I “professionisti dell’antimafia” all’attacco dei permessi agli ostativi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 maggio 2020 Una modifica del 4bis o.p. per contrastare gli effetti della sentenza viola della Cedu. Due le proposte per rendere più difficile la concessione dei benefici: accentrare le decisioni a Roma o esautorare i magistrati di sorveglianza. Dopo i decreti “last minute” per rendere più difficile la detenzione domiciliare per motivi di salute (ma anche i permessi di necessità) nei confronti di chi è recluso nei regimi differenziati, il governo sta accelerando per un nuovo decreto di modifica del 4bis, l’articolo ostativo ai benefici, per contrastare - di fatto - gli effetti scaturiti sia dalla famosa sentenza Viola contro Italia della Corte europea di Strasburgo (Cedu) che dalla Corte costituzionale in merito alla illegittimità del divieto assoluto del permesso premio nei confronti degli ergastolani che hanno deciso di non collaborare con la giustizia. Sentenze che avevano fatto molto discutere, evocando addirittura Giovanni Falcone quando - nella realtà dei fatti - il giudice fatto saltare in aria dal tritolo a Capaci non voleva escludere a prescindere i benefici penitenziari per i non collaboranti, ma soltanto allungare i tempi per la concessione. Il dato di fatto è che qualsiasi modifica vorranno approvare, non potranno ritornare indietro e quindi gli ergastolani ostativi possono fare istanza per richiedere il permesso premio. Ricordiamo che si tratta di un beneficio penitenziario di durata non superiore ogni volta a quindici giorni per consentire di coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro. La durata dei permessi non può superare complessivamente quarantacinque giorni in ciascun anno di espiazione. Fino a quando la Consulta non ci aveva messo mano, chi non collaborava con la giustizia non poteva fare istanza per chiedere tale beneficio. Sono due le proposte di modifiche in campo che, come detto, non possono andare contro la decisione della Consulta (e quindi contro i principi della nostra Costituzione), ma sicuramente rendono ulteriormente più difficile tale concessione. La prima ipotesi è la previsione di togliere il potere decisionale ai magistrati di sorveglianza territoriali e concentrarli tutti al tribunale di sorveglianza di Roma. In tal caso, la competenza di decidere sui reclami avversi ai provvedimenti emessi dal tribunale di Roma in materia di permessi premio potrebbe essere affidata ad un organo di seconda istanza, quale una sezione della corte d’Appello di Roma integrata dalla presenza di esperti. O addirittura, in alternativa, l’esclusione di far reclamo e andare direttamente in Cassazione. In soldoni, nella prima ipotesi, vogliono far mettere da parte i magistrati di sorveglianza locali e accentrare tutte le decisioni al solo giudice romano. Parliamo d’altronde di una proposta già avanzata dal membro togato del Csm Nino Di Matteo e prontamente recepita dalla Commissione parlamentare antimafia. L’eventuale previsione di un accentramento, però, se approvata con decreto legge, non potrebbe corrispondere al principio costituzionale del giudice naturale, che per altro allontanerebbe il giudice “territoriale” dalla conoscenza della persona, che è invece fondamentale per apprezzarne le evoluzioni nel tempo. Da rilevare anche l’esclusione del reclamo, saltare quindi i passaggi “ordinari” e andare direttamente in Cassazione per saltum. La seconda ipotesi invece prevede un “doppio binario” con una disciplina differenziata in ragione della tipologia dei reati per cui il soggetto è condannato. In tale ipotesi saranno i tribunali di sorveglianza “territoriali”, non il singolo giudice di sorveglianza, a decidere per i condannati di reati associativi, delitti mafiosi e di criminalità organizzata, eversiva o terroristica e traffico di stupefacenti. Cosa cambierebbe? In sostanza tale decisione non la prenderà il magistrato di sorveglianza, ma ci sarà un giudizio collegiale e rafforzato anche dalla presenza dei componenti esperti non togati e delle relative professionalità, nonché dalla partecipazione all’udienza della pubblica accusa. Anche questa seconda ipotesi prevede l’esclusione del reclamo optando esclusivamente per il ricorso in Cassazione. Ipotesi che presenta punti che potrebbero far discutere. Soprattutto per il rafforzamento del “doppio binario”, imperniato sul disvalore del reato commesso piuttosto che sulla valutazione della personalità del condannato. Ma, soprattutto, nasce ancora una volta un messaggio di sfiducia nei confronti dei singoli magistrati di sorveglianza. Indulto e amnistia, è ora di cambiare il quorum di Vincenzo Maiello Il Riformista, 28 maggio 2020 Il 2 aprile scorso alla Camera è stato presentato un disegno di legge costituzionale. Due scopi principali: sottrarre il potere di clemenza alla maggioranza dei due terzi e scongiurare le derive indulgenziali del passato. In un tempo nel quale la legislazione penale reca le stimmate del punitivismo populista e dove gli stessi assi portanti dell’architettura costituzionale franano sotto i suoi possenti colpi di maglio, corre addirittura il rischio di apparire eversiva l’iniziativa legislativa che coltivi l’obiettivo di ridare spazi di agibilità a tipologie di leggi - quali quelle in materia di amnistia e indulto - che hanno una destinazione in bonam partem, operando come cause che cancellano o riducono la punibilità per determinate categorie di reati o di condanne. Si tratta, invece, di un genere di interventi che - oltre a dare copertura a istanze di giustizia e di funzionalità delle fonti giuridiche e dei poteri costituzionali - produce anche un effetto di benefico rafforzamento della fiducia nel diritto, rinfrancando quanti reputano che esso vive e si intreccia con l’impegno a riaffermarne la funzione civile di emancipazione e difesa delle libertà individuali e della pace sociale. E rammenta come l’oscurantismo regressivo, penetrato nel discorso pubblico e nelle strutture normative del nostro tempo, potrà battere in ritirata se si saprà restituire corpo e sangue a culture e a pratiche dei poteri autoritativi che ne sanciscano la portata solo residuale. In questo contesto si colloca il disegno di legge costituzionale di riforma della disciplina delle leggi di amnistia e indulto, presentato alla Camera dei deputati il 2 aprile scorso. Due gli obiettivi perseguiti dall’iniziativa di riforma: a) sottrarre il potere di clemenza generale dall’abrogazione de facto in cui l’ha trascinato la legge costituzionale n. 1/1992, con la scriteriata previsione di una maggioranza deliberativa del tutto inedita e mostruosamente elevata - superiore finanche a quella richiesta per la revisione costituzionale; b) responsabilizzarne l’impiego, scongiurando le derive indulgenziali del passato. Per realizzarli, la proposta di legge prospetta un triplice ordine di modifiche: 1) sostituisce il quorum dei due terzi dei componenti di ciascuna camera (in ogni suo articolo e nella votazione finale) con la maggioranza assoluta degli stessi (per la sola votazione finale); 2) include le leggi di amnistia e indulto nella riserva d’Assemblea (già contemplata dall’art. 72, comma 4, Cost.); 3) ultimo ma non ultimo, individua nelle “situazioni straordinarie” e nelle “ragioni eccezionali” i presupposti della loro emanazione. Come ci avvertono la ragione costituzionale ed il buon senso, si tratta di obiettivi e proposte che vanno in una direzione senz’altro condivisibile, ma la cui concretizzazione legislativa reclama l’apertura, nel foro del dibattito pubblico, di un adeguato spazio di riflessione sugli argomenti che li giustificano. Non si può, infatti, dimenticare come intorno all’amnistia e all’indulto sia cresciuta una diffusa diffidenza fondata sul convincimento che essi siano ormai reperti di un’archeologia giuridica refrattaria alle relazioni di civiltà secolarizzata dello Stato costituzionale. Sul piano storico, questa idea si alimenta dell’abuso che durante la complessiva esperienza dello Stato unitario si è fatto della clemenza, trasformatasi da congegno destinato a riequilibrare in situazioni particolari le tensioni interne ad una penalità espansiva, in una sua ordinaria modalità di gestione, producendo il paradossale effetto di legittimare la realtà di un diritto penale ben oltre i limiti di sostenibilità sociale. Sul piano culturale, la contrarietà ad amnistie e indulti, che pur risale alla rigorosa consequenzialità del pensiero illuministico riflesso nell’astrattismo razionalistico della sua impostazione, è venuta rafforzandosi nell’incontro con il linguaggio e lo spirito del populismo penale del nostro tempo e con il corto circuito che ne è scaturito nel circolo perverso dei rapporti tra la decisione politica di matrice parlamentare e il consenso sociale. È stato infatti ben detto che “essere contrari ad atti di clemenza è molto popolare, assicura facile plauso e garantisce dividendi elettorali” (Pugiotto). Non a caso, la riforma del 1992 che, di fatto, ha sbarrato la strada all’approvazione delle leggi in materia fu partorita “nella malmostosa atmosfera di Tangentopoli da un Parlamento assediato dal risentimento popolare” (Pugiotto) divenendo il “mito fondativo della nascita della nuova Repubblica dalle ceneri della prima” (Insolera). Eppure, solo fi no a qualche anno prima ai provvedimenti di clemenza toccava l’opposta sorte di essere decisioni politiche generatrici di consenso popolare, come si ricava dagli argomenti che Togliatti utilizzò nell’Assemblea costituente a giustificazione del potere di grazia e come dimostra l’emanazione di ben ventuno amnistie e indulti nella stagione repubblicana fi no al 1990. Riteniamo che sia giunta l’ora di voltare pagina e di archiviare entrambe le degenerate rappresentazioni del potere di clemenza. L’esigenza - avvertita da ampi settori della cultura giuridica e della militanza civile - di restituire effettività ad un potere ridotto a mera apparenza e a simulacro di sé stesso deve accompagnarsi ad una disciplina dei presupposti e delle modalità procedimentali di approvazione idonea a circoscriverne gli spazi di impiego in conformità alla sua natura eccezionale. Vanno perciò condivise e sostenute le proposte di cui si fa portavoce il prospettato intervento di revisione costituzionale degli articoli 79 e 72, comma 4, Cost. L’abbassamento del quorum nella previsione di una maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera serve a disinnescare i “paralizzanti veti incrociati” che del “mostruoso procedimento rafforzato” oggi vigente rappresenta un effetto perverso. Nel disincagliare il potere di amnistia e indulto, l’ipotizzata modifica può aiutare a prevenire gli strumentali aggiramenti della legalità costituzionale a cui il legislatore è stato costretto in questi anni a ricorrere per venire incontro alle esigenze di decongestionamento del carico giudiziario e della popolazione carceraria alle quali hanno dato tradizionale copertura i provvedimenti di clemenza tipici. La previsione, poi, di “codificare” i presupposti di straordinarietà delle situazioni e di eccezionalità delle ragioni e quella di rimettere alla competenza delle assemblee parlamentari (e non anche delle loro commissioni) la discussione e la votazione delle leggi in materia hanno la funzione di responsabilizzare il legislatore, concorrendo a razionalizzarne le scelte su basi di effettiva necessità. Ecco il “minimo sindacale” per un carcere vivibile e utile di Gino Rigoldi* Avvenire, 28 maggio 2020 I direttori e gli educatori che mancano, gli agenti, il rapporto col territorio. Ho letto l’analisi del procuratore Paolo Borgna sul tema dell’affollamento delle carceri nei tempi del coronavirus e le considerazioni di Mauro Palma, Garante nazionale dei detenuti (“Avvenire”, mercoledì 20 maggio 2020). Mi permetto di aggiungere alcuni elementi che a me sembrano assolutamente necessari e direi preliminari. La prima “ovvietà” che voglio sottolineare è che il funzionamento di una struttura carceraria sia per adulti sia minorile ha bisogno di un direttore, di un numero di educatori con un rapporto di un educatore ogni 50/80 detenuti (molti di più per i minori: 1 ogni 10), di un comandante degli agenti di Polizia penitenziaria, magari anche del cappellano. In Italia circa quaranta direttori non ci sono, sostituiti da “reggenti” o “facenti funzione”. Per esempio, sono senza direttore titolare alcuni carceri per adulti della Sardegna, è senza direttore da anni il Beccaria di Milano come sono senza direttore le carceri minorili di Torino e di Roma. Senza direttore non c’è progettualità su tempi lunghi, non ci sono stile di gestione e legami definiti con tutte le strutture di servizio o di solidarietà. Il “facente funzione” è per definizione precario e non farà progetti a lunga durata, si limiterà alla gestione dell’esistente e spesso del minimo sicuro. Più grave ancora è la questione degli educatori, naturali attori del rapporto tra detenuto e la sua famiglia, l’avvocato difensore, la direzione, i giudici. L’educatore fa l’osservazione, scrive le relazioni per poter avere le misure alternative. L’ultimo concorso per sostituzione o per nuove esigenze è di più di quindici anni fa. Ci si chiede come mai alcuni carceri hanno una recidiva che sta intorno al 20% mentre la maggioranza degli altri ha una recidiva che talora arriva vicina all’80%. In carceri come Bollate, Padova e Verona, e in poche altri istituti di pena di solito ci sono il direttore, un gruppo di educatori motivati, formazione professionale, qualche volta lavoro, ricerca di alloggio all’uscita, etc. Insomma il personale del carcere insieme con gli enti pubblici, quelli del privato e del volontariato cerca di rendere vivibile e utile la carcerazione e costruiscono “un paracadute” per l’uscita. Io, per iniziare, chiederei per ogni struttura carceraria minorile e per maggiori solo il “minimo sindacale”: un direttore, un numero adeguato di educatori, un numero sufficiente di agenti di Polizia penitenziaria, un importante e articolato rapporto con il territorio, la valorizzazione del privato che lavora in carcere e del volontariato. Fino a quando non ci saranno queste condizioni minimali (assenti da anni in diversi carceri), parlare di diritti di riabilitazione, di recidiva è pura teoria. Giusta ma senza radici. *Cappellano del Carcere minorile “Cesare Beccaria” di Milano Carcere e comunicazione digitale, il retro-pensiero della “less eligibility” di Stefano Anastasia* dirittiglobali.it, 28 maggio 2020 Tra le novità più significative di questi mesi in carcere è stato lo sdoganamento delle tecnologie della comunicazione e la legalizzazione di quella mobile, un piccolo bene che è venuto dal grande male del Covid-19. Tra le novità più significative di questi mesi in carcere è stato lo sdoganamento delle tecnologie della comunicazione e la legalizzazione di quella mobile. Non parliamo, qui, del digital divide, che pure segna l’esperienza di tanti studenti e docenti che la didattica a distanza la hanno potuta fare o seguire con beneficio d’inventario, scontando connessioni lente, strumenti obsoleti o, semplicemente la loro assenza o insufficienza. La disuguaglianza sociale (e territoriale) ormai si misura anche, se non principalmente, sulla distribuzione di questi beni e di queste infrastrutture. Ma questa è vicenda ormai nota: se ne legge sulle pagine dei giornali, nei racconti di studenti e insegnanti alle prese con la conclusione dell’anno scolastico e con la programmazione del nuovo. In carcere la disuguaglianza si riflette per la stessa ragione costitutiva dell’istituzione: la sofferenza della pena si misura in un regime di privazioni che risponde al principio della less eligibility della condizione penitenziaria rispetto a quella esterna. Quella disuguaglianza diventa poi una disuguaglianza al quadrato rispetto alle opportunità della società dell’informazione. La popolazione detenuta, in gran parte selezionata tra le fasce meno abbienti della società, viene privata anche di quelle poche risorse e competenze digitali acquisite all’esterno per poter apprezzare il carattere sanzionatorio della pena cui è sottoposta. Questa degradazione, con il tempo, si è trasformata in un vero e proprio tabù, che ha reso il carcere impermeabile alle tecnologie dell’informazione e che ha visto progressivamente allargarsi il divario tra il mondo di fuori e il mondo di dentro. Progressivo è lo scollamento tra un mondo che rimane sempre uguale a sé stesso e un altro che cambia a ritmi sempre più rapidi. E così è successo nell’uso della rete e della comunicazione digitale: i detenuti sono gli ultimi mohicani che scrivono a mano la loro corrispondenza. Quando va bene, la mandano attraverso società di servizi, che scannerizzano e trasmettono le loro parole ai destinatari, rivalendosi sull’utenza (i detenuti) facendogli pagare il costo del lavoro di mediazione prestato. Quando va male, la corrispondenza dei detenuti arriva in originale cartaceo, con busta e francobollo e l’antica usanza dell’anonimizzazione del domicilio, identificabile solo da occhi esperti - tramite l’indirizzo e il numero civico - come un istituto di pena. Un baratro, invece, si apre quando l’innovazione tecnologica esterna nelle pubbliche amministrazioni produce un salto che rende inutilizzabili le procedure tradizionali. È successo così, in questi anni, nelle carceri, per le procedure di invalidità e di disoccupazione, per gli accrediti e il trasferimento di indennità, remunerazioni e contributi alle risorse familiari, fino a quelle per l’iscrizione ai corsi universitari. Hanno ovviato, nei modi più generosi e più creativi, volontari, personale penitenziario, patronati, associazioni e garanti di ogni ordine e grado. Tutto per un consolidato tabù, iscritto - nel linguaggio del carcere - alla voce “ordine e sicurezza”, il passe-partout per ciò che non deve essere giustificato dall’Amministrazione penitenziaria. Ne discussi, molti anni fa, con l’allora Direttore generale dei detenuti e del trattamento del Dap (avevo un ruolo istituzionale che lo costringeva a rispondere con cortesia alle mie insistenze). Internet è una modalità di informazione e di comunicazione, la posta elettronica una modalità di comunicazione. Informazione e comunicazione non sono precluse ai detenuti e solo in casi eccezionali (41bis e alcune persone in attesa di giudizio) sono sottoposte a censura. Altrimenti sono protette dagli articoli 15 e 21 della Costituzione, prima che dalle norme di legge e regolamento. Dunque, perché non liberalizzare l’accesso a Internet e alla posta elettronica per tutti i detenuti che non hanno vincoli sulla corrispondenza, chiedevo al mio interlocutore. Per “ordine e sicurezza”, era in sostanza la risposta: “e che ne sappiamo che ne faranno di Internet o della posta elettronica? E se attraverso la rete dovessero commettere dei reati?”