Oltre paralisi (e vendetta) con l’amnistia condizionata di Mario Chiavario Avvenire, 27 maggio 2020 I temi della giustizia, della pena, del carcere, sono tornati in primo piano. E un lungo e articolato commento meriterebbero gli scritti apparsi su queste pagine di Mauro Palma, apprezzato Garante dei diritti dei detenuti, e di Maurizio Patriciello, protagonista di un impegno esemplare come parroco nella “terra dei fuochi” a sostegno dei più deboli tra gli umili: entrambi, pure in quest’occasione, al cuore di problemi tra i più lancinanti, di lunghissima data ma che la pandemia ha posto sotto gli occhi di tutti con particolare evidenza. Interventi apparentemente distanti, ma in realtà assai meno di quanto non possa sembrare a prima vista. Perché in ambedue c’è una partecipazione sofferta a situazioni drammatiche: per l’uno, all’angoscia di chi ha visto calare un pericolo gravissimo su uno stato di reclusione che, se persistente, può non consentire rimedi altrove usuali; per l’altro, all’indignazione di chi è stato colpito personalmente o negli affetti più cari da delitti orrendi e si sente come sbeffeggiato da certe scarcerazioni. Certo, è sempre difficile il conciliare diritto alla salute e sicurezza collettiva. E più difficile ancora è il trovare una risposta giusta alle comprensibili richieste, da parte delle vittime o dei loro familiari, di una sanzione proporzionata al male commesso; una risposta che non sia necessariamente quella, crudamente “retributiva”, di una successione persino infinita di anni di prigione: non tutti possono essere un Giovanni Bachelet o una Sabina Rossa, che hanno cercato (e trovato) un dialogo positivo con gli assassini dei loro congiunti, senza vedere delusa la propria ansia di giustizia né dismettere o dimenticare la memoria dei propri cari dalla vita stroncata. È però importante che senza abbandonarsi a facili irenismi si continui a dialogare, nella speranza che qualcosa cambi nella mentalità comune e che le istituzioni agevolino, anziché ostacolare, i percorsi indubbiamente ardui di una giustizia non vendicativa ma autenticamente riparativa e ricostruttiva. E c’è un terzo intervento a cui voglio riferirmi. È quello di Paolo Borgna, magistrato colto e tecnicamente tra i più preparati, ma anche dotato di grande sensibilità per i riflessi umani e sociali del suo lavoro. Sfidando la presumibile contrarietà dell’opinione pubblica per provvedimenti di clemenza a largo raggio, egli non esita a schierarsi in favore di un’amnistia: ovviamente, non estensibile a crimini come quelli di cui parla don Patriciello, ma pur tale da far fronte al prevedibile aumento del già cronico ingolfamento degli apparati di giustizia, che si dovrà scontare per il parziale stallo da Covid-19. Non nascondo di essere stato a suo tempo convinto sostenitore dell’iniziativa che portò a innalzare, con la modifica dell’art. 79 della Costituzione e l’imposizione di un quorum parlamentare particolarmente alto, il livello di sbarramento per la concessione di amnistie e di indulti. Né rinnego quella mia posizione: si trattava, allora, di fermare la routine di periodiche concessioni che - a ogni segno premonitore - inducevano a dilazionare il più possibile il formarsi del giudicato, e consentendo anche di fruire di una piena e definitiva impunità. Parecchie cose da allora sono cambiate, e Borgna motivatamente lo sottolinea. Tra l’altro, dove prima si faceva leva sull’amnistia ha trovato maggiore spazio, e con effetti analoghi, la prescrizione del reato, la cui disciplina è tuttora alla ricerca di un ragionevole equilibrio, tra i tradizionali incentivi a un uso non meno spregiudicato di quest’altro strumento di impunità e i recenti furori abolizionisti a loro volta comunque inaccettabili. Borgna stesso enuncia le ragioni dell’amarezza che pure in lui suscita l’accettare un’amnistia. Tuttavia, a suo parere, il “costo di provocare oggi qualche piccola ingiustizia” servirebbe “a evitare, domani, più gravi e generali ingiustizie”. Probabilmente ha ragione, e ce l’ha anche quando dice che sarebbe saggio cominciare a pensarci. Mi permetterei una sola chiosa. Se a un’amnistia si arriverà, non sia il frutto di indulgenzialismi senza contropartite. Il nostro ordinamento conosce l’istituto dell’amnistia condizionata: in particolare, si può imporre, come condizione, il risarcimento del danno recato alle vittime o a qualche prestazione sostitutiva che non rimanga soltanto sulla carta. È per strade del genere che si può rendere credibile una linea penitenziaria opposta a quella dei sostenitori del carcere come luogo in cui sfogare ferocemente le vendette private e collettive. Una linea, insomma, non diversa da quella che ispira le più ragionevoli politiche di sostituzione di una pena ciecamente detentiva con effettive ed efficaci misure alternative. È la linea - e così si torna al punto d’inizio - di chi lavora per far sì che il carcere non sia solo un luogo in cui “far marcire” qualcuno. Diminuiscono i detenuti che lavorano e i fondi sono sempre gli stessi di Antonio Maria Mira Avvenire, 27 maggio 2020 L’ultima Relazione del ministero della Giustizia al Parlamento. Mentre cresce il sovraffollamento chi è impegnato in attività lavorative scende in due anni dal 31 al 27 per cento. Continua a calare il lavoro in carcere. Un gran brutto segnale, proprio mentre sono invece aumentate le tensioni sia per l’emergenza Covid-19 che per il sovraffollamento. Basti ricordare le proteste violente nei primi giorni di marzo che provocarono 12 morti. Diminuiscono in numero assoluto i detenuti impegnati in attività lavorative e, ancor più grave, in percentuale, visto che le presenze in carcere sono invece aumentate. È quanto emerge dalla “Relazione sullo svolgimento da parte dei detenuti di attività lavorative o di corsi di formazione professionale per qualifiche richieste da esigenze territoriali” per l’anno 2019, inviata al Parlamento dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Documento che porta ancora la firma del dimissionario direttore del Dap, Francesco Basentini, da poco sostituito da Dino Petralia. Una fotografia destinata sicuramente a peggiorare, in conseguenza del blocco per la pandemia di tante attività anche il carcere. Il documento segnala che l’ultimo dato disponibile sul totale dei detenuti lavoranti è di 16.850, pari al 27,84% dei presenti. Nella precedente relazione erano 17.936 unità (17.602 nel 2017). Come percentuali eravamo al 29,52% nel 2018, già in calo rispetto al 31,94% del 2017. Tre anni negativi che invertono la tendenza in aumento dal 2012, quando i detenuti lavoranti erano solo il 21,01%, con una popolazione carceraria di 65.701 persone, mentre ora siamo attorno alle 60mila dopo un calo che li aveva portati a poco più di 50mila. Questo totale di detenuti che passano almeno qualche ora a lavorare è frutto di dati e tipologie molto diverse. Così il numero di detenuti lavoranti impegnati nella gestione quotidiana dell’istituto sono 13.582, in aumento rispetto al 2018 quando erano 12.922 e al 2017 quando arrivavano a 12.319. Si tratta di lavoro poco qualificato, legato appunto alle attività interne, come pulizie e cucina. Un po’ più qualificati sono i lavori svolti da detenuti impiegati alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria in attività di tipo industriale. Sono in leggero aumento ma i numeri sono molto bassi. La Relazione per il 2019 ne indica 661, rispetto ai 613 del 2018 e ai 598 del 2017. Decisamente in calo i detenuti impiegati nel settore agricolo. Nel 2018 erano 402, in forte aumento rispetto ai 241 del 2017. Nel 2019 sono scesi di quasi cento unità arrivando a 309. Luci e ombre per il lavoro cosiddetto “esterno”. I detenuti dipendenti da datori di lavoro esterno risultano lo scorso anno 2.459, rispetto ai 2.293 del 2018. Ma all’interno di questo settore calano i numeri relativi alla legge Smuraglia, che prevede misure di vantaggio per le cooperative sociali e le imprese che vogliano assumere detenuti. Erano 1.576, sono scesi a 1.524. E, ricordiamo, sempre a fronte di un aumento dei detenuti in carcere, da 54mila a 60mila. Mentre negli ultimi tre anni la cifra destinata al lavoro in carcere è rimasta sempre la stessa: 100.016.095 euro. Così non solo lavorano meno detenuti, ma lavorano con orari ridotti, anche perché nell’ottobre 2017 sono state adeguate le paghe, ferme dal 1994, aumentando le retribuzioni dell’80%. Ma lo stanziamento è rimasto lo stesso. Anche se, si legge nelle prima parole della Relazione (sempre le stesse da anni), “il lavoro è ritenuto dall’Ordinamento penitenziario l’elemento fondamentale per dare concreta attuazione al dettato costituzionale che assegna alla pena una funzione rieducativa”. Difficile con pochi fondi. Perse le tracce di Scout ed Explor, le cam contro abusi e aggressioni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 maggio 2020 Nel 2018 la fornitura delle attrezzature alla Polizia penitenziaria ha subito uno stop. Volendo potrebbe esserci la possibilità che un agente penitenziario possa dotarsi di una telecamera per riprendere tutte le operazioni delicate che compie. Dalle perquisizioni, fronteggiare le rivolte o traduzioni di un detenuto. Una trasparenza che serve non solo a tutelare il detenuto, ma soprattutto l’agente stesso. Però tutto questo ha subito inspiegabilmente una battuta di arresto. Non di rado, com’è accaduto recentemente al carcere campano di Santa Maria Capua Vetere oppure all’indomani delle rivolte di marzo che hanno coinvolto numerosi penitenziari, emergono fuori notizie di presunti pestaggi da parte degli agenti penitenziari. Ma anche il contrario. Non sono poche le notizie di presunte aggressioni nei confronti degli agenti da parte dei detenuti. Tutto ciò rimane, di solito, nell’ombra e accade spesso che le videocamere di sorveglianza non riprendono gli avvenimenti per diversi fattori. Ma una soluzione c’è. Nel 2018 sembrava che si fosse arrivato alla messa a punto del sistema di videosorveglianza in mobilità in dotazione al personale della Polizia penitenziaria, ma senza alcuna spiegazione c’è stato uno stop e dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non se n’è parlato più. Il perché non è dato saperlo. Eppure la misura aveva trovato il parere favorevole non solo di diverse sigle sindacali, ma anche dal Garante per la protezione dei dati personali dopo aver esaminato preliminarmente la documentazione trasmessa dal ministero della Giustizia e dal Dap nell’aprile del 2018. Ricordiamo che al Dap c’era ancora Santi Consolo. Poi con il cambio dei vertici tutto è finito nel dimenticatoio. Le caratteristiche di questo sistema di video sorveglianza in dotazione degli agenti erano illustrate in una nota dell’ex Direttore generale del personale e delle risorse del Dap Pietro Buffa e, più in dettaglio, in un disciplinare denominato “Sistemi di videosorveglianza in mobilità “Scout” ed “Explor”. Il sistema è composto dal sistema Scout (dispositivo veicolare) e dal sistema Explor (dispositivo personale), “allo scopo - scrive l’ex direttore generale del Dap di dotare il Corpo di Polizia Penitenziaria, di uno strumento funzionale a coadiuvare l ´ operatore nella documentazione delle attività Istituzionali individuate dal disciplinare ed in particolare, nelle attività attinenti l ´ ordine e sicurezza interna degli Istituti Penitenziari, la sicurezza delle traduzioni e la prevenzione\\ repressione di reati in atto o consumati”. I terminali di videoripresa e registrazione sono costituiti, come accennato, dagli apparati “Scout” ed “Explor”. L’apparato “Scout” è un dispositivo veicolare che permette all’operatore di effettuare la videoripresa attraverso telecamere montate sul mezzo e di trasmettere i filmati, in tempo reale, alla Centrale Operativa competente per lo svolgimento del servizio. Il dispositivo è dotato di telecamera frontale, per la videoripresa delle immagini, e di una batteria integrata, ed è inoltre concepito per l’utilizzo portatile da parte dell’operatore. L’apparato “Explor “invece, è un dispositivo mobile in dotazione all’operatore di Polizia Penitenziaria, utilizzato come equipaggiamento personale, al fine di fornire all’operatore uno strumento di videoripresa funzionale alla documentazione delle attività svolte, in occasione di particolari circostanze operative. Ogni dispositivo “Scout” ed “Explor” è identificabile attraverso un numero seriale. Gli apparati sono in grado di effettuare registrazioni audio-video, che possono avvenire con due modalità: in modalità remoto - che rappresenta la modalità ordinaria di utilizzo - le tracce sono registrate temporaneamente su una memoria interna; in modalità streaming - modalità attivata dall’operatore in occasione di situazioni di possibile interesse dell’autorità giudiziaria o quando ricorrano motivi di ordine e sicurezza - le tracce sono trasmesse in tempo reale alle centrali operative. Come detto, l’impiego di questo sistema è previsto per alcune azioni particolari come, appunto, le attività relative alla tutela dell’ordine e della sicurezza all’interno degli Istituti penitenziari. Proprio quei momenti dove molto spesso scattano denunce. Ma tutto è rimasto fermo. Perché? I detenuti al 41bis possono scambiarsi corrispondenza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 maggio 2020 La corrispondenza è consentita, salvo divieto dell’autorità giudiziaria. Che i boss al 41bis possano scriversi tramite lettere è consentito, salvo un divieto da parte dell’autorità giudiziaria, da sempre. Quando, in alcuni casi, è stato vietato dall’Amministrazione penitenziaria i magistrati di sorveglianza hanno accolto i reclami. Sì, perché anche in relazione a detenuti sottoposti al regime del 41bis, limitazioni e controlli sulla corrispondenza possono essere adottati esclusivamente con provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria e non sulla base di provvedimenti amministrativi, quali le circolari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Per comprendere meglio va prima evidenziato che il diritto alla corrispondenza dei detenuti è disciplinata, in via generale, dall’articolo 18ter dell’ordinamento penitenziario. La disposizione prevede che limitazioni della corrispondenza e la sottoposizione della stessa al cosiddetto “visto” di controllo siano consentite, per limitati periodi di tempo, sulla base di un decreto motivato dell’autorità giudiziaria competente, su richiesta del pubblico ministero procedente o su proposta del direttore dell’istituto. Tale provvedimento può essere adottato per “esigenze attinenti le indagini o investigative o di prevenzione di reato, ovvero per ragioni di sicurezza o di ordine dell’istituto”. L’art. 41- bis comma 2 quater lett. e), a differenza dell’art. 18ter, non contiene alcun riferimento, da un lato alle limitazioni della corrispondenza menzionando esclusivamente il “visto” - e, dall’altro, al provvedimento autorizzativo dell’autorità giudiziaria. Tali lacune sono state ritenute superabili, evidenziando, da un lato, che la disposizione della lett. e) non rappresenta una deroga alla disciplina dell’articolo 18- ter dell’ordinamento, e, dall’altro, che essa debba essere interpretata conformemente all’art. 15 della Costituzione, che contiene, a tutela del diritto alla corrispondenza, oltre a una riserva di legge, una riserva di giurisdizione. Anche per i detenuti al 41bis sono dunque possibili limitazioni della corrispondenza - e non solo la sottoposizione al visto di controllo prevista dalla lett. e) - e tali restrizioni devono essere autorizzate dall’autorità giudiziaria. D’altronde nella circolare di tre anni fa del Dap, che ha uniformato le regole del 41bis, sul controllo della corrispondenza viene ulteriormente chiarita la questione: “Dovrà inoltre essere richiesta l’autorizzazione, ai sensi dell’articolo 18 ter, comma 1, lettera a) dell’ordinamento penitenziario, in caso di corrispondenza tra detenuti/internati sottoposto al regime 41bis, fatti salvi i rapporti epistolari tra congiunti”. Ancora una volta - a proposito di alcuni contatti epistolari tra boss al 41bis avvenuti nel 2008 - è stato sollevato uno “scandalo” che non c’è. Ci si augura che la prossima azione politica faccia tesoro del vecchio insegnamento di Luigi Einaudi, ovvero “Prima conoscere, poi discutere, poi deliberare”. Esercito a presidio delle strutture penitenziarie di Claudio Mazzone ottopagine.it, 27 maggio 2020 I ministeri della Giustizia e dell’Interno di concerto con le Prefetture e gli istituti di pena potranno utilizzare gli uomini dell’esercito impegnati nella missione “strade sicure” per presidiare tutte quelle strutture penitenziari con detenuti di alta sicurezza e 41bis. La Campania è la regione con il maggior numero detenuti in alta sicurezza, infatti sugli 8862 sparsi in tutta la penisola ben 1.725 sono nelle carceri campane, mentre Lazio e Abruzzo sono quelle con il maggior numero di detenuti al 41bis. Il segretario generale del Sindacato di Polizia penitenziaria Aldo Di Giacomo condivide la decisione di utilizzare l’esercito per presidiare il perimetro del carcere di Sulmona e auspica l’utilizzo anche in altre strutture carcerarie Italiane. “Nelle carceri della penisola attualmente ci sono 727 detenuti al 41bis e 8.862 in alta sicurezza. Le regioni con maggiore presenza di 41bis sono Lazio e Abruzzo con 244 presenze, mentre la regione con più alta sicurezza è la Campania con 1.725 detenuti, seguita dalla Sicilia e dalla Calabria rispettivamente con 1.282 e 1.106”. Mascherine prodotte nelle carceri: parte il progetto #Ricuciamo La Repubblica, 27 maggio 2020 320 detenuti al lavoro