Signori, il 14bis rende il 41bis una detenzione ancora più dura di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 maggio 2020 Momento imbarazzante durante la trasmissione “Non è L’Arena” di Massimo Giletti. Gli ospiti, tra i quali Luigi De Magistris, Antonio Ingroia e Alfonso Sabella non avevano chiara la natura della misura ulteriormente afflittiva. Francesco Basentini, ex capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è ormai diventato un vero e proprio capro espiatorio. È stato accusato, durante il programma “Non è l’Arena” di La7, di aver ammorbidito il 41bis a Pasquale Zagaria dopo averci parlato. Come? Concedendogli il 14bis dell’ordinamento penitenziario. Una affermazione davvero imbarazzante perché gli ospiti, tra i quali due ex magistrati (Luigi de Magistris e Antonio Ingroia) e uno ancora in servizio (Alfonso Sabella) non sapevano di cosa si stesse parlando. Solo dopo la pubblicità, forse consultando Google, hanno ammesso di aver preso un abbaglio. Ma senza specificare di che cosa si trattasse. Allora lo ricordiamo noi visto che su Il Dubbio abbiamo proprio affrontato questa misura che rende il 41bis ancor più duro e spesso stigmatizzato dal Garante nazionale delle persone private della libertà tramite i suoi rapporti tematici. Il 41bis oramai è entrato nell’immaginario collettivo come qualcosa di dovuto, ineludibile e non misura eccezionale. Con il passare degli anni è diventato sempre più duro rispetto a quello originale nato durante una vera e propria emergenza mafiosa: era il periodo stragista dove i mafiosi corleonesi ammazzarono con il tritolo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ultimamente, grazie ad alcune sentenza della Consulta, alcune misure inutilmente afflittive sono cadute, ma tante altre ancora rimangono. Tra queste c’è una forma di 41bis “speciale” che prevede una ulteriore riduzione dell’ora di socialità, isolamento pressoché totale, completamente al buio perché il più delle volte si è internati sottoterra. Un super 41bis per alcuni condannati al 41bis. Parliamo della cosiddetta “area riservata” che non ha nessun fondamento normativo, eppure è un atto amministrativo che viene applicato per i boss mafiosi di un certo calibro, ma non solo. Questo regime ulteriormente duro è stato più volte messo all’indice dagli organismi internazionali come il Comitato europeo per la prevenzione sulla tortura (Cpt), ma anche dal dossier della Commissione dei diritti umani presieduta dal senatore Luigi Manconi e, non da ultimo, dal Garante nazionale dei diritti dei detenuti Mauro Palma. Il Cpt ha evidenziato il “quasi isolamento” previsto dal regime speciale di questa area riservata caratterizzato da un accesso limitato all’aria aperta, una socializzazione ridotta al minimo e con possibilità di accedere solo a spazi angusti. In alcune carceri, queste aree riservate riservano un isolamento totale. Come si ottiene questa misura? Con l’applicazione congiunta del regime di sospensione delle regole del trattamento penitenziario previsto dall’articolo 41bis e della sorveglianza speciale del fatidico articolo 14bis menzionato durante la trasmissione di Massimo Giletti. Un combinato disposto che dà luogo a stati di isolamento prolungato, protratto anche per molti anni, che incidono gravemente sull’integrità psichica e fisica della persona detenuta. Solo per fare un esempio la delegazione del Garante nazionale nella Casa circondariale di Tolmezzo aveva incontrato un detenuto che era collocato nell’area riservata ed era in isolamento continuo da sei anni, senza poter accedere ad alcuna anche minima forma di socialità. Durante la visita effettuata dalla delegazione del Garante, la persona si presentava in condizioni igieniche appena sufficienti e riferiva di soffrire di cecità dall’occhio sinistro per “foro maculare” e ridotta visibilità al destro per “cellophane maculare”. La condizione di isolamento continuo protratta per sei anni, verosimilmente responsabile anche del decadimento fisico, psichico e igienico del detenuto che trascorre le proprie giornate soltanto ascoltando la radio (non potendo nemmeno guardare la televisione a causa del difetto visivo), secondo Mauro Palma pone concretamente la questione della compatibilità con i parametri dell’umanità della pena e del divieto di trattamenti inumani e degradanti dettati dalla Costituzione e dall’art. 3 della Convenzione europea per la tutela dei diritti umani. “Covid e non solo, il carcere esplode: usiamo le strutture dismesse sul territorio” bergamonews.it, 26 maggio 2020 Le riflessioni di Antonio Nastasio, ex dirigente superiore dell’Amministrazione penitenziaria, in quiescenza. Antonio Nastasio, ex dirigente superiore dell’Amministrazione penitenziaria, in quiescenza, conosce molto bene la realtà delle carceri in Lombardia e in particolare a Bergamo. Lo abbiamo incontrato per aiutarci a comprendere come ha vissuto il carcere questo lockdown per l’emergenza Coronavirus e che cosa si può fare dopo questa esperienza. Che cosa pensa della situazione attuale delle carceri italiane in questa situazione di emergenza gestionale? L’emergenza Covid-19 ha senz’altro fatto esplodere la difficile gestione del complesso mondo della contenzione di persone con problemi giudiziari. Carcere ed emergenza sanitaria, hanno in comune di non essere contesti recessivi, ma due realtà dominanti, realtà che non danno vie di scampo e inducono a scelte tra due doveri dello Stato, quello di punire e di curare. Come pensa abbia risposto lo Stato, tramite il Ministero della Giustizia e il Dipartimento di amministrazione penitenziaria? Ha confezionato una risposta più da burocrati, fatta a tavolino, rintracciando il male minore piuttosto che ampliare il contesto del come e sul come contenere il problema. Non ha cercato altre soluzioni al coronavirus, oltre la detenzione o la famiglia o l’affidamento ad un contesto disposto all’accoglienza, magari a pagamento. L’attuale sistema di gestione delle misure alternative, relative alla pena non detentiva, è uno dei principali elementi di criticità ed è tale da richiedere una profonda revisione degli interventi che consentano un miglioramento degli attuali livelli di qualità e performance. Siamo in una situazione di défaillance del settore? Chiaramente la crescita forte e repentina del numero dei soggetti in misura alternativa è frutto di soluzioni estemporanee, le quali lasciano dietro di sé più negatività che positività. La salute è stata considerata prevalente e qui non si obbietta, aver alleggerito il numero di presenze in carcere ha reso molti entusiasti di aver fatto bene i propri compiti, seguendo il mandato istituzionale di alleggerire le carceri. Ma non era questa la soluzione più giusta. La famiglia non può essere costantemente chiamata in causa per risolvere tutto ciò che è dello Stato e lo Stato non sa dare risposte perché non pensate in anticipo. Cosa era prevedibile e cosa si doveva pensare anticipatamente? Il problema sovraffollamento non è un problema nato con il coronavirus, era un problema prevedibile certo, che rimanda al problema annoso mai risolto. Si è rimasti ai tempi delle grazie regie; amnistia