contagi, “perché a Piacenza magari 5 detenuti sono pochi, ma 30 agenti di polizia penitenziaria col Covid, non sono pochi”. Infine, Francesca Maletti (Partito Democratico) ha chiesto “di avere maggiori informazioni anche sui tempi di ristrutturazione delle carceri, specie a Modena, che è la struttura più devastata”, mentre l’altra dem Roberta Mori ha ribadito che “il nostro compito sarà supportare le istanze del nostro Garante e cercare di impegnare con atti politici i nostri rappresentanti in parlamento. Facciamo la nostra parte anche per i bambini che sono costretti a situazioni di reclusione che non sono consoni alla loro età”. Salerno. “Rivolta in carcere, nessuna trattativa Stato-mafia” ottopagine.it, 30 maggio 2020 Il Garante regionale dei detenuti, Ciambriello, ricostruisce le tensioni a Fuorni. “Da giorni si legge dai giornali nazionali che i detenuti di Salerno avrebbero consegnato un papello, identificando in questo l’inizio di una trattativa tra Stato e mafia, durante l’emergenza Covid-19, per portare dei benefici, detenzioni domiciliari per i detenuti legati alla malavita organizzata”. Il garante campano Samuele Ciambriello ricostruisce la vicenda avvenuta nella casa circondariale di Fuorni e del resto della Campania. “Quando sono andato nel carcere di Salerno, il 7 marzo durante la rivolta, non c’è stata nessuna trattativa Stato-mafia in favore dei detenuti accusati di associazione a delinquere. Il provveditore campano e la direttrice del carcere avevano ascoltato una delegazione di rivoltosi che aveva consegnato loro una serie di richieste tra cui anche quella di non far trasferire i capi della rivolta. Mediare, nel caso di una rivolta, è fondamentale, così come tantissime volte nelle carceri abbiamo fatto magistrati, direttori, garanti, provveditori, così come anche è stato fatto il giorno dopo nel carcere di Poggioreale con una delegazione degli 800 rivoltosi, sempre detenuti comuni”, sottolinea Ciambriello. “La parola protesta, come il gesto di rivolta o di sciopero, per ogni categoria di persona o di ceto sociale implica una azione di ascolto delle motivazioni alla base dei gesti, seppur violenti. Ascoltare coloro che protestano, nella fattispecie campana un gruppo di detenuti comuni, circa 180 a Salerno e 800 a Poggioreale, non significa intentare una trattativa tra istituzioni e mafia. La questione del papello consegnato - il chiarimento del garante - è un romanzo frutto della immaginazione di coloro che dietro al sistema carcere vedono sempre la mano della criminalità organizzata. Il diritto alla salute, la sospensione dei colloqui coi familiari, il sovraffollamento nelle carceri con celle fino a otto e dieci detenuti, la mancanza di servizi igienici essenziali nelle celle sono stati in questo periodo di emergenza coronavirus le continue richieste fatte da parte dei detenuti nei colloqui personali e collettivi. Nessun papello. I professionisti dell’antimafia, sono sempre loro. Da oggi mi dichiaro co-trattativista costituzionalmente orientato”, dichiara il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello. Dopo le rivolte nel carcere di Carinola e Salerno il 7 marzo, e l’8 marzo a Poggioreale, un centinaio di detenuti sono stati trasferiti. Il garante regionale già il 10 marzo aveva inviato una lettera ai direttori delle carceri di Secondigliano, Aversa, Poggioreale, Pozzuoli, d’intesa col presidente del tribunale di sorveglianza di Napoli Adriana Pangia, per sollecitare le pratiche di detenuti ultrasettantenni, senza reati ostativi, e quelle di coloro che dovevano scontare una pena inferiore a sei mesi, sempre senza reati ostativi. Con lo stesso magistrato si era già affrontata la questione dei semi-liberi a cui assegnare gli arresti domiciliari, sollecitando ad un veloce intervento. Questione accolta fino al 30 giugno. “Ci sono princìpi costituzionali ignorati e messi in discussione da politici con una scarsa memoria. Considerato che lo strumento principale individuato dall’attuale governo, l’art. 123 incluso nel Decreto “Cura Italia” del 17 marzo 2020, e cioè l’utilizzo della detenzione domiciliare per coloro che devono scontare