sulla produzione di mascherine saranno impegnati nelle carceri di Bollate, Rebibbia e Salerno. È partito così #Ricuciamo, il progetto di inclusione lavorativa del Ministero della Giustizia e del Commissario Straordinario per l’emergenza Covid-19, Domenico Arcuri. Nell’iniziativa sono coinvolti 320 detenuti nei 3 istituti penitenziari di Bollate, Rebibbia e Salerno. Le prime 2 macchine industriali delle 8 - grazie alle quali i detenuti potranno produrre dispositivi di protezione individuale - sono arrivate presso la II Casa di Reclusione di Milano - Carcere di Bollate. Nella fase di avvio saranno prodotte 400.000 mascherine chirurgiche al giorno che a pieno regime potranno arrivare a 800.000. Una nota di presentazione dell’iniziativa spiega che i dispositivi prodotti nelle case circondariali saranno innanzitutto destinati ai detenuti e al personale carcerario, l’eccedenza verrà utilizzata dal Commissario Straordinario per la distribuzione sul territorio nazionale. Una risposta concreta al fabbisogno di dispositivi di protezione individuale di chi quotidianamente vive negli istituti penitenziari, con un’importante ricaduta sociale in termini di formazione e impiego dei detenuti, che diventano protagonisti di un progetto di inclusione lavorativa. “Abbiamo sin dall’inizio fortemente creduto nella rilevanza simbolica e concreta di questo progetto, e abbiamo fortemente lavorato con tutti i partner per la sua realizzazione - dichiara Ernesto Somma, Responsabile riconversione industriale e incentivi della Struttura Commissariale - si tratta di trasformare l’emergenza in opportunità di recupero, di formazione e di riscatto. Nei tre Istituti penitenziari interessati realizzeremo vere e proprie unità produttive organizzate e gestite secondo i migliori standard di efficienza dell’industria”. “La sfida che tutti ci siamo trovati ad affrontare ha richiesto la virtuosa integrazione delle migliori capacità di pubblico e Privato - commenta Stefano Cazzaniga, Partner e Director di Boston Consulting Group - Un’unione che ha visto amalgamarsi competenze provenienti da diversi settori industriali, abilità di progettazione e pianificazione con la visione e l’orientamento all’azione necessarie per dare concretezza all’iniziativa”. “Anche in questo progetto - commenta Pietro Gorlier, Coo della Regione Emea di Fca - abbiamo messo a disposizione le nostre eccellenze italiane sul fronte industriale. Fin dalle prime battute della pandemia, infatti, Fca e Comau si sono fortemente impegnate con molteplici iniziative su più fronti a sostegno del Commissario Straordinario e di altre organizzazioni italiane e internazionali. Siamo orgogliosi essere partecipi di questo progetto che ha una grande valenza sociale”. “È un onore per noi essere promotori di #Ricuciamo - afferma Fabrizio Sammarco, Amministratore Delegato della Società ItaliaCamp - progetto che si inserisce nel nostro impegno sull’Economia Carceraria e mette al centro la dignità della persona e delle sue relazioni sociali, generando nuovo valore per tutti coloro che la crisi sta isolando”. Riccardo Barberis, Amministratore Delegato di ManpowerGroup Italia, dichiara: “Siamo orgogliosi di sostenere il progetto #Ricuciamo. Per questo progetto coniughiamo la nostra esperienza con i profili specializzati, in questo caso nel settore tessile, la nostra capacità e gli strumenti per individuare le soft skills delle figure di coordinamento del programma, con il supporto della Fondazione Human Age. Siamo di fronte ad un modello virtuoso in cui la formazione e la guida in un nuovo lavoro rivestono un ruolo cruciale nella funzione educativa della pena”. Quel che l’emergenza coronavirus ci ha detto delle carceri italiane di Samuele Cafasso wired.it, 27 maggio 2020 Le prigioni italiane hanno problemi endemici da affrontare. Il rischio è che dopo l’emergenza si ritorni al punto di partenza. Quando il primo giugno del 2018 l’esecutivo guidato dall’attuale commissario agli Affari economici dell’Ue, Paolo Gentiloni, concluse la sua corsa, tra le grandi riforme rimaste incompiute c’era anche quella delle carceri che, negli obiettivi dell’allora ministro Andrea Orlando, avrebbe dovuto allargare la possibilità per i condannati di accedere alle pene alternative riducendo così l’affollamento delle case di detenzione italiane. Meno di due anni dopo, l’emergenza coronavirus rimette al centro dell’opinione pubblica la questione delle detenzioni di massa, ed esattamente come allora spinte riformiste e molto più robuste tentazioni legalitarie si contendono l’arena dell’opinione pubblica: la riduzione della popolazione carceraria - da 61.230 a 52.679 persone in poche settimane - avviata in Italia per far fronte all’emergenza sanitaria, continuerà anche quando quest’ultima sarà finita? E l’Italia saprà costruire un sistema penale e regimi di detenzione che, anche grazie alle tecnologie, siano meno punitivi e pericolosi per la salute delle persone? Il nostro paese non ha avuto, nelle carceri, quel grande focolaio epidemico che si è invece verificato negli Stati Uniti: 2439 casi accertati nel Marion Correctional Institution, in Ohio, altri 1284 nel Trousdale Turner Correctional Center nel Tennesse, ricorda il New Yorker in un articolo intitolato “Will the Coronavirus Make Us Rethink Mass Incarceration?”. Sette dei dieci grandi centri di diffusione del virus negli Stati Uniti sono istituti di pena. “Per decenni, i gruppi per i diritti civili hanno puntato il dito sui costi sociali della carcerazione di massa”, scrive il New Yorker, “il suo fallimento nell’affrontare alla radice il problema della violenza e delle dipendenze, gli alti costi per la finanza pubblica, l’ineguaglianza in campo razziale. La pandemia ha messo in luce un altro pericolo del sistema: i rischi per la salute pubblica”. Anche se l’Italia è riuscita (per ora) a contenere il contagio negli istituti di pena, non può eludere la questione: il nostro paese è da sempre cronicamente incapace (vedi la sentenza Torreggiani) di garantire spazi adeguati a ogni carcerato e questa, oltre a essere una violazione dei diritti umani, è diventata anche una questione di salute pubblica. Secondo il rapporto annuale dell’Associazione Antigone pubblicato venerdì, prima dell’emergenza Covid-19 l’Italia contava 61.230 detenuti con un affollamento del 130%. Significa 15mila persone di troppo nelle carceri. Al 15 maggio, però, i detenuti sono scesi a 52.579, con un tasso di affollamento al 112,2% e 8.551 persone in meno nei centri di detenzione. Il modo in cui si è arrivata a questa diminuzione, però, ci dice molto del rischio che, finita l’emergenza, si ritorni al punto di partenza. Vediamo perché: quando scoppia l’emergenza sanitaria in Italia, è subito palese che l’affollamento delle carceri è un grandissimo rischio epidemiologico. Così a legislazione invariata - utilizzando cioè le norme vigenti - da fine febbraio fino al 19 marzo ogni giorno vengono fatte uscire di prigione 95 persone al giorno di media, in molti casi persone in attesa di giudizio che - distorsione tutta italiana - attendevano una sentenza dietro le sbarre. Sono i giorni precedenti e subito seguenti la rivolta negli istituti di pena che il 7,8 e 9 marzo è costata la vita a 13 persone. Subito dopo si accelera: con l’entrata in vigore del decreto Cura Italia, che dispone la possibilità di scontare la pena detentiva a casa negli ultimi 18 mesi, dal 19 marzo al 16 aprile ogni giorno sono uscite di prigione, mediamente, 158 persone al giorno. Dopo il 16, però, c’è una nuova frenata. Come si spiega? Nel rapporto dell’Associazione Antigone, Alessio Scandurra scrive: “Il 17 aprile parte, con un articolo di Lirio Abbate su l’Espresso, una campagna portata poi avanti principalmente da Repubblica che mette in relazione il calo della popolazione detenuta, determinatosi per contrastare la diffusione in carcere del Covid-19, con gli interessi della criminalità organizzata, insinuando addirittura atteggiamenti equivoci da parte della politica o dei vertici del Dap”. Da quel momento, “le presenze in carcere calano di 77,3 presenti al giorno, meno della metà di prima”. Secondo l’associazione, decisivo nella frenata è stato il mutamento di direzione nell’opinione pubblica. Sono i giorni in cui i giornali pubblicano le liste dei 376 boss che sarebbero usciti di carcere durante l’emergenza coronavirus e che, in realtà, sono solo 3, spiega Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera. A far notizia, però, non è Ferrarella, ma Massimo Giletti che legge in tv la lista incriminata. Adesso come due anni fa, a prescindere dal caso di cronaca e da possibili errori, qualsiasi tentativo di ripensare l’esecuzione penale in Italia cozza contro un’opinione pubblica manettara che non accetta di ripensare le grandi storture del sistema italiano, ancora tutte sul tavolo. Un terzo degli ospiti delle case di detenzione, oggi, sono persone in custodia cautelare, ovvero in attesa di giudizio: la media europea è del 23%. Un terzo dei carcerati ha violato la legge sugli stupefacenti, che è oggi uno dei grandi motori dell’affollamento carcerario. I morti per suicidio, solo nel 2019, sono stati 53, altri 17 al 14 maggio. Ridurre il numero di reati punibili rivedendo prima di tutto la legge sulle droghe, investire nelle nuove tecnologie di controllo, come i braccialetti elettronici, superando una visione carcero-centrica della pena sono alcune delle proposte avanzate dall’Associazione Antigone ma che paiono lontanissime dall’agenda dell’opinione pubblica prevalente. Basti un solo dato: ad oggi le persone sottoposte a pene alternative al carcere sono 61mila. Senza questa valvola di sfogo, gli istituti di pena italiani avrebbero un sovraffollamento ben sopra al 200%. Nell’immaginario pubblico questo significa frotte di delinquenti liberi di commettere nuovi reati. Ma non è così: se guardiamo ai dati del primo semestre del 2019, solo il 3,4% delle misure in esecuzione di pene alternative sono state revocate a causa di abusi, solo una ogni duecento è stata revocata perché il beneficiario aveva commesso nuovi reati. Fico: “lo Stato deve investire sui giovani, anche su chi è all’interno degli Istituti penali” agensir.it, 27 maggio 2020 “Lo Stato deve investire tutto sui giovani, anche su coloro che sono all’interno degli Istituti minorili, perché sono loro la nostra forza, è lì dove la società può crescere e può creare un mondo migliore”. Così il presidente della Camera dei deputati, Roberto Fico, in un videomessaggio indirizzato alle ragazze dell’Istituto penale di Pontremoli in occasione dell’inaugurazione virtuale di una mostra d’arte. “La nostra Costituzione dice chiaramente che la pena non può essere una mera punizione ma dev’essere un percorso rieducativo”, sottolinea la terza carica dello Stato. Lasciata “alle spalle” la pena, “si entra in un nuovo mondo, in un nuovo percorso”. Richiamando l’iniziativa che ha portato alla mostra, il presidente della Camera osserva come l’”espressione artistica ci aiuta un po’ a trovare quello che siamo, la strada dentro di noi. E quando si riesce a trovare la strada dentro di noi riusciamo anche a percorrere una strada migliore fuori di noi”. “Vi auguro di essere in questo percorso, di avere la forza di riuscire a realizzarlo e, soprattutto, di riuscire a realizzare i vostri sogni”, conclude Fico, promettendo che quando “questa terribile emergenza” sarà passata andrà a trovarle. Giustizia, oggi il vertice di maggioranza sul Csm di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 27 maggio 2020 Toghe nella bufera. Salvini chiede lo scioglimento del Consiglio superiore. Magistratura indipendente, la corrente di destra dell’Anm, abbandona anche il parlamentino dell’associazione. Si terrà oggi pomeriggio in via Arenula il vertice sulla giustizia di maggioranza che ha all’ordine del giorno la riforma del Csm. Il ministro Bonafede l’ha convocato dopo che il “terremoto” delle chat di Palamara si è abbattuto sulla magistratura. Provocando nel fine settimana la crisi della giunta dell’Anm e da ieri anche del parlamentino dell’Associazione nazionale magistrati, visto che la corrente di destra (Magistratura indipendente) ha annunciato l’intenzione di lasciare l’organismo. Ieri Salvini - evocato nelle chat di Palamara, dove l’ex leader di Unicost invitava i colleghi ad attaccarlo - è tornato a chiedere lo scioglimento del Csm. Richiesta rivolta al Quirinale, ma il Consiglio è attualmente in grado di funzionare ed è stato rinnovato in circa un terzo dei rappresentanti togati dopo le dimissioni di chi era rimasto coinvolto nello scandalo. Un anno fa Mattarella aveva usato parole molto dure contro quello che era emerso dagli atti dell’inchiesta di Perugia sulle nomine pilotate dei magistrati. Ed è assai probabile che il capo dello stato tornerà a farlo quando - come ha annunciato il vicepresidente Ermini - molto presto il presidente tornerà a guidare un plenum dell’organo di autogoverno dei magistrati. Sciogliere il Csm, come ha fatto notare ieri il Pd, significherebbe oltretutto interrompere i procedimenti disciplinari già avviati a carico dei sei magistrati: cinque sono ex componenti del Consiglio poi dimessisi, uno è il deputato di Italia viva Cosimo Ferri mentre Palamara è stato già sospeso dall’incarico. In Cassazione, dove il procuratore generale Salvi ha il potere di iniziare l’azione disciplinare, è stato costituito un gruppo di lavoro per passare al setaccio la mole di conversazioni captate dal cellulare di Palamara inviate da Perugia. Dovrà decidere se ci sono gli estremi per l’incolpazione. Riforma della giustizia e del Csm, i renziani alzano il prezzo. Oggi vertice con Bonafede di Marco Conti Il Messaggero, 27 maggio 2020 Sospetti sull’asse Renzi-centrodestra. Conte e il Pd: Italia viva deve chiarire. Mentre Luca Palamara, il magistrato al centro dell’inchiesta che ha terremotato prima il Csm e poi l’Anm, cita Dante, i partiti si posizionano in vista dell’ennesimo tentativo di riformare la giustizia. E lo fanno sfruttando il voto al Senato sul processo a Salvini per la vicenda dell’Open Arms. La Commissione presieduta da Maurizio Gasparri vota no alla richiesta di processare Salvini, e ora il giudizio toccherà all’aula del Senato dove per salvare il leader del Carroccio dal processo serviranno 161 voti. Nel frattempo c’è da fare i conti con l’astensione in giunta dei tre senatori di Italia Viva e due grillini che votano con il centrodestra. Più precisamente si tratta di un ex 5S come Giarrusso, e della grillina Riccardi che vota contro avvertendo prima il reggente del Movimento Crimi che - approfittando forse della disattenzione di alcune toghe - non si arrabbia. Anzi, ricambia la gentilezza dicendo che la senatrice non verrà deferita ai probiviri. Anche se i renziani Ettore Rosato e Gennaro Migliore si danno da fare per spiegare che il risultato in Giunta di 13 a 7 dimostra “che Iv non ha salvato il leader della Lega, il Pd accusa il colpo e attacca l’alleato che ancora una volta si è messo in posizione di attesa, pronto a far pesare i diciassette senatori che i renziani hanno a palazzo Madama. Un problema in più per Giuseppe Conte che tra un mesetto si troverà costretto anche ad affrontare il rischio che un pezzo della sua maggioranza possa andare altrove. Ed è per questo che il premier chiede a Renzi un “chiarimento” su quanto avvenuto ieri in Senato. I renziani ripropongono lo schema già collaudato in occasione della mozione di sfiducia a Bonafede, costringendo Conte a nuovi e concreti riconoscimenti. Tatticismi a parte, l’appuntamento per capire cosa intende proporre il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede è invece per oggi pomeriggio. I responsabili, in materia, dei partiti di maggioranza si attendono dal ministro un’accelerazione, visto che per ora l’unico intervento sul sistema è stata la cancellazione della prescrizione e la possibilità di inserire un trojan nei telefonini di chiunque. Sul resto, ovvero sulle riforme complessive, è da tempo buio pesto, anche se dem e grillini sostengono che non ci sono distanze insanabili dimenticandosi lo scontro che ci fu qualche settimana prima della pandemia sui tentativi di modifica della prescrizione. Il problema sarà capire da che parte si intende iniziare. Sulla necessità di riformare il Csm sono ormai tutti d’accordo e pronti a sfruttare la momentanea difficoltà delle toghe ancora alle prese con un selvaggio scontro interno. Se si considera che lo scandalo-Palamara, che ha svelato aberranti logiche correntizie, risale ad un anno fa si capisce perché nessuno si fa ora illusioni sul tentativo in atto. Limitarsi ad un po’ di maquillage, ovvero alla sola riforma dei meccanismi di elezione del Consiglio Superiore della Magistratura, può sembrare riduttivo, senza contare che, procedendo con legge ordinaria, si potrebbe arrivare in tempi brevi ad una delegittimazione dell’attuale Csm, che non piace al Pd. I dem, che oggi saranno rappresentati da Walter Verini, vorrebbero modifiche più sostanziali, anche sull’aspetto dei meccanismi disciplinari, che richiederanno interventi sulla carta costituzionale. Le proposte per riformare la legge elettorale di Palazzo dei Marescialli sono molte, anche se ieri FI e la Lega hanno fatto proprio un vecchio cavallo di battaglia del ministro Bonafede: il sorteggio. Un’idea che il Guardasigilli aveva messo da parte per l’opposizione del Pd, ma che potrebbe tornare ad aprire il dibattito dentro il Movimento. Con l’Anm a pezzi e le correnti che continuano a darsele di santa ragione, il momento sembra però per alcuni propizio per un tentativo di intervento