Carceri nel caos, disordini e scarcerazioni: lascia il direttore delle prigioni Basentini di Liana Milella La Repubblica, 2 maggio 2020 In difficoltà sin dai giorni delle rivolte e per la vicenda dei boss mafiosi. Il vice Tartaglia subito al lavoro. Il Pd Verini parla di “gesto giusto e non inatteso”. Salvini e Renzi s’intestano il passo indietro. Un colloquio, giovedì pomeriggio, con il Guardasigilli Alfonso Bonafede, e lì stesso l’annuncio delle dimissioni. Lascia il direttore delle carceri Francesco Basentini. Che allo stesso ministro, durante l’incontro, avrebbe detto: “Le polemiche di questi giorni sono strumentali e totalmente infondate, ma fanno male al dipartimento”. Bonafede lo ha ringraziato per il lavoro svolto. Le sue dimissioni saranno formalizzate probabilmente già domani quando ci sarà la presa di possesso del nuovo vive direttore Roberto Tartaglia. Ancora incerto il nome del possibile successore, anche se già circolano molti nomi sui quali pero non c’è alcuna conferma. La lettera - Alle 11 è il Sappe, il più numeroso sindacato della polizia penitenziaria, che dà la notizia dell’abbandono di Basentini, la cui poltrona traballa sin dai giorni delle rivolte di febbraio. Il Sappe già parla di una lettera indirizzata a Bonafede. Basentini, chiamato da Repubblica, non risponde al suo cellulare e contesta le ricostruzioni sulle ultime scarcerazioni dei boss. Ma il segretario del Sappe Donato Capece dice: “Ho parlato stamattina con lo stesso Basentini dal quale ha avuto la conferma che effettivamente si è dimesso dal vertice del Dipartimento delle carceri”. Le dimissioni vengono enfatizzate dalla Lega, con dichiarazioni dello stesso Salvini, ma anche di Giulia Bongiorno. Il capo del Carroccio da settimane insiste sulle dimissioni di Basentini. E ieri ha chiesto anche quelle dello stesso Bonafede. Contro Basentini anche i renziani Boschi e Migliore, che al pari della Lega, dai giorni delle rivolte, chiedono che sia sostituito. Il responsabile Giustizia del Pd Walter Verini parla di “scelta giusta e non inattesa”. Le scarcerazioni dei boss mafiosi - Dopo le recenti scarcerazioni dei boss mafiosi, e in particolare dopo la polemica su quelle di Pasquale Zagaria, la posizione del capo delle carceri era diventata via via sempre più traballante. Appena due giorni fa lo stesso Bonafede aveva scelto il vice direttore, il magistrato napoletano, ma per anni pm a Palermo, Roberto Tartaglia, nel pool del processo trattativa Stato-mafia. Attualmente consulente della commissione parlamentare Antimafia, Tartaglia ha incassato le lodi dell’ex pm, ora al Csm, Nino Di Matteo. Proprio il nome di Di Matteo viene fatto dal Sappe come quello di un possibile sostituto di Basentini, assieme a quelli dell’attuale procuratore di Napoli Gianni Melillo e dell’ex pm di Napoli Catello Maresca. Ma non sembra che la scelta di Bonafede possa andare in questa direzione. Tartaglia comunque, che ha già avuto il via libera del Csm, arriverà al Dap già domani. Lascia il capo del Dap Basentini dopo le polemiche sulla scarcerazione di boss Il Sole 24 Ore, 2 maggio 2020 Era finito al centro delle polemiche anche per le rivolte nei penitenziari. Saranno formalizzate oggi, 2 maggio, le dimissioni di Francesco Basentini, capo del Dap, Dipartimento amministrazione penitenziaria. Una decisione, quella delle dimissioni, che era nell’aria, da quando Basentini era finito al centro delle polemiche per le rivolte scoppiate nei penitenziari e per le scarcerazioni di boss mafiosi. “Le polemiche di questi giorni sono strumentali e totalmente infondate, ma fanno male al dipartimento”, avrebbe detto Basentini in un incontro col ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. La vicenda è legata alle scarcerazioni effettuate nel periodo dell’emergenza coronavirus nelle carceri sovraffollate, per evitare il dilagare dei contagi da coronavirus (al 31 marzo sono 57.846 i detenuti in Italia rispetto a una capienza regolamentare di 50.754). L’arrivo di Tartaglia al Dap - Dopo le polemiche è in arrivo - nel ruolo di vicecapo del Dap - Roberto Tartaglia, per dieci anni sostituto procuratore della Repubblica a Palermo, dove ha gestito numerosi detenuti sottoposti al regime del 41-bis, da Salvatore Riina a Leoluca Bagarella ai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano. “Un magistrato di grande valore, da sempre in prima linea contro la mafia”, ha detto il guardasigilli Alfonso Bonafede. I casi nel mirino - Ci sono alcuni casi nel mirino delle polemiche. Aveva quasi ottenuto i domiciliari Raffaele Cutolo, boss della Nuova camorra organizzata, mentre era stato scarcerato il boss dei casalesi Pasquale Zagaria, malato di tumore. Un ergastolano sottoposto al regime di carcere duro, il 41-bis, seguito presso l’ospedale di Sassari per la sua malattia. E siccome la struttura ospedaliera è oggi riservata ai pazienti Covid-19, secondo il capo del Dap non poteva stare in carcere. Discussioni anche per l’uscita di Pietro Pollichino, detenuto nel carcere di Melfi per associazione a delinquere di stampo mafioso e condannato, nel 2018, a 6 anni e 8 mesi di reclusione. Salvini chiede le dimissioni di Bonafede - Il leader della Lega Matteo Salvini ha chiesto anche al ministro Bonafede di dare le dimissioni: “Le dimissioni del direttore del Dap Basentini non bastano a cancellare quanto successo in poche settimane tra carceri in rivolta, morti, evasioni e perfino mafiosi e assassini usciti a decine di galera. Il ministro Bonafede è il primo responsabile: dimissioni!”. Una posizione che vede sulla stessa linea d’onda Giorgio Mulé, deputato di Forza Italia e portavoce dei gruppi azzurri di Camera e Senato: “Le dimissioni del capo Dap Basentini certificano il fallimento del suo diretto superiore e cioè il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Lo stesso ministro che, in base al principio di responsabilità, se fosse stato in... buona fede avrebbe dovuto pretendere le dimissioni di Basentini ben prima delle rivolte carcerarie durante l’emergenza Covid”. Mirabelli: si verifichi se errori abbiano favorito le scarcerazioni - “Le dimissioni di Basentini sono un atto di responsabilità dell’ex capo del Dap. In questi mesi si sono rese sempre più evidenti le difficoltà della struttura preposta a governare il sistema dell’esecuzione penale e questo passo può e deve aiutare il cambiamento e un migliore funzionamento del sistema carcerario”, ha detto Franco Mirabelli, vice presidente dei senatori del Pd e capogruppo Pd in commissione Antimafia, chiedendo di verificare se eventuali scelte sbagliate da parte di chi ha avuto e ha ruoli nella direzione della struttura penitenziaria “abbiano consentito o favorito la scarcerazione di tanti boss”. Dimissioni necessarie ma tardive, quelle di Basentini per Maria Elena Boschi (Iv): “Si rincorrono voci, non confermate, sulle dimissioni del Capo dell’amministrazione delle carceri, Basentini. Sarebbero un gesto necessario anche se tardivo. Bonafede proponga come nuovo capo una figura saggia e autorevole”. Basentini: “Polemiche infondate che fanno male al Dap” rainews.it, 2 maggio 2020 “Le polemiche di questi giorni sono strumentali e totalmente infondate ma fanno male al Dipartimento”. Lo ha detto il capo del Dap, Francesco Basentini, in un incontro avvenuto ieri con il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, manifestando l’intenzione di dimettersi dall’incarico. Francesco Basentini lascia la guida del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Le sue dimissioni, chieste da tempo da più forze politiche, saranno formalizzate domani, quando prenderà servizio Roberto Tartaglia, nominato nei giorni scorsi vicecapo del Dipartimento che amministra le carceri italiane. Basentini, ex procuratore aggiunto di Potenza voluto dal Guardasigilli, Alfonso Bonafede, a capo del Dap nel giugno 2018, poco dopo l’insediamento del ministro in via Arenula, ha manifestato l’intenzione di dimettersi in un colloquio avuto ieri con lo stesso Bonafede: “Le polemiche di questi giorni sono strumentali e totalmente infondate, ma fanno male al Dipartimento”, sarebbero state le parole da lui rivolte al ministro, il quale lo ha ringraziato per il lavoro svolto. La situazione delle carceri, già complicata per il sovraffollamento che nell’ultimo anno è aumentato di mese in mese, si è fatta esplosiva con l’emergenza coronavirus: il 7 marzo, dopo la notizia che le visite ai detenuti da parte dei familiari sarebbero state sospese per contenere il rischio di contagi, in decine di istituti di pena, da nord a sud, sono scoppiate gravissime rivolte, con danni molto pesanti anche alle strutture. Un momento critico nel quale, da più parti, sono iniziate a circolare richieste sulla sostituzione di Basentini alla guida del sistema penitenziario. Richieste diventate ancora più pressanti dopo l’uscita dal carcere di alcuni esponenti della criminalità organizzata, su tutti Pasquale Zagaria, fratello di Michele, boss del clan dei Casalesi, legate a ragioni di età e di salute. Non sono bastati a smorzare le polemiche sul capo del Dap il decreto legge contro le scarcerazioni facili dei boss approvato nella notte tra mercoledì e giovedì scorsi dal Consiglio dei ministri e nemmeno i tempi strettissimi con cui il Csm ha dato il via libera alla nomina di Roberto Tartaglia, noto magistrato antimafia, a vicecapo del Dap, scelto da Bonafede. l tam tam sulle dimissioni di Basentini ha preso il via ieri sera, attraverso i sindacati di Polizia penitenziaria, e per domani si attende l’iter formale in via Arenula. C’è chi, infine, tra i sindacati, fa già ipotesi su chi potrebbe andare ora alla guida del Dap: tra i nomi circolati, oltre a quello di Nino Di Matteo, ex pm del processo Stato-mafia e oggi togato del Csm, quelli del pm napoletano Catello Maresca e di Giovanni Melillo, attuale capo della procura di Napoli. Nessuno tocchi Caino: “Basentini troppo poco giustizialista per l’antimafia militante” Il Dubbio, 2 maggio 2020 Rita Bernadini, Sergio d’Elia ed Elisabetta Zamparutti dopo la notizia delle dimissioni da capo del Dap: “Troppo anche per Francesco Basentini, da sempre antimafioso, ma non abbastanza furioso quanto lo sono quelli in voga oggi, per i quali la lotta alla mafia - sottolineano - deve essere una guerra senza quartiere, da condurre all’insegna della terribilità e anche in deroga a principi costituzionali fondamentali