Nelle carceri 6.000 detenuti in meno, ma non basta per il “distanziamento” di Simona Olleni agi.it, 29 maggio 2020 Tra le misure di alleggerimento, la detenzione domiciliare e licenze. Secondo l’Associazione Antigone, però, per ridurre i rischi di contagio dovrebbero uscire altri 8-10 mila reclusi. Oltre ?6 mila i detenuti in meno negli istituti penitenziari italiani dall’inizio dell’emergenza sanitaria: gli ultimi numeri aggiornati, forniti dal Garante nazionale dei detenuti due giorni fa, parlano di ?54.998 presenze nei penitenziari, ?a fronte delle 61.230 del 29 febbraio scorso. “Certamente sono state prese delle misure - rileva Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, interpellata dall’Agi - ma sono del tutto insufficienti: bisogna fare molto più spazio in carcere per attuare il distanziamento sociale”. Allo stato, è “stabile” il numero dei contagi da coronavirus registrati nelle carceri - ?il Garante, nel bollettino di mercoledì scorso, parlava di “105 situazioni di positività che attualmente riguardano le persone detenute” con 11 ospedalizzati - ?concentrato soprattutto in alcuni istituti del Nord Italia. Due i decessi tra i detenuti, avvenuti in ospedale, e 19 i guariti. Nessun contagio negli istituti di pena minorili, mentre, per quanto riguarda gli agenti penitenziari, i dati ufficiali del Dap ?parlano di 204 contagiati, 6 guariti e due morti. Diverse le misure adottate per far fronte al rischio di epidemia tra i reclusi: tra queste, gli articoli del decreto Cura Italia, con i quali si è rimodulata la detenzione domiciliare per chi deve scontare una pena inferiore ai 18 mesi, prevedendo iter più snelli, fino al 30 giugno, per chi può accedere a tale misura, con braccialetto elettronico per pene tra i 7 e i 18 mesi, nonché licenze per chi è in semilibertà. ? Il Garante, proprio ieri, ha riferito, rispetto al calo dei detenuti, che “in 2.078 casi si è trattato di uscita in detenzione domiciliare”, di cui 436 con applicazione del braccialetto elettronico, e in 425 casi di licenze fino al 30 giugno di persone semilibere. Dopo un’interlocuzione con il Guardasigilli Alfonso Bonafede, inoltre, il commissario per l’emergenza Domenico Arcuri ha affidato a Fastweb la fornitura per ulteriori 4.700 braccialetti entro la fine di maggio, mentre fondi sono stati stanziati da Cassa delle ammende e avviati progetti dagli uffici dell’esecuzione penale esterna per aiutare quei detenuti che potrebbero accedere alla detenzione domiciliare ma non hanno un domicilio fisso. Dal punto di vista sanitario, infine, sono ad oggi previsti test sierologici nei penitenziari di Abruzzo, Campania, Toscana, Umbria, Emilia Romagna e Sicilia, sulla base di protocolli stabiliti dagli assessorati regionali. “La capienza regolamentare ufficiale - osserva ancora Susanna Marietti - è di circa 50 mila posti, ma dobbiamo tenere conto che vi sono sempre aree in manutenzione e che, dopo le rivolte di marzo, ci sono più posti inagibili. Serve un alleggerimento più massiccio delle presenze in carcere, dovrebbero uscire altri 8-10 mila detenuti”. L’attenzione sanitaria “va mantenuta altissima”, aggiunge, ricordando che “da subito abbiamo chiesto misure più intense per chi, in carcere, ha problemi di salute. Inoltre, servirebbero meno paletti sulla detenzione domiciliare e, pensando ai braccialetti, non si capisce perché ora sono così importanti, mentre prima venivano usati soltanto per la custodia cautelare ai domiciliari, a fronte di 61mila persone, senza braccialetto, che usufruivano di misure alternative”. La fase critica delle rivolte, osserva ancora la coordinatrice di Antigone, “è superata, e speriamo non torni: per scongiurare questo rischio serve una corretta e assolutamente trasparente informazione all’interno dei penitenziari che eviti si crei allarme, tra i detenuti e i loro familiari all’esterno, sulla base di voci incontrollate”. Torna invece a chiedere provvedimenti di clemenza l’associazione Nessuno tocchi Caino: “L’amnistia e l’indulto sono gli unici provvedimenti idonei ad affrontare radicalmente il problema delle carceri”, afferma Elisabetta Zamparutti, tesoriere di Nessuno Tocchi Caino. Quelle adottate finora dal Governo “sono misure inadeguate alla gravità della situazione carceraria, che necessita quindi - sottolinea in un’intervista all’Agi - di più radicali provvedimenti volti a ridurre la popolazione carceraria a fronte dei problemi posti dalla pandemia”. Le rivolte, i morti e la questione dipendenze di Hassan Bassi* fuoriluogo.it, 29 maggio 2020 Salvatore Piscitelli Cuono (40 anni), Hafedh Chouchane (36 anni), Slim Agrebi (41 anni), Alis Bakili (53 anni), Ben Masmia Lofti (40 anni), Erial Ahmadi (36 anni), Arthur Isuzu (30 anni), Abdellah Rouan (34 anni), Hadidi Ghazi (36 anni), Marco Boattini (35 anni), Ante Culic (41 anni), Carlos Samir Perez Alvarez (28 anni), Haitem Kedri (29 anni) sono le persone detenute decedute a seguito delle rivolte nelle carceri di inizio marzo 2020. Erano detenuti negli Istituti di Modena e Rieti e sono morti durante le rivolte, o subito dopo: durante i trasferimenti in altri Istituti o a trasferimento avvenuto. Per tutti la causa di morte ipotizzata dalle fonti ufficiali è quella di overdose per ingestione di metadone ed avvelenamento da farmaci. L’overdose da metadone non è un evento frequente in Italia, sappiamo che le overdosi da oppioidi avvengono con più facilità ai danni di coloro che hanno una bassa soglia di tolleranza alla sostanza. Questo è tipico di chi utilizza una sostanza per la prima volta (tolleranza sconosciuta), nei consumatori saltuari o nelle persone che hanno interrotto per un lungo periodo l’utilizzo di tali sostanze (come ad esempio coloro che escono dai programmi finalizzati all’astinenza delle comunità terapeutiche o per l’appunto dalla detenzione). Fra i detenuti che sono morti non sappiamo se vi fosse qualcuno in carico ai servizi per le dipendenze (Ser.D.) interni alle carceri, o se lo fossero tutti. È probabile che per qualcuno il metadone ed i farmaci utilizzati senza prescrizione medica non fossero una novità, ed è per questo che queste morti creano molti interrogativi. È difficile immaginare che persone “esperte” abbiano talmente perso il controllo da suicidarsi ingerendo quantitativi letali di sostanze che conoscevano bene. È invece possibile che fra di loro ci fossero persone che non avevano esperienze assidue di consumo e che siano morte per overdose perché avevano una bassa tolleranza. I risultati delle autopsie renderanno chiare le cause di morte ed insieme alla ricostruzione della successione degli eventi potranno forse spiegare perché nessuno si sia accorto per tempo del loro stato di grave malessere, attivando i soccorsi, come invece è successo in altri casi. Il naloxone, farmaco salvavita per overdose da oppiacei è infatti presente in quasi tutti gli istituti. Il rapporto fra carcere e droghe è da anni molto molto stretto. Le persone detenute per violazione del testo unico sugli stupefacenti (D.P.R. 309/90) sono circa il 35% della popolazione carceraria, ed i detenuti con “problemi droga-correlati” erano 16.669 al 31 dicembre 2018 secondo l’ultima Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia. Nell’ambito delle attività dell’Osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione nel 2019 abbiamo registrato 3101 persone in trattamento per dipendenza patologica distribuite in 82 istituti carcerari. Persone in carico ai servizi sanitari del territorio che operano all’interno delle carceri. Questo tipo di servizi sono stati la prima area di intervento sanitario trasferita dalla sanità penitenziaria alle Regioni (dal primo gennaio del 2000) e quindi in maniera stabile ai Ser.T. (oggi Ser.D.), a riprova di quanto fosse urgente intervenire, anche per garantire una uniformità ed una continuità di presa in carico fra “dentro e fuori”. Continuità che è ancora uno dei punti deboli del sistema, che di frequente non permette di reperire in tempi adeguati le informazioni sulle terapie di una persona in ingresso in Istituto, o di comunicarle agli altri Istituti durante i trasferimenti. La cartella clinica informatizzata che permetterebbe di ovviare a questo problema (anche per tutte le patologie), è stata attivata soltanto dal 25% dei servizi sanitari degli Istituti visitati nel 2019, e fra questi ci sono Istituti che lamentano comunque difficoltà nell’invio dei dati per problemi alle linee di connessione internet, a volte completamente assenti. Dai confronti con il personale sanitario si rileva anche una maggiore rigidità ed una minore personalizzazione dei programma terapeutici per chi si trova all’interno degli Istituti rispetto al resto degli assistiti (anche se appartenenti alla stessa Azienda Sanitaria Locale), con una dichiarata scarsa condivisione con l’interessato degli obiettivi di programma, ed una netta prevalenza di interventi che tendono alla completa astinenza, piuttosto che per esempio a programmi di somministrazione a mantenimento (in alcuni istituti non è nemmeno previsto l’uso di sostitutivi! - fonte progetto Iride 2017). Mentre rimane decisamente molto diffusa la somministrazione costante di altri farmaci. La costruzione del programma risente ovviamente del contesto limitante del carcere, che non facilita percorsi di potenziamento dell’autonomia dei detenuti, e dalla durata del tempo di permanenza presso uno stesso Istituto, ma rimane il fatto che anche alcuni Istituti a custodia attenuata dedicata ai detenuti “tossicodipendenti” (Icatt) selezionano gli ingressi limitandoli a coloro che non assumono più metadone e non presentano sintomi di astinenza, il che pare una contraddizione in termini. Vi sono anche istituti carcerari nei quali le persone che stanno seguendo un programma terapeutico del Ser.D., sono escluse dalle lavorazioni interne. Questa impostazione generale, oltre a essere ingiustificata, è controproducente per l’eventuale successo di programmi terapeutici personalizzati, come dimostra la prassi universalmente seguita all’esterno. Inoltre gli affidamenti in prova al servizio sociale per proseguire o intraprendere l’attività terapeutica sulla base di un programma concordato con l’ASL (art. 94 del 309/90) coinvolgono ogni anno poco più di 2000 persone (dati Min. Giustizia) e quasi tutte presso comunità residenziali; sono molto pochi gli affidamenti ai servizi del territorio. In questo caso gioca un ruolo importante la Magistratura di sorveglianza che tende ad approvare solo programmi terapeutici presso strutture “chiuse” che garantiscono la “custodia” del detenuto, con maggiori costi (che alcuni Ser.D. non sono in grado di sostenere), ed una rigidità imposta ai programmi che gli stessi servizi sanitari e le comunità chiedono di superare. Non manca infine una segnalazione per la scarsità di azioni di riduzione del danno e dei rischi di trasmissione di Hiv e di altre Infezioni Sessualmente Trasmissibili secondo quanto raccomandato per gli Istituti di pena dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il Controllo della Droga e la prevenzione del Crimine (2013), come ad esempio la disponibilità di materiali sterili per il consumo di sostanze. *Segretario dell’Associazione Forum Droghe 4bis, le zone d’ombra dietro la modifica di Michele Passione* Il Dubbio, 29 maggio 2020 Approvata la relazione in Commissione antimafia. Nella giurisprudenza (più o meno) consolidata le “zone d’ombra” sono quel che ancora non si sa e che impedisce il riconoscimento della c. d. “collaborazione impossibile o inesigibile”, che prima della storica sentenza n. 253/2019 della Consulta costituiva l’unico spazio per vicariare quella effettivamente prestata. Sappiamo com’è andata a finire; finalmente, una crepa nel muro. Prima ancora, la Cedu, con la sentenza (quasi pilota) Viola c. Italia n. 2, in tema di ergastolo ostativo, aveva stabilito (§ 143) che “la natura della violazione accertata ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione impone allo Stato di attuare, di preferenza per via legislativa, una riforma della reclusione dell’ergastolo, che garantisca la possibilità di riesame della pena”. Impone, c’è scritto. Trasmessa la sentenza al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l’esecuzione (ex art. 46 Cedu) dopo il rigetto della richiesta di referall, è interessante vedere che è successo. Il signor Viola è sempre in galera. Il Parlamento tace, occupato dal cigno nero. Allora ci pensano loro, quelli della Commissione Antimafia. Così, di recente è stata approvata la relazione sull’istituto di cui all’art. 4 bis e le conseguenze derivanti dalla sentenza n. 253 del 2019 della Corte Costituzionale. In sintesi: si legge che “occorre fissare un altro tipo di doppio binario... che preveda un più rigoroso procedimento di accertamento da parte della magistratura di sorveglianza dei presupposti per la concessione di eventuali benefici”. Un’ossessione, che va di moda. Come già accaduto col DL 29, si cuce addosso a un gruppo ristretto di cattivissimi la maglia stretta di un’area riservata, imponendo loro oneri dimostrativi rafforzati, al contempo strozzando la valutazione dei magistrati. Si rafforzano oneri di allegazione anche per la collaborazione inesigibile o irrilevante (con ciò violando il decisum della sent. n. 32/ 2020 della Corte). Si ipotizza una diversa competenza sulle decisioni da assumere, profilando vari scenari, tutti perniciosi e incostituzionali. La prossimità del Giudice all’Uomo è il tratto distintivo del Magistrato di Sorveglianza, poiché coerente con il finalismo rieducativo e l’individualizzazione della pena e del percorso di reinserimento sociale, e dunque sarebbe impensabile la competenza romana, viceversa ipotizzata “per evitare orientamenti giurisprudenziali eterogenei e difformi pur in situazioni identiche o analoghe” (l’Uomo sullo sfondo, al centro il suo reato!). Altrimenti impensabile pensare l’esclusione del reclamo o l’ipotesi di concentrarlo sullo stesso Tribunale romano (in diversa composizione), oppure di ricorrere a Corti di Appello (non specializzate) integrate da esperti, o, infine, diversificare la competenza in ragione della tipologia di reati per cui il soggetto è stato condannato. Infine, voce dal sen fuggita: “per i reati di cui all’art. 4bis la facoltà di procedere allo scioglimento del cumulo dovrebbe divenire ammissibile solo in relazione a quei benefici che integrino il percorso rieducativo del condannato e che tendano al suo reinserimento sociale”, e non quando l’accesso alle misure “sia valutato per finalità oggettive e comunque esterne al personale percorso riabilitativo del reo in esecuzione pena”. Sul punto, a tacere del fatto che il recepimento di questa indicazione comporterebbe un’immediata impennata dell’overcrowding penitenziario, vi è da chiedersi quali siano i benefici insensibili al personale percorso riabilitativo. Nessuno. Allora, non pare casuale il richiamo alle sollecitazioni di un PM distrettuale, molto presente nel dibattito di questi tempi ed in certe trasmissioni televisive, che sulle pagine del “Mattino” del 10 maggio scorso aveva proposto questa soluzione, osservando come “hanno lasciato la cella anche i mafiosi, sempre grazie allo scorporo delle pene”. I mafiosi. Alla fine si torna lì. *Avvocato Arte in carcere: un’evasione creativa da dietro le sbarre di Monica Col zetatielle.com, 29 maggio 2020 L’arte va in carcere, ci entra per evadere, anzi per organizzare un’evasione da dietro le sbarre in piena regola, arte in carcere per rendere migliori. E così l’arte diventa arte terapia, rieducazione e avvicinamento al dialogo: arte come libertà. Non è un luogo come gli altri, il carcere. È un luogo di reclusione, di forte impatto, di storie travagliate e complesse, che creano comunque una forte energia. È un luogo dove l’arte, patrona dei travagliati per eccellenza, in realtà si trova a suo agio. In molti, tra direttori di penitenziari, psicologi, artisti, associazioni, operatori sociali e anche curatori eccellenti lo hanno capito. E nel carcere, anzi in molti carceri, sono stati creati dei progetti che vedono arte e detenuti uniti in suggestioni di libertà creativa. Arte in carcere, il progetto Liberi Dentro - Iniziamo con il progetto Liberi Dentro, la mostra curata da Giacinto di Pietrantonio, nell’ambito della Milano Design Week 2019 all’interno dello Showroom Drumohr. Qui, i detenuti del carcere di Rossano Calabro (CS) hanno realizzato un omaggio a Leonardo da Vinci e alla sua Ultima Cena, entrando in contatto con grandi designer. Liberi dentro raccoglie dunque l’esperienza del ceramista Pierfrancesco Pirri, con il suo laboratorio per carcerati, attivo da 15 anni, e la creatività dei grandi nomi del design nazionale. Ed ecco nomi come Mario Airò, Atelier Biagetti, Ctrlzak, Jan Fabre, Ugo La Pietra, Lorenzo Marini, Ovo, Paola Pivi, Denis Santachiara, Patrick Tuttofuoco, unirsi al laboratorio, nato con lo scopo di dare un’opportunità di lavoro ai detenuti riproducendo ceramiche e stoviglie della tradizione calabra, per ricreare la più famosa tavola pasquale con sottopiatto + piatto piano + piatto fondo + piattino più bicchiere. Un’ ultima cena senza personaggi, forse come il vuoto lasciato, o forse come in attesa di un qualcosa da compiere. Stoviglie come attori muti. Gli “Scollamenti temporali” di San Vittore - Al San Vittore di Milano, va in scena con i detenuti, l’architetto e designer Giulio Ceppi con il progetto “Scollamenti temporali. Relazioni impreviste tra arte, moda e lifestyle”. Un gioco di collage realizzati con due tipi di frammenti di immagini diverse e in contrasto tra loro. Da una parte le riproduzioni dei capolavori della storia dell’arte, e dall’altra ritagli di pagine di moda o campagne pubblicitarie. Un miscuglio di lecito e illecito, sacro e profano, vero e falso, evasione e creatività, che Ceppi ha descritto in questo modo. “Giocare con questi frammenti è un modo per generare e proiettare messaggi sul nostro futuro, per immaginare un destino diverso, sognando anche per poche ore un futuro che ci faccia dimenticare il presente e un passato spesso rimpianto o perso”. I collages realizzati dai detenuti sono sbarcati alla Triennale di Milano 2019. “Artisti di sbarre” alla Casa Circondariale di Lucera - Qui il progetto ha come centro la delicata relazione tra padri e figli dentro l’ambiente carcerario e vede attori il Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti di Foggia con l’artista Mosè La Cava. Sono murales dipinti nella sala colloqui del carcere, l’unico luogo dedicato alla genitorialità, al contatto esterno, alla vita. Outdoor il Museo Novecento di Firenze al Carcere di Sollicciano - “Vogliamo andare nelle carceri, negli ospedali, nei luoghi di degenza per la terza età e nelle aziende, nelle fabbriche e luoghi di lavoro”, spiega Sergio Risaliti, direttore del Museo Novecento di Firenze “Vogliamo vedere cosa accade quando si inserisce un’attività creativa all’interno di un lavoro alienante, interrompendo questo ciclo con un oggetto di pensiero, di contemplazione”. Outdoor ha portato il museo e i suoi addetti nel carcere di Firenze Sollicciano. Due opere: un dipinto di Renato Paresce “La casa e la nave” e una scultura di Severo Pozzati, “Maternità”, sono state portate nelle loro casse di protezione, disimballate davanti ai detenuti e spiegate, per tecnica, significato e anche imballaggio. Viene spiegata, agli allievi del carcere la differenza tra imballare un disegno o un dipinto e come si protegge un’opera dagli urti, oltre al messaggio che l’artista vuole promuovere. “L’arte della libertà” all’Ucciardone - L’arte della Libertà è invece il titolo del progetto introdotto all’interno della Casa di Reclusione Calogero di Bona - Ucciardone di Palermo, a cura di Elisa Fulco e Antonio Leone. Coinvolge detenuti, operatori socio sanitari e museali, anche la polizia penitenziaria. Spazio al workshop, a un nuovo spazio laboratoriale, alla realizzazione di un’opera d’arte all’interno del carcere. E poi lezioni di arte contemporanea e visite guidate nei principali luoghi culturali cittadini. Parole, immagini, fotografie e performance per sviluppare la capacità di mantenere l’attenzione, di portare a termine un lavoro, di impegnare proficuamente il proprio tempo. Ma anche per promuovere lo spirito di iniziativa e di produrre idee e progetti creativi lavorando insieme. Insomma in carcere l’arte ha un obiettivo: permettere a tutti di raccontarsi attraverso il linguaggio della fantasia. L’evasione messa in campo con la creatività attiva l’interesse, rafforza lo spirito di gruppo, la condivisione, il senso di responsabilità. Esternamente abbiamo la convinzione che una volta inserita una persona in carcere, sia risolto il problema. In realtà forse è il momento in cui si dovrebbe prendere atto del problema e iniziare realmente ad affrontarlo. L’ arte ha un ruolo fondamentale in questo luogo istituzionale tra i più importanti. In carcere girano migliaia di anime, traiettorie umane diverse tra loro e l’arte non li riunisce sotto l’etichetta “carcerato” o “detenuto”. Entra in persone differenti per provenienza, cultura e sensibilità e li rende omogenei in un piccolo spaccato della globalità. L’arte porta il centro del mondo in un luogo che dal mondo è completamente fuori. Il piano dell’Ue: “Cara Italia, basta processi eterni, altrimenti niente fondi” di Giulia Merlo Il Dubbio, 29 maggio 2020 I 172 miliardi di recovery fund saranno vincolati alle riforme. L’Europa mette a fuoco ciò che da anni si ripete in tutte le tavole rotonde giuridiche: se l’Italia è il fanalino di coda europeo per crescita economica, la ragione sta anche nella lentezza della sua giustizia civile. E, con il pragmatismo di Bruxelles, fa anche il passo in più: vincola la disponibilità di una parte dei fondi destinati all’Italia dal Recovery Fund proprio al loro utilizzo per velocizzare i processi. In sintesi, la Commissione Europea ribadisce implicitamente ciò che gran parte dell’accademia e delle professioni ha sempre ripetuto in questi anni: per rendere più rapida la giustizia civile non bastano (o non servono) riforme procedurali, ma occorre un’iniezione di denaro, da spendere in personale e infrastrutture. Solo in questo modo, secondo Bruxelles, sarà possibile ridurre drasticamente la durata dei contenziosi civili, che sono uno dei tappi che bloccano il rilancio economico del nostro Paese. La proposta