meno di un anno e mezzo nelle carceri è un istituto attivato con la legge 199 del 2010 dal governo di centro destra, ministro della giustizia Alfano, che aveva dato buona prova nella stagione del sovraffollamento carcerario: basti pensare che dall’entrata in vigore della legge 199/2010 fino al 31 dicembre 2019 sono usciti dalle carceri per effetto di questa misura 26.849 detenuti”, conclude Ciambriello. Treviso. La cooperativa Giotto sbarca a Santa Bona. Farà lavorare i detenuti La Tribuna, 30 maggio 2020 La cooperativa sociale Giotto, società patavina che coinvolge persone disabili o detenute in lavorazioni di alta qualità in vari settori, è pronta a sbarcare a Treviso, coinvolgendo i detenuti del carcere di Santa Bona. L’annuncio è arrivato ieri da Nicola Boscoletto, referente della Giotto: “Abbiamo l’idea di aprire delle opportunità lavorative anche all’interno del carcere di Treviso. Sarebbe la prima volta e contiamo di iniziare questo percorso grazie alla collaborazione della Camera di Commercio. Ci sono detenuti del carcere di Padova che poi sono transitati a Treviso, esiste già una stretta relazione tra queste due realtà”. Non a caso ieri la Camera di Commercio di Treviso ha invitato nella sede di Piazza Borsa la cooperativa padovana, come esempio della ripartenza delle imprese nella fase due, e il segretario Romano Tiozzo ha confermato l’avvio di un percorso che porterà alla collaborazione con Santa Bona. La Giotto si è parzialmente riconvertita durante l’emergenza Covid, producendo 100 mila mascherine certificate in cotone, riutilizzabili, parte delle quali ceduta anche all’ente camerale trevigiano. La società padovana dà lavoro a circa 350 persone, con diversi servizi sia all’interno che all’esterno del carcere. La conversione alla “economia Covid” ha permesso di salvare dodici posti di lavoro. A Santa Bona la Giotto non si limiterebbe a produrre mascherine, ma porterebbe anche attività professionali di altro genere, in molti casi al servizio di grandi gruppi industriali. Ascoli. I detenuti si prenderanno cura del verde di San Benedetto del Tronto farodiroma.it, 30 maggio 2020 La giunta comunale di San Benedetto del Tronto ha deliberato il sostegno alla seconda edizione del progetto, proposto dai volontari dell’associazione “Il Germoglio Onlus”, per impiegare alcuni detenuti nella cura e manutenzione dei giardini pubblici e delle aree comunali. I detenuti, alcuni agli arresti domiciliari, saranno impiegati sotto la vigilanza dei volontari dell’associazione, che operano su autorizzazione dei competenti uffici del Ministero della Giustizia, e la supervisione del personale del Servizio Aree verdi del Comune. “La positiva esperienza condotta lo scorso anno ci ha indotto a ripetere l’iniziativa - dice l’assessore alle politiche sociali Emanuela Carboni - queste persone hanno preso l’impegno con entusiasmo e voglia di far vedere che è possibile una ripartenza dopo l’esperienza del carcere. Non va mai dimenticato che la Costituzione italiana sancisce che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Noi pensiamo che questa funzione possa essere svolta soprattutto affidando loro compiti lavorativi che risultano maggiormente gratificanti se, come nel nostro caso, hanno come fine il miglioramento della qualità della vita degli altri. Ringrazio la cooperativa Il Germoglio e il suo presidente Cosimo Bleve per essersi impegnati in questo percorso sicuramente non facile ma che dà, come abbiamo verificato, ottimi risultati”. Venezia. Detenuti donano 1.000 mascherine e gel igienizzante all’Ulss Il Gazzettino, 30 maggio 2020 I detenuti del carcere Due Palazzi di Padova che fanno parte della Cooperativa Giotto e le detenute del carcere femminile della Giudecca della cooperativa Rio Terà dei Pensieri hanno deciso di donare all’Ulss 3 Serenissima 1.000 kit contenenti ciascuno una mascherina Tipo I e un flaconcino di gel igienizzante. La cerimonia di consegna è avvenuta oggi, venerdì 29 maggio, all’ospedale all’Angelo di Mestre. “Come cooperative sociali, Giotto e Rio Terà dei Pensieri non potevano sottrarci a questa sfida. Anche noi - sostiene il presidente