e indulto per anni hanno risolto il problema dell’inefficienza, dell’incapacità ad aprirsi al nuovo, al non sperimentato, al riconsiderare cosa è delitto ed ammenda. Senza formulare per il carcere interventi altri, si sono tolte risorse economiche per interventi non all’interno del carcere. Possiamo approfondire meglio questo passaggio? Dall’istituzione delle misure alternative alla detenzione del 1976 ad oggi, non si è pensato a strutturare in modo diverso sia le carceri che il mondo del non carcere, quello delle misure alternative, senza toccare il mondo del punire. Occorre dividere ciò che deve essere punito con una pena detentiva, con una pena non detentiva e con una multa. Che cosa propone? Creare nuove strutture sul territorio per dare un significato trattamentale, dando maggiori attenzione all’offerta di servizi per aiutare la persona a cambiare o a curarsi. Questa tesi è la stessa utilizzata in passato per i malati di Aids, scarcerati subito ma recuperando situazioni alternative, nelle quali dove potevano avere attenzioni, cure, morire in modo dignitoso perché la dignità non si toglie a nessuno. Non parlo di allungare la carcerazione o impedire una scarcerazione. È una offerta trattamentale, nel senso di aiutare il soggetto a porre in essere un atteggiamento di autocritica sul danno arrecato alla vittima col suo comportamento criminale. Non certo una richiesta di un surplus di afflittività ma uno strumento in più per riconosce più ciò che è pena, e in particolare la misura alternativa al carcere, non certo di punire e quindi “di far male. Può essere più concreto a proposito di queste strutture territoriali che, intuisco, non ci sono? Anni fa, per rendere meno pesante la detenzione si pensò, progetto mio, di adibire strutture detentive a sicurezza attenuata, quindi minor vigilanza e maggior attività di trattamento. Parlo di adibire strutture con capacità contenitiva per assolvere a questo scopo, recuperando le carceri mandamentali dismesse, pensate per tossicodipendenti arrestati. Erano strutture pensate con una custodialità minima e attività trattamentale simile a quella di una comunità di recupero, con forte apporto del loro personale, in un rapporto economico di convenzione. Non avrebbero pesato sul carcere, né come numero né per il tipo di offerta di servizi. Servivano giusto il tempo per passare poi alle stesse comunità in condizioni fisiche e psichiche idonee al permanere in questi luoghi indicati. Si associava pertanto la cura sanitaria all’espiazione della pena, per finire la pena in misura in contesto esterno indipendente. Forse idea troppo innovativa… Queste strutture a detenzione attenuata, a chi servirebbero? Mi rivolgerei a detenzione per soggetti a breve indice di pericolosità ed a soggetti ammalati che non possono trovare una adeguata assistenza per lunghi periodi. Saranno sempre carceri ma chiameranno il supporto del Privato sociale e dell’ente locale, con una presenza minima di personale di custodia debitamente formato. Che cosa si otterrebbe con questa soluzione? Un’offerta di servizi previsti dall’Ordinamento Penitenziario, uno svuotamento del carcere in modo ragionato con il territorio, senza danno loro e della collettività. Non stazionerebbero nell’ozio ma si abituerebbero alle modalità della vita esterna ad attività di pubblica utilità, al risarcimento sociale per il male fatto. Questo può avvenire solo se vengono coinvolte nella gestione fin da subito il mondo del volontariato e dell’ente locale, in quanto è prevista la territorializzazione della pena non solo come detenzione ma come inserimento sociale nel luogo della vita del soggetto. Mi sembra di capire che lei parla di attività di pubblica utilità e non di lavoro socialmente utile…. Parlo di giustizia riparativa, in particolare tramite l’attività di pubblica utilità che meglio si attua in strutture, come quelle che propongo, in quanto hanno come mandato il reinserimento tramite una rivisitazione critica, del reo, del proprio vissuto. Quindi il futuro del carcere è un suo ampliamento verso il recupero e riutilizzo di strutture dismesse? Sì, sono per il recupero di quello che il contesto esterno può offrire con un minimo di manutenzione e qualificazione al nuovo ruolo di essere dei luoghi, come ex caserme o ex collegi, che detengono le persone per avviarle ad una scarcerazione preparata, sia per il soggetto che per la società. Sono anche per il recupero di tutti gli ospedali zonali dismessi, ancora capaci di attuare il mandato di assistenza, debitamente resi contentivi per le terapie a lunga degenza per soggetti in vecchia che non possono essere scarcerati, per tutti coloro che per patologie psichiche con diminuita aggressività ma non ancora pronti per una ospitalità esterna. Il passaggio a queste strutture, come lo vede? Il passaggio avviene creando un “gruppo di trattamento” aperto alla presenza del privato sociale che opera in quella struttura, compresi gli agenti di polizia penitenziaria di reparto del carcere operante nella struttura, sia essa per espiare la pena che per le cure sanitarie. Strutture che avranno un costo... Credo sia venuto il momento di presentarlo come progetto europeo, progetto sperimentale con i fondi italiani depositati, che la Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha invitato a spendere. Penso che le nuove carceri a sicurezza attenuta, recuperando il dismesso, sarebbero un bellissimo nuovo progetto, che va incontro sia a chi è detenuto che alla società che chiede più carcere; parlo di un carcere altro, pieno di iniziative e attenzione, al quale il privato sociale specializzato, saprà dare quell’impronta che oggi è mancata, attuando l’offerta di servizi che vuole ordinamento penitenziario. Polizia Penitenziaria già in rivolta contro il nuovo direttore del Dap di Fabio Amendolara La Verità, 26 maggio 2020 Parte male il sostituto di Basentini, Petralia, coinvolto anche nelle chat dello scandalo. Dino Petralia, il magistrato antimafia che da procuratore generale di Reggio Calabria è stato chiamato dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, al posto del dimissionario Francesco Basentini, al suo primo comunicato da capo del Dap fa arrabbiare la Polizia Penitenziaria. Daniela Caputo, leader dell’Associazione nazionale dirigenti e funzionari di Polizia Penitenziaria, che si dice “neppure troppo stupita”, non gliene ha risparmiate: “Le parole chiave sono Garante dei detenuti, Antigone, direttori”. Il riferimento politico, stando all’analisi critica dell’Associazione dei dirigenti della penitenziaria, “è, esplicitamente, il sottosegretario Andrea Giorgis del Pd”. Oltre a quest’ultimo e a un lungo elenco di associazioni e direttori, tutti citati, uno dietro l’altro. Tranne chi lavora tutti i giorni all’interno degli istituti di pena per garantire la sicurezza: “La Polizia penitenziaria non viene neppure citata, se non in una successiva integrazione”. Stando alla segretaria dell’Associazione nazionale dirigenti e funzionari di polizia penitenziaria, insomma, ci sarebbe stata una rettifica rispetto al primo comunicato diffuso. “Non ci stupisce perché, aldilà dell’elevatissimo profilo