e diritti umani universali, quali il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della persona”. “Con Francesco Basentini non abbiamo mancato di polemizzare, aiutandolo, durante il tempo della sua presidenza del Dap, né di segnalare i casi più gravi legati alle condizioni di detenzione nelle carceri sovraffollate del nostro Paese. Detto questo, le sue dimissioni non sono altro che il risultato dell’inasprimento di una linea, sempre più sguaiata e compulsiva, che in questi ultimi mesi si vorrebbe imporre su tutto e a tutti”. Così l’associazione Nessuno tocchi Caino-Spes contra spem con gli esponenti Rita Bernadini, Sergio d’Elia ed Elisabetta Zamparutti dopo la notizia delle dimissioni da capo del Dap di Francesco Basentini. “Troppo anche per Francesco Basentini, da sempre antimafioso, ma non abbastanza furioso quanto lo sono quelli in voga oggi, per i quali la lotta alla mafia - sottolineano - deve essere una guerra senza quartiere, da condurre all’insegna della terribilità e anche in deroga a principi costituzionali fondamentali e diritti umani universali, quali il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della persona. Le Erinni dell’Antimafia, della Certezza della Pena, del Fine Pena Mai, non abitano solo in via Arenula, popolano anche il mondo della politica e dell’informazione”. “In quest’ultimo, fanno eccezione Il Riformista diretto da Piero Sansonetti totalmente dedito a una straordinaria campagna politica e culturale garantista; fanno eccezione - dicono - anche Carlo Fusi, Errico Novi e Damiano Aliprandi per la loro meritoria opera di informazione dalle pagine de Il Dubbio”. “Consola poi leggere e ascoltare gli interventi, a tutela della Costituzione e a garanzia dei diritti di giustizia e libertà, di alte magistrate come Marta Cartabia, Presidente della Corte Costituzionale, Giovanna di Rosa, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano e, ancora, di Antonietta Fiorillo, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna e coordinatrice del Coordinamento nazionale magistrati di Sorveglianza, così come di Alessandra dal Moro, componente del Csm, tutte donne capaci, nel dialogo anche con le Erinni, di contenerle, porre loro un limite e volgerle al bene, preservando così il senso autentico del Diritto che è volto a evitare che l’individuo, detenuto o libero che sia, sia ridotto a mero oggetto di consumo, da usare e di cui abusare”, conclude. Coronavirus, Garante: morto un detenuto, i positivi sono 159, gli agenti contagiati 215 rainews.it, 2 maggio 2020 L’affollamento delle carceri si sta riducendo, ma secondo il Garante delle persone private della libertà, ancora non c’è la possibilità di avere spazi di gestione e di tutela della salute in grado di fronteggiare un eventuale aumento del contagio. È morto all’ospedale “San Paolo” di Milano, dove era ricoverato dal 12 aprile scorso, un detenuto del carcere di San Vittore. Lo rende noto il Garante delle persone private della libertà, Mauro Palma. L’uomo, di 54 anni, aveva contratto il virus in istituto ed era stato trasferito in ospedale non appena si erano manifestati i sintomi, con un’operazione che formalmente lo aveva scarcerato. Al momento sono 159 i detenuti contagiati (un numero in ascesa) mentre sono 215 gli agenti di polizia penitenziaria positivi al Covid-19. Attualmente i detenuti sono in totale 53.187, fa sapere ancora il Garante che sottolinea come il trend, per quanto riguarda il numero complessivo di detenuti in carcere, nonostante sia in riduzione, lasci inalterata la necessità urgente di un “ulteriore impulso affinché sia possibile, in termini di spazi di gestione e di tutela delle salute di chi negli istituti opera e di chi vi è ospitato, disporre di sufficienti possibilità per fronteggiare ogni possibile negativo sviluppo dell’andamento del contagio”. Indignati per i domiciliari a un detenuto malato, ma silenzio per l’inesistenza delle cure al 41bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 maggio 2020 L’accusa principale al capo dimissionario del Dap Basentini è quella di aver risposto in ritardo per trovare un centro clinico adeguato per il detenuto pieno zeppo di patologie. Ma quelli che ora si stracciano le vesti sono gli stessi che si sono disinteressati della mancata assistenza sanitaria per i detenuti della regione Sardegna. Indignazioni, improbabili programmi come quelli condotti da Massimo Giletti, interrogazioni parlamentari e infine le dimissioni del capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Francesco Basentini, tutte concentrate sulla detenzione domiciliare concessa a Pasquale Zagaria recluso al 41 bis del carcere di Sassari. L’accusa principale al capo del Dap è quella di aver risposto in ritardo per trovare un centro clinico adeguato per il detenuto pieno zeppo di patologie. Ma quelli che ora si stracciano le vesti, sono gli stessi che si sono disinteressati del grave problema riguardante l’assistenza sanitaria per i detenuti della regione Sardegna, compreso appunto coloro che sono in regime di alta sicurezza o al 41 bis. Sono reclusi per reati di mafia, in quel caso il diritto alla salute diventa un optional e, tranne questo giornale, a nessuno è interessato. Ma il paradosso è che ora però si ricordano del problema sanitario nelle carceri quando un giudice, per salvare la vita di un detenuto, concede la detenzione domiciliare per curarsi meglio. Fin dal 2017, il garante nazionale delle persone private della libertà aveva posto l’attenzione proprio sulla Sardegna. Lo ha ricordato oggi tramite il suo bollettino settimanale. Già nel 2017, in un Rapporto inviato all’Amministrazione penitenziaria dopo una visita regionale in Sardegna e successivamente pubblicato sul sito, il Garante aveva evidenziato “l’esigenza di avere nella Regione [Sardegna] almeno un servizio di assistenza intensiva (Sai) in grado, in base alle caratteristiche strutturali, di proporre assistenza sanitaria ospedalizzata, seppure per brevi periodi, alle persone detenute in regime di alta sicurezza o in regime speciale ex articolo 41-bis o.p.”. A tal fine aveva formulato la seguente Raccomandazione (tenendo in conto la presenza nella regione rispettivamente di 520 e 90 persone detenute in AS o in regime speciale): “Il Garante nazionale raccomanda al Provveditorato regionale di provvedere con urgenza ad attivare un Servizio di assistenza intensiva (Sai) in grado di rispondere alle esigenze di tutela della salute di tutte le persone detenute nella Regione, compresi coloro che sono in regime di alta sicurezza o in regime ex articolo 41-bis o.p., attraverso la stipula di un protocollo con l’Azienda per la tutela della salute (Ats) della Regione. Chiede di essere tempestivamente informato sia dell’avvio di tale interlocuzione con le autorità sanitarie sia delle conseguenti scadenze concordate per la risoluzione del problema”. Purtroppo, tuttavia, non era seguita risposta alcuna da parte dell’Amministrazione. Come se non bastasse, in un Rapporto tematico sul 41 bis, il Garante aveva osservato le difficoltà di traduzione di una persona detenuta in alta sicurezza o in tale regime speciale laddove non esistesse un Sai che garantisse tutela della salute e sicurezza. Si legge in quel Rapporto: “è il caso della Sardegna, ove non è disponibile un Sai che possa essere utilizzato a tutela della loro salute, giacché quello dell’Istituto di Sassari - strutturato originariamente per tale popolazione detenuta - è stato recentemente trasformato in un Centro di osservazione psichiatrica e l’unico altro Sai della Regione, che si trova nell’Istituto di Cagliari-Uta, è riservato al circuito della media sicurezza”. Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria - fa sapere Il garante Mauro Palma tramite il bollettino odierno - aveva risposto relativamente alle traduzioni in termini generali citando l’estrema rarità della ipotesi prospettata dal Garante. Proprio per questo, il tema era stato ribadito nel Rapporto redatto a seguito della visita condotta nel luglio 2019 e il Garante nazionale, richiamando la Raccomandazione già formulata nel 2017, aveva rilevato come la peculiarità della collocazione delle persone detenute in alta sicurezza in Istituti della Sardegna potesse rischiare di determinare la compressione di un diritto fondamentale, quale il diritto alla salute. Nessuno si è indignato. Anzi, L’Espresso - lo stesso giornale che ha dato l’avvio all’indignazione - ha più volte scritto che il carcere modello per il 41 bis è proprio quello di Sassari. Dimenticandosi probabilmente che, oltre a vivere sotto terra, l’assistenza sanitaria per i reclusi al 41 bis con patologie gravi è inesistente. Intervista a Franco Coppi: “Bonafede? Riforme disastrose. Davigo? Rabbrividisco” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 2 maggio 2020 Il professore, il più celebre degli avvocati italiani, dice la sua sulla giustizia. E non è molto tenero né coi governanti, né coi magistrati. Sostiene che occorre una riforma radicale. E che nel frattempo serve anche una amnistia molto ampia. Per l’enciclopedia Treccani è l’avvocato più famoso d’Italia. Decano dei penalisti italiani, Franco Coppi - che per tutti è “il Professore” - in vita sua ne ha viste tante, assistendo anche Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi, solo per citare due nomi. Raggiunto dal Riformista, attacca con ironia: “Ne ho viste tante, ma non avrei mai immaginato di finire io stesso ai domiciliari”. Iperattivo, abituato a calcare le scene in tribunale, mal digerisce di dover stare chiuso in casa, nell’attesa che passi l’emergenza coronavirus. Classe 1938, lavora attivamente su alcuni dei casi recenti più spinosi, dall’omicidio del carabiniere Cerciello alle due ragazze investite in corso Francia a Roma. Siamo tutti ai domiciliari, professore… Mi dicono che ne avremo per un anno o forse più. Per questo studiano misure di lungo corso. A gestire questa fase, un premier avvocato. Che opinione ha di Conte? Se la sta cavando abbastanza bene, per uno che non aveva alcuna esperienza precedente in politica. Sta imparando il mestiere giorno per giorno. Ha avuto la fortuna e la sfortuna insieme di vivere questo momento particolarissimo, che comunque sarebbe stata una prima volta per chiunque. Detto questo, non ho mai avuto una predilezione per i politici dalla preparazione giuridica: i giuristi sono formali, l’uomo