della cooperativa Giotto Nicola Boscoletto - siamo stati fortemente colpiti dal tornado Coronavirus. Grazie a Dio una parte delle attività (anche se non a pieno regime) sono continuate. Mossi dalla nostra Mission - creare (in questo caso un grande risultato sarebbe mantenere) opportunità lavorative tanto per persone normodotate che svantaggiate, sostenute e accompagnate nella scoperta della propria dignità - ci siamo buttati a capofitto nel cercare nuovi mercati, nuove modalità lavorative per salvare quanti più posti possibile di lavoro e dare al contempo il nostro contributo di fronte a questa terribile emergenza sanitaria. Questa partita la vogliamo giocare fino in fondo, e se dovessimo perderla (ma speriamo di no) vogliamo perderla sul campo, non a tavolino”. “Di fronte all’emergenza sanitaria e alle difficoltà del periodo - continua la presidente della cooperativa Rio Terà dei Pensieri Liri Longo - abbiamo reagito utilizzando i nostri punti di forza, che sono la creatività e la capacità di innovare. Così abbiamo utilizzato il nostro know how nella formulazione di prodotti cosmetici per produrre gel igienizzante. Nel periodo in cui i nostri clienti principali, le strutture turistico ricettive, sono chiuse, abbiamo dovuto aprire nuove opportunità di mercato per salvaguardare i posti di lavoro. La nostra economia e il nostro lavoro sono molto legati a Venezia e agli eventi culturali e di attrazione turistica che vi si celebrano. Venendo a mancare questo indotto, siamo rimasti senza commesse e siamo molto preoccupati”. Airola (Bn): “Nessuna diretta via web dal carcere minorile” Corriere del Mezzogiorno, 30 maggio 2020 Il presidente del Tribunale dei Minori di Napoli e magistrato di Sorveglianza, Patrizia Esposito, in relazione alla notizia diffusa il 20 maggio nella quale si raccontava di alcune foto inviate da detenuti nel carcere minorile di Airola ad una trasmissione televisiva via web, precisa che si tratta di una informazione errata. “La madre di uno dei due detenuti in questione ha scattato una foto al termine del colloquio, proprio mentre si avvicendava, nella medesima postazione, il compagno del detenuto. La stessa madre ha poi inviato la foto all’emittente Tv Campane 1. Quando è stato controllato il tablet da parte dell’agente di polizia penitenziaria, lo stesso ha scoperto il tentativo di connessione con un sito pornografico apparso per pochi istanti sullo schermo e ottenuto forzando illegalmente il sistema di protezione del tablet, tentativo che non ha avuto alcun seguito ed è stato denunciato. Va ribadito con forza che non si è svolta alcuna diretta televisiva o radiofonica che dir si voglia, ma la sola, gravissima, diffusione della foto di cui sopra scattata”. Stati Uniti. Minneapolis, quarta notte di proteste: un morto a Detroit di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 30 maggio 2020 Il Pentagono prepara la polizia militare. Sull’afroamericano ucciso lunedì scorso parlano anche Obama e Biden. Trump avvisa: basta saccheggi o si spara. L’arresto del poliziotto colpevole non placa i tafferugli. Quarta notte di proteste a Minneapolis: nonostante l’arresto di Derek Chauvin, il poliziotto ripreso da un video mentre preme il ginocchio con tutto il peso del corpo sul collo di George Floyd, l’afroamericano di 46 anni ucciso lunedì scorso, roghi e saccheggi in città non si fermano. E c’è una prima vittima della rivolta, che si è propagata anche in altre grandi città nel resto degli Stati Uniti: a Detroit, un diciannovenne è stato raggiunto da due colpi di pistola sparati da un Suv, apparentemente a caso, nella folla. A Minneapolis il dipartimento di pubblica sicurezza riferisce di “spari sui poliziotti”. Il Pentagono intanto - intervento raro, che ha dell’irrituale - ha ordinato alla polizia militare di preparare diverse unità per il dispiego a Minneapolis, per sedare i tafferugli. L’arresto del poliziotto - Che proseguono feroci, nonostante l’arresto del poliziotto Derek Chauvin. Due i capi di imputazione: “Omicidio di terzo grado”, un reato simile al nostro “omicidio colposo” e manslaughter, assimilabile all’”omicidio preterintenzionale”. In