personale e professionale (che certamente merita tutto il nostro rispetto), il capo del Dap non è il capo della polizia penitenziaria, ne percepisce l’emolumento, ma non esiste una sola disposizione di legge che gli riconosca e disciplini tale funzione”. Ecco spiegata la ragione del lauto stipendio. Ma a un magistrato fuori ruolo, aggiunge la Caputo, “non è richiesto di avere la sensibilità per guidare un corpo di polizia, anche per rispetto del principio costituzionale di separazione dei poteri” Non solo. Petralia non è stato risparmiato dalle logiche di corrente svelate dalle chat dell’ex membro del Consiglio superiore della magistratura, Luca Palamara. Lui stesso si era infatti rivolto allo stratega del Csm per tentare di coprire la poltrona di capo della Procura di Torino. Ritirò la domanda quando cominciarono a uscire le intercettazioni sul mercato delle toghe. All’epoca si disse che non sapeva nulla del gradimento di Palamara. E prese le distanze dagli intrighi del pm romano. Ma le chat dimostrano il contrario. E Petralia in quei documenti arriva a chiamare il suo sponsor “infaticabile organizzatore”. Cosimo Ferri (già sottosegretario renziano, poi con il Pd e ora con Italia viva), intercettato, aveva detto di aver saputo da Ermini che Giuseppe Cascini (anche lui di Area) chiedeva voti per Petralia a Torino. E, coincidenza, Petralia parla proprio di Torino con Palamara. Poi, a scandalo scoppiato, fa marcia indietro. La gratificazione, però, è solo rimandata. Bonafede chiama la toga a guidare il Dap. In pieno polverone, però, Petralia debutta tralasciando la polizia penitenziaria. E allora í dirigenti della polizia penitenziaria, come già hanno fatto altre volte, chiedono “la collocazione della polizia penitenziaria alle dirette dipendenze del ministro della Giustizia”. Il Dap sembra proprio stare stretto alla penitenziaria. “Confinarla all’interno del Dap (che deve giustamente occuparsi dei detenuti e dovrebbe farlo con maggiore attenzione)”, sottolinea la Caputo, “è un’ingiusta mortificazione delle aspettative di 40.000 donne e uomini, anche perché il corpo collabora fattivamente con gli altri dipartimenti del dicastero, con gli uffici di sorveglianza e i giudici dell’esecuzione e con gli uffici interforze”. E allora il sindacato si è rivolto al ministro Bonafede: “Istituisca subito un comando generale del Corpo di Polizia Penitenziaria, affidandolo ai suoi dirigenti in uniforme e ponendolo alle proprie dirette dipendenze”. Tribunali e Corti d’Appello lavorano a scartamento ridotto di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 26 maggio 2020 Una Fase 2 che assomiglia troppo alla Fase 1. Con cause penali trattate che oscillano dal 20% al 25% rispetto alle iscritte. Una percentuale che scende al 15% nel civile. Questo almeno è quanto emerge dai dati forniti dall’Osservatorio delle Camere penali italiane e dall’Unione camere civili. Il report è il risultato di un monitoraggio, fatto dalle 131 camere penali presenti sul territorio e dalle 93 civili, su quanto sta accadendo nei tribunali. I dati dei penalisti, relativi al periodo dal 12 al 20 maggio, evidenziano una condizione di stallo, con poche eccezioni. Una nota dolente sono i tempi dei rinvii fissati in genere tra settembre 2020 e gennaio 2021. Anche se non mancano casi eclatanti come Grosseto e Siena dove si va al 2023 o al 2024. Basso, in genere il numero di udienze trattate rispetto a quelle fissate. Ad Ancona il Tribunale ha una media di 20 udienze su 200, mentre a Bologna si va a due velocità, con i 32 processi a ruolo su 38, svolti dal collegiale, e i 188 del monocratico su 656. In corte d’Appello a Cagliari si sono celebrati tre processi, in Tribunale 30 nel collegiale, 127 nel monocratico. Le udienze da remoto ci sono solo se l’imputato è detenuto. Zero udienze da remoto invece per Genova, Locri, Palmi e Potenza. Tutto fermo a Campobasso dove, per Tribunale e Corte d’Appello le udienze riprenderanno il 1° giugno in presenza. Il 1° giugno è una data importante anche per Firenze. In Corte d’appello si prevede di ripartire al 100% a fronte dell’attuale 40%, mentre il Tribunale ha trattato 40 procedimenti su 200. Solo 253 udienze svolte a Bari sulle 1100 fissate. A Genova il Tribunale privilegia i riti alternativi e le udienze di discussione e rinvia il resto. Lavora a pieno regime la Corte d’Appello dell’Aquila, a differenza di Lecce, dove il Tribunale ha svolto solo le udienze con i detenuti. Celebra tutte le cause fissate la Corte d’Appello di Palermo, mentre va scartamento ridotto il Tribunale. A Roma, dove si lavora senza protocolli, sono stati celebrati 366 processi in otto giorni in nove sezioni. Come termine di paragone, il report dell’Ucpi, usa la performance della X sezione che ha trattato 45 udienze su 223, mentre sono 33 i processi celebrati in Corte d’Appello. Il Tribunale rinvia anche aprile 2021. A Milano la criticità evidenziata riguarda Gip e giudici di pace, con udienze tutte rinviate tranne la trattazione necessaria. Per i civilisti, secondo il dato raccolto dalle 93 camere sul territorio, è stato fissato circa il 15% dei procedimenti. E non mancano iniziative discrezionali. Come quella adottata dal giudice della prima sezione civile del Tribunale di Messina, che ha concesso per le memorie, a pena di inammissibilità, un massimo di due pagine per 24 righe ciascuna, carattere 14. “Non esiste nessuna norma né un protocollo che detti dei limiti per le memorie che devono essere certamente non prolisse e chiare - dice il presidente dell’Unione camere civili, Antonio De Notaristefani - ma nel caos c’è chi si muove con equilibrio e chi si fa prendere da un delirio di onnipotenza”. “Chi ferma la Giustizia ferma i diritti” di Simona Musco Il Dubbio, 26 maggio 2020 La presidente del Cnf Maria Masi: “Così rischiamo di indebolire le garanzie e le nostre libertà”. Mentre l’Italia riparte, la Giustizia resta al palo. Congelata, totalmente ferma, nonostante siano passati già 15 giorni dall’avvio della Fase 2. Così i tribunali rimangono chiusi e inaccessibili. Un segno, secondo Maria Masi, presidente facente funzioni del Consiglio nazionale forense, di un mancato riconoscimento della sua funzione sociale e, soprattutto, della inadeguata considerazione del ruolo dell’avvocato, che al centro “pone sempre la difesa dei diritti”. E la sua svalutazione, in un periodo di emergenza che rende ancora più necessaria la tutela dei principi costituzionali, emerge anche dalle “sviste” nei confronti dei professionisti, avvocati compresi, vittime non solo del fermo immagine dei processi, ma anche delle difficoltà ad accedere a bonus e ai contributi a fondo perduto. Questi ultimi, anzi, negati. Ma Masi avvisa: “Interverremo con ancora più forza per impedire le discriminazioni”. Nonostante tutte le energie spese dal governo per la ripartenza, la Giustizia rimane ferma: è il riflesso della scarsa popolarità della difesa dei diritti nell’opinione pubblica? È il riflesso del mancato riconoscimento della Giustizia quale funzione essenziale dello Stato, anche da parte di chi la Giustizia non solo deve garantirla, ma promuoverla. Nell’immaginario collettivo è spesso