politico deve avere una elasticità diversa. E dunque? Giudizio sospeso, in attesa di poter valutare i risultati. Veniamo alla riforma del processo penale… Ecco, su questo un giudizio chiaro vorrei darlo: un disastro. Non si possono improvvisare le grandi riforme, altrimenti si ottengono risultati fallimentari. Chiunque assista a un’udienza si accorge che vengono ripetute le testimonianze e i documenti che tutti già conoscono, a eccezione del giudice, dai verbali investigativi del pm a quelli del dibattimento. Un meccanismo caotico, per di più aggravato dalla pretesa di ridurre la durata processuale complessiva, cosa che la riforma della prescrizione impedisce di fatto. Tutta colpa del ministro Bonafede? È un periodo in cui occorrerebbe un ministro della Giustizia con il coraggio di fare un bilancio attuale sul pianeta giustizia. Nuovo processo penale, prescrizione, gestione delle carceri: siamo alla débâcle. Il ministro che vorrei vedere oggi deve saper prendere di petto la situazione. Invece abbiamo trenta udienze per ciascun processo, e per questo ministro non c’è nessun problema. Glielo ha mai detto? Non ho mai avuto il piacere di conoscerlo e di parlargli. La riforma della prescrizione porta il suo nome… Questa di Bonafede è la peggiore riforma possibile. Renderà i processi eterni, senza fine. Aumenterà la discrezionalità dei processi tra quelli da trattare prima e quelli da trattare dopo. Bisogna rendersi conto che in un Paese dove arrivano a dibattimento tutti i processi, non si possono applicare regole aleatorie. Ma ho la sensazione che certi decisori di cultura giuridica ne abbiano poca. Tra le ultime decisioni, la rimozione del capo del Dap che aveva mandato a casa due boss mafiosi… Per me lo Stato forte si dimostra tale nell’amministrare la giustizia con equanimità, senza farsi trascinare dalle grida isteriche della piazza. Espressioni tipo “buttate le chiavi”, “marcire in carcere”, non devono appartenere a uno Stato di diritto, a una democrazia vera. A una persona anziana e malata deve essere accordata la detenzione domiciliare. I diritti fondamentali vanno garantiti. Non si deve ridurre la persona allo stato di cosa, altrimenti abbiamo dimenticato tutte le lezioni di Beccaria. Quali soluzioni indicherebbe per l’emergenza carceraria? Partire dalla base. Mandare a casa chi ha un residuo di pena inferiore a un anno. Ed è il momento di pensare a una vera amnistia. Sarebbe opportuno accordare una amnistia di particolare ampiezza, perché ci sono processi penali che hanno fatto patire già sin troppe sofferenze. E c’è un eccesso di custodia cautelare, troppa gente in attesa di giudizio, con tempi inammissibilmente prolungati. E per il pianeta carcere? Costruire carceri moderne, nuove, con la capacità di affrontare la popolazione carceraria. Oggi si vive in condizione disumana nelle carceri. E la popolazione carceraria corre il rischio di subire un supplemento di pena: se vanno evitati gli assembramenti, oggi tutte le celle delle prigioni sono fuorilegge. Qualcuno si assuma la responsabilità: cinque persone stipate in una cella piccola, non è dignitoso. Magari anche usando i braccialetti elettronici… È davvero imbarazzante, uno dei simboli di una giustizia imbrigliata. Ci sono, ci sarebbero. Ma non si usano, e si fatica ad averne. Parlo di casi che conosco: ho ottenuto l’ammissione di una persona ai domiciliari, ma è rimasta in carcere perché il braccialetto elettronico non si trova. Siamo davanti a una lesione quotidiana del diritto. Lei ha capito che fine abbiano fatto? Che fine abbiano fatto è un mistero. Deve esserci qualcosa dietro. Io so per certo che dal provvedimento alla disponibilità del braccialetto, passa troppo tempo. Si scontrerebbe con i magistrati duri e puri alla Davigo… Quando sento un magistrato dire che un imputato assolto è un delinquente che l’ha fatta franca, rabbrividisco: vuol dire che ha giudicato per anni con pregiudizio. Perché secondo lei certe figure finiscono per piacere così tanto alla pancia del Paese? Perché canalizzano la rabbia su capri espiatori facili da attaccare, non rendendo un gran servizio alla giustizia. Nella mia carriera mi sono sempre dedicato a far capire quali e quanti sono i rovesci della medaglia. Perché un giovane siciliano diventa mafioso, quali responsabilità ha la collettività. Se un giovane di 15 anni smette di andare a scuola e entra nelle file della malavita, bisogna andare alla radice, capire come avvengono certi processi. Invece siamo alla ricerca spasmodica del nemico, forti dell’idea che la colpa è sempre di qualcun altro. Succede, se la classe dirigente è debole… La politica ha grandi responsabilità. Investire nella cultura e nell’educazione, curare i giovani, accogliere la sofferenza: questo bisognerebbe fare, prima di pensare alla repressione e alla punizione. Più musei si fanno visitare, meno reati si compiono. Se finalmente vi incontraste, cosa suggerirebbe al ministro Bonafede? Metta mano a una revisione dei disastri cui assistiamo. Ci vuole un programma di riforma immediata, dei ritocchi presto attuabili. Metta insieme una commissione di saggi con pochi giuristi di fama per gli aggiustamenti immediati del processo penale. Scarcerare è legittimo, il consenso non serve di Alessandra Dal Moro* Il Riformista, 2 maggio 2020 Voglio esprimere, anche a nome degli altri consiglieri che si riconoscono in AreaDG, la mia preoccupazione per le reazioni e i commenti suscitati dalle scarcerazioni per motivi di salute di alcuni detenuti, esponenti di pericolose associazioni criminali e per questo sottoposti al regime dell’art. 41 bis dell’Ordinamento penitenziario, che, per i toni violenti od impropri, rischiano di alimentare una campagna di delegittimazione nei confronti della magistratura di sorveglianza. Una magistratura che - con le note difficoltà dovute alla carenza di organico e di personale che la drammatica contingenza non può che aggravare - è oggi impegnata a fronteggiare l’emergenza sanitaria che interessa carceri notoriamente e drammaticamente sovraffollati, valutando con attenzione le istanze dei detenuti che chiedono tutela del diritto alla salute e ai trattamenti sanitari indifferibili. Si tratta di decisioni difficili che implicano il necessario bilanciamento di interessi di rilevanza costituzionale, che deve avvenire nel rispetto delle norme del codice penale, dell’Ordinamento Penitenziario e, innanzitutto, dell’art. 27 della Costituzione, che, sancendo il principio di umanità della pena ed imponendo che la stessa sia tesa al recupero e alla rieducazione del condannato, ricorda che i detenuti anche i più pericolosi, sono persone, rispetto alle quali in nessuna fase la giurisdizione può abdicare al proprio ruolo di tutela dei diritti, e di quelli fondamentali innanzitutto. Naturalmente ogni singola decisione deve valutare in concreto, volta per volta, ogni vicenda, e decidere attuando un difficile bilanciamento dei valori in gioco, sentiti tutti gli interlocutori coinvolti. Ed ogni decisione è suscettibile di essere verificate dal Tribunale di sorveglianza e poi nei successivi gradi di giudizio. Perciò, come bene ha sottolineato il Presidente dell’ANM, ogni magistrato sa che le proprie decisioni possono essere discusse, riformate, non condivise e criticate, anche aspramente. Ma sa anche che in nessun modo il consenso sociale o politico può condizionare l’esercizio della giurisdizione, e che al consenso - così come al dissenso - non può che essere indifferente nell’esercizio delle sue funzioni, perché in ciò si realizza, primariamente, la prerogativa costituzionale della sua indipendenza. Ogni critica è legittima, quindi. Ma legittimi non sono gli attacchi e le offese o addirittura la richiesta di espulsione dall’ordine giudiziario che pure abbiamo sentito avanzare in questi giorni. Questi costituiscono violente delegittimazioni che ledono l’autonomia e l’indipendenza della giurisdizione ed al contempo la serenità che sempre deve assistere - ed in particolare in un momento così drammatico per l’emergenza sanitaria che ha colpito anche il mondo penitenziario - l’esercizio del compito difficilissimo di giudicare. Aggiungo, che, come abbiamo spesso ricordato in quest’aula anche in omaggio ad un grande Vicepresidente quale fu Vittorio Bachelet in un contesto per altre ragioni di grande emergenza democratica, lo Stato dimostra la propria forza proprio nel non abdicare mai al rispetto dei principi fondamentali su cui si fonda. Di fronte all’esecuzione della sanzione penale, che non è una vendetta ma uno strumento per realizzare la sicurezza sociale e tendere alla rieducazione della persona condannata, lo Stato mostra la sua forza proprio nel trattare chi delinque, chiunque egli sia, come un essere umano, rispettandone la dignità ed i diritti inviolabili come valore assoluto anche se si tratti del peggiore degli assassini. Ed in questo sta la sua grandezza. Non la sua debolezza. *Consigliera all’Anm di Area (corrente di sinistra dei magistrati) Tra i magistrati soffia la brezza del dissenso (leggera leggera)... di Piero Sansonetti Il Riformista, 2 maggio 2020 Posizioni molto diverse da quelle di Di Matteo e degli altri pro-linciaggio, ma ancora non si sente una condanna esplicita per la magistratura reazionaria, né per il ministro. Qualcosa si muove dentro la magistratura. Timidamente, timidamente. Il discorso pronunciato l’altro giorno al Plenum del Csm da Alessandra Dal Moro a nome di Area (la corrente di sinistra della magistratura) è finalmente una boccata d’aria, dopo giorni e giorni di silenzio asfissiante e di scatti di ira reazionari che ci stavano fornendo un’immagine terrificante del potere giudiziario. Ho scritto potere consapevolmente. Negli ultimi giorni la magistratura - guidata dai davighiani, da Di Matteo, Gratteri e poi Caselli, Travaglio e tutti gli altri ufficiali di complemento - non si è presentata all’opinione pubblica come un Ordine, qual è, ma come un potere: un potere arrogante e tiranno. Con l’esclusione, naturalmente, di alcuni suoi settori, come i magistrati di sorveglianza, che sono stati presi a bersaglio dai loro colleghi, vilipesi, insultati e alla fine massacrati e messi fuori gioco da un decreto che il partito dei Pm ha imposto al suo ministro - sempre piuttosto obbediente - il quale mercoledì notte lo ha varato, sebbene sia un decreto irrazionale e del tutto estraneo