una conferenza stampa Freeman ha spiegato che gli inquirenti hanno raccolto sufficienti prove per l’incriminazione, mettendo insieme le clip, le testimonianze dei passanti e il referto medico. Il procuratore ha aggiunto che “il provvedimento restrittivo” è arrivato “a tempo record”, mentre “proseguono le indagini” sugli altri tre agenti implicati nella morte di George. Quel lunedì pomeriggio, due pattuglie hanno controllato Floyd, che non ha opposto alcuna resistenza. E nessuno degli uomini in divisa ha fermato il collega, mentre “il sospetto” sdraiato pancia a terra sull’asfalto implorava: “Non respiro, mi state uccidendo”. Video e testimonianze - Anzi un nuovo video, trasmesso ieri dalle tv, mostra come due agenti tenessero fermo George, mentre Derek Chauvin prendeva posizione sopra di lui. Secondo il rapporto dell’ospedale, Floyd ha smesso di respirare tre minuti prima che Chauvin finalmente sollevasse il ginocchio. Nel corso della giornata viene fuori la testimonianza di Maya Santamaria, proprietaria di un club notturno in città: il poliziotto e la vittima, Chauvin e Floyd aveva lavorato insieme nella sicurezza del locale, per un certo periodo, ma non è sicuro che si conoscessero. Il movimento spontaneo che ha invaso le strade di Minneapolis, dopo due notti di incendi e saccheggi, ha discusso per tutta la giornata. La maggior parte, a quanto sembra, considera insufficiente la decisione delle autorità giudiziaria, anche se Chauvin rischia una condanna a 20 anni di carcere. Ma è difficile chiedere alla Procura, che deve limitarsi ad accertare le responsabilità penali personali, una risposta più generale, politica. La tensione in città resta altissima. Tanto che il governatore Tim Walz (democratico) ha imposto il coprifuoco dalle 20 alle 6 di mattina, a partire da ieri sera e per tutto il fine settimana. Le proteste si estendono negli Usa - Le proteste si estendono nel resto degli Stati Uniti, con sit-in e marce affollate un po’ ovunque: da New York a Denver, da Washington dc ad Atlanta. Davanti alla Casa Bianca si sono radunate centinaia di persone che invocano giustizia per la vittima e denunciano la brutalità della polizia. La Cnn ha riportato anche momenti di tensione quando un giovane bianco, per motivi ancora sconosciuti, è stato portato via dagli agenti con la folla che reagiva inferocita. I servizi di sicurezza hanno deciso di chiudere la residenza presidenziale Usa anche alla stampa dotata di “hard pass”. Il “lockdown” è durato un paio d’ore, sino a quando i manifestanti hanno abbandonato la zona antistante l’edificio e hanno marciato per altre vie del centro fino a Capitol Hill. Gli interventi - Ieri sono intervenuti i leader più popolari tra la comunità afroamericana, a cominciare da Barack Obama. L’ex presidente scrive in una nota che “la morte di George non dovrebbe essere considerata normale nell’America del 2020”. Obama chiede ai magistrati di “fare rapidamente giustizia” e invita “tutti” a sconfiggere “razzismo e fanatismo”. Il candidato democratico Joe Biden telefona alla famiglia di George e poi, dalla sua casa nel Delaware, dice che “i cattivi poliziotti vanno puniti”. Infine un appello simile a quello di Obama: “Nessuno di noi può tacere davanti a un’invocazione come “non riesco a respirare”. Chi tace è un complice”. L’intervento di Trump - Anche Donald Trump, fa sapere la Casa Bianca, si mette in contatto con i familiari di George, non prima però di aver twittato: “I teppisti stanno disonorando la memoria di George Floyd e io non lascerò che ciò accada. Ho appena parlato con il governatore Tim Walz e gli ho detto che i militari sono a sua disposizione. Siamo pronti ad assumere il controllo davanti a ogni difficoltà, ma quando cominciano i saccheggi si comincia anche a sparare”. I gestori della piattaforma social hanno “segnalato” il flash del presidente: “Questo tweet ha violato le nostre regole sull’esaltazione della violenza. Tuttavia abbiamo deciso di non oscurarlo poiché potrebbe essere di pubblico interesse”. In un altro post il presidente rimprovera al governatore Walz e al sindaco Jacob Frey, entrambi democratici, “una