. Alle mie contro-obiezioni (“in carcere non ci si sta perché non si commettano dei reati, ma perché li si è commessi, o si è accusati di averli commessi, altrimenti potremmo starci tutti in galera, essendo tutti dei potenziali violatori della legge penale” e, d’altro canto, “reati si possono commettere anche in stanza o in sezione, aggredendo un compagno, danneggiando un bene dell’amministrazione, oltraggiando un poliziotto o chissà che altro, e allora che si fa? Tutti in cella liscia e senza comunicazione con il personale?”), il mio interlocutore - forse spazientito - si rifugiava nel principio di less eligibility, secondo cui, in fondo, detenuti hanno qualcosa da scontare e non possono avere le stesse opportunità e gli stessi diritti di noi che stiamo fuori. Questo retro-pensiero sta dietro le farraginosità burocratiche con cui l’Amministrazione penitenziaria si è cimentata negli anni con l’accesso a Internet per i detenuti (eccezionale e limitato a una white-list di siti accessibili) o con i video-colloqui via Skype (sperimentali fino alla rarefazione). Poi, improvvisamente, il Covid-19, la chiusura dei colloqui, le proteste dei detenuti e il tabù è saltato: in pochi giorni, per allentare la tensione che si era generata, sono arrivati in carcere 3000 smart-phone e migliaia di detenuti hanno potuto rivedere i loro ambienti domestici e familiari che per problemi economici o di salute non andavano a colloquio da anni. Improvvisamente, il mondo si è fatto piccolo anche per i detenuti. Non solo: il nuovo (e ormai già ex) Direttore generale dei detenuti e del trattamento ha aperto la strada all’uso delle tecnologie della comunicazione per la didattica a distanza rivolta ai detenuti, una cosa chiesta da anni, in particolare da studenti e docenti dei poli universitari penitenziari, e necessaria e urgente per i detenuti che nelle prossime settimane dovranno affrontare gli esami di fine ciclo scolastico, delle medie e delle superiori. Come spesso in carcere, l’applicazione delle migliori intenzioni non ha prodotto dappertutto gli effetti sperati, ma il tabù si è rotto e da qui non si può tornare indietro: la rete e le comunicazioni a distanza in carcere si possono, e dunque si devono, utilizzare. Si devono utilizzare per garantire ai detenuti tutti i diritti di cui sono titolari e per offrire loro tutte le opportunità di reinserimento sociale imposte dall’articolo 27 della Costituzione. Questo è il piccolo bene che al carcere è venuto dal grande male del Covid-19. Ora la sfida sta nel non disperderlo, come la Conferenza del volontariato della giustizia chiede e come il Garante nazionale ha raccomandato di fare. Anzi, rotto il tabù, bisogna andare avanti nell’allineamento del carcere al mondo di fuori, nella comunicazione del carcere con il mondo di fuori. *Portavoce dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, Garante per le Regioni Lazio e Umbria La scuola in carcere riapre in tv, con Rai e Miur: 13mila studenti-detenuti coinvolti Redattore Sociale, 28 maggio 2020 “La Scuola in Tivù - Istruzione degli adulti” è la nuova trasmissione dedicata ai quasi 230 mila iscritti ai Centri provinciali per l’istruzione degli adulti. 30 lezioni in tutto, dal lunedì al venerdì su Rai Scuola. “Non è mai troppo tardi”, insegnava Alberto Manzi nell’Italia degli anni 60. Torna a scommetterci oggi la Rai, che insieme al Miur ha deciso di dedicare, anche in questo momento di crisi, uno spazio di istruzione a distanza proprio agli adulti. Ha preso il via lunedì 25 “La Scuola in Tivù - Istruzione degli adulti”, la nuova trasmissione dedicata ai quasi 230 mila iscritti ai Centri provinciali per l’istruzione degli adulti. 30 lezioni in tutto, dal lunedì al venerdì su Rai Scuola (canale 146), la mattina alle 11 e poi in replica alle 16 e alle 21. Tra gli iscritti ai Cpia, oltre 13mila sono detenuti che studiano nelle sezioni carcerarie. “La Scuola in Tivù - Istruzione degli adulti” va ad aggiungersi alla programmazione speciale messa in campo dal Ministero dell’Istruzione e dalla Rai in occasione della sospensione delle lezioni a scuola a seguito dell’emergenza sanitaria. Ogni giorno, su diversi canali televisivi, viene proposta un’offerta dedicata alle diverse fasce d’età: dai più piccoli fino agli studenti che devono affrontare gli Esami di Stato del secondo ciclo. Si tratta di un percorso didattico di 30 puntate organizzato su quattro assi culturali (dei linguaggi, matematico, storico-sociale e scientifico-tecnologico): 22 lezioni, una per ciascuna delle competenze previste dai percorsi di istruzione per gli adulti di primo livello, più altre 8 di approfondimento. A tenere le video-lezioni per gli adulti saranno docenti dei 130 Cpia presenti in Italia. Insegnanti che conoscono bene gli studenti e le loro necessità. Il programma della prima settimana prevede lezioni per interagire oralmente in maniera efficace e collaborativa; leggere, comprendere e interpretare testi scritti di vario tipo (asse dei linguaggi); operare con i numeri interi e razionali (asse matematico); orientarsi nella complessità del presente (asse storico-sociale) e osservare, analizzare e descrivere fenomeni appartenenti alla realtà naturale e artificiale (asse scientifico-tecnologico). Carcere e dipendenze: “Non ci possono essere tabù di fronte alla garanzia del diritto alla salute” di Katya Maugeri sicilianetwork.info, 28 maggio 2020 Il rapporto fra carcere e dipendenze è molto stretto. Nell’immaginario collettivo l’istituto penitenziario è identificato come un luogo severo, privo di ogni ospitalità, di futuro o cambiamento. Uno spazio sterile in cui l’unico scopo è far espiare la pena attraverso un percorso repressivo, punitivo. Il primo significato, dall’etimologia stessa della parola carcere, dal latino carcer?ris, fu “recinto”. Successivamente “prigione”, intesa come costrizione e luogo nel quale rinchiudere soggetti privati della libertà personale. In questo luogo così lontano dal sentire comune, però, esistono realtà difficili che dovremmo imparare a conoscere. Storie che sono legate a una salute precaria e a delle fragilità emotive impossibili da ignorare. Qual è la funzione del carcere nei confronti del detenuto tossicodipendente? Ne abbiamo discusso con Hassan Bassi, segretario nazionale Ass. Forum Droghe, Osservatore Antigone e socio fondatore de “La Società della Ragione Onlus” Secondo l’ultimo Rapporto Antigone, quanti sono i detenuti tossicodipendenti nelle carceri italiane? “Nell’ultimo rapporto gli osservatori segnalano il 14% dei detenuti presenti negli Istituti visitati in carico ai servizi per le dipendenze. Da altre fonti sappiamo che i detenuti con “problemi droga-correlati” erano quasi 17.000 ovvero il 28% di tutti i detenuti alla fine del 2019. Non tutti però possono essere definiti e certificati come “dipendenti”. Di certo almeno più del 30% dei detenuti sono stati accusati o condannati per violazione della normativa sulle droghe. Un dato enorme di gran lunga fra i più alti d’Europa”. Gli ultimi eventi dell’8 marzo hanno messo in luce un disagio e una fragilità che non possono essere ignorati… “La rivolta nelle carceri dimostra che le condizioni delle carceri italiane continuano ad essere al limite. Sovraffollate e con condizioni strutturali quasi sempre molto compromesse di cui risentono in particolar modo le persone più fragili e vulnerabili, fra cui i tossicodipendenti. L’assalto alle infermerie è un classico delle rivolte nelle carceri. Questa volta però ha avuto un esito tragico, se i risultati delle autopsie lo confermeranno, quasi tutti i detenuti morti durante o subito dopo le rivolte sono stati vittime di overdose da metadone e farmaci. Una morte inusuale nelle carceri. Solitamente chi cerca queste sostanze le conosce ed evita di consumarne una quantità tale da mettere a rischio la propria vita. Rimane il fatto che la vita carceraria ed un buon stato di salute non sono un binomio vincente. La stessa condizione di vita in reclusione in spazi stretti e sovraffollati è causa di malesseri e diffusione di malattie. Si pensi anche solo al livello di disturbi psichici che si evidenziano negli istituti di pena, di cui sono indici inequivocabili gli altissimi consumi di antidepressivi”. Quali sono le dipendenze più frequenti? “Non è facile rispondere a questa domanda. I dati relativi alle persone con problemi di dipendenza che si rivolgono ai servizi sono spesso parziali, tanto che anche nell’annuale relazione al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia, lo stesso dipartimento politiche antidroga avvisa che i dati non sono completi. Ancora più difficile distinguere quelli relativi alle persone con dipendenza patologica in carcere. Abbiamo i dati di alcune regioni come il Lazio che ci dice che la sostanza primaria per chi è in carico ai Servizi per le dipendenze nelle carceri laziali è la cocaina. Subito seguita dall’eroina. Mentre in Toscana la maggior parte di coloro che hanno avuto una certificazione di dipendenza patologica in carcere nel 2018 erano consumatori di oppiodi (eroina) e in seconda battuta di cocaina ed alcol. Rimane il fatto che le sostanze che hanno effetti maggiori di dipendenza sono l’eroina e l’alcol”. Esiste un mercato clandestino di sostanze stupefacenti nelle carceri italiane? “Le testimonianze raccolte durante diverse ricerche certificano che negli istituti è attivo un mercato clandestino delle sostanze. Anche per questo sarebbe assolutamente importante attivare anche dentro le carceri italiane le azioni di riduzione del danno e dei rischi secondo quanto raccomandato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Come ad esempio la disponibilità di materiali sterili per il consumo di sostanze. Non ci possono essere tabù di fronte alla garanzia del diritto alla salute”. Quali sono le carenze del sistema di assistenza ai tossicodipendenti nelle carceri? E con quali strumenti sarebbe efficace migliorarlo? “I servizi per le dipendenze sono stati la prima area di intervento sanitario che con la riforma è stata trasferita dalla sanità penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale. Questo dovrebbe garantire una parità di trattamento fra dentro e fuori, ma non sempre è così semplice. Le difficoltà sono soprattutto legate alla particolarità della situazione del carcere con tutti i limiti che possiamo immaginare nella costruzione di programmi terapeutici di lungo respiro che si scontrano con le imposizioni securitarie degli istituti. Abbiamo notato che ci sono Istituti dove i servizi per le dipendenze non seguono gli stessi protocolli fra dentro e fuori, proponendo programmi terapeutici molto più rigidi e con una minore personalizzazione. Alcuni operatori sanitari hanno dichiarato che non vengono mai utilizzati farmaci sostitutivi degli oppiacei che hanno un ruolo importante e universalmente riconosciuto per ridurre di danni associati alla dipendenza. Tutto questo è contrario a qualsiasi protocollo sanitario contemporaneo. Ci sono anche istituti dove le persone con dipendenze in cura sono escluse dalle attività lavorative interne, con una decisione ingiustificata e controproducente, oltre che discriminante, e che aumenta il disagio della vita carceraria proprio per i più vulnerabili. Per migliorare le cose, si dovrebbe promuovere al massimo la concessione delle pene alternative, per le persone con dipendenze, ma non solo, dico io. La Magistratura stessa è lenta e colpevolmente reticente nell’applicare le misure deflattive che la norma permette. La detenzione dimostra tutti i suoi limiti, sia nella possibilità di ridurre la recidiva che in quella di garantire un buon livello di salute fisica e psichica per le persone ristrette. In particolare per le dipendenze si dovrebbero garantire le risorse economiche per una presa in carico da parte dei servizi del territorio pubblici e del privato accreditato di tutti i casi di dipendenza patologica in una sinergica collaborazione fra mondo della giustizia e socio sanitario. Invece le risorse necessarie per le pene alternative sono poche, quando è ormai dimostrato che sono il miglior investimento sociale e finanziario possibile. Un’attenzione particolare andrebbe poi posta alle esigenze degli stranieri. Con un investimento sui mediatori culturali per superare le difficoltà di comunicazione con i servizi sanitari”. Qual è la percezione che la gente ha delle persone con dipendenze? “Purtroppo se c’è una categoria che è stigmatizzata è quella delle persone con dipendenze. Anche a causa di una martellante propaganda le persone con dipendenze sono spesso additate come incapaci di prendere decisioni autonome, mentre la possibilità di uscire dalle dipendenze patologiche risiede proprio nella valorizzazione delle competenze e delle risorse delle persone. Spesso poi il semplice uso di sostanze stupefacenti è associato al termine tossicodipendenza, mentre solo una minima parte delle persone che usano sostanze sviluppano problemi patologici da uso”. Possibile che nessuno stia indagando su ciò che è avvenuto nelle carceri italiane? di Maurizio Tortorella La Verità, 28 maggio 2020 Se la giustizia italiana fosse giusta, una Procura avrebbe già aperto un’inchiesta. E i magistrati starebbero scavando nello scandalo delle scarcerazioni dei detenuti mafiosi, avvenute sotto il guardasigilli Alfonso Bonafede. Il materiale per un’inchiesta, del resto, c’è tutto: strane rivolte carcerarie, misteriose circolari ministeriali, sospetti lanciati come sassi in tv. Sospettati non ce ne sono, ma il materiale alla base dell’indagine-che-non-c’è ha per lo meno la stessa forza di quello che una decina d’anni fa ha acceso il controverso processo palermitano sulla presunta “trattativa” tra Stato e mafia, oggi in Corte d’appello. In primo grado mafiosi, politici e uomini delle forze dell’ordine sono stati condannati per avere ordito un piano oscuro, indefinito in più passaggi: alleggerire il carcere duro per i boss di Cosa nostra, detenuti in base all’articolo 41bis della legge sull’ordinamento penitenziario. Voluta dal ministro della Giustizia Claudio Martelli dopo la strage di Capaci del maggio 1992, costata la vita a Giovanni Falcone, quella norma impone ai capi mafiosi un duro regime di sorveglianza e l’impossibilità di comunicare con l’esterno. Secondo l’accusa, sostenuta dai pm antimafia palermitani raccolti attorno a Nino Di Matteo, tra il 1992 e il 1993 la presunta “trattativa” avrebbe visto da una parte i mafiosi, che minacciavano nuove bombe se il 41bis non fosse stato attenuato, e dall’altra gli uomini dello Stato che facevano di tutto per evitarle. Imbastito su elementi a volte fumosi o inconsistenti, il processo Trattativa ha monopolizzato per anni il dibattito giudiziario e condizionato la vita politica. Al confronto con gli elementi alla base quel processo, paradossalmente, la sequenza dei fatti di questo terribile 2020 è più concreta e coerente. Però nessuno, almeno che si sappia, sta indagando. Il problema, a pensar male, è forse che la vicenda non coinvolge attori di centrodestra. Tutto comincia il 31 gennaio, quando il governo di Giuseppe Conte delibera lo stato d’emergenza per coronavirus. Quel giorno, secondo il ministero della Giustizia retto dal grillino Bonafede, le prigioni hanno un preoccupante sovraccarico di detenuti: sono 60.971, contro una capienza “regolamentare” di 50.692 e una disponibilità effettiva di 47.000 posti. Le celle scoppiano, il rischio di contagio è grave. Che cosa fa il ministro? Nulla. Che cosa fa il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini, il magistrato che Bonafede ha scelto per quell’incarico nel giugno 2018, poco dopo il suo insediamento? Niente. Per tutto febbraio, ministro e capo del Dap non agiscono. Il 18 di quel mese, Basentini spedisce alle 189 carceri italiane le “Linee programmatiche per il 2020”: su 12 pagine, due sono dedicate al tema “La sanità negli istituti penitenziari”, ma le parole “epidemia”, “coronavirus” o “Covid-19” non compaiono nemmeno di striscio. Possibile non si capisca che le prigioni scoppiano e che il virus inevitabilmente le coinvolgerà? A fine febbraio i detenuti aumentano ancora: 61.230. Intanto l’onda della pandemia è montata, è uno tsunami. La paura del contagio si fa terrore, il malumore ribolle. Ai primi di marzo qualche protesta scoppia fuori dai cancelli. La risposta del ministero è così irrazionale da lasciare interdetti: vengono sospesi permessi-premio e visite dei familiari. Il risultato è inevitabile. Tra il 7 e il 9 marzo, in 26 prigioni, scoppia la più violenta rivolta degli ultimi 40 anni. Lascia 14 morti tra i detenuti (ufficialmente per overdose da metadone, rubato nelle infermerie), 50 agenti feriti, una settantina di evasi, danni per 35 milioni. C’è chi scrive che è tutto “organizzato”, che c’è “una regia”, ma anche quel tema stranamente evapora. Di certo i rivoltosi incontrano magistrati, ufficiali delle forze dell’ordine, e consegnano loro rivendicazioni e richieste. La protesta finisce. Passano dieci giorni, e il 21 marzo ecco altre anomalie. Il Dap invia un’irrituale circolare ai direttori delle prigioni: chiede di comunicare “con solerzia all’autorità giudiziaria” i nomi dei detenuti in condizioni di salute ed età tali da esporli al rischio di contagio. Il risultato dell’indagine servirà “per le eventuali determinazioni di competenza” dei Tribunali di sorveglianza, cioè per le possibili scarcerazioni. Mistero nel mistero, a firmare la circolare non è Basentini, né un direttore subordinato, ma l’addetta stampa Assunta Borzacchiello. Nessuno ne ha mai capito il perché. Il vero mistero, comunque, è la circolare, che subito viene letta come la chiave per aprire le celle. Non per nulla, il documento specifica che, “oltre alla relazione sanitaria” di ogni detenuto a rischio, devono essere allegate altre informazioni, tra cui “la disponibilità di un domicilio”. E difatti i ritorni a casa cominciano: in sordina, a decine. Piano piano, escono di cella 376 detenuti pericolosi. Lo scandalo esplode solo a metà aprile, quando i giudici di sorveglianza spediscono ai domiciliari una serie di “pezzi da 90”, fino a quel momento reclusi al 41bis. Personaggi come Francesco Bonura, boss di Cosa nostra condannato a 23 anni; o come Pasquale Zagaria, fratello di Michele e mente finanziaria del clan camorristico dei Casalesi, condannato a 20 anni. Lo segnalano alcuni giornali, tra cui La Verità, e la polemica si fa rovente. Si