ai principi della Costituzione (ma anche dello Statuto Albertino del 1848) e a qualunque perimetro democratico. Il punto debole del discorso di Alessandra Del Moro è l’assenza di un vero e proprio atto d’accusa verso la stessa magistratura. La dottoressa Dal Moro, in modo assai efficace, ha demolito le sparate reazionarie dei politici e dei giornalisti che in questi giorni hanno fatto a gara nel chiedere che i principi della giustizia e i codici fossero messi da parte per dare spazio ai tribunali del popolo e delle Tv e ai linciaggi mediatici, o anche reali. La dottoressa Dal Moro ha spiegato molto bene quali siano i principi del diritto da rispettare e il recinto costituzionale dentro il quale magistratura deve muoversi. Però non ha denunciato esplicitamente due cose. La prima è la presa di posizione di magistrati, ex magistrati e anche membri autorevoli del Csm (mi riferisco ovviamente a Di Matteo), i quali si sono uniti alla campagna del linciaggio, anzi l’hanno guidata. Di Matteo, in particolare, ha accusato la sua collega del Tribunale di sorveglianza di Milano di collusione con la mafia. Ha detto che la sua collega milanese ha ceduto al ricatto della mafia. Possibile che il Csm non prenda posizione contro questa inaudita e orrenda calunnia lanciata da un suo membro? Eppure, con la partecipazione attiva proprio dei consiglieri di Area, il Csm aveva messo sotto accusa il consigliere professor Lanzi per molto meno. Solo per avere criticato genericamente la magistratura milanese per le inchieste sul Trivulzio. Come si spiega questa pratica dei due pesi? Come è possibile che l’incredibile uscita del consigliere Di Matteo resti così, senza che nessuno la censuri, la condanni, che almeno ne prenda le distanze? La seconda mancata denuncia riguarda il nuovo decreto Bonafede. Quello che prevede la delegittimazione della magistratura di sorveglianza e la concessione dell’onnipotenza alle Procure e ai Pubblici ministeri. È chiaro che è un decreto che viola non solo la Costituzione, ma ogni criterio di legalità. È una guappata, uno spavaldo colpo di maglio al diritto. Mi chiedo come mai il Csm, sempre così attento a giudicare e spesso condannare tutte le iniziative dei passati governi sui temi della giustizia, lasci passare senza obiezioni questa follia che mette in discussione in modo plateale e senza precedenti ogni principio di indipendenza del giudice. Chi scrive non è un tifoso dell’indipendenza della magistratura. Io penso che non ci sia niente di male nello schema francese o americano che non prevede l’indipendenza del Pubblico ministero ma lo subordina all’esecutivo. Però in quello schema è l’accusa che non è indipendente, non certo il giudice. Nessuno mai ha pensato di poter mettere in discussione l’indipendenza del giudice e addirittura di sottometterlo all’accusa. È una cosa evidentemente dissennata, dovuta probabilmente a pulsioni illegali e autoritarie, e a scarsa conoscenza della giurisprudenza e del diritto e della logica formale. Succede, quando uno vale uno. Le due cose - mancata denuncia della magistratura e mancata protesta contro il governo - sono in realtà molto legate tra loro. Per una ragione semplice: questo governo è in grandissima parte subalterno non alla magistratura in quanto tale, ma al cosiddetto partito dei Pm. E questo è un problema molto serio. Perché in questo modo si ferisce l’autorevolezza della magistratura, e la sua autonomia, e si delegittima il governo. Non è autonoma una magistratura che permette a un suo settore (il più visibile, il più attivo, il più televisivo) di adoperare la propria funzione per interferire o per egemonizzare, o per sottomettere, o per ricattare il potere politico. In queste condizioni non ha più senso parlare di indipendenza della magistratura. Tanto più quando le pressioni politiche della magistratura, paradossalmente - come nel caso dell’intervento contro i tribunali di sorveglianza - avvengono per delegittimare e per far perdere indipendenza a un settore della magistratura stessa. Su questi temi ci sono settori della magistratura disposti ad alzare la voce? A fermare la deriva autoritaria e reazionaria che oggi sembra inarrestabile? A uscire dal coro, a riprendere in mano le battaglie per il diritto, opponendosi al dilagare del corporativismo che da 30 anni ha preso il sopravvento nella categoria? Gabrielli: “Dal 4 maggio più forte il rischio di tensioni sociali e di un ritorno della criminalità” di Cristiana Mangani Il Messaggero, 2 maggio 2020 Il capo della Polizia: “Disagio sociale ed economico e ripresa dell’attività criminale: la fase 2 rischia di essere anche questo”. Lo sottolinea il capo della polizia Franco Gabrielli in una circolare con la quale predispone le attività sul territorio proprio in vista del 4 maggio “e della graduale ripresa delle attività ordinarie”. “L’allentamento delle misure di contenimento - sottolinea Gabrielli - e la riapertura delle attività produttive e commerciali determineranno un inevitabile incremento dei traffici, sotto il profilo della mobilità privata e pubblica, e una più intensa fruizione degli spazi pubblici e comuni da parte della cittadinanza. In tale scenario, prevedibilmente, si assisterà a una ripresa delle attività delittuose riconducibili alla c.d. criminalità diffusa, così come al tentativo della criminalità organizzata di infiltrarsi nel tessuto economico, gravemente colpito dalla crisi di liquidità”. Una preoccupazione e un allarme che il capo della polizia in queste ultime settimane ha più volte evidenziato ai questori, affinché alzino le antenne e predispongano le adeguate misure di contrasto. Il timore è anche legato al lavoro che manca, alla situazione di crisi, e di conseguenza a tutte quelle frange eversive, antagoniste ed estremiste che possono avere interesse a soffiare sul fuoco. “Altrettanto verosimilmente - aggiunge il prefetto - le Autorità di pubblica sicurezza e la Polizia di Stato si misureranno con le varie espressioni del disagio socio-economico derivanti dalla congiuntura indotta dall’epidemia, con inevitabili riflessi sotto il profilo dei servizi di ordine pubblico”. La tensione è palpabile, ed è per questo che il Dipartimento di pubblica sicurezza invita a predisporre tutto quello che serve, anche per tutelare la salute del personale di polizia che, “dalla rarefazione massima dei contatti sociali”, passerà “all’allentamento delle misure di confinamento”. Un passaggio da una fase a un’altra - dettano ancora le disposizioni - che “dovrà essere caratterizzato da coerenza, prudenza e gradualità”. Suggerimenti per la “formazione” di Elisabetta Burla* Ristretti Orizzonti, 2 maggio 2020 In questo periodo di emergenza sanitaria molte sono state le limitazioni imposte (anche) alle persone detenute tra queste, di non secondaria importanza, è l’impossibilità a frequentare i corsi formativi e i progetti realizzati dai volontari, progetti condivisi con la direzione degli Istituti e con l’area giuridico pedagogica, percorsi tutti che sono parte integrante del progetto di rieducazione del condannato e che permettono una crescita personale volta alla rivalutazione delle scelte che hanno portato alla commissione del reato. Con importantissime ricadute sulla sicurezza sociale e in termini di diminuzione della recidiva. Se l’Istituzione scolastica ha trovato lo spazio per poter riprendere - con non poche difficoltà - le lezioni da remoto non così accade per i corsi formativi finanziati dalle Regioni, anche con fondi europei (che andrebbero persi), e non così accade con i progetti pensati e realizzati dal volontariato, progetti che spesso incidono in modo importante e determinante sulla rivalutazione di un percorso di vita che ha portato al reato, che permette di maturare dei percorsi di crescita e di consapevolezza sul proprio ruolo all’interno della società e prima ancora all’interno della famiglia, permettendo alla persona di porre in essere un percorso di concreta e reale rivalutazione critica della propria azione permettendo e aumentando le possibilità di una più consapevole adesione ai percorsi formativi e ai progetti elaborati dai funzionari giuridico pedagogici. I volontari, assieme ai familiari dei detenuti, sono state le prime persone “sacrificate” in nome della sicurezza sanitaria all’interno degli Istituti penitenziari ma, come sta accadendo per il resto del territorio, anche all’interno delle carceri è necessario pensare ad una fase 2. Di massima importanza risulta quindi riaprire l’accesso anche ai volontari che attraverso il loro impegno realizzano progetti che costituiscono importanti percorsi di crescita personale. Se da un lato risulta fondamentale rivedere il D.L. 25 marzo 2020 e i vari Dpcm, l’ultimo dei quali (26.04.20) all’art. 1 lett. k) dispone che “sono sospesi.... e le attività didattiche in presenza nelle scuole di ogni ordine e grado....sospensione delle attività delle scuole di ogni ordine e grado, nonché la frequenza delle attività scolastiche... nonché i corsi professionali e le attività formative svolte da altri enti pubblici, anche territoriali e locali e da soggetti privati, ferma in ogni caso la possibilità di svolgimento di attività formative a distanza.....” prevedendo che le attività formative, anche all’interno del carcere, possano proseguire esclusivamente da remoto anche con la finalità esplicitata, sempre all’art. 1 lett. k) del Dpcm 26.04.20, “al fine di mantenere il distanziamento sociale” previsione questa che non è certo, né può essere rispettata. Dall’altro è un dato di fatto che le attività svolte dal volontariato non rientrano propriamente nell’ambito della citata norma costituendo - meglio - dei percorsi di rieducazione cui mira il fine ultimo della pena. Certamente dovranno essere previste delle corrette procedure di accesso al carcere a tutela dei volontari, degli operatori e dei detenuti tra cui l’utilizzo dei dispositivi individuali di protezione (mascherina, guanti e gel) illogica sarebbe la pretesa del rispetto del distanziamento sociale. È quindi necessario prevedere delle procedure adeguate e adottare delle disposizioni precise per garantire la ripresa degli accessi da parte dei volontari *Garante dei diritti dei detenuti di Trieste Milano. Il virus uccide detenuto di San Vittore, era stato contagiato in carcere di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 2 maggio 2020 L’uomo, 54 