totale mancanza di leadership”. Avvertimento finale: “Riportate la città sotto controllo o invierò la Guardia Nazionale a mettere le cose a posto”. In realtà la Guardia Nazionale, che dipende dal governatore, è già schierata in città da un paio di giorni. Circa 500 militari che finora non sono riusciti ad arginare i disordini della notte tra giovedì e venerdì. E in particolare l’incendio appiccato al Terzo Distretto di Polizia, il comando da cui dipendevano l’agente Chauvin e gli altri tre. Un assalto trasmesso in diretta dalle tv: immagini destinate a restare come testimonianza di questo nuovo ciclo di rivolte. Anche giovedì i manifestanti si sono dati appuntamenti davanti all’edificio, protetto da un cordone di agenti in assetto anti sommossa e da tiratori scelti sui tetti. Ma lo schieramento non ha avuto alcun effetto deterrente. Alle 22 il sindaco Frey, come ha raccontato lui stesso, chiede alla polizia di ritirarsi. Si giustifica con queste parole: “Il simbolismo di un edificio non può pesare più dell’importanza della vita”. La famiglia di Floyd ha fatto sapere che vuole una autopsia indipendente dopo che quella del medico legale della contea di Heppepin ha escluso l’asfissia traumatica e lo strangolamento. Lo rende noto il suo avvocato, spiegando che i famigliari della vittima non hanno fiducia nelle autorità di Minneapolis. El Salvador. Autoritratto di uno stato diventato brutale come le gang di Carlos Dada* Internazionale, 30 maggio 2020 Le fotografie hanno un’estetica morbosa. File interminabili di uomini delle gang posizionati come se remassero coordinati, o provassero una coreografia sincronizzata. Una massa che distrugge ogni individualità e privilegia le geometrie dell’insieme; un organismo fatto di uomini uguali, prodotti in serie, rasati a zero, denudati a eccezione delle mutande bianche, pieni di tatuaggi, seduti con le gambe aperte per toccare con il petto la persona di fronte, con le mani ammanettate dietro la schiena, inevitabilmente a contatto con l’inguine e i testicoli del detenuto alle spalle, che ha a sua volta le mani ammanettate dietro, le gambe aperte e la testa appoggiata sulla spalla del detenuto di fronte. Attaccato uno all’altro. L’altro a un altro ancora. E così all’infinito, a perdita d’occhio. Attaccati al punto che, se a una delle estremità qualcuno collegasse dell’elettricità, questa si trasmetterebbe come una catena fino all’altra estremità. Oppure un virus. Se non ci fosse una macchina fotografica a immortalarla, la scena non avrebbe alcun senso. I detenuti sono stati tirati fuori dalle loro celle, disposti nel cortile fino a creare un assemblaggio ideale per i fotografi del governo di El Salvador. Il ritratto pianificato di un insieme di criminali, come un mostro dalle mille teste, sottomesso dalla mano pesante dell’esercito. Mano pesante. Ancora una volta. Grande ondata di omicidi - Non c’è niente di spontaneo in queste scene. Diffuse dalla presidenza, le foto hanno occupato le prime pagine di riviste di tutto il mondo, sorprendendo i loro caporedattori non solo per la forza visiva, ma anche per il significato che veicolano: propaganda, populismo, brutalità premeditata. Un ammasso di esseri umani voluto dal governo salvadoregno in piena pandemia da coronavirus. Il tutto accompagnato da un tweet del presidente Nayib Bukele, che autorizzava la polizia a ricorrere alla “forza letale” nella lotta alle gang criminali. Nel Salvador invece le immagini, come il tweet presidenziale, sono state apprezzate, probabilmente per le stesse ragioni. Com’è possibile che i salvadoregni festeggino quel che fuori del paese è condannato con tanto vigore? Le foto sono state scattate dopo la più grande ondata di omicidi che questo governo abbia mai affrontato, attribuita ai membri delle bande criminali Mara Salvatrucha e Barrio 18. Sessanta morti in tre giorni, tra cui piccoli commercianti, venditori ambulanti e fornai, uccisi per non aver pagato il denaro dell’estorsione. Così ha vissuto buona parte dei salvadoregni negli ultimi tre decenni: sottomessa alla volontà dei criminali che violentano le sue figlie, che uccidono i suoi figli, che