scopre che il Dap non ha fornito ai giudici soluzioni alternative per i boss, che non ha saputo cercare posti nelle “strutture sanitarie protette”. Il Dipartimento ha perso tempo, ha perfino spedito e-mail agli indirizzi sbagliati. Un’inconcludenza mai vista prima, nella struttura. Basentini vacilla. A fine aprile il guardasigilli decide di sacrificarlo, e il capo del Dap si dimette. Ma ai primi di maggio la polemica ha un ritorno di fiamma perché in tv Nino Di Matteo accusa Bonafede di avergli offerto e precipitosamente negato la guida del Dap che nel giugno 2018 ha poi affidato a Basentini. La rivelazione è quasi grottesca: due anni dopo la sua mancata nomina, Di Matteo - che, ricordiamolo, è uno dei pm del processo “Trattativa” - ipotizza che il ministro abbia fatto retromarcia sul suo nome per le proteste di “importantissimi boss mafiosi detenuti”, preoccupati che il suo arrivo al Dap potesse produrre una stretta del 41bis. A quel punto, mentre l’opposizione chiede le sue dimissioni, l’imbarazzatissimo Bonafede vara due decreti in pochi giorni: il primo subordina le scarcerazioni dei boss al Sì delle Procure antimafia; il secondo impone ai Tribunali di sorveglianza di verificare di continuo la salute dei boss trasferiti a casa. Intanto, nel silenzio di tutta la stampa italiana, La Verità riporta la sconcertante denuncia del collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo. L’ex boss di Cosa nostra, che si è pentito con Falcone nel 1992 e da 28 anni viene ritenuto affidabile, dice che le scarcerazioni dei boss “fanno parte della Trattativa tra Stato e mafia, che non è mai finita”, e aggiunge che “è inutile che adesso il ministro annunci in pompa magna che li fa tornare in carcere: ormai sono fuori, i buoi sono scappati dal recinto”. Anche il suo j’accuse cade nel vuoto. L’ultimo capitolo della storia riguarda la visita che Basentini ha fatto a Michele Zagaria, boss dei Casalesi recluso al 41bis nel carcere dell’Aquila. Secondo quanto rivela oggi un cronista napoletano esperto di camorra, Paolo Chiariello, nel novembre 2018 il capo del Dap sarebbe entrato nella cella di Zagaria con il direttore della prigione e con una terza persona. Incontrare i detenuti è tra le facoltà del capo del Dipartimento. Intercettato poco dopo, però, il boss confida a un compagno di cella di aver parlato con “uomini delle istituzioni”, che gli hanno fatto capire che il suo 41bis non si può allentare solo per l’opposizione della Procura di Napoli. Se l’avesse saputo Di Matteo, una decina d’anni fa, chissà quali indagini ci avrebbe imbastito. Fase 2, la produzione di mascherine si sposta nelle carceri: l’accordo quifinanza.it, 28 maggio 2020 L’accordo raggiunto tra il ministro Bonafede e il Commissario Arcuri. Produzione e vendita delle mascherine sono stati tra gli argomenti di maggiore dibattito durante l’emergenza Coronavirus. Troppo care, irreperibili, non a norma e altri i problemi che hanno fatto seguito all’obbligatorietà delle stesse, così tanti che alla fine hanno spinto le autorità a dover intervenire. E adesso, che si punta ad una maggiore produzione (in tempi brevi e a costi ottimali), un nuovo accordo è stato raggiunto tra il ministro della Giustizia Bonafede e il Commissario straordinario Arcuri. Mascherine chirurgiche prodotte dai carcerati: accordo raggiunto tra Bonafede e Arcuri - L’idea che sta alla base dell’intervento promosso dal ministro Bonafede e da Arcuri è la seguente: spostare la produzione di mascherine all’interno delle carceri italiane, avviando un progetto di inclusione sociale e sostenendo la produzione degli strumenti di protezione individuale, diventati obbligatori durante l’emergenza sanitaria. Dopo aver raggiunto l’accordo sulla vendita delle mascherine chirurgiche a 50 centesimi - tra non poche polemiche - il Commissario straordinario sta adesso cercando di mantenere fede alla promessa fatta qualche settimana fa, ovvero quella di puntare ad un aumento della produzione delle stesse, così da evitare eventuali carenze del prodotto. Il progetto prende vita: al via la produzione nei primi carceri - Nell’iniziativa lanciata da Bonafede e Arcuri i detenuti impiegati saranno ben 320, dislocati in tre diversi carceri italiani, ovvero Bollate, Rebibbia e Salerno (che sono anche gli unici istituti penitenziari ad oggi coinvolti in questa prima fase del progetto). Le prime macchine destinate alla produzione di mascherine chirurgiche sono già arrivate al carcere di Bollate, dove l’attività sarà presto avviata. Gli obiettivi prefissati da Arcuri e Bonafede: si punta ad arrivare a 800 mila mascherine al giorno - Pur essendo ancora alla sua fase iniziale, il progetto di Arcuri e Bonafede risulta essere oggi molto ambizioso. Nel primo periodo di avviamento al lavoro, infatti, la produzione delle mascherine dovrebbe arrivare a circa 400 mila dispositivi al giorno. L’obiettivo finale, tuttavia, è il raddoppio, portando la produzione a 800 mila mascherine chirurgiche al giorno. In questo modo si vuole continuare a far fronte ai bisogni del Paese, ottimizzando le risorse e impegnandole in un progetto che, al di là della sua natura pratica, si contraddistingue anche per il suo fine sociale. Fase 2, riparte tutto ma non la Giustizia di Giorgio Spangher Il Riformista, 28 maggio 2020 1. Invero, non è del tutto chiaro perché i tempi della c.d. fase 2 della giustizia siano più lunghi delle altre attività sociali. La c.d. fase 2 è infatti fissata al 31 luglio. Non è chiaro, infatti, perché, oltre al problema delle carceri, dove sono evidenti la criticità e il succedersi di provvedimenti d’urgenza contrassegnati da impostazioni autoritarie, che prescindono dalle esigenze securitarie, dal Ministero, ma anche dal Consiglio Superiore della Magistratura, non giungano segnali e indicazioni sulla ripresa dell’attività giudiziaria. Tutto è lasciato alle scelte dei capi dei vari uffici giudiziari, non senza contrapposizioni tra magistratura ed avvocatura sulle modalità di svolgimento dei processi, sui processi da celebrare, sui tempi dei rinvii, sul lavoro delle cancellerie. Per le altre attività sociali, sono stabilite linee guida, modalità di partecipazione e di presenza. Si riaprono le attività commerciali, industriali, sociali, ma la giustizia è scomparsa dai radar. Sembra una terra di nessuno. Solo norme processuali: sospensioni e differimenti dei processi, attività da remoto, qualche indicazione sull’uso di strumenti informatici. Peraltro, non è un settore nel quale difettino le implicazioni economiche e sociali per la collettività e per gli operatori della giustizia. Anche per la giustizia la fase emergenziale deve esaurirsi e i tribunali devono recuperare la loro funzionalità con protocolli di sicurezza adeguati. 2. Peraltro, il preventivabile superamento della fase emergenziale prospetterà non poche questioni che dovrebbero essere oggetto di attenzione, oltre alle implicazioni processuali della applicazione delle norme emergenziali (fra le altre: sospensione della durata della custodia cautelare e della prescrizione). Invero, tornano sul tappeto tutte le situazioni che l’emergenza ha congelato ma non superato. Dal 1° settembre dopo l’ennesimo rinvio diventerà operativa la riforma delle intercettazioni telefoniche, con le sue criticità connesse all’uso del captatore informatico, soprattutto in relazione all’attività che supera il mero dato delle comunicazioni. Sarà inevitabile e necessario riprendere il confronto sulla riforma della prescrizione (c.d. lodo Conte) parcheggiata in un disegno di legge di più ampia riforma del processo penale. Appunto. Seppur depositato alla Camera lo schema di legge delega dovrà passare al vaglio parlamentare, la fase attuativa e i successivi passaggi legislativi. È ragionevole pensare che questo iter sarà lungo e travagliato. In questa occasione non mancheranno le tensioni e le contrapposizioni tra le forze governative e le associazioni di magistrati e avvocati che sulla formulazione originaria, al di là dei limiti di una riforma significativa, presentata come “epocale” avevano manifestato riserve e critiche. È facile ipotizzare che in questa occasione che peraltro già prevede una disciplina tesa alla informatizzazione del processo, che troverà occasione per un suo (positivo) incremento, troverà spazio la questione del processo da remoto, cartolarizzato e orale. Si tratterà delle conseguenze della stagione di lockdown vissuta dalla giustizia. Rafforzamento dell’attuale disciplina dell’art. 146 bis disp. att., allungamento delle ipotesi di procedimenti cartolarizzati, compressione dei momenti connotati da oralità saranno oggetto di dibattiti contrapposti. Le ultime vicende dell’organizzazione del Ministero della Giustizia e delle nomine negli uffici direttivi, che hanno toccato anche posizioni di vertice nella struttura istituzionale, renderà indispensabile e non più differibile una riforma non solo del Consiglio Superiore della Magistratura, ma anche in termini profondi dell’ordinamento giudiziario. Restano problematici gli approdi, stante le conclamate contiguità tra magistratura e politica e considerato il generale coinvolgimento dei magistrati nella filosofia della gestione della organizzazione giudiziaria. Come se non bastasse, nonostante l’involuzione restrittiva imposta al sistema penitenziario, non è difficile ipotizzare alcuni contraccolpi sul tema della gestione carceraria di decisioni della Corte costituzionale e di quella europea, nonché il ripensamento e il recupero di quanto elaborato dalla Commissione Giustizia. 3. L’intasamento dei processi, conseguente ai rinvii ed alle sospensioni, accrescimento dei contenziosi inevitabili sulle gestioni sanitarie dell’emergenza, nonché prevedibili patologie nella gestione dei flussi finanziari dei provvedimenti del Governo, porranno il problema di un provvedimento indulgenziale. Abbiamo fatto un piccolo passo nel futuro ma ci portiamo tutto il peso del passato. Giustizia, Bonafede accelera: “Nuovo Csm, testo in arrivo” di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 28 maggio 2020 Lungo vertice in via Arenula e in teleconferenza, al termine il ministro si sbilancia a immaginare che la riforma dell’organo di autogoverno dei giudici possa andare in Consiglio dei ministri la prossima settimana. Ma la riunione è stata interrotta prima di parlare della legge elettorale per i togati. Il Pd ha proposto un comitato di saggi da affiancare alla sezione disciplinare. Solo un primo incontro, aggiornato a oggi quando si affronterà il tema della riforma della legge elettorale per il Csm. Il vertice di maggioranza sulla giustizia è partito piano ma bene, considerando che sul tema i giallo-rossi avevano litigato per cinque mesi prima di trovare, a febbraio scorso, un difficile accordo. Travolto poi dall’emergenza coronavirus. Al termine del primo giro il ministro Bonafede se l’è sentita di dire che il testo di riforma del Csm potrà andare in Consiglio dei ministri già la prossima settimana: “Abbiamo lavorato molto bene e siamo perfettamente d’accordo sul fatto che bisogna intervenire con tempestività”. La riunione è cominciata ieri nel tardo pomeriggio negli uffici del ministro in via Arenula - almeno per ministro, sottosegretario Giorgis (Pd) e Federico Conte (Leu), Angela Salafia (5 Stelle) e Walter Verini (Pd), perché altri come la rappresentante di Italia Viva Lucia Azzolina si sono collegati da remoto - ed è andata avanti fino a tarda sera. Nel pomeriggio, durante il question time alla camera, Bonafede aveva anticipato alcuni punti della riforma del Csm in programma, che sono gli stessi attorno ai quali la maggioranza aveva trovato un accordo a febbraio. Quando però si decise di accantonare l’intervento sul Consiglio superiore per spingere avanti il disegno di legge delega sul processo penale. Ora di fronte al “vero e proprio terremoto che ha investito la magistratura italiana” (espressione usata dal ministro su Facebook domenica e ripetuta ieri in parlamento), le priorità si sono invertite. Oltre alla riforma del sistema di voto per eleggere la componente togata del Consiglio superiore (che dovrebbe salire a venti unità mentre il plenum tornerebbe ai 33 del 2002), il progetto di Bonafede comprende altri capitoli. Ma intanto registra una difficoltà perché ieri Autonomia e Indipendenza, la corrente fondata da Davigo che è la più vicina alle sensibilità dei 5 Stelle, ha fatto una nota per chiedere una legge elettorale proporzionale. Comprensibili le ragioni, visto che A e I si muove come terza forza rispetto alle correnti maggiori, ma evidente il contrasto con il piano del ministro che invece punta a un sistema seccamente maggioritario - a turno unico o a due turni - per di più con un numero alto di collegi (conseguentemente molto piccoli, circa uno per regione). Gli altri punti della riforma riguardano i meccanismi per rendere più stringenti le valutazioni di professionalità, “oggettivi criteri meritocratici” nelle parole del ministro. Il Pd insiste particolarmente sulla necessità di separare la sezione disciplinare, che si occupa di sanzionare i magistrati, dal resto del Consiglio che si occupa invece delle nomine. E per questo ha proposto di ragionare intorno a un comitato di presenze autorevoli e fuori dalla mischia (tipo ex giudici costituzionali) per sottrarre le sezioni al gioco degli scambi tra le correnti. Bonafede e i 5 Stelle puntano in particolare su meccanismi rigidi per impedire il ritorno in magistratura alle toghe che sono state elette non solo in parlamento ma anche negli enti locali. E vogliono inserire il divieto per gli ex membri del Csm di poter accedere a incarichi direttivi o semi direttivi per cinque anni al termine del mandato. Intanto proprio ieri il plenum del Csm è tornato a riunirsi nella sua sede di Roma e non più in teleconferenza, l’occasione l’approvazione di un bando per i magistrati segretari del Consiglio che è stato congelato proprio per studiare regole più trasparenti. Il vicepresidente Ermini ha approfittato per tuonare contro lo “scadimento morale” e il “miserabile mercimonio di pratiche correntizie” che, stando alle conversazioni di Palamara pubblicate, è stato dietro anche all’elezione dello stesso Ermini. Poi però il vicepresidente, stando ancora alle conversazioni captate dal trojan, è crollato nella considerazione di Palamara, dei due deputati del Pd Lotti e Ferri (quest’ultimo oggi con Renzi) e delle toghe del Csm di Unicost e Mi che partecipavano alle riunioni per decidere sulle nomine negli uffici apicali delle procure. “Siamo favorevoli alle riforme”, ha detto ieri Ermini, rispondendo a chi (come Salvini) ha chiesto lo scioglimento del Consiglio. Per il vicepresidente “questo Csm ha già cambiato molto”. Almeno nei nomi: cinque consiglieri togati sono stati costretti alle dimissioni e sono stati sostituiti. Ora il Csm cambia davvero: togati liberi dalle correnti, addio premi di fine mandato di Errico Novi Il Dubbio, 28 maggio 2020 Vertice sulla riforma con Bonafede, limiti alle correnti e per i magistrati fuori ruolo. Nel ddl bloccate per 4 anni le promozioni dei togati uscenti Il Pd spinge sul voto degli Ordini forensi nei Consigli giudiziari. La riforma del Csm era già pronta. A gennaio. Poi si decise di stralciarla per rendere più spedito il cammino del ddl sul processo. Ma ieri la bozza che ridisegna Palazzo dei Marescialli e le carriere dei magistrati è stata riproposta dal guardasigilli Bonafede in un lungo vertice di maggioranza. Contiene norme che limitano il peso delle correnti, innanzitutto nel sistema per eleggere i togati, basato ora su collegi piccoli in modo da favorire anche magistrati autonomi dai gruppi. Ma tra le misure più rigorose c’è pure lo stop al cortocircuito che finora ha consentito ai consiglieri magistrati uscenti di valorizzare il mandato da poco concluso con folgoranti promozioni. In un anno di bozze e ipotesi, si sono stratificati molti giri di vite sul Csm. Non uno: tanti. Così nella riunione in parte live in parte in videoconferenza convocata per ieri pomeriggio dal guardasigilli Alfonso Bonafede, la maggioranza ha tirato le somme sulle proposte per ristrutturare la magistratura. E ha raggiunto un’intesa di massima su un testo molto severo. Elezione dei togati in collegi relativamente piccoli, estesi al massimo quanto un paio di distretti giudiziari, per “sfuggire alle logiche correntizie”, come s’impegna il ministro già nel question time alla Camera, subito prima del summit. Torna, e diventa lungo come mai era stato, il divieto, per il consigliere superiore uscente, di candidarsi a procuratore capo o a presidente di Tribunale, e anche di assumere incarichi fuori ruolo. E ancora, per il magistrato che abbia ricoperto funzioni extragiudiziarie sarà impossibile proporsi come dirigente di un ufficio giudiziario (e qui, per dire, persino Raffaele Cantone sarebbe fuori gioco dalla partita per la Procura di Perugia). Addio al rientro in magistratura per la toga reduce da un mandato parlamentare o da un’esperienza come ministro. E norme rigorose per il ritorno alle funzioni giurisdizionali anche qualora il magistrato fallisca la corsa al seggio. Ancora, “oggettivi criteri meritocratici nell’assegnazione degli incarichi da parte del Csm”, come li definisce sempre il ministro (e qui la partita si annuncia più complicata). Divieto, per i componenti del Csm destinati alla sezione disciplinare, di far parte di qualsiasi altra commissione di Palazzo dei Marescialli (sarà possibile anche grazie all’innalzamento del numero dei consiglieri non di diritto, portato a da 24 a 30, di cui 20 togati e 10 laici). Tutto con l’obiettivo dichiarato, dal guardasigilli, di “restituire alla magistratura italiana l’autorevolezza e il prestigio che merita”. In modo da assicurare, e l’affermazione non pare solo risentire di una scontata retorica, “la salvaguardia dello stato di diritto e la pienezza delle tutele di tutti i cittadini”, ci sono varie ed eventuali. Discusse nel lungo vertice - iniziato poco dopo le 17, con lieve ritardo e arricchito da rappresentanti di tutte le forze di maggioranza: dalla 5 Stelle Angela Salafia al responsabile Giustizia del Pd Walter Verini, dagli altri “delegati” dem Alfredo Bazoli e Franco Mirabelli ai deputati Lucia Annibali di Italia viva e Federico Conte di Leu, al quale già si deve il “lodo” sulla prescrizione. Si discute attorno alla bozza di ddl stralciata a fine gennaio dalla riforma del processo. Nel testo che Bonafede mette sul tavolo ci sono previsioni coraggiose, a volte hard: compresa quella secondo cui il Csm, nel valutare la professionalità del singolo magistrato, “laddove emergano situazioni concrete ed