è contenuta nel Next Generation Eu, il documento presentato dalla Commissione Europea sul ricovery plan da 750 miliardi di euro tra prestiti e sussidi in quattro anni, che servirà a far uscire il Continente dalla recessione economica provocata dal coronavirus. Di questi, secondo il commissario per l’Economia Paolo Gentiloni, all’Italia spetteranno circa 172 miliardi, di cui 81,8 miliardi di sussidi e 90,9 miliardi di prestiti da restituire. La cifra è la più alta tra i paesi dell’Unione ma non è a fondo perduto: il suo utilizzo è legato delle misure messe in campo da ogni singolo paese per rilanciare l’economia nazionale. Per venire incontro ai paesi più scettici (Austria, Paesi Bassi, Svezia e Danimarca), il progetto presentato dalla presidente Ursula von der Leyen prevede le condizioni a garanzia del denaro sborsato: ogni stato dovrà presentare a Bruxelles il piano nazionale di riforme e investimenti che intende finanziare. Il documento, inoltre, dovrà essere approvato sia dalla Commissione che dal Consiglio europeo. Infine, i fondi non arriveranno in un’unica soluzione ma saranno erogati “a rate, in base ai progressi compiuti nell’attuazione delle riforme”. Nel nostro caso, le priorità sono state chiarite dallo stesso Gentiloni: “Puntare sulla transizione verde e digitale, risolvere inefficienze burocratiche e la lentezza della giustizia civile”. Del resto, i dati sulla giustizia italiana sono ben noti a Bruxelles, come lo sono anche i dati economici che dimostrano come le imprese siano restie a scegliere l’Italia come paese d’elezione anche per la lentezza di eventuali controversie civili. I richiami per la giustizia lumaca si sono susseguiti negli anni: secondo relazione del 2019 di valutazione sulla giustizia della Commissione europea, l’Italia ha il record peggiore d’Europa per la giustizia civile sia nel 2016 (514 giorni per arrivare ad una sentenza di primo grado; 843 giorni per il secondo grado e 1.299 giorni per il terzo) che nel 2017 (548). Inoltre, il nostro è risultato il nono Paese dell’Ue per soldi spesi nel sistema della giustizia, con l’equivalente di 96 euro per cittadino, di cui il 63% viene investito per coprire gli stipendi di giudici e personale amministrativo. Oggi, dunque, l’Europa lega ancora più esplicitamente a doppio filo il fattore economico con quello giudiziario: l’economia italiana potrà riprendersi dallo shock del coronavirus solo grazie ai fondi europei, parte dei quali dovranno necessariamente essere investiti in giustizia, individuata tra gli ostacoli principali al rilancio della nostra economia. La pandemia, dunque, potrebbe diventare l’inaspettato deus ex machina che permette di affrontare il problema dei problemi della giustizia italiana. Anche perché la mossa europea arriva in una fase in cui gli stessi partiti di maggioranza di governo e in particolare il Partito democratico hanno chiesto di mettere mano alla giustizia civile. Una bozza di riforma è già sul tavolo, ma il suo orientamento ha il baricentro spostato sulla riforma della procedura, nella convinzione (o illusione) che in essa si annidino le lungaggini che soffocano il processo. Ora, invece, la mano tesa dell’Unione europea potrebbe permettere un passo più lungo e ambizioso, che incida sulle endemiche carenze strutturali della giustizia italiana. Le cifre a disposizione, sono ancora solo quelle della proposta formulata dalla Commissione. È probabile che, alla fine del negoziato tra falchi del nord e colombe, le cifre si riducano. Ma il principio resta: i fondi dipendono dalle misure che verranno messe in campo dai singoli Stati per rilanciare l’economia, su cui Bruxelles vigilerà attentamente. Il momento che inizierà a dare concretezza al piano di rilancio economico europeo è fissato per il 19 di giugno, la data del Consiglio europeo in cui si discuterà il Next Generation Eu. Il testo finale, poi, dovrà venire approvato dal Parlamento europeo. Dunque, i fondi del Recovery Fund inizieranno a venire stanziati non prima di gennaio 2021. Del resto, si tratta della più poderosa manovra di rilancio europeo dal secondo dopoguerra e servirà a proiettare il vecchio continente nel futuro: una parabola tutt’altro che facile e che rischia di infrangersi contro l’incapacità di mediazione dei singoli Stati o la loro incapacità politica di aderire a direttrici comuni. Gentiloni, infatti, ha chiarito la scommessa alla base del progetto di Ursula von der Leyen: ogni paese deve considerare questa un’opportunità di modernizzazione e transizione digitale, ecologica e ambientale. Nella cornice di questi principi generali “spetta a ciascun paese stabilire quali sono le priorità e spetta alla Commissione verificare che queste priorità siano coerenti con un disegno complessivo”. Giustizia paralizzata, gli avvocati: “Chi dà la colpa a noi è in malafede” di Simona Musco Il Dubbio, 29 maggio 2020 Nell’emergenza celebrato poco più del 20% dei processi penali e il 15% di quelli civili. Cesare Placanica: “Nessuno può più dire che è frutto delle nostre resistenze”. “Nessuno, in nessun modo, può affermare che la giustizia sia ferma per colpa degli avvocati. E chi lo fa è in malafede”. Il grido è corale e sul punto tutti sono d’accordo, sia i penalisti sia i civilisti. La giustizia è ferma perché, semplicemente, non si fanno processi. E non può essere una scusa la ferma opposizione di buona parte della categoria contro il processo da remoto: anche lì dove è stato utilizzato la ripresa non c’è stata. Una posizione condivisa sia da coloro che vedono nelle udienze virtuali la morte del giusto processo, sia da coloro che nella tecnologia vedono una risorsa. I numeri parlano chiaro: le cause trattate, nel settore penale, oscillano tra il 20% e il 25% rispetto a quelle iscritte a ruolo. Nel civile, invece, sono solo il 15%. Dati resi noti dall’Osservatorio delle Camere penali italiane e dall’Unione delle camere civili, che hanno monitorato l’attività dei tribunali su tutto il territorio italiano. E i tempi dei rinvii sono lunghissimi: tra settembre 2020 e gennaio 2021, nella maggior parte dei casi, anche se ci sono perfino differimenti al 2023 e al 2024. Insomma, una tragedia. “La reazione degli avvocati rispetto a questa stasi incredibile ha contribuito a sfatare un luogo comune, ovvero che i processi non si facessero per la resistenza degli avvocati”, evidenzia Cesare Placanica, presidente della Camera penale di Roma. Le iniziative delle Camere e degli ordini sono state le più disparate e nessun avvocato ha mai puntato ai rinvii. Anzi, l’unica richiesta è quella di poter tornare in aula. La stragrande maggioranza dei processi viene rinviata, però, prima ancora di mettervi piede, spiega ed è inutile puntare sul processo da remoto, al di là delle ragioni ideologiche, in quanto fallito principalmente “per motivi tecnici”. L’udienza virtuale, “che è l’anti processo, un simulacro”, sarebbe ostacolata, principalmente, dall’incapacità tecnica del settore giustizia. “Impossibile dibattere da remoto - aggiunge Placanica - perché come rilevato dallo stesso tribunale in qualche occasione il meccanismo è troppo farraginoso. Se poi si vuole sostenere la solenne sciocchezza che dipenda dagli avvocati, allora tocca dire che chi lo sostiene è in malafede”. Bisogna, dunque, programmare in modo serio le udienze, anche per il futuro, “perché un avvocato che aspetta 4 ore per un’udienza è forza lavoro sprecata, un danno per lo Stato”. Basterebbe scaglionare le udienze, con fasce orarie ben precise, magari anche di sabato, accorciando il periodo di sospensione feriale. Ma quello che è “pericoloso” è che si affidi alla valutazione del singolo giudice quali siano i processi rilevanti da trattare, con un’interpretazione soggettiva che “nel campo della giustizia può dare stura ad accuse di arbitrio. I criteri di trattazione devono essere validi per tutti”. E se è stato implementato l’aspetto tecnologico per il deposito via pec delle impugnazioni, delle liste testi e per estrarre copia dei fascicoli e delle sentenze, ciò che emerge è “l’aspetto autoritario di questo mondo, che vuole conservare lo status quo”. Respinge le accuse anche Antonio De Notaristefani, presidente dell’Unione camere civili. Che rispedisce al mittente ogni congettura sulle responsabilità degli avvocati nel blocco della giustizia. “Chi lo dice è in malafede”, afferma. Perché oggi, gli avvocati civilisti non hanno possibilità di “interferire” con le scelte del giudice. “I processi trattati sono per iscritto, per il resto riceviamo una pec con la data di rinvio e non possiamo nemmeno opporci”, spiega. Ed è un problema particolarmente delicato, perché proprio in questi giorni “abbiamo appreso che una delle condizioni per i contributi europei è una maggiore efficienza della giustizia civile”. La responsabilità, “molto grave”, è dunque in mani altrui. De Notaristefani critica il proliferare di protocolli che rischia di ingabbiare la giustizia e dilatarla ulteriormente, immaginando già lo scenario futuro: “staremo anni a parlare delle violazioni dei protocolli, con deroghe al codice di procedura penale e finendo per parlare non di chi ha ragione o torto, ma dell’applicazione dei protocolli”. Nel campo civile, la fase emergenziale ha quasi azzerato le udienze, se non per i casi di estrema urgenza. E anche i processi con trattazione scritta “si fanno poco e male”, dal momento che i cancellieri non possono lavorare da remoto, pur essendo indispensabili. “Il processo da remoto è uno strumento e come tutti gli strumenti non è né buono né cattivo. Non c’è dubbio che nella fase critica il processo da remoto avrebbe potuto essere utile almeno per una certa tipologia di processi - spiega il presidente dell’Uncc - però la realtà è che le videoconferenze funzionano poco e male. I tribunali non hanno nemmeno sufficiente banda per affrontare questa situazione. Ed è irrealistico pensare che possa sostituire l’udienza di persona. Va bene per certe tipologie di processi, non per tutti. E in questa scelta il consenso degli avvocati è imprescindibile”. L’unica soluzione è tornare in aula, dunque. E De Notaristefani ricorda che il processo cartolare coatto viola, in condizioni di normalità, gli articoli 24 e 111 della Costituzione, nonché l’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. “Questo vuol dire che un’eventuale imposizione contro la volontà degli avvocati del processo da remoto porterebbe a sollevare subito una questione di costituzionalità e le Camere civili porterebbero subito lo Stato davanti alla Cedu”. Ne sanno qualcosa gli amministrativisti, che invece hanno accolto con gioia la possibilità di poter effettuare le udienze da remoto, vedendosi garantito - anche per una straordinaria collaborazione del Consiglio di Stato - il diritto al contraddittorio. Ma il processo da remoto può essere anche una risorsa, come testimonia Giovanni Guido, avvocato civilista di Napoli. “Sono sempre stato un sostenitore dell’oralità - spiega - però, proprio nella consapevolezza dei vantaggi che offre la discussione orale e la vicinanza con il giudice, rispetto a questa stasi e partendo dal presupposto che la vicinanza, in questo momento, è compromettente, allora non vedo perché una modalità di udienza alternativa, in questo periodo, debba essere visto con sfavore”. L’importante è che, però, l’udienza da remoto sia svolta “a certe condizioni”, sottolinea. Ovvero con un accordo che ne limiti la validità alla fase emergenziale, protocolli uniformi sul territorio nazionale, clausole di sicurezza per i deficit di connessione e garanzie sui dati acquisiti dalla piattaforma. “Visto che siamo in emergenza - conclude -, allestire una modalità che consenta la trattazione sarebbe una cosa dignitosa per cercare di ridurre al massimo i disagi e gli stop dell’attività giudiziaria”. Parità di genere, giudici e pm più divisi. Trovato l’accordo sulla riforma del Csm di Liana Milella La Repubblica, 29 maggio 2020 Parità di genere nelle preferenze per un Csm in cui le donne - che oggi sono la metà delle toghe italiane - contino quanto gli uomini, e non siano più una sparuta minoranza. Una regola futura che non è la separazione delle carriere chiesta dal centrodestra, ma riduce da quattro a due volte la possibilità di passare dalla funzione di giudice a quella di pm, e viceversa. E ancora, ecco un segnale per l’avvocatura che si sente bistrattata: in futuro i singoli consigli dell’ordine esprimeranno un parere scritto sui candidati al vertice degli uffici. Poi un messaggio sulle punizioni disciplinari, perché nella commissione del Csm che se ne occupa i componenti passeranno da 4 a 6, ma la sezione di dividerà in due per accelerare l’esame delle pratiche oggi troppo lungo. In più i consiglieri delle due sezioni non potranno sedere nelle altre commissioni, quelle delle nomine. Infine una legge elettorale con il doppio turno, 20 collegi che eleggeranno i futuri venti consiglieri, anziché i 16 di oggi. Contro il “metodo” Palamara, gli accordi sottobanco per le nomine documentati nell’inchiesta di Perugia, il Guardasigilli Alfonso Bonafede accelera. Stavolta non ci sono mal di pancia nella maggioranza, perché vogliono dare un segnale forte e immediato, tant’è che dopo due riunioni l’accordo è praticamente chiuso, il testo andrà in consiglio dei ministri la prossima settimana. E c’è un motivo in più per agire rapidamente e con durezza. Il secondo attacco, in pochi giorni, di Matteo Salvini che con Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi chiede di nuovo a Mattarella lo scioglimento del Csm. Salvini vuole anche la testa dell’ex vice presidente del Csm Giovanni Legnini da commissario per il terremoto perché nelle carte di Perugia scopre le telefonate dell’agosto 2018 in cui concordava con Palamara un testo di solidarietà al procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio, attaccato dall’ex ministro dell’Interno per le indagini sulla Diciotti. Mattarella ha già fatto sapere che il Csm non si può sciogliere. Ma le regole sulle nomine vanno cambiate subito. Quando da Bonafede s’incontrano il Pd (Walter Verini, Andrea Giorgis, Alfredo Bazoli, Franco Mirabelli), Leu (Piero Grasso e Federico Conte), Italia viva (Lucia Annibali) l’urgenza è uguale per tutti. Bisogna “ridurre la discrezionalità”, dare “uno stop alle logiche di potere”, “recuperare fiducia nella magistratura”. Proprio mentre il forzista Enrico Costa plaude alla proposta sulla separazione delle carriere che andrà in aula alla Camera il 29 giugno, ecco la norma che riduce da quattro a due le volte in cui un giudice potrà diventare pm e viceversa. La lancia Conte di Leu, ma viene accolta da tutti. Pesante la stretta sulla scelta dei capi degli uffici. Innanzitutto rigido criterio cronologico. Si decidono via via che i posti devono essere coperti. Vietato accorpare più nomine, con il sistema a pacchetto. Torna il criterio dell’anzianità e i candidati dovranno appartenere a una fascia di età omogenea. Infine la futura legge elettorale. Una questione ancora aperta. L’ex pm Grasso fa una proposta dura, 80 collegi in Italia, molto parcellizzati, quasi tribunale per tribunale, proprio per “sentire” la base contro le correnti. Poi il doppio turno con ballottaggio, e con parità di genere sia nelle candidature, sia nel voto, due preferenze ma di genere diverso. Sì alle larghe intese sul Csm. Il Pd chiede parità di genere di Errico Novi Il Dubbio, 29 maggio 2020 Bonafede: ascolto anche le opposizioni, poi il testo in Cdm. La scena andrebbe descritta bene. La politica, la politica vera della giustizia, ha conosciuto sei anni fa uno snodo decisivo. Ci si è trovato a fare i conti Andrea Orlando, che da guardasigilli, finché non ha ceduto ai tabù renziani sul carcere, le ha tentate tutte. Siamo nell’autunno del 2014, quando l’allora ministro della Giustizia affronta per la prima volta, con l’Anm, il nodo delle riforme. Avverte gli interlocutori che intende modificare, per renderla meno romanzesca, la legge sulla responsabilità civile dei magistrati. Levata di scudi. Al che Orlando risponde: se davvero ritenete non si debba intervenire sulla legge di Vassalli, allora va modificato in maniera strutturale il funzionamento del Csm, per evitare che qualsiasi profilo di inefficienza o negligenza dei giudici si infranga contro i meccanismi di difesa della categoria. Come è finita la storia? Che l’Anm ha preferito mal sopportare la riforma della responsabilità civile, approvata nel 2015, piuttosto che incoraggiare Orlando nel suo progetto di riforma radicale del Csm. E ieri l’attuale vicesegretario dem ha fatto un implicito riferimento a quell’epoca, in un’intervista ad HuffPost: si continua a scaricare un “malaffare diffuso”, ha detto, sul capro espiatorio di turno. “Prima Lotti, Palamara e Ferri” ora “altri componenti del Csm e i giornalisti”. Ma è invece necessario, secondo Orlando, “che la politica affronti il nodo in maniera sistemica: sono anni che si parla di riforma del Csm senza che questo abbia prodotto effetti, sia con maggioranze di destra che di sinistra”. E nessuno lo sa meglio di lui. Lunga premessa per dire che il nuovo Csm, nelle intenzioni del guardasigilli attuale Alfonso Bonafede e di tutti i partiti di maggioranza, non è una pratica da spicciare nei ritagli di tempo. Al punto che nel vertice supplementare celebrato ieri fra via Arenula e gli schermi dei pc in videoconferenza, il ministro ha concordato con gli alleati che prima di portare il ddl in Consiglio dei ministri (forse già la settimana prossima) sottoporrà il testo anche alle forze d’opposizione. Come se quella del Csm e dell’ordinamento giudiziario fosse una riforma istituzionale da modifica della Carta e doppia navetta obbligatoria. L’evento merita anche il “gesto di cortesia” verso gli altri partiti, com’è stato considerato dalla “task force giustizia” della maggioranza. Sui contenuti già definiti mercoledì sera, ieri ci sono stati altri affinamenti. Anche rispetto al sistema per eleggere i togati. Si dovrebbe partire con lo schema a doppio turno previsto già nella bozza di inizio anno, poi stralciata dal ddl penale. Salvo tenere la porta aperta a idee che limitino in modo anche più efficace il peso delle correnti. È uno dei punti, in realtà, che potrebbero cambiare da qui all’approdo del testo in Consiglio dei ministri. Ma su un principio i dem hanno tenuto ieri a mettere un punto fermo: “La parità di genere”, come spiega il responsabile Giustizia del Pd Walter Verini. “Visto che sarà possibile indicare più di una preferenza, il magistrato elettore che si avvalesse di tale facoltà dovrà rispettare il principio dell’alternanza fra i generi. Perché”, spiega Verini, “è paradossale che in magistratura il numero delle donne sia anche superiore agli uomini, ma che le donne poi diventino, al Csm e nei Consigli giudiziari, quasi una rarità”. C’è una modifica rispetto al diritto di voto degli avvocati nei Consigli giudiziari, che la versione di partenza avrebbe esteso anche alle valutazioni sulla professionalità dei magistrati. Resta la possibilità, per i rappresentanti del Foro e dell’accademia, di partecipare ai lavori dei “mini Csm locali” in tutte le fasi, ma senza poter votare, appunto, sulla carriera del singolo giudice o pm. A parziale rimedio, il Pd ha però chiesto e ottenuto che, in tutte le pratiche per l’assegnazione degli incarichi direttivi e semi-direttivi, sia obbligatorio, per il Csm, “acquisire il parere dal presidente dell’Ordine forense di quel distretto”, chiarisce Verini. “Una figura istituzionale dell’avvocatura, dunque non condizionabile e dotata di specifica autorevolezza. Il cui giudizio sul magistrato da promuovere resterà agli atti del fascicolo, e il Consiglio superiore dovrà necessariamente tenerne conto”. Tra gli aspetti delicati resta la geografia della sezione disciplinare: chi ne farà parte non potrà partecipare ai lavori delle altre commissioni di Palazzo dei Marescialli, e dopo il primo biennio sarà avvicendato da supplenti. Tra le ipotesi contenute nella bozza di gennaio pare invece destinato a tornare nel cassetto il ricorso agli psicologi per valutare meglio quei magistrati sui quali dovessero emergere ombre rispetto al “requisito dell’equilibrio”. Si vuole sì essere severi con le degenerazioni, ma non aprire un conflitto armato con l’Anm. Il cui presidente dimissionario, Luca Poniz, ha detto oltretutto che “la fine delle porte girevoli fra politica e magistratura” gli piace molto. Il tutto mentre, come ricorda soddisfatto il responsabile Giustizia degli azzurri Enrico Costa, “grazie a Fi il 29 giugno la legge sulla separazione delle carriere sarà in aula alla Camera”. Partita ora dall’esito meno scontato del previsto. Tanto che nel ddl sul Csm si è perlomeno provveduto a ridurre da quattro a due i passaggi consentiti tra le funzioni requirente a giudicante nella carriera di ciascun magistrato. Sempre i berlusconiani, al Senato, provano a sedurre di nuovo Italia viva con un emendamento al Dl Intercettazioni che ripropone il famoso lodo Annibali e congela la nuova prescrizione. Matteo Salvini chiede che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella gli renda giustizia per la nota che Giovanni Legnini sollecitò a fine agosto 2018 sul caso Diciotti. Se insomma l’intesa sul nuovo Csm c’è, la partita politica sulla giustizia non smette mai di aprire nuovi fronti. Giornali servi, giustizia a pezzi: parla Luciano Violante di Aldo Torchiaro Il Riformista, 29 maggio 2020 Luciano Violante ha servito il Paese in tre vesti: da magistrato ha indagato terrorismo e trame nere; da giurista ha insegnato Procedura penale; da politico è stato più volte eletto in Parlamento, diventando presidente della Camera. Una tripartizione che ha tenuto a mantenere distinta. “Avrei voluto fare l’architetto, ma gli studi erano troppo lunghi per me, che avevo l’esigenza di rendermi subito indipendente dalla famiglia”, ci racconta. Una famiglia antifascista unita dalle avversità: è nato nel campo di concentramento inglese di Dire Daua, dove padre e madre erano stati internati, mentre il fratello del padre andava a morire a Mauthausen. È un enfant prodige, a 22 anni si laurea e fa il concorso da magistrato. Lo vince e viene mandato a Torino, “città dall’anima razionale, sobria, costituzionale, perché vede convivere il cattolicesimo salesiano del lavoro, la sinistra comunista della classe operaia e della borghesia intellettuale, l’area