percepita in maniera distorta, come se fosse qualcosa che riguarda solo alcuni e non ciascuno di noi. A ciò si aggiunga che la valutazione di fatti e accadimenti concorre ad alimentare la sfiducia nel sistema. C’è una forma di diffidenza nei confronti degli avvocati? Più che diffidenza direi che non c’è un’adeguata considerazione, nonostante il ruolo e la funzione e le nostre rivendicazioni, che al centro pongono sempre la difesa dei diritti e solo dopo richieste altrettanto legittime di tutela della categoria, non sono percepite come tali. Eppure la tutela della categoria, anche sotto il profilo del sostegno al reddito e alla professione, è importante, perché finalizzata a garantire e preservare l’esercizio di una funzione necessaria. Quali sono le conseguenze effettive di questo blocco? Il blocco, che in questa “seconda fase” appare ed è sicuramente non giustificato né giustificabile dalle esigenze attuali di tutela del diritto alla salute, seppure ancora eccezionali, rischia di allontanare ancora di più la Giustizia dalla società civile e snatura, affievolendoli, i principi fondamentali di e per uno Stato di diritto. La rappresentazione dei tribunali come luoghi non accessibili persino agli operatori di diritto, necessari e non sostituibili, indebolisce il senso di giustizia e alimenta la diffidenza nei confronti della sua funzione, oltre che nei confronti di magistrati e avvocati. L’organizzazione della Fase 2, nonostante gli appelli dell’avvocatura e in particolare del Cnf, non è stata unitaria e tutto è stato affidato alle decisioni dei singoli capi uffici. È, come sostiene qualcuno, un’anticipazione arbitraria della sospensione feriale? Purtroppo il rischio di essere rimandati a settembre è reale, a giudicare dai dati disponibili a due settimane dalla “ripresa”. L’autonomia affidata alle decisioni dei capi degli uffici giudiziari, giustificata da esigenze di flessibilità ispirate al principio di ragionevolezza, in molti casi si è rivelata eccessivamente discrezionale. I provvedimenti di rinvio, a prescindere dalla natura del giudizio e/o dal carattere dell’urgenza, le modalità di trattazione scritta, che in alcuni tribunali rinviano a modelli che sacrificano ingiustificatamente il diritto di difesa, la scarsa applicazione dell’udienza da remoto… A prescindere dalla volontà espressa dalle parti, e quindi dei difensori, la residuale, quanto minima e solo per alcuni procedimenti, trattazione in presenza sconforta in tal senso. Ma davvero non è possibile pensare delle linee guida comuni per tutti gli uffici? Non solo è possibile, ma è necessario fare uno sforzo di impegno e di risorse per garantire l’applicazione omogenea di alcune regole fondamentali e non negoziabili. La Fase 1 poteva essere utilizzata per la definizione delle cause trattenute in decisione dai giudici? Sicuramente un’occasione utile per smaltire l’arretrato… Una sentenza non è solo l’esito di un giudizio, lungo spesso molti anni, ma è una risposta di giustizia a una domanda di giustizia. Anche gli avvocati hanno approfittato del tempo sospeso per aggiornarsi circa i nuovi possibili strumenti utili per svolgere la professione e non si sono sottratti all’esercizio del ruolo sociale, che ancora di più in questo periodo si è rivelato necessario, con la differenza che non hanno e non possono gestire i tempi del riscontro. Una nota positiva: il decreto sul processo amministrativo, che disciplina le cause dal 30 maggio al 31 luglio e di fatto mette d’accordo tutti. Non è un modello replicabile? Il modello replicabile non riguarda tanto il decreto - perché i processi sono diversi -, ma il metodo che ha promosso il decreto e che ora lo rende attuabile è senza dubbio auspicabile. Metodo che presuppone la condivisione equilibrata e ragionevole del contributo di proposte da parte dei magistrati e degli avvocati per un fine che non può essere che comune. Altro problema è quello relativo a bonus e contributi a fondo perduto. Il Cnf interverrà contro queste discriminazioni? Certo, come nella prima fase, ma in maniera ancora più forte, con un’azione sinergica di tutte le componenti dell’avvocatura, determinata dalla consapevolezza che l’indebolimento irragionevole e ingiustificato, anche sotto il profilo economico, della nostra categoria indebolisce inevitabilmente la difesa dei diritti. Csm, via alla riforma. Intesa tra Pd e M5S per frenare le correnti di Francesco Grignetti La Stampa, 26 maggio 2020 Sarà un conclave di maggioranza, oggi, ad affrontare una riforma tra le più complicate e scivolose: quella del Consiglio superiore della magistratura. Il tema è noto. La politica tutta, indistintamente, vuole limitare il peso delle correnti organizzate dentro la magistratura. Quel sentimento che fa gridare al presidente dimissionario dell’Associazione nazionale magistrati, Luca Poniz: “È in atto un disegno per colpire l’intera magistratura e l’associazionismo che nessuno sconfiggerà mai. Occorre reagire con forza e respingere l’idea che la magistratura è quella che emerge dalle ricostruzioni dei giornali. Noi siamo un’altra cosa”. Un urlo di orgoglio che però cade nel momento peggiore della magistratura italiana, tra la coda dello scandalo Palamara e lo scontro aperto tra le correnti. Il problema della politica è come vincere questa battaglia. Il ministro Alfonso Bonafede aveva ipotizzato una riforma già ai tempi della maggioranza giallo-verde, poi riscritta con la maggioranza attuale. Tra la prima e la seconda ipotesi, è caduta l’idea di imporre un sorteggio ai magistrati per entrare nel Consiglio superiore della magistratura. Resta il nodo di quale sistema elettorale. Spiega uno degli esperti del Pd: “Non possiamo sbagliare. Guai a cercare un sistema elettorale che dovrebbe ridurre il peso delle correnti e poi scoprire che invece l’ha accentuato”. Mai come stavolta i toni dei politici sono critici contro i magistrati. Il centro destra torna a chiedere la separazione delle carriere, come anche gli avvocati dell’Unione camere penali. Per Matteo Renzi è uno “scandalo incredibile, ma nessuno ne parla se non tocca Luca Lotti o Cosimo Ferri”. Dice anche Francesca Businarolo, M5S, presidente della commissione Giustizia alla Camera e molto vicina al Guardasigilli: “Occorre un’immediata riforma dell’organo di autogoverno per restituire credibilità e solidità a una essenziale articolazione del potere statale”. E Andrea Giorgis, sottosegretario alla Giustizia, Pd: “Al più presto riformare il Csm, il sistema delle carriere dei magistrati e la disciplina del conferimento degli incarichi direttivi”. Un vecchio saggio come Giancarlo Caselli è sgomento: “Le intercettazioni rivelano un groviglio di manovre e spesso anche di baratti che hanno consentito a molti di parlare di un suq. È uno tsunami”. Franco Roberti, già procuratore nazionale antimafia, oggi eurodeputato Pd, chiede la più radicale delle riforme: “Vanno abolite le carriere dei magistrati”. Intanto all’interno dell’Anm si cerca di trovare una tregua. Sia pure armata. Resta in piedi la giunta dimissionaria per l’ordinaria amministrazione. Obiettivo minimo è avere una voce proprio ora che il Parlamento intende