oggettive che inducano a dubitare del requisito dell’equilibrio, possa disporre approfondimenti istruttori, anche avvalendosi del contributo di psicologi esperti di comprovata professionalità, assicurando adeguate garanzie all’interessato”. Una di quelle cose che faranno insorgere l’Anm. Ma su altri aspetti è il Pd di Verini a proporre soluzioni d’avanguardia. Sulla partecipazione degli avvocati nei Consigli giudiziari, per esempio: quando i “mini- Csm locali” devono pronunciarsi sulla professionalità di un giudice o di un pm, secondo i dem il presidente del Consiglio dell’Ordine forense e il rappresentante dell’accademia non devono avere semplicemente “facoltà di assistere” alla riunione, come già si prevedeva nel testo pre-emergenza Covid, ma devono poter votare. Bonafede aveva già prefigurato un’ipotesi simile l’anno scorso, quando ancora governava con la Lega. Probabile che ora, sull’apertura sollecitata per anni dal Cnf, si arrivi a dama. Un bel po’ da fare si avrà sul sistema per eleggere i togati. Tutti d’accordo sull’addio al collegio unico nazionale; circoscrizioni elettorali il più possibile ristrette, con un paio destinate a consiglieri e pg di Cassazione e a uffici particolari come la Dna. Il punto è che i dem propongono un meccanismo uninominale maggioritario, disegnato dal deputato e costituzionalista Stefano Ceccanti, mentre arriva la spinta della componente di Piercamillo Davigo, Autonomia e Indipendenza, che invoca un meccanismo proporzionale. Certo è che a una soluzione anti- correnti, capace di premiare il magistrato noto ai colleghi per la dedizione e non per la tessera, è preparata anche l’Anm: “Bisogna restituire un maggiore potere di selezione alla comunità dei magistrati”, riconosce il presidente dimissionario Luca Poniz. Il contesto favorisce la riforma, anche nei suoi aspetti più amari per il correntismo. Lo attestano pure le parole forti pronunciate, poche ore prima del conclave di maggioranza, dal vicepresidente del Csm David Ermini, che esclude “scioglimenti” del plenum attuale ma parla pure di “miserabile mercimonio di ciniche pratiche correntizie, indegno tradimento” del “patrimonio di coraggio e fiducia” accumulato anche grazie a uomini come Vittorio Bachelet. Alcune parti del testo su cui l’intera alleanza di governo sembra prossima al sì definitivo riflettono davvero l’approccio risoluto di Bonafede. Il divieto di candidarsi per incarichi direttivi imposto ai togati uscenti, per esempio, durerà la bellezza di 4 anni: il doppio di quanto previsto dalla stessa legge istitutiva del Consiglio superiore, che risale al 1958; è una svolta intransigente dopo l’incredibile deregulation della legge di Bilancio per il 2018, che aveva eliminato del tutto il periodo naftalina. Si tratta di “difendere la magistratura, fare in modo che non venga meno la fiducia nei giudici”, per usare le parole di un’altra figura chiave del percorso riformatore, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis, del Pd, che di mestiere fa il costituzionalista. Se l’intento è quello, e se non riaffioreranno timori reverenziali, si potrà arrivare lontano. Csm, contro le correnti ci vuole il sorteggio. Troppe fazioni, clientelismi e corruzione di Guido Salvini* Il Dubbio, 28 maggio 2020 Un sistema elettorale misto, in parte per elezione e in parte per sorteggio forse riuscirebbe a depurare il consiglio e la lotta tra schieramenti. Le macchinazioni dei cardinali nei Conclavi dei secoli bui. A questo fanno pensare le chat di Luca Palamara pubblicate in questi giorni, chat che buona parte della stampa finge di non aver letto, quella stampa che comunque non può dolersi o protestare contro pubblicazioni arbitrarie di intercettazioni irrilevanti per un processo penale in quanto essa stessa ne ha usato a man bassa quando si trattava di colpire altri avversari. E pensare che quello che leggiamo è il risultato di un solo trojan attivato sul telefono di un solo magistrato per quanto importante, ricordiamolo, già presidente dell’Anm cioè il rappresentante e la voce di tutti i magistrati. Se i trojan fossero stati di più, a strascico o a cascata, come si usa dire, e le intercettazioni decine come accade in molte indagini, possiamo immaginare quante manovre del genere sarebbe venuto alla luce da parte di quei magistrati, non tutti ma moltissimi, che ad un certo punto della loro carriera si convincono di aver diritto ad un prestigioso incarico direttivo. Alti magistrati che per ottenerlo dedicano ad iniziative autopromozionali e a sotterfugi molto di quel tempo che dovrebbe invece essere impegnato per i compiti loro affidati. Tutti costoro ritengono evidentemente che il Csm, invece di essere un alto organo costituzionale, almeno così come la Costituzione lo descrive, sia invece un campo di battaglia in cui far prevalere, con voti e delibere mercenarie, il loro desiderio di potere. In questa tragedia della magistratura c’è chi cerca di tirarsi fuori, dando la colpa agli “altri” ma, come in tutte le istituzioni malate, se gli “altri” trafficano e raccomandano i propri adepti lo devi fare anche tu, almeno per mantenere una parità nelle corse truccate, e ad un certo punto non si sa più chi ha cominciato e il meccanismo corruttivo si riproduce ovunque e da solo. Anche i cronisti giudiziari, spesso subalterni alle Procure, fanno parte a pieno titolo di questo groviglio di interessi. Ho trovato ad esempio sconcertante una conversazione in cui l’immancabile Palamara commissiona in modo abbastanza esplicito ad una nota giornalista di cose giudiziarie un articolo destinato ad orientare le nomine alla Procura di Roma e in altre sedi. Si è passati dal giornalismo di inchiesta al giornalismo di servizio. Ma negli ultimi giorni non è accaduto solo questo, il secondo “picco”, per usare un termine epidemico, della saga Palamara. Abbiamo assistito in rapida successione ad una serie di eventi che hanno occupato le prime pagine dei giornali. È stato arrestato il Procuratore di Taranto Carlo Capristo, collocato lì dal Csm dopo aver condotto molte indagini non proprio fortunate, con l’accusa di avere colluso con alcuni imprenditori in danno di altre persone e aver fatto pressioni su un Pubblico Ministero. E la lista dei magistrati accusati di varie forme di corruzione, un tempo un’eccezione, comincia in questi anni ad allungarsi in modo preoccupante. Abbiamo sentito in televisione le accuse, al di fuori di ogni correttezza istituzionale, rivolte da Nino Di Matteo, componente del Csm, al Ministro di Giustizia per non averlo collocato due anni prima alla direzione del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria solo perché, secondo lui, avrebbe ceduto a losche pressioni. E alla fine, scossa dagli scandali, è andata in frantumi la Giunta dell’Anm, il governo della magistratura. C’è una soluzione a tutto questo, che coinvolge come si legge nelle ultime chat pubblicate, anche la Sezione disciplinare del Csm? Il Governo e alcune forze politiche accennano a una radicale riforma del sistema di elezione del Csm. Effettivamente l’unico strumento per contenere il monopolio delle correnti sarebbe un sistema elettorale magari misto, in parte ad elezione ed in parte a sorteggio, che vanificherebbe comunque ogni cordata e ogni scalata perché diventerebbe inutile dedicarsi ad attivare liasons pericolose e scambi di vario tipo quando il loro successo dipendesse in buona parte dall’alea. Non è un’ipotesi stravagante. Sono già scelti per sorteggio i giudici popolari delle Corti di Assise, che possono emettere sentenze di condanna all’ergastolo e i giudici del Tribunale dei Ministri e, anche se molti non lo sanno, le Commissioni esaminatrici di molti concorsi pubblici come alcuni concorsi universitari e quelle che assegnano alcuni appalti. È una soluzione, che inizia a diffondersi, forse di riserva, ma che in qualche modo difende dai clientelismi e dalle fazioni. Ma dubito che una riforma del genere possa decollare mai. Passato il momento critico non se ne parlerà più. Tutto tornerà come prima. Ne sento parlare da quando ero un magistrato con i calzoni corti e sono convinto che le correnti della magistratura, che hanno interesse a mantenere il loro potere, siano in grado di neutralizzare qualsiasi iniziativa. Del resto, tra le tante cose curiose, vi è il fatto che il Ministero di Giustizia è occupato in posizioni apicali da decine e decine di magistrati fuori ruolo, in spregio, come ha ricordato in questi giorni il costituzionalista Sabino Cassese, alla divisione dei poteri, magistrati che sono in grado di contenere ed orientare qualsiasi iniziativa e continuano nei fatti a rispondere e a dipendere dall’Anm. Eppure l’obiettivo, per quanto possa sembrare paradossale, dovrebbe essere questo: che i magistrati con loro fazioni, le loro rivalità, i loro personalismi e i loro legami impropri con la politica e l’informazione, scompaiano dai titoli dei giornali che oggi occupano non meno dei politici e certo anche più degli uomini di spettacolo. E che nelle cronache si parli solo, in modo più neutro, dei processi in modo che i cittadini, che oggi hanno poca fiducia nei giudici, comincino ad averne di più in quella che è la loro tutela: impersonale, obiettiva e uguale per tutti, la giustizia. E, per non contraddirsi, non servirebbe più allora un articolo come questo, firmato da un magistrato. *Magistrato Cronisti zerbini, politici succubi: la dittatura delle toghe non cadrà di Iuri Maria Prado Il Riformista, 28 maggio 2020 La magistratura militante non si oppone solo a qualsiasi riforma dell’amministrazione della giustizia rivolta a limitare i privilegi della corporazione: si oppone anche, con pari energia, a ogni iniziativa di maggior tutela dei diritti delle persone sottoposte a giustizia. La ragione è molto semplice e non ha niente a che fare con le sempre sbandierate esigenze di giustizia complessiva: il rafforzamento dei diritti degli imputati, dei condannati, dei detenuti e la compiuta salvaguardia delle loro facoltà di difesa diminuiscono la forza del potere inquirente. È tutto, tragicamente, qui. L’assoluzione è fastidiosa perché denuncia la fallibilità dell’accusa, che in quest’ottica è necessariamente contrastata con mezzi pretestuosi e sleali: la difesa come attentato alle ragioni della giustizia confuse con l’interesse di chi la amministra. Si tratta di una vera e propria deviazione di potere, perché non c’è nessuna riprova - anzi c’è prova del contrario - che lo Stato di diritto democratico si affermi nel trionfo dell’accusa pagato col sacrificio dei diritti della persona. Il fatto che la magistratura deviata non operi clandestinamente dimostra anche meglio quant’è potente. Essa coltiva e protegge quel suo interesse nell’efficace sintonia di due canali: il primo è quello più appariscente sulla ribalta del dibattito pubblico, con il sistema dell’informazione asservito a orientarlo e con la classe politica intimidita e disciplinata nell’autocensura; il secondo canale è quello che percorre il ventre dello Stato e si dirama nei posti del potere vero, dove le leggi passano o si fermano, e a dirigere il traffico c’è appunto la magistratura distaccata al lavoro di macchina. La prepotenza di questo complesso sostanzialmente reazionario è simile a quella che nei sistemi di democrazia incerta esercitano i militari, con la differenza che la capacità intimidatoria della magistratura deviata è anche più efficace perché non ha bisogno di dimostrarsi in modo strepitoso coi carri armati che assediano i palazzi del potere e minacciano la cittadinanza: basta e avanza avere alle dipendenze un altro tipo di esercito, quello togato, che è composto sicuramente da ottime persone che però possono aggredire la tua vita e rinchiuderla in una cella. Le istanze anti-riformatrici della magistratura deviata non sono sorrette da una migliore dottrina, ma da quel brutale presupposto di potere: ti arrestano, ti giudicano, ti condannano, e in modo non dichiarato ma perfettamente operante è quel carico di potere a pesare sulla bilancia delle riforme. Non c’è più scienza a rendere possibile l’imperio della magistratura deviata e a impedire che se ne contesti la continuazione, non c’è più competenza, più cultura della giurisdizione: c’è il ritrarsi e il sottomettersi di una società intimorita. C’è la paura. “Giusto che la politica nomini i pm antimafia. Ma qualche boss ne ha deciso la carriera” di Felice Manti Il Giornale, 28 maggio 2020 Colloquio con Alberto Cisterna. L’affondo del giudice: “Il processo Palamara sarà un bagno di sangue per molti colleghi. Alcuni sono vittime di una vorace e insaziabile ambizione”. “Se il processo a Perugia dovesse arrivare in dibattimento c’è da attendersi un bagno di sangue con tante toghe nello scomodo ruolo toccato al povero Forlani, torchiato a Milano e immortalato con la bava che solcava la bocca resa secca dall’imbarazzo”. Alberto Cisterna oggi è presidente di Sezione al Tribunale di Roma. Le sue parole al Riformista fanno molto rumore. Ma l’ex pm antimafia le conferma al Giornale, ora che le intercettazioni sfiorano la Calabria, sua terra d’origine, e alcuni personaggi di governo del centrosinistra. Come Maria Elena Boschi, che nel 2017 organizzò assieme a Palamara la partita del cuore a san Luca, o come l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti, il cui nome rimbalza nei brogliacci all’esame del Csm. A quella che sembra una gigantesca chiamata in correità Cisterna aggiunge: “Confermo la prognosi. E il coraggio mostrato dalla magistratura di Perugia è garanzia che sarebbero le forche caudine per molte toghe e non solo. Ciò posto resta il problema. Una parte, purtroppo non marginale, della magistratura italiana non soffre di correntismo, ma di un vorace e insaziabile carrierismo. Lo hanno denunciato componenti autorevoli dell’Anm ed è un giudizio che condivido. Da questo punto di vista - sottolinea il magistrato calabrese - una riforma della legge elettorale del Csm che penalizzi le correnti associative e la loro capacità di rappresentanza rischia di essere inutile o poco producente. A loro modo i gruppi associativi, come sede di vero dialogo e confronto, sono capaci persino di moderare le ambizioni, mettono in luce colleghi di grandi capacità e di eccelse doti professionali”. Maggio è il mese in cui si ricorda Giovanni Falcone, anche lui vittima dei veleni torrentizi prima che della mafia. “L’ho conosciuto, in queste occasioni associative a partire dal 1988 e sino al 1991, un regalo altrimenti irraggiungibile. Così, se non si prestano al servilismo della cooptazione, le correnti mitigano anche il tarlo che rode e affanna troppi magistrati, la convinzione di essere ciascuno insuperabile giurista ed eccelso organizzatore. È un tarlo che la riduzione al silenzio dell’associazionismo alimenterebbe a dismisura. Senza considerare che, come per il crollo dei partiti, prenderebbero piede altre forme di aggregazione e pressione in gran parte illecite o clandestine”. E quando citiamo le intercettazioni in cui Palamara evoca una specie di P2 sospira: “Come se non bastassero le tante, grandi e piccole P2 che minacciano da sempre la magistratura italiana”. Ma è sulle parole captate che riguardano Minniti e il procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero De Raho e all’idea che anche nell’Antimafia si faccia carriera grazie alle correnti che si rabbuia: “Guardi, ho avuto l’onore di lavorare con Pierluigi Vigna, poi, con Piero Grasso e prima ancora che divenisse procuratore nazionale con Franco Roberti, gli ultimi due con prestigiose carriere politiche. Come loro Nitto Palma, parlamentare e ministro della Giustizia, o Alberto Maritati, anch’egli parlamentare e sottosegretario. Tutti provenienti dalla Procura nazionale. La lotta alla mafia è tema così centrale nella vita del Paese che sarebbe finanche pericoloso che la politica ne affidasse le sorti solo ai magistrati, senza interloquire sulle loro nomine al fine di garantire alla nazione procuratori all’altezza. Lo prevede la stessa Costituzione con all’interno del Csm una qualificata presenza di laici. Quindi non mi scandalizza che un parlamentare del rango di Marco Minniti, pure lui ministro e con svariati incarichi di governo, interloquisca su queste nomine. Discorso a parte è se, poi, le nomine siano sempre quelle giuste o non prevalgano meccanismi spartitori anche a questa latitudine, il che sarebbe un dramma”. E intanto la ‘ndrangheta, che qualche toga l’ha corrotta, se la ride... “Un magistrato autorevole come Nicola Gratteri lo ha denunciato apertamente e di recente e ci devo credere. Certamente in tutta Italia la corruzione sta soppiantando le cosche e i soldi hanno più appeal dei santini. Tutto va bene, a condizione che le cosche non ne approfittino, come hanno fatto, per inserirsi nelle faide tra magistrati e nelle lotte per le carriere. Nel qual caso ridono a crepapelle”. Giusto cambiare l’abuso d’ufficio. Parlano Castaldo, Sgubbi, Visconti di Ermes Antonucci Il Foglio, 28 maggio 2020 Alla fine anche il premier Giuseppe Conte sembra essersi convinto dell’esigenza di riformare il reato di abuso d’ufficio per liberare la pubblica amministrazione dalla paralisi e favorire il rilancio del Paese. “I funzionari pubblici, pur in un’ottica di rigore e trasparenza, devono essere incentivati ad assumersi le rispettive responsabilità - ha scritto il premier in una lettera pubblicata sul Corriere della Sera - Faremo in modo di evitare che sui funzionari onesti gravi eccessiva incertezza giuridica, ad esempio circoscrivendo più puntualmente il reato di abuso d’ufficio e la medesima responsabilità erariale”. Resta ovviamente da vedere se e come questo annuncio si tradurrà in fatti concreti, ma nel frattempo alcuni tra i maggiori giuristi in materia valutano positivamente l’apertura del premier. “Finalmente ci si è resi conto di come le norme penali incerte creano paralisi, specialmente nella pubblica amministrazione”, dichiara al Foglio Filippo Sgubbi, docente di Diritto penale all’Università di Bologna. “Nell’ambito della Pa - aggiunge il docente - la norma penale trascina con sé il danno erariale, quindi siamo di fronte a una tenaglia dalla quale poi il pubblico funzionario non esce, se non con l’inerzia, cioè non firmando assolutamente nulla”. Per Sgubbi la norma che regola l’abuso d’ufficio (l’articolo 323 del codice penale) andrebbe riformulata descrivendo in dettaglio le condotte punite: “In passato la norma è stata riformata nel senso di una maggiore tipizzazione, ma in maniera non sufficiente rispetto alle iniziative delle procure. Bisogna tipizzare di più, quasi a livello di mera elencazione delle condotte punite”. Anche Andrea Castaldo, docente