anni, da tre settimane era ricoverato all’ospedale San Paolo. È la settima vittima del Covid nelle carceri italiane. Era in custodia cautelare. Non stava espiando una condanna definitiva, ma era in custodia cautelare dal 12 febbraio per l’accusa di tre furti tentati in Liguria, il detenuto del carcere milanese di San Vittore che, da tre settimane ricoverato all’ospedale San Paolo, vi é morto ora a 54 anni per virus Covid-19. È la settima vittima nel mondo delle carceri italiane, il terzo detenuto oltre a due agenti e a due medici penitenziari. La ricostruzione delle date e della storia del cileno David Antonio Rivera Acosta, che sino ai primi di aprile era asintomatico e che solo dopo ha avuto un rapidissimo peggioramento già in ospedale, se da un lato suggerisce assai probabile che sia stato contagiato nel carcere dove si trovava dal 12 febbraio, dall’altro lato fa invece ritenere che non vi siano ulteriori rischi diretti per gli altri reclusi e per tutta la comunità del penitenziario, perché questo paziente faceva parte di un focolaio di una ventina di detenuti positivi già individuato e isolato per precauzione, con una quarantena ormai conclusa e tale dunque da rassicurare gli altri detenuti rispetto ai timori di un propagarsi del contagio. Anche perché la situazione logistica a San Vittore è molto cambiata dalla rivolta del 9 marzo, accesa - come ha indicato il direttore Giacinto Siciliano pochi giorni fa nell’audizione in Comune - “anche dalla situazione di overbooking, non c’era più una branda dove mettere una persona”. Ora invece le presenze sono scese da 950 a 693 detenuti, il che sta consentendo (in un carcere che per costruzione non ha celle singole ma multiple) di cercare di portare a 2 posti tutte le celle triple, a 4 quelle da 8, a 5 quelle da 11. E anche a San Vittore sembra stare dando frutti il filtro del “triage” all’ingresso su chiunque entra o esca: filtro che del resto a livello di tutti gli istituti lombardi ha controllato sinora (come spiegato dal provveditore Pietro Buffa) ben 84.000 persone, 190 delle quali non fatte entrare per precauzione in presenza di anche lievi rialzi febbrili. La sfortunata parabola del 54enne cileno inizia a mezzogiorno del 12 febbraio quando viene fermato a Linate per tre tentati furti in abitazioni liguri a Sestri Levante e a Lavagna il 7 febbraio, non riusciti per l’arrivo di un inquilino o di un vicino, e dai carabinieri ricondotti a lui perché risultava aver preso in noleggio un’auto che i filmati mostravano nei paraggi delle tre case. Il pm milanese di turno, Roberto Fontana, chiede al gip la convalida del fermo e l’emissione di un ordine di custodia in carcere, la gip Maria Vicidomini non convalida il fermo per difetto di prova sull’attualità del pericolo di fuga, ma dispone la custodia in carcere per l’altra esigenza cautelare del rischio di reiterazione del reato. Misura che, quando gli atti vengono restituiti da Milano alla competenza del Tribunale di Genova, la gip ligure Paola Faggioni rinnova il 4 marzo. Dopo 22 giorni il difensore Massimiliano Migliara avanza una istanza di arresti domiciliari dell’indagato (anche con braccialetto elettronico) presso l’abitazione del fratello a Milano. La richiesta è fondata sulle esigenze di indagine ormai esaurite per il tempo trascorso, sull’incensuratezza dell’uomo, sul pericolo di fuga escluso dalla non convalida del fermo, e sull’”attuale rischio sanitario connesso ad agenti virali trasmissibili”, rischio da valutare sia “come fatto non marginale” in sé, sia in prospettiva come ragione del “prevedibile rinvio della fissazione del processo”. La gip genovese Faggioni, acquisito il parere contrario del pm, rileva che “il quadro indiziario non ha subito modificazioni”, ritiene sempre “consistente” il “grado di esigenze cautelari”, e il 30 marzo conferma gli arresti in carcere. Il 4 aprile, epoca di pieno lockdown e dunque sempre sottoposta al blocco degli incontri di persona tra legali e reclusi, l’avvocato riesce ad avere con il detenuto un colloquio a distanza, al telefono, e in quell’occasione il cileno gli dice per la prima volta due cose: che sta terminando un periodo di prudenziale isolamento adottato dal carcere dopo che un suo compagno di cella era risultato positivo al virus, e che lui soffre seriamente di asma, patologia per la quale è in terapia e che è doppiamente pericolosa in caso di contagio da virus. L’avvocato allora il 6 aprile si affretta a proporre una nuova istanza di arresti domiciliari, che il 10 aprile integra e rafforza con una novità arrivata proprio dal carcere, allorché San Vittore gli comunica che il cileno, sottoposto al secondo tampone, è risultato positivo al virus. A Genova la gip Alessia Solombrino, in sostituzione della collega titolare, nello stesso 10 aprile raccoglie allora per telefono informazioni d’urgenza da San Vittore, apprende che la direzione ha già trasferito il detenuto il 9 aprile nel reparto Covid dell’ospedale San Paolo “per accertamenti”, scrive di “ratificare l’operato della polizia penitenziaria”, e ordina di essere informata entro le seguenti 24 ore dell’esito degli accertamenti. La risposta è che il paziente ha la micidiale polmonite da Covid, e che sono prevedibili un peggioramento e la conseguente necessità di rianimazione. E allora subito l’11 aprile la gip Solombrino, con il parere favorevole della pm Valentina Grosso, ordina la scarcerazione e dispone gli arresti domiciliari presso l’ospedale San Paolo, “stante l’incompatibilità delle restrizioni imposte dalla detenzione carceraria con le attuali critiche condizioni di salute”. Qui l’uomo muore dopo tre settimane. “Spero che vicende come questa facciano riflettere chi in questi giorni ha scompostamente gridato all’indirizzo di magistrati seri che scarceravano detenuti comuni per gravi motivo di salute”, commenta l’avvocato Migliara con riferimento a talune polemiche sulle detenzioni domiciliari concesse a boss mafiosi gravemente malati e non curabili in cella: “Si è trattato invece di una presa di consapevolezza, anche della magistratura, rispetto agli oggettivi rischi in carcere di contagiarsi, ammalarsi e morire”. Il Dap-Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia, dal cui vertice proprio oggi si è dimesso l’ex pm Francesco Basentini, e che non ha sinora divulgato la notizia della morte in ospedale del detenuto, ieri aveva invece comunicato la guarigione di 28 detenuti e 53 agenti, indicando attualmente positivi 159 detenuti (di cui 9 in ospedale), e 215 agenti o funzionari penitenziari, di cui 12 ricoverati, 180 in quarantena a casa e 19 in caserma. Come fuori dal carcere, anche dentro le carceri è la Lombardia la Regione più martoriata: l’altro giorno in audizione il provveditore Buffa ha conteggiato 39 detenuti contagiati (ed ora c’é un focolaio a Lecco di 14 persone trasferite), 239 reclusi in quarantena, 116 agenti positivi, 278 agenti in malattia “ordinaria”. Lecco. Virus in carcere, trasferiti 14 detenuti La Provincia di Lecco, 2 maggio 2020 Quattordici detenuti della casa circondariale di Pescarenico sono stati trasferiti a San Vittore: risultati positivi al tampone per il coronavirus, sono stati accolti nell’hub per detenuti Covid realizzato all’interno del carcere milanese. Dall’inizio della pandemia, la Casa circondariale di Lecco si era dotata dei dispositivi di protezione individuale per evitare il contagio, allestendo anche una tenda per il pre-triage dei nuovi ingressi, quindi la decisione di effettuare il tampone a tappeto a tutti i detenuti, che al momento sarebbero un ottantina (la capienza del carcere cittadino è di 90 unità): nelle scorse ore il responso, con i 14 positivi trasportati a Milano, con tutte le precauzioni di sicurezza previste, a bordo di un autobus. Nessun contagio risulterebbe invece tra il personale di Polizia penitenziaria. Pisa. Detenuto positivo, lo sfogo del suo legale: “Siamo stati un’ora nella stessa stanza” di Pietro Barghigiani Il Tirreno, 2 maggio 2020 L’avvocato: “Mi hanno avvertito 9 giorni dopo l’udienza in carcere. Il cliente era entrato da poco, ma non gli hanno fatto il test”. Lo hanno chiamato di primo mattino dal carcere. “Buongiorno avvocato, purtroppo dobbiamo dirle che il suo cliente è risultato positivo al coronavirus”. Fine della comunicazione e inizio di un turbamento che il legale si porta dietro da quando l’amministrazione della casa circondariale lo ha informato delle condizioni sanitarie del suo assistito. Dopo gli agenti della polizia penitenziaria e alcuni operatori sanitari, ora anche un detenuto è stato contagiato dal Covid-19. Era stato arrestato il 17 aprile in esecuzione di una misura cautelare in cui gli venivano contestati numerosi episodi di spaccio. A quel punto si doveva procedere con l’interrogatorio di garanzia davanti al gip. L’incontro, a distanza, è avvenuto il 20 aprile. Il giudice nel suo ufficio in Tribunale collegato via Skype con il detenuto in carcere. E l’avvocato accanto al cliente. “Premesso che è stata una mia scelta essere presente al Don Bosco - spiega l’avvocato. Avevo necessità di parlare con il mio assistito. Un colloquio era necessario prima di poter rispondere alle domande del gip”. La scena esce dall’ordinario solo per l’emergenza sanitaria che consente le udienze in remoto con l’ausilio di supporti telematici. Le parti nei rispettivi uffici e gli schermi dei pc che offrono audio e video dei protagonisti. Quello che va oltre e segna una novità poco gradevole è l’esito dei controlli, a posteriori, sul detenuto. L’uomo, un albanese, è stato messo in isolamento in attesa che il giudice si pronunci sulla richiesta di arresti domiciliari avanzata dall’avvocato, inconsapevole nell’affrontare il rischio di un potenziale contagio. Una presenza che lo ha reso vulnerabile. “Al momento non ho alcun sintomo - spiega il difensore. E a questo punto non credo di fare controlli particolari. Sia io che il mio cliente eravamo muniti di protezioni, dai guanti alle mascherine. Eravamo anche a più di un metro e mezzo. Ma in quella stanza dentro il carcere ci sono rimasto per circa un’ora. Un ambiente chiuso e senza finestre”. L’incontro risale al 20 aprile, mentre la telefonata con la comunicazione della positività è arrivata mercoledì scorso. “Il mio assistito è stato arrestato il 17 aprile - prosegue l’avvocato. Mi chiedo per quale motivo in tre giorni nessuno si sia preoccupato