estorcono e controllano intere comunità. Lo ammetto: dopo anni passati ad ascoltare i racconti degli orrori commessi dai delinquenti, non ho più lo stomaco di dire niente a loro discolpa. Capisco che sono un doloroso monito per tutto il male che abbiamo fatto come società, che loro stessi sono vittime dell’abbandono dello stato. Che sono cresciuti in un mondo che gli ha dato poche possibilità, nel quale il crimine dava un senso a una vita condannata alla miseria e nella quale la violenza era l’unico strumento di potere o di sopravvivenza. Non si dovrebbero trarre lezioni morali dai cittadini disperati. Né esigerle - Capisco tutto questo. Ma ogni volta che ripenso alle madri che cercano i loro figli, o in lacrime per l’assassinio delle loro figlie, provo una stretta allo stomaco. Ogni volta che ascolto o leggo testimonianze della loro crudeltà, molte volte descritte da loro stessi, mi sento disgustato. Sono azioni abominevoli. E allora penso: se mi sento così io, chissà come soffrono i familiari di queste vittime. Poche cose mi paiono più naturali del fatto che queste madri e questi padri approvino qualsiasi atto di repressione esercitato su questi criminali, e che le famiglie si sentano vendicate da qualsiasi azione che provochi sofferenza ai responsabili del loro dolore. Per questo capisco che si ammettano le immagini dei detenuti messi in fila, che siano approvate le esecuzioni extragiudiziali che i poliziotti commettono contro i presunti malviventi, anche se già immobilizzati, e l’invito di Bukele a poliziotti e soldati di ricorrere alla “forza letale”. Il ragionamento è molto semplice: se le gang sono responsabili della maggior parte degli omicidi; se sottomettono centinaia di migliaia di salvadoregni al loro crudele dominio; se violentano le loro figlie, assassinano i loro figli, li ricattano con le estorsioni… Se sono insomma il cancro della nostra società, perché criticare chi contribuisce, in qualsiasi modo, a estirpare questo tumore? È questa la logica di fondo delle spirali della violenza. Però non si dovrebbero trarre lezioni morali dai cittadini disperati. Né esigerle. Difendere lo stato di diritto - Il problema sorge quando sono le nostre autorità a violare la legge. Quando poliziotti o soldati si trasformano in rapitori, giudici ed esecutori. Quando il presidente s’impegna a usare tutte le risorse dello stato per difendere poliziotti che hanno abusato di questa forza letale. Quando, in piena pandemia, si organizza un’azione di sovraffollamento per inviare un messaggio politico, tramite le immagini di una coreografia grottesca. Il disprezzo per i diritti umani è scandaloso. Sì, è immorale. Ma è anche illegale. Dalle autorità dobbiamo aspettarci, ed esigere, il rispetto delle leggi e azioni esercitate nei limiti delle leggi. Altrimenti delegittimano il sistema e le istituzioni della repubblica. Cancellano quello stesso stato di diritto che sarebbero obbligate a garantire e che gli conferisce, giustamente, autorità. E devono rispettare le leggi con tutti i cittadini. Con quelli che sono stati buoni, ma anche con quelli che sono stati cattivi. La punizione di questi ultimi, per aver attentato al nostro contratto sociale o ai nostri diritti, è effettivamente contemplata dalla legge. È la nostra unica giustificazione, come società, per mantenere degli esseri umani chiusi nelle nostre prigioni: è la punizione prevista per quanti violano la legge. È un principio elementare per la vita di una comunità: tutti abbiamo dei diritti e le autorità sono obbligate non solo a rispettare i nostri diritti, ma a garantirli. Quasi tutti gli uomini delle gang che appaiono in quelle foto, erano dei bambini nel 2003 - Ha ragione chi dice che gli uomini delle gang sono i primi a non riconoscere i diritti degli altri. Noi tutti c’indigniamo per ogni nuova notizia delle atrocità commesse da molti di loro. Ma questo non esonera lo stato dal rispettare i suoi obblighi legali. In questo consiste lo stato di diritto. Quando la polizia o il presidente violano la legge non stanno proteggendo i loro cittadini, ma tradendo i meccanismi concepiti per difenderli, ovvero le leggi e