di diritto penale all’Università di Salerno e coordinatore di una commissione di studio dedicata proprio alla riforma dell’abuso d’ufficio, giudica favorevolmente la proposta del premier Conte: “Oggi il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizi, si trova ad assumere decisioni in materie complicate da una normativa kafkiana. Allora, per non sbagliare, rallenta l’output decisionale, ad esempio chiedendo pareri o l’intervento dell’avvocatura dello Stato. Questo significa dispersione di energie, dilazione temporale e fuga dal potere di firma”. Per Castaldo bisognerebbe restringere l’area di applicazione dell’articolo 323 del codice penale, che oggi in maniera automatica punisce qualsiasi violazione di norma di legge o di regolamento: “L’articolo dovrebbe applicarsi solo al caso di violazione di una norma che abbia attinenza con il procedimento decisionale in questione”. Un secondo correttivo potrebbe consistere nel “prevedere che il pubblico ufficiale, di fronte alla difficoltà di interpretare una norma, possa chiedere un parere a un organo consultivo della pubblica amministrazione sull’interpretazione di quella norma. Se il pubblico ufficiale si adegua al parere, che deve essere reso entro trenta giorni, allora automaticamente viene esclusa l’ipotesi di abuso d’ufficio”. Ovviamente non si tratta di garantire impunità a qualche furbetto, come sicuramente sosterrà qualche forcaiolo, ma solo di far funzionare una normativa che ad oggi si è rivelata fallimentare: “Con la nostra commissione - spiega Castaldo - abbiamo mappato tutti i processi per abuso d’ufficio avvenuti nel periodo 2012-2017 nel distretto della Corte d’appello di Salerno e abbiamo visto che il numero di procedimenti che finisce con la condanna è solo il 20 per cento. In altre parole, la montagna partorisce un topolino”. Più drastico Costantino Visconti, docente di Diritto penale all’Università di Palermo: “La strada maestra sarebbe quella dell’eliminazione del reato. Non ci sarebbe nessun horror vacui. Le percentuali di riuscita del reato sono bassissime, questo significa che c’è una pulsione irresistibile di controllo penale, anche animato dalle migliori intenzioni, ma che alla fine provoca risultati insoddisfacenti e solo rallentamenti”. “La riforma del 1997 - spiega Visconti - ha dato tutto quello che si poteva dare sul piano della tipicità. In una prima fase la giurisprudenza si è adeguata a questa tipizzazione più stretta, ma poi ha ricominciato a interpretarla estensivamente. Viene considerata violazione di legge anche la violazione di una norma costituzionale come l’articolo 97, quindi qualsiasi condotta che, secondo la magistratura, viola il buon andamento o l’imparzialità può rientrare nell’area della punibilità. Ma già solo l’apertura di un’indagine crea l’effetto di congelamento delle attività amministrative”. Il problema principale, secondo il docente, è che “finiamo sempre per prendere la scorciatoia penalistica, ma in questi casi andrebbero svolti altri tipi di controllo, in particolare da parte della pubblica opinione. Si tratta di settori riservati all’attività discrezionale della pubblica amministrazione, su cui devono giudicare i cittadini”. Per Visconti “questa potrebbe essere l’occasione proprio per una radicale depenalizzazione, necessaria per efficientare la giustizia penale e depurare il Paese da questa ipoteca permanente”. Legittimo il divieto di disapplicare la confisca per contravvenzioni ambientali di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2020 Corte di cassazione, Terza sezione penale sentenza 27 maggio 2020 n. 15965. È legittimo il divieto di disapplicazione della confisca per gli illeciti ambientali. Anche per quelli contravvenzionali. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 15965 della Terza sezione penale depositata ieri. La Corte ha così giudicato infondato il motivo di ricorso centrato sulla presunta illegittimità costituzionale, per violazione del principio di uguaglianza, del divieto. Quest’ultimo, infatti, per la difesa, dovrebbe essere cancellato e la confisca cancellata in caso di messa in sicurezza, attività di bonifica e ripristino dello stato dei luoghi. Tanto più, sosteneva la difesa, che il Codice penale prevede la disapplicazione per una serie di reati che va dal disastro ambientale, all’impedito controllo, al traffico di materiale radioattivo, all’inquinamento ambientale. Per queste fattispecie, come effetto premiante della condotta tenuta dopo il reato, il Codice, all’articolo 452 undecies, ammette che la confisca non trova applicazione quando è stata posta in essere una condotta che rimedia alle conseguenze del reato. Impedire la disattivazione della confisca per le contravvenzioni, meno gravi dei delitti, avrebbe conseguenze pertanto del tutto irragionevoli. Per la Cassazione tuttavia va tenuta presente la distinzione tra la finalità della confisca prevista dal Codice penale e quella della riforma dei reati ambientali disposta con la legge n. 68 del 2015 (ma in realtà già presente dal 2006 con il decreto legislativo n. 152). La sentenza sottolinea infatti come la prima ha caratteristiche particolari perché è caratterizzata da una funzione risarcitorio-ripristinatoria, mentre invece la confisca del 2006 ha una natura sanzionatoria con obiettivo dichiaratamente repressivo. Per arrivare a questa conclusione, la Cassazione valorizza il fatto che la norma del Codice penale prevede che i beni confiscati devono essere messi a disposizione della pubblica amministrazione, vincolando così la loro destinazione esclusivamente alla bonifica dei luoghi. Analoga formulazione non si trova invece per quanto riguarda la confisca del Codice dell’ambiente. L’attività di bonifica, indirizzata a eliminare le fonti di inquinamento e le sostanze inquinanti, ricorda la Corte, è un’attività di solito assai onerosa per il soggetto che è chiamato a sostenerne i costi. Per questo il legislatore, osserva la pronuncia ha subordinato la disapplicazione della confisca allo svolgimento della bonifica e ha riservato l’istituto premiale solo ai delitti in grado di produrre sull’ambiente effetti disastrosi e a volte irreversibili. Escluse invece le ipotesi colpose, di solito incapaci di produrre un effetto inquinante a elevato tasso di nocività. Va poi tenuto presente, conclude la Cassazione, che sul fronte delle contravvenzioni ambientali, se non è prevista la disapplicazione della confisca, è però previsto un sistema di estinzione del reato modellato sul meccanismo del rispetto di una prescrizione in materia di sicurezza sul lavoro. La contravvenzione si estingue così osservando una serie di prescrizioni e pagando una sanzione. Illegittimo l’obbligo prefettizio di revoca della patente a chi è sottoposto a misura di prevenzione di Annarita D’Ambrosio Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2020 Possono essere, infatti, sottoposti a misure di prevenzione soggetti condannati o indiziati per ipotesi delittuose di differenti gravità. Va valutata caso per caso la necessità del provvedimento. Riguarda la revoca della patente di guida nei confronti di soggetti che sono o sono stati sottoposti a misure di prevenzione ai sensi del Dlgs 6 settembre 2011, numero 159, la pronuncia della Corte Costituzionale numero 99/2020 emessa il 27 maggio. A rivolgersi alla Consulta il Tribunale amministrativo regionale per le Marche, il Tribunale di Cagliari e il Tribunale Reggio Calabria che, con quattro ordinanze di analogo contenuto, hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 120, comma 2, del decreto legislativo 30 aprile 1992, numero 285 (Nuovo codice della strada), per contrasto con gli articoli 3, 4, 16 e 35 della Costituzione, nella parte in cui dispone che il prefetto “provvede” - invece che “può provvedere” - alla revoca della patente nei confronti dei soggetti che sono o sono stati sottoposti a misure di prevenzione. L’articolo 120 Codice della Strada, sotto la rubrica “Requisiti morali per ottenere il rilascio dei titoli abilitativi di cui all’articolo 116”, nel suo comma 1, menziona, tra i soggetti che “non possono conseguire la patente di guida” anche “coloro che sono o sono stati sottoposti […] alle misure di prevenzione previste dalla legge 27 dicembre 1956, numero 1423”. E dispone, al comma 2, che “se le condizioni soggettive indicate al primo periodo del comma 1 intervengono in data successiva al rilascio, il prefetto provvede alla revoca della patente di guida”. Ebbene il comma 2 - precisa la Corte - dello stesso articolo 120 è già stato dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza numero 22 del 2018, in base alla considerazione, che può richiamarsi anche in questo caso, ovvero che “la disposizione denunciata ricollega, in via automatica, il medesimo effetto (la revoca della patente) ad una varietà di fattispecie, non omogenee, considerato che la condanna, cui la norma fa riferimento, può riguardare reati di diversa, se non addirittura di lieve, entità”. Si sottolinea anche una evidente contraddizione: “mentre il giudice penale ha la “facoltà” di disporre, se lo ritenga opportuno, il ritiro della patente, il prefetto invece ha il “dovere” di disporne la revoca”. La Corte pertanto ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 120, comma 2, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come sostituito dall’art. 3, comma 52, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) sottolineando anche che il provvedimento prefettizio di revoca “obbligata” è destinato a produrre effetti che potrebbero anche entrare in contrasto con l’eventuale finalità, di inserimento del soggetto sottoposto a misure di prevenzione nel circuito lavorativo. Inammissibile perchè ritenuta irrilevante invece la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 120, comma 3, del d.lgs. n. 285 del 1992, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 27 Cost., dal solo Tribunale ordinario di Reggio Calabria. Toscana. Tutela della salute in carcere, gli obiettivi prioritari per il 2020 tenews.it, 28 maggio 2020 Implementazione dell’assistenza psicologica, monitoraggio delle azioni per prevenire il suicidio in carcere, recupero e reinserimento sociale, miglioramento delle condizioni di benessere psico-fisico, intensificazione della rete dei servizi e della qualità delle prestazioni, consolidamento dell’utilizzo della cartella clinica informatizzata, interventi appropriati a favore dei bisogni di salute dei minori, monitoraggio e azioni a sostegno della popolazione detenuta con problemi di tossicodipendenza e/o salute mentale, formazione professionale. Sono questi gli obiettivi prioritari per la tutela della salute in carcere per il 2020, individuati dalla delibera approvata dalla Giunta nella seduta di ieri pomeriggio, dando continuità alle precedenti delibere di programmazione relativa agli anni 2017-2019. La delibera assegna anche 314.716,80 euro, per definire e realizzare progetti annuali finalizzati a rafforzare l’assistenza psicologica nelle carceri, così suddivisi: € 201.216,00 per l’Asl Centro; € 83.751,00 per l’Asl Nord Ovest; € 29.749,80 per l’Asl Sud Est. “La nostra Regione è sempre stata molto attenta a queste problematiche, garantendo l’assistenza sanitaria a tutti i cittadini, sia liberi che detenuti - spiega l’assessore per il diritto alla salute, Stefania Saccardi. È per questo motivo che abbiamo voluto dare continuità a obiettivi e a progetti individuati negli anni precedenti e che, nell’anno in corso, potranno essere perfezionati e monitorati, per valutare il loro impatto sullo stato di salute della popolazione carceraria, adulta e minorile. Abbiamo sempre creduto nella promozione della salute in ambito penitenziario, nell’inclusione sociale senza distinzione di provenienza o di condizione di malattia, e nel reinserimento lavorativo, così come abbiamo sempre investito nella prevenzione primaria, secondaria e terziaria e nell’individuazione dei fattori di rischio, che possono causare disagio psico-fisico. Questo è stato possibile grazie al dialogo continuo con gli organi della Magistratura e dell’amministrazione penitenziaria, sia in seno all’Osservatorio regionale permanente sulla Sanità penitenziaria, sede di momenti programmazione, sia attraverso specifici tavoli interistituzionali, che hanno portato alla stesura di appositi protocolli, utili alla costruzione di progetti, che tendono a conciliare le esigenze di tutela della sicurezza sociale con quelle di cura e riabilitazione del paziente”. I beneficiari delle azioni, indicate dalla delibera, sono detenuti senza distinzione di provenienza o di condizione di malattia, adulti e minori, pazienti psichiatrici destinatari di misure di sicurezza, persone condannate in misura alternativa presenti sul territorio regionale, minori interessati da provvedimenti giudiziari, operatori sanitari e sociali operanti negli istituti penitenziari e nei servizi territoriali, personale penitenziario, personale delle strutture di accoglienza e di cura e riabilitazione. Sicilia. Fp-Cgil: “Infermieri carceri, situazione incresciosa: si stabilizzi il personale precario” palermotoday.it, 28 maggio 2020 Il sindacato ha inviato una nota all’assessore regionale alla Salute Ruggero Razza e al provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Cinzia Calandrino. “Giustizia, dignità ed equità. Principi che vanno garantiti a coloro i quali, da diversi decenni, continuano ad esercitare il prezioso contributo professionale e umano nel sistema carcerario siciliano in condizioni ambientali non facili”. Fp-Cgil, in una nota indirizzata all’assessore regionale alla Salute Ruggero Razza e al provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Cinzia Calandrino, evidenzia “l’incresciosa condizione nella quale si trovano, ormai da parecchi anni, gli addetti della dirigenza e del comparto sanitario, impegnati a prestare la loro attività nelle carceri dell’Isola”. “Se da un lato i ritardi hanno penalizzato oltre misura i professionisti sanitari di tutte le discipline, in servizio negli ambulatori delle case circondariali - afferma il segretario generale, Gaetano Agliozzo - dall’altro l’evoluzione normativa, non ultima la legge 75/2017, stante la situazione emergenziale dettata dalla pandemia in atto, permetterebbe di rivedere alcune posizioni e pronunciamenti del Governo Nazionale. È bene fugare anche ogni dubbio circa le risorse da impiegare, già in gran parte storicizzate, e che comunque, essendo un servizio istituzionalizzato, non deve essere soggetto ai conti del vivandiere. Ed è inaccettabile e anacronistico mantenere l’indirizzo tracciato delle recenti bocciature in finanziaria - aggiunge Agliozzo - lasciando lo status precariale per tanti operatori sanitari in applicazione della L. 9 ottobre 1970 proprio perché in contrasto con la L. 75/2017 (Riforma Madia) il cui spirito è quello di chiudere la lunga e penosa parentesi del precariato, dei contratti atipici con la valorizzazione delle professionalità acquisite e forgiate nel tempo e di altri strumenti esplicativi come la circolare 3/2017 del Ministero della Pubblica Amministrazione. Inoltre possono essere utilizzate le risorse ordinarie previste per il fabbisogno delle assunzioni, triennio 2018/20 di recente prorogato al 2021. Nello specifico, il paragrafo 3.2.9 della citata circolare 3/2017 “Rapporti svolti con Enti Riorganizzati”. Infatti il personale della Medicina Penitenziaria, assunto secondo quanto previsto dalla L. 9 ottobre 1970, può rientrare nei parametri delle norme in questione volte alla stabilizzazione”. “Alla luce di quanto esposto - conclude Agliozzo - bisogna insistere ed investire sulla equiparazione delle attività svolte in regime di parcellista nelle case circondariali a quella dei precari storici degli Enti Pubblici e della Sanità. Ciò costituirebbe un primo atto moralmente risarcitorio nei confronti di donne e uomini che mettono la loro professionalità a disposizione di un “prossimo” molto particolare e poco “prossimo” a questa società, ricevendo in cambio lavoro precario con retribuzione a cottimo”. Roma. Distanziati? Mica tanto... il virus delle celle piene di Lucio Boldrin* Avvenire, 28 maggio 2020 La pandemia ci ha portato a riflettere sul cambiamento della nostra socialità. Un processo dal quale non dovrebbe essere esente la realtà carceraria, invece in carcere il martellante richiamo al distanziamento fisico non vale, con la sola, illogica eccezione delle Sante Messe: si tratta di non più di 15-20 persone per celebrazione, persone che condividono quotidianamente stanze dove si trovano in 5 o 6 in uno spazio di 25 metri quadrati, giocano a calcio insieme, colloquiano tra loro nei corridoi per ore, giocano a carte o a pingpong, lavorano insieme, studiano insieme. Insomma, vivono l’uno accanto all’altro per tutto il giorno. Però alle Messe viene imposto il distanziamento fisico e un numero limitato di partecipanti. Ringraziando Dio, le altre misure prese sembrano aver funzionato: nessun caso di positività si è verificato, fino a oggi, a Rebibbia Nuovo Complesso, dove sono presenti più di 1.500 detenuti su una capienza regolamentare di 1220. Si tratta, in realtà, dei dati attuali, che risentono dell’effetto di alcune detenzioni domiciliari decise per rischio di contagio da Covid-19. In altri periodi, il numero dei detenuti è stato anche superiore a 1.600 unità. Da qui la necessità di guardare oltre la contingenza e impegnarci per offrire ambienti più idonei a tutti. Non solo ai reclusi, ma anche a coloro che in carcere lavorano. Come? Utilizzando ciò che la legge già permette. A cominciare da un maggior ricorso alle pene alternative: domiciliari; braccialetto elettronico; lavoro esterno presso associazioni e cooperative; accoglienza nelle Rems per i malati psichici; comunità con un progetto di recupero per i tossicodipendenti; applicazione delle norme che prevedono i domiciliari o l’affidamento ai servizi sociali per le persone sopra i 75 anni e per coloro che hanno una pena da scontare inferiore a 4 anni; minor ricorso alla custodia cautelare in carcere; sanzione economica al posto del ritorno in cella per residui di pena brevi, dopo anni in cui magari l’ex detenuto si è rifatto una vita, una famiglia e ha trovato un lavoro onesto. C’è poi il tasto dolente delle “carceri fantasma”, circa 40 da Nord a Sud: costruite, inaugurate e mai utilizzate, oppure aperte e sfruttate solo in parte. Dismesse. Demolite. Uno spreco di denaro pubblico e di spazio, in un Paese dove la maggior parte dei penitenziari è sovraffollata e i detenuti, insieme con gli agenti, vivono in condizioni al limite della sopportabilità. Eppure, secondo la nostra