liberale”. Nel 1976 è impegnato su processi importanti, e l’allora segretario del Pci torinese, Iginio Ariemma, lo vuole candidare alla Camera. Lui ci pensa e sta per dirgli di no quando riceve la telefonata di Enrico Berlinguer, che non aveva mai conosciuto. “Ho deciso di non candidarmi, faccio il magistrato”, gli disse. E Berlinguer, sollevato: “Sono d’accordo. Politica e magistratura sono piani che non possono sovrapporsi, non si può investire sul terreno politico il consenso avuto sul terreno giudiziario”. L’offerta sarà ripresa in considerazione tre anni più tardi, quando lavorava al ministero della Giustizia. E sarà esiziale: “Non esistono porte girevoli: chi abbraccia la politica non può e non deve tornare ad amministrare la giustizia, io feci una scelta e non sono tornato più indietro”. Furono gli anni di piombo a cementare il rapporto tra la sinistra e la magistratura? Sì. Perché c’era stata una saldatura necessaria tra il Pci, che era stato il partito più impegnato contro il terrorismo, e i tanti magistrati che rischiavano la vita ogni giorno. Si creò un fronte comune progressivamente ravvicinato, ideali comuni e nessun baratto. Poi ci fu Mani Pulite, altro spartiacque. Da allora la fonte primaria per i giornalisti sono diventate le Procure, e qualcuno ci ha costruito una fortuna. I grandi quotidiani divennero Gazzette delle Procure… I giornalisti ricevevano dagli uffici giudiziari sempre più informazioni di quelle che immaginavano di trovare. Si realizzò un’intesa tra le testate, una sorta di agenzia stampa collettiva. E da allora quel rapporto si è consolidato, anche perché facilita entrambi. Le carriere da separare rimangono quella tra giornalisti e pubblici ministeri. Come nacque Mani Pulite? Fu uno dei punti di passaggio verso un nuovo sistema politico. L’imprenditoria italiana decise di non pagare più, perché dopo la fine del regime sovietico non servivano più dighe anticomuniste da pagare. E in molti si precipitarono nelle Procure, chiedendo di essere ascoltati e affrettandosi a dire di essere stati concussi. Si aprì così la valanga di Tangentopoli, non solo per l’azione dei magistrati o per una qualche inchiesta giornalistica. Prima i processi nascevano dalle inchieste. Da quel momento avvenne il contrario. Tutt’oggi avviene il contrario. Da allora i magistrati hanno fatto politica, direttamente e indirettamente. La magistratura oggi è parte del sistema di governo del Paese, e non per suo arbitrio: per effetto dei poteri che le sono stati dati. Partiti e Parlamento hanno approvato leggi che regolano tutto, controllano tutto, sorvegliano tutti. Questa è stata una delega di governo alla magistratura: vuole che il magistrato meno responsabile non si comporti come un organo politico? Quel magistrato ha mutuato la lingua volgare e violenta della peggiore politica. E non sono rari gli eccessi di qualche divo televisivo con la toga… È necessario scongiurare un eccesso di potere: il magistrato non é organo di controllo generale della Repubblica. Il Csm va riformato. Con quale formula? Partirei dalla questione del vice presidente, eletto da 2/3 di magistrati e 1/3 di laici. Intorno a quali intese si determina l’elezione? È pensabile che sia il presidente della Repubblica a designare il suo vice, per sottrarlo a logiche pattizie? È una ipotesi, una mia idea. Certo, se si comincia a patteggiare dal primo giorno, con un accordo sul Vice presidente, non si finisce più. Si entra in una logica di trattativa. Sia chiaro: sono stati eletti anche eccellenti Vice Presidenti. Ma cambierei il metodo. Porterei gli anni di funzione da 4 a 6. E farei come per la Corte Costituzionale: non eleggere l’organo, ma i singoli componenti. A metà del primo periodo si sorteggiano la metà dei componenti che scadono subito e si procede alla elezione dei componenti che devono subentrare; e man mano che i singoli scadono si eleggono i nuovi membri, così è più difficile fare accordi spartitori. Ci sarebbe una continuità di prassi e la possibilità che ogni nuovo arrivato tra i membri laici sia aiutato nel capire i meccanismi, evitando il monopolio delle competenze che oggi è in mano alla componente giudiziaria. Una proposta concreta. La politica la recepirebbe? Per fare queste cose bisogna per prima cosa conoscere i problemi e non so se tutti li conoscono. E poi bisogna fare anche limitatissimi interventi sulla Carta Costituzionale, per cui bisogna essere d’accordo con ampia maggioranza. Che idea si è fatto del caso Di Matteo-Dap? Chi avrebbe posto, secondo lei, il veto? Non so se era un veto e non so se qualcuno è intervenuto. Il fatto che i boss non sarebbero stati contenti di Di Matteo al Dap era un fatto noto tanto al ministro quanto al dottor Di Matteo al momento della proposta. Dico invece che i due posti non erano equivalenti: il capo del Dap è un ruolo di prestigio, mentre alla direzione generale degli Affari penali non sei il numero uno. Quel ruolo è molto diverso oggi, dai tempi di Falcone. Penso che si siano fatte valutazioni interne. Non sono un fan del ministro Bonafede, ma non mi pare che qui abbia sbagliato. Come avrebbe votato, se fosse stato in Giunta per le autorizzazioni su Salvini sul caso Open Arms? Avrei letto con attenzione le carte. In un discorso da presidente della Camera definì la libertà come “necessità di contrastare chi ha un eccesso di potere dominante”. Vale anche per la magistratura di oggi? Assolutamente sì. Lei è stato anche presidente della Commissione parlamentare antimafia. Che idea si è fatto della testimonianza di Saverio Lodato sulle “menti raffinatissime” dietro all’attentato dell’Addaura? Subito dopo l’attentato all’Addaura, nel giugno 1989 mi telefonò Gerardo Chiaromonte. Mi disse: c’è l’amico tuo (così chiamava Falcone) che ci vuole vedere. Ci vedemmo in un ristorante a Trastevere, “Romolo al giardino della Fornarina” a pranzo, io, Falcone e Chiaromonte. Giovanni era particolarmente teso. Si diceva molto preoccupato, non ricordo se usò l’espressione “menti raffinatissime”. Parlò di una intelligenza di livello diverso e certamente superiore rispetto a quello delinquenziale e di una carica esplosiva molto forte. Non era un avvertimento ma un attentato cui scampò per puro caso. Disse intelligenza o intelligence? Intelligenza, in italiano. Gli chiese se avesse in mente qualche sospetto? Non fece alcun nome. Gli intrecci e le trame che leggiamo nelle intercettazioni parlano di un sistema di favoritismi e di complicità tra politica, istituzioni, magistratura e informazione. Un fenomeno nuovo? Non è un fenomeno del 2020. È qualcosa che esisteva ma che è andato degenerando. Non è un problema di correnti ma di capi corrente, come accade nei partiti. Sono duplicazioni di correnti politiche con le stesse logiche, ma con meno senso delle istituzioni: perché si trovano a gestire potere decisionale discrezionale persone prive di responsabilità per quelle scelte. Si finisce per fare carriera solo per appartenenza correntizia? L’appartenenza è molto importante ma non è l’unica strada. Si sono fatte anche ottime scelte anche in posti delicati come le Procure di Milano, Napoli, Roma, Torino. Questo sistema non ha fatto solo danni; è un sistema sbagliato e che va cambiato, ma ha anche prodotto risultati molto apprezzabili. Cosa serve per rendere giusta la giustizia? Bacchette magiche non ce ne sono. È un problema di lenta ripresa del senso di responsabilità all’interno e all’esterno della magistratura. Io credo che cambiare il Csm sia necessario. Poi c’è un punto di fondo: non si indaga per sapere se c’è una notizia di reato, ma perché c’è una notizia di reato. Lo Stato democratico dà il potere a un magistrato di indagare su una persona, sulla sua libertà, sui suoi beni, in base a presupposti certi. Il tema della notizia di reato è importante: mi muovo se c’è una precisa notizia di reato, non perché c’è un sospetto di notizia di reato. Come oggi avviene con la nuova legge sulla Corte dei Conti: quelle Procure possono muoversi solo quando c’è una precisa notizia. E lì parte il processo mediatico, primo e talvolta ultimo grado di giudizio. Il magistrato e il giornalista devono prestare più attenzione alla reputazione dei cittadini e delle istituzioni. Troppe volte risulta che i sospetti erano infondati, ma la reputazione è già stata distrutta. È un problema di civiltà. Su questo Davigo obietterebbe. Temo che non sia il solo punto sul quale non siamo d’accordo. Esiste un allarme criminalità organizzata, oggi che la crisi morde? Certamente, chi ha grande liquidità cerca di investirla. La mafia sta cercando di investire al Nord, presentandosi come soggetto sostenitore delle aziende in crisi. I soldi ci sono, a differenza del passato, bisogna accelerare al massimo. Tu Stato, inizia a darli, non partire con la logica della sorveglianza e del sospetto: uno Stato che non si fida dei suoi cittadini, suicida se stesso. Chi ha sbagliato pagherà, ma nel frattempo si evita che a pagare siano tutti gli altri. “Col Covid ragazzi più vulnerabili, ora riformiamo il diritto minorile” di Simona Musco Il Dubbio, 29 maggio 2020 Intervista a Giuseppe Spadaro, presidente del Tribunale dei minori di Bologna: “Uno degli aspetti più critici dell’emergenza è stata l’inadeguatezza dell’ascolto da remoto dei minorenni”. “Non si può tacere che di fronte al carattere del tutto inedito ed emergenziale di questa situazione siano mancati riferimenti e pratiche condivise, utili a salvaguardare i livelli di garanzia dei diritti, in particolare per le situazioni più fragili ed esposte al rischio”. Giuseppe Spadaro, presidente del Tribunale dei minori di Bologna, lo dice chiaro e tondo: alla giustizia minorile, in questa fase di caos, si è pensato troppo poco. Ed è mancata un’analisi su uno degli aspetti fondamentali del processo, l’ascolto dei minori, che da remoto rischia anche di essere dannoso. “Nonostante sia previsto per legge - spiega al Dubbio - le modalità con cui deve avvenire non sono ancora disciplinate”. E questa è, dunque, la prima sfida per il futuro. Presidente, come ha funzionato la giustizia familiare in questo periodo di crisi? Un certo interesse è stato rivolto in molti casi ai Tribunali ordinari per i casi di emergenze legate a crisi familiari in presenza di genitori separati, considerato che la pandemia non muta le regole fondamentali che governano la gestione dei figli. In questi casi, sebbene i provvedimenti adottati abbiano sospeso anche tutte le udienze di separazione, di divorzio e quelle per le coppie di fatto, già fissate nel mese di marzo, è stata prevista la possibilità per l’avvocato che “ravvisi un pregiudizio” di depositare telematicamente una richiesta di urgenza che sarà valutata dai giudici. Che tipo di procedimenti sono stati celebrati durante questo periodo di emergenza? Nonostante difficoltà oggettive, strumentali e soprattutto di orientamento adeguati, nei tribunali per i minorenni abbiamo continuato a celebrare i procedimenti per le situazioni di adottabilità, quelli relativi ai minori stranieri non accompagnati, ai minori allontanati dalla famiglia ed alle situazioni di grave pregiudizio come le violenze domestiche e gli abusi familiari, così come sono andate avanti le cause relative ai procedimenti urgenti aventi ad oggetto la tutela dei minori. A fronte di queste situazioni, come in molti ambiti, ci siamo trovati anche noi a gestire ed a confrontarci con un percorso di alfabetizzazione digitale rapido e non sempre funzionale. Le tecnologie sono adeguate a garantire l’ascolto dei minori? delle persone di minore età in sede giurisdizionale non è un diritto qualsiasi, ma è sancito dalla Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989, oltre che essere previsto da diverse fonti interne, perché a ciascuno sia riconosciuto concretamente il suo superiore interesse. L’ascolto del minorenne in sede giurisdizionale è previsto per legge, ma purtroppo a tutt’oggi la legge non ne disciplina le modalità. Come saranno adeguati, allora, i protocolli esistenti e le numerose buone pratiche sull’ascolto diffuse in tutte le sedi giudiziarie minorili del Paese in tempo di Covid? L’ascolto per il minore costituisce un fattore di protezione, capace di aumentarne l’autostima e la percezione di sé come soggetto capace di incidere sulla propria vita. Ascoltare significa dare attenzione alla comunicazione verbale ma anche e soprattutto a quella non verbale. Ciò che il minore non dice a parole, ma con il linguaggio del corpo, è fondamentale per la valutazione e l’orientamento del giudice. Un ascolto inadeguato rischia di essere superfluo, se non addirittura dannoso. Le misure per gestire la pandemia sono state all’altezza delle esigenze dei minori? Il Covid 19 ha evidenziato una crisi sistemica che, nonostante i molti richiami, continua a manifestarsi, nella scarsa considerazione con la quale si è tenuto conto dei diritti dei minori nelle misure finalizzate alla tutela della salute pubblica e nelle conseguenti, quanto necessarie, limitazioni imposte dall’emergenza sanitaria. Dal mio osservatorio la preoccupazione più grande è rivolta ai minori che vivono, nell’attuale situazione, una condizione di deprivazione, associata, spesso, ad un’accresciuta vulnerabilità, se non un vero e proprio trauma, come quelli in famiglie con genitori violenti o maltrattanti ed esposti al rischio di violenza diretta o assistita. Così come per quelli che, invece, sono temporaneamente collocati in comunità o accolti da famiglie affidatarie nell’ambito di provvedimenti civili e, non ultimi, i minori inseriti nel circuito penale che, nella situazione emergenziale, hanno dovuto sospendere percorsi di istruzione e formazione, interrompendo importanti rapporti educativi con il mondo esterno. Come si è comportato il distretto di Bologna? Molti servizi e comunità si sono organizzate per consentire ai minori collocati fuori famiglia di avere contatti più frequenti con i genitori o altri familiari mediante collegamenti da remoto, cercando di mantenere la continuità dei colloqui psicologici e di diverse attività educative. Ciò attivando, dove ciò sia possibile, forme di contatto regolare telefonico o telematico, come le videochiamate, offrendo la possibilità ai genitori di tenersi in contatto e di ricevere messaggi, con l’obiettivo di non interrompere le relazioni in corso tra bambini e famiglie esposte a condizioni di particolare vulnerabilità. Questa emergenza può insegnarci qualcosa per migliorare il sistema di tutela dei minori? Il nostro sistema, già attraversato da gravi circostanze che ne hanno messo in luce limiti e disfunzioni, deve affrontare con lucidità e determinazione alcuni nodi strutturali, come il rinnovato sostegno alle famiglie per prevenire la necessità di ricorrere agli allontanamenti, una riforma delle relative norme esistenti, compresa la disciplina dei procedimenti giudiziari in materia di responsabilità genitoriale, assicurando agli uffici giudiziari minorili e ai servizi sociali le risorse necessarie. La giustizia e la vergogna di Annalisa Chirico Il Foglio, 29 maggio 2020 Parla Giovanni Maria Flick. Il Csm da mandare subito a casa, il sorteggio come tabù da superare, la cultura del disprezzo applicata alle carceri. Mi auguro che arrivi presto un intervento autorevole del presidente della Repubblica”, dice al Foglio Giovanni Maria Flick, già presidente della Consulta e ministro della Giustizia, un uomo per il quale il diritto è pane quotidiano da oltre mezzo secolo. “Non sta a me indicare le azioni da intraprendere ma è evidente che il capo dello stato, che è anche il presidente del Consiglio superiore della magistratura, potrebbe rivolgere un messaggio alle Camere anche in questa specifica veste. Non esiste il potere di cacciar via gli indegni dal regno ma siamo di fronte a molteplici illeciti, di carattere deontologico, disciplinare e forse penale, che si trascinano da troppi anni; sono stati scoperti dieci mesi or sono (ma se ne parlava da tempo comunque), e tutto è rimasto come prima. Non s’invoca il plotone di esecuzione verso gli attuali consiglieri, indistintamente, ma il presidente Mattarella può, se lo ritiene, richiamare nel suo messaggio non solo l’interesse generale a una giustizia giusta ed efficiente ma anche quello alla conservazione dei valori di pluralismo e non autoreferenzialità della magistratura come ordine sovrano, indipendente, autonomo ma sottoposto alla legge e soltanto alla legge, anche sotto l’aspetto del funzionamento del Csm. Il Csm come tale dovrebbe essere rinnovato a cominciare dalle modalità di nomina dei componenti: altro che autoriforma o dignità delle dimissioni”. L’organo di governo autonomo della magistratura è finito di nuovo nell’occhio del ciclone per le conversazioni dell’ex componente togato Luca Palamara. “Ritengo che, pur in assenza dei presupposti per ipotesi corruttive, esistano elementi sufficienti per indagare i magistrati al centro dell’ennesimo scandalo per traffico di influenze illecite”. Una fattispecie criticata da insigni giuristi in quanto fumosa, scarsamente tipizzata. “Io non pongo la questione sul piano tecnico, dico che la legge è uguale per tutti, e a leggere le conversazioni tra certi magistrati viene da domandarsi perché un giudice dovrebbe godere di un trattamento privilegiato rispetto al comune cittadino. Un sindaco o un altro pubblico amministratore o un commissario di concorso sarebbe già finito sotto inchiesta in molti dei casi descritti nelle telefonate, per abuso d’ufficio: si agisca così anche per i magistrati. Dobbiamo recuperare la cultura della reputazione e quella della vergogna”. Le chat riservate dell’ex consigliere Palamara dipingono un mosaico di relazioni improprie tra politica e giustizia, il piatto forte sono sempre le nomine. “Il Csm come tale andrebbe mandato a casa perché ha perso ogni credibilità nel modo di elezione, ma l’organo cade soltanto se e quando non è più in grado di funzionare, ad esempio a séguito delle dimissioni di un numero sufficiente dei suoi membri. Il presidente della Repubblica non ha il potere di scioglierlo ma può usare la moral suasion perché si giunga subito a una riforma legislativa. Certamente andrebbero disciplinate diversamente le modalità di nomina per ridurre il margine di discrezionalità e di ‘negoziabilità’ dei magistrati nella selezione dei rispettivi rappresentanti. Se in passato nutrivo dei dubbi, adesso dico che si può anche pensare di introdurre il sorteggio: a mali estremi, estremi rimedi”. Il correntismo esasperato genera mostri. “Assistiamo ormai a forme intollerabili di autoreferenzialità. Un tempo il magistrato era espressione di una cultura, le indagini per accedere al concorso in magistratura erano eccessive (si estendevano fino ai familiari di terzo grado); adesso vediamo esempi clamorosi di persone che, pur in assenza di requisiti minimi, superano il vaglio del controllo. Le correnti non sono un male in sé: un conto è il pluralismo delle idee, un altro è il pluralismo delle seggiole da occupare e lo scambio tra di esse. È chiaro che lo strumento disciplinare non va impiegato per sanzionare chi la pensa diversamente dalla maggioranza. Vent’anni or sono, da ministro della Giustizia, mi sono occupato di tipizzare le forme di illecito disciplinare, di cercare di distinguerle dall’illecito penale e da quello deontologico, e di chiudere le porte girevoli tra politica e giustizia. Non mi pare che, al giorno d’oggi, esista ancora il pericolo che al magistrato venga tappata la bocca per ciò che dice… anzi”. Per Paolo Mieli la questione morale è un altro modo di usare politicamente la giustizia. “Continuo a pensare che la legge debba essere uguale per tutti, e che anche i magistrati coinvolti, più che finir esposti sui quotidiani, dovrebbero essere sottoposti allo scrutinio dei colleghi in sede giudiziaria. Se il comportamento di una toga desta sospetto, si indaghi come si farebbe per ogni altro cittadino. Anche la promessa di una progressione di carriera può rappresentare un indebito vantaggio patrimoniale”. Ma così la cultura del sospetto prende il sopravvento sulla cultura del diritto? “Troppo tardi, è già accaduto. Quello che possiamo augurarci è che questa deriva aiuti almeno a recuperare il senso della cultura della reputazione e della vergogna: che qualche magistrato ci pensi due volte prima di fare certe telefonate, di chiedere i biglietti per lo stadio o il soggiorno in albergo, di inseguire raccomandazioni con modalità pittoresche. Serve ritegno. Disciplina. Onore, come la Costituzione impone esplicitamente. L’efficienza e il buon andamento si traducono in doveri precisi”. Eppure esisterebbe, in teoria, un codice deontologico… “Non l’ho mai visto applicato. Sono stato magistrato per dodici anni, poi, con incarichi diversi, ho sempre operato nel mondo del diritto ma il codice non esiste se non in apparenza, figurarsi la deontologia. Pensi ai magistrati che partecipano continuamente a programmi televisivi parlando di qualunque tema, se non addirittura delle indagini che hanno trattato nell’esercizio delle loro funzioni. È un problema non solo di esternazioni ma anche di internazioni”. Lo scandalo per i mercanteggiamenti intorno alle nomine, però, è intriso di ipocrisia. “Le relazioni umane ne sono piene, s’insinua nei rapporti più intimi, più affettuosi, ma quando essa diventa la cifra stabile e definitiva delle relazioni tra le persone e all’interno di gruppi, allora l’ipocrisia è un sonnifero prima, rischia di diventare un cancro poi. Da quindici anni tutti ci siamo riempiti la bocca, in Anm e al Csm, con la cosiddetta ‘autoriforma’, la ‘sfida della professionalità’, il riconoscimento del merito nell’assegnazione degli incarichi direttivi e semi-direttivi, con motivazioni così ben strutturate da essere spesso impugnate dal collega soccombente e non di rado annullate dal giudice amministrativo, e magari perfino reiterate dal Consiglio che ha pure subìto il commissariamento ad acta, all’esito del giudizio di ottemperanza. Ma mai nessun dubbio, almeno in pubblico, che la sfida della professionalità sia stata vinta e che ogni consiliatura è migliore della precedente”. Come se ne esce? “La deontologia è una forma di autoregolamentazione ma in questo caso dev’essere il Parlamento a intervenire in modo efficace. Dopo aver esaltato la cosiddetta democrazia diretta (non si sa bene da chi e verso dove), l’unica istituzione che può