riscrivere le regole sull’autogoverno della magistratura stessa. Giustizia, la maggioranza torna al tavolo di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 26 maggio 2020 Vertice convocato poi rinviato a mercoledì. Primo punto la nuova legge elettorale del Csm. “Sì al pluralismo, no al correntismo” dice il Pd. Si parte dal rovesciamento dell’ultima riforma (Berlusconi, 2002): aumento del plenum e restringimento dei collegi elettorali. Ma con lo stesso obiettivo. Il ministro Bonafede ha convocato i quattro partiti della maggioranza in via Arenula, la riunione avrebbe dovuto tenersi stasera ma l’appuntamento è saltato per la concomitanza con il voto di fiducia. Ma già domani potrebbe essere il giorno buono: la maggioranza riprende a parlare di giustizia dopo oltre tre mesi. E dopo il discorso in senato del guardasigilli che, difendendosi dalle mozioni di sfiducia, ha promesso maggiore collegialità ai partner giallo-rossi e ha accennato alla riforma del Csm. Riforma che adesso “non può più attendere”, secondo un post domenicale del ministro a commento del “vero e proprio terremoto che sta investendo la magistratura italiana”. Una fretta che costringe persino il Pd, che pure aveva posto per primo il tema, a raccomandare prudenza di fronte alla tentazione del “tutti a casa”. Il Csm in carica è appena a metà mandato, è stato recentemente rinnovato per un terzo della componente togata elettiva (proprio a seguito delle dimissioni per lo “scandalo Palamara”) e il presidente Mattarella che lo guida e che potrebbe scioglierlo solo in caso di impossibilità di funzionamento ha già valutato, l’anno scorso, di dare a governo e parlamento il tempo per riformare l’organo di autogoverno dei giudici. Oltretutto “sciogliere adesso vorrebbe dire interrompere i procedimenti disciplinari già avviati a carico dei magistrati”, fa notare il responsabile giustizia del Pd Walter Verini. Quando il discorso sulla giustizia era stato interrotto, a febbraio, l’urgenza non era quella di intervenire sul Csm, che infatti era stato stralciato dal disegno di legge delega che attente alla camera. L’urgenza era quella del processo penale da sveltire, per limitare così i danni dello stop alla prescrizione sul quale Bonafede non è tornato indietro. “Processo penale e prescrizione sono urgenti quanto la riforma del Csm” sostiene il deputato di Leu Federico Conte, e anche “un necessario intervento sull’ordinamento penitenziario per potenziare le misure alternative al carcere”. Sul Csm erano due i punti fermi raggiunti dalla maggioranza: aumento del numero dei componenti (da 27 a 33) e aumento dei collegi elettorali per la componente togata in modo da diminuirne l’ampiezza, con l’intenzione di contenere il peso delle correnti della magistratura associata. Si tratterebbe di un ritorno all’antico: diciotto anni fa, infatti, il centrodestra (governo Berlusconi, Castelli ministro) aveva fatto precisamente l’opposto: ridotto i componenti del Consiglio da 33 a 27 e allargato i collegi che da quattro erano passati a tre nazionali. Direzione contraria, ma curiosamente lo stesso identico obiettivo: combattere le correnti. Allora non funzionò. Alle elezioni immediatamente successive a quella riforma del 2002 si candidarono solo cinque magistrati fuori dai gruppi organizzati e nessuno di loro venne eletto. Facendo un salto in avanti, per il Csm attualmente in carica gli accordi tra le correnti sono arrivati addirittura prima delle elezioni, tant’è che il numero dei candidati nel 2018 è stato pressoché identico al numero dei posti da assegnare: 21 candidati per 16 seggi. I pm sono stati eletti tutti, gli unici a restare fuori sono stati due magistrati di Cassazione e tre giudici di merito. Che però, a seguito dello scandalo Palamara e delle successive dimissioni dei consiglieri eletti, sono stati tutti e tre recuperati (uno ha rinunciato). Nel nuovo sistema elettorale immaginato da Bonafede - dopo aver rinunciato all’idea originaria, il sorteggio - i collegi elettorali diventerebbero 19. Si parla però di tre preferenze a disposizione di ciascun elettore, cosa che al contrario può favorire gli accordi tra cordate. E si parla di ballottaggio, mentre le proposte di legge già agli atti della camera prevedono il turno unico. “Con il Csm andrà riformato il sistema delle carriere dei magistrati - anticipa il sottosegretario alla giustizia Andrea Giorgis, Pd - non per negare il pluralismo culturale e associativo dei magistrati, ma per contrastarne le degenerazioni correntizie”. Non c’è solo la legge elettorale. Anm, scatto d’orgoglio: “Non ci scioglierete” di Errico Novi Il Dubbio, 26 maggio 2020 Dal direttivo riunito ieri sera in videoconferenza, la decisione di lasciare la giunta Poniz in piedi per gli “affari correnti” fino alle nuove elezioni di ottobre. Ma anche la risposta ai partiti che maramaldeggiano con la magistratura dopo averla lasciata diventare il surrogato della politica vera. Se uno ascolta la seduta di stasera della Anm, del suo “Parlamento” (il ricorrente vezzeggiativo è un po’ sgradevole, rischia di confondere l’apparente riferimento ai numeri ridotti con l’idea della parodia), comprende molte cose. Comprende perché, forse, si è arrivati alla crisi di oggi, perché una categoria onorata, culturalmente attrezzata e al 99 per cento non solo onestissima ma ispirata da un forte senso del dovere, perché, ecco la magistratura italiana sia precipitata nella crisi. Bisogna sentire la registrazione disponibile sul sito della straordinaria Radio Radicale, che ha trasmesso in diretta le immagini e soprattutto le parole dell’assemblea in videoconferenza di stasera. La riunione del comitato direttivo centrale Anm, la prima dopo la crisi aperta sabato scorso dalla decisione di Area, gruppo progressista e decisivo, di ritirarsi dal “governo” (la giunta esecutiva) guidato dal proprio esponente Luca Poniz. La giunta Anm entrata “in crisi” è prorogata fino a ottobre - L’ascolto consentirà di apprendere, certo, che ne è uscita la decisione di mantenere l’organismo esecutivo, la giunta appunto, in piedi per gli affari correnti, come si direbbe, in un regime di prorogatio che certamente la svuoterà dei suoi contenuti politici. Ma non è questo il punto. Poniz “continuerà a partecipare a pieno titolo alle riunioni con il ministro della Giustizia sulla riforma del Csm, per esempio”, ha assicurato con intenzione di diffondere fiducia uno dei predecessori del presidente uscente, Francesco Minisci, di Unicost. Ecco, si andrà avanti. “In una condizione che renderà però l’Anm più debole”, insinua, incalza e un po’ gioisce Giancarlo Dominijanni, autorevole rappresentante di Magistratura indipendente, l’unico gruppo che era fuori della maggioranza prima e che ne resterà a fuori anche in questa appendice fino alle nuove elezioni di ottobre. Ma a parte l’esito, scontato, un po’ dimesso appunto, ciò che conta sono le espressioni: “prorogatio” o “giunta istituzionale”, come la chiama Carlo Coco, che ha presieduto l’assemblea. E poi, “la nostra attività politica”, come rivendica con appassionato orgoglio un altro rappresentante della giunta uscente, Marcello Basilico. L’illusione di surrogare