Costituzione, “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ancora non ci siamo. *Cappellano Casa circondariale maschile “Nuovo Complesso” di Rebibbia Bologna. Carcere, al via la ripresa delle attività di Giorgio Pirani incronaca.unibo.it, 28 maggio 2020 La direttrice: “Abbiamo fatto una serie di sopralluoghi per garantire l’igiene pubblica”. “Ritrovarci qui oggi significa una cosa: che abbiamo tutti voglia di ripartire e andare avanti per lasciarci alle spalle tutti i fatti avvenuti nelle ultime settimane”. Inizia così Isabella Angiuli, consigliera comunale per il Partito Democratico di Bologna, presentando la videoconferenza sulla ripartenza delle imprese operanti all’interno della Casa circondariale Rocco D’Amato, al momento sospese causa l’emergenza Coronavirus. Presenti anche Susanna Zaccaria, presidente del Comitato locale per l’area dell’esecuzione penale adulta e Marco Lombardo, assessore comunale alle attività produttive, oltre ai numerosi rappresentanti sindacali di sigle quali Cisl, Uil e Cepal. Da diversi anni all’interno del carcere sono presenti diverse aziende che assumono carcerati, come per esempio il laboratorio tessile, la lavanderia e un’officina meccanica, rimaste chiuse per l’emergenza Coronavirus e che solo in queste settimane stanno iniziando a riaprire. “Abbiamo proceduto a una serie di sopralluoghi per garantire l’igiene pubblica - ha affermato Claudia Clementi, direttrice del carcere Dozza di Bologna - la sartoria è la prima ad aver riaperto, i primi di giugno riaprirà anche l’officina meccanica, stessa cosa per la lavanderia”. Clementi fa anche il punto sul caseificio, sospeso nei mesi passati a causa di diverse mensilità non pagate ai lavoratori del carcere. “L’esperienza con la cooperativa che gestiva l’attività non è stata positiva e non ripartirà. A fine febbraio avevamo intrapreso trattative con realtà del territorio che ampliare le aziende all’interno del carcere ma l’emergenza Covid ha interrotto i colloqui che solo in questi ultimi giorni sono ripartiti”. “La chiusura di un’attività lavorativa non è mai positiva e porta sempre amarezza, soprattutto all’interno di una struttura carceraria”, precisa Salvatore Bianco di Cgil, “Siamo preoccupati per il presente e per il futuro, per questo esorto l’amministrazione a fare ogni sforzo per accelerare il coinvolgimento di una realtà economica seria per evitare un altro caso fallimentare come quello del caseificio”. Per quanto riguarda le altre aziende, la maggior parte sono al momento ferme. La Cefal, un ente di formazione, è tra queste: “Ci atteniamo alle direttive della regione e del governo. Speriamo di riaprire in tempi brevi anche con attività di presenza per quanto riguarda i laboratori e i corsi di formazioni, ovviamente in piccoli gruppi”. L’unica a essere ripartita è l’attività tessile. “Abbiamo riaperto lunedì scorso, a causa della chiusura diversi nostri accordi commerciali sono stati annullati e questo ci ha danneggiato molto, ma stiamo ripartendo e riprendendo i contatti con le aziende”, afferma la responsabile Enrica Morandi “ma il vero problema che abbiamo già da diverso tempo è che c’è poca visibilità al di fuori del carcere. Noi siamo ricercatissime e abbiamo dei riconoscimenti anche fuori dalla regione, ma abbiamo un serio problema di smerciare i nostri prodotti. Per questo chiedo a questa commissione di tenere presente questo fattore che per noi è fondamentale per la nostra sopravvivenza all’interno del carcere”. “Il carcere fa parte integrante della nostra città e della comunità e anche nella fase complessa avvenuta nel carcere in questi mesi abbiamo sempre cercato di fare il possibile per garantire delle condizioni minime di sicurezza”, afferma Marco Lombardo, assessore comunale alle attività produttive “Sono felice che siano ripartite i colloqui per nuove aziende e soprattutto la ripresa delle attività all’interno del carcere come sta avvenendo con le altre aziende in regione, e questo dimostra come le realtà del carcere non siano secondario rispetto a quelle fuori dalla casa circondariale”. Napoli. Se il Covid fa scoprire l’umanità dei detenuti. Dai disordini alla ricostruzione di Antonio Mattone Avvenire, 28 maggio 2020 Si racconta che nei giorni in cui è scoppiata la pandemia, la moglie di un detenuto si sia presentata all’ingresso del carcere di Poggioreale chiedendo quando uscisse il marito. Alla domanda dell’agente di turno se fosse sicura che il marito dovesse essere liberato, la donna gli ha risposto con fare sicuro: “Sì, certo, mi ha telefonato poco fa!”. Il fenomeno della presenza dei telefonini cellulari all’interno delle celle è più diffuso di quanto si possa pensare. Vengono introdotti nelle carceri, per lo più dai familiari, quando vengono a far visita ai propri congiunti. Sono di dimensioni minuscole, ma si collegano ad internet e possono fare anche video, come quello girato recentemente nelle celle di Bellizzi Irpino che è diventato virale in rete. Assieme alla droga, questi mini dispositivi sono la spina nel fianco degli agenti addetti ai controlli. Qualche settimana fa, nel carcere di Secondigliano, è stato addirittura usato un drone per farli arrivare ai detenuti, e solo un’avaria al piccolo apparecchio radiocomandato ha fatto scoprire l’incursione. Probabilmente, alla base della rivolta dell’8 marzo nel carcere napoletano, più della rinuncia forzata ad incontrare i propri affetti, c’è stata la conseguente mancanza di “rifornimenti” illeciti. Bisogna anche dire che quella sommossa è stata capeggiata da un numero circoscritto di carcerati, che però sono riusciti a trascinarne negli scontri altre centinaia, provocando la devastazione della parte destra dell’istituto. Impianti elettrici e antincendio, vetrate, infermerie e suppellettili, sono stati letteralmente distrutti. Tuttavia, più della metà degli ospiti di Poggioreale non ha preso parte alla sommossa, e c’è anche chi ne ha preso le distanze, condannando le distruzioni e le violenze. Qualcuno ha compreso che le misure restrittive, come la sospensione dei colloqui, sono state prese per tutelare essi stessi e i propri familiari, ed oggi che si intravede una riapertura, seppur parziale, delle visite con i parenti è pronto a rinunciarci. “Una volta tanto voglio fare una cosa buona per la mia famiglia - mi dice Salvatore - non voglio metterli a rischio di farli contagiare”. Hanno apprezzato la novità delle videochiamate e sperano che questa modalità possa continuare anche in seguito. Alcuni detenuti si sono offerti di donare il sangue, altri invece hanno avviato una raccolta di soldi, 1.607 euro, già consegnati alla direzione dell’ospedale Cotugno. Sono informati e seguono con attenzione le vicende della pandemia, nei loro discorsi si sente parlare di “Fase 2” e si spera nell’efficacia del plasma per fermare il Coronavirus. Sensibilità e disponibilità dimostrate prevalentemente nei reparti contrassegnati da un alto tasso di trattamento, come il padiglione Genova. Si tratta dei reclusi che sono più seguiti e che partecipano a progetti di reinserimento e di risocializzazione. Questa è la dimostrazione che per interrompere il contagio della violenza e per attivare veri percorsi di riscatto, occorre investire in iniziative di recupero efficaci, che abbiano un impatto vero sulla vita delle persone. Qualcuno di questi detenuti ha parlato di “modello Genova”, parafrasando la ricostruzione del ponte nel capoluogo ligure al reparto di appartenenza. Ma qui non si tratta di erigere nuove costruzioni, ma di creare ponti tra il prima e il dopo la detenzione, per poter riprendere o iniziare una vita onesta. Per fare questo c’è bisogno di incrementare il numero di operatori penitenziari. Finalmente, dopo oltre 25 anni, è stato bandito il concorso per i direttori, e adesso occorre potenziare la presenza di educatori, psicologi e assistenti sociali. Chi è stato trascinato nei disordini di marzo, l’ha fatto per paura dei capo rivolta o per emulazione. “Ho chiesto ad uno dei rivoltosi perché avesse partecipato alle violenze, mi dice un detenuto, ma non mi ha saputo rispondere, non lo sapeva neanche lui”. Oggi a Poggioreale c’è un clima di ripresa, e fervono i lavori per ricostruire le zone distrutte. Anche gli agenti sono coinvolti in questa atmosfera di rinascita, non hanno reagito alle violenze con violenza, come sarebbe potuto accadere alcuni anni fa. Tuttavia c’ è anche chi, gravemente malato, con un residuo di pena di 30 giorni da scontare, si è visto respingere l’istanza per poter trascorrere le ultime settimane della pena in detenzione domiciliare. “Forse perché non sono un mafioso”, mi dice con amarezza. Questo spaccato è la dimostrazione che c’è bisogno di un approccio e di un impegno diverso nell’occuparsi delle carceri, di cui sentiamo tanto parlare solo quando accadono rivolte o ci sono vicende che riguardano mafiosi e camorristi. E sono pervase da un silenzio assordante quando si tratta di mettere in campo azioni per recuperare esistenze marginali segnate dal disagio e dal male. Napoli. La Uil: l’area di Bagnoli non diventi un polo carcerario Di Paolo Grassi Corriere del Mezzogiorno, 28 maggio 2020 Sgambati: “Le strutture per detenuti sono necessarie ma forse si poteva trovare un’alternativa per l’insediamento Giusto l’allarme di Invitalia, ora intervenga Provenzano”. “Un secondo carcere nell’area di Bagnoli? È previsto da un accordo tra dicasteri, è vero, ma per noi è un errore. Quindi deve intervenire, e subito, il ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano, che guida la Cabina di regia nazionale per la riqualificazione della zona Occidentale. Ossia colui sotto la cui giurisdizione ricade l’organismo deputato a far ragionare e dialogare le istituzioni locali e quelle nazionali. Non è pensabile che in una vicenda così delicata come è la rigenerazione urbana di Napoli Ovest, già caratterizzata da decenni di fallimenti, ancora oggi la mano destra non sappia cosa fa la mano sinistra. O quantomeno che non vi sia condivisione sulle scelte adottate”. Giovanni Sgambati, segretario generale della Uil di Napoli e della Campania, ha ben scolpito nel suo Dna sindacale il ruolo di guida delle tute blu. “Di quei lavoratori del siderurgico che hanno accettato di chiudere essi stessi l’ex Italsider, la fabbrica simbolo di Napoli, per dare una prospettiva di futuro a Bagnoli e a un’intera fetta del capoluogo”. L’allarme “lanciato da Invitalia, l’Agenzia nazionale per lo sviluppo di proprietà del ministero dell’Economia, e reso noto ieri dal Corriere del Mezzogiorno - riprende Sgambati - non può e non deve essere sottovalutato. Anzi, per dirla tutta, non credo sia per niente logica l’ipotesi di promuovere la bonifica e la rinascita di un’area, ricadente nel perimetro del sito di interesse nazionale o adiacente, che nei fatti assomigli più a un polo carcerario che a una nuova Montecarlo... Con tutto il rispetto per le esigenze, importantissime, del sistema penitenziario italiano, è possibile che non vi siano altre zone dove insediare una struttura per la detenzione? Possibile che nessuno abbia ragionato dell’esistenza dell’istituto minorile di Nisida e, spostandosi di qualche chilometro, di quello femminile di Pozzuoli?”. Un sospiro e il leader Uil riattacca: “È chiaro che l’intera area, come paventa Invitalia, rischia di perdere appeal. L’attrattività degli investimenti è un fattore importante, decisivo. Ripeto, massimo rispetto per le esigenze del ministero di Grazia e Giustizia, ma non c’è altro luogo se non l’ex caserma Battisti per attivare un nuovo istituto penitenziario?”. Poi Sgambati ribadisce l’invito al ministro: “Se un’Agenzia governativa, Invitalia, controllata dal Mef, pone oggi una questione così rilevante rispetto a un’iniziativa che vede coinvolti almeno due ministeri, vuol dire che non c’è stata una concertazione preventiva. Fosse anche solo di maniera. Certo, la caserma Battisti non rientra nel perimetro di competenza di Invitalia e dunque del commissariato di governo. Ma è adiacente a essa e lo sviluppo di un’area non si costruisce per davvero se non si fa sistema. Pure nelle decisioni. Solo Provenzano, concludo, può prendere in mano questa vicenda”. Grosseto. Soddisfazione della Diocesi per il nuovo carcere: “Vecchia struttura inadeguata” ilgiunco.net, 28 maggio 2020 “Grazie a tutti coloro che hanno permesso la realizzazione di questa nuova possibilità”. Così don Enzo Capitani, dal 1993 cappellano della casa circondariale di Grosseto, commenta la notizia della firma, in programma domani (28 maggio) a Roma dell’atto con cui sarà dato il via libera al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di acquisire la caserma Barbetti, lungo via Senese a Grosseto, per convertirla in nuova struttura carceraria. La Chiesa di Grosseto in questi anni, sia attraverso il vescovo Rodolfo che ha raccolto e rilanciato gli appelli dei detenuti e del personale, che attraverso la voce di don Enzo, a più riprese aveva sollecitato le istituzioni competenti a trovare una soluzione adeguata per la casa circondariale di Grosseto, la cui struttura di via Saffi è totalmente inadeguata per ipotizzare attività di rieducazione e recupero. A dicembre, per dare un ulteriore segnale, era stato ospitato, nell’atrio del palazzo vescovile, un mercatino di lavori natalizi realizzati dai detenuti nell’ambito del laboratorio di disegno portato avanti grazie all’impegno di alcuni volontari. Era stato anche quello un tentativo di accendere i riflettori su una realtà che finora ha occupato uno spazio nel cuore della città, ma che spesso resta invisibile. Il Vescovo aveva seguito con discrezione le fasi che hanno preparato questo esito, per le quali molto si era impegnata l’ex prefetto Cinzia Torraco e che poi l’attuale prefetto, Fabio Marsilio, ha portato avanti con altrettanta tenacia. Per questo, la notizia della imminente firma dell’atto da parte dei ministri della Giustizia (Bonafede) e della Difesa (Guerini) e del direttore dell’Agenzia del Demanio, è accolta con soddisfazione. “Una comunità che sa prendersi cura dei suoi membri più fragili è forte, unita - commenta don Enzo Capitani - è una comunità che fonda la sua esistenza sulla speranza del futuro e sulla possibilità che ogni persona ha il suo contributo da offrire. E non c’è dubbio - prosegue il cappellano - che un carcere che cura l’inserimento del carcerato, è luogo in cui la dignità umana diviene fondamento per nuove possibilità di vita per chi ha sbagliato”. “Mi unisco alla soddisfazione del cappellano - commenta il vescovo Rodolfo Cetoloni. In questi anni la Chiesa locale ha cercato di fare la sua piccola parte nel tenere viva l’attenzione su questa realtà garantendo la presenza continua di un sacerdote. Credo che questo risultato sia un successo di tutta la comunità grossetana, la cui qualità di vita passa anche da scelte che promuovono la dignità delle persone. Anche chi ha sbagliato deve essere aiutato a reinserirsi e a riparare l’errore compiuto. Una struttura carceraria all’altezza saprà assolvere meglio a questa funzione”. Trani (Bat). Eletta la Garante comunale dei detenuti, è Elisabetta De Robertis comune.trani.bt.it, 28 maggio 2020 Dopo Lecce, anche la città di Trani ha eletto in Consiglio comunale il garante dei diritti delle persone private della libertà personale. La scelta dell’assemblea cittadina è ricaduta su Elisabetta De Robertis, avvocato, criminologo, mediatore, esperto in politiche non repressive per la sicurezza. La De Robertis aveva inviato la propria candidatura a seguito dell’avviso pubblico emanato dal Comune di Trani, conseguenza dell’approvazione del Regolamento comunale del garante per i diritti delle persone private della libertà personale approvato il 26 aprile 2017. È stata eletta con 11 voti favorevoli, mentre 2 sono state le preferenze per l’altro candidato in lizza, Alessandro Pascazio. Sette le schede bianche, tre le schede nulle. Al garante dei diritti dei detenuti sono attribuite funzioni di: osservazione e vigilanza diretta; di promozione di opportunità di partecipazione alla vita civile ed alla fruizione dei servizi comunali delle persone private della libertà personale (con particolare riferimento ai diritti fondamentali, al lavoro, alla formazione, alla cultura, all’assistenza, alla tutela della salute, allo sport); di promozione di iniziative e momenti di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani dei detenuti e sul tema dell’umanizzazione della pena detentiva; di promozione di iniziative congiunte con altri soggetti pubblici e con l’associazionismo locale. Sulmona (Aq). I Sindacati: “detenuti trasferiti da altri istituti, violate norme anti-Covid” reteabruzzo.com, 28 maggio 2020 Sul trasferimento di detenuti nel carcere di Sulmona, che non sarebbe avvenuto nel rispetto delle norme anti-coronavirus, i sindacati della polizia penitenziaria proclamano lo stato di agitazione e chiedono per questo caso chiarimenti all’amministrazione penitenziaria. I rappresentanti di Osapp, Cisl-Fns, Uil-Pa, Uspp-Cnpp, hanno inviato una nota al Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per il Lazio, Abruzzo e Molise, per evidenziare una sorta di discriminazione subita in tempi di Covid dalla Direzione del carcere di Sulmona. I sindacati si dicono “esterrefatti e preoccupati” perché per gli ultimi due detenuti trasferiti nel penitenziario di Sulmona non sarebbero state seguite le indicazioni prescritte dal protocollo anticovid. I sindacati si chiedono ancora stante la caratteristica del detenuto assegnato in preda, tra le altre cose, ad un evidente decadimento psichico e già autore, sia all’interno che all’esterno dell’Istituto sulmonese di gravi disordini se addirittura non sia stata effettuata la richiesta pratica pre triage. Su questi casi i sindacati chiedono chiarimenti all’amministrazione penitenziaria, ritenendo che non sarebbero state osservate le disposizioni anticoronavirus. Novara. Coronavirus, tamponi in carcere per tutelare la salute di detenuti e agenti novaratoday.it, 28 maggio 2020 Il modello organizzativo adottato nell’Asl per la tutela della salute in carcere è finalizzato a garantire un servizio di qualità e di garanzia adeguato ai variegati bisogni che caratterizzano la popolazione detenuta. Obiettivo essenziale del Servizio di Sanità Penitenziaria è la promozione della salute dei detenuti, attraverso l’integrazione degli interventi rivolti alla prevenzione, cura e riabilitazione, con quelli relativi alle altre aree che interessano la persona detenuta, cioè lavoro, istruzione, cultura, etc. L’attività di prevenzione primaria si espleta attraverso un controllo costante sul sistema igienico e alimentare, mentre