anche più ampio. Ci prova Forza Italia che con Enrico Costa si prepara a presentare in aula un testo per la separazione delle carriere frutto della raccolta di firme delle camere penali, dove Iv potrebbe di nuovo inserirsi. Magari per scambiarlo con una nuova riforma della prescrizione. Fermiamo lo strapotere dei magistrati con separazione carriere e divieto di messa fuori ruolo di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 27 maggio 2020 Quando, un anno fa, esplose la “vicenda Palamara”, noi penalisti scegliemmo la strada del dialogo e del confronto. Niente caccia alle streghe, ripugnanza per il gioco al massacro sulle intercettazioni, soprattutto perché - dicemmo - le intercettazioni sono largamente parziali, e sono selezionate secondo logiche che non conosciamo. Non facciamo decidere ad altri di cosa dovremmo scandalizzarci, ragioneremo ad indagini concluse. Ma invitammo da subito A.N.M. a non commettere un errore che sarebbe stato fatale innanzitutto per sé stessa: e cioè affrontare la vicenda come un caso di devianza deontologica e addirittura criminale di qualche magistrato, e di uno in particolare. Sapevamo tutti perfettamente che da quelle carte, seppure centellinate dalla (legittima) strategia investigativa, emergeva un sistema, “il” sistema, a tutti ben noto, che un trojan aveva impietosamente registrato nel protagonismo di Luca Palamara, ma che qualche anno prima sarebbe emerso identico, nella interpretazione, magari più elegante o più prudente, del leader di turno. Perciò alzammo la posta, convocammo “gli Stati Generali dell’Ordinamento Giudiziario”, condividendone l’impostazione proprio con A.N.M., per dire: nessun gioco al massacro, ma lavoriamo, pur nelle diversità profonde dei nostri rispettivi punti di vista, ad un ripensamento radicale del sistema. Fu un bel confronto, serrato, importante per qualità e franchezza: ma poi il copione ha inesorabilmente virato nel senso che temevamo. E via con la retorica del riscatto morale e della eccezionale gravità di quei comportamenti, con la rassicurante narrazione delle mele marce. Oggi, pubblicati gli atti nella loro integralità, si raccolgono i cocci di una implosione devastante. Ripetiamo dunque oggi quello che dicemmo allora. Di cosa si discute nella totale prevalenza di quelle conversazioni? Di capi degli Uffici di Procura e relativi Aggiunti, e di distacchi al Ministero di Giustizia. Cioè dei luoghi del potere vero, un potere enorme. Il potere di chi, solo iscrivendo o non iscrivendo nel registro degli indagati, decide le sorti di Assessori, Sindaci, Governatori di Regioni, Ministri, Governi, assetti di aziende pubbliche e private, dinamiche industriali colossali. La giurisdizione, cioè le decisioni dei giudici su quelle iniziative delle Procure, le sentenze a conclusione dei processi, non interessano a nessuno, non contano nulla. Che il potere sia tutto negli Uffici di Procura è reso evidente anche dagli assetti di A.N.M., nella sua storia governata in modo praticamente esclusivo da Pubblici Ministeri, che pure rappresentano il 20% scarso del corpo elettorale. E dunque in questo Paese i Magistrati dell’Accusa letteralmente governano la giurisdizione, i suoi assetti territoriali e gli equilibri dell’organo di autogoverno. Un potere immenso di condizionamento assoluto della giurisdizione. Come se non bastasse, essi governano altresì i distacchi dei magistrati nell’Esecutivo, e soprattutto nel Ministero di Giustizia, una assurdità esclusiva del nostro Paese, un’autentica sovversione del principio democratico fondamentale della separazione dei poteri. Così immenso essendo il potere in gioco, stupirsi che la Magistratura incontri la Politica nei ristoranti romani a tarda notte è un oltraggio alla intelligenza ed alla onestà intellettuale. Davvero si pretende che la Politica non chieda conto dell’esercizio di un simile potere? Che non pretenda, con qualche ragionevole legittimità, di metterci bocca? Basta con questa nauseante ipocrisia, non serve davvero a nessuno. Noi proponiamo da molti anni due cose molto semplici, in coerenza con questa analisi: separazione delle carriere, per liberare la giurisdizione dal giogo inconcepibile della magistratura inquirente; divieto di messa fuori ruolo dei magistrati per invadere l’esecutivo, ed il Ministero di Giustizia in particolare (titolare del potere disciplinare, giusto per non dimenticarcelo). Occorre cioè ricondurre il potere della Magistratura inquirente nell’alveo della normalità costituzionale, liberando la giurisdizione e la politica giudiziaria da quell’abnorme potere di controllo. Per quanto tempo ancora la cristallina ragionevolezza di queste proposte potrà essere ignorata? Un magistrato spiega cosa può fare il Csm per non essere più ostaggio delle correnti di Giuseppe Santalucia* Il Foglio Quotidiano, 27 maggio 2020 Molto probabile che, questa volta, di una riforma del Consiglio superiore della magistratura non si possa fare a meno. Nella passata legislatura il governo l’aveva messa in cantiere e ne aveva approfondito, con apposite commissioni di studio, impalcatura e contenuti. Il Csm di allora, pur non sottraendosi al confronto con i testi elaborati dalle commissioni ministeriali, scovò nell’autoriforma la parola d’ordine per indurre il legislatore a soprassedere. Quindi modificò il Regolamento interno ma, come era ampiamente prevedibile, lo sforzo non produsse i risultati sperati, e necessari. Oggi il tema della riforma è tornato alla ribalta, grazie a indagini penali e campagne di stampa che rivelano, in dosi quotidiane, spezzoni di corrispondenza privata di un componente del Csm di allora, di cui ancora non si sa se, e in che misura, siano rilevanti per l’accertamento delle penali responsabilità. Ma questa è un’altra storia. La tutela della riservatezza delle comunicazioni dei terzi estranei alle indagini, e dell’indagato per fatti non collegati all’imputazione, non ha mai appassionato gli addetti ai lavori. Quando il legislatore ha affrontato il problema si è paventato ed enfatizzato il rischio che cautele e prudenza selettiva, necessarie per non mettere in piazza - inutilmente e con danno per i diritti fondamentali delle persone - le vite degli altri potessero tradursi in un depotenziamento delle indagini e quindi del principio di obbligatorietà dell’azione penale. Ad ogni modo, per questa via tortuosa l’affaire Csm ha riconquistato priorità: lo ha annunciato qualche giorno fa il Ministro della Giustizia che, sembra di capire, tornerà con forza e determinazione al progetto messo da parte per l’emergenza pandemica. Una gran parte di quel progetto, è noto, attiene alla modifica del sistema elettorale. Il ministro si era detto in un primo tempo favorevole a meccanismi di sorteggio, poi aveva abbandonato il proposito dopo le numerose critiche e i seri dubbi di costituzionalità da più voci sollevati. Ora, con l’acuirsi della crisi consiliare, o meglio: della visibilità della crisi, non è detto che non riprenda quel disegno. La radicalità brutale della proposta potrebbe apparire una soluzione adeguata alla gravità della situazione. C’è però un altro sentiero da imboccare che rimane spesso in ombra, muovendo sempre dalla stessa premessa. Il Csm rischia di perdere credibilità, sia tra i magistrati che nella collettività. Fu pensato per presidiare autonomia e indipendenza dei magistrati, ma il timore è che venga visto e vissuto come un’istituzione da cui difendersi. Un ribaltamento di prospettiva da superare rapidamente. Il nodo è la scarsa fiducia che circonda la sua azione: tra i magistrati è un costante dibattito sul se aumentare e di quanto e come i vincoli per la discrezionalità del Csm, le cui delibere a volte sono assai poco comprensibili. Altri avvertono un pericolo non da poco: che nel proliferare di regole e regolette, nel ginepraio di disposizioni si possa con più facilità annidare l’arbitrio. Cosa fare? Sconfiggere il carrierismo dei magistrati, si è detto. La voglia di carriera guasta gli animi e inquina l’attività consiliare. Ottimo progetto, ma che richiede tempo perché si recuperi un diverso diffuso sentire, e il tempo è la risorsa di cui non si dispone. Il compito del Csm, del resto, è proprio di governare le ambizioni di carriera dei magistrati, di contenerle e reprimerle quando meritano di essere conculcate, e di premiarle quando è giusto farlo, il tutto nell’esclusivo interesse di assicurare alla collettività il miglior servizio giudiziario possibile. Da dove, allora, il soccorso? La risposta è semplice. In una democrazia è la politica che deve intervenire, con lo strumento di maggiore garanzia: la legge. Nei momenti di maggiore difficoltà conviene tornare alla Costituzione. Lì è scritto che il Consiglio svolge i suoi rilevanti compiti - assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, promozioni, ecc. - secondo le norme dell’ordinamento giudiziario. La formula è stata storicamente intesa in modo da riconoscere in capo al Csm un robusto potere di così detta normazione secondaria: non solo esecutore delle previsioni di legge ma facitore concorrente delle regole da applicare. Questa idea maturò in anni lontani, nella stagione del fervore costituzionale, in cui la magistratura e il Csm furono impegnati a realizzare l’ambizioso progetto della Carta. Ciò avvenne in un contesto di forte vitalità politica, in cui le correnti erano motore di elaborazione culturale sul modo in cui interpretare il ruolo di magistrato. Lo scontro, allora, era molto più sulle idee che sui posti. Quel circolo virtuoso si è interrotto. La crisi della politica ha investito anche e soprattutto il Csm, figlio di quegli anni e a disagio in un presente che dell’antipolitica ha fatto una bandiera, anche tra i magistrati. In questo delicato e pericoloso frangente bisogna recuperare il significato di garanzia del dominio della legge voluto in materia dalla Costituzione, e in un certo senso irrigidirla. Essa è garanzia per i magistrati ma, in fin dei conti, anche per il Csm e, quindi, per la vita democratica della comunità. Che l’assoluto dominio della legge possa cedere in parte, lasciando spazi al Csm per integrare e completare le regole, è una possibilità, non una necessità costituzionale. Tornando alle carriere dei magistrati, che si scopre essere il fronte debole dell’azione consiliare, sarebbe bene che fosse la legge a dire quali profili professionali siano da valorizzare per l’uno o per l’altro o per l’altro ancora degli incarichi e dei posti da conferire, senza limitarsi a dettare la cornice riempibile con i più mutevoli contenuti, inevitabilmente condizionati dalle contingenti necessità di recuperare consensi effimeri dentro la cd. base della magistratura. Si potrà così evitare di leggere in una delibera consiliare che la pluralità di esperienze professionali è una qualità decisiva per far vincere un candidato e in un’altra, di poco precedente o successiva, che la permanenza in una stessa funzione o posto è valore da premiare per far vincere tal altro candidato: o, ancora, che la conoscenza del territorio in cui opera un ufficio giudiziario è il valore aggiunto che quel candidato esprime rispetto ad altri, decisivo per farlo prevalere, e in altra competizione concorsuale di qualche settimana successiva veder premiato altro candidato proprio perché ha sempre svolto la sua attività lontano dal territorio in cui opera l’ufficio che gli viene affidato. In questi esempi non si coglie un confronto tra culture diverse su come intendere ruolo e funzione dell’essere giudice: si avverte soltanto un pericoloso disorientamento, che crea lontananza e diffidenza. *Magistrato della Corte di cassazione Togliete loro tutto ma non il trojan, dio dei pm kamikaze di Errico Novi Il Dubbio, 27 maggio 2020 Neppure ora l’Anm rinnega le intercettazioni. Ventitré marzo 2018. Aula magna della Corte d’appello di Roma. Un grande convegno, uno dei più importanti incontri sulla giustizia degli ultimi anni, vede discutere insieme i capi delle maggiori Procure del Paese con gli avvocati dell’Unione Camere penali. È la giunta presieduta da Beniamino Migliucci ad aver convocato l’adunanza. Si discute di intercettazioni. Alcuni dei procuratori, per esempio il numero uno dei pm palermitani Franco Lo Voi, difendono con energia persino il diritto dell’imputato “che sa di essere colpevole” di “cercare senza problemi, nel materiale captato, una comunicazione che autorizzi un dubbio” e di “utilizzarla nel processo”. Il testo destinato all’epoca a entrare in vigore, la riforma Orlando, limita parecchio l’accesso del difensore all’archivio segreto. Di fatto lo costringe a passare alcune migliaia di ore in una stanzetta del palazzo di giustizia, munito di auricolari ma senza poter copiare i file, nella speranza di imbattersi prima o poi in un passaggio, una frase, una battuta del proprio assistito che porti conforto alla tesi difensiva. Una follia. Come una follia è la previsione, sempre inserita in quel testo di riforma, per cui è la polizia giudiziaria a selezionare le intercettazioni rilevanti. Quelle che ritiene trascurabili non le trascrive. Al massimo annota in una sorta di registro che l’intercettazione c’è stata e descrive in un titolo secco il contenuto, in modo che il pm, se proprio gli salta la mosca al naso, può chiedere di ascoltare il file e vederci più chiaro. Quella riforma, due anni dopo, cioè a fine febbraio scorso, cambia in profondità, restituisce il controllo delle operazioni ai pm e la possibilità conoscitiva all’avvocato. Il dialogo di istituzioni e associazioni forensi con la magistratura, insomma, si rivela prezioso. Di fatto sono proprio le osservazioni dell’élite della magistratura inquirente - all’epoca del convegno con l’Ucpi nobilitata dalla presenza di figure del calibro di Spataro e Pignatone, oltre che degli ancora “in ruolo” Lo Voi, appunto, Creazzo, Greco e Melillo - a indirizzare l’edizione finale della riforma targata Bonafede. Non solo, perché sempre i capi delle grandi Procure, nel dicembre scorso, segnalano al guardasigilli la necessità di rinviare l’entrata in vigore del decreto, in un incontro a via Arenula in cui fanno sentire tutta la loro indiscutibile autorevolezza. Basti la ricostruzione per ricordare che le intercettazioni sono roba da pm. Sono l’espressione più estrema del loro legittimo potere. Giusto così. Si tratta dello strumento investigativo più penetrante, ovvio che sia l’arma letale dei pubblici ministeri. Ma la circostanza rende ancora più clamorosa la parabola del boomerang tornato addosso alla magistratura col sequel del caso Palamara. Anche perché a essere colpiti non sono tanto i singoli pm chiamati in causa dalle intercettazioni perugine, ma l’Anm nel suo complesso. E l’Anm, altro aspetto notevole, da anni è presieduta quasi solo da pm: Luca Palamara, Rodolfo Sabelli, Piercamillo Davigo, Eugenio Albamonte, Francesco Minisci, Luca Poniz: tutti pm. Ha fatto eccezione solo Pasquale Grasso, giudice del Tribunale di Genova, non a caso quello che è stato in carica meno di tutti. Ora l’Anm, l’associazione presieduta quasi sempre da inquirenti, è in crisi. E c’è da crederlo. Avete però sentito per caso in queste ore un pm, magari con ruolo di peso nell’Anm o al Csm, magari tra coloro che sono stati “mascariati” dalla sputtanopoli togata, dire che si deve smetterla con l’uso strabordante dei trojan? Qualcuno che abbia aderito alla lezione di Giovanna Maria Flick, intervenuto con un’intervista a questo giornale per ricordare che se è sacra la libertà di manifestare pubblicamente il proprio pensiero, articolo 21, lo è pure quella di esprimerlo in privato, articolo 15, giacché nel diritto di “poter comunicare privatamente con chi vuole, in condizioni di segretezza” è “consacrato il diritto alla diversità e all’identità della persona”? Nessuno: non c’è alcun cedimento. Togliete loro tutto, ma non le intercettazioni. E nessuno si sognerà di togliergliele, d’altronde, nessuno attenuerà la libertà d’uso dei trojan introdotta da Bonafede con la sua riforma a fine febbraio (ora la riforma è congelata fino al 31 agosto, ma certo nel merito nessuno ha pensato di toccarla). Nessuno tra i partiti si permette di condurre campagne per corregere quelle norme, tranne, va riconosciuto, la sorprendente Giorgia Meloni che ieri, su La Verità, ha chiesto di rivederle, considerata “l’enorme portata del tema” emersa anche col “caso Salvini-pm”. Ma a parte simili, rare eccezioni, non ci pensa alcuno, a fare passi indietro. Due sere fa, nella riunione del direttivo Anm, è stato non a caso un magistrato giudicante, Marcello Basilico, persona appassionata e intellettuale progressista autentico, a prendersela proprio con il quotidiano di Maurizio Belpietro, che ha diffuso le “propalazioni” nefaste per l’Anm. I colleghi in ascolto non lo hanno seguito, hanno lasciato cadere la cosa. E se i colleghi della Verità sono gli unici, in questi giorni, a spiattellare le primizie da Perugia, non è che noi altri ci siamo stracciati le vesti per la nuova ordalia. Al massimo li abbiamo invidiati. Le intercettazioni sopravvivranno a tutto. Alla distruzione di qualsiasi classe dirigente italiana. Dopo quella politica, anche di quella togata. Pronta come un plotone di kamikaze a farsi saltare per aria e a morire per la gloria del captatore informatico. Toglieteci tutto, anche l’Anm, ma non le intercettazioni. Pasquale Grasso: “Anm travolta da un folle egoismo, ora verità e nuove regole per il Csm” di Errico Novi Il Dubbio, 27 maggio 2020 Intervista all’ex presidente dell’Anm: “Adesso serve una Commissione Verità”, “Sapete cos’è avvenuto? Che i magistrati, i magistrati normali