la politica vera - Tutti termini che pretendono un paragone con la politica vera. Che anzi lo attestano. Ed ecco qual è davvero il punto. In un’epoca di terribile crisi della rappresentanza parlamentare, dei partiti e della politica tout court (prima che di quella “de minimis”, come la definì in un’intervista a questo giornale, con simpatica autoironia, proprio Luca Poniz), i magistrati e la loro Associazione hanno finito per guadagnare uno spazio di visibilità enorme. Smisurato. Forse sproporzionato alle proprie forze. E hanno finito per mostrarsi non all’altezza di un’investitura psicologica, di un’aspettativa di salvezza che l’equivoco ha diffuso nel Paese, almeno nelle sue rarefatte élites. Come se in assenza di partiti che facessero onore alla democrazia, che sapessero farne avvertire il respiro solenne, l’élite politico-intellettuale italiana non solo si fosse affidata al singolo pm come a un angelo purificatore, ma avesse ceduto all’illusione che la politica condotta dalla Anm potesse divenire il surrogato di quella vera. Sotto il peso di un’aspettativa così gravosa, è come se il sistema di potere della magistratura avesse ceduto di schianto. Si fosse cioè avvitato nell’imitazione non solo della terminologia politica, ma anche di alcuni abusi della partitocrazia. Le nomine, lo scambio, la disinvoltura, la minuziosa e un po’ autoreferenziale ricerca degli equilibri nell’assegnare determinati incarichi direttivi ai magistrati di una certa corrente. La rinuncia ipocrita dei partiti a intromettersi - Nella magistratura si è insomma concentrato un potere eccessivo non tanto rispetto alla giurisdizione, dove anzi quel potere è irrinunciabile per la democrazia, ma soprattutto nelle scelte sugli incarichi, appunto, lì dove la politica, ancora più debole della magistratura, ha trovato comodo rinunciare ipocritamente a mettere il naso, nella speranza che pm e giudici fossero, a loro volta, indulgenti con i partiti. Una specie di labirinto degli equivoci, in cui ora la Anm si trova un po’ intrappolata. Ma stasera tutti hanno risposto con orgoglio. Non solo un giudice del lavoro appassionato come Basilico, impietoso nello scagliarsi contro “le pubblicazioni ignobili, propalate da cosiddetti giornali”, quelli che nelle ultime ore hanno diffuso le intercettazioni del sequel del caso Palamara. La risposta alle minacce di “sciogliere” la Anm - Non solo è stato orgoglioso Minisci secondo il quale “la giunta andrà avanti con senso di responsabilità”. Non solo il presidente dell’assemblea Coco che ha riconosciuto “il comune richiamo alla difesa dell’Associazione e alla possibilità che la sua giunta, nonostante la caduta politica di sabato, resti operativa”. A difendere per primi il sistema con cui le toghe si autorappresentano sono proprio i suoi massimi vertici, il presidente Luca Poniz e il segretario Giuliano Caputo. Che quasi in coro dicono: “Nessuno scioglimento”. Si riferiscono a quegli esponenti della politica vera secondo i quali l’Associazione magistrati dovrebbe addirittura scomparire. Ecco, questo è troppo, per tutti: per Area, Unicost, per Autonomia e Indipendenza, cioè il gruppo di Piercamillo Davigo, e anche per Mi. Anche perché in questo caso è la politica tout court, in una pretesa così apocalittica, a non essere all’altezza delle proprie sentenze. Quelle chat di Palamara che resuscitano Bonafede… di Rocco Vazzana Il Dubbio, 26 maggio 2020 L’unità nazionale, che neanche l’emergenza coronavirus è riuscita a facilitare, potrebbe arrivare adesso, grazie alle chat di Luca Palamara. Ormai non c’è partito, infatti, in tutto l’arco parlamentare, che non invochi una sola riforma: quella del Csm. L’unità nazionale, che neanche l’emergenza coronavirus è riuscita a facilitare, potrebbe arrivare adesso, grazie alle chat di Luca Palamara. Ormai non c’è partito, infatti, in tutto l’arco parlamentare, che non invochi una sola riforma: quella del Csm. Per farla finita con le degenerazioni del correntismo, ripetono in coro, dopo lo scalpore generato dalle intercettazioni. Grillini e berlusconiani, leghisti e dem, fratelli d’Italia e renziani tutti uniti nella lotta alla magistratura balcanizzata. E in modo inatteso, lo stesso ministro della Giustizia, salvato in corner da due mozioni di sfiducia, torna in auge, annunciando la riforma dell’Autogoverno. Oggi stesso, in via Arenula, il Guardasigilli ospiterà i colleghi della maggioranza per un vertice sulla giustizia. Bonafede - che proprio ieri ha nominato il sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione Raffaele Piccirillo come nuovo capo di Gabinetto (dopo le dimissioni di Fulvio Baldi, finito nel tritacarne delle intercettazioni) - ha fretta di stringere i tempi: la riforma del Consiglio Superiore della Magistratura “non può più attendere”, aveva annunciato due giorni fa il ministro. Al centro del progetto: “Un nuovo sistema elettorale sottratto alle degenerazioni del correntismo; l’individuazione di meccanismi che garantiscano che i criteri con cui si procede nelle nomine siano ispirati soltanto al merito; la netta separazione tra politica e magistratura con il blocco delle cosiddette “porte girevoli”. Si riparte dunque dalla bozza di riforma stralciata nel febbraio scorso in cui si prevedeva un doppio turno con ballottaggio per l’elezione dei componenti togati del Csm, passando da sedici a venti componenti togati e da otto a dieci laici, per un totale di 30 componenti. L’idea iniziale di riforma, fondata sul sorteggio, per il momento sembra scartata. L’unica certezza è la necessità di porre fine al correntismo, annunciata da tutte le forze politiche. “Le intercettazioni in cui si chiedeva un attacco al ministro dell’Interno, anche se aveva ragione da vendere, è un atto eversivo”, dice il meloniano e vicepresidente della Camera Fabio Rampelli. “La giustizia va riformata. I magistrati non possono svolgere attività politica, se lo fanno depongono la toga e non possono rientrare, il Csm va sorteggiato, le correnti vietate”, aggiunge Rampelli, invocando anche la separazione delle carriere. Ancora più perentorio il forzista Maurizio Gasparri: “È scandaloso che la magistratura, per un puro spirito di autodifesa, non abbia aperto fascicoli o assunto iniziative su questa vicenda sconcertante. Si profila con certezza l’attentato ad organi costituzionali dello Stato. Tale è il Csm”, dice. “E nella fattispecie sono anche applicabili le norme che colpiscono le associazioni segrete. Tale è infatti il lavorio condotto da magistrati e giornalisti all’insaputa di tutti”, insiste Gasparri, giocando di sponda col collega di partito Francesco Giro, che definisce “gravissimi” i fatti emersi dalle intercettazioni. Non solo, Giro è convinto che i documenti depositati gettino “finalmente una luce sul golpe bianco contro Silvio Berlusconi e sulla sua ignobile decadenza da senatore”. Per il senatore azzurro, “oggi come allora l’obiettivo è quello di abbattere l’avversario e leader del centrodestra con l’uso politico della giustizia, Berlusconi, Salvini e magari anche Giorgia Meloni”. La politica cerca la propria rivincita su un potere concorrente e chi può si toglie qualche sassolino