riprendere le redini è il Parlamento. La Costituzione è chiara: il sistema giudiziario è sottoposto a rigorosa riserva di legge”. Tra gli effetti della crisi pandemica, c’è un ridimensionamento del ruolo del Parlamento, non solo in Italia. “Lei usa un eufemismo, in realtà abbiamo assistito alla sua totale delegittimazione; per fortuna c’è qualche segno di ravvedimento. È un processo che si è manifestato ben prima del coronavirus. Si pensi alla riduzione del numero dei parlamentari, chiesta a furor di popolo e con una riforma costituzionale un po’ semplicistica nella motivazione: risparmiamo i soldi. Ma il massimo del risparmio lo si realizza eliminando la democrazia. Quando si pone il voto di fiducia su una legge composta da un unico articolo contenente migliaia di commi, il Parlamento è stato di fatto messo all’angolo. Piuttosto, nel contrasto del coronavirus ci siamo resi conto che non si poteva andare avanti sempre e solo con i decreti del premier o dei presidenti di regione, per di più in contrasto tra loro. Per la Costituzione, infatti, la libertà di circolazione può essere limitata per ragioni sanitarie purché la materia sia disciplinata da una legge, non da una sequenza, per giunta contraddittoria, di atti amministrativi. E sempre nel dramma del coronavirus abbiamo compreso che i diritti non piovono dal cielo e non valgono sempre: sono realtà faticose, conquistate dai nostri padri a prezzi ben salati. Vanno vigilati e difesi”. Recentemente lei ha scritto che la crisi pandemica porta con sé l’abolizione degli anziani nelle case di riposo e dei reclusi in carcere: in che senso? “Sono le due categorie che, vivendo in situazioni di contatto permanente, subiscono per definizione quel rischio di contagio tra loro che per gli altri si vuole evitare come principale se non unico strumento contro la pandemia. Si sono aggiunte alle tre note disuguaglianze classiche che ledono la pari dignità sociale: contro gli ebrei, contro la donna, contro i migranti. Adesso ce la prendiamo con il detenuto perché diverso, con l’anziano perché improduttivo. Qualcuno ha teorizzato persino l’esclusione del diritto di voto per le persone avanti con gli anni. Vogliamo parlare della rarefazione degli strumenti medici? Il ‘diamoli prima ai giovani’ può essere giustificato nella logica della scelta individuale del medico che destina una cura a chi può trarne maggiore beneficio ma non può mai giustificare l’elaborazione di un codice normativo in base al quale il diritto alla tac sarebbe limitato agli under 65. Il diritto costituzionale alla salute importa il dovere per lo stato di fornire tali strumenti a ogni cittadino, senza scaricare sulle spalle del singolo medico la responsabilità di tale scelta nel caso specifico. Ciò che dico dovrebbe essere pienamente acquisito ma, al tempo d’oggi, nulla è scontato: l’algoritmo d’oro ha sostituito il vitello d’oro, la velocità e l’efficienza hanno preso il posto dell’esperienza. Nel presentismo che imperversa oggigiorno, il passato non conta, e il futuro nemmeno”. Tornando al carcere, Giuseppe Pignatone ha evidenziato la necessità di potenziare il ricorso alle misure alternative pur notando che è “nobile”, ma non realistico, immaginare un mondo senza carcere. “Condivido, entro certi limiti. Oggi purtroppo usiamo il carcere non più come extrema ratio ma come l’olio di ricino, come strumento primario di controllo sociale, come palliativo e tranquillante contro la paura sociale. Si pensi alla definizione del cosiddetto ‘spazza-corrotti’: ai condannati per determinati reati contro la pubblica amministrazione che non collaborano viene inibito retroattivamente il ricorso alle misure alternative. È un errore, è il frutto di una visione sbagliata del carcere. Il sovraffollamento degli istituti penitenziari rende inumano e degradante il trattamento e pressoché impossibile la funzione rieducativa della pena, sancita dalla Costituzione. Ciascuno di noi conserva infatti residui incomprimibili di libertà e dignità che vanno rispettati, anche per il peggior delinquente, anche nelle condizioni di carcere più duro”. Pochi giorni or sono, la Consulta ha dichiarato incostituzionale il divieto legislativo di scambiare oggetti tra detenuti sottoposti al regime dell’articolo 41 bis. “Era una inutile mortificazione lesiva della dignità. La pena deve essere umana, sempre. Ho il timore che, con la pretesa di sostituire le relazioni digitali a quelle umane, di affidare ogni interazione alla tecnologia, di celebrare i processi da remoto, di restare connessi senza mai incontrarsi, si rischi non solo di eliminare il contraddittorio e il diritto di difesa, ma prima ancora di amputare l’umanità. Storicamente la città nasce come fenomeno di aggregazione di fronte all’esigenza di ritrovarsi insieme. Essa non si limita a erogare servizi materiali o immateriali ma soddisfa il bisogno profondo di relazioni umane. Il mito della smart city è un modo per mutilare la dimensione umana”. Luciano Violante ha fatto notare che attualmente 53 mila persone scontano la pena in prigione, 61 mila la scontano fuori. Un risultato un tempo impensabile. “Si sono compiuti passi avanti ma c’è ancora molto da fare. Pensi all’ergastolo: è una pena legittima nell’esecuzione, illegittima nella proclamazione ‘fine pena mai’. La reclusione invece è una pena illegittima nell’esecuzione, legittima nella proclamazione ‘ti tengo in cella’. Un tempo il processo constava di un primo momento, di cognizione, seguìto dal trattamento. In altre parole, prima si giudicava il fatto, poi si decideva come ‘trattare’ l’uomo, anche sul piano della rieducazione. Oggi i due momenti si sono invertiti: prima si giudica l’uomo, poi si tratta il fatto. Quando si è preclusa la via delle misure alternative al carcere per i soggetti che non collaborano, ho cominciato a pensare che l’ergastolo diventava in questi casi incostituzionale, perché rendeva concreto e attuale il ‘fine pena mai’”. Pochi giorni or sono, il Gup di Ragusa ha condannato a nove anni di reclusione un uomo responsabile di duplice omicidio stradale aggravato dall’alterazione psicofisica. Due cuginetti, di undici e dodici anni, non ci sono più. “So bene che vicende simili possono impressionare l’opinione pubblica ma quel che non si comprende è che al male non si risponde necessariamente con il male”. Che valore diamo alla vita umana? “Questa domanda va posta con riferimento non solo alla vittima ma anche all’autore del reato. Se così non fosse, saremmo pronti a reintrodurre la pena di morte. Piuttosto conservo le mie perplessità sulla fattispecie giuridica dell’omicidio stradale: chi uccide somministrando un veleno artificioso merita forse una pena inferiore a chi uccide a bordo di un Suv? O piuttosto il ricorso a una figura delittuosa specifica e autonoma equivale alla risposta emotiva a una domanda emotiva di sicurezza? Ma i reati non si costruiscono sulle emozioni, anche perché le emozioni passano mentre l’offesa al bene della vita rimane”. Come l’inquietudine, di fronte al disastro giustizia. “Sono entrato in magistratura nel 1964 e vi sono rimasto per dodici anni; l’esperienza maturata allora, e quelle successive di avvocato e professore, poi di civil servant come ministro e infine di giudice delle leggi anziché degli uomini, mi hanno insegnato che la certezza che speravo di trovare nella legge era almeno in parte una illusione o un’utopia; e che a quelle certezze si sovrapponeva la forza del ‘ragionevole dubbio’, maturato nel dialogo e nel confronto”. La grandezza di Falcone: contro la mafia servono prove e non pregiudizi ideologici di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 29 maggio 2020 Il 28° anniversario dell’uccisione di Giovanni Falcone e della sua scorta è stato celebrato senza manifestazioni esterne con scarse e contestate trasmissioni televisive e qualche articolo sulla stampa più avveduta. In una trasmissione di Rai 1 il procuratore della Repubblica di Palmi, Ottavio Sferlazza, ha constatato che le modalità delle indagini giudiziarie sono cambiate in questi lunghi anni, ma il rigore del metodo investigativo di Falcone resta un punto di riferimento insuperabile perché legato strettamente alla ricerca della prova, come base del processo. La preoccupazione di Falcone infatti era che la lotta alla mafia venisse condotta con valutazioni politiche unilaterali o soltanto ideologiche. Falcone diceva che il pericolo “dopo tanti sforzi spesi per far conoscere i connotati dell’organizzazione mafiosa, è che si finisse per mescolare nel calderone di Cosa Nostra tutto ciò che può assomigliargli: è il modo in cui, se un pentito rivela che un candidato è stata aiutato dalla mafia per interessamento di un altro esponente del suo partito, che invece risulterebbe suo avversario, la rivelazione batte la logica e si va avanti lo stesso”. È esattamente quello che è successo in questi anni in particolare a tanti imputati politici e non politici vittime di pregiudizi ideologici o più banalmente di un accanimento giudiziario alimentato da un populismo penale punitivo. E aggiungo che Falcone aveva un’altra preoccupazione che i processi alla mafia e alle organizzazioni criminali determinassero una prevalenza della giurisprudenza sulla legge: cosa che si è puntualmente verificata. Falcone, immaginava una rilevanza del concorso esterno all’organizzazione mafiosa, ma “come passaggio di un processo nel quale si contestavano reati concreti di attività mafiose, un processo dunque tutto costruito, appunto, sul culto della prova”, e quindi per lui “il concorso era un corollario, non un presupposto del processo”. Posso dire che non gli sarebbe mai passato per la testa di arrivare a una tipizzazione penale autonoma del concorso esterno e non avrebbe mai incardinato un processo su questa unica ipotesi di reato: proprio per questo ha sempre smentito l’esistenza del “terzo livello” sul quale la procura di Palermo ha fondato i processi di Andreotti, Mannino, Contrada e di tanti altri, dove non si è accertato il fatto ma si è andati alla ricerca del fatto. Una commemorazione corretta di Falcone avrebbe dovuto metter in risalto la profonda differenza, come ha sottolineato Sferlazza tra il suo metodo di indagini processuale e il metodo seguito in questi anni. Il processo penale supera il “fatto” da confermare attraverso la prova e diventa un processo etico che tende a colpire la mafia, la corruzione e la devianza in genere, al di là dei fatti concreti e appunto delle prove. Ormai anche nelle requisitorie o nelle sentenze è valsa l’abitudine di fare valutazioni non riferite all’indagato o all’imputato ma al “sistema” delle amministrazioni e della politica per cui la condanna è alla corruzione, alla devianza, e l’attività giurisdizionale è finalizzata, a far vincere il bene sul male! Falcone riteneva che un pregiudizio politico nelle indagini sulla mafia avrebbe incrinato l’indipendenza della magistratura per accentuare la sua “autonomia” e la sua “separatezza” e avrebbe avuto conseguenze sulla divisione dei poteri. La conseguenza inevitabile è stata che l’azione penale ha perduto il rigore giuridico e si è affidata al consenso del popolo e quindi al dilagare del giustizialismo alimentato dalla propaganda e dalla stampa Il contatto diretto tra alcuni magistrati e l’opinione pubblica è infatti enfatizzato oltre misura dalla stampa e rischia di modificare profondamente il senso di giustizia nella nostra società, ricercato in piazza, fuori dalla mediazione della norma. Il grido “vogliamo giustizia” che si ripete ricorrentemente anche nelle aule dei tribunali è il contrario della richiesta di applicare la legge e rivela una richiesta irrazionale di punizione, di vendetta di una comunità civile priva di solidarietà. Siamo in presenza di un diritto penale totale, come è stato argomentato, che elimina l’identificazione tra diritto penale e legge. Questo è il ricordo sincero e lineare di un servitore dello Stato che non aveva pregiudizi né ideologici né culturali ed era preoccupato della deformazione dell’ordine giudiziario non più garanzia istituzionale. Niente di tutto questo è stato detto nelle varie commemorazioni, ma in particolare la trasmissione televisiva “Atlantide” di “La 7” che si è occupata dell’attentato subito da Falcone e della presunta trattativa tra la mafia e lo stato, ha messo insieme sonore bugie senza fondamento, fatti completamente inventati e ingiurie al partito della Dc che Falcone ha riconosciuto in tutte le sedi come l’unica forza politica in Sicilia che ha collaborato sul piano istituzionale e organizzativo e ha reso possibile il maxi processo, in particolare per l’opera dell’on. Calogero Mannino. È scandaloso che dopo 28 anni, essendo nota a tutti la storia di Falcone e della DC, si pretenda di utilizzare la propaganda televisiva per insultare quel partito come negli anni del comunismo. Pensavamo che la Dc non avesse più bisogno di difendere il suo passato e la sua storia e che fossimo al riparo dalle falsificazioni che tenevano in vita il comunismo e i comunisti, anche perché, proprio in materia di giustizia le affermazioni e le dichiarazioni di Falcone facevano riferimento alla Dc come partito baluardo contro la mafia. Posso aggiungere un ricordo personale: quando per la decorrenza dei termini di custodia cautelare furono liberati alcuni pericolosi boss, il governo Andreotti nel 1989 fece un decreto legge per raddoppiare quei termini e Falcone venne da me come Presidente della commissione giustizia della Camera per spiegarmi il grande significato che quel decreto aveva per la lotta alla mafia. Le riserve sul piano costituzionale, che pure c’erano, le superammo per un messaggio chiaro dello Stato alla società civile. Il gruppo comunista non si fece convincere: altro che attribuire alla Dc tentativi per impedire le condanne del maxi processo. Come si può negare tutto questo?! scudo crociato deve tutelare in tutte le sedi la sua “ragione sociale” che è il rispetto della persona e della verità che si staglia in maniera solenne rispetto al populismo e alle miserie attuali. Sferlazza dunque ha individuato la ragione vera per la quale Falcone ha segnato un punto di svolta nella magistratura, e al tempo stesso la ragione per la quale è stato osteggiato fortemente da tutta la magistratura anche la più aperta culturalmente, dal Csm e dal Pci dell’epoca. Tutti poi il giorno dopo l’assassinio lo hanno osannato! Falcone fu isolato e teorizzò che la nuova strategia giudiziaria per condannare la mafia doveva far riferimento ad una direzione nazionale antimafia per la quale fu scelto altro magistrato, ma il Ministro Martelli con il consenso della Dc gli affidò la direzione Generale degli affari penali per dargli un ruolo di indirizzo in materia. La considerazione finale è questa: nel nostro paese gli uomini che possono determinare davvero un cambiamento sono sempre osteggiati da vivi e poi di conseguenza santificati da morti. Al governo piace il carcere per i giornalisti di Antonio Amorosi affaritaliani.it, 29 maggio 2020 L’Avvocatura dello Stato in Corte Costituzionale è favorevole ai giornalisti in galera. Le notizie più importanti dei principali giornali italiani dipendevano direttamente dalle scelte di un gruppo di magistrati? In questi giorni si è parlato di “Giornalistopoli” in merito alle intercettazioni del caso Palamara, l’inchiesta della Procura di Perugia che ha travolto il magistrato Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione Nazionale magistrati, leader della corrente Unicost ed ex componente del Csm. Un intreccio tra magistrati, giornalisti e politica, dove i cronisti appaiono come strumenti per le lotte di potere fra correnti della magistratura. Qui un’intervista sulla vicenda al direttore de Il Riformista Piero Sansonetti e le carte: Caso Palamara, Travaglio super direttore del giornalismo italiano Ma è la connessione con questa altra notizia a rendere il quadro più inquietante. Il 31 marzo 2020 l’Avvocatura dello Stato, chiamata a rappresentare alla Corte Costituzionale la posizione della presidenza del Consiglio dei ministri, ha depositato una “memoria difensiva” in cui sostiene la legittimità costituzionale delle norme che prevedono il carcere per i giornalisti condannati per diffamazione con l’aggravante del mezzo della stampa e dell’attribuzione del fatto determinato. È quanto ha rivelato l’Osservatorio su Informazioni giornalistiche e notizie oscurate Ossigeno, associazione patrocinata dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e dal Consiglio Nazionale della Federazione nazionale stampa italiana. Ossigeno riferisce anche di una richiesta di chiarimenti al governo Conte del presidente dell’Ordine dei Giornalisti, Carlo Verna, ma senza ottenere risposta. La vicenda nasce da due casi di eccezione di costituzionalità, sollevati dai giudici di Salerno e di Modugno-Bari. “Le norme sulle quali si chiede il giudizio della Corte”, scrive Ossigeno “sono l’articolo 595 del codice penale del 1930, che al terzo comma prevede una pena massima di tre anni (o la multa fino a 50.000 euro) per il reato di diffamazione a mezzo stampa e l’articolo 13 della legge sulla stampa del 1948 che prevede il carcere fino a sei anni (più la multa fino a 50.000 euro) se lo stesso reato è aggravato dall’attribuzione di fatto determinato. Norme vecchie di 90 e 72 anni ma ancora vigenti. E che il Parlamento tenta (o finge) di abrogare a ogni legislatura, a partire dal 2001”. Fino al 2015 è un dato che il 70% dei procedimenti penali per diffamazione a mezzo stampa non abbiano neanche uno straccio di fondamento per essere imbastiti: si sono conclusi accertando addirittura la pretestuosità delle querele. I pochi cronisti che sono invece stati condannati hanno ottenuto pene molto dure per un totale di ben 103 anni di carcere. “L’Italia è l’unico Paese europeo a prevedere il carcere per i giornalisti”, ha raccontato sul quotidiano La Verità l’ex vicedirettore di Panorama Maurizio Tortorella, “sia la Corte Europea dei diritti dell’uomo che Amnesty International hanno criticato l’Italia per la sua legislazione. Ogni anno il parlamento punta a una riforma, i parlamentari sono a favore dell’abrogazione ma poi non succede nulla”. Sembra il gioco dell’oca, si torna sempre alla casella di partenza, come con la “memoria” depositata dall’Avvocatura dello Stato. Nel 2013 un caso clamoroso coinvolse l’attuale direttore de La Verità e allora direttore di Libero Maurizio Belpietro, condannato a 4 mesi di carcere per omesso controllo su un articolo di Lino Jannuzzi, querelato dai magistrati Giancarlo Caselli e Guido Lo Forte. La Corte europea dei diritti umani condannò l’Italia per aver violato il diritto alla libertà d’espressione. Lo Stato ha dovuto versare a Belpietro 10.000 euro per danni morali e 5.000 per le spese processuali. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione. Nel 2012 il caso di Alessandro Sallusti, direttore de Il Giornale, che suscitò un acceso dibattito sull’opportunità del carcere per un giornalista. Condannato a 14 mesi di carcere alla fine scontò 40 giorni agli arresti domiciliari perché il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano lo graziò commutando il carcere in una multa. Ma siamo tornati alla casella di partenza. La strana morte di mio fratello “Ippo” e la lezione tradita di Walter Tobagi di Antonello De Stefano Il Riformista, 29 maggio 2020 Manfredi era uno dei componenti della Brigata 28 marzo che uccise il giornalista. La documentazione relativa al suo decesso in carcere è scomparsa, un giudice ha ammesso di aver manomesso le cartelle cliniche. Ma nessuno sembra voler cercare la verità. È la dimostrazione che della preziosa eredità del cronista del Corriere non abbiamo capito nulla. Vi racconto la storia di Manfredi De Stefano (nome di battaglia Ippo) mio fratello, uno dei “sei” componenti della Brigata 28 marzo che si rese protagonista dell’uccisione di Walter Tobagi. Partiamo dal suo arresto. Era il 3 ottobre 1980 quando nei pressi del Bar Stadio di Arona, gli uomini del Nucleo Antiterrorismo di Dalla Chiesa (tra di loro anche il Brigadiere Dario Covolo di cui parleremo più avanti) alle 20.35, con un’azione rimasta nella memoria della città come “spettacolare”, catturano Manfredi e il sottoscritto. Inizio da questo particolare per farvi notare che il famoso interrogatorio che ci tramanda la verità giuridica, dove Marco Barbone comincia la sua “spontanea ammissione di colpa”, avviene il 4 ottobre 1980 alle 10.30 del mattino presso la caserma dei Carabinieri di Porta Magenta a Milano. Salta subito all’occhio che l’arresto di Manfredi (e mio) avviene curiosamente il giorno prima della confessione di Barbone. E dire che il pentito non sa neanche come si chiama, nei verbali Barbone indica Manfredi con il nome di battaglia, Ippo, non fornisce le generalità e non dà alcuna indicazione sul luogo dove abita. Ma gli uomini di Dalla Chiesa non hanno bisogno delle “dritte” del pentito, sanno benissimo dove abita Ippo. Sono appostati sotto casa sua da circa una settimana e aspettano soltanto il momento che lui faccia ritorno a casa per prelevarlo. Io ero lì, abitavo lì, e mi sono accorto degli strani movimenti che già da giorni avvenivano nel mio quartiere, tant’è che per paura che fossero fascisti pronti ad un’aggressione, avvisai tutti i compagni di stare attenti. Erano anni difficili quelli. Risulta evidente che qualcosa non funziona nell’orologio della verità giuridica. Se Barbone parla soltanto il 4 ottobre 1980 con le autorità giudiziarie, com’è stato possibile che gli uomini di Dalla Chiesa si appostano per studiare i movimenti una settimana prima e poi arrestano Ippo il giorno prima della “spontanea confessione”? Allora per capire cosa accadde, vi racconto di quella informativa datata 13 dicembre 1979 e di tutto il pandemonio che scoppiò, quando fu resa pubblica da Bettino Craxi il 27 maggio 1983, in pieno svolgimento del processo Rosso/Tobagi. Vi anticipo che questa informativa redatta dal Brigadiere Dario Covolo (uomo di Dalla Chiesa), rappresenta un plausibile movente per l’eliminazione e il conseguente silenziamento di Ippo. Il gruppo di fuoco che quarant’anni fa entrò in azione in via Salaino a Milano, a dire il vero, dovrebbe (uso il condizionale perché non lo si può provare documentalmente) essere entrato in scena e quindi ben noto a chi indaga, addirittura sei mesi prima dell’omicidio. Mi