che lavorano tutti i giorni e sono i garanti dei diritti dei cittadini, hanno visto che comportamenti inappropriati li avevano commessi anche alcune delle persone che lo scorso anno, in Csm e Anm, tuonavano e condannavano. Si è disvelata la follia e l’egoismo di quel modo di ragionare. Ora niente processi di piazza o vendette. Serve un’azione simile a quella della commissione per la Verità nel Sud Africa post apartheid”. Pasquale Grasso non è uno che cerca la ola. Anche se spesso finisce per riscuotere consensi. Fatto sta che nella primavera dell’anno scorso gli è capitato di essere eletto presidente della Anm. Indicato dal suo gruppo, dal suo gruppo di allora, Magistratura indipendente. Non si trova nel periodo più comodo, diciamo, perché nel giro di poche settimane arriva l’uragano del caso Palamara. Visto che dice quello che pensa, Grasso rompe prima con i suoi, con “Mi” e poi con gli altri, e viene sostituito da Luca Poniz, ora dimissionario a propria volta. Punto di caduta: dopo essersi dimesso anche da semplice componente del direttivo, il “parlamentino” della Anm, può permettersi di dire quello che pensa senza sembrare un venditore di slogan, anche se nel frattempo si è riavvicinato alla sua vecchia componente e sostiene tesi evidentemente vicine alle posizioni di quel gruppo. Un anno fa la vulgata attribuì a “Mi”, ancor più che a Unicost, il marchio di corrente incline alla gestione reticolare del potere. Oggi si scopre che le pratiche disinvolte erano trasversali. Se fin dall’inizio si fosse fatta distinzione fra illeciti personali e presunta superiorità morale di gruppo, oggi la stessa magistratura apparirebbe meno sfilacciata e ne uscirebbe con le ossa meno rotte? Lo scorso anno i dirigenti dell’Anm di oggi scelsero di “indirizzare” lo scandalo, e utilizzarlo per un mutamento dei rapporti di forza interni alla magistratura. Manifestando così la propria distanza dai magistrati di tutti i giorni, scelsero questa strada invece di imboccare la direzione di un patto rifondativo dell’associazionismo, con nuovi modi di valutazione e selezione dei magistrati apicali e più sensati rapporti con la politica. Lei descrive un’operazione condotta a freddo, come se fosse stata ispirata da un lucido e calcolato cinismo. Davvero crede che sia andata così? Guardi che non è una cosa che mi sto inventando adesso, furono le mie dichiarazioni di quei giorni. Mi fu risposto che non era possibile, che una parte, una sola, della magistratura andava posta in quarantena, e pochi secondi dopo erano lì con il bilancino a suddividere gli incarichi in Anm. Ripeto, nel fare ciò hanno trascurato di dare una risposta di verità ai magistrati normali. Solo che adesso i magistrati normali hanno visto che comportamenti, vogliamo dire, inappropriati li avevano commessi anche alcune delle persone che lo scorso anno tuonavano e condannavano, sia in Anm che al Csm. Si è disvelata la follia e l’egoismo di quel modo di ragionare. Intanto ora la magistratura, pur sempre fra le ultime élites intellettuali del Paese, rischia anche di non essere più considerata nel dibattito pubblico, con le altre classi dirigenti già in crisi nera. È così? In questi giorni come lo scorso anno, penso che dobbiamo avere ancora la forza di fare qualcosa di simile alla Commissione per la Riconciliazione e la Verità del Sud Africa post apartheid. Qualcosa che ci permetta di ricordare che siamo cittadini italiani, che la nostra società è fatta delle interconnessioni di politica, giurisdizione, imprenditoria, cultura. Ricorda l’apologo di Menenio Agrippa, che spiegò l’ordinamento sociale romano paragonandolo a un corpo umano? In pratica un precursore della sociologia moderna... Bene, e secondo una visione sistemica è chiarissimo come gli elementi di una società da soli muoiono, e solo insieme rendono vincente una Nazione. Dunque non processi di piazza o vendette, ma riconoscimento e disvelamento di quanto accaduto e un percorso di rinnovamento insieme, senza insensatezze e aporie logiche motivate da reazioni di pancia. Basta moralismi, d’accordo. Ma come si spiega lo scivolamento di parte della magistratura nella gestione frenetica e disinvolta del potere? Perché si è giunti alla degenerazione del correntismo? È semplicistico immaginare che la causa di quel che leggiamo siano le mele marce della magistratura, o la inesistente casta dei magistrati. E allora di che si tratta? Un paio d’anni fa in un’intervista a questo giornale Piergiorgio Morosini mise all’indice il carrierismo indotto dalla gerarchizzazione degli uffici: condivide? C’è una risalente concatenazione di fattori, tra i quali non hanno certo avuto un ruolo trascurabile riforme normative che troppo tendevano a inserire elementi, del tutto impropri, di gerarchizzazione negli uffici giudiziari, e conseguente maggiore appeal dei ruoli direttivi. Non sarebbe male pensare quale fosse lo scopo di una maggiore gerarchizzazione e se fosse, e sia stata, utile alla società. Si tratta di una riforma voluta dalla politica una quindicina d’anni fa... L’illusione di aumentare la discrezionalità nelle scelte del Csm per premiare il cosiddetto merito ha fatto forse il resto. Dico sempre che, per l’illusione di selezionare pochissimi “primi della classe”, forse inesistenti, abbiamo creato un sistema debole. Si tratta di una visione molto interessante, anche considerato che per la nostra Carta i magistrati sono tutti uguali. Ma ora c’è il rischio di un Csm annichilito da una controriforma? Adesso serietà impone di riconsiderare il sistema di selezione dei direttivi, con un preponderante ruolo dell’anzianità. Vedo benissimo anche la rotazione degli incarichi e la loro non reiterabilità. Sono assolutamente contrario a forme di sorteggio per il Csm. Lei crede che la magistratura riuscirà davvero a scrollarsi di dosso le macerie di quest’ultimo anno? Lavorino comunque insieme, politica e magistrati perbene, l’assoluta maggioranza. Se si avrà la forza, nella magistratura e con la politica, di coltivare interlocuzioni che non si basino sui rapporti di forza ma sul bene comune e sul dialogo, soprattutto sul dialogo con i “giudici di tutti i giorni”, quelli che lavorando tutti i giorni sono i garanti del rispetto dei diritti individuali e pubblici dei cittadini, parte sana del Paese che si ritrova ancora una volta incolpevolmente sporcata da questi schizzi di fango, politica e magistratura avranno reso un grande servizio di speranza e verità ai cittadini. Lo stop alla prescrizione finisce alla Consulta di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 27 maggio 2020 Lo stop alla prescrizione penale nel periodo dell’emergenza sanitaria è in contrasto con la Costituzione. Innanzitutto sotto il profilo del rispetto del principio di legalità e poi per contrasto con il sotto-principio di irretroattività della legge penale sfavorevole. A non convincere il giudice unico di Siena, che con ordinanza del 21 maggio ha rinviato la questione alla Corte costituzionale, è la previsione (articolo 83 quarto comma del decreto legge 18/20, convertito dalla legge 27/20) per cui il corso della prescrizione dei reati commessi prima del 9 marzo 2020 è sospeso per un periodo di tempo pari a quello in cui sono sospesi i termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti penali. Cominciano così a diffondersi le questioni di legittimità sulla disciplina dell’amministrazione della giustizia nell’emergenza sanitaria, dopo che la scorsa settimana era stata rinviata alla Consulta la legittimità dell’obbligo di presenza in ufficio del giudice nelle udienze civili. Ora, nel penale, lo stop della prescrizione, ha di fatto impedito nel caso esaminato dal giudice monocratico di Siena che si prescrivessero una serie di reati edilizi commessi prima del 9 marzo, con data di prescrizione ordinaria al 20 aprile. L’ordinanza, nel sottolineare come la prescrizione deve essere considerata un istituto di diritto penale sostanziale, nello smentire la possibilità di un’interpretazione della norma coerente con la Costituzione, confuta anche le obiezioni centrate sulla natura eccezionale della misura. È infatti, puntualizza l’ordinanza, la stessa logica dello Stato di diritto “a frapporre un argine invalicabile alla possibilità di individuare spazi di deroga o ambiti di non applicabilità” a quei principi che rappresentano “elementi identificativi dell’ordinamento costituzionali”. e tra questi non può non essere annoverato il principio di legalità; nessuna deroga può quindi essere ammessa all’irettroattività della legge penale sfavorevole. Liguria. Entro tre mesi sarà istituito il Garante dei detenuti Il Secolo XIX, 27 maggio 2020 Il voto spacca la maggioranza in Regione. La proposta di legge approvata dal Consiglio regionale ha ottenuto 21 voti a favore. Per la prima volta dalla sua istituzione la Regione Liguria entro tre mesi da oggi avrà un garante esclusivo dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, come i detenuti, gli stranieri nei centri di prima accoglienza o le persone sottoposte a Tso (Trattamento Sanitario Obbligatorio). La proposta di legge approvata dal Consiglio regionale ha spaccato la maggioranza: 21 i voti a favore, l’intero centrosinistra, M5S, il Buonsenso e il centrodestra esclusa la Lega, che ha espresso i 7 voti contro. “In carcere bisogna andarci, lì dentro deve esserci il diritto, chi garantisce i diritti non sbaglia mai”, interviene il capogruppo di Cambiamo! Angelo Vaccarezza. “Il nostro Paese ha cassetti pieni di diritti, ma bisogna anche fare - interviene il consigliere della Lega Paolo Ardenti - Il carcere in cui si trovano i detenuti oggi probabilmente sarà lo stesso in cui si troveranno fra dieci anni, del carcere nuovo di Savona se ne parla da vent’anni, sono quarant’anni che non si fa”. Il garante durerà in carica cinque anni e non sarà rieleggibile. Sarà eletto dall’assemblea legislativa ligure a scrutinio segreto a maggioranza dei due terzi dei consiglieri. Gli spetterà un’indennità di funzione pari al 40 per cento dell’indennità mensile lorda spettante ai consiglieri regionali, nonché i rimborsi spese e trattamenti di missione previsti per i dirigenti della Regione. Toscana. Dalla Regione risorse e progetti per la salute dei detenuti luccaindiretta.it, 27 maggio 2020 Delibera approvata in giunta con gli obiettivi prioritari per il 2020. Implementazione dell’assistenza psicologica, monitoraggio delle azioni per prevenire il suicidio in carcere, recupero e reinserimento sociale, miglioramento delle condizioni di benessere psicofisico, intensificazione della rete dei servizi e della qualità delle prestazioni, consolidamento dell’utilizzo della cartella clinica informatizzata, interventi appropriati a favore dei bisogni di salute dei minori, monitoraggio e azioni a sostegno della popolazione detenuta con problemi di tossicodipendenza e/o salute mentale, formazione professionale. Sono questi gli obiettivi prioritari per la tutela della salute in carcere per il 2020, individuati dalla delibera approvata dalla giunta nella seduta di ieri pomeriggio, dando continuità alle precedenti delibere di programmazione relativa agli anni 2017-2019. La delibera assegna anche 314.716,80 euro, per definire e realizzare progetti annuali finalizzati a rafforzare l’assistenza psicologica nelle carceri, così suddivisi: 201.216,00 per l’Asl Centro; 83.751,00 per l’Asl Nord Ovest; 29.749,80 per l’Asl Sud Est. “La nostra Regione è sempre stata molto attenta a queste problematiche, garantendo l’assistenza sanitaria a tutti i cittadini, sia liberi che detenuti - spiega l’assessore per il diritto alla salute, Stefania Saccardi - È per questo motivo che abbiamo voluto dare continuità a obiettivi e a progetti individuati negli anni precedenti e che, nell’anno in corso, potranno essere perfezionati e monitorati, per valutare il loro impatto sullo stato di salute della popolazione carceraria, adulta e minorile. Abbiamo sempre creduto nella promozione della salute in ambito penitenziario, nell’inclusione sociale senza distinzione di provenienza o di condizione di malattia, e nel reinserimento lavorativo, così come abbiamo sempre investito nella prevenzione primaria, secondaria e terziaria e nell’individuazione dei fattori di rischio, che possono causare disagio psico-fisico. Questo è stato possibile grazie al dialogo continuo con gli organi della magistratura e dell’amministrazione penitenziaria, sia in seno all’osservatorio regionale permanente sulla sanità penitenziaria, sede di momenti programmazione, sia attraverso specifici tavoli interistituzionali, che hanno portato alla stesura di appositi protocolli, utili alla costruzione di progetti, che tendono a conciliare le esigenze di tutela della sicurezza sociale con quelle di cura e riabilitazione del paziente”. I beneficiari delle azioni, indicate dalla delibera, sono detenuti senza distinzione di provenienza o di condizione di malattia, adulti e minori, pazienti psichiatrici destinatari di misure di sicurezza, persone condannate in misura alternativa presenti sul territorio regionale, minori interessati da provvedimenti giudiziari, operatori sanitari e sociali operanti negli istituti penitenziari e nei servizi territoriali, personale penitenziario, personale delle strutture di accoglienza e di cura e riabilitazione. Napoli. Vuole laurearsi in carcere ma gli negano il Pc per studiare di Rossella Grasso Il Riformista, 27 maggio 2020 Detenuto fa sciopero della fame: “Tanto vale lasciarsi morire”. È questo quello che ha pensato A.G., condannato all’ergastolo dal 1996. Privato della libertà, del diritto allo studio, di curarsi e anche di vedere i propri familiari che vivono in un’altra regione ha deciso di lasciarsi morire iniziando lo sciopero della fame, rifiutando di assumere anche i suoi farmaci salvavita. Succede nel carcere di Secondigliano dove A.G. è stato trasferito lo scorso settembre da Voghera. A denunciarlo è Pietro Ioia, Garante dei Detenuti di Napoli e Sandra Berardi dell’Associazione per i diritti dei detenuti Yairaiha Onlus. A.G. è detenuto ininterrottamente dal 1996, il suo ultimo reato risale al 1994, quando aveva appena 21 anni. “Oggi è una persona completamente diversa - si legge nella nota inviata da Sandra Berardi alle autorità penitenziarie - che ha effettuato una revisione critica del proprio passato, priva di qualsiasi collegamento e relazioni con le dinamiche criminali. A conferma di ciò anche la relazione della Dda di Catania del 5/7/2017 alla quale non risulta nessuna attualità di collegamenti”. A.G. ha iniziato il 25 maggio lo sciopero della fame e ha sospeso l’assunzione di medicine salvavita per combattere contro la cardiopatia e la sindrome delle apnee ostruttive di cui è affetto. Ha iniziato lo sciopero della fame in risposta al rifiuto da pare dell’amministrazione del carcere di Secondigliano dell’utilizzo del Pc per poter studiare e del ventilatore che gli consente di sopportare il caldo e riuscire a sopravvivere per la sua cardiopatia. Proprio con lo studio infatti G.A. ha creduto fortemente di potersi riscattare da una vita piena di errori. Fin da subito ha cercato di portare avanti i percorsi formativi intrapresi negli istituti precedenti. Nell’istituto di Catanzaro ha infatti conseguito il diploma di istruzione superiore e diversi attestati di formazione; mentre a Voghera si era già iscritto all’università e, con il trasferimento, ha confermato questa volontà iscrivendosi alla facoltà di Sociologia presso la Federico II. “Un percorso personale volto all’affermazione del proprio cambiamento interiore, di allontanamento e presa di distanze delle dinamiche devianti che hanno caratterizzato la sua gioventù”, ha scritto Berardi. La rappresentante dell’associazione Yairaiha Onlus spiega che gli è stata negata l’autorizzazione all’uso del computer, acquistato previa autorizzazione della CC di Secondigliano stessa, dai familiari e modificato per come indicato dalla stessa direzione ovvero la chiusura delle porte usb e l’installazione dei programmi consentiti. Un pc è legato alle attività di studio e alla fruizione del materiale universitario che l’università ha fornito su cd-Rom. “Essendo impossibilitato a consultare il materiale didattico, viene, di fatto, preclusa la possibilità di studiare - continua Berardi - Infatti, alla data odierna, non ha potuto ancora sostenere nessun esame e ciò costituisce una pregiudiziale ed un elemento demotivante che allontanano la persona dal personale progetto di crescita intellettuale e morale”. Roma. Storia di Edward, 2 anni: unico bimbo rinchiuso nel nido di Rebibbia di Giulio Cavalli Il Riformista, 27 maggio 2020 Rimasto solo nel nido. Non è il titolo di un romanzo o di una gustosa serie televisiva, solo nel nido ci è rimasto Edward che ha 2 anni e da settembre dell’anno scorso passa la giornata dentro il nido del carcere di Rebibbia, considerato modello nazionale eppure sempre spazio contornato di sbarre e con una libertà centellinata. Solo che il nido, dopo che sono risultati positivi al Covid-19 due medici e due infermiere che prestavano servizio nel complesso femminile del carcere di Rebibbia, è stato completamente svuotato accedendo a misure alternative di tutti i 14 bambini che c’erano all’inizio dell’emergenza Coronavirus, tutti tranne Edward e sua madre Naza. Lei ha 42 anni e per un cumulo di condanne deve scontare 18 anni di carcere. Naza non ha commesso nessun reato contro la persona, qui siamo lontani dai boss di mafia su cui si è fatto tanto rumore, ma la sua esistenza difficile di madre di ben 13 figli, il suo cognome non italiano e le condanne per furti aggravati e non