dalla scarpa. “Già nel 2001 era chiaro l’assoluto e patologico dominio delle correnti nella magistratura, la politicizzazione di una parte dei magistrati che usa l’enorme potere a sua disposizione come una clava politica”, dice adesso l’ex ministro della Giustizia leghista Roberto Castelli. “Noi lo sapevamo e lo denunciavamo e ora è sotto gli occhi di tutti coloro che vogliono vederlo. Ma mi sembra che molti vogliano coprire la verità”, insiste. Ma adesso non è più il 2001, e dopo Andrea Orlando e Walter Verini, anche il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, ha preso ufficialmente posizione. “In tempi rapidi dobbiamo arrivare ad una riforma del Csm”, afferma il governatore del Lazio. “È colpa della politica non averla fatta. Quello che è accaduto è figlio della non riforma”. Per la prima volta nella storia, tutte le forze parlamentari sono convinte della necessità di mettere mano all’Autogoverno, persino la il partito più vicino ai pm, il Movimento 5 Stelle. Il processo di riforma inizia oggi, sempre che alla fine la montagna non partorisca il topolino. L’idea delle toghe: autoriforma per evitare la riforma di Piero Sansonetti Il Riformista, 26 maggio 2020 “Autoriforma”? È come se un imputato chiedesse l’autoprocesso... Gian Carlo Caselli spiega: bisogna far presto, prima che siano gli altri a riformarci. Cascini parla di sistema da cambiare. Ma si può cambiare senza togliere potere ai Pm? Gian Carlo Caselli dice che è “urgente” l’autoriforma della magistratura. Perché? Cito testualmente: “Per evitare o per giocare d’anticipo rispetto a proposte che potrebbero essere non di riforma, ma di vendetta nei confronti della magistratura, da parte di chi non ha troppo gradito la sua attività indipendente”. E come si fa a giocare di anticipo ed evitare che gli “esterni” mettano becco in vicende (cioè il proprio potere) che devono restare di pura competenza della stessa magistratura? Cito ancora testualmente: “Offrendo la massima collaborazione agli organi competenti, a partire dal ministro”. A me pare che in questa dichiarazione, forse appena un po’ ingenua, di uno degli esponenti della magistratura (oggi in pensione) che ne ha rappresentato al meglio la storia degli ultimi 25 anni (e cioè l’ex Procuratore di Palermo e di Torino ed ex esponente del Csm) ci sia la chiave di volta per capire bene, senza pregiudizi, cosa sia esattamente questa crisi devastante scoppiata con il caso Palamara. Caselli in pochissime parole esprime quattro concetti, limpidamente. I primi due sono concetti - diciamo così - tattici. Il terzo è strategico. Il quarto è “di corporazione”. Vediamoli. Primo: giochiamo di anticipo se vogliamo evitare una riforma. L’idea è chiarissima, se la riforma ce la facciamo da soli sarà una riforma che ci è congeniale. Vantaggiosa. Se invece lasciamo che sia il Parlamento a mettere le mani sulla Giustizia, rischiamo di restare fuori, e di dover subire una riforma radicale. Secondo concetto (ancora tattico): per ottenere questo risultato dobbiamo allearci ora (“urgentemente”, dice Caselli) con il ministro. Non c’è bisogno di spiegare il perché. Il ministro Bonafede è espressione politica della magistratura e si trova in una condizione di forte condizionamento da parte del partito dei Pm. E in più gode dell’appoggio dei 5 stelle che, anche loro, sono sostanzialmente l’espressione parlamentare dei Pm. Bisogna sfruttare questo momento, perché se cambia la maggioranza, e cambia il ministro, si rischia. Terzo concetto, strategico. Cosa bisogna salvare? Caselli lo dice: l’indipendenza. Ma quale indipendenza, esattamente? Quella che è emersa dalle tonnellate di intercettazioni realizzare e distribuite dalla Procura di Perugia: l’indipendenza della magistratura da qualunque controllo e da qualunque criterio di selezione al suo interno; e anche dal diritto. Per indipendenza si intende non “indipendenza” nel giudizio (questa è del tutto smentita dalle intercettazioni) ma indipendenza del proprio potere. E questo è il quarto concetto: evitare la riforma nel senso di evitare una riforma che riduca il potere incontrollato dei Pm e delle correnti. Del resto è evidente, scorrendo le varie proposte che vengono soprattutto dal duo Travaglio-Bonafede (scherzosamente, ma non tanto, nei giorni scorsi abbiamo ipotizzato che Travaglio sia il ministro e Bonafede il sottosegretario), che nessuna idea di riforma immaginata dal partito dei Pm (e dunque anche dall’attuale maggioranza di governo) intacca minimamente il potere dei Pm né quello delle correnti. Il partito dei Pm che oggi appare scompaginato dallo scandalo - sebbene sia in buona parte protetto dalla grande stampa - vuole che non siano nemmeno prese in considerazione le proposte di riforma reale della magistratura. Per esempio la separazione delle carriere, per esempio la responsabilità civile, per esempio la fine dell’obbligatorietà dell’azione penale, per esempio la riduzione della possibilità di arresti preventivi, per esempio una ragionevole riforma/riduzione delle intercettazioni che ormai stanno infestando l’Italia e facendola assomigliare sempre di più alla Germania comunista degli anni Settanta o alla stessa Italia di Mussolini. Caselli in pochissime righe ha sintetizzato la strategia del partito dei Pm. Che è uscito, sì, indebolito dallo scandalo ma, paradossalmente, spostato su posizioni più giustizialiste di prima. Il ritorno di un esponente davighiano al vertice dell’Anm, i nuovi patti tra correnti per evitare il ribaltone, l’alleanza di ferro, omertosa, con i grandi giornali che a questo punto sono diventati una specie di succursale del “Fatto”, cioè dell’organo ufficiale del partito dei Pm, tutto questo è un avviso di burrasca, cioè di peggioramento, non di miglioramento, del clima da stato autoritario in mano ai Pm. Il consigliere di Area, Cascini, che è stato appena sfiorato dalle intercettazioni, anche lui ieri ha parlato, per scongiurare la fine dell’Anm e per spiegare, con toni molto diversi da quelli di Caselli, come sia necessaria una riforma profondissima di tutto il sistema. Ha ragione Cascini. Non so però se si rende conto di un fatto ovvio, elementare: la degenerazione del sistema è dovuto - come sempre accade - a due fatti molto semplici: l’aumento sconsiderato dei poteri delle Procure e la chiusura in casta della magistratura. Quando si usa la parola autoriforma, si intende esattamente questo: siamo casta, siamo “bramini”, guai se qualcuno immagina di poterci avvicinare. I non magistrati, “i Dalit”, o i “Paria” restino lontani. E invece, caro Cascini è esattamente il contrario: o i Dalit si ribellano e dicono basta alla casta, e voi accettate di perdere una parte considerevole del vostro potere incontrollato, che è un potere sulle vite umane, o la magistratura sarà sempre più un luogo di corruzione e di sopraffazione, e l’Italia sempre meno un paese democratico. Autoriforma è una parola insensata. Per farlo capire bene a voi: è come se un imputato chiedesse l’autoprocesso. Contro gli ipocriti della giustizia di Ermes Antonucci Il Foglio, 26 maggio 2020 Prima di chiedere ai pm di non sentirsi onnipotenti bisognerebbe chiedersi cosa ha