riferisco, appunto, alla sopracitata “informativa” che il brigadiere Dario Covolo (nome di copertura “Ciondolo”) consegna ai suoi superiori il 13 dicembre 1979. Vero, in quel documento non troviamo i nomi di chi eseguirà il piano omicida, ma abbiamo testimonianze sufficienti per sostenere che quella non era l’unica esistente. Ciondolo ne ha redatte molte altre, ed in quelle vi erano segnalati nomi e cognomi che l’infiltrato (e non confidente) Rocco Ricciardi (nome di copertura “il Postino”) gli riferiva man mano che i loro incontri si svolgevano in assoluta segretezza. Su questa vicenda, sarò più puntuale ed esaustivo nel libro che sto scrivendo a quattro mani con il brigadiere Dario Covolo. Il Colonnello Nicolò Bozzo, braccio destro del generale Dalla Chiesa, riferisce al giudice Guido Salvini che lui stesso ha visto il faldone contenente tutte le relazioni e che lo stesso era spesso almeno quattro/cinque dita e che al suo interno vi erano custodite almeno una cinquantina di informative con tanti nomi e circostanze. Quel faldone sparì nel nulla, non si è più ritrovato. Il brigadiere Dario Covolo ha anche confermato la loro esistenza sotto giuramento ma la “verità giuridica” ha deciso di credere di più alla parola dell’infiltrato/pentito Rocco Ricciardi e non a quella di due servitori dello Stato, che non avevano nessuna ragione o tornaconto per mentire. Ricciardi ha invece incassato la libertà immediata con Barbone & C. alla lettura della sentenza. Corre l’obbligo di ricordare che “Ciondolo” chiese ripetutamente di poter avere un confronto in aula con il “Postino”. Confronto che gli fu, inspiegabilmente, negato. Perché? Perché non si trovano più le sue relazioni? Chi le ha fatte sparire? Saranno stati gli stessi che hanno procurato la morte, impunita, di Ippo perché testimone chiave di quell’informativa? Sì, “testimone chiave”, perché Ippo è la fonte delle informazioni che Ricciardi passa a Covolo. È Franzetti dei Reparti Comunisti d’Attacco che gira a Ricciardi le notizie che viene a sapere da Ippo. Tra i due c’è un legame di amicizia che risale a molto prima della scelta armata. Dopo aver raccolto le informazioni, le girava a Ricciardi non sapendo il gioco sporco dell’infiltrato. Certo, Ricciardi e Franzetti negano, forti del fatto che il faldone di quattro/cinque dita non si trova più e Ippo è morto. Ma la storia non finisce qui e a distanza di 29 anni dall’omicidio Tobagi, la fi glia Benedetta fa una rivelazione che rafforza la tesi di un probabile “omicidio nell’omicidio”. È il luglio del 2009 quando irrompe una notizia a dir poco imbarazzante e molto grave. Benedetta Tobagi riferisce in pubblico e nel suo libro dedicato al padre, “Come mi batte forte il tuo cuore”, di aver chiesto al Gip del processo Rosso/Tobagi se Manfredi De Stefano non fosse morto a causa delle percosse ricevute dai suoi compagni nel carcere di San Vittore a Milano. La risposta del giudice è agghiacciante: ammette di aver manomesso le cartelle cliniche per occultare le vere cause della sua morte. Dichiarazione che non è mai stata smentita dallo stesso giudice Giorgio Caimmi e confermata da Benedetta Tobagi. A seguito di questa notizia richiesi immediatamente il diario clinico di mio fratello alle autorità competenti, tuttavia il Dap mi inviò documenti palesemente incompleti ed omissivi. Nel diario clinico non veniva riportata l’aggressione subita a San Vittore, le prestazioni mediche e chirurgiche per curare un danno così grave. Stiamo parlando di una ferita nella zona temporale destra, profonda e suturata con ben 37 punti oltre a varie ecchimosi e lividi sparsi qua e là sul suo corpo. Di quanto riferisco sono testimone oculare perché lo incontrai più volte in carcere dopo l’aggressione. Ho continuato a scrivere al Dap per avere altra documentazione ricevendo in cambio “nulla”. A quel punto decisi di rivolgermi alla Procura della Repubblica di Udine (luogo della sua morte) e ricevo pronta risposta del Procuratore Capo Dr. Antonio De Nicolo che m’informa della scomparsa del procedimento 284/1984 aperto subito dopo la morte di Ippo e contenente tutta la documentazione relativa al suo decesso, compreso il referto autoptico. Ancora oggi, a distanza di quarant’anni, la morte di Manfredi De Stefano, così come quella di Walter Tobagi, rimane avvolta nel dubbio e abbandonata all’oblio. Sono ancora numerose le tessere del mosaico che mancano e quel che rattrista è la scarsa volontà di cercarle e di rimetterle al proprio posto. Stiamo dimostrando di non aver capito la grande e preziosa eredità che ci ha lasciato Walter Tobagi e cioè, la tenacia, la costanza, il coraggio e il metodo nel ricercare a tutti i costi, la verità. Io, in suo omaggio, non smetterò di cercarla. Dopo 43 anni in cella è un altro uomo, la grazia a Papalia non è uno scandalo di Annarita Franchi e Ambra Giovene* Il Riformista, 29 maggio 2020 In isolamento, vecchio e malato. Quando ha varcato la soglia del carcere era analfabeta, oggi è iscritto all’università. Non è più pericoloso per nessuno. La famiglia chiede di trasformare l’ergastolo in misura temporanea, perché la pena ha raggiunto il suo scopo. Domenico Papalia è in carcere da oltre quarantatré anni. Dal 1977. Gli addetti ai lavori sanno che a questi vanno aggiunti quelli per la liberazione anticipata, perché le persone, tante, diverse, alle quali lo Stato attribuisce la funzione di farlo - i Magistrati di Sorveglianza - hanno ripetutamente concluso che gli andasse riconosciuta. Per il nostro ordinamento son dunque quasi cinquant’anni. Una eternità. È anziano, ricoverato in un Centro clinico con malattie conclamate. Lontano da sempre dalla sua famiglia. Quasi un fantasma. Ma il senso della istanza di grazia non è questo. Qual è oggi la finalità della sua detenzione? La funzione rieducativa della pena e la Costituzione hanno fallito con Domenico Papalia? Sta scontando la pena complessiva dell’ergastolo con isolamento diurno per due gravi omicidi degli anni 80 e 90. Larga parte del mondo per simili condanne non ha dubbi: deve finire la sua vita in carcere. Per la nostra Costituzione, no. È razionale e forte come lo Stato di diritto: se una pena non ha più significato perché ha raggiunto lo scopo, la rieducazione del condannato, allora deve essere modificata, attualizzata. Non farlo significa svuotarla di significato, cambiarne i connotati, trasformarla da strumento di rieducazione finalizzato al reinserimento sociale, a mezzo contro la dignità dell’uomo in quanto tale, cui è negata ogni possibilità di riscatto. Una barbarie che lusinga molti, solo perché non conoscono le profonde radici della nostra Costituzione. Il carcere è un mondo lontano che ci separa dagli “altri”. Lasciamo gli “altri” lì per sempre. È una soluzione tranquillizzante. Di pochi giorni fa l’ordinanza di rigetto della istanza di liberazione condizionale. Dice che non si è “ravveduto” rispetto ai due omicidi per i quali è in espiazione pena. Si può iniziare una revisione critica per reati per i quali ci si proclama innocente? Forse non c’è più modo di dimostrarlo, forse non c’è mai stato. Perché le sue condanne all’ergastolo sono fondate su dichiarazioni di pentiti, dichiarazioni contraddittorie ma, evidentemente, convincenti. Le sentenze vanno rispettate, su questo non v’è dubbio alcuno, a meno che non sia percorribile una revisione. Difficile, molto difficile quando c’è il baluardo protettivo delle dichiarazioni dei pentiti. Fatti troppo risalenti nel tempo. Si tratta ormai di decenni. Per un’altra condanna a pena perpetua che Papalia stava espiando, invece, oltre ai pentiti c’era una prova scientifica, una perizia balistica. Nel 2017, adeguando quella prova alle cognizioni tecniche attuali, Papalia è stato dichiarato innocente. Ma una assoluzione con prova oggettiva non vale altre due condanne con prove deboli. Non sappiamo se conosceremo mai che cosa accadde davvero in quelle stagioni così lontane, buie, inesplorabili. Sappiamo quello che esiste oggi. Un uomo che ha trascorso tutta la sua vita in carcere; ha varcato quella soglia da analfabeta e si è iscritto all’università. Nel 1993 ha perso in un tragico incidente il figlio di diciotto anni, decidendo dal carcere, dramma nel dramma, di donarne gli organi. Un gesto lontano anche dalla cultura dominante dell’epoca, una scelta profonda e difficile che, sin da allora, dà il segno di cambiamento dell’uomo. Quel più conta è che oggi nessuno può ritenere la sua pericolosità. Anche quando genericamente prospettata, è stata smentita da provvedimenti giurisdizionali. Per questo la sua famiglia ha chiesto per lui la grazia parziale, non per azzerare il suo passato, ma per trasformare una pena perpetua e senza speranza come l’ergastolo in una temporanea, nella misura massima che il nostro ordinamento prevede, trent’anni, per la semplice ragione che quella pena ha raggiunto il suo scopo. *Avvocate Alla Consulta l’obbligo di presenza in aula del giudice di Angelo Lucarella Italia Oggi, 29 maggio 2020 Irragionevole ed irrazionale la scelta normativa di obbligare il giudice civile (a differenza di quello penale o amministrativo) a presenziare l’udienza in tribunale piuttosto che remoto. Questi i termini della questione di legittimità costituzionale sollevata con provvedimento del 19 maggio 2020 dal tribunale di Mantova, sezione civile seconda, relativamente all’art. 83 del decreto legge Cura Italia. Di fatto denunciando una disparità di trattamento da parte del legislatore rispetto, ad esempio, al giudice amministrativo o al giudice penale. L’ordinanza evidenzia comunque che la rilevanza della questione è legata all’attualità della stessa considerato che dopo luglio 2020, dovendosi tornare al regime processuale ante-normativa Covid, ci si troverebbe dinanzi a una probabile cessata materia d’esame costituzionale ovvero ad una carenza d’interesse rispetto all’intera vicenda. Ad ogni modo la norma oggetto del dubbio di costituzionalità è l’art. 83, co. 7 lett. f) del dl 18/2020, convertito con legge n. 27/2020 per come modificato dall’art. 3, comma 1, lett. c), dl 28/2020, atteso che (afferma il rimettente) la stessa appare in “palese contrasto con gli artt. 3, 32, 77, 97 Cost.”. Quanto al presupposto di rilevanza il giudice incrimina di illegittimità la novella ordinamentale portata dal dl 28/2020 ove quest’ultimo specifica che l’udienza “deve in ogni caso avvenire con la presenza del giudice nell’ufficio giudiziario”. Centro della questione è, quindi, la scelta che il legislatore ha fatto riguardo alla gestione epidemiologica in termini di calcolo effettivo del rischio possibile di diffusività del di consiglio e alle udienze pubbliche Covid in ambito giudiziario. La critica mossa dal tribunale di Mantova parte da due presupposti: uno geografico ed uno ontologico. Il primo risiede nel fatto che l’ufficio giudiziario del giudice a quo rientra nella Corte d’appello di Brescia così da concentrarsi un rischio epidemiologico maggiore rispetto ad altre strutturazioni territoriali italiane di distretto (attesa anche l’afferenza del circondario di Bergamo e Cremona oltre a Mantova). Il secondo è individuato nei dati ufficiali dell’Istituto superiore della sanità, pubblicati il giorno 8 maggio 2020, relativi alla situazione della regione Lombardia: 79.369 infezioni diagnosticate, età media prevalente 66 anni, 14.611 decessi. La valutazione dei due elementi hanno portato il ragionamento logico-giuridico alla non manifesta infondatezza della questione d’incostituzionalità da sollevare; ragionamento che si pone il dubbio preciso di capire perché mai, a differenza di altri giudici del sistema giurisdizionale italiano, il legislatore avesse deciso che proprio il decidente civile, specie nel caso di composizione monocratica del collegio giudicante, dovesse obbligatoriamente celebrare l’udienza portandosi fisicamente nelle stanze dell’ufficio giudiziario invece di potersi collegare da remoto. Il giudice mantovano cita il provvedimento del 20 aprile 2020 del presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia, con il quale, proprio per disciplinare i lavori della Consulta in fase Covid, è stato deciso che “a) la partecipazione dei giudici alle camere può avvenire anche mediante collegamenti da remoto e il luogo da cui essi si collegano è considerato camera di consiglio o aula di udienza a tutti gli effetti di legge; b) le modalità di cui alla lettera precedente possono essere adottate per ogni altra riunione della Corte...”. Un chiaro segno del fatto che l’orientamento costituzionale di per sé implica il necessario massimo utilizzo della modalità da remoto (perciò senza spostamento fisico dei membri della Consulta); motivo per cui il giudice civile del tribunale di Mantova invocherebbe la violazione della disparità di trattamento posta in essere dal legislatore italiano. Il tribunale cita infine anche il parere n. 18/PP72020 reso dal Consiglio superiore della magistratura sul dl 28/2020 in cui si specifica relativamente al giudice che “la presenza fisica di quest’ultimo nell’ufficio giudiziario non aggiunge nulla quanto alla modalità del contraddittorio simultaneo e quanto alla sua qualità intrinseca”. In tali passaggi, quindi, il rimettente costituzionale riscontra una disparità di trattamento rispetto, come detto, ai giudici amministrativi e penali e addirittura rispetto ad altre fattispecie che regolano i procedimenti civili c.d. “non sospesi”: ad esempio l’art. 83, comma 12 quinquies, del dl 18/2020 consente le “deliberazioni collegiali in camera di consiglio” con collegamento da remoto e specifica che “il luogo da cui si collegano i magistrati è considerato camera di consiglio a tutti gli effetti di legge”. La palla passa adesso alla Consulta. La disponibilità a fare favori al mafioso fa scattare il voto di scambio politico-elettorale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 29 maggio 2020 Anche la semplice disponibilità a fare favori all’esponente della cosca locale, fa scattare il reato di voto di scambio, a carico del politico. Non è, infatti necessario che la promessa spesa per raccogliere consensi elettorali si mantenga in tutti i casi, né che le condotte del candidato si traducano in un rafforzamento della consorteria. Elemento quest’ultimo che serve solo per contestare il diverso reato di partecipazione o concorso esterno all’associazione mafiosa. Non passa la tesi della difesa secondo la quale l’elemento della disponibilità è stato introdotto solo con la legge 43/2019. Ad avviso del ricorrente, infatti, il riferimento alla disponibilità compare nella novella del 2019, perché, pur essendo presente nei lavori parlamentari di riforma della norma del 2014, era stato espunto in sede di approvazione finale. La Corte di cassazione, con la sentenza 16201, respinge così il ricorso contro la misura cautelare dei domiciliari, considerata illegittima in assenza degli elementi che caratterizzano il reato di voto di scambio politico mafioso, previsto dall’articolo 416-ter del Codice penale. Ad iniziare dall’utilizzo della sopraffazione e della forza intimidatoria, come modalità per reperire i voti, che non ci sarebbe in quanto nel caso esaminato, l’esponente del clan avrebbe agito come singolo, in virtù di vincoli familiari. Né c’era, l’elemento delle utilità che, in base alla norma in vigore, non ancora modificata dalla legge 43, poteva essere solo denaro o altre utilità e non la semplice disponibilità a fare favori. Che nello specifico, oltre ad una lavatrice come bene materiale, consistevano nell’impegno ad una corsia preferenziale per una visita medica e nella promessa a dare un appoggio per una controversia sorta con il comune di Palermo. Del resto, si osservava nel ricorso, il dare una mano per saltare una lista d’attesa era un malcostume che nulla aveva a che vedere con la criminalità organizzata. E dunque irrilevante. Al pari della promessa di favori, anche in questo caso piuttosto in uso e fatti anche ad altri soggetti in tempi non sospetti. La Cassazione la pensa diversamente. Ad incastrare intanto il ricorrente c’erano delle intercettazioni, dalle quali non solo si evinceva l’esistenza del “patto”, ma anche la consapevolezza di averlo sottoscritto con un mafioso. Quanto all’utilità promessa, che in questo caso risulta anche perseguita, è stata individuata nella possibilità di gestire visite negli ospedali “di tutta la provincia di Agrigento” al di fuori dei canali ufficiali. Utilità e disponibilità - chiarisce la Cassazione - che possono essere anche di natura non patrimoniale. Nello specifico la promessa fatta si era anche concretizzata in un notevole numero di casi. Ed è ininfluente che le stesse utilità fossero state fornite anche ad altri. Prato. Morto il detenuto che si era impiccato in una cella della Dogaia, aveva 23 anni notiziediprato.it, 29 maggio 2020 Domenica scorsa era stato trovato privo di sensi da un agente della Polizia penitenziaria. Immediatamente soccorso e rianimato, era stato portato al Santo Stefano dove ieri è deceduto. È morto ieri, 27 maggio, all’ospedale Santo Stefano di Prato il detenuto 23enne soccorso domenica scorsa nella sua cella, nel carcere di Prato. Secondo quanto spiegato dalla direzione del penitenziario, il giovane, di origine turca, aveva tentato il suicidio. Il 23enne era stato trovato privo di sensi da un agente della Polizia penitenziaria nella cella che occupava da solo. In base a quanto appreso avrebbe cercato di impiccarsi. Le condizioni del 23enne erano apparse subito critiche. Immediatamente soccorso dal 118 era stato rianimato e poi trasferito d’urgenza al Santo Stefano, dove i medici si erano riservati la prognosi. Purtroppo le lesioni si sono rivelate troppo gravi e il giovane è spirato dopo tre giorni di agonia. Salerno. Il “papello” dei detenuti e la “trattativa”: ecco la vera storia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 maggio 2020 Il 7 marzo scrissero una lettera con le richieste per fronteggiare l’emergenza Covid. Mancava il “papello” dei detenuti comuni (non mafiosi) del carcere di Salerno per scrivere il nuovo romanzo della “nuova trattativa” Stato-mafia. All’indomani della famosa telefonata del magistrato Nino Di Matteo in diretta durante il programma Non è L’Arena, su Il Dubbio abbiamo ironizzato riportando tutti gli avvenimenti e gli pseudo scandali che si sono susseguiti dallo scoppio delle rivolte carcerarie in poi per evocare una nuova trattativa. Molti l’hanno presa sul serio. Ora spunta fuori una lettera del 7 marzo nella quale i detenuti del carcere di Salerno, che inscenarono la prima rivolta, scrivono una serie di richieste. No, non chiedono l’abolizione del 41 bis visto che erano 200 detenuti provenienti da sezioni comuni, ma - spaventati dall’emergenza Covid 19 - hanno chiesto tamponi, l’aumento del personale penitenziario di notte, un’assistenza sanitaria decente, pene alternative per chi è gravemente malato. Tutte richieste che ricordano più le linee guida dettate dell’Organizzazione mondiale della sanità che da Totò Riina. Alcuni giornali fanno un singolare salto logico dicendo che, dopo due settimane da quel “papello”, è spuntata la famosa circolare del Dap che sollecita le direzioni carcerarie a segnalare ai magistrati i detenuti che presentano tutte quelle malattie letali se si viene a contatto con il Covid 19. Poi il resto della storia al conosciamo. Ritorniamo però alla verità dei fatti, partendo da un fatto che vale fin dalla notte dei tempi: qualsiasi “rivolta” implica un disagio che serve per andare in conflitto con le autorità dove quest’ultime di solito iniziano ad ascoltare e trovare delle soluzioni. Ecco, questa è la “trattativa”, anche se è diventata una definizione “tabù”. Il garante regionale della Campania Samuele Ciambriello è stato uno dei primi ad essere accorsi al carcere di Salerno per potere calmare gli animi. Una funzione importante la sua, fondamentale come quella di tanti altri garanti che hanno riportato alla calma numerosi detenuti coordinandosi con varie autorità, dai provveditorati ai giudici di sorveglianza. Una mediazione che però avrebbe dovuto fare soprattutto l’allora capo del Dap Basentini. Come non ricordare quando, nel 2017, l’ex capo Santi Consolo si recò direttamente al carcere di Pisa dove i detenuti erano in rivolta. C’era sovraffollamento e si suicidò un detenuto tunisino. La sua mediazione fu efficace e riportò tutti alla calma. Il garante Ciambriello spiega a Il Dubbio che quando ha raggiunto il carcere di Salerno erano già presenti il provveditore regionale Antonio Fullone e la direttrice che cercavano di calmare gli animi attraverso un dialogo e assecondare, almeno a parole, le loro richieste trascritte nella famosa lettera. “Potevano scegliere due opzioni - spiega il Garante regionale - o fare irruzione usando la forza, oppure parlare con una delegazione dei detenuti”. Hanno scelto, come il buon senso richiede, la seconda. Come detto, le richieste erano tutte dovute dalla preoccupazione del contagio, richiedendo i tamponi a tutti coloro che entrano in carcere come il personale della polizia penitenziaria. Ma non solo. “Hanno richiesto - spiega ancora Samuele Ciambriello - anche di non essere trasferiti come punizione per la rivolta, ma in realtà la sera dopo ne sono stati trasferiti almeno 40”. Ciambriello, come tanti altri garanti, ha mediato anche in altre carceri, fatto presente delle problematiche ai magistrati di sorveglianza, concordato misure con il provveditorato e le direzioni. C’era la rivolta di Salerno, poi quella di Poggioreale, una sorta di crescendo. Così come in altre zone d’Italia. Una piccola curiosità. Prima ancora della circolare famosa del Dap, lo stesso garante Ciambriello, d’intesa con la presidente del tribunale di sorveglianza, ha mandato una comunicazione a tutti i direttori delle carceri italiane sollecitandoli di segnalare all’ufficio della presidente i nominativi sia di chi hanno superato i 70 anni, sia di chi hanno un fine pena inferiore ai 6 mesi. Sottolineando che si trattasse di nominativi di detenuti con reati non ostativi. Bologna. Coronavirus, “la mia pandemia dietro le sbarre” di Alice Facchini Redattore Sociale, 29 maggio 2020 Durante l’emergenza Covid-19, M. era rinchiuso nel carcere di Bologna: ha assistito alla rivolta dei detenuti, all’aumento dei contagi, al primo morto per coronavirus, fino alla nascita di un braccio riservato ai detenuti positivi. “Quando