l’hanno resa una storia minore, una di quelle vicende laterali che risulta perfino scomodo raccontare in questi tempi in cui buttare via la chiave per i colpevoli è diventata la frase regina del dibattito politico e pubblico. Il carcere, si sa, lo fanno quelli che non hanno abbastanza voce e abbastanza soldi per potersi fare ascoltare e così a Naza non spetta che attendere l’esito del suo ricorso, l’ultima udienza è stata lo scorso mercoledì, e sperare. Le colpe di Edward invece sono le stesse di tutti i figli di madri carcerate: essere figlio. Intanto balza agli occhi un dato: in questi due mesi i magistrati competenti, non solo di sorveglianza, hanno usato tutti gli strumenti per scarcerare i bambini del nido di Rebibbia, a dimostrazione del fatto che se esiste la volontà (non solo sanitaria) di garantire un’infanzia dignitosa a bambini reclusi esistono strumenti a disposizione. Bisogna avere il coraggio di usarli e di osarli. “Non facciamoci anestetizzare perché l’alba della vita in un carcere non ha senso. I primi mille giorni della vita non possono esser privati di tutti gli stimoli: affettivi, cognitivi, relazionali, ambientali, sociali, sensoriali che formano la personalità e l’identità” scriveva Leda Colombini, partigiana, assessore agli enti locali e ai servizi sociali della Regione Lazio e poi deputata. In Italia esistono 12 nidi nelle carceri, usati per bambini fino al terzo anno di età. C’è una legge, la 62 del 2011, che ha istituito le case famiglia protette che nelle intenzioni dovrebbero garantire ai bambini condizioni il più possibile vicine a quelle dei loro coetanei. Solo tre anni fa a Roma è stata inaugurata la prima casa protetta intitolata proprio a Leda Colombini. Dal 2006 sono stati creati anche gli Icam, istituti a custodia attenuata per detenute madri in cui le recluse possono tenere i loro figli fino al sesto anno di età. Edward è rimasto solo nel nido e sua madre ha un fine pena che scade nel 2037. Strano Paese questo che si innamora dei bambini quando possono servire per riempire qualche colonnina di siti e giornali con una notiziola curiosa e che invece ritiene normale che possano stare all’interno di un carcere in piena pandemia. Strana politica quella che si ingegna nella narrazione dei fragili e degli ultimi e che non riesce a buttare un occhio al più fragile degli ultimi che oggi ha il sorriso spento di un bambino. Strana anche questa generalizzata informazione che si azzanna sulla didattica a distanza e che non perde un minuto a pensare a chi, così piccolo, abbia in sottofondo l’ombra delle sbarre, il rumore delle porte blindate e una socialità coltivata dai volontari che girano intorno. Ci sono sentimenti che non trovano spazio nelle leggi e che non riescono nemmeno a gocciolare nella discussione pubblica: ci dicono da mesi, mentendo e sapendo di mentire, che la pandemia sarebbe una livella che mette tutti sullo stesso piano e invece ancora una volta siamo di fronte a una punta che affligge i deboli che si ritrovano più deboli e perfino dimenticati. Se c’è una scala di dolori e di valori che riesce a non curarsi di un bambino detenuto con la madre mentre si srotolano protocolli e divieti dappertutto significa che ci si è indurita la coscienza, da qualche parte, e abbiamo molta confusione nelle priorità. È una storia piccola, certo, ma Edward da solo nel nido di Rebibbia è la fotografia di come sia facile, basta poco e niente, rimanere incastrati nella maglia delle regole. Napoli. Area di Bagnoli: progetto per costruire un nuovo carcere di Paolo Grassi Corriere del Mezzogiorno, 27 maggio 2020 Invitalia: la struttura potrebbe mandare in tilt l’intero programma di “rigenerazione”. Alzi la mano chi ricorda che nell’area di Bagnoli-Coroglio - tra le tante iniziative previste e annunciate negli anni (un quarto di secolo più o meno...) - c’è anche la realizzazione di un carcere. Un secondo carcere, per la precisione, oltre a quello minorile di Nisida. La notizia fu resa nota il 13 giugno del 2019: “la Caserma Cesare Battisti a Napoli, adiacente all’area delle ex acciaierie di Bagnoli, sarà la prima struttura dismessa dal ministero della Difesa ad essere trasferita alla Giustizia per essere riconvertita in istituto penitenziario. Dopo il passaggio, curato dal Demanio, saranno avviati i necessari interventi edilizi per la realizzazione delle sezioni detentive e delle camere di pernottamento, nonché quelli di recinzione e videosorveglianza relativi alla sicurezza”. E ancora: “Un finanziamento di 5 milioni di euro finalizzato al recupero conservativo degli edifici esistenti, è già stato inserito nel programma di edilizia penitenziaria 2019”. La decisione, “frutto di un accurato lavoro di concertazione fra i due ministeri, è stata formalizzata oggi a Napoli (il 13 giugno 2019, appunto, dai titolari della Difesa e della Giustizia, Elisabetta Trenta e Alfonso Bonafede, e dal Direttore regionale dell’Agenzia del Demanio Edoardo Maggini, che hanno sottoscritto il Protocollo d’intesa per la razionalizzazione di immobili militari presenti sul territorio nazionale ai fini della realizzazione di strutture carcerarie”. Nel corso della conferenza stampa di presentazione dell’intesa e del progetto da essa scaturito, fu spiegato anche che nella struttura potrebbero essere ospitati minori o detenute madri. Il documento - Ma questo salto indietro nel tempo, direte, a cosa serve? Semplice, a comprendere meglio quello che è successo pochi giorni prima che il Paese entrasse in lockdown, ma di cui non si era saputo nulla sinora. A febbraio scorso, infatti, Invitalia, l’Agenzia nazionale per lo sviluppo (di proprietà del ministero dell’Economia) che su incarico del Governo è diventata il soggetto attuatore del programma di bonifica e rilancio dell’ex area industriale di Bagnoli-Coroglio, elaborava un documento dal significativo titolo: “Progetto di trasformazione della Caserma Cesare Battisti in struttura carceraria - Rischi per l’attuazione sostenibile del programma”. Dossier evidentemente collegato all’incontro convocato dall’Agenzia del Demanio il giorno 26 febbraio con ministeri e istituzioni interessate proprio per avviare il confronto tecnico - da tradurre poi in un protocollo d’intesa - necessario per la realizzazione del nuovo carcere nella zona di via Leonardo Cattolica. Ebbene, senza troppi giri di parole, l’Agenzia guidata da Domenico Arcuri, nel documento di cui prima, elencava tutta una serie di criticità rispetto all’iniziativa. “Il carcere sarebbe collocato a ridosso dell’area di proprietà di Invitalia oggetto della maggiore quota di edificazione prevista nel Programma di Risanamento Ambientale e di Rigenerazione Urbana (438.801 metri cubi di 1,6 milioni complessivi, pari a poco meno del 30%)”. Esiste, dunque, “il concreto rischio che le aree perdano attrattività e che diventi difficile trovare investitori disponibili ad acquistarle per la realizzazione degli edifici previsti”. E non è finita: “La mancata realizzazione dei volumi previsti dall’Accordo interistituzionale del 2017 nell’area connessa con il Praru, inoltre, metterebbe in discussione il dimensionamento delle infrastrutture esterne ipotizzate per raggiungere l’area (es. prolungamento della Linea 6 con fermata prevista proprio in prossimità della caserma)”. I numeri - Per la precisione, il Praru prevede di realizzare 1,6 milioni di metri cubi di edifici nel Sin (sito d’interesse nazionale Bagnoli-Coroglio) sui 2,11 milioni totali del Pua (piano urbanistico attuativo). Nello specifico, il programma di rigenerazione urbana - che si pone come obiettivo 13,5 milioni di presenze annue grazie ai vari attrattori immaginati - stabilisce la nascita di 2 alberghi da 4/5 stelle (700 camere) e uno “student hotel” (300 camere); di 500 appartamenti (incluso la riqualificazione del Borgo Coroglio); di 150 negozi fino a 150 mq, 10 fino a 1.500 mq, 25 ristoranti fino a 400 mq; una spiaggia lunga 2 chilometri; un porto turistico (900 posti barca) e poli di ricerca per Anton Dohrn e Federico II, oltre a 200 uffici/laboratori capaci di dare impiego a 2.000 addetti. Palermo. Porta aperta alla rinascita di Silvia Camisasca L’Osservatore Romano, 27 maggio 2020 Il Centro Padre Nostro e l’attenzione ai detenuti. Mai come negli ultimi due mesi abbiamo sentito forte l’esigenza di “restare a casa”: nella situazione di emergenza, dovuta alla pandemia che ha così duramente colpito le nostre comunità, l’invito, la disposizione, l’impegno a “restare a casa” puntano, inevitabilmente, i riflettori su piaghe e contraddizioni sociali, già note, palesemente stridenti con la necessità di dover stare nelle proprie abitazioni. Vale per i senzatetto, che un’abitazione non l’hanno. Vale per tanti detenuti, costretti, a causa del sovraffollamento carcerario, a condividere spazi in condizioni ai limiti della sopravvivenza. Contraddizioni queste che la pandemia ha fatto riesplodere in tutto il mondo, riportando alla luce un’altra emergenza, da tempo inevasa, legata a quale casa possano fare ritorno le tante persone detenute con pena non superiore ai diciotto mesi, quando, oltre a non disporre di un domicilio effettivo, vivono gravi situazioni di indigenza economica, socio-familiare e culturale. I dati forniti dal ministero della Giustizia, aggiornati allo scorso marzo, parlano di una popolazione carceraria di 61.230 persone, di cui 19.889 stranieri, 2.072 donne, quasi un terzo in attesa di giudizio. A fronte di tali numeri e in considerazione di una capienza regolamentare pari a 50.931 posti, emerge l’ampiezza del fenomeno, non solo quantitativamente, ma in quanto indicativo del degrado “ambientale” di tante realtà “di frontiera” coinvolte. n una delle realtà più esposte - il quartiere di Brancaccio a Palermo - opera da ventisette anni il Centro Padre Nostro, fondato dal beato Giuseppe Puglisi, la cui missione ruota proprio attorno al mondo penitenziario, con particolare attenzione ai temi del compimento della pena e del recupero e reinserimento sociale dei soggetti che hanno commesso dei reati e scontato la detenzione. Qui prendersi cura e farsi carico di chi ha un trascorso particolarmente difficile è il compito ereditato direttamente da padre Puglisi, il cui messaggio è stato lasciato scritto nella lettera ai detenuti del carcere Ucciardone di Palermo, assunto come linea programmatica tesa a indirizzarne l’operato del centro. “Abbiamo voluto esprimere la nostra esperienza trentennale nel recupero dei detenuti, oltre che concretamente nell’azione quotidiana, da un punto di vista normativo, presentando al ministero della Giustizia il decreto legge “Certezza del recupero”, teso ad accendere i riflettori sul fondamentale aspetto del recupero degli ex detenuti, spesso taciuto rispetto al tema della certezza della pena, che è l’accezione più comune in relazione alla questione delle carceri”, sottolinea Maurizio Artale, responsabile del Centro Padre Nostro. Tali dimensioni trovano accoglienza in veri e propri spazi in cui si coniuga evangelizzazione, sostegno e promozione della persona. Su questi presupposti da oltre due anni si regge l’opera della Casa del figliol prodigo, contrassegnata dal simbolo del Giubileo della misericordia e dislocata al piano terra del centro, riservato al servizio di accoglienza e alle attività dei detenuti senza dimora, che già possono usufruire dei permessi premio. “Pur essendo uno spazio limitato, destinato al più all’ospitalità di due detenuti, intendiamo rispondere metaforicamente alla parabola del figliol prodigo di ritorno alla casa del Padre, trasmettendo, con un piccolo gesto, il nostro spirito di vicinanza e condivisione”, racconta Artale. Ispirandosi a questa esperienza, proprio sull’immagine del dipinto di Rembrandt raffigurante il ritorno del figliol prodigo alla casa delle origini, il Centro di accoglienza Padre Nostro, insieme all’arcidiocesi di Palermo apre, oggi, in questa difficile fase, le porte della seconda Casa del figliol prodigo: un immobile di proprietà della stessa diocesi, nel cuore di un’altra periferia esistenziale della città di Palermo. Qui, il centro e la diocesi, insieme alla Fondazione Giovanni Paolo II e al Circolo Acli padre Pino Puglisi, accoglieranno dieci persone senza fissa dimora in misura alternativa. Un progetto, già pianificato nell’ottica della missione, ma che trova pieno compimento sotto la spinta della straordinarietà degli eventi: “In questo momento, contribuire a ridurre il numero di persone ristrette in carcere rappresenta un atto di cura e salvaguardia della dignità dell’essere umano”, sottolinea Artale. In seguito alle esigenze dovute all’emergenza sanitaria, i senza dimora ai quali il centro, sempre a fianco della diocesi, della Fondazione Giovanni Paolo II e del Circolo Acli padre Pino Puglisi, offriranno ospitalità, saranno individuati dall’Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna per la Sicilia, e, a costoro, verrà garantito non soltanto un alloggio ma anche un Progetto di inclusione sociale. “La Casa del figliol prodigo 2 non è solo una struttura abitativa, un bene immobile che funge come alloggio: vogliamo piuttosto creare l’occasione per un cammino di rinascita”, racconta il direttore, descrivendo come è stato organizzato il percorso di recupero: “Per costruire con gli ospiti un vero e proprio progetto di vita, abbiamo elaborato specifici programmi educativi di concerto con assistenti sociali, psicologi, educatori, tutor, mediatori culturali, consulenti legali, nonché in stretta sinergia con il personale degli istituti penitenziari e degli Uffici di esecuzione penale esterna”. In tale ambito sono previste molteplici attività, pensate in funzione della specifica situazione del singolo individuo: azioni di accompagnamento per la presentazione e fruizione delle misure a sostegno del reddito, come di accompagnamento educativo e sociale alla vita autonoma durante la residenzialità. Gli ospiti sono pienamente coinvolti nella scelta dei servizi di cui usufruire, siano essi inerenti a educazione, istruzione e formazione professionale, siano essi volti all’inserimento o al reinserimento nel mercato del lavoro, compatibilmente con le disposizioni governative dovute all’emergenza sanitaria e sociale data dall’epidemia di codiv-19. La strategia d’intervento poggia sul sostegno di una fitta rete che, negli anni, il centro, e gli enti che collaborano a questo progetto, hanno tessuto e consolidato formalmente (attraverso accordi, convenzioni, protocolli), a livello locale e nazionale: ciò nella consapevolezza che non sia possibile una vera presa in carico dei soggetti in esecuzione penale se non attraverso un’integrazione tra istituzioni, soggetti privati e le migliori risorse della comunità. Non si tratta, dunque, solo di una risposta all’emergenza del momento, e neppure solo dell’ospitalità garantita a dieci persone senza fissa dimora in regime di detenzione domiciliare: “Vogliamo dare una buona notizia di misericordia, che racconta la parabola di una porta che si apre alla vita, alla rinascita, per ricordare a tutti noi che il Padre ama ogni suo figlio e ognuno ha il proprio unico posto alla sua mensa”, conclude Artale. Livorno. La Camera Penale dona quattro stampanti ai detenuti delle Sughere toscanaeventinews.it, 27 maggio 2020 Il Garante De Peppo: “Un dono estremamente importante per coloro che studiano in carcere”. La Camera Penale di Livorno ha donato quattro stampanti alla Casa Circondariale delle Sughere. La consegna è stata fatta nella mattinata di martedì 26 maggio 2020 a Palazzo Comunale, dal presidente Nando Bartolemei e dalla vicepresidente Aurora Matteucci, al Garante dei Detenuti del Comune di Livorno Giovanni De Peppo (in rappresentanza anche del direttore del carcere Carlo Mazzerbo) e alla presenza dell’assessore alle Politiche Sociali Andrea Raspanti. “È un dono estremamente importante - ha rilevato De Peppo - per chi deve sostenere gli esami scolastici e si è trovato penalizzato dalle restrizioni per il Covid che hanno impedito agli insegnanti di svolgere le loro lezioni in carcere. I detenuti potranno stampare e fascicolare materiali inviati a distanza o compiti svolti, e avranno in questo modo una facilitazione negli studi”. “I detenuti di Livorno - ha ricordato l’assessore Raspanti - hanno fatto nei mesi scorsi una donazione al Reparto di Rianimazione dell’Ospedale di Livorno e hanno inviato alla città una bellissima lettera di solidarietà ai cittadini liberi che in questi mesi hanno dovuto sperimentare, se non la reclusione, comunque limitazioni importanti alla libertà personale. Fa piacere che la Camera Penale abbia voluto in questo modo ricambiare ai detenuti il dono che hanno fatto alla comunità cittadina”. “Questo - ha confermato Bartolomei - vuol essere un ringraziamento se pur piccolo alla popolazione carceraria, che a causa dell’emergenza sanitaria ha dovuto subire limitazioni in più. I detenuti da mesi non possono vedere familiari, partecipare a lezioni scolastiche e quindi hanno visto venire meno la funzione anche riabilitativa della detenzione”. “In più - come ha sottolineato Aurora Matteucci - sono esposti ancora di più al rischio sanitario, in quanto la situazione di sovraffollamento delle carceri, non ha consentito di rispettare il distanziamento sociale richiesto a tutti. Il rammarico - ha concluso Bartolomei - è che il Governo non abbia accolto l’appello delle Camere Penali per l’adozione di misure quali l’amnistia e soprattutto l’indulto oltre che la limitazione di nuovi ingressi in carcere fino al termine dell’emergenza sanitaria”. Messina. Confronto non solo virtuale tra teatro in carcere e attori