di fargli almeno un test sierologico. Veniva da fuori, era a rischio. Va bene che il sierologico a livello scientifico è più grezzo del tampone. Ma è in grado comunque di dirti se sei entrato in contatto con il virus. Se glielo avessero fatto e me lo avessero comunicato non sarei certo andato in carcere e avrei fatto l’udienza da remoto nel mio studio come il giudice. Quella telefonata dal Don Bosco è stata spiacevole per lo stato d’ansia che ti lascia sapere di essere rimasto un’ora in una stanza senza aria con una persona positiva”. Alessandria. “Tamponi nelle carceri”, lo chiede con forza il sindacato Osapp Il Piccolo, 2 maggio 2020 Al carcere Cantiello e Gaeta detenuti positivi. L’Osapp (organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria) chiede con forza che vengano disposti i tamponi per la Polizia penitenziaria e per la popolazione detenuta. Chiede inoltre che si faccia chiarezza su quali disposizioni siano state emanate dal medico competente del lavoro di Torino e degli altri istituti del distretto Piemonte-Liguria e Valle d’Aosta a tutela della salute di tutti in materia di prevenzione al contagio del Coronavirus. “Come Osapp - interviene Leo Beneduci, segretario generale del sindacati - già dal mese di marzo abbiamo rappresentato più volte, e lo rimarchiamo ora con forza, la necessità di sottoporre con urgenza tutto il personale di Polizia Penitenziaria e la popolazione detenuta al tampone anche in ragione dei numerosi casi positivi che si sono verificati sia nel carcere di Torino, oltre 60 detenuti e 14 Agenti (di cui 7 del carcere e 7 del Provveditorato Regionale), che nel carcere di Saluzzo (di cui circa 15 detenuti alta sicurezza e 4 Agenti), come pure nel carcere di Alessandria, al Cantiello e Gaeta (circa 5 detenuti). Lo stesso personale di polizia penitenziaria lavora in condizioni difficili e con scarsi dispositivi di protezione: devono essere riconosciuti gli encomiabili sforzi e i sacrifici dei nostri poliziotti che quotidianamente svolgono servizio in condizioni drammatiche, molti dei quali da molto tempo non vedono la propria famiglia e i figli. Abbiamo scritto ai presidenti e assessori alla Sanità delle Regioni Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta e, ad oggi la nostra richiesta è rimasta inascoltata. Ci piacerebbe conoscere quali disposizioni/direttive siano state assunte sia nel carcere di Torino che negli altri Istituti, dai medici competenti del lavoro in materia di prevenzione al contagio del Coronavirus”. Pescara. Carcere, i sindacati vogliono rinforzi per il reparto Covid Il Centro, 2 maggio 2020 Trasferire i detenuti in eccesso e aumentare il numero di agenti in forza al carcere di San Donato: sono le richieste che arrivano dalle organizzazioni sindacali in vista dell’apertura di un reparto Covid nell’istituto di pena di Pescara, che potrebbe avvenire già dalla prossima settimana. A sottoscrivere il documento, indirizzato al provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, sono stati i rappresentanti di Osapp, Uspp-Ugl, Fns-Cisl, Uilpa, Sinappe e Fsa-Cnpp, che lo hanno inviato per conoscenza anche a prefettura, direzione della casa circondariale e rispettive segreterie nazionali. Al centro della questione c’è l’ordinanza regionale numero 38 del 16 aprile scorso, che sancisce l’apertura di un reparto Covid a San Donato, e le relative problematiche. I rappresentanti della polizia penitenziaria chiedono che, prima dell’attivazione del reparto, venga drasticamente abbassato il numero dei detenuti: a oggi ne sono circa 370, a fronte dei 277 che dovrebbero esserci. Cento reclusi dovrebbero quindi essere trasferiti in un altro istituto abruzzese quanto prima. Per quanto riguarda, invece, il personale, le sei sigle sindacali chiedono al provveditore “l’aggregazione di 18 unità di polizia penitenziaria per tutte le esigenze legate all’apertura e il servizio del nuovo reparto Covid”. Viene richiesta, ovviamente, anche la fornitura di adeguati dispositivi di protezione. Dalla prossima settimana, inoltre, dovrebbe essere eseguito il tampone su tutti i detenuti del carcere di Pescara, dove comunque è stata verificata la negatività al coronavirus di ogni nuovo arrivato. La casa circondariale di San Donato è stata scelta sia per questioni logistiche, sia per la presenza in città del Covid Hospital in via di realizzazione nella palazzina ex Ivap, a ridosso dell’ospedale cittadino. “In mancanza di risposte concrete”, assicurano Osapp, Uspp-Ugl, Fns-Cisl, Uilpa, Sinappe e Fsa-Cnpp, “saranno intraprese legittime forme di protesta e rivendicazioni sindacali nelle sedi più opportune”. Le libertà personali non si limitano con atti amministrativi ma con le leggi di Daniele Granara, Alessandra Devetag e Pierumberto Starace* Il Dubbio, 2 maggio 2020 L’emergenza sanitaria in atto ha dimostrato la fragilità del nostro sistema costituzionale e, in particolare, delle garanzie che i Padri costituenti avevano voluto scrivere a difesa delle libertà civili. Il Governo ha deciso di avocare a sé ogni competenza, utilizzando impropriamente lo strumento del decreto legge. Tutto questo è stato fatto in ragione di uno stato di emergenza dichiarato dal Consiglio dei Ministri il 31 gennaio 2020, pur essendo noto che la nostra Carta costituzionale non prevede l’emergenza quale presupposto per derogare allo Stato di diritto. Ad entrare in crisi è stato innanzitutto il principio di divisione dei Poteri. La centralità del ruolo del Parlamento è stata sacrificata in forza della necessità ed urgenza dei provvedimenti da adottare. Il Potere esecutivo ha deciso di arrogarsi ogni decisione in materia, adottando decreti legge che hanno attribuito al Presidente del Consiglio il potere di integrarli ed attuarli in vista del fine del contenimento dell’epidemia coronavirus. È stato posto in discussione anche il principio di competenza sia a livello centrale, sia a livello locale. Il Decreto del Presidente del Consiglio è divenuto dunque una fonte strumentalizzata, dotato di un’efficacia tale da poter comprimere diritti costituzionalmente garantiti e da prevalere sui provvedimenti emessi dai singoli Ministri e sulle ordinanze emesse dagli enti territoriali. Non è stato rispettato neppure il principio di gerarchia delle fonti. La libertà individuale gode di una protezione totale stante la riserva assoluta di legge (rinforzata), che impone al legislatore una descrizione precisa dei “casi” e dei “modi” di qualsiasi restrizione alla stessa. A sua tutela è pure prevista una riserva di giurisdizione. Anche la libertà di circolazione è garantita da una riserva di legge rinforzata; sono diritti soggettivi perfetti poi quelli di riunione, di associazione, di libertà di culto. Solo una legge statale può limitare tali fondamentali libertà, e non certo una fonte secondaria governativa, e addirittura monocratica, quale il Decreto del Presidente del Consiglio. Ma anche accettando la possibilità dell’utilizzo della decretazione d’ urgenza non c’è stato il rispetto del principio di tassatività: i due decreti legge adottati dal Governo hanno solo genericamente descritto i casi di possibile restrizione delle libertà civili, delegando ad un componente del Potere esecutivo, il Presidente del Consiglio dei Ministri, la titolarità di scelta sia del tipo di misura da adottare (i “casi”) sia del grado di intensità (i “modi”). L’estrema genericità dei decreti legge contrasta poi con la Legge n. 400/ 1988, che richiede, per il rispetto dell’art. 77 Cost., l’emanazione di misure di immediata applicazione, con contenuto specifico ed omogeneo. In sintesi, sono state applicate pesanti restrizioni alle libertà individuali (la libertà personale, la libertà di circolazione, la libertà di riunione, la libertà di culto), per il tramite di atti amministrativi (decreti ed ordinanze), in assenza di una puntuale disciplina legislativa e violando il principio di diversificazione delle competenze amministrative. Il fatto poi che le restrizioni in questione siano avvenute appunto sulla base di atti amministrativi, le ha sottratte ad ogni forma di controllo preventivo e successivo. Tali provvedimenti, infatti, sono stati adottati dal Potere esecutivo in piena autonomia e senza una verifica da parte del Parlamento né un controllo del Presidente della Repubblica (previsto sugli atti aventi forza di legge e sui regolamenti governativi). La necessità che sia un atto avente forza di legge a limitare le libertà civili è del resto coerente con il nostro sistema di garanzie costituzionali: solo le leggi (ed atti equiparati ad esse) e non gli atti amministrativi (quali sono i decreti e le ordinanze) sono sottoponibili a giudizio di costituzionalità di fronte alla Corte Costituzionale, unico organo competente a controllare la conformità alla Costituzione degli atti legislativi, anche sotto il profilo della loro proporzionalità ed adeguatezza. È mancata dunque qualsiasi verifica della conformità del mezzo (misure restrittive) con il fine (tutela della salute) nell’ottica di un bilanciamento con altri diritti cui la Costituzione riserva invece il grado più elevato di tutela: nessun controllo amministrativo, nessun passaggio parlamentare, nessuna verifica costituzionale. In conclusione gli scriventi ritengono che il fine non giustifica i mezzi. L’emergenza non può giustificare l’alterazione dei rapporti tra i poteri dello Stato e dello Stato con gli altri enti territoriali. Quando sono in gioco i diritti di libertà, allora l’alterazione delle garanzie costituzionali non riveste solo un aspetto formale, perché incide direttamente sulla tutela sostanziale di quei diritti che la Costituzione vorrebbe inviolabili. A meno che non si voglia incidere sulla forma dello Stato di diritto e infine sulla stessa forma di governo. *Seguono oltre 80 firme di avvocati, docenti e costituzionalisti Emergenza sanitaria e Stato di diritto in Italia di Nicola Galati fondazioneluigieinaudi.it, 2 maggio 2020 L’emergenza sanitaria dovuta alla diffusione mondiale del nuovo Coronavirus rischia di minare le democrazie liberali, la società aperta e lo Stato di diritto. Come ha insegnato Hayek, da sempre le emergenze sono state il pretesto per erodere la libertà individuale. La crisi è stata l’occasione per riaprire il confronto tra governi autoritari e governi liberaldemocratici. Da più parti si è levata la lode per le dittature che