sono uscito, il mondo fuori era cambiato. Ancora adesso la notte non riesco a dormire”. “Vivere la pandemia da dietro le sbarre è stata una delle esperienze più angoscianti della mia vita. In poche settimane ho assistito all’aumento del numero dei contagi, alla rivolta in carcere, fino alla nascita di un braccio riservato ai detenuti che avevano contratto il Covid-19. Quando sono uscito, il mondo fuori era cambiato”. M. parla con un forte accento napoletano, passando al dialetto nei momenti più intensi del suo racconto. Ha mani grosse e possenti, che si muovono però con movimenti delicati e attenti. Quelle stesse mani in carcere lo hanno aiutato a difendersi e a sopravvivere, “perché, in un ambiente così, reagire con la violenza è l’unico modo per non venire schiacciati”. La sua detenzione è iniziata il 5 febbraio, quando è stato rinchiuso nell’istituto penitenziario della Dozza di Bologna per scontare un residuo di pena: ne è uscito il 5 maggio, esattamente tre mesi dopo, quando il giudice gli ha concesso di tornare a casa in affidamento. “All’inizio il coronavirus era qualcosa di lontano, che vedevamo solo attraverso lo schermo del televisore e che ci sembrava un problema della Cina - racconta M. -. Poi sono arrivati i primi casi in Italia, e così ho iniziato a preoccuparmi. Fuori c’erano mia moglie e mia figlia di quattro mesi: ero molto agitato, in un momento così avrei voluto essere vicino a loro. Fino a che il Covid non è venuto a bussare direttamente alle porte del carcere, e allora è scoppiato il caos”. Quello che M. chiama “caos” è la rivolta della Dozza, scoppiata lunedì 9 marzo e conclusasi 24 ore dopo con un bilancio di un morto, 22 feriti e diverse aree del carcere completamente saccheggiate. “Quel lunedì si respirava un’aria strana - ricorda. Alle 12.50 come sempre siamo rientrati dal passeggio, ci hanno portato in cella e poi improvvisamente tutte le guardie sono sparite. Io tenevo il vetro della finestra inclinato in modo da riuscire a vedere specchiata la rotonda dove di solito stanno i secondini: era tutto deserto. Poi nel cortile abbiamo cominciato a sentire delle voci nervose, gli agenti si erano concentrati fuori e correvano di qua e di là. Lì ho capito che era iniziata la rivolta”. Le ore successive sono state convulse. I detenuti rimasti chiusi dentro le celle sono rimasti per ore senza cibo né terapie mediche, ma soprattutto senza tabacco: “Lasciare i detenuti senza tabacco è sicuramente il modo migliore per incendiare una rivolta - spiega M. Erano tutti nervosissimi, ma io ho fatto in modo che nessuno si muovesse: temevo che ci sarebbero state ripercussioni e che ci avrebbero allungato la pena, mentre io volevo solo uscire il prima possibile per tornare dalla mia famiglia. Per tenere buoni gli altri ho iniziato a distribuire il tabacco che mi era rimasto, centellinandolo, un pochino a ciascuno, cercando di convincerli a stare calmi e aspettare”. Chiuso nella sua cella, M. non sapeva cosa stesse succedendo a poche decine di metri da lui. Solo dopo avrebbe scoperto che la rivolta è partita dal braccio C, dove i detenuti hanno dato fuoco ai materassi, per poi sfondare i cancelli e assaltare l’infermeria, fino a salire sul tetto, per protestare contro la sospensione dei colloqui con i familiari, disposizione presa per evitare la diffusione del coronavirus. “La verità è che le misure per contenere l’epidemia sono da subito state insufficienti - racconta. All’inizio avevano montato una tenda della protezione civile vicino ai cancelli d’ingresso, dove provavano la febbre agli agenti, ai medici e agli infermieri che entravano. Ma se qualcuno fosse stato asintomatico, o nel periodo di incubazione, non sarebbe stato bloccato. Una volta dentro, il virus aveva la strada spianata: in una cella di 2 metri per 3 è difficile mantenere la distanza di sicurezza e le mascherine sono arrivate solo a fine marzo. E poi, ogni braccio ha solo due ricevitori per fare le telefonate, ce li passavamo. Il risultato era ovvio: nel giro di qualche settimana abbiamo iniziato ad ammalarci”. M. racconta che a nessuno è stato fatto il tampone e chi chiedeva di essere visitato da un medico spesso veniva ignorato. Così, tra i detenuti si era instaurata una regola non scritta: se stai male, durante le ore d’aria resti in cella. “Questo non ha impedito alla malattia di diffondersi - sospira. A un certo punto la direzione ha dovuto trasformare il braccio C in reparto Covid, dove venivano rinchiusi i detenuti che risultavano positivi. Io stesso sono entrato in contatto con un lavorante che poco dopo si è ammalato, il rischio di contrarre il virus era altissimo. Per me è stata una grande ingiustizia: nel momento in cui entri in carcere lo stato ti prende in custodia e dovrebbe tutelare la tua incolumità, ma purtroppo non è così che funziona. C’era già stato il primo morto e otto persone erano positive quando è arrivato il mio ordine di scarcerazione: non potevo crederci, l’incubo era finito. Eppure, ancora adesso, la notte non riesco a dormire”. Venezia. Giustizia in ginocchio per colpa dell’emergenza coronavirus di Gianluca Amadori Il Gazzettino, 29 maggio 2020 A lanciare l’allarme è la presidente della Corte d’appello di Venezia, Ines Marini, la quale sollecita lo Stato ad intervenire con decisione per dotare gli uffici di strumenti, ma soprattutto di personale supplementare per poter riavviare l’attività a pieno ritmo, evitando che l’arretrato accumulato durante il lockdown, e le attuali difficoltà logistiche e organizzative dovute alla necessità di rispettare le misure di sicurezza, paralizzino del tutto una macchina giudiziaria che era già malandata. “Centinaia di processi e cause bloccate si assommano ad un arretrato che in molti uffici, in particolare nella Corte d’appello, era già drammatico - denuncia la presidente. Questi due mesi di stop hanno annullato tutti gli sforzi compiuti negli ultimi anni per recuperare efficienza e ridurre i ritardi. Se lo Stato non metterà in campo soluzioni immediate, il rischio è grossissimo. Una giustizia bloccata può creare tensioni sociali perché i contenziosi civilistici non vengono affrontati e risolti per tempo e, per quanto riguarda il penale, può indurre la sensazione di un’impunità diffusa, e dunque incentivare la violazione delle regole. Non deve avvenire”. Nella prima fase dell’emergenza Covid-19, quasi tutto è rimasto bloccato, salvo alcuni procedimenti civili urgenti e quelli penali con detenuti. Nell’attuale fase 2 si prevede di poter trattare il 60 per cento delle cause civili, ma soltanto il 30 per cento di quelli penali, in attesa di una fase 3 che nessuno sa quando arriverà. Nel frattempo, nella sola fase 1 i processi saltati ammontano a più di 800, e davanti al Tribunale civile sono in attesa di essere trattati 7mila procedimenti in materia di immigrazione. “È necessario fermare il pensionamento dei magistrati e inserirne in servizio di nuovi - propone la dottoressa Marini - I concorsi già fatti non bastano: è necessario reclutare 500 giudici ausiliari da inserire negli uffici di primo grado, spostando i magistrati più esperti in appello; bisogna bandire nuovi concorsi di primo grado, dando la possibilità di partecipare ai neo laureati, senza chiedere corsi di specializzazione o il superamento dell’esame di avvocato; e ancora tirocinio più breve per chi ha vinto il concorso e deve entrare in servizio. Il tutto assommato a nuovi organici potenziati per il personale di cancelleria. Soltanto così abbiamo qualche possibilità di reggere la sfida”. La preoccupazione della presidente della Corte d’appello lagunare è tanta. “Di fronte ad un quadro di questo tipo servono subito decisioni coraggiose: i sussidi alle imprese non sono sufficienti a garantire la ripresa se la giustizia si ferma. Il problema è gravissimo ed è necessario lottare per cercare di invertire a tendenza, per sensibilizzare i cittadini, facendo loro percepire le reali problematiche di fronte alle quali ci troviamo”. Oltre al problema del personale, alcuni uffici giudiziari, quelli di Venezia in particolare, scontano le difficoltà dovute ad una logistica non adeguata, a sedi che non sono adeguate ad ospitare l’attività nel rispetto del distanziamento anti Covid-19. Gli uffici non possono ospitare in sicurezza tutto il personale amministrativo, costretto a restare a casa, in smart working, ma senza la possibilità di svolgere tutte le attività necessarie; le aule sono piccole e quelle capienti sono poche, con il risultato che le udienze che si potranno celebrare sono poche. “Dobbiamo trovare le soluzioni al più presto - conclude la dottoressa Marini - Se lo facciamo, in due anni la giustizia potrà rimettersi a correre”. Grosseto. L’ex caserma diventerà un carcere: accordo Bonafede-Guerini di Gianni Parlatore gnewsonline.it, 29 maggio 2020 Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, e il direttore dell’Agenzia del Demanio, Antonio Agostini, hanno sottoscritto oggi un accordo che consentirà al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di acquisire l’immobile dell’ex Caserma Barbetti di Grosseto in vista della sua riqualificazione in struttura carceraria. Soddisfazione per il risultato raggiunto è stata espressa dal ministro Bonafede: “Si tratta di un risultato importante nell’interesse di tutta la collettività, ottenuto grazie alla collaborazione e all’unità d’intenti tra i due ministeri coinvolti, al lavoro del Demanio e delle istituzioni locali”. “Oggi - ha aggiunto il Guardasigilli - compiamo un significativo passo in avanti dal punto di vista dell’efficienza, razionalizzazione e rivalorizzazione dei beni demaniali”. L’avvio della riconversione della struttura militare maremmana rientra nel piano per contrastare l’emergenza sovraffollamento nelle carceri. L’iniziativa si inserisce nell’ambito di un percorso iniziato nel giugno dello scorso anno, quando è stato formalizzato il protocollo di Intesa per razionalizzare il patrimonio immobiliare non più utile ai fini istituzionali della Difesa, così da permettere l’individuazione di nuovi spazi per contrastare la questione della carenza dei posti detentivi. Il protocollo promuove lo sviluppo di progetti di rigenerazione e riconversione di alcune ex caserme che per caratteristiche strutturali sono idonee a garantire adeguate condizioni di vita della popolazione carceraria all’interno degli istituti penitenziari. Nel caso della Caserma Barbetti, il recupero e la rifunzionalizzazione dell’immobile saranno oggetto delle attività del tavolo tecnico costituito da Difesa, Giustizia e Demanio che individuerà tutti gli interventi necessari alla riconversione. Alba (Cn). Quale destino per il carcere? cuneo24.it, 29 maggio 2020 Dopo alcuni casi di legionellosi che avevano comportato il trasferimento immediato di 122 detenuti presso altri istituti penitenziari del Piemonte, l’Istituto albese nonostante garanzie e rassicurazioni continua ad avere limitata funzionalità e ad avere incertezza sul futuro. Il Senatore Mino Taricco, insieme ad altri colleghi, in seguito al protrarsi dell’incertezza sul destino dell’Istituto carcerario di Alba presenta in Senato un’interrogazione per chiedere al Ministro Bonafede chiarimenti e tempi certi circa l’attuazione del piano di edilizia penitenziaria e quindi di assegnazione dei lavori al fine di restituire la piena funzionalità ad una struttura fondamentale nel sistema carcerario del Nord Italia. A seguito dell’accertamento di alcuni casi di legionellosi che avevano comportato interventi di bonifiche dell’impianto idrico della struttura circondariale in Alba, ed il trasferimento immediato di 122 detenuti presso altri istituti penitenziari del Piemonte, l’Istituto albese nonostante garanzie e rassicurazioni continua ad avere limitata funzionalità e ad avere incertezza sul futuro. Interviene il Senatore Taricco: “il carcere di Alba, oltre ad uno stato di sovraffollamento in termini di presenze di detenuti - la struttura ospita mediamente 45 persone (35 durante questo ultimo periodo segnato dal Coronavirus) a fronte di 33 posti disponibili - doveva essere sottoposto, già da mesi, ad operazioni di ristrutturazione ed adeguamento dell’immobile, secondo un peraltro già predisposto stanziamento economico definito dal “Piano di edilizia Penitenziaria 2018-2020” che definiva proprio l’intervento albese di “priorità massima” e che è stato riconfermato con un aggiornamento - durante lo scorso Aprile 2019 - che ha permesso di inserire l’intervento all’interno del Programma triennale dei lavori pubblici 2019 - 2021 redatto dallo stesso Ministero della Giustizia. Inoltre, va ricordato che già il passato dicembre 2018, era stato pubblicato in Gazzetta ufficiale il Decreto-legge sulle disposizioni urgenti in materia di sostegno e semplificazione per le imprese e per la pubblica amministrazione che recava misure urgenti in materia di edilizia penitenziaria prevedendo che il programma dei lavori da eseguire e l’ordine di priorità fosse approvato entro 60 giorni. In questo quadro di norme ed atti formali che confermano i previsti interventi, ma contestualmente di immobilità pratica, da fonti giornalistiche emergerebbe una ulteriore indicazione: risulterebbe che il Provveditorato interregionale dell’Amministrazione penitenziaria stia vagliando la possibilità di istituire nell’ Istituto di reclusione una Casa di lavoro per internati, con l’inserimento di venti persone. Aggiunge in conclusione il Senatore Taricco: “Ho voluto inoltre ricordare quanto i terreni, ma soprattutto gli edifici e gli impianti che fanno parte della struttura di proprietà statale, siano destinati ad un danneggiamento e deperimento in assenza di attività e manutenzione. La Casa di reclusione, infatti, oltre alle strutture carcerarie, vantava la presenza di un campo sportivo, una palestra, aule per attività formative, un teatro, locali adibiti a biblioteca, culto e laboratorio, tutti locali che erano curati e manutenuti e che ad oggi sono chiusi ed abbandonati in parte o totalmente. Le Istituzioni locali da tempo lamentano la mancanza di informazioni certe sul futuro dell’Istituto, anche per la storia ed il bagaglio di esperienze e di innovazione che la presenza di questa realtà aveva saputo costruire e sedimentare su questo territorio, e meritano risposte certe su tempi e modalità della attuazione dei piani di investimento e di recupero previsti. Per questi motivi ho voluto interrogare il Ministro della Giustizia per avere risposte a tempi e percorsi per riportare il carcere di Alba al suo corretto uso penitenziario, in condizioni di assoluta sicurezza per tutti gli operatori e nei tempi più celeri, ed evitare così che le attività ed i percorsi intrapresi negli anni sul territorio e per tutta la Comunità locale non vengano vanificati”. Verona. Studenti e carcerati si incontrano in video-conferenza L’Arena, 29 maggio 2020 Alla scuola media paritaria Cappelletti-Turco di Colognola, anche se aule sono deserte da mesi per l’emergenza Covid-19, decolla il progetto “A scuola in tempo di libertà”. Oggi, dalle 14.30 alle 16, gli alunni di terza media con i loro insegnanti, tutti da casa, saranno collegati in videoconferenza con alcuni volontari, ex detenuti e familiari che comunicheranno esperienze significative in tema di giustizia, sconfiggendo luoghi comuni e pregiudizi. “L’iniziativa, finalizzata alla formazione civica”, spiega il dirigente della scuola, Mauro Peroni, “è realizzata con l’associazione La Fraternità di Verona, e focalizza l’attenzione sul senso che dovrebbe avere la pena in una idea di giustizia “riparativa”. Quattro i relatori in videoconferenza, tra cui Ornella Favero, presidente associazione Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia che riunisce il volontariato nelle carceri; Lucia Di Mauro, che ha avuto la forza di perdonare chi le ha ucciso il marito, un ex detenuto e la figlia di una persona finita in carcere. Parlando con loro, gli studenti ascolteranno “cosa può raccontare sulla libertà chi ne è stato privato per aver commesso un reato”, dicono gli organizzatori, “capiranno che è importante che l’autore sia consapevole del male fatto e cerchi di riparare”. Napoli. Donazione del Garante dei detenuti al polo universitario di Secondigliano Il Roma, 29 maggio 2020 Condizionatori, sedie, banchi, Lim, numerosi libri di testo, materiale di cancelleria, toner per le stampanti, dizionari, cartine geografiche e tutto quanto serve per garantire il diritto allo studio in carcere, sono stati donati dall’Ufficio del Garante dei Detenuti della Regione Campania di concerto con l’Assessorato alle Politiche Sociali della Regione Campania, al Polo Universitario di Secondigliano, promosso dalla Federico II. Per il Garante dei Detenuti della Campania Samuele Ciambriello l’attività universitaria del Polo riesce a garantire il diritto allo studio in carcere come strumento riabilitativo e culturale in vista del reinserimento nella società: “le numerose risorse che abbiamo donato in questi mesi al Polo Universitario rappresentano un modo concreto per contribuire alla realizzazione per il diritto allo studio dei detenuti che partecipano al piano formativo”. L’Ateneo, così come dai dati forniti dalla delegata della Federico II per il Polo Universitario professoressa Marella Santangelo, ha consentito nell’anno accademico 2018 - 2019 l’iscrizione ai corsi di laurea a numero aperto a circa 50 detenuti iscritti ai corsi di laurea in giurisprudenza (3); sociologia (2); scienze politiche (8); lettere moderne (8); economia e commercio (4); scienze nutraceutiche (16); urbanistica territorio (4). Per l’anno accademico 2019 - 2020 sono iscritto 92 studenti ai corsi di laurea in giurisprudenza, sociologia, scienze politiche, lettere moderne, economia, scienze erboristiche, sviluppo sostenibile e reti territoriali, scienze gastronomiche. In Italia sono 796 gli studenti universitari in carcere, iscritti in 30 Università. Il 25% studia discipline politico-sociologiche. Oltre al Polo Universitario in Campania gestito dalla Federico II, vi sono altri detenuti studenti universitari iscritti all’Università negli Istituti Penitenziari di Salerno, Carinola, Benevento, Pozzuoli, Poggioreale e Santa Maria Capua Vetere. “La detenzione non può consentire la soppressione del diritto allo studio, insieme ad altri diritti fondamentali. È una opportunità che deve essere garantita, anche come momento di rieducazione e ri-socialità. Purtroppo, questa possibilità di esercitare il diritto allo studio universitario non è data a tutti coloro che sarebbero nelle condizioni di esercitarlo e avrebbero l’interesse a farlo. Diciamoci la verità, dipende dal carcere nel quale ci si trova, dalla capacità di attivazione presso le amministrazioni e le strutture didattiche universitarie di chi è in contatto con il detenuto interessato, dall’interesse e sensibilità di alcuni docenti. Non essendo questo né un impegno normativamente regolato sul versante delle Università, né un vero e proprio diritto esigibile in maniera incondizionata. Così come mi ha comunicato la Professoressa Santangelo, le attività formative del Polo Universitario a Secondigliano, nonostante l’emergenza coronavirus si sono svolte su piattaforma Teams e, insieme, si sta cercando di superare alcune criticità sorte in questi giorni”, conclude il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello. Terni. Studiare in carcere, detenuto si laurea in Economia Aziendale umbriajournal.com, 29 maggio 2020 Nella mattinata di giovedì, in videoconferenza dalla Casa Circondariale di Terni con il Dipartimento di Economia dell’Università degli Studi di Perugia - Polo Scientifico e Didattico di Terni, un detenuto della Casa Circondariale di Terni ha conseguito la laurea in Economia Aziendale. La tesi dal titolo “Orto 21: La nuova frontiera dell’agricoltura sociale nei processi di re-inserimento dei detenuti”, che ha visto come relatrice la prof.ssa Cristina Montesi, è stata discussa online davanti alla commissione esaminatrice composta da otto docenti e presieduta dal Prof. Loris Lino Maria Nadotti. La videoconferenza è stata una esigenza dovuta all’emergenza epidemiologica. Mesi prima, in preparazione dell’evento, l’allora laureando aveva preparato una lunga lista di inviti e altrettanti ringraziamenti per quella che doveva essere “una festa e un risultato da condividere con quanti lo avevano sostenuto in questo percorso di studio”: al Direttore, al Comandante, al personale e ai volontari della Casa Circondariale di Terni, all’Ex Direttrice della Casa Circondariale, al Magistrato di Sorveglianza di Spoleto, al Garante dei detenuti della Regione Umbria, ai docenti e al personale amministrativo dell’Università degli studi di Perugia, ai membri dell’Associazione Demetra, ai compagni di stanza “che sono stati costretti a sopportare nelle serate in cui mi dedicavo agli studi, dimenticandomi di loro”, fino ovviamente agli affetti familiari, seppur distanti. I docenti e la relatrice si sono complimentati con il laureato per la preparazione e il meritato risultato. D’altronde la tematica era molto cara al laureato che ha svolto un tirocinio presso l’Associazione Demetra all’interno del Progetto Orto21, da cui ha preso spunto per l’elaborazione della sua tesi. Il progetto Orto21 prevede attività di cura del verde e la creazione e cura di un orto sinergico. Quest’anno alla sua seconda edizione, il progetto si andrà ad intrecciare con altri progetti dell’associazione nell’ambito della formazione ed inclusione sociale in collaborazione con la Casa Circondariale e l’Uepe di Terni, tra questi il progetto “Communitas: un orto, un sentiero, un giardino”, il progetto “Mettere a dimora” ed il progetto di residenze artistiche nell’ambito della Land Art “Radici” in cui i detenuti accompagneranno e racconteranno il processo di creazione di opere con materiali naturali. “Questa laurea - secondo Caterina Moroni, coordinatrice del progetto Orto21, che ha continuato a seguire il detenuto anche al termine del progetto durante il periodo di elaborazione della tesi - deve rappresentare un’occasione di riflessione per i detenuti, ma anche per i docenti, gli studenti, per gli operatori penitenziari e la società civile in genere. È una testimonianza di come lo studio possa rappresentare una occasione di riscatto sociale, ma anche di come la tenacia, atteggiamento fondamentale per qualsiasi cambiamento, possa