professionisti di Antonella Barone gnewsonline.it, 27 maggio 2020 L’attore Giulio Scarpati e le attrici Manuela Mandracchia e Pamela Villoresi sono stati i primi “ospiti d’eccezione” del progetto “Vorrei una voce - Con il teatro ai tempi del Covid-19”, video incontri con le detenute del “Piccolo Shakespeare”, teatro della casa circondariale di Messina. Un progetto nato per ristabilire un punto di contatto con la “Libera Compagnia del Teatro per Sognare” in modo da poter rendere meno pesante ai detenuti questo periodo di lontananza dai propri cari e anche permettere di tenere viva la creatività di chi era impegnato nell’allestimento del prossimo spettacolo “E allora sono tornata”, dedicato agli ottant’anni di Mina. “Con Giulio Scarpati - racconta la direttrice artistica del progetto Daniela Ursino - si è trattato più che altro di un ‘incontro-prova’, un’anteprima simbolica perché Giulio è stato il primo maestro di teatro del nostro regista Tindaro Granata che lo ha voluto per sbirciare dalle pieghe di un sipario che di lì a poco si è aperto ufficialmente a tutti gli ospiti esterni. Scarpati, è molto atteso per un secondo incontro, per raccontare la sua vita di uomo e artista”. Generosi e intensi i contributi di Manuela Mandracchia e Pamela Villoresi che, continua Daniela Ursino, “sono riuscite a superare la barriera della tecnologia, portando nuove emozioni, leggerezza, allegria, ma anche tanti spunti di riflessione e tante risposte alle domande delle detenute-attrici”. Al centro della riflessione di Manuela Mandracchia un lungo sodalizio teatrale con Luca Ronconi e i film con Nanni Moretti, Marco Bellocchio e Cristina Comencini. Spazio anche alla scelta di dedicare la vita alla professione di attrice: “Ho continuato anche dopo l’accademia a studiare - ha raccontato - perché il mondo del teatro è fatto di passione, desiderio ma anche studio, applicazione, serietà e fatica. Ho anche deciso di dare vita a una compagnia fatta da tutte donne, per mettere in scena qualcosa che parli delle donne, troppo spesso vittime degli stereotipi che vengono da fuori. Sono spesso solo madri, figlie, mogli, non hanno un’autonomia di racconto e non vengono narrate nella loro complessità”. Pamela Villoresi ha parlato della sua esperienza attuale di direttrice del Teatro Biondo di Palermo, un teatro al femminile, che ha voluto aprire alle donne, ai giovani, alle culture e alle differenze. “Per me - ha detto - un modo di finire in bellezza una carriera che è stata faticosa e costruita mattoncino su mattoncino, senza mai cedere a compromessi e mantenendo sempre autonomia e autenticità nelle scelte”. Molti gli aneddoti di una carriera ricca di interpretazioni di grande complessità, spesso di donne dalle molte sfaccettature: “Nel dar corpo ai personaggi bisogna entrare nelle pieghe più profonde della vita, nel bene e nel male e spesso questo non è facile”, ha concluso l’attrice. “Vorrei una Voce - Con il teatro ai tempi del Covid-19” è realizzato con il sostegno della Caritas diocesana di Messina-Lipari ed è un progetto che, tiene a sottolineare la direttrice artistica, “vede il coinvolgimento di tutto l’istituto penitenziario di Gazzi in ogni sua componente ed è fortemente voluto dalla direttrice Angela Sciavicco, dal comandante della Polizia Penitenziaria, Antonella Machì, e dal presidente del Tribunale di Sorveglianza, Nicola Mazzamuto”. “Vorremmo che la nostra voce - concludono Daniela Ursino e Tindaro Granata - quella dei detenuti e di tutti coloro che lavorano al progetto, sia d’auspicio, per una rinascita generale e per una rinascita per tutto il mondo dell’arte e degli operatori dello spettacolo”. Roma. I “non eroi” della pandemia si raccontano per aiutare il carcere di Rebibbia di Davide Dionisi e Roberta Barbi vaticannews.va, 27 maggio 2020 Webinar organizzato da Challenge Network e Unindustria a supporto del penitenziario romano. Il 28 maggio si parte con il Comandante Gennaro Arma. Accanto ai medici, gli infermieri, i volontari e a tutti coloro che hanno continuato il proprio servizio anche nel periodo più difficile della pandemia figura un comandante di una nave da crociera: Gennaro Arma. È stato scelto proprio lui per il webinar sociale organizzato da Challenge Network e promosso dalla sezione Formazione, Consulenza e Attività Professionali di Unindustria, intitolato La Leadership vincente dei Non Eroi, che si terrà il prossimo 28 maggio alle 16.00. La vicenda della Diamond Princess - All’inizio di febbraio, la Diamond Princess, guidata da Arma, era stata messa in quarantena nella baia di Yokohama, a sud di Tokyo, con 3.700 passeggeri a bordo. Sul natante si erano registrati più di 700 contagi e 13 morti. Durante l’intero periodo di emergenza il comandante italiano si è distinto per la gestione della crisi, supportato da un equipaggio composto da almeno 15 connazionali. Racconterà la sua esperienza on line, ripercorrendo il lungo percorso che ha trasformato un viaggio di piacere in un incubo. Per molti, grazie a lui, a lieto fine. La donazione al Carcere di Rebibbia - Il ricavato sarà interamene devoluto alla Casa di Reclusione di Rebibbia per aiutare la struttura a fare fronte alle spese necessarie per l’adeguamento in materia di prevenzione Covid- 19. “Abbiamo pensato di coinvolgere il comandante Arma perché la sua esperienza presenta forti similitudini con quella del direttore di un penitenziario che gestisce situazioni complesse in spazi ristretti. Ci dirà come è andata e faremo nostre le sue parole pronunciate al ritorno: Ho fatto solo il mio dovere” spiega Roberto Santori, Presidente della Sezione Consulenza, Attività Professionali e Formazione di Unindustria & Ceo Challenge Network. Per una solidarietà sociale - L’idea del webinar con un testimonial non eroe, nasce dalla considerazione che uno dei problemi più spinosi è il dopo-carcere. La società tende a rimuovere il problema, quasi come se la detenzione da sola fosse una panacea. Non è così: se i reclusi non vengono sostenuti e accompagnati, una volta fuori, se non si aiutano anche le loro famiglie a ricostruire una vita normale, sarà fin troppo facile per loro ricadere nella spirale del crimine. Occorre coinvolgere tutte le forze sociali per far sentire una presenza che sia reale, amica, concreta. Una efficace solidarietà sociale che parta dall’interno del carcere e continui anche dopo aver scontato la pena. L’iniziativa è rivolta ai responsabili delle aziende di tutti i settori, sensibili alle tematiche sociali, che con un’offerta libera e pubblica contribuiranno al ricavato del webinar. Sarà sufficiente inviare una mail info@challengenetwork.it. “Dietro le sbarre”, detenuti e bisogno di affettività nel libro di Angela De Sensi lametino.it, 27 maggio 2020 Persone, volti dietro ai quali, come dietro i volti di tutte le donne e di tutti gli uomini, si nasconde il desiderio di relazioni e di affettività. Un mondo che spesso oltre le sbarre non si conosce e che ha bisogno di attenzione e sostegno da parte di tutta la comunità. Nasce così “Dietro le sbarre” (Santelli Editore), il saggio della giovane lametina Angela Sara De Sensi che, proprio nei mesi in cui tutta l’Italia si è trovata in un certo senso a dover fare i conti con una “privazione di libertà” determinata da ragioni sanitarie, ha voluto puntare l’attenzione su chi quella la realtà la vive ogni giorno: i milioni di detenuti delle carceri italiane che portano avanti percorsi di recupero. Il saggio di Angela Sara De Sensi nasce a partire da una tesi del master di specializzazione in criminologia e soprattutto alla luce dell’esperienza realizzata a contatto con le persone detenute nella casa circondariale di Paola, dove la De Sensi ha svolto un periodo di tirocinio e dove è attualmente volontaria. “Un saggio - dichiara Angela Sara De Sensi - che nasce per sensibilizzare e far conoscere a chi non è a stretto contatto con questo mondo, la problematica dei cosiddetti affetti “s-prigionati”, le cause e le conseguenze di una condizione di restrizione affettiva e di deprivazione sessuale. Soprattutto in questa fase di emergenza legata al Covid - 19, è fondamentale per un detenuto mantenere vivi i contatti con i propri familiari grazie alle chiamate e videochiamate che hanno momentaneamente sostituito i colloqui fisici. Con questo lavoro, vorrei provare a dare voce a chi non ce l’ha, ai bambini e alle famiglie che sono le prime vittime invisibili a pagare gli errori dei propri cari con l’abbandono da parte della società e l’esclusione e l’emarginazione delle istituzioni.” Il saggio si avvale dei contribuiti scientifici di Sergio Caruso, psicologo e criminologo nonché direttore del master “Criminologia Calabria”, Graziella Mazza, psicologa e psicoterapeuta strategica motivazionale presidente “FormAzione Promethes” e direttore del master “Criminologia Calabria”, Franca Garreffa docente di Sociologia della Devianza all’Università della Calabria e responsabile didattica del Polo Universitario Penitenziario. Sergio Caruso firma la prefazione del saggio, Graziella Mazza la postfazione mentre la docente Garreffa ha curato un ampio e dettagliato focus di approfondimento sul tema facendo riferimento anche alla situazione attuale nelle carceri con l’arrivo del Covid-19 Tra le proposte contenute nel saggio della De Sensi, l’istituzione delle love rooms, luoghi dove coltivare i propri affetti lontano da sguardi indiscreti, tornate all’attenzione pubblica con una proposta ispirata alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo secondo cui “il comportamento sessuale è considerato un aspetto intimo della vita privata”. Il Consiglio dei Ministri europeo raccomanda agli Stati membri un’attenzione al quesito che in Italia rimane ancora totalmente ignorato. Angela Sara De Sensi, 26 anni, è educatrice, pedagogista specializzata in criminologia. Ha svolto tirocini formativi presso istituti penitenziari per minori e adulti e comunità terapeutica per il recupero da dipendenze quali sostanze stupefacenti, psicotrope, alcolismo e Gap (gioco d’azzardo patologico). Volontaria presso la Casa Circondariale di Paola su autorizzazione del magistrato di sorveglianza, si occupa in particolare di seguire nel percorso universitario i detenuti iscritti presso l’Università della Calabria. Le troppe libertà violate per forza maggiore. Per le eccezioni serve una nuova Carta di Ciro Sbailò* Il Dubbio, 27 maggio 2020 La gestione della pandemia da coronavirus ha provocato delle lacerazioni nel sistema delle garanzie costituzionali. Su questo non possono esserci dubbi. La limitazione delle libertà fondamentali richiede sempre una legge e, in molti casi, anche la pronuncia di un giudice (ad esempio, sulla libertà personale). La base giuridica originaria per le limitazioni imposte dal governo è data dalla combinazione di un decreto legge e la legge sulla protezione civile. È una base troppo debole per reggere il peso di violazioni tanto pesanti. Con il decreto di febbraio, quello delle “zone rosse”, si autorizza il governo ad adottare ogni ulteriore misura necessaria per combattere la pandemia. Una previsione troppo generica, che relega il Parlamento in una funzione di puro spettatore. La lista dei diritti costituzionali vulnerati è molto lunga. Si parte dal caso più appariscente: la libertà di circolazione e soggiorno. La Costituzione, inoltre, vieta espressamente alle Regioni di limitare la mobilità interregionale. Ma una volta creato il vulnus da parte del Governo, non è stato più possibile frenare i cosiddetti “governatori”. Inoltre, la previsione di un divieto assoluto di mobilità per determinate categorie di persone (i malati di corona virus, ad esempio), porta alla violazione anche del principio della libertà personale: in pratica si mettono le persone agli arresti domiciliari. E in questo caso non basta una legge, ma ci vuole la pronuncia di un giudice (è un principio che risale, come minimo, alla Magna Charta del 1215). Ma poi a ben vedere, la sola richiesta di motivare l’uscita di casa comprime quella libertà. Sono stati, poi, violati la libertà di riunione e il diritto di associazione, che non possono essere esercitati né praticati senza la libertà di movimento. E che dire, infine, della libertà di culto? Ai Testimoni di Geova è stato negato il “porta a porta”, che è un elemento essenziale della loro religione, mentre ai cattolici è stato proibito di celebrare l’Eucaristia, che, come la maggioranza degli italiani sa, non è un elemento aggiuntivo, ma costitutivo della stessa Chiesa. A quest’ultimo proposito, siamo di fronte a un’aperta violazione non solo della Costituzione, ma anche dei patti lateranensi. Si potrebbe continuare con la sospensione delle attività lavorative- educative nelle carceri, con conseguente vulnus del principio della rieducazione, i diritti educativi e culturali o a quelli di libera iniziativa economica. Si poteva fare meglio? Sicuramente sì. Si poteva evitare di comprimere i diritti fondamentali? Sicuramente no. Va dato atto al Governo di non avere avuto di fronte a sé molte opzioni e soprattutto di avere avuto poco tempo a disposizione, di fronte a una catastrofe totalmente inedita per dimensioni e caratteristiche letali. Gli strumenti di cui dispone l’Esecutivo sono pochi e alquanto inadeguati. Lo strumento principale è quello del decreto legge, logorato dagli abusi che si sono perpetrati nel tempo. Con successo, lo si è messo in campo per combattere la mafia, ma lo si è anche utilizzato troppo spesso per rispondere a ondate emotive della pubblica opinione o semplicemente per scansare nell’immediato la dialettica parlamentare. In certi periodi, è stata superata la media di due decreti al mese. L’abuso è stato probabilmente anche favorito dal troppo ampio spettro semantico che compete all’espressione “in casi straordinari di necessità e di urgenza”. A ciò si aggiunga il fatto che il governo adotta il decreto “sotto la sua responsabilità”. Tutto ciò può determinare nell’Esecutivo condotte contraddittorie, che vanno dall’estrema spregiudicatezza a una prudenza esasperata, che si riflette a volte nell’ambiguità e farraginosità dei testi partoriti da Palazzo Chigi. In questi mesi abbiamo sicuramente scontato l’assenza di una disciplina organica e coerente, di rango costituzionale, per la gestione dello stato di eccezione. Tale disciplina è contenuta nelle Costituzioni di altre democrazie europee, come la Francia, la Germania o la Spagna. Se ne parlò anche alla Costituente della Repubblica, ma poi la discussione si spense, senza un motivo apparente. Forse perché la memoria del fascismo era troppo viva e si temeva un uso a fini autoritari dello stato di eccezione. Ma forse ora è venuto il momento di colmare quella lacuna. Di questo parleremo al Convegno che si apre oggi sui canali della Unint, intitolato “Lo stato e l’eccezione dopo la pandemia. Le conseguenze globali della pandemia di Covid-19 sui rapporti tra i pubblici poteri, analizzate nello specchio italiano”. È un convegno di costituzionalisti e comparatisti, al quale parteciperanno, però, anche esperti di gestione delle emergenze, come Guido Bertolaso, che ci spiegheranno qual è la “posta in gioco” quando si affronta una catastrofe naturale. Il convegno si concluderà con un dibattito tra esponenti politici di diverso orientamento, per capire se ci sono e quali sono le proposte in campo. Anche perché potrebbe essere l’inizio del cammino verso quella nuova Costituzione di cui da decenni si discute. La “costituente”, presuppone una catastrophè, vale a dire uno sconvolgimento terribile e irripetibile. La Quinta Repubblica francese nasce nel 1958 dalla Guerra d’Algeria. Forse la pandemia può essere la nostra Guerra d’Algeria. *Professore ordinario di Diritto pubblico comparato Migranti. Caso Open Arms, Renzi a gamba tesa sul premier Conte di Carlo Lania Il Manifesto, 27 maggio 2020 Italia Viva si astiene sulla richiesta di processare Salvini. In aiuto dell’ex ministro anche una senatrice 5 Stelle e un ex del Movimento. Che l’ex 5 Stelle Michele Giarrusso avrebbe potuto dare una mano a Matteo Salvini era nell’aria. Così come la possibilità che un aiuto all’ex ministro dell’Interno potesse arrivare anche dai pentastellati, nonostante il richiamo all’unità fatto lunedì sera dal ministro per i rapporti con il parlamento Federico D’Incà. E infatti ieri la senatrice Alessandra Riccardi ha votato no all’autorizzazione a procedere per il leghista diversamente da quanto fatto dal suo gruppo. La vera sorpresa, semmai, è arrivata da Italia Viva. Giunti al dunque, al momento in cui la Giunta per le immunità di Palazzo Madama doveva decidere se autorizzare o meno il processo a Salvini per aver lasciato 19 giorni 164 migranti a bordo della nave Open Arms, i tre senatori renziani hanno preferito astenersi lasciando da soli Pd, Leu e 5 Stelle. Risultato: 13 voti a favore della relazione presentata dal presidente Maurizio Gasparri nella quale si chiedeva di negare l’autorizzazione, e appena 7 contrari. Numeri che fanno scattare l’allarme a Palazzo Chigi, tanto che il premier Conte avrebbe chiesto spiegazioni ai vertici di Italia Viva del perché di una simile scelta. Ma numeri più che sufficienti anche per innescare l’ennesima fibrillazione nella maggioranza. “Così non si può andare avanti”, sbotta infatti il senatore di LeU Francesco Laforgia accusando il partito di Renzi di volersi lasciare una porta aperta con la Lega. Preferisce invece fare ricorso all’ironia e a Nanni Moretti l’ex 5 Stelle Gregorio De Falco: “L’astensione di oggi fa pensare alla famosa battuta del regista: mi si nota di più se vengo o se non vengo, che trasposta