sarebbero più adatte a contrastare un’epidemia potendo restringere senza limiti le libertà dei cittadini, non dovendo rispettare alcuna formalità e non dovendo sottoporsi ad alcun limite e controllo. La realtà è ben diversa in quanto l’opacità e la corruzione dei regimi autoritari hanno avuto un ruolo determinante nell’errata reazione alla comparsa del virus e nell’inefficiente contrasto alla sua diffusione. Come meritoriamente denunciato dall’Alde, l’emergenza rischia di essere strumentalizzata per adottare provvedimenti repressivi che nessuna utilità hanno nel contrastare la diffusione del virus. I Paesi liberi si trovano ad affrontare una sfida cruciale per la loro sopravvivenza: riuscire a superare la crisi gravissima con gli strumenti dello Stato di diritto senza ricorrere a rischiose scorciatoie autoritarie. In Italia, il Governo ha imposto un lockdown esteso all’intero territorio nazionale. Le varie misure adottate hanno fortemente limitato le libertà ed i diritti fondamentali dei cittadini: la libertà personale, di circolazione, di riunione, religiosa, di iniziativa economica privata, di esercitare la propria fede religiosa, il diritto di proprietà. Peraltro, tali misure sono state inizialmente adottate mediante Dpcm (Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri), un atto amministrativo non avente forza di legge, nonostante le espresse riserve di legge poste dalla Costituzione a tutela dei diritti fondamentali. Vero che i predetti decreti richiamavano un decreto legge (d.l. n. 6/2020) ma la Dottrina ha ugualmente sollevato numerosi dubbi circa la loro legittimità. Innanzitutto perché il citato decreto prevedeva l’adozione di misure limitatamente ad alcune zone rosse, mentre i Dpcm hanno riguardato l’intero territorio nazionale. Inoltre, perché, contenendo il decreto legge norme eccessivamente generiche, sono stati i Dpcm a disporre tali limitazioni, in violazione della riserva di legge. Con riferimento alle limitazioni della libertà personale (art. 13 della Costituzione), esse sono state adottate senza prevedere un controllo dell’autorità giudiziaria, nonostante l’espressa previsione costituzionale della riserva di giurisdizione. Solo in un secondo momento si è in parte superata tale situazione mediante l’adozione di un nuovo decreto legge. Le misure adottate devono rispettare il principio di proporzionalità, devono quindi essere quelle maggiormente adatte a raggiungere i risultati perseguiti e non sostituibili con altre misure meno rigide. Dubbi legittimi sono sorti circa l’impossibilità di individuare altre misure ugualmente volte a contrastare e limitare la diffusione del virus ma con minore sacrificio delle libertà personali. Le restrizioni devono soprattutto essere temporanee. La mancanza di un orizzonte temporale chiaro e preciso, vista l’impossibilità di prevedere la cessazione dell’emergenza sanitaria, rischia di trasformare in definitivo il provvisorio. Purtroppo l’esperienza passata ci ricorda diversi casi di norme eccezionali, adottate in nome di emergenze reali o presunte, poi divenute regole ordinarie. Sconforta l’impressione che tali imposizioni siano state adottate a causa della sfiducia dei governanti circa le capacità di autocontrollo della popolazione che invece ha mostrato un grande senso di responsabilità. Si deve, inoltre, lamentare la poca trasparenza e chiarezza circa le motivazioni, in particolare scientifiche, poste alla base delle decisioni. I cittadini hanno il diritto di conoscere le ragioni per cui devono rinunciare alle proprie libertà e l’iter seguito per giungere a quelle conclusioni. A ciò si aggiunge la grande confusione normativa e comunicativa. Si sono sovrapposte norme governative e degli enti locali, spesso contraddittorie, si sono susseguiti annunci, fughe di notizie, smentite, che hanno reso complicato per il cittadino riuscire a districarsi in questo caos. L’emergenza sanitaria rischia, inoltre, di sospendere le basi della democrazia parlamentare. Si è provveduto al rinvio di diverse elezioni e di un referendum costituzionale; non sono permesse, visti i divieti di assembramento, le manifestazioni (di protesta); l’attività parlamentare ha subìto un forte rallentamento. Nessuno vuole negare la gravità e l’eccezionalità di una crisi senza precedenti o denunciare allarmistiche derive totalitarie, si vuole soltanto porre l’attenzione sui seri rischi per la tenuta delle nostre democrazie liberali e sollecitare a tenere alta la guardia. Le libertà individuali possono subire delle contrazioni (necessarie, non arbitrarie e limitate nel tempo) in momenti di emergenza ma non possono essere negate. Deve essere effettuato un attento bilanciamento tra i beni in gioco, non potendosi sacrificare la libertà sull’altare della sicurezza. Si può ricorrere agli strumenti previsti nei nostri ordinamenti costituzionali senza forzature che snaturerebbero lo Stato di diritto. L’insegnamento da tenere a mente per le crisi future è che la difesa dei diritti e delle libertà fondamentali non conosce eccezioni, una volta violato un principio è impossibile tornare indietro. Sarà fondamentale non trarre lezioni errate dalla crisi: non è la fine del liberalismo e della democrazia che nessuna responsabilità hanno circa la nascita e la diffusione dell’emergenza. Lo statalismo, l’accentramento dei poteri, l’interventismo, l’autoritarismo non risolvono i problemi. La limitazione forzata della nostra libertà deve farci apprezzare ancora di più la sua importanza e allarmarci circa la facilità con cui la si può perdere, non deve invece convincerci che ne possiamo fare a meno. Dobbiamo difendere la globalizzazione e la libertà economica, uniche vie per ripartire e superare l’imminente crisi economica, anziché invocare l’intervento dello Stato. L’emergenza può essere superata ed il virus può essere debellato senza sacrificare le nostre libertà e le nostre democrazie. Il dramma degli invisibili durante l’emergenza di Rossella Grasso Il Riformista, 2 maggio 2020 “Ai migranti non spetta nulla, ci pensa la rete di solidarietà dal basso”. Tra Forcella, Piazza Garibaldi e il Vasto ci sono centinaia di persone che l’emergenza Coronavirus sta mettendo a dura prova. Pochi sanno che esistono perché spesso si tratta di migranti in attesa di asilo politico o di documenti, o italiani rimasti senza lavoro e a cui lo Stato non ha destinato niente. Eppure esistono, e come tanti a Napoli, non riescono più a mettere il piatto in tavola. Per questo motivo è partito il progetto “Seeds”, l’intervento di emergenza di ActionAid per dare aiuto immediato a circa 200 famiglie italiane e straniere in difficoltà e a rischio esclusione, spesso senza accesso ai sussidi statali. Una risposta concreta ai bisogni urgenti delle persone più vulnerabili che durante la pandemia Covid19 hanno perso il lavoro e la loro unica fonte di sostentamento. Si tratta di persone straniere e italiane che erano attive nel lavoro di cura (soprattutto donne), nella ristorazione e nel piccolo artigianato con contratti precari o rapporti di lavoro irregolari. E comprendono famiglie di persone disabili che mancano di assistenza, famiglie precarie o bloccate in casa dalla sospetta infezione di uno dei suoi membri, anziani soli, spesso in famiglie monoparentali. Con Seeds ActionAid lancia una raccolta fondi per finanziare le attività di prima emergenza e continuare a supportare le famiglie nella fase più acuta di crisi economica. ActionAid a Napoli insieme alle associazioni locali, alle comunità della diaspora, le organizzazioni di cittadini stranieri, attraverso l’impegno dei giovani attivisti e volontari fornirà generi alimentari a domicilio, guide informative multilingua sulla prevenzione dell’epidemia e sui servizi attivi sul territorio. noltre, il progetto darà sostegno ai piccoli produttori agricoli del territorio napoletano: grazie alla collaborazione con Slow Food frutta e verdura e prodotti alimentari di prima necessità saranno acquistati direttamente dalle aziende agricole messe in crisi dalla pandemia con la chiusura dei mercati rionali. La filiera vedrà i volontari ritirare cibo sano e di qualità dai produttori fino ad un punto di smistamento nei quartieri e poi consegnare a casa delle persone beneficiarie i pacchi spesa. Nella città di Napoli, l’iniziativa potrà avvalersi dei “Taxi Green Solidali”, un progetto avviato da Snam4Mobility, la società di Snam attiva nella mobilità sostenibile, e Wetaxi, la app chiama taxi attiva in 22 città italiane. I Taxi Green Solidali saranno veicoli alimentati a gas naturale, messi a disposizione dal radiotaxi partner locale di Wetaxi e offerti gratuitamente da Snam per il trasporto di beni di prima necessità. Un circuito di prossimità dal basso che mette in relazione realtà diverse ma accomunate dalle stesse necessità e dalla solidarietà: una rete di persone consapevoli dei bisogni individuali e comunitari, degli ostacoli che incontrano, delle proprie aspirazioni e della propria forza collettiva. Un lavoro che sta preparando la fase di ricostruzione nel post-pandemia: saranno infatti 80 in totale i volontari e i beneficiari che diventeranno protagonisti della fase 2. Grazie alla rete sociale messa in campo da Seeds si svilupperà una voce collettiva per portare le richieste dalla comunità alla politica e orientare le misure economico-sociali di ricostruzione. Partner di Seeds a Napoli sono: Hamef - associazione interculturale napoletana per la promozione dei diritti degli stranieri, Associazione senegalesi di Napoli, Associazione Bellarus, Associazione Vivlaviv, The Italian Gambian Association, Slow Food Napoli ma, prevede l’allargamento della rete (a terzo settore e sindacati) attraverso una call cittadina. “La crisi economica provocata dall’emergenza Covid19 ha reso ancora più drammatica la realtà di tante famiglie precarie e in condizioni di vulnerabilità. Donne, anziani soli, disabili e bambini che hanno necessità di essere sostenuti ora e nei prossimi mesi per non essere ancora più ai margini nella ricostruzione del post pandemia. L’impegno di ActionAid non si limita a dare aiuti immediati alla comunità, ma proseguirà nei prossimi mesi per far sì che nessuno venga escluso e che le voci di tutti vengano ascoltate. Per questo è fondamentale il sostegno di tutti in questo momento” spiega Katia Scannavini, Vice Segretaria Generale ActionAid Italia. Ma serve