quella di prevenzione secondaria avviene attraverso test di screening (test di Mantoux per la tubercolosi e quelli per il riscontro dell’infezione hiv, ecc…) insieme ad accertamenti precoci per la prevenzione del diabete, dell’ipertensione arteriosa e delle malattie mentali. In tale quadro di riferimento si sono inserite le misure per il contenimento del contagio da Covid 19 sulla base delle direttive dell’Istituto Superiore della Sanità e dell’Assessorato alla Sanità della Regione Piemonte: la situazione emergenziale ha imposto uno stretto confronto con la Direzione dell’Istituto per perseguire l’obiettivo primario di evitare che la pandemia si scatenasse nel carcere, con le conseguenti prevedibili e gravi ripercussioni anche sull’ordine e la sicurezza. Tra le azioni assunte dall’Asl NO a salvaguardia della salute pubblica e di quella del singolo individuo, d’intesa con la Direzione dell’Istituto, sono stati eseguiti gli esami virologici (tamponi) a tutto il personale della Casa Circondariale (Corpo di Polizia Penitenziaria - Uffici - Cucina) e ai detenuti in semilibertà, presso la tensostruttura messa a disposizione dall’ Amministrazione Penitenziaria. Nello specifico in sei sedute programmate sono stati eseguiti 230 tamponi; la preparazione del materiale, dall’inserimento dei dati sulla piattaforma Covid alla fornitura dei relativi dispositivi di protezione individuale per l’esecuzione dei tamponi è avvenuta a cura del Servizio di Igiene e Sanità Pubblica di Novara. Ogni persona sottoposta a test ha ricevuto (e controfirmato) l’esito in busta chiusa con relativo nome cognome recapitato presso la segreteria della Casa Circondariale. È prevista l’effettuazione di ulteriori tamponi per i nuovi agenti entrati in servizio da pochi giorni nel corpo di polizia penitenziaria e per alcuni del gruppo di polizia penitenziaria addetti alla sorveglianza dei detenuti soggetti all’art. 41bis. “È doveroso un ringraziamento al personale dell’Amministrazione Penitenziaria, al Direttore della Casa Circondariale, dott.ssa Rosalia Marino che ci ha messo a disposizione la tensostruttura (dotata di due porte ben separate una per ingresso ed una per uscita con possibilità di un percorso unidirezionale) per l’effettuazione dei tamponi e all’Assistente Capo Coordinatore Roberto Iacono per la convocazione del personale delle polizia penitenziaria - dichiara Gianni Valzer, Medico Responsabile del Servizio Sanità Penitenziaria dell’Asl No - Un grazie di cuore al personale del Servizio Igiene e Sanità Pubblica: alla Capo Sala Rossella Pepe e all’Infermiera Claudia Cavallini per la preparazione del materiale necessario all’esecuzione dei test e alle due Capo Sala Doriana Carimali e Rita Nastasi che hanno collaborato con me all’esecuzione dei tamponi”. In un momento critico ed estremamente difficile come quello vissuto in questi mesi di emergenza per la pandemia da Covid-19, essere riusciti a creare uno spirito unitario e collaborativo con la Direzione della Casa Circondariale ha consentito di ottenere un risultato concreto che dovrà continuare ad essere monitorato e tutelato: il mantenimento di una Comunità libera da Covid 19. Un ringraziamento a tutto il Personale sanitario a quello di polizia penitenziaria che hanno unito il loro impegno e i loro sforzi per affrontare e gestire l’emergenza sanitaria da Covid-19. Roma. Unindustria raccoglie fondi per le misure anti-Covid del carcere di Rebibbia di Andrea Marini Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2020 Una raccolta fondi per finanziare le misure di prevenzione anti-coronavirus nel carcere romano di Rebibbia. L’iniziativa è stata organizzata dalla sezione Consulenza, attività professionali e formazione di Unindustria, e avrà il suo punto d’arrivo giovedì 28 maggio con il webinar solidale “La leadership vincente dei Non Eroi”. All’evento parteciperà anche Gennaro Arma, comandante della Diamond Princess, la nave che è stata in quarantena per oltre un mese nel porto di Yokoama in Giappone. Gennaro Arma sarà l’ospite d’onore di “La leadership vincente dei Non Eroi” il webinar solidale a favore del carcere di Rebibbia, promosso dalla sezione Consulenza, attività professionali e formazione di Unindustria, che si svolgerà il prossimo giovedì 28 maggio, alle ore 16, in diretta streaming. Gennaro Arma, è il comandante della Diamond Princess, che è stato nominato dal capo dello Stato Sergio Mattarella Commendatore al Merito della Repubblica per come ha gestito, in piena emergenza Covid, la quarantena della nave da crociera da lui capitanata, ferma per oltre un mese nel porto di Yokoama in Giappone. Il ricavato dell’iniziativa, che si inserisce nell’ambito del progetto di Unindustria per sostenere la riqualificazione professionale dei detenuti della Casa di Reclusione di Rebibbia, attraverso i corsi di formazione ad hoc patrocinati dal Garante detenuti del Lazio, sarà interamente devoluto al carcere di Rebibbia, per aiutare la struttura a fare fronte alle spese necessarie per l’adeguamento in materia di prevenzione Covid 19. Tema del webinar saranno i “Non Eroi” ovvero coloro che, in piena emergenza sanitaria, hanno svolto al meglio il proprio “dovere”. Il webinar è rivolto ai responsabili delle aziende di tutti i settori, sensibili alle tematiche sociali, che acquistando la partecipazione al seminario on line contribuiranno all’iniziativa di solidarietà. Il webinar, organizzato dal presidente della sezione Consulenza, attività professionali e formazione di Unindustria, Roberto Santori, vedrà la partecipazione anche di Nadia Cersosimo, direttore del carcere di Rebibbia, che chiuderà il pomeriggio di lavori. Verona. Arrestati per la droga in carcere, poliziotti assolti dopo 5 anni di Laura Tedesco Corriere di Verona, 28 maggio 2020 Cade l’accusa di spaccio a due guardie: “L’hashish era per il loro uso personale”. Per due agenti di polizia penitenziaria, chiamati a far rispettare l’ordine e la legalità in un microcosmo estremamente difficile come il carcere, essere arrestati per detenzione e cessione di droga all’interno di Montorio era la più infamante e inaccettabile delle accuse. Un sospetto pesante come un macigno, “una palese e macroscopica ingiustizia - secondo il loro legale Gilberto Tommasi. Per i miei clienti tutta questa vicenda è stata un vero incubo, personale e professionale”. Sono stati necessari 5 anni di indagini per far cadere le contestazioni che pendevano in capo ai due agenti carcerari: ieri, infatti, il giudice dell’udienza preliminare Paola Vacca ha emesso nei confronti di entrambi una sentenza di assoluzione “perché il fatto non sussiste”. Significa che le prove non bastavano a reggere l’ipotesi di spaccio: una linea, questa, condivisa anche dallo stesso pubblico ministero, la dottoressa Maria Diletta Schiaffino, che si è espressa nella sua requisitoria per la non colpevolezza dei poliziotti. Per V. C., 50 anni, e il collega F. S., 42, si è trattato della seconda assoluzione sempre dall’accusa di cessione di stupefacenti all’interno del carcere - dopo quella già pronunciata nei loro riguardi dal giudice Luciano Gorra. Ai due agenti, ieri non presenti in aula, si contestava nel capo d’imputazione di aver “detenuto e ceduto all’interno del carcere di Montorio una quantità indeterminata di hashish”. Lo avrebbero fatto “in concorso tra loro in epoca prossima e precedente al 15 giugno 2015”. Al solo F. S., inoltre, si imputava di aver “acquistato da tale Ivan una tavola di hashish al prezzo di 400 euro al fine di cederla a terzi verso corrispettivo”. Anche questa seconda accusa risaliva al 2015, ma con il verdetto emesso ieri il giudice Vacca ha sancito che “da tutto il materiale raccolto nel corso delle indagini non si ricava una prova conclusiva a carico degli imputati che essi spacciassero e non si limitassero ad auto-rifornirsi e, cosa ancor più grave, che spacciassero in carcere”. In realtà, “gli imputati hanno sostenuto la tesi dell’essere consumatori diretti dello stupefacente, cosa che in effetti sono entrambi”. Per il giudice, “l’unico dato in qualche modo suggestivo di uno spaccio in carcere è costituito a ben vedere” da un’intercettazione in cui uno dei due agenti imputati si ripropone di “usare cautela e non portare niente”. Per il magistrato, “una possibile lettura di questa conversazione è che si stessero riferendo a una introduzione nell’unico luogo che fosse comune ai due e che fosse oggetto di investigazioni, vale a dire il carcere”. Ma “si tratta di un elemento che rimane isolato e non appare sufficiente a fondare una sentenza di condanna”. A far scattare l’indagine, era stato all’epoca un presunto “giro” di cellulari tra detenuti e guardie a Montorio. Venne disposta una serie di intercettazioni: da lì, emerse anche un sospetto spaccio di droga. Accusa da cui, ieri, i due agenti sono stati assolti. A 5 anni dal loro arresto. Bologna. Teatro e carcere: esperienze in scena di Massimo Marino Corriere di Bologna, 28 maggio 2020 L’incontro tra registi, detenuti e studenti sulla piattaforma Zoom. Loro che lavorano ad aprire varchi ideali nelle mura delle prigioni non potevano fermarsi davanti alle chiusure dell’emergenza sanitaria. Dopo un momento di sbandamento, in seguito al divieto di entrare in carcere per fare teatro a causa della pandemia e delle rivolte in alcuni istituti di pena, le compagnie del Coordinamento teatro carcere Emilia Romagna hanno iniziato a ritessere le fila e a continuare, in altri modi, il lavoro con i detenuti. Oggi alle 15.30 sulla piattaforma Zoom i sei registi del Coordinamento, Horacio Czertok del Teatro Nucleo di Ferrara, Stefano Tè del Teatro dei Venti di Modena, Paolo Billi del Teatro del Pratello di Bologna, Sabina Spazzoli dell’associazione Con…tatto di Forlì, Eugenio Sideri di Lady Godiva Teatri di Ravenna, Corrado Vecchi delle Mani Parlanti di Parma, incontreranno alcune classi di istituti superiori della regione a conclusione di un mese di conversazioni con gli studenti sui temi della detenzione e dei percorsi di mutamento grazie alla cultura e al teatro in carcere. Saranno circa 150 i giovani coinvolti, dopo un percorso che ha inteso rompere la separazione del carcere dalla società e far comprendere un aspetto importante della nostra società, con un approfondimento sulle azioni messe in atto durante l’emergenza sanitaria. Sembrava non si dovesse più rientrare negli istituti e che tanto lavoro, avviato e sviluppato spesso con fatica, dovesse essere sprecato. E invece i registi hanno serrato le fila, continuando a dialogare con detenuti e detenute come si poteva. A Ferrara Teatro Nucleo ha avviato un rapporto epistolare per l’elaborazione della drammaturgia di uno spettacolo. Il Teatro dei Venti ha sviluppato collegamenti in remoto con i detenuti di Castelfranco e Modena grazie alle attrezzature informatiche donate da un gruppo di cittadini. Il Teatro del Pratello dialoga con le detenute della Dozza via e-mail con proposte di scrittura riguardo i personaggi, studio del copione, indicazione di esercizi fisici, dando conto dell’attività in una rubrica su Radio Città Fujiko il mercoledì alla 17.30. Ha inoltre inviato un copione ai ragazzi del minorile del Pratello per incominciare il lavoro di memoria, in attesa della ripresa dell’inizio delle prove. Pure a Forlì i lavori stanno continuando in modalità remota. All’incontro di oggi partecipano Cristina Valenti, docente del Dams e consulente scientifica del Coordinamento, e Marco Bonfiglioli del Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria Emilia Romagna e Marche. Due ex detenuti della casa di reclusione di Castelfranco Emilia e le studentesse del gruppo Le Oltraggiose del liceo Dante di Ravenna, in scena l’anno scorso con i detenuti, dialogheranno con gli studenti di scuole di Castelfranco, Ravenna, Bologna, Ferrara, del corso di Teatro sociale della laurea magistrale in Discipline della musica e dello spettacolo di Bologna e della facoltà di Giurisprudenza di Ferrara. L’algida narrativa della lotta armata di Angelo Ferracuti Il Manifesto, 28 maggio 2020 “Fare fuoco” di Daniele Garbuglia, pubblicato da Sem. Un romanzo dal conio inconfondibile che rivela il mondo chiuso, soprattutto mentale, e le vite disperate di un gruppo di giovani brigatisti negli anni 80. In “Fare fuoco” (Sem, pp. 250, euro 16), Daniele Garbuglia toglie volontariamente all’epica brigatista tutto l’armamentario ideologico, la retorica del linguaggio dottrinario dello scontro frontale, lasciando, con un’asciuttezza di scene e capitoli brevi e serrati, il nudo spazio esistenziale dei personaggi e i loro movimenti tra una provincia di formazione e la metropoli dove colpire al cuore. Quasi come se le azioni atemporali avessero perso il loro contesto, e tutta la mitologia anche dei luoghi simbolo, mai interamente nominati o connotati, che ormai sono un pezzo lacerato della nostra storia. È un’operazione letteraria, soprattutto di sguardo e di punti di vista, coraggiosa nel trattare una materia ancora incandescente, nel passare dalla prima al tu della seconda persona, e nel fare economia di mezzi nei dialoghi dando maggiormente spazio alle descrizioni degli interni cupi e al pericolo degli spazi aperti. Questo per creare un clima di isolamento e concentrare l’attenzione solo sulle singole azioni dei personaggi, un po’ come avviene nel film La prima linea di Renato De Maria, tratto dal libro Miccia corta di Sergio Segio, e rivelare il mondo chiuso, soprattutto mentale, di chi ha fatto la scelta della lotta armata, e vive da clandestino fuori dal mondo e dalle sue relazioni. Quindi più che l’interesse storico, il motivo politico di imbracciare le armi, che ha riguardato in Italia migliaia di militanti politici - una pagina di storia nazionale ancora tutta da raccontare, narrata solo dai vincitori e anche un tabù - Garbuglia racconta senza mai spiegare, s’affida ai fatti, alle cose, e si concentra sulla vita quotidiana del gruppo di fuoco, composto da un giovane della provincia italiana, marchigiana, nome di battaglia Orlando come il nonno contadino, e dai suoi compagni Rosso e Anita, tratteggiati a volte con ingenuità, in tutta la sua oggettività e banalità del male, come se l’unico imperativo vitale fosse la “pura azione”. Spogliati di ogni eroismo, o comunque enfasi e partecipazione emotiva, soprattutto nei dispositivi azzerati della fiction, raccontati nell’oggettività attraverso una lingua prestabilitamente ridotta all’essenziale della sua funzionalità, i personaggi incolori di Garbuglia, umani e troppo umani, fanno il bucato, preparano la moka, mentre al ciclostile riproducono i comunicati di rivendicazione degli attentati, tra cui quello che apre il romanzo a un giornalista della stampa borghese, e con lucida disciplina studiano cartine per organizzare nuovi agguati. Le loro sono solo relazioni funzionali, non entrano mai in empatia, condividono da estranei, stanze e servizi, come armi e automobili per le azioni di fuoco. Dai pochi riferimenti storici appena accennati nel libro, come la condanna a morte di Roberto Peci, l’omicidio di Guido Rossa (“come potevano i paladini della rivoluzione operaia colpire proprio un operaio”?), il punto più basso della storia brigatista, siamo all’inizio degli anni ‘80 e in quelli del declino e degli arresti dei capi storici come Mario Moretti. Dopo una telefonata fatta alla madre da una cabina telefonica, Orlando ha i primi cedimenti, è come se improvvisamente prendesse coscienza di aver sparato a un uomo invece che a un obiettivo, adesso “le cose erano le cose, non contavano più le idee”, pensa smarrito. L’ultima azione non va come dovrebbe, finisce male, allora entra in un vortice di paura, “possibile che le sue idee lo avessero portato dove non sarebbe mai voluto arrivare?”. Ma è troppo tardi, non può tornare indietro, come Dario, il suo compagno arrestato che alla fine si arrende alle torture, e da vittima finisce per essere considerato un traditore. La seconda parte del libro accelera, il ritmo è quello di un romanzo di azione che culmina in un finale doloroso, come è avvenuto molte volte in quelle guerre lontane. Garbuglia in questo romanzo dal conio inconfondibile usa lo stile severo e algido di una condotta rigorosa, per compiere un’operazione di disvelamento, gli serve per mettere a nudo implacabilmente le giovani vite disperate dei suoi personaggi, drammaticamente sospese tra la ribellione rivoluzionaria per un mondo nuovo e liberato, e la cieca scorciatoia delle armi. Covid-19, “c’è il rischio della rabbia sociale”. Nel governo si teme che sia solo l’inizio di Francesco Verderami Corriere della Sera, 28 maggio 2020 Per chi segue il dossier è “indispensabile che le risorse stanziate arrivino presto”. Il problema è che di fronte a questo virus la politica non sembra possedere gli anti-corpi per combatterlo. Il lockdown è terminato da nemmeno due settimane e già tre politici sono finiti sotto scorta: il ministro all’Istruzione Azzolina, il vice ministro alla Salute Sileri e il governatore lombardo Fontana. Sono tre storie diverse, come diversi sono i profili “tecnici” che hanno portato alla decisione di tutelarli. Ma le loro vicende sono legate da un denominatore comune: la gestione dell’emergenza da Covid-19. Nelle rispettive funzioni Azzolina, Sileri e Fontana sono diventati “visibili” per le attività istituzionali che svolgono e si sono trasformati in “bersagli”. È vero - come spiegano dal Viminale - che si tratta “soltanto di misure cautelari e precauzionali”, ma è altrettanto vero che la gravità delle minacce deve aver largamente travalicato il confine degli insulti se si è disposta la protezione dei tre politici. E nel governo la preoccupazione è forte, tanto che un suo rappresentante con accesso ai dossier della sicurezza si è lasciato sfuggire un “e ancora non abbiamo visto niente”: “Il clima non aiuta - ha aggiunto - perciò è indispensabile che le risorse economiche stanziate giungano al più presto a destinazione. Abbiamo presente il rischio della rabbia sociale”. D’altronde le strutture preposte si erano mosse con largo anticipo, come testimoniarono all’inizio della pandemia due esercitazioni anti-sommossa di corpi speciali. Mentre il titolare dell’Interno Lamorgese, con direttive inviate ai prefetti e con interviste, anticipò a più riprese come “alle difficoltà nel mondo delle imprese e del lavoro potrebbero accompagnarsi gravi tensioni”. Busta con intimidazioni - Tensioni che ora si scaricano sulla politica, ma non solo. Se un tempo lo Stato fu chiamato a tutelare i giuslavoristi, ora è chiamato a tutelare gli epidemiologi. Fonti autorevoli raccontano infatti che “nei giorni scorsi” uno dei maggiori dirigenti