esser mantenuta desta anche in una situazione come quella della detenzione”. Il desiderio di affrancarsi studiando in prigione riguarda anche altri - sebbene ancora pochi - casi. Nei dati elaborati dal Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) e diffusi attraverso il XV rapporto dell’associazione Antigone pubblicato nel maggio 2019 si evince che su poco più di 60.000 detenuti presenti nel nostro paese, nel 2018 si sono laureati in 28, tutti uomini. Milano. Le “good news” che servono al carcere di Giorgio Paolucci it.clonline.org, 29 maggio 2020 Penitenziari blindati e visite di esterni sospese per l’emergenza Coronavirus. Come fare compagnia ai detenuti? Un gruppo di volontari nelle carceri milanesi si è inventato una newsletter. Pericolo di contagio, niente colloqui in carcere. Da tre mesi le misure di sicurezza legate all’emergenza Coronavirus impediscono le visite di familiari e volontari ai detenuti. Proprio quando ce ne sarebbe più bisogno, a motivo del grande beneficio che deriva dai rapporti con le persone care a chi vive da recluso. E allora, tra i volontari di Incontro e Presenza, che da anni fanno caritativa nei penitenziari milanesi, c’è chi ha preso carta e penna e ha cominciato a scrivere ai detenuti che frequentava, rispolverando quelli che ormai venivano considerati vecchi arnesi della comunicazione, ma che in queste circostanze sono gli unici mezzi capaci di attraversare le mura delle carceri. Accanto a questa dinamica “bilaterale” ne è nata un’altra, pensata per arrivare a tutti: si chiama GoodNews, ed è una newsletter che dal 6 aprile viene inviata con cadenza settimanale - prima a Opera, ora anche a San Vittore e Bollate - ai responsabili degli istituti di pena e poi affissa nei corridoi delle sezioni. “La lontananza fisica non ci impedisce di sentirvi vicini più di prima e aumenta il desiderio di manifestarvelo, ora che siete messi alla prova e dovete affrontare ulteriori restrizioni e sacrifici”. Esordisce così il primo numero, corredato dalle parole di Papa Francesco durante la veglia di preghiera del 27 marzo in Piazza San Pietro, con cui ricorda che “siamo tutti sulla stessa barca” e invita a “gettare in Te ogni preoccupazione, perché Tu hai cura di noi”. Ogni settimana viene confezionata una nuova GoodNews: veste grafica essenziale, due fogli a colori formato A4. Quanto basta per raccontare in un linguaggio semplice delle buone notizie, punti di luce a cui guardare quando il buio sembra prevalere. Ogni numero ospita testimonianze di persone all’opera per condividere la sofferenza dei malati o per collaborare alla ricostruzione umana e civile del Paese, brani di canzoni, poesie, qualche vignetta per sorridere un po’. Tra le proposte, la recensione del libro sulla vita del cardinale vietnamita Van Thuan, Libero oltre le sbarre che testimonia l’irriducibile positività di chi mette la vita nelle mani di un Altro. Ancora, un brano da Il risveglio dell’umano, in cui l’autore Julián Carrón denuncia la “bolla” in cui ci eravamo illusi di poter vivere e che il Coronavirus ha squarciato, costringendo a misurarci nuovamente con le domande scomode che avevamo accantonato. E poi un passaggio della testimonianza di Giacomo Poretti, pubblicata su clonline.org, in cui parla del “suo” Coronavirus e della scoperta che “la fede è qualcosa da conquistare tutti i giorni”. Con il passare delle settimane, anche attraverso le lettere spedite dai ristretti, emergono i punti di luce che si sono accesi “dentro” e di cui GoodNews si fa portavoce: la raccolta di fondi promossa da un carcerato di Opera a favore della Protezione Civile, una colletta alimentare dove decine di detenuti offrono cibo a favore delle famiglie in difficoltà economica, alcune sartorie interne ai penitenziari che producono mascherine. “È commovente vedere persone che, pur vivendo la precarietà legata alla detenzione, vogliono aiutare chi sta “fuori” ad affrontare le difficoltà legate all’emergenza”, racconta Guido Boldrin, responsabile dei volontari di Incontro e Presenza a Opera: “È la testimonianza che nel cuore di ogni persona abita il desiderio del bene, e che l’uomo è molto di più dell’errore che ha commesso” Il numero 7 della newsletter, datato 18 maggio, ha ospitato una testimonianza del cappellano don Francesco - che per settimane si è “autorecluso” per stare vicino ai detenuti - in cui descrive “la voglia di vivere e di ripartire” di tanti fra loro. E annota: “Ho visto uomini che mi hanno regalato il dono di pregare insieme, di condividere cosa tenevamo nel cuore e di aiutarci ad alzare lo sguardo”. “Il rapporto con i detenuti è una scuola di vita”, nota ancora Boldrin: “Queste relazioni diventano sempre più necessarie per nutrire la nostra umanità. E così questo tempo che poteva essere il tempo dell’assenza, il tempo in cui aspettare il ritorno alle consuete visite settimanali, sta diventando l’occasione per riscoprire quanto noi volontari riceviamo da quelli che, anche in buona fede, pensiamo di poter “salvare” con i nostri sforzi. È un grande aiuto a vivere il senso della caritativa: è solo un Altro che può rispondere pienamente al bisogno dell’uomo”. Roma. Barbara, l’Atletico Diritti e l’udienza dal Papa: “Che ci faccio io qui?” di Antonella Barone gnewsonline.it, 29 maggio 2020 “Mi aspettavo la macchina di servizio ma non è stato così. E la mia emozione saliva, sia perché ero stata scelta per rappresentare la squadra, ma soprattutto perché in quella macchina con la mia ‘scorta’ mi sono sentita non una detenuta, ma una giocatrice di calcio a 5 che andava dal Papa”. È Barbara, detenuta di Rebibbia e capitana dell’Atletico Diritti, squadra femminile di calcio a 5 dell’istituto romano, che racconta il viaggio verso San Pietro, a bordo di un’auto del Vaticano, per partecipare all’udienza che papa Francesco ha tenuto il 20 maggio, durante cui ha incontrato una delegazione di sportivi che avrebbero partecipato al I Meeting Internazionale We Run Together-Simul currebant. Una manifestazione nata per valorizzare il ruolo solidale inclusivo dello sport: atleti olimpici che corrono con atleti paralimpici, sportivi con disabilità mentali, rifugiati, migranti e carcerati. L’evento sportivo era stato programmato per il giorno successivo, giovedì 21 maggio, e avrebbe dovuto svolgersi presso il Centro Sportivo di Castelporziano. Ma il meeting, organizzato da Athletica Vaticana in collaborazione con il gruppo sportivo Fiamme Gialle della Guardia di Finanza, il “Cortile dei Gentili” e Fidal-Lazio, è stato sospeso a seguito dell’emergenza legata al Coronavirus. Gli organizzatori hanno voluto però, in qualche modo, conservare il significato solidale dell’iniziativa organizzando l’asta di beneficenza Charity Stars a sostegno di ospedali particolarmente impegnati nella lotta contro il Covid-19. Il progetto è stato presentato dal Cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, e dai campioni delle Fiamme Gialle Fabrizio Donato e Carolina Visca, suoi promotori, nel corso dell’udienza in cui il Papa ha incontrato gli atleti-simbolo dello sport come esperienza di unione e di solidarietà. Oltre a Barbara, erano presenti Sara Vargetto, giovanissima atleta di Athletica Vaticana affetta da una malattia neurodegenerativa, Giulia Staffieri, atleta di Special Olympicse Charles Ampofo, atleta migrante originario del Ghana. In una sorta di diario l’atleta descrive la giornata in una cronaca dettagliata e sincera, in cui racconta ansie, emozioni e un po’ di spaesamento davanti alle tante sfarzose stanze attraversate prima di incontrare il Pontefice, che alla fine “fa tutto, tranne quello che ci avevano detto. Si avvicina ad ogni atleta e con ognuno intrattiene una conversazione, dispensa sorrisi e benedizioni”. La capitana di Atletico Diritti Rebibbia racconta ancora di come abbia vissuto la presenza dell’ispettrice di Polizia Penitenziaria, che l’ha accompagnata, come rassicurante e non come una figura addetta al suo controllo, e dell’emozione nel recitare davanti a papa Francesco una poesia in romanesco. Questi i primi versi: “E chi l’avrebbe mai creduto che er Papa desse udienza a ‘n detenuto Co’ tutto er da fa’ che er popolo j’ha dato ha trovato er tempo pè me… ‘n carcerato” Infine, una riflessione di Barbara sul significato dell’avventura sportiva: “Mentre ero in quelle stanze, e osservavo gli (altri, ndr) atleti, mi dicevo che noi non avremmo vinto le Olimpiadi, non saremo mai stati atleti professionisti, ma abbiamo vinto la battaglia più importante, (quella, ndr) con noi stesse e se siamo qui in udienza dal Santo Padre, (abbiamo già vinto, ndr) la battaglia contro il pregiudizio”. L’infanzia al tempo del Covid, i diritti in quarantena di Samuele Damilano Il Manifesto, 29 maggio 2020 Piccoli invisibili. Viaggio nel mondo dei minori sconvolto dall’isolamento. Parlano le associazioni. Il dramma dei bambini stranieri non accompagnati. Aumentano le notizie di abusi. Ma vengono meno gli interventi degli assistenti sociali. “Ho bisogno di parlare. Sono giorni che non chiudo occhio. Ho perso il lavoro, sono disperato”. Così un frequentatore anonimo di Civico Zero, centro diurno di Roma per minori stranieri non accompagnati. L’11 marzo la cooperativa ha dovuto chiudere i battenti, e molti ragazzi che vi trovavano sostegno sono rimasti per strada. “Molti di loro al momento della chiusura sono diventati fantasmi, così rischiamo di perderli per sempre”, afferma Rodolfo Mesaroli, psicologo e coordinatore del centro. “Dove sono finiti i bambini?” si chiedeva qualche tempo fa il settimanale tedesco Die Ziet. Le risposte sono molteplici, e richiedono un passo indietro. La tutela dei diritti dei minori “è un tema arrivato con colpevole ritardo nel dibattito pubblico”, afferma Federica Giannotta, responsabile della Fondazione Terres des Hommes. “Non si può perdere anche questa occasione per mettere al centro i bambini e conferirgli dignità”. Il governo, ordinato il lockdown, sembra essersi dimenticato dei più giovani. “Costretti a vivere, in molti casi, in condizioni di isolamento, pericolo ed emarginazione”, afferma Filomena Albano, Garante nazionale per l’infanzia e l’adolescenza. In Italia, dunque, si è persa traccia dei bambini. Scomparsi dalle scuole, dai campi da calcetto e dai supermercati. E dalla lista delle persone da proteggere in termini sociali e umanitari. Niente più asilo nido, coro, danza o squadra di basket. Da un giorno all’altro il loro mondo è stato stravolto, e nessuno ci ha fatto caso. Tra i primi problemi ci sono la povertà (un bambino di quattro in Italia è a rischio) e il lavoro minorile. In questi mesi di confinamento, il 77% delle famiglie italiane ha subito danni economici, e alcune potrebbero ritrovarsi “costrette” a chiedere aiuto ai propri figli. All’interno delle case è poi calato il silenzio. In Italia, difatti, manca un sistema nazionale di monitoraggio sulle violenze ai danni delle persone di minore età. Da tempo l’Autorità garante chiede che sia istituito. “In sua assenza”, ribadisce l’ufficio stampa, “è impossibile avere un quadro reale e aggiornato degli abusi e delle violenze”. Dello stesso avviso Gianni Fulvi, presidente del Coordinamento Nazionale delle Comunità per Minori (Cncm): “Abbiamo un quadro sottostimato della violenza domestica”. Le motivazioni sono quelle di sempre. “Vi è un problema di welfare, investimenti, coordinamento tra le regioni e allocazione delle risorse”. Così “diventa impossibile fare prevenzione con i tempi giusti”. Come da prassi in tempi di crisi, nell’attuale pandemia aumentano le notizie di abusi su donne e bambini. Ora non c’è neppure la possibilità che un insegnante, un medico o un assistente sociale possano recepire i segnali di allarme. Lo conferma clarissa di filippo, pedagoga specializzata in tutoraggio e sostegno psicologico a bambini e ragazzi con problemi familiari. “I maestri erano addestrati a cogliere certi indicatori: se hai reazioni istintive o sei violento con i tuoi coetanei, c’è più probabilità che tu sia soggetto a maltrattamenti”. Clarissa ha dovuto interrompere i rapporti con i suoi ragazzi. “Non mi chiamano più come facevano prima, mi scrivono solo tramite whatsapp per chiedere aiuto e consigli”. L’unico contatto con l’esterno è stato ridotto alle lezioni a distanza. Ma non per tutti hanno funzionato allo stesso modo. Intanto, meno di un quarto (22% secondo l’Istat) ha a disposizione un pc per ogni componente. “Su una classe di 20 alunni, 5 non avevano un Pc e 5 non disponevano di rete fissa”, conferma Riccardo, professore di informatica presso un istituto tecnico di Roma. “La scuola non poteva aspettare i fondi stanziati dal governo (75 milioni, ndr), e ci siamo organizzati come meglio abbiamo potuto”. Il problema vero, tuttavia, è che “nella quotidianità non emergono certi problemi o diseguaglianze”, prosegue il professore. “L’aula è uguale per tutti, la cameretta no, sempre se ce l’hai”. La situazione è particolarmente delicata nelle comunità per minori: su tutto il territorio nazionale sono 3200, e ciascuna ospita 6-7 minori. “Accogliamo varie tipologie di minori: vittime di abusi, adozioni fallite, migranti, figli di detenuti”, spiega Fulvi. Che tira un sospiro di sollievo: “Eravamo molto preoccupati all’idea dell’isolamento, ma la presenza degli educatori, insieme alla tenuta dei bambini, è stata una piacevole conferma”. Nella “fase 2” la situazione si fa ancor più intricata: da una parte, bisogna garantire ai bambini il diritto alla famiglia, facendo rientrare in casa chi ne ha la possibilità; dall’altra però “bisogna procedere con attenzione”, ammonisce Fulvi, perché “non è sempre possibile garantire le dovute misure di sicurezza”. Valeria Cenni, 30 anni e operatrice nella comunità mamma-bambino “La Quercia” a Castenaso (Bologna), ha sperimentato queste contraddizioni. La comunità ospita sette nuclei mamma-bambino, spesso vittime di abusi e in condizioni psicologiche difficili, spiega. Sospesi incontri e attività scolastiche, le madri si sono trovate a dover fare i conti con i propri limiti. “C’è stato sgomento, paura e alcune situazioni critiche”, racconta Cenni. I presupposti c’erano tutti: imbarazzo nelle lezioni a distanza, incontri sospesi con i parenti, videochiamate protette con un padre spesso violento. Inoltre, “la mancanza di contatto fisico ha reso il nostro lavoro un inferno”. La crisi però non pesa solo nei contesti disagiati. “Il blocco della socialità ha ripercussioni anche in situazioni familiari normali”, dice Antonella Inverno, responsabile per le politiche sociali di Save the Children Italia. “Lo Stato dovrebbe prendersi in carico la situazione, eppure non lo fa”. Lasciati a sé, i bambini hanno però reagito. Si sono reinventati i loro spazi e le loro abitudini: “ho capito l’importanza di esprimere i propri sentimenti tramite il disegno perché un’immagine equivale a mille parole” (Emma, 12 anni). “Per quanto ne so, da una parte è un periodo molto brutto e difficile dall’altra è anche un modo per guardare dentro sé stessi e capire realmente cosa vogliamo e cosa non vogliamo fare” (Tommaso, 11 anni). “A volte, quando mi annoio e non so cosa fare penso che il bello delle famiglie è sottovalutato! Perché a volte, con le persone più care ci si dimentica anche solo di un grazie o di un ciao” (Filippo, 12 anni). Così si esprimono tre alunni di una scuola media a Roma. Con una sensibilità da fare invidia a molti “grandi”. L’Unhcr al fianco dei rifugiati nella lotta contro il Covid-19 Il Manifesto, 29 maggio 2020 Crisi globale. Partita la campagna per raccogliere 745 milioni di dollari “necessari a contrastare la diffusione del coronavirus in 71 paesi vulnerabili nel mondo”. Mentre in Italia e in Europa la diffusione del coronavirus ha subito, almeno per ora, un deciso rallentamento, l’allarme più grande si è spostato verso i paesi del Sud del mondo, dove gli effetti del Covid-19 rischiano di essere molto più devastanti. È lì che si trovano la maggior parte delle 71 milioni di persone che vivono lontano dalla loro casa, costrette alla fuga da violenze, persecuzioni o guerre. “L’80% dei rifugiati e sfollati si trova in paesi poveri, con strutture sanitarie deboli. Alcuni fra questi sono già colpiti duramente da conflitti, fame, povertà e malattie. Moltissime delle persone costrette alla fuga vivono in aree urbane densamente popolate o campi, all’interno dei quali spesso non ci sono strutture sanitarie, condizioni igieniche e sistemi di protezione adeguati”, dichiara Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr per l’Italia. L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha lanciato una campagna con l’obiettivo di raccogliere 745 milioni di dollari “necessari a contrastare la diffusione del coronavirus in 71 paesi vulnerabili nel mondo”. L’Intervento si focalizza sugli insediamenti in Grecia e Turchia e sui paesi più fragili di Medio Oriente (Iraq, Giordania, Libano, Siria e Yemen), America Latina (Colombia e Venezuela) e Asia (Afghanistan, Bangladesh, Pakistan, Indonesia, Iran, Malesia). Capitolo a parte è l’Africa, dove si trovano le situazioni più difficili e il maggior numero di paesi sostenuti dall’azione. Tra questi desta particolare preoccupazione la situazione del Niger, in Africa Occidentale, dove vivono oltre 20 milioni di persone. Secondo l’Unhcr la diffusione del Covid-19 in questo paese - segnato da tassi di povertà altissimi, con un sistema sanitario debole e un’area, quella del Sahel, di particolare fragilità - potrebbe diventare un “disastro umanitario”. L’azione dell’Alto commissariato si inserisce nella risposta globale all’emergenza del coronavirus portata avanti insieme ad altre agenzie Onu e Ong come Oxfam, per un intervento complessivo di 6,7 miliardi di euro entro la fine dell’anno. Si può donare andando sul sito www.unhcr.it. Cacciatori di migranti di Marinella Salvi Il Manifesto, 29 maggio 2020 La rotta balcanica. Le ronde dell’ultradestra slovena arrivano in Croazia e lambiscono Trieste, picchiano i rifugiati, li ributtano indietro. A coprire i paramilitari in mimetica e passamontagna c’è un governo sempre più estremista. Stoj! grida l’uomo in divisa militare: Fermo! È una calda mattina di maggio e il giovane si trova inginocchiato con un fucile puntato alla testa. Una passeggiata in Carso con la sua ragazza, sul bordo del confine, di là, a un soffio dall’Italia. Sono cittadini italiani di lingua slovena, domicilio temporaneo in Slovenia, e riescono a spiegarsi. La ragazza, presa in mezzo da due energumeni, grida infuriata, la squadra che li ha fermati si allontana: cercavano i crni, i neri. La cosa finisce sui giornali e ne nasce un caso diplomatico: la Farnesina chiede lumi, il governo sloveno nega la presenza dell’esercito, il confine è sempre presidiato da pattuglie miste italo-slovene di polizia, le divise militari si confondono tra gli alberi. Anche la Slovenska Varda dichiara di non essere stata presente in questa zona ma si fa fatica a crederlo. Nate ai confini con l’Ungheria, negli anni in cui la rotta balcanica risaliva più a est, le ronde patriottiche paramilitari si sono mano a mano spostate sul confine con la Croazia e, da lì, affacciarsi su Trieste è un attimo. Dalla Štajerska Varda (guardia stiriana) di Andrej Šiško, loro capo indiscusso, ultranazionalista e pluricondannato, sono gemmate altre formazioni, sempre più accanite e sempre meno perseguite dalle autorità slovene che, pure, l’anno scorso le avevano dichiarate illegali. Ma la svolta a destra del nuovo governo è sempre più marcata e “la sicurezza” come “i migranti ci invadono” sono parole d’ordine che fanno comodo a tutti. Le ronde in mimetica e passamontagna acquistano sempre maggiore visibilità: si schierano nelle manifestazioni pubbliche e arrivano ad accerchiare una stazione di polizia, com’è successo il 17 maggio vicino a Maribor. Contattaci, ti senti minacciato?, interverremo a difenderti; il tamtam è martellante. Contro i migranti, a un passo dall’Italia, mancavano solo le ronde. Dai campi di raccolta in Bosnia dove sono ammassati senza alcun servizio né aiuto, i migranti riescono comunque ancora a fuggire. A piccoli gruppi risalgono la penisola balcanica in condizioni sempre più drammatiche: boschi, fiumi, montagne, filo spinato e le polizie di frontiera che fanno a gara per umiliarli e ferirli, per ricacciarli indietro, sempre e con qualsiasi mezzo. Ributtati indietro, una riammissione (illegale) dopo l’altra, un calcio dopo l’altro, ma il game non si ferma: possono perdere solo la vita e ci riprovano. In città, in queste ultime settimane, sono arrivati a centinaia; quelli scampati alla riammissione, pratica ormai invalsa su tutti i confini, denunciata più volte da ICS e Caritas. Qualcuno trova un passeur ma in tanti escono dai boschi del Carso laceri e affamati, sul corpo i segni delle botte, sui piedi il martirio di centinaia di chilometri. Arrivano e sono obbligati alla quarantena, in strutture ormai sature e sotto le grandi tende mimetiche dell’esercito. Più di settanta i minori non accompagnati, problema nel problema. La risposta delle amministrazioni di destra, in Comune e in Regione, è feroce: la dismissione di qualsiasi servizio di supporto, chiusura dell’Help Desk in stazione e degli spazi diurni. Ancora medicazioni e un panino sul marciapiede lercio solo per l’indomabile volontà di Linea d’Ombra e delle dottoresse di la Strada Si.cura mentre un assessore regionale della Lega grida in televisione: “Arrivano che hanno 17 anni e mezzo, quel che gli serve, così poi se ne stanno belli belli qua e noi ce li dobbiamo tenere”. In realtà, passata la quarantena, praticamente tutti vengono subito trasferiti, non è chiaro dove e gli ultimi a saperlo sono loro. Un siriano che parte lascia sulla branda un foglio scritto in arabo: “Immagina di essere ancora in prigione, di avere paura della guerra, di essere vagabondo in Turchia o in Grecia o attraverso l’Europa. Immagina di essere in uno di quei miserabili campi bui e l’odio e il razzismo. Il destino e le circostanze ti hanno portato in un paese che non è il tuo, con un popolo che non è il tuo, e altre lingue e usanze e culture. E persone che non sanno cosa significa essere soli in situazioni così e le porte chiuse in faccia. E tu pensi soltanto a un posto per dormire e a un modo per non sentire la fame. Non vuoi aggredire, non vuoi rubare niente a nessuno: vuoi pace, solo pace. Ti scongiuro: dimmi cosa devo fare