ancora l’aiuto di tutti per continuare a dare una mano alla grande rete di solidarietà di Seeds. Tutti possono fare la loro parte donando e sostenendo il progetto. Migranti. Malta, prime ammissioni: “Da tre anni respingimenti segreti verso la Libia” di Nello Scavo Avvenire, 2 maggio 2020 E il “mediatore” Neville Gafà, nell’inchiesta per la “Strage di Pasquetta” ammette: “Coordinavo le operazioni per ordine del premier”. Altri 57 migranti sono stati intercettati dal solito motopesca libico-maltese dalla tripla identità, stavolta in vista di un trasbordo su una nave quarantena: Malta non vuole rischiare l’ennesimo respingimento illegale. A La Valletta, infatti, c’è stato un colpo di scena. Nell’inchiesta sulla “Strage di Pasquetta” ha fatto le prime ammissioni Neville Gafà, l’uomo che ha rivendicato il negoziato con le fazioni libiche per organizzare la cattura e il respingimento di migranti. Davanti al giudice Joe Mifsud, Gafà ha dichiarato di avere coordinato personalmente anche il respingimento conclusosi con 12 morti nei giorni seguenti la Pasqua. E di averlo fatto per ordine del primo ministro Robert Abela, a sua volta indagato per l’omissione di soccorso. Non solo. Rispondendo alle domande di Newsbook, il portale d’informazione di ispirazione cattolica a Malta, Gafà ha precisato di suo pugno: “Confermo che nella notte di Pasqua e nei giorni seguenti sono stato coinvolto in una missione in cui una nave con 51 migranti irregolari tra cui 8 donne e 3 minori è stata portata in porto a Tripoli. Sulla stessa barca c’erano cinque cadaveri”. Incalzato dalla giornalista Sylvana Debono, il negoziatore maltese, già noto per la sua dichiarata avversione nei confronti della reporter Daphne Caruana Galizia, uccisa nell’ottobre 2017, ha aggiunto: “Ho fatto tutto questo su istruzioni dell’Ufficio del Primo Ministro, dopo che il suddetto ufficio mi ha chiesto di aiutare attraverso il coordinamento diretto con il ministero degli Affari interni libico e la Guardia costiera libica. Mi è stato chiesto di farlo poiché sono stato coinvolto in queste operazioni negli ultimi tre anni”. Nei giorni scorsi Gafà aveva pubblicamente attaccato pubblicamente Avvenire. Ma ora Newsbook, che ha avuto accesso a fonti investigative, scrive che “questa dichiarazione giurata è arrivata dopo che il giornale Avvenire ha rivelato, con una inchiesta che ha smentito colpo su colpo le dichiarazioni ufficiali de La Valletta ciò che è accaduto nelle fatidiche ore in cui Malta, l’Italia e l’Ue hanno fatto del loro meglio per sottrarsi al loro dovere di salvare vite umane”. E ieri il Tribunale della capitale ha voluto ascoltare nei dettagli la ricostruzione e visionare i documenti in possesso del nostro giornale, in vista dell’interrogatorio del primo ministro Abela, atteso per i prossimi giorni. Sull’isola c’è un certo scetticismo per gli sviluppi di un’inchiesta che rischia di mettere alla sbarra l’intero governo e i vertici delle forze armate. Già nei mesi scorsi Malta aveva visto cadere un intero governo a causa dell’inchiesta sul movente e i responsabili dell’omicidio di Daphne Caruana Galizia. E ora una ventina di organizzazioni della società civile, tra cui il “Jesuit Refugee Service”, la “Daphne Caruana Galizia Foundation”, l’Ong “Repubblika” e numerose altre, hanno chiesto al premier di “dire la verità” sulle intese segrete con la Libia, e alle autorità di non spegnere i riflettori e indagare sulle responsabilità dei respingimenti vietati dal diritto internazionale e compiuti segretamente in questi tre anni. Non è dato sapere, infatti, quanti episodi siano avvenuti, quanti altri morti e dispersi in mare vi siano stati, e se davvero Malta ha potuto agire indisturbata senza che il principale vicino, l’Italia, si accorgesse di nulla. Per ore intanto si erano perse notizie di un altro gommone partito dalla Libia con 57 persone. Ieri la motopesca “Mae Yemanje”, che viaggia anche con il nome di “Dar al Salam 1”, ma è conosciuto anche come “Maria Christina” (una modalità di registrazione navale vietata da tutti i codici) ha raggiunto i naufraghi. Verranno trasbordati su una motonave turistica maltese, che dovrebbe poi sostare a 13 miglia dall’isola per il periodo di quarantena. Il governo di Malta ha già avvisato l’Ue: da ora migranti al largo su “barconi quarantena”. Turchia. “I giornalisti sotto attacco: o la galera o la censura” di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 2 maggio 2020 Intervista a Mariano Giustino, giornalista inviato ad Ankara. Mariano Giustino è il corrispondente dalla Turchia per Radio Radicale, la sua è una vicenda simbolica del restringimento degli spazi di libertà nel paese. Per il fatto di aver pubblicato la notizia della scarcerazione di un noto criminale, Alaattin Çakici, molto vicino a Receep Erdogan, ha visto oscurare i suoi profili Facebook. Sullo sfondo l’epidemia di coronavirus e la drammatica situazione delle carceri. Il Dubbio ha raggiunto il giornalista in Turchia. Da quanto tempo sei in Turchia e di che cosa ti stai occupando? Nel 2010 mi sono trasferito in Turchia e da allora ho iniziato la mia attività di corrispondente per Radio Radicale. Conduco una rubrica settimanale sulla politica interna ed estera intitolata: “Rassegna Stampa Turca”, l’unica di questo genere in Europa. Perché sei stato espulso da Facebook? È proprio quello che sto cercando di capire avendo chiesto già da due settimane alla sede centrale del social network le ragioni della mia espulsione dalla Community. So solo che nella notte del 15 aprile, grazie alla legge che in Turchia riforma l’esecuzione penale, è stato rilasciato un membro della criminalità turca, Alaattin Çakici, la mattina seguente ne ho dato notizia sui miei account Twitter e Facebook con il seguente post: “Turchia: questa notte, grazie alla legge sull’esecuzione penale è stato rilasciato un membro della criminalità AlaattinÇakici, appartenente ai Lupi Grigi. La legge concede la riduzione di pena per 90 mila prigionieri, ma non per giornalisti, politici di opposizione e attivisti per i diritti umani”. È bastato questo. Disabilitato, sparito! Intendo andare fino in fondo in questa grave vicenda per chiedere che il mio diritto umano alla libertà di espressione e al libero esercizio dell’attività giornalistica venga tutelato e garantito e nel mio caso ripristinato, così come recita la nostra Carta costituzionale. Pensi che ci sia stato un intervento arrivato dall’alto? È il social a dover chiarire questo punto delicato. Perché, ed eventualmente per conto di chi agisce Facebook? È un mio diritto saperlo e chiederò anche un cospicuo risarcimento. Il tuo è un caso isolato o ha riguardato altri colleghi? Non sono certamente l’unica vittima della censura di Facebook, purtroppo non è capitato solo a me, so di persone che da un giorno all’altro, e senza spiegazioni, si sono viste cancellare il loro profilo semplicemente a causa delle loro idee che probabilmente hanno fastidio a qualche potente di turno. Qual è la situazione delle carceri turche in questo momento di pandemia? È drammatica! Lo era già da prima dell’insorgenza dell’epidemia. La Turchia ha 385 prigioni, i detenuti sono 286 mila e il sovraffollamento è di oltre il 150%. Le testimonianze e le denunce che giungono da avvocati, organizzazione dei diritti umani e dai familiari dei detenuti sono raccapriccianti. Nella scorsa settimana si sono verificati già tre casi di suicidio. Il sovraffollamento insopportabile e la paura del contagio da Covid-19 hanno fatto salire in quei luoghi la tensione a livelli inimmaginabili. Martedì scorso, il ministro della Giustizia Gül ha reso pubblico un rapporto sulla situazione epidemica nelle carceri turche, sono 120 i prigionieri positivi al Covid-19 registrati in quattro penitenziari diversi e ora in cura presso gli ospedali. Ma le organizzazioni per i diritti umani sostengono che i casi di contagio e i morti siano molti di più. La riforma dell’esecuzione penale approntata dal governo lo scorso 13 aprile prevede per una serie di reati, la sospensione della pena per tutti i detenuti che abbiano scontato la metà della detenzione. Sono però esclusi dai benefici cinque tipi di reato: quelli legati al terrorismo, agli abusi sessuali, alla violenza sulle donne e sui bambini, agli omicidi premeditati e quelli legati al traffico di droga. Ma escludere dal provvedimento di amnistia coloro che sono accusati di terrorismo comporterà che non beneficeranno della misura i detenuti in attesa di giudizio accusati di reati di sovversione senza alcun fondamento reale, ma per il semplice fatto di essere oppositori del governo. Pensi che il tuo lavoro dia fastidio a qualcuno? Penso che il lavoro di un giornalista non debba dar fastidio a nessuno, anzi penso che la sua libera espressione sia una misura della civiltà di un paese. Venezuela. Rivolta in carcere con coltelli e bombe a mano, oltre 40 morti La Stampa, 2 maggio 2020 I detenuti hanno aggredito gli agenti di sicurezza e tentato la fuga dalla prigione di Guanare (450 km da Caracas). Oltre 40 reclusi del carcere venezuelano di Los Llanos a Guanare, nello Stato centrale di Portuguesa, sono morti ieri durante una rivolta che aveva come obiettivo provocare una fuga di massa, sventata dalla sicurezza. Lo riferisce il quotidiano El Universal. Nella sua pagina online il giornale, citando fonti militari, indica che in mattinata i detenuti hanno creato “una situazione irregolare” che ha richiesto l’intervento del direttore, Carlos Toro, e della comandante delle forze di sicurezza del carcere, Escarlet González Arenas. Coltelli e bombe a mano - Una volta sul posto, i due sono stati attaccati e feriti con una bomba a mano ed armi da taglio dai reclusi che hanno poi tranciato le reti di protezione, per poter di uscire. È entrato quindi in azione il gruppo “Los Manchados” che si è scontrato senza successo con gli agenti, in un incidente che ha avuto un bilancio di 44 detenuti morti e 50 persone ferite. Il sovraffollamento - Secondo l’ong Observatorio Venezolano de Prisiones, il carcere di Guanare è stato progettato per ospitare 750 prigionieri ma oggi sono 2500 le persone dietro le sbarre. In tutto il Venezuela ci sono circa 500 carceri con una capacità totale di 110mila detenuti. Più volte Human Rights Watch ha denunciato che gli istituti penitenziari sono sovraffollati e controllati da gang che trafficano droga e armi.