dell’Istituto superiore di Sanità ha denunciato di aver ricevuto una busta con intimidazioni. Affiorano molte punte dello stesso iceberg, e il ghiaccio di cui è composto ha una matrice comune: l’emergenza Covid e quanti sono sotto i riflettori mentre operano a vari livelli per contrastarlo. In queste ore si sono susseguiti attestati di solidarietà bipartisan verso chi è finito sotto scorta, e nel Palazzo i partiti si interrogano se si tratti di “violenza politica”, di un “moto di rigetto post-ideologico” o di un “germe di ribellismo” che promette di colpire in modo indifferenziato maggioranza e opposizione al grido di “che ci state a fare lì”. Il problema è che di fronte a questo virus la politica non sembra possedere gli anti-corpi per combatterlo, perché il linguaggio estremizzato che ha usato negli anni l’ha colta sprovvista di un lessico comune adeguato. Tensioni per la crisi economica - Le armi verbali usate nella competizione ora si ritorcono contro l’intera comunità, senza eccezioni. Ed è vero che anche ieri sono stati lanciati appelli ad “abbassare i toni”, come per esempio ha fatto il ministro degli Esteri Di Maio. Ma le parole rischiano di arrivare svuotate, prive di potenza, persino poco credibili se la tregua tra opposti schieramenti tarda a realizzarsi e nel frattempo scoppiano polemiche lunari com’è accaduto tra il sindaco di Milano e il governatore della Sardegna. Il Palazzo era già sotto pressione, ben prima che scoppiasse l’emergenza. Per dirla con un sottosegretario del Pd, “la tensione è ripresa dal punto in cui si era fermata con l’inizio della quarantena”. Ma il Covid-19 si è rivelato un formidabile acceleratore delle “tensioni” per effetto della crisi economica che ha provocato. Così la politica è finita sotto scorta post-pandemica, facendo scattare gli alert in ogni dove. Ce n’è la prova da quanto risulta al Copasir che riceve comunicazioni dall’intelligence, “impegnata a monitorare tutti i sistemi informativi”. Certo il web è ormai diventato il luogo più “attenzionato”, ma Sileri ha trovato un biglietto sulla sua auto e Fontana è stato additato sui muri. Come accadeva in passato. E tutti, maggioranza e opposizione si augurano che questa non diventi la loro “new normal”. Ma se il motto era “ne usciremo migliori”, i segnali non sono buoni. Il virus si batte con la democrazia di Danilo Taino Corriere della Sera, 28 maggio 2020 Si può ipotizzare che i governi democratici riscuotano in media maggiore fiducia dai cittadini di quelli autoritari e quindi siano più ascoltati: con il risultato che le loro politiche sono più efficienti. La cosa è ancora più vera - dice lo studio - nei Paesi con cultura poco individualista ma democratici, come Corea del Sud, Taiwan, Giappone. La propaganda di Pechino sostiene che nella battaglia contro il coronavirus il modello di governo autoritario (il suo) ha funzionato meglio del modello democratico. Vero? Una parola definitiva su quale sistema sia stato più efficiente non si può ancora dare: solo alla fine della pandemia e dopo averne calcolato i costi umani ed economici si potrà forse dare un giudizio fondato. Si può però già dire che la retorica del governo cinese e del presidente Xi Jinping è piuttosto forzata. Uno studio pubblicato dal Cepr (Center for Economic Policy Research) indica che nelle democrazie i cittadini hanno risposto meglio alle indicazioni dei loro governi di quanto non lo abbia fatto chi vive in regimi totalitari. Il lavoro - realizzato da Carl Benedikt Frey, Cinchih Chen e Giorgio Presidente - è stato condotto su dati di111Paesi che vanno dagli inizi dei lockdown in febbraio fino a fine aprile e ha misurato le differenti risposte che le popolazioni hanno dato alle decisioni dei governi. Nel periodo, le misure di restringimento sono aumentate del 34% in media nei 111 casi studiati e la mobilità è calata di circa il14%: ma con grandi differenze tra Paese e Paese. Il primo risultato, che tiene conto delle caratteristiche specifiche di ogni società, indica che per un uguale numero di persone infette le restrizioni al movimento sono state del 17% maggiori nei regimi autocratici. Il secondo risultato dice che, a pari livello di restrizioni, i Paesi democratici hanno registrato una riduzione della mobilità geografica, cioè un rispetto delle indicazioni, del 20% superiore. In altri termini, per avere lo stesso risultato i regimi autoritari hanno dovuto essere molto più restrittivi di quelli democratici. Anche considerando le differenze di numero delle forze di polizia messe in campo, lo studio ha stabilito che “la correlazione negativa tra autocrazia e mobilità declinante rimane statisticamente significativa”. Si può ipotizzare che i governi democratici riscuotano in media maggiore fiducia dai cittadini di quelli autoritari e quindi siano più ascoltati: con il risultato che le loro politiche sono più efficienti. La cosa è ancora più vera - dice lo studio - nei Paesi con cultura poco individualista ma democratici, come Corea del Sud, Taiwan, Giappone. Risultati da approfondire. Ma la narrativa di Pechino zoppica. Silvia Romano e le altre: in Rete l’odio per le donne, anche quando sono vittime di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 28 maggio 2020 Una ferocia persino a prova di realtà. “Non sono quella Silvia Romano!!!”, ha tentato di obiettare su Twitter una omonima della giovane cooperante rapita in Kenya. Si è vista rispondere con un imperturbabile “che tu lo sia o no...”, e giù la solita solfa. Contumelie, infamie, minacce. Sui social, l’importante è detestare. Meglio, molto meglio se il bersaglio è donna. Sono tanto sconcertanti da meritare un’attenta riflessione politica i risultati di due ricerche parallele di Amnesty International Italia e di Vox-Osservatorio Italiano sui Diritti. Nel mondo web, un terzo degli attacchi personali diretti alle donne influencer hanno natura sessista e il tasso di hate speech, di parole d’odio subite, è più del doppio rispetto agli uomini. Nel 2019 le donne hanno conquistato il podio come vittime di questo particolarissimo veleno della modernità, col 39% dei casi tra novembre e dicembre (e con un incremento molto forte: era il 27% tra marzo e maggio 2019). La riserva di furia e rancore che si è riversata su Silvia Romano al suo rientro in Italia si andava accumulando insomma già nei mesi precedenti in misura mai registrata prima. Nel caso della volontaria milanese il Ros sta cercando di dare un’identità a una quarantina di “odiatori”, ma il veleno intossica la popolazione attiva sulle tastiere dei pc senza grandi distinzioni di colore: nel mirino ci sono donne collocabili a sinistra, come Laura Boldrini e Teresa Bellanova, e a destra, come Giorgia Meloni e Daniela Santanché. Un caso a parte, vedremo, pare Liliana Segre, che accumula su di sé un triplo stigma agli occhi di taluni manganellatori digitali: donna-ebrea-antifascista. Gianni Rufini, direttore di Amnesty International Italia, spiega come ad essere aggredita sia “la donna che si presenta come autonoma e libera nelle proprie scelte”. Insomma, oggi come sessant’anni fa. La differenza sta solo in una verniciatina tecnologica al becerume italico. È ciò che emerge dal Barometro dell’odio, cinque settimane di ricerca seguendo 20 influencer (10 donne e 10 uomini di richiamo nella vita pubblica) con un’analisi di 42.143 post e tweet a loro riferiti: il 14% è hate speech. Il repertorio lessicale contro le donne, rileva Amnesty, è come sempre ampiamente mutuato dalla zoologia: “zecca, scimmia, vacca, zoccola”. La trasversalità dell’ignominia è tuttavia uno dei dati più vistosi anche per i ricercatori: “Oggi le carte sembrano essere in parte rimescolate. Non tanto o non solo perché i cosiddetti odiatori non stanno tutti da una parte (frequenti sono le ingiurie, le espressioni d’odio, le minacce rivolte da persone di sinistra a esponenti di destra, a seguito d’un livellamento dei registri d’odio che trasversalmente riguarda un po’ tutti nei social media, come la grande produzione per diffusione di hate speech verso la “delatrice” Anna Rita Biagini ha dimostrato)”. Anna Rita Biagini è la bolognese che chiese l’intervento di Matteo Salvini contro presunti pusher al Pilastro da cui derivò l’infelice citofonata del leader leghista a una famiglia tunisina. Il rimescolamento, secondo Amnesty, dipende soprattutto dal fatto che chi “a destra produce linguaggio d’odio attribuisce agli altri la causa del fenomeno”, “gli odiatori fanno le vittime accusando le loro vittime di essere i veri odiatori”. Tra gli influencer seguiti dalla ricerca, Roberto Saviano subisce un 14,5% di hate speeche un 8,3% di attacchi personali, ma la Santanché lo supera alla voce hate speech (19,2%) e lo incalza come vittima di attacchi personali (6,5%). Il top dei commenti sessisti (27%) è stato generato da un tweet in cui proprio la Santanché ringraziava la sua personal trainer per gli allenamenti. E tra i primi tweet bersaglio di sessismo ne troviamo un altro della parlamentare di Fratelli d’Italia, contro la violenza islamica sulle donne, uno della Meloni contro un corteo femminista, uno della Boldrini di solidarietà con la famiglia di Silvia Romano a un anno dal sequestro. Nell’avversione alla Boldrini è necessario ricordare però il viatico di leader di primo piano, come Beppe Grillo, che chiedeva ai suoi “cosa fareste in macchina con lei?”, e Salvini, che portò su un palco elettorale una bambola gonfiabile “sosia” dell’ex presidente della Camera. I politici dovrebbero meditare: i social ne sono spesso solo un megafono. Lo dimostra anche la Mappa dell’Intolleranza di Vox che, focalizzandosi su novembre e dicembre 2019, annota come l’odio contro le donne su Twitter “sia cresciuto e si sia ulteriormente polarizzato”. Su un totale di 268.433 tweet estratti, 101.796 riguardano donne. Di questi 70.449 hanno polarità negativa. Dunque: una persona su due su Twitter sceglie le donne come argomento di cui parlare ma il 70% lo fa con intenti di odio. Nello stesso periodo in cui le donne arrivavano in cima alla classifica dei bersagli, è cresciuto di molto anche l’odio contro gli ebrei (+15%). A fare da catalizzatore, sostengono gli analisti di Vox, è stata appunto una donna ebrea, assai attaccata da certa narrazione: Liliana Segre. Sono proprio quelli i mesi delle minacce alla senatrice e della sua commissione contro l’odio contestata dalla destra. Difficile anche non vedere una sorta di avallo politico nei pestaggi web a Greta Thunberg, cui persino un paio di quotidiani hanno dedicato l’epiteto di “gretina”, e alla “capitana” Carola Rackete. Forse un po’ a sorpresa, epicentro degli insulti Twitter sessisti è il Nord, con Milano e Bologna tra le città maggiori e una crescita di ferocia misogina nel triangolo Novara-Varese-Como. Ma il dato più raggelante è che il picco di odio sessista su Twitter è stato registrato il 25 novembre, nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Tre giorni prima era stata uccisa a Palermo la 95esima vittima di femminicidio del 2019, Ana Maria Di Piazza. Gli analisti di Vox spiegano che da anni la loro Mappa registra la concomitanza tra i femminicidi e l’acuirsi dei discorsi di odio sulle donne nei social. Come un’infame rivendicazione di genere. Hong Kong. Chi offende l’inno nazionale cinese ora andrà in prigione di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 28 maggio 2020 Nuovo giro di vite contro dimostranti e oppositori. Tre anni di reclusione per i trasgressori. Oggi Pechino approva la contestatissima legge sulla sicurezza nazionale, alta tensione con gli Usa. La giornata di ieri e quella di oggi saranno forse ricordate come le più drammatiche e importanti per il futuro di Hong Kong. Il mercoledì appena trascorso è infatti stato il momento in cui il Consiglio legislativo dell’isola ha completato la seconda lettura di un disegno di legge che rende un reato penale il mancato rispetto dell’inno nazionale cinese. Per i trasgressori, colpevoli di fischi o insulti in occasione di manifestazioni pubbliche, sono previste ammende fino a 5mila euro o, nei casi più gravi, 3 anni di prigione. Oggi invece il Parlamento di Pechino dovrebbe licenziare la contestatissima legge sulla “sicurezza nazionale” che permetterebbe ai cinesi di intervenire direttamente in caso di proteste ad Hong Kong, svuotando di fatto l’attuale legislazione che consente una discreta autonomia (“un paese, due sistemi”). Verrebbe così represso qualsiasi sommovimento giudicato come secessione o sedizione. Il timore che si tratti della fine del regime speciale di Hong Kong ha già provocato violente proteste di piazza lo scorso fine settimana, un copione che si è ripetuto anche ieri. I manifestanti si sono dati appuntamento presso il palazzo del Consiglio legislativo (Legco) nel distretto centrale. La forte presenza di polizia antisommossa e barriere piene d’acqua hanno bloccato però la protesta che si è spostata in altre parti del centro. Il traffico è stato bloccato sia nella Central che nella Causeway Bay. L’intervento dei reparti speciali non si è fatto attendere, è stato fatto largo uso di lacrimogeni e spray urticanti. Secondo un comunicato della polizia 180 persone sono state arrestate. Uguale sorte per altri 100 manifestanti che invece si erano radunati nel distretto di Mongkok e a Wan Chai. Per tutti l’accusa è di manifestazione non autorizzata e possesso di armi improprie. Ma gli scontri di piazza impallidiscono di fronte al confronto sempre più muscolare tra Usa e Cina. Dopo le dichiarazioni dei vertici del Pc cinese che ha parlato di “nuova guerra fredda”, martedì scorso è stata la volta di Donald Trump che durante una conferenza stampa alla Casa Bianca ha promesso sorprese per il fine settimana. Uno dei consiglieri per la Sicurezza, Mike O’Brien, si era spinto sul terreno di eventuali sanzioni in risposta all’attivismo cinese a Hong Kong, Trump invece non ha rivelato nulla invitando l’opinione pubblica ad aspettarsi “qualcosa di molto potente”. Il maggior timore di Washington è in realtà quello che Hong Kong cessi di essere un centro finanziario privilegiato nei suoi rapporti con gli Usa. In questo senso potrebbe essere incoraggiato un ritorno delle aziende americane in patria come ritorsione. Un’eventualità confermata dal consigliere economico del presidente, Larry Kudlow. “Faremo il possibile per le spese totali e pagheremo i costi di trasferimento se riporteranno le loro catene di approvvigionamento e la loro produzione negli Stati Uniti”, ha infatti affermato lo stesso Kudlow interrogato dalla stampa. Allo studio ci sarebbero già alcune proposte: agevolazioni fiscali e sussidi tra cui un potenziale “fondo di reintegrazione” per 25 miliardi di dollari, oltre nuove regole che disciplineranno le attività economiche di ritorno. In America latina la protesta non va in quarantena di Claudia Fanti Il Manifesto, 28 maggio 2020 Ecuador, Cile, Bolivia tornano nelle piazze sfidando le misure di contenimento del Covid per manifestare contro le decisioni dei governi: tagli alla spesa pubblica, blocco delle elezioni, sistemi sanitari al collasso. Di fronte alla fame non c’è quarantena che tenga. Così, se il Covid-19 era riuscito finora a liberare le strade dell’America latina dalle proteste anti-governative, tutto indica che il coperchio sta nuovamente per saltare. La pressione sale in particolare in Ecuador, dove lunedì gruppi di lavoratori e di studenti hanno violato le misure restrittive adottate contro la pandemia per protestare contro l’annuncio del presidente Lenin Moreno di un taglio di oltre quattro miliardi di dollari alla spesa pubblica. Neppure le minacce lanciate dal segretario generale della presidenza, Juan Sebastián Roldán, rispetto alla “grave responsabilità penale” legata al mancato “rispetto della legge e della normativa sanitaria” sono bastate a intimidire i manifestanti. Che sfidando la repressione sono scesi in piazza in diverse regioni del paese contro i tagli all’educazione, la riduzione dei salari degli impiegati pubblici, la chiusura di imprese statali e pure contro la cosiddetta “Legge umanitaria”, approvata il 15 maggio al presunto scopo di salvare l’occupazione, ma in realtà diretta a scaricare sui lavoratori tutto il peso della crisi economica. “Con questa legge tutt’altro che umanitaria torneremo tutti a essere schiavi”, ha denunciato il presidente del Frente unitario de Trabajadores, Mesías Tatamuez, esigendo dal governo uno stop al pagamento del debito estero per fronteggiare l’emergenza. È rimasta ancora alla finestra la Conaie, la potente Confederazione delle nazionalità indigene già protagonista dell’insurrezione dello scorso ottobre. Ha deciso, “por ahora”, di concentrarsi sulla protezione delle comunità, ma lanciando un esplicito messaggio al governo: “A tempo debito scenderemo in strada per esigere dal presidente la deroga di questi decreti”. Segnali di ripresa delle mobilitazioni arrivano anche dal Cile, dove il Covid-19 ha messo necessariamente in stand-by la rivolta contro Piñera esplosa il 18 ottobre scorso. Diverse manifestazioni hanno luogo da giorni a Santiago dove, ancora martedì, la gente è scesa in strada per protestare contro l’abbandono delle fasce più vulnerabili e i ritardi degli aiuti promessi dal governo per far fronte alla crisi. La sola risposta che i manifestanti hanno ottenuto è però l’unica di cui sembra capace Piñera: la repressione dei carabineros a colpi di idranti e di gas lacrimogeni e la condanna del prefetto Felipe Guevara, secondo cui la mancanza di cibo “non giustifica” la violazione della quarantena. Nel paese con il più alto numero di contagi per milione di abitanti, le cosiddette “proteste per la fame” non sono però destinate a spegnersi: mentre il sistema sanitario è vicino al collasso, la famigerata “Legge di protezione dell’impiego” ha prodotto la sospensione dei contratti di lavoro per almeno 600mila persone. Proteste e blocchi stradali sono ripresi anche in Bolivia dove a La Paz, a Cochabamba, a Santa Cruz e in altri luoghi diventano sempre più frequenti le manifestazioni contro la gestione della pandemia da parte del governo di Jeanine Añez e contro il ritardo nella convocazione delle elezioni generali (che avrebbero dovuto svolgersi il 3 maggio). Nel braccio di ferro tra il Congresso dominato dal Movimiento al Socialismo, che ha fissato come termine ultimo per la realizzazione delle elezioni il 2 agosto, e il governo golpista, interessato a posticipare quanto più possibile il processo elettorale, il vicepresidente del Mas Gerardo García ha lanciato un chiaro ultimatum: se entro il 31 maggio l’organo elettorale non fisserà la data del voto, “non riusciremo più a contenere la base”.