i tribunali che applicano la giustizia. Quel che fanno è trascinare il paese in una situazione alla “si salvi chi può” in cui le leggi non proteggono più i cittadini, ma solo la capacità di esercitare violenza. “Non si può fare il male per ottenere il bene”, era stato il monito di monsignor Romero in una delle sue lettere pastorali, e lo ha ripetuto più volte nelle sue omelie. Quando si compie il male, ne conseguono mali maggiori. Quasi tutti i membri delle gang che appaiono ammassati nelle foto diffuse dal palazzo presidenziale, erano dei bambini nel 2003. Quell’anno il presidente Francisco Flores lanciò la prima campagna di repressione delle bande. Incaricò poliziotti di sfondare le porte nelle comunità più povere, a mezzanotte, con il fucile spianato e di compiere enormi retate di ragazzi tatuati. In quelle stesse case vivevano quei bambini: fratelli, vicini o figli delle persone arrestate. Cosa speravamo che ne fosse di loro? E cosa ci aspettavamo che ne fosse della polizia, dopo che è stata lasciata impunita la prima esecuzione extragiudiziale, e poi la seconda, e la terza? È una costante della nostra storia: quando lo stato infrange le leggi non fa altro che perpetuare il ciclo della violenza. Lo sappiamo perché politici di diversi partiti hanno utilizzato le gang a fini elettorali. La loro intenzione non è sradicare la violenza, bensì sfruttare la disperazione delle vittime che chiedono soluzioni urgenti a problemi urgenti. Perciò espongono pubblicamente i criminali cosicché la gente gli sputi addosso, gli dimostri il proprio disprezzo, gli auguri di essere uccisi dal virus, di ammazzarsi tra di loro o per mano della polizia. O scendono a patti con le gang perché riducano gli omicidi, trasformandole così in attori politici. La violenza, ripeteva Romero, può essere sradicata solo occupandosi delle sue cause strutturali. Romero è stato il più importante difensore dei diritti umani. Le autorità che violano la legge, ammoniva, devono rispondere di questi crimini. Mi preme ricordarlo perché Nayib Bukele è già il terzo presidente che, esponendo il ritratto di Romero nel palazzo presidenziale, autorizza violazioni dei diritti umani e si scaglia contro le organizzazioni che difendono questi princìpi fondamentali. Non che i presidenti precedenti avessero evitato il terreno della brutalità: ma non esibivano il ritratto di Óscar Romero nel palazzo presidenziale, una consuetudine inaugurata da Mauricio Funes. Lo stato imbarbarito - Bukele non si è comportato diversamente. Nelle ultime settimane ha accusato le organizzazioni per i diritti umani di essere “organizzazioni di facciata” che difendono interessi nascosti. È una retorica che sfortunatamente in El Salvador conosciamo bene, già da prima che cominciasse la guerra. E ogni volta la usano coloro che giustificano la violazione dei diritti umani in nome della lotta ai nemici del popolo. Quelle foto degli uomini delle gang in carcere, ammassati gli uni accanto agli altri, sono autoritratti dello stato. Nati come strumento di propaganda - immagine, violenza, politica - portano lo stato sullo stesso piano morale delle gang, quello di organizzazioni criminali. Mi spiego: le gang assassinano, stuprano, commettono estorsioni, sottomettono, minacciano; hanno all’attivo una lista lunghissima di barbarie, di atti inumani. Lo stato, invece, è umanista per concezione (l’essere umano, dice il primo articolo della costituzione, è l’origine e il fine dell’attività dello stato). È civilizzato. È una differenza fondamentale. Lo stato possiede il monopolio della forza, ma perché sia legittima dev’essere usata rispettando rigorosamente le leggi. Nella strategia contro le gang o contro le bande di rapitori o trafficanti di droga, quel che è in gioco è proprio il trionfo dello stato (istituzionale, costituzionale, legale) su quanti minacciano tali valori. Vale a dire il trionfo della civiltà sulla barbarie. Il paradosso è che, invece di cambiare i criminali, di renderli civili, è lo stato a essersi imbarbarito. Se questa è una guerra tra le gang e lo stato, come sostenuto dal governo, allora è chiaro chi è che sta vincendo. Al