alla situazione attuale evoca interessi ulteriori rispetto al caso Salvini”. Almeno per ora, comunque, Salvini può esultare. Per ora, perché la parola definitiva sulla vicenda della ong spagnola dovrà dirla l’aula del Senato entro un mese e allora bisognerà vedere come andranno le cose. Ma intanto il leghista - che vanta anche un messaggio di congratulazioni ricevuto dall’ungherese Viktor Orbán - può cantare vittoria: “La giunta ha stabilito che ho fatto il mio dovere da ministro stabilendo che tutto il governo era d’accordo - dice -. Io non ho cambiato idea rispetto all’anno scorso, altri sì”. Giarrusso, che ha anche votato la sfiducia al ministro della Giustizia Bonafede, smentisce le voci di un suo passaggio al Carroccio: “Sono tentato da tante cose, la Lega mi manca”, assicura. Poi spiega il perché del voto in Giunta: “Ho espresso la mia posizione, che è la stessa di quando ero capogruppo all’epoca del caso Diciotti, decisione ratificata dagli iscritti su Rousseau”. Alla nave della Guardia costiera italiana fa riferimento anche la pentastellata Riccardi: “Come nel caso della Diciotti - afferma la senatrice - la linea politica del governo sui flussi non era venuta meno”. La necessità di maggiori approfondimenti avrebbe dettato invece la decisione dei senatori renziani di astenersi, che non mancano prò i sottolineare la “non esclusiva” responsabilità di Salvini nella vicenda. Parole che, nonostante le rassicurazioni fatte in serata da Maria Elena Boschi, appaiono come un messaggio diretto al premier. Con Italia Viva lo strappo comunque è consumato e inevitabilmente l’irritazione per l’esito del voto finisce con l’intrecciarsi con i sospetti di Pd e M5S circa un presunto “scambio” con l’elezione in Regione Lombardia di una renziana a presidente della Commissione di inchiesta sulla gestione dell’emergenza coronavirus. “Questa - dice il capo politico dei 5 Stelle Vito Crimi - non è una commissione d’inchiesta: è un paravento, un tappeto sotto il quale cercheranno di nascondere gli errori e l’incapacità di gestione del duo Fontana-Gallera”. A farsi sentire c’è anche LeU. La scelta dell’astensione “è un fatto molto grave” avverte la capogruppo del Misto Loredana De Petris, per la quale Iv “si sta assumendo una responsabilità molto pesante”. “Chi ha responsabilità politiche deve sempre rispondere delle proprie azioni, senza scappare dei processi”, sostiene invece il deputato Erasmo Palazzotto che invita Salvini a presentarsi davanti ai giudici. Preoccupazione per l’esito del voto in Giunta è stata espressa infine anche da Open Arms. “Esistono diritti inalienabili che non possono essere messi in discussione” afferma la ong spagnola, per la quale il voto di ieri “segna una battuta d’arresto verso l’accertamento della verità e verso l’affermazione di un principio inderogabile, quello che stabilisce l’inviolabilità della vita e della dignità delle persone”. Migranti. Caso Open Arms: il reato manca, di strumentalità ce n’è fin troppa di Guido Neppi Modona Il Dubbio, 27 maggio 2020 Nella ormai lunga storia dei rapporti tra Matteo Salvini e il reato di sequestro di persona in danno degli immigrati bloccati sulle navi da cui erano stati soccorsi in alto mare, si è aggiunta la vicenda processuale della Ong spagnola Proactiva Open Arms. I fatti risalgono all’agosto 2019, quando Salvini era ministro dell’Interno; sulla nave erano presenti più di cento migranti in attesa che il ministro indicasse un porto per lo sbarco sul territorio italiano. La giunta per le immunità del Senato ha respinto ieri a larga maggioranza la richiesta dei magistrati di Palermo di iniziare il procedimento penale contro Salvini per sequestro di persona, ma l’ultima parola spetterà nel giro di qualche settimana all’aula parlamentare. Al di là della specifica vicenda della Open Arms, l’impressione che si trae dagli episodi in cui diverse procure della Repubblica hanno ravvisato gli estremi del reato di sequestro di persona è che Salvini abbia utilizzato la minacciata incriminazione per fini di immediata convenienza politica. Emblematico è il caso della nave Gregoretti del gennaio di quest’anno: dapprima Salvini si è opposto alla richiesta di autorizzazione a procedere, dando in tal senso istruzioni ai senatori della Lega, poi ha mutato parere e gli stessi parlamentari della Lega hanno espresso il voto decisivo a favore dell’autorizzazione. Eravamo in prossimità delle elezioni regionali in Emilia- Romagna e Salvini ha evidentemente ritenuto che fosse per lui politicamente più conveniente presentarsi agli elettori in qualità di “martire” perseguitato dalla giustizia penale per avere difeso le acque territoriali italiane dalla pericolosa invasione di centinaia di immigrati irregolari. Ricorderete una delle frasi melodrammatiche pronunciate in quella circostanza: “Ci sono momenti in cui per arrivare alla libertà bisogna passare per la prigione”. Ora Salvini pare seriamente preoccupato dal rischio di una condanna sino a 15 anni di galera (è il massimo della pena per il delitto di sequestro di persona aggravato per essere il reato commesso da un pubblico ufficiale con abuso delle sue funzioni e per essere presenti tra i “sequestrati” dei minorenni) e ha alzato il tiro, strumentalizzando la sciaguratissima vicenda del pubblico ministero Luca Palamara. Si è rivolto al Capo dello Stato prospettando l’esigenza di sciogliere il Consiglio superiore della magistratura e lamentando che sarebbero venute meno le garanzie di imparzialità e indipendenza della giustizia. Vi è quanto basta per domandarsi se non si debba una volta per tutte fare chiarezza sul delitto di sequestro di persona che viene ventilato in occasione dei ritardi nello sbarco dei migranti soccorsi dalle navi delle varie Ong. Non c’è dubbio che in quei contesti si verificano gli elementi oggettivi del reato, posto i migranti rimangono sostanzialmente prigionieri a bordo delle navi che li hanno soccorsi sino a che il ministro dell’Interno non dà il via libero allo sbarco sul territorio italiano. Ma il reato di sequestro di persona richiede anche il dolo, cioè si deve agire con la volontà esclusiva di privare quei soggetti della libertà personale. Ritengo che dal punto di vista del diritto penale questa volontà esclusiva non sia riscontrabile nel ministro dell’interno Salvini, perché altre sono le ragioni - a prescindere dal fatto che siano o non siano condivisibili - che l’hanno indotto a procrastinare gli sbarchi. Si tratta di ragioni legate ad una certa visione politica miope ed egoistica - certo discutibilissima - del fenomeno dell’immigrazione clandestina; dell’esigenza di coinvolgere l’Unione europea e i singoli Paesi che ne fanno parte nell’accoglienza dei migranti, che è parsa soprattutto evidente nell’ultima vicenda della Open Arms; della difficoltà di trovare il porto sicuro giusto per eseguire lo sbarco, cioè motivi di convenienza e opportunità politica che nulla hanno a che vedere con il dolo del reato di sequestro di persona. A questo punto sarebbe ragionevole che le procure della Repubblica che hanno sinora prospettato azioni penali per il delitto di sequestro di persona facessero una riflessione sull’effettiva sussistenza degli elementi di tale reato e si domandassero se, in luogo di quella penale, la risposta al ministro dell’interno/ senatore Matteo Salvini non vada piuttosto ricercata sul terreno politico. A ciascuno il suo: ai magistrati il compito di perseguire i reati effettivamente esistenti ricorrendo al sistema della giustizia penale; al popolo il compito di censurare le scelte politiche dei governanti con l’espressione del voto in occasione delle scadenze elettorali o con il referendum popolare abrogativo delle leggi. Behrouz Boochani: “Sei anni prigioniero dell’Australia” di Lara Ricci Il Sole 24 Ore, 27 maggio 2020 Lo scrittore curdo iraniano è stato detenuto insieme a migliaia di richiedenti asilo senza un’accusa né una condanna: “Un crimine contro l’umanità e nessuno se ne cura”. Il racconto in un potente memoir. “I media si stupiscono di come abbia potuto scrivere un intero libro inviando di nascosto dai miei carcerieri messaggi whatsapp. Ma questo non è niente di straordinario, ciò che è incredibile è che in questo mondo una democrazia liberale come l’Australia possa commettere crimini contro l’umanità e nessuno se ne curi!”. Il poeta, giornalista, documentarista curdo iraniano Behrouz Boochani ha 37 anni, sei passati in prigione. O meglio, in quello che gli australiani chiamano Manus Island regional processing centre (centro di smistamento regionale di Manus Island). Un luogo di tortura dove fame, sete, insonnia, calore, condizioni igieniche rivoltanti e violenza psicologica sono usati per controllare i detenuti, pardon, i richiedenti asilo, qui trattenuti per 7-8 anni senza un’accusa, una sentenza, una condanna. Solo in attesa che venga vagliata la loro domanda. Un sistema spietato e kafkiano studiato per annichilire gli individui, farli sbranare tra loro e al loro interno, svilendoli e inducendo comportamenti masochistici, distruggendone ogni ambizione e speranza, come Boochani descrive con maestria in Nessun amico se non le montagne. Prigioniero nell’isola di Manus (tradotto dal persiano all’inglese da Omid Tofighian e dall’inglese all’italiano da Alessandra Maestrini, Add editore, pagg. 432, € 18). “Almeno 16 persone sono state uccise dalle guardie mentre ero a Manus, più di cento si sono suicidate” racconta, durante una videointervista. Dopo la pubblicazione del libro, nel 2018, lo scrittore ha ricevuto numerosi premi letterari, tra cui il Victorian Prize, e a novembre scorso ha potuto lasciare la Papua Nuova Guinea con un visto di un mese per tenere alcune conferenze in Nuova Zelanda, dove è rimasto per via della pandemia, in attesa che un Paese gli conceda asilo. “In Australia non c’è una legge che protegga i rifugiati di fronte al ministero dell’Immigrazione, che fa tutto ciò che vuole. Esilia innocenti per anche 10 anni e non lo deve giustificare a nessuno. Imprigiona bambini per 3-4 anni. E ancora non c’è un’inchiesta indipendente”. Nemmeno dopo il successo mondiale del suo libro di denuncia? “No”. Laureato in scienze politiche e geopolitica, Boochani ha cofondato la rivista in lingua curda “Weyra”, che gli è costata la messa al bando del regime. “Volevo andare in un posto dove sentirmi al sicuro. E invece sono finito in quella situazione terribile”. Il libro si apre con la descrizione del viaggio che lo porta alla spiaggia indonesiana dove si imbarcherà alla volta dell’Australia. Una tempesta li investe e nelle onde altissime che travolgono il barcone si trova l’unica descrizione dell’oppressione del Kurdistan: le onde sono montagne su montagne, che si susseguono all’infinito come nel suo Paese natale, sempre più minacciose, finché compaiono “file di carri armati, ed elicotteri, armi e corpi morti. Cumuli di morti e il pianto delle donne”. Al naufragio seguirà il salvataggio, ma la marina australiana non lo porterà sul continente, ma a Manus, un’isola della Papua Nuova Guinea. “Il 19 luglio 2013 il governo australiano aveva deciso che avrebbe esiliato lì chiunque cercasse di arrivare in Australia via nave. A Nauru mandavano i bambini, le donne, le famiglie, erano detenute circa 1.600 persone, a Manus gli uomini soli. Io sono stato imprigionato lì il 27 agosto 2013 con altri mille”. Dovevano “essere un avvertimento, una lezione per chi intendeva cercare protezione in Australia”. Nella prigione, pardon, nel Centro di smistamento impacchettato nelle sbarre, i rifugiati sono trattati da pericolosi criminali. La giornata è scandita da lunghissime code sotto il sole rovente per avere colazione, pranzo e cena, gli antimalarici, le sigarette, i rasoi. E poiché le scorte sono razionate le conquistano solo i primi e i più furbi e le risse sono frequenti. Lunghissime code anche per andare in bagni sempre pieni di “piscio fino alle caviglie”. Gli escrementi degli altri si attaccano addosso, gli altri che sono ovunque, tanto che i fetidi gabinetti “sono un deposito segreto per tutte le sofferenze generate in altre aree della prigione”, il rifugio, dove gli uomini vanno a tagliarsi. Il petto, i polsi, “il collo delicato”. “Camere di devastazione”. Misure disciplinari di macro e micro controllo pensate per creare animosità governano ogni cosa. Anche giocare è vietato. “L’odio scorre nelle vene di tutti”. E isola ancora di più i detenuti. Spesso, poi, il generatore che aziona i ventilatori nelle bollenti baracche di metallo si ferma. Allora “La prigione impazzisce e collassa”. Nei detenuti avviene un’immediata metamorfosi: scossi a tutti i livelli, sono “in preda a una rabbia feroce. Una massiccia carica di uomini nudi si riversa con urgenza fuori dalle camere e dai container…La prigione diventa un alveare di api assassine… e l’inezia più banale può scatenare un attacco contro un fisico mingherlino”. Il generatore manipola le menti, i prigionieri non possono mai prevedere quanto resteranno senza acqua né elettricità. Cosi come le regole del campo sono arbitrarie e cambiano in continuazione, gettando i detenuti nella disperazione. Inutile cercare di capirle: “Come in una ragnatela, più combatti più rimani intrappolato”. “Il sistema tritura e disorienta il prigioniero al punto da alienarlo dalla percezione che ha di sé stesso”. E così mentre inorriditi si prosegue nella lettura di questa galleria di abusi si comincia ad avvertire un certo senso di familiarità. Vengono per esempio in testa le parole di Giorgio Manganelli sulle nostre menti, costrette a un’“obbedienza sempre più minuta”, sul controllo capillare dello spazio e la coercizione del tempo nelle società occidentali. Per alcuni aspetti ricorda l’Italia, certi luoghi di lavoro. Boochani conferma: “Il sistema che governa Manus e Nauru ha molti gemelli, esiste oggi in modi diversi nelle nostre società. Sono sistemi disegnati per sottrarci la libertà, la nostra identità e umanità, per creare competizione e fare odiare le persone e così controllarle. Torturano e alienano la gente attraverso la burocrazia. Con questo libro ho voluto condividere la mia comprensione della politica, delle strutture di potere, dell’eredità coloniale e della situazione in cui si trovano a vivere le minoranze. Il modo in cui gli australiani trattano i rifugiati è simile a come trattano gli aborigeni, che ancora non fanno parte della loro storia ufficiale e che ancora cercano di privare della loro identità”. Gli chiediamo se ha letto Primo Levi: “solo dopo aver finito il libro, ma avevo letto Memorie dalla casa dei morti di Dostoevskij e conoscevo il pensiero di Focault e Agamben”. E ora? “Avere la libertà è una cosa, capirla è un’altra. Cerco di adattarmi alla nuova vita facendo cose semplici”. Nel libro un personaggio decide che deve accettare che non può fare altro che essere testimone. “Non lo ricordo. Non lo rileggo da molto tempo, non lo leggerò più. Non voglio vivere a Manus, nel passato. Scriverò fiction, ma continuerò a impegnarmi per la causa dei rifugiati”. Libano. Beirut chiude i campi rifugiati, palestinesi sempre più poveri di Sonia Grieco Il Manifesto, 27 maggio 2020 Coprifuoco dalle 19 alle 5 e una sola via di accesso per chi in Libano vive di lavori saltuari. Il Covid accelera la crisi dei profughi.L’Unrwa manda aiuti in denaro: pochi e in ritardo. Negli ultimi 72 anni i campi profughi palestinesi in Libano sono stati teatro di lotte, guerre, assedi, massacri, ma questa è forse la prima volta che nei vicoli di questi insediamenti angusti e sovraffollati si aggira la paura della fame. “Qui a Shatila non avevo mai visto tanto spavento sui volti delle persone, e non è il virus a far paura, ma la crisi economica, la povertà in cui stiamo sprofondando già da tempo e che il Covid-19 ha accelerato”, dice Abu Mujahed del Children and Youth Center (Cyc). Il campo di Shatila a Beirut è quello messo peggio in termini di condizioni igienico sanitarie, spazi (circa 12mila abitanti in neanche due chilometri quadrati), povertà, tra i 12 campi rifugiati del Libano, in cui vive circa il 45 per cento dei palestinesi (470mila registrati di cui 180mila residenti nel paese). “Il paese è nel caos e per i palestinesi, come per i rifugiati siriani, i migranti e i libanesi poveri, la paura ora è patire la fame”, conclude Abu Mujahed. Il Libano è in bancarotta, la lira libanese è deprezzata (scambiata a oltre 3mila lire con il dollaro) e la crisi sanitaria causata dal Covid-19, con il conseguente lockdown più o meno rigido da metà marzo, ha esarcebato la crisi economica. Ai palestinesi che non sono considerati cittadini in Libano, che sono esclusi da molte professioni e cui sono negati molti diritti, la pandemia sta costando cara. Per molti di loro la sopravvivenza dipende da lavori saltuari e con il blocco imposto per contrastare la diffusione del virus hanno perso le proprie fonti di sostentamento. “Oggi è difficile anche trovare il latte nei negozi e i prezzi sono aumentati tantissimo - racconta Mohammed del campo di Burj el Shemali (Tiro) - Siamo bloccati nel campo, è rimasta aperta soltanto una via di accesso ed è stato imposto il coprifuoco dalle 19 alle 5. Ogni campo ha adottato le sue misure, a El Buss e Rashidieh sono più liberi di muoversi, altrove si segue il coprifuoco deciso dal governo libanese, dalle 21 alle 5”. “Il campo è sempre stato un mondo chiuso - continua - I nostri movimenti sono sempre stati limitati, ma adesso ci sentiamo sotto assedio. È lo stesso campo che ci fa pressione”. Nei campi la vita prosegue come al solito, raccontano Lina da Ein el Hilweh (Sidone) e Imad da Burj el