fatto la politica per non far sentire onnipotente la magistratura. Le correnti e i giornali delle procure. Chiacchierata con l’ex vicepresidente del Csm Michele Vietti. La magistratura che litiga. L’Anm che si decompone. Il Csm che implode. Le intercettazioni che sputtanano. I giornalisti che giocano con il letame. E la politica che di fronte a ogni crisi con la magistratura risponde più o meno sempre allo stesso modo che poi di solito è un modo per non affrontare il problema e per comprare tempo: signori, è ora di una riforma. Michele Vietti, avvocato e politico italiano, è stato vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura tra il 2010 e il 2014 e ragionando con il Foglio sui nuovi cortocircuiti presenti in quel mondo che si trova a cavallo tra politica e magistratura invita a fare qualche passo oltre le ipocrisie. La prima questione, dice Vietti, “è che la stessa politica che oggi chiede ai magistrati un maggiore decoro dovrebbe chiedersi per quale ragione un pezzo di magistratura si sente come onnipotente e legittimata a fare qualsiasi cosa. E la risposta a questa domanda è purtroppo semplice: da anni la politica della non responsabilità fa di tutto per offrire alla magistratura più poteri di quelli di cui ha bisogno e per invocare l’intervento della magistratura su ogni aspetto dello scibile umano. Prima di chiedere alla magistratura di non sentirsi onnipotente bisognerebbe chiedersi cosa ha fatto la politica in questi anni per non far sentire onnipotente la magistratura”. La cornice è chiara ma è sufficiente intervenire su questa cornice per riportare la magistratura e il Csm verso i binari della normalità e della responsabilità? “Io capisco che oggi ci si chieda se sia il caso oppure no di sciogliere un Csm che fatica a funzionare. È una decisione che spetta al capo dello stato, ovviamente, ma è una decisione che non rientra nel perimetro delle ipotesi impossibili perché il funzionamento di questo organo viene compromesso non solo quando non funziona più ma anche quando funziona male. E onestamente si fa un po’ di fatica nel dire che il Csm in queste condizioni funzioni bene, così come si fa fatica a riconoscere che la politica sia particolarmente interessata a farlo funzionare meglio: conosciamo i problemi del Csm da anni e almeno da dieci mesi sono su tutti i giornali. E negli ultimi dieci mesi la politica non ha fatto nulla per sanare alcune delle ferite che si sono aperte”. Nel caso specifico funzionare bene significherebbe dare un senso a una storia che un senso forse non ce l’ha e il problema che meriterebbe di essere messo a fuoco è uno e soltanto uno: può esistere un Csm equilibrato se il Csm continuerà a essere ostaggio delle correnti? “Un Csm ostaggio delle correnti è evidente che non può funzionare ma non può funzionare per ragioni assolute e non per ragioni legate a singoli episodi. Lo dico nel modo più semplice possibile. Riportare le correnti al loro ruolo fisiologico - al loro essere luoghi di elaborazione e di confronto di idee anche contrapposte - significa ricordarsi che la camera di compensazione delle correnti è l’Anm e non il Csm. Il Csm non è, come finge di non ricordare qualcuno, l’organo di autogoverno della magistratura, ma è l’organo di governo autonomo all’interno del quale devono convivere anche anime diverse da quelle togate. Oggi ho l’impressione che le correnti abbiano perso il loro ruolo di dialettica ideale e abbiano assunto una logica di potere. E il ragionamento che ne consegue è: farò carriera non se sarò più bravo ma se sarò più garantito dalla mia corrente. E fino a quando non vi sarà un qualche sistema capace di dimostrare che la vita di un magistrato, la sua carriera, il suo futuro, non è legato alla semplice appartenenza alle correnti, i cortocircuiti continueranno a esserci”. Chiediamo all’ex vicepresidente del Csm se esiste un modo diverso dall’abolizione delle correnti per evitare di avere un Csm ostaggio delle correnti e senza entrare troppo nei tecnicismi Vietti dice di sì: “Si può sperare naturalmente che ciascun magistrato si comporti in modo più responsabile senza farsi condizionare dalla sua appartenenza correntizia. Ma la verità è che senza cambiare qualcosa nei meccanismi della magistratura si rischia di non cambiare neppure atteggiamento. E per cambiare qualcosa occorrono tre piccole riforme. Primo: far sì che i magistrati vengano eletti al Csm sulla base di una conoscenza diretta e dunque con collegi più piccoli e non sulla base di indicazioni delle correnti. Secondo: cambiare il criterio con cui vengono decise le progressioni della carriera ed evitare che le valutazioni periodiche delle attività dei magistrati siano l’equivalente del sei politico: ai miei tempi si combatteva affinché, per questioni di decenza, ci fosse almeno un uno per cento di valutazioni critiche, oggi temo che non siano superiori allo zero virgola. E in aggiunta a questo, oltre a rivedere i criteri delle nomine degli uffici direttivi, separare le carriere di coloro che pretendono di stare, all’interno del Csm, sia nel consiglio sia nella sezione disciplinare: senza affrontare questi punti non sarà possibile rimuovere alcune delle incrostazioni presenti all’interno della giustizia italiana. Voglio dire, per fare solo un piccolo esempio ma ne potrei fare tanti altri: era necessario aspettare così tanto tempo e che fossero altri magistrati a intervenire per rendersi conto che in una procura come quella di Trani c’era qualcosa che non andava?”. “Il problema non è rappresentato dalla presenza delle correnti nella magistratura o dall’esistenza dell’Anm, che è una libera associazione di persone, bensì dal peso che le correnti hanno nel Consiglio superiore della magistratura. Di conseguenza, è sul Csm che bisognerebbe intervenire”. A dichiararlo, intervistato dal Foglio, è Luciano Violante, già presidente della Camera ed ex magistrato. Nel fine settimana, la ripresa del “caso Palamara” sulle cosiddette nomine pilotate al Csm ha travolto l’Associazione nazionale magistrati, portando alle dimissioni del presidente Luca Poniz e del segretario Giuliano Caputo e all’uscita delle rispettive correnti (Area e Unicost) dalla giunta del sindacato delle toghe, che così ora rischia di sciogliersi. Il nuovo terremoto nella magistratura segue quello avvenuto soltanto un anno fa, quando ben cinque componenti togati del Csm si dimisero dopo la pubblicazione delle prime conversazioni intercettate dalla procura di Perugia attraverso il trojan inoculato nel telefono del magistrato Luca Palamara. “Più che a una nuova crisi - spiega Violante - siamo di fronte a un prolungamento della vecchia, determinato dal fatto che alcuni settori della magistratura sembrano contrari ad assumere posizioni drastiche su quanto accaduto. Sembra che ci siano nella magistratura componenti che vogliono un cambiamento e componenti che invece non lo vogliono”. Un cambiamento che, secondo Violante, dovrebbe riguardare soprattutto il meccanismo di funzionamento del Consiglio superiore della magistratura: “Bisognerebbe prolungare la durata della permanenza nel Csm da quattro a sei anni, in modo da aumentare la distanza tra