presidente Bukele danno fastidio le leggi, ma anche i diritti umani - Il 28 aprile, dopo l’ondata di critiche arrivate da organizzazioni legali e di difesa dei diritti umani, nazionali e internazionali, Bukele ha twittato: “Sappiamo tutti qual è il loro programma internazionale, che non ha nulla a che fare con i diritti umani. Il suo programma è difendere coloro che violentano, rapiscono, uccidono e fanno a pezzi”. L’attacco è continuato il 2 maggio: “Conosciamo il programma di queste ong di facciata, finanziate da poteri oscuri, che vogliono vedere l’America Latina trascinata nel caos. Grazie a Dio, le loro comunicazioni e lettere sono irrilevanti in El Salvador”. Si tratta di una posizione molto diffusa in America Latina: siccome i difensori dei diritti umani tacciono quando sono i criminali a violare i diritti, e protestano quando sono questi ultimi a essere colpiti, allora queste organizzazioni difendono i criminali. La cosa è, ovviamente, falsa. Ci sono cose che le persone accusate di violazione dei diritti umani cercano quasi invariabilmente di ignorare: i cittadini colpiti dalle azioni di altre persone (le vittime di rapine, atti violenti, omicidi, estorsioni e così via) devono poter contare sulla protezione dello stato e sulle sue istituzioni - pubblico ministero, tribunali - per ottenere giustizia. Ma chi protegge i cittadini quando è lo stato stesso, o alcuni dei suoi funzionari, a violare i diritti dei cittadini? I difensori dei diritti umani e gli avvocati hanno come compito proprio quello di difendere i cittadini (buoni o cattivi) quando le autorità hanno violato i loro diritti. Per questo sono state create queste figure. In El Salvador, l’ufficio per la difesa dei diritti umani (Pddh) è nato nel quadro degli Accordi di pace, per garantire che non ci saremmo più trovati indifesi di fronte ad abusi di potere. Affinché i cittadini abbiano qualcuno cui rivolgersi quando diventano vittime dello stato. In tutti gli altri casi, anche per le vittime di atti commessi dalle gang, è lo stato ad avere il compito di proteggere le persone e i loro diritti. Se le istituzioni non risolvono una questione (per negligenza, malevolenza o corruzione) le vittime possono rivolgersi al Pddh perché, oltre che di un delitto, sono vittime di uno stato che non ha reso loro giustizia. Esistono inoltre organizzazioni non governative di difesa dei diritti umani, che hanno come principale funzione la denuncia e il sostegno alle vittime. A Bukele danno fastidio le leggi, ma anche i diritti umani. La loro realizzazione e la loro difesa ostacolano la concezione del potere di un presidente che non crede di doverlo condividere con altre istituzioni dello stato, e che considera come ostacoli i contrappesi del sistema democratico, siano essi il parlamento, la corte suprema, i tribunali, la Pdhh, i mezzi d’informazione, Human Rights Watch, Amnesty International, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, i sindacati, l’università gesuita Uca, l’ordine dei medici o qualsiasi altra organizzazione che critichi il suo operato. E che si frapponga tra i suoi piani e le sue truppe. Simone Weil, la filosofa francese che tra le due guerre mondiali abbracciò il cattolicesimo operaio, aveva riflettuto su queste cose. E concluse che “la brutalità, la violenza e la disumanizzazione hanno un prestigio immenso… Per ottenere un prestigio equivalente, le virtù contrarie devono essere esercitate in maniera costante ed efficace”. Quando si combatte la brutalità con altra brutalità, quando alla barbarie si risponde con la barbarie, il risultato è inequivocabilmente lo stesso: il proseguimento del ciclo della violenza. Disprezzare i diritti umani e attaccare i difensori dei diritti umani ha l’obiettivo politico, come quasi tutte le espressioni di questa amministrazione, di sviare l’attenzione dal vero problema, che è strutturale. Per risolverlo, per spezzare cioè il ciclo della violenza, servono esattamente le misure opposte: prestare attenzione alle sue cause strutturali, a partire dal rispetto della legge, ovvero della civiltà. Anche con gli uomini di una gang. *Traduzione di Federico Ferrone