Shemali. La gente è per strada, non indossa sempre mascherine, i negozi sono aperti, si fanno partite di calcetto e non tutti prendono sul serio la minaccia del virus. In effetti, il Covid-19 ha sinora risparmiato i campi palestinesi. È stato registrato il primo caso un mese fa a Wavel, nella valle della Bekaa: una persona è ricoverata a Beirut e quattro suoi famigliari sono in isolamento. In Libano, però, giovedì scorso c’è stato un picco dei contagi (+63) arrivati ieri a 1.140 (26 morti) e il governo ha reintrodotto le restrizioni ed esteso la quarantena, per la quinta volta, fino al 7 giugno. “A Burj El Barajneh (Beirut) al momento la situazione è sotto controllo - spiega Ahmad Einein - ma se avessimo casi, penso che rischieremmo il panico e mi aspetto anche una chiusura del campo, come a Wavel. Punteranno il dito contro di noi, diventeremo bersaglio di discriminazione”. È anche il timore di Mahmoud al Jooma, dell’associazione palestinese Beit Atfal Assumoud, che però teme ancora di più la povertà che si sta diffondendo tra i palestinesi: “Se il Libano resta in queste condizioni non ci sarà un futuro. Noi distribuiamo viveri, informiamo, ma non basta e abbiamo bisogno di azioni più incisive da parte delle Nazioni unite e dell’Unrwa”. L’agenzia dell’Onu che si occupa dell’assistenza ai rifugiati palestinesi da qualche giorno ha iniziato la distribuzione di un sostegno economico, 112mila lire libanesi, ma le immagini degli assembramenti e le notizie di disservizi hanno destato indignazione. Ed è comunque poca cosa se non si lavora, dicono i palestinesi. Sin dall’inizio dell’emergenza Covid-19, l’Unrwa è stata oggetto di critiche, insieme con l’Olp, le altre fazioni palestinesi, l’Autorità palestinese, l’Europa e le altre organizzazioni internazionali. In una nota, il direttore generale di Assumoud, Kassem Aina, parla di “carenze” e “ritardi” nella risposta all’emergenza. Le casse dell’Unrwa, però, sono sempre più vuote da quando, nel 2018, l’amministrazione Trump, il suo maggiore finanziatore, ha tagliato gli aiuti. Per far fronte alla crisi Covid-19, l’agenzia ha chiesto 93,4 milioni di dollari che basterebbero fino a luglio, ma i palestinesi temono che la crisi del coronavirus cambi le priorità dei donatori. Nigeria. Quei bambini rapiti da Boko Haram segnati dalla guerra nel Nord Est La Repubblica, 27 maggio 2020 “Una generazione ormai perduta”. Il rapporto di Amnesty International. Migliaia di minori sottratti alle famiglie e alla scuola per farne soldati o spose. I militari torturano i minori detenuti illegalmente. L’UE finanzia una riabilitazione inadeguata. Con un nuovo agghiacciante rapporto, Amnesty International punta il suo sguardo verso la Nigeria dove è sempre più urgente prendere atto e affrontare il fallimento nel proteggere e garantire l’istruzione a un’intera generazione di bambini nel Nord-Est del Paese, una regione devastata da anni di atrocità perpetrate da Boko haram e da enormi violazioni delle forze militari. Il rapporto di 91 pagine “Ci siamo asciugati le lacrime: occupiamoci dei bambini vittime del conflitto della Nigeria nord-orientale”, analizza le pratiche diffuse della detenzione illegittima e della tortura a opera delle forze militari, che hanno aggravato le sofferenze dei bambini degli stati di Borno e Adamawa, che hanno affrontato crimini di guerra e crimini contro l’umanità per mano di Boko haram che - ricordiamolo - è un’organizzazione terroristica jihadista diffusa nel Nord della Nigeria, alleata con i “tagliagole” del cosiddetto stato islamico. Le donazioni che di fatto hanno aiutato il fallimento. Il rapporto svela anche come i donatori internazionali abbiano foraggiato un programma fallimentare che pretende di reinserire ex presunti combattenti, ma che perlopiù equivale a una detenzione illegale di minori e adulti. “Gli ultimi dieci anni di aspro conflitto tra le forze militari nigeriane e Boko haram - dice Joanne Mariner, direttrice per le risposte alle crisi di Amnesty International - hanno costituito un attacco all’infanzia stessa nella Nigeria Nord-Orientale. Le autorità nigeriane rischiano di dar vita a una generazione perduta se non affrontano con urgenza la questione di migliaia di minori che sono stati presi di mira e traumatizzati dalla guerra”. Bambine e bambini rapiti per farne soldati o spose. “Tra le varie atrocità - ha proseguito Joanne Mariner - Boko haram ha più volte attaccato scuole e rapito moltissimi minori per farne soldati o ‘sposè. Il trattamento delle forze militari nigeriane per coloro che sfuggono a tale brutalità è stato altrettanto atroce. Dalla detenzione illegittima e di massa in condizioni disumane a pestaggi e torture, fino a consentire abusi sessuali da parte di detenuti adulti: è difficile immaginare - ha concluso - un altro luogo al mondo in cui ai minori possano essere arrecati danni così gravi dalle stesse autorità deputate alla loro protezione”. Tra novembre 2019 e aprile 2020, Amnesty International ha intervistato oltre 230 persone colpite dal conflitto, tra le quali 119 che, quando hanno subito gravi crimini da parte di Boko haram, delle forze militari nigeriane o di entrambi, erano minori. Il gruppo includeva anche 48 minori che erano stati in regime di detenzione militare per mesi o anni, oltre a 22 adulti che erano stati arrestati insieme ai loro figli. La brutalità di Boko Haram. I minori sono uno dei gruppi più colpiti dalle atrocità di Boko Haram, perpetrate su grandi aree della Nigeria Nord-Orientale per circa un decennio. Il gruppo armato ha fatto ampio ricorso ad attacchi a scuole, rapimenti di massa, reclutamento e utilizzo di bambini soldato, matrimoni forzati di ragazze e giovani donne, che per il diritto internazionale sono tutti crimini. Questo modello di crimini è ben noto per via di casi di grande rilievo come il rapimento di centinaia di studentesse a Chibok nel 2014. Tuttavia, la portata dei rapimenti è stata ampiamente sottovalutata e con grande probabilità raggiunge le migliaia. Boko Haram continua a costringere genitori a consegnare ragazzi e ragazze, sotto minaccia di morte. Continua a “sposare” dietro costrizione bambine e giovani donne. E continua a uccidere le persone che cercano di scappare. Bambini frustati e lapidati. I minori nelle aree sotto il controllo di Boko haram sono stati sottoposti a torture, come fustigazioni e altre violenze, oltre a essere costretti ad assistere a esecuzioni pubbliche e ad altre brutali punizioni. Una ragazza di 17 anni che è fuggita da Boko haram dopo essere stata rapita e tenuta in prigionia per quattro anni ha descritto la vita nella foresta di Sambisa: “Il [mio] perfido ‘marito’ mi picchiava sempre… Le mie attività giornaliere comprendevano la preghiera, cucinare se c’era del cibo, [e] andare a lezione di Corano. Non era permesso nessuno spostamento e non si poteva andare a trovare gli amici. È stata un’esperienza terribile e ho assistito a diverse punizioni: fucilazioni, lapidazioni o fustigazioni”. La ragazza e la maggior parte delle altre ex “spose” bambine intervistate, tra le quali alcune che erano tornate con dei bambini nati durante la prigionia, hanno ricevuto poca o nessuna assistenza nel rientrare a scuola, procurarsi i mezzi di sostentamento o accedere a un sostegno di natura psicosociale. “Vorrei andare a scuola ma non ci sono soldi”, ha detto la diciassettenne. “Il più grande aiuto per me sarebbe andare a scuola”. Detenzione militare: dati sottostimati. I minori che scappano dal territorio di Boko Haram affrontano moltissime violazioni a opera delle autorità nigeriane, tra le quali anche crimini di diritto internazionale. Se va bene, finiscono sfollati a combattere per la sopravvivenza con uno scarso o nessun accesso all’istruzione. Se va male, sono tenuti in regime di detenzione arbitraria per anni in caserme militari, in condizioni che equivalgono a tortura e altri maltrattamenti. L’Onu ha comunicato ad Amnesty International di aver verificato il rilascio di 2879 minori dal regime di detenzione militare a partire dal 2015, sebbene avesse precedentemente menzionato un numero maggiore di minori detenuti tra il 2013 e il 2019. È molto probabile che questi dati siano ampiamente sottostimati. L’Onu ha riferito di avere accesso limitato alle strutture di detenzione militare e quindi non è in grado di fornire il numero reale dei minori detenuti nell’ambito del conflitto. Le torture fino a quando non si confessa. La maggior parte di queste detenzioni sono illegali; i minori non sono mai accusati o perseguiti per un reato ed è loro negato il diritto di accesso a un avvocato, di comparire davanti a un giudice o di comunicare con le famiglie. Le detenzioni illegali diffuse possono configurarsi come crimine contro l’umanità. Quasi tutti coloro che scappano dal territorio di Boko Haram, anche i minori, sono “controllati” dalle forze militari e dalla Task force civile congiunta attraverso un processo che per molti comporta la tortura fino a quando si “confessa” l’affiliazione a Boko haram. I presunti membri e sostenitori di Boko haram vengono trasferiti e detenuti, spesso per mesi o anni, in condizioni misere in centri di detenzione come la caserma di Giwa a Maiduguri e la base militare di Kainji nello stato del Niger. Condizioni di detenzione bestiali. Ogni ex detenuto intervistato ha descritto le condizioni in maniera coerente e molto dettagliata: grande sovraffollamento, mancanza di aerazione in un clima di caldo asfissiante, parassiti ovunque, urine e feci sul pavimento a causa della mancanza di servizi igienici. Nonostante vi siano stati alcuni miglioramenti negli ultimi anni, molti ex detenuti, tra i quali alcuni minori, hanno anche dovuto affrontare uno scarsissimo accesso ad acqua, cibo e assistenza sanitaria. Decine di migliaia di detenuti sono stati tenuti in queste condizioni, talmente estreme da costituire il crimine di guerra di tortura, e molti minori continuano a esserlo, persino dopo i rilasci di massa alla fine del 2019 e all’inizio del 2020. La scomparsa di almeno 10 mila persone. Amnesty International calcola che almeno 10.000 persone, tra cui molti minori, siano deceduti in regime di detenzione durante il conflitto. Un ragazzo di 14 anni che Boko haram aveva rapito da piccolo prima che potesse scappare ed era stato posto in regime di detenzione dalle forze militari nigeriane ha dichiarato: “Le condizioni a Giwa sono così terribili da morirci. Non c’è un posto dove stendersi… Fa caldo, hai tutti i vestiti bagnati come se ti avessero messo in un fiume… Finora, nessuno mi ha detto perché sono stato portato qui, cosa ho fatto e il motivo per cui mi hanno arrestato. Mi chiedo, perché sono scappato via [da Boko haram]?” L’operazione Corridoio sicuro. Amnesty International ha anche documentato violazioni nell’operazione Corridoio sicuro, un programma di aiuto di milioni di dollari elargiti da Unione europea, Regno Unito, Usa e altri partner. Il centro di detenzione fuori Gombe gestito dalle forze militari è stato istituito nel 2016 con lo scopo di deradicalizzare e riabilitare presunti combattenti o sostenitori di Boko haram. Ci sono stati circa 270 “diplomati” in molti gruppi da allora. Le condizioni sono migliori in Corridoio sicuro rispetto a qualsiasi altro contesto di detenzione militare e gli ex detenuti si sono espressi in maniera positiva in merito al sostegno psicologico e all’istruzione per adulti ricevuti lì. Nessuna spiegazione a chi è detenuto. Tuttavia, alla maggior parte degli uomini e dei ragazzi presenti nel centro non è stata comunicata alcuna motivazione legale per la loro detenzione e ancora non hanno accesso ad avvocati o tribunali per presentare ricorso. Era stato loro promessa una permanenza di sei mesi, che in alcuni casi è stata prolungata a 19 mesi, periodo durante il quale sono stati privati della libertà e sono stati costantemente sotto vigilanza armata. Gli ex detenuti hanno riferito ad Amnesty International che l’assistenza medica era profondamente carente. Sono morti sette detenuti, molti, se non tutti, dopo aver ricevuto un’assistenza medica inadeguata. Le autorità nigeriane non lo hanno neanche comunicato alle famiglie, che sono invece state informate dai detenuti rilasciati. Il lavoro mai retribuito. Un programma di formazione professionale che fa parte di Corridoio sicuro potrebbe corrispondere a lavoro forzato, considerato che la maggior parte dei detenuti, se non tutti, non è mai stato condannato per nessun reato e fabbrica di tutto, dalle calzature ai saponi e ai mobili senza ricevere alcun corrispettivo. Il programma costringe anche alcuni detenuti a lavorare in condizioni non sicure. Alcuni di essi hanno subito dei gravi incidenti alle mani per aver dovuto lavorare a contatto con la soda caustica, sostanza altamente corrosiva, senza dispositivi di protezione. “La soda caustica è pericolosa. A contatto con il corpo, toglie la pelle”, ha detto un ex detenuto sessantunenne. “Le forze armate rilascino i minori”. “Nessuno dei maggiori donatori del programma Corridoio sicuro approverebbe un tale sistema di detenzione prolungata e illegale per i propri cittadini, quindi perché lo fanno in Nigeria?”, ha dichiarato Osai Ojigho, direttrice di Amnesty International Nigeria. “Le forze armate nigeriane devono rilasciare tutti i minori in detenzione arbitraria e mettere fine alle altre violazioni che sembrano avere l’obiettivo di punire migliaia di minori, molti dei quali sono stati anche vittime delle atrocità di Boko Haram. Un impegno nell’istruzione dei minori e nel loro recupero psicologico potrebbe aprire la strada a un nuovo percorso per il nord-est del paese”, ha concluso Osai Ojigho. Afghanistan. Il governo conferma la liberazione di 900 prigionieri talebani di Maria Grazia Rutigliano sicurezzainternazionale.luiss.it, 27 maggio 2020 Il governo afghano ha concordato il rilascio di circa 900 prigionieri talebani dalle carceri di tutto l’Afghanistan, il 26 maggio, a seguito della tregua annunciata dai militanti islamisti. Già il 25 maggio, il governo afghano ha rilasciato 100 prigionieri talebani come parte di uno sforzo verso la pace nel Paese, secondo quanto ha riferito Javid Faisal, un portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale afghano. In risposta alla decisione del governo, Suhail Shaheen, portavoce dell’ufficio politico dei talebani in Qatar, ha dichiarato che l’impegno a concludere la liberazione complessiva di 2000 prigionieri, da parte del governo afghano, è un buon passo. Tuttavia, solo con il rilascio di 5.000 prigionieri si potrà creare un ambiente adatto per il rafforzamento della fiducia. Tale numero era quelle previsto dall’accordo tra Stati Uniti e talebani firmato a Doha, il 29 febbraio. I nuovi progressi verso il dialogo intra-afghano arrivano dopo che i talebani hanno annunciato un cessate il fuoco di 3 giorni in occasione della festa dell’Eid, il 23 maggio. In una mossa reciproca, Ghani ha a sua volta dichiarato un cessate il fuoco. Tuttavia, una fonte di sicurezza ha affermato che 2 incidenti si sono verificati nelle 20 ore successive all’annuncio del cessate il fuoco. Uno è avvenuto nel distretto di Raghistan, nella provincia di Badakhshan, durante il quale sono stati uccisi due militanti, e l’altro si è verificato a Parwan, dove sono stati lanciati due missili sull’aerodromo di Bagram, senza causare vittime. In tale contesto, è necessario ricordare che uno scenario di instabilità caratterizza l’Afghanistan da decenni. I talebani si sono affermati come gruppo dominante in seguito al crollo del regime sovietico, per poi porsi alla guida di gran parte del Paese dal 1996, dopo la fine di una sanguinosa guerra civile tra gruppi militanti locali. Le truppe statunitensi, nel 2001, sono poi giunte Paese, con l’obiettivo di ribaltare le autorità di Kabul, allora sostenute dai talebani, che avevano fornito asilo ad al-Qaeda durante la pianificazione degli attentati dell’11 settembre 2001. Con l’invasione di Washington e l’intervento della NATO nell’agosto 2003, i talebani sono tornati a essere attivi e a compiere numerose offensive per destabilizzare il Paese. Il 29 febbraio 2020, gli Stati Uniti e i talebani hanno firmato uno “storico” accordo di pace a Doha, in Qatar. Tuttavia, tale intesa non ha portato ancora la stabilità nel Paese, sconvolto dalle violenze e fortemente diviso. Nonostante ciò, Washington rimane impegnata a ritirare buona parte delle truppe dall’Afghanistan, entro 14 mesi dall’accordo di Doha. Uruguay, rischio di passi indietro sui diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 27 maggio 2020 Il parlamento uruguayano si appresta a discutere un progetto di legge che rischia di produrre effetti pericolosi per i diritti umani. La Legge di considerazione urgente (che già dal nome fa intendere che si debba discutere velocemente) prevede una serie di modifiche peggiorative in tema di legittima difesa, inasprimento delle pene, ulteriori eccezioni alla libertà anticipata. Altri articoli della legge mettono a rischio il diritto alla libertà di manifestazione pacifica e prevedono l’uso della forza per disperdere le proteste. Ne deriverebbe, in una fase ancora acuta della pandemia da Covid-19, un aumento della popolazione carceraria in un sistema penitenziario più volte denunciato per il sovraffollamento e le inadeguate condizioni igienico-sanitarie. Amnesty International e altre organizzazioni per i diritti umani hanno chiesto al parlamento di non approvare la legge e di attribuire alle commissioni competenti il compito di analizzare e discutere in modo approfondito i vari aspetti critici riguardo alla protezione dei diritti umani.