per vivere sicuro nel tuo paese? Questo globo è solo per alcuni, non è per tutti? È il passaporto che fa di me un uomo? È lui che determina se merito di vivere oppure no? Maledetti passaporti, nazionalità, confini”. “Le terre che tutti cercano di occupare, di sfruttare, mentre i poveri vengono schiacciati e, se sopravvivono alla morte, se la augurano mille volte al giorno - continua il biglietto - Abbiamo ingoiato l’ingiustizia e siamo stati zitti per non essere imprigionati o uccisi, l’abbiamo fatto perché chi ci ama non provi anche questo dolore”. Regno Unito. Cinque suicidi in sei giorni nelle carceri di Inghilterra e Galles agenzianova.com, 29 maggio 2020 Sono cinque i suicidi avvenuti in soli sei giorni nelle carceri dell’Inghilterra e del Galles. Lo riporta il quotidiano britannico “The Guardian”. Questa notizia crea forti preoccupazioni e secondo alcuni suggerisce che il regime altamente restrittivo introdotto nelle carceri durante la crisi di coronavirus abbia un impatto tragico sui detenuti. Da quando il blocco è stato introdotto nel Regno Unito il 23 di marzo ci sono stati 16 suicidi nelle prigioni. Questo numero non è il più alto registrato, ma negli ultimi cinque giorni del periodo, quindi dal 17 al 21 maggio, ci sono stati sei suicidi. Il ministero della Giustizia ha espresso le sue condoglianze per le famiglie dei deceduti, e ha invitato alla cautela prima di fare ipotesi sui veri motivi che hanno spinto ai suicidi. In base alle misure restrittive per il coronavirus, le visite in prigione sono state sospese e i detenuti possono passare solo meno di un’ora fuori dalla loro cella ogni giorno. Il ministro ombra della Giustizia David Lammy ha dichiarato che “l’inconsueto aumento dei decessi nelle carceri pone serie domande riguardo alla possibilità che il regime imposto per combattere il coronavirus sia diventato una minaccia per il benessere dei carcerati”. Lammy ha aggiunto che “il Partito laburista ha richiesto al ministero della Giustizia di delineare un programma che permetta il rilassamento di alcune misure restrittive nelle carceri, pur mantenendo la prevenzione del virus”. Il ministro ombra del Partito laburista ha detto che “non è sicuro né accettabile che il governo lasci i detenuti isolati nelle celle e butti via la chiave fino a quando la pandemia non è finita”. Stati Uniti. George Floyd, Minneapolis in fiamme per l’uomo soffocato dalla polizia di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 29 maggio 2020 Non scende la tensione dopo il caso dell’afroamericano deceduto dopo un fermo. Nuove manifestazioni e scontri. Le proteste si sono trasformate in assalto ai negozi. Schierata la Guardia nazionale. Notte di violenze e saccheggi a Minneapolis, in Minnesota. Con un morto e diversi feriti. Per molte ore le proteste per l’uccisione di George Floyd da parte della polizia si sono trasformate in un assalto ai negozi e centri commerciali. Il sindaco della città, il democratico Jacob Frey, ha chiesto e ottenuto dal governatore lo schieramento della Guardia nazionale. Nello stesso tempo Frey sta cercando di placare la rabbia della famiglia di George, della comunità afroamericana, pari a circa il 20% della popolazione, e dei tanti cittadini bianchi che nelle ultime 48 ore hanno circondato il Terzo distretto di Polizia, di cui facevano parte i quattro agenti ritenuti responsabili per la morte di George. Sono stati subito licenziati, in attesa dello sviluppo delle indagini che il dipartimento di Giustizia ha affidato “a investigatori di grande esperienza”, assistiti dall’Fbi. “Ma non capisco perché non siano già in galera”, ha detto il sindaco, schierandosi senza riserve con il fratello e la sorella di George, con i leader delle associazioni per i diritti civili che chiedono l’immediata incriminazione per omicidio a carico dei poliziotti e in particolare di Derek Chauvin, l’uomo in divisa ripreso da un video mentre preme il ginocchio con tutto il peso del corpo sul collo di George Floyd. Le manifestazioni erano cominciate già nel pomeriggio di martedì 26, dopo che la clip era rimbalzata tra i social e le tv. Le immagini smentiscono la prima versione fornita dal dipartimento di Polizia: George non oppone alcuna resistenza. Sono gli agenti a perdere la testa. Prima gli mettono le manette, poi lo fanno sdraiare con la faccia schiacciata sull’asfalto. Un poliziotto gli preme il ginocchio sul collo. E, mani in tasca, non si sposta neanche quando George si lamenta in modo convulso: “Non respiro”, “mi state uccidendo”. Morirà poco dopo in ospedale. La prima ondata era stata pacifica: nella notte tra martedì e mercoledì i dimostranti si erano piazzati davanti al distretto con le mani alzate, gridando: “giustizia per George”, “il vero virus è la polizia”. Il capo della Polizia di Minneapolis, Medaria Arradondo, 55 anni, è anche lui afroamericano. Mercoledì pomeriggio ha tenuto una conferenza stampa in cui si è detto “disgustato” dal comportamento dei suoi agenti, ma ha rimandato alla conclusione delle indagini per l’incriminazione. Ma nel frattempo l’appello alla mobilitazione correva sui social. Centinaia di persone si sono riversate nella zona sud della città. I video postati su Twitter mostrano l’escalation della violenza. Ci è scappato il morto. Il proprietario di un banco di pegni ha ucciso un intruso a colpi di pistola. I tumulti iniziano poco lontano dal Terzo Distretto di polizia. Un gruppo di giovani, alcuni protetti da passamontagna neri, frantumano le vetrine di Target, popolare catena di market. Un segnale per altre centinaia di vandali senza freni. Negozi di liquori e di alimentari, farmacie. Vetri a pezzi, fiamme, scaffali rovesciati e fiamme. Un incendio ha devastato una rimessa di auto e danneggiato un condominio residenziale. Urla sotto la casa di Mike Freeman, il procuratore che ha la competenza territoriale sull’uccisione di George Floyd. Qualcuno è riuscito ad avvicinarsi all’abitazione dell’agente Chauvin e a scrivere “killer” in rosso sulla porta del garage. La polizia ha cercato di arginare i disordini con i lacrimogeni, gli schiumogeni e, riporta il Morning Star di Minneapolis, anche con i proiettili di gomma. La Guardia nazionale si è schierata a difesa del Terzo Distretto. Oggi il sindaco Frey tenterà un’altra mediazione. Stati Uniti. Un serial razzista senza fine, ma Minneapolis vuole respirare di Luca Celada Il Manifesto, 29 maggio 2020 Seconda notte di scontri e una vittima dopo l’omicidio dell’afroamericano George Floyd per mano di un poliziotto. Barricate, incendi e vetrine infrante. La protesta arriva a Los Angeles e tra gli atleti della Nba. Per la seconda notte consecutiva Minneapolis è stata sconvolta da guerriglia urbana con scontri anche violenti fra manifestanti e polizia. Con una vittima: un uomo è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco, si pensa dal proprietario di un negozio di pegni che immaginava un saccheggio. La polizia lo avrebbe posto in custodia. La rabbia è esplosa dopo la diffusione lunedì del video via Facebook Live che ha registrato gli ultimi istanti di vita di George Floyd, 47 anni, morto con le mani legate dietro la schiena e la faccia sul marciapiede mentre il ginocchio di un poliziotto gli stritolava l’ultimo respiro dal collo. Nel video registrato da un passante si sente Floyd implorare con l’ultimo filo di voce “Non respiro…vi prego”, prima di perdere conoscenza e non rinvenire più. Il video, subito virale, è andato a ingrossare la sempre più voluminosa documentazione audiovisiva di uomini neri pestati e uccisi dalle forze dell’ordine. Ha scosso l’America. I manifestanti hanno eretto barricate per le strade, infranto vetrine, appiccato numerosi incendi e assalito almeno un grande magazzino Target improvvisando l’esproprio di varia mercanzia. I reparti antisommossa hanno riposto con lacrimogeni, granate stordenti, cariche e proiettili di gomma. Un’azione di Black Lives Matter a Los Angeles ha brevemente invaso e bloccato la Hollywood Freeway. Nell’America stremata dai rancori e dall’astio esasperati dalla Casa bianca, l’uccisione di Floyd ha fatto riesplodere violentemente la questione razziale. Il governatore del Minnesota ha biasimato l’operato della polizia e ha invitato alla calma. L’ex candidata presidenziale Kamala Harris ha parlato di inaccettabile “esecuzione pubblica”. Lo stesso sindaco di Minneapolis, Jacob Frey, ha auspicato una spedita procedura penale contro i responsabili. “Come è possibile che l’uomo che ha ucciso George Floyd non sia in prigione? - ha chiesto Frey su Twitter - Se aveste fatto lo stesso voi, o l’avessi fatto io, a quest’ora saremmo dietro le sbarre”. Ieri il sindaco ha chiesto l’intervento della Guardia nazionale per frenare gli scontri e invitato i suoi concittadini alla calma. Parla anche l’Onu: la commissaria per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha fatto appello agli Usa perché fermino gli omicidi di afroamericani. In realtà a Minneapolis è andata in scena l’ennesima replica di un macabro serial che sembra davvero non avere fine e che propone sempre le stesse immagini sin dai tempi di Rodney King. E in questo caso quelle parole, “…I can’t breathe…”, hanno fatto eco a quelle sussurrate da Eric Garner, il venditore di sigarette strangolato dai poliziotti a Staten Island nel 2014. Floyd le ha pronunciate nella liberale Minneapolis - città gemella di St Paul, dove nel 2016 la stessa polizia aveva crivellato con sette colpi Philando Castile, 32 anni, mentre mostrava le mani all’agente-giustiziere per mostrare di non essere armato. Quell’agente, come sempre, è stato regolarmente assolto. “Non respiro” era diventato uno slogan di Black Lives Matter e dopo il caso Garner apparve vistosamente anche sulle maglie che LeBron James e molti altri giocatori della Nba indossarono in segno di solidarietà. James è sceso in campo anche stavolta contro l’ennesima brutale ingiustizia e ha colto l’occasione per ricordare le ragioni delle proteste degli atleti afroamericani, twittando la foto di Kolin Kaepernick inginocchiato per protesta accanto a quella dell’agente con il ginocchio sulla trachea di Floyd. Per la sua pacifica militanza Kaepernick era diventato oggetto di violenti attacchi da parte di Trump, giunto a farlo radiare dalla lega Nfl. Il caso Floyd arriva solo un paio di settimane dopo la diffusione di un altro macabro video che documenta l’uccisione di Ahmaud Arbery. Il venticinquenne afroamericano stava facendo footing a Satilla Shores, località benestante vicino Savannah, Georgia, dove le languide mangrovie ricordano piantagioni Southern Gothic. Le immagini del video caricato in rete tre settimane fa rimandano invece ai linciaggi del vecchio Sud: due uomini a bordo di un pickup inseguono il giovane. Lo affiancano, uno dei due salta dal pianale e affronta l’uomo con una carabina. Quando questo reagisce, parte un colpo a bruciapelo e Arbery stramazza senza vita. Il fatto in realtà risale a febbraio ma era stato messo a tacere dalla polizia che non aveva arrestato gli uomini. “Pensavamo fosse un ladro e lo volevamo arrestare”, avevano dichiarato. Solo l’indignazione seguita al video ha provocato il loro arresto (uno è consulente del procuratore locale) e l’apertura di un’inchiesta federale. Per entrambi i casi si dovrà ora attendere l’esito delle inchieste per sapere se potrà esserci giustizia. Sul caso Floyd indaga l’Fbi, il dipartimento di Giustizia l’ha definita “una priorità”. Sarebbero eccezioni: a sei anni dalle rivolte di Ferguson seguite all’uccisione di Michael Brown, gli omicidi di polizia proseguono impuniti allo stesso ritmo di un migliaio circa all’anno. E adesso la polizia non potrebbe avere un amico migliore alla Casa bianca. Mentre i neri muoiono di Covid-19 a un tasso triplo di quello dei bianchi. Le immagini raccapriccianti degli ultimi video hanno rammentato al paese una cancrena antica, sedimentata in una storia violenta che oggi riaffiora sullo sfondo di un regime che di quella storia e di un’implicita restaurazione bianca ha fatto una bandiera. La dura legge di Pechino per soffocare Hong Kong di Filippo Santelli La Repubblica, 29 maggio 2020 L’Assemblea del popolo approva le norme che vietano atti sediziosi e interferenze straniere. Verso l’istituzione di una forza di polizia politica cinese nell’ex colonia britannica divenuta ribelle. Favorevoli 2.878, sei astenuti, un contrario: l’Assemblea nazionale del popolo approva. Non è nuovo a plebisciti il “parlamento” cinese, la cui funzione è spesso validare decisioni già prese dalla leadership. Eppure anche nella coreografata democrazia comunista i numeri parlano, e questo è un voto di forza. La mozione per avviare l’iter della legge che vieta atti sediziosi e interferenze straniere a Hong Kong, bypassando il parlamento locale, viene approvata (quasi) all’unanimità. Il messaggio: Pechino tira dritto. Sotto l’etichetta “sicurezza nazionale” c’è una priorità politica interna, ribadire il controllo del centro sulle periferie dell’Impero, attuali e future (Taiwan). Una priorità di fronte a cui le reazioni dei cittadini di Hong Kong, degli Stati Uniti e dei loro alleati sono un effetto collaterale secondario. La Cina conosce le potenziali ritorsioni, considera il prezzo tollerabile. Come sempre il messaggio viene declinato in toni diversi. I falchi gracchiano parole di sfida. Un funzionario del governo centrale a Hong Kong chiama il segretario di Stato americano Pompeo “gangster”, il direttore del quotidiano di regime Global Times definisce un “bluff” la minaccia di ritorsioni americane. A Pechino molti pensano che alla fine Trump non cancellerà lo status commerciale privilegiato di Hong Kong, perché danneggerebbe prima di tutto gli interessi Usa. Quanto alle sanzioni contro funzionari comunisti o aziende di Stato, sarebbero fastidiose ma gestibili. Le parole di rassicurazione servono invece per cercare di non far scappare da Hong Kong i capitali stranieri, per convincerli che anche senza libertà politiche lo stato di diritto (commerciale) rimarrà. Un po’ come a Singapore. Ieri il premier Li Keqiang, numero due del regime, ha ribadito che la Cina “difende “un Paese, due sistemi”, la formula dell’autonomia di Hong Kong, anzi l’obiettivo della nuova legge è “stabilizzarla”. Mentre Xia Baolong, uomo forte scelto per gestire gli affari della città, assicura che i “cavalli correranno più veloci e le feste danzanti saranno migliori”. Era la famosa promessa di Deng Xiaoping prima della restituzione, che sotto la Cina Hong Kong avrebbe conservato il suo stile di vita. È il momento della pressione internazionale per l’autonomia di Hong Kong di Giulia Pompili Il Foglio, 29 maggio 2020 L’Assemblea nazionale del popolo, come previsto, ha approvato ieri la nuova legge sulla sicurezza nazionale da applicare alla regione autonoma di Hong Kong. Nell’ultimo giorno delle Due sessioni, il momento cerimoniale più importante della vita politica di Pechino, la nuova normativa sull’ex colonia inglese è stata la notizia principale sia sui media cinesi sia sui media internazionali - nonostante le poche, secche parole con cui ha commentato l’approvazione il premier Li Keqiang nella conferenza stampa fiume che ha chiuso la giornata politica. Sull’autonomia di Hong Kong si sta giocando una delle partite più importanti di questa specie di nuova Guerra fredda tra Washington e Pechino. La decisione del dipartimento di stato americano di notificare al Congresso la fine dell’autonomia della regione, ventiquattr’ore prima del primo via libera da parte dei funzionari cinesi, ha avuto il valore di un avvertimento. Per ora si parla molto di reazioni eventuali da parte dell’America - sanzioni per violazione dei diritti umani, revoca dello status speciale di Hong Kong - ma non si è passati ai fatti. Perché in realtà la norma non solo non è entrata in vigore, ma nelle prossime settimane potrebbe cambiare, alleggerirsi, modificarsi. Il testo, di cui ieri si sono potuti leggere i primi dettagli, adesso passa al Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo, poi al comitato di Hong Kong che si occupa di gestire la Basic Law, poi ci sarà la promulgazione formale della chief executive, il capo del governo locale, Carrie Lam. Anche a sentire gli attivisti di Hong Kong gli spazi di manovra per cambiare qualcosa della controversa legge sulla sicurezza ci sono, ma serve soprattutto l’aiuto dalla comunità internazionale affinché questo avvenga. E non è detto che le minacce di Donald Trump siano davvero costruttive, perché l’America, con la Cina, gioca su molti tavoli contemporaneamente e bisogna capire quali saranno, di volta in volta, le priorità di Washington (e della campagna elettorale). È vero che Hong Kong non sarà mai più la stessa, ma non lo era più già dal 2019, quando il patto sociale tra cittadini e governo, tra cittadini e forze di polizia, si è rotto. Se la legge sulla sicurezza di Pechino fosse approvata così com’è, però, la lunga mano del Partito comunista potrebbe arrivare ovunque: l’attivismo potrebbe diventare illegale, così come tutte le attività considerate “secessioniste o sediziose”. In caso di violazione delle norme sulla sicurezza i giudici potranno chiedere l’arresto in carcere. E poi, la cosa che più si teme a Hong Kong, le agenzie di sicurezza di Pechino potrebbero essere autorizzate ad aprire dei distaccamenti sul territorio dell’ex colonia inglese. Nella versione del Partito, ovviamente, la sicurezza nazionale “è come l’aria”, cioè serve per far sopravvivere tutti, sia i cittadini di Hong Kong sia quelli cinesi. E proprio per questo ieri è stata data molta importanza a una norma contenuta nella legge che autorizza la Cina a prendere “contromisure” contro le interferenze di paesi stranieri sugli affari di Hong Kong. Ieri diversi paesi hanno iniziato a far montare la pressione contro Pechino. Per esempio il Giappone, che ha un rapporto privilegiato, da sempre, con il porto profumato, ha convocato al ministero degli Esteri l’ambasciatore cinese a Tokyo per manifestare la propria preoccupazione. Poco dopo il portavoce del ministero degli Esteri, in una dichiarazione ufficiale, ha fatto sapere di seguire con attenzione l’evoluzione della situazione, anche insieme agli altri paesi partner. “La decisione della Cina di imporre una nuova legge sulla sicurezza nazionale a Hong Kong è in diretto conflitto con i suoi obblighi internazionali secondo i principi della Dichiarazione congiunta sino-britannica legalmente vincolante, depositata alle Nazioni Unite”, si legge nel primo comunicato congiunto di America, Australia, Canada e Regno Unito sulla questione Hong Kong diffuso ieri. È la risposta del Five Eye (meno la Nuova Zelanda) alle mire assertive di Pechino. A mancare all’appello è ancora l’Unione europea: oltre alle dichiarazioni di prassi sull’importanza del principio “un paese, due sistemi”, una riunione della diplomazia è stata convocata per oggi per “discutere dei rapporti tra Ue e Cina”. Il problema è che ogni paese europeo ha i suoi interessi particolari con Pechino, e difficilmente vuole emergere come il leader di una crociata anticinese. Sappiamo bene perché: chi si mette contro le politiche di Pechino subisce poi la vendetta economica. E quindi perfino Francia e Germania, solitamente molto dure su certi argomenti, non hanno ancora posizioni esplicite sulla legge sulla sicurezza. A distinguersi, in senso inverso però, è sempre l’Italia: ieri il presidente della commissione Esteri del Senato, Vito Petrocelli, del Movimento cinque stelle e quindi del partito che più ha dimostrato di essere in linea con Pechino, ha detto che la Cina ha tutto il diritto di fare quello che gli pare per mantenere l’ordine all’interno dei suoi confini. Marocco. Più di 20 mila detenuti giudicati a distanza agenzianova.com, 29 maggio 2020 Il ministro della Giustizia marocchino, Mohamed Benabdelkader, ha dichiarato che 20.544 detenuti sono stati processati a distanza dal lancio di questa operazione avviata per contenere i contagi da coronavirus, ma non bloccare allo stesso tempo i processi. Durante una riunione tenuta in videoconferenza con funzionari del dipartimento di giustizia, Benabdelkader ha dichiarato che circa 650 detenuti sono stati rilasciati a seguito di processi da remoto, dopo il rilascio provvisorio, un’assoluzione o una riduzione della pena. Quattro settimane dopo l’adozione di questa tecnologia, l’operazione di sperimentazione a distanza ha registrato risultati promettenti, come dimostrano le statistiche con 1.209 audizioni tenute a distanza dai vari tribunali del Regno, 18.535 casi previsti e 7.472 decisioni giudiziarie rese. Secondo il ministro, tutte le garanzie di un processo equo sono soddisfatte in questa nuova tecnologia, in conformità con le disposizioni del codice di procedura penale e convenzioni internazionali. Qatar. Fino a tre anni di carcere per chi non userà l’app per tracciare i contagi di Riccardo Noury Corriere della Sera, 29 maggio 2020 Dal Qatar attiva una storia paradigmatica dei rischi insiti nel tracciamento dei contagi da Covid-19 tramite app. Il 22 maggio è entrata in vigore la legge che obbliga tutte le persone residenti nel paese a scaricare e usare l’app Ehteraz (in arabo, Precauzione). In meno di una settimana è stata scaricata da oltre un milione di utenti solo da Google Play Store. Del resto, per chi non la usa è sono previste una condanna fino a tre anni e una multa di oltre 50.000 euro. Il giorno prima Amnesty Security Lab aveva scoperto una pericolosa falla nella configurazione dell’app che avrebbe consentito facile accesso a informazioni personali e altri dati sensibili dell’utente. Per attivare Ehteraz bastava fotografare il QR code del server centrale e fornire il numero di carta d’identità. Una volta attivata l’app senza alcun’altra procedura di autenticazione, occorreva inserire nome e cognome, di nuovo il numero di carta d’identità, residenza, luogo di quarantena e struttura medica in cui la persona risultata positiva era stata curata. Avvisate, domenica 24 le autorità del Qatar hanno modificato la configurazione, introducendo il criterio della doppia autenticazione ed eliminando i campi relativi a nome e cognome e luogo di residenza. Restano alcuni aspetti preoccupanti. Intanto l’obbligatorietà della misura. Poi il tema della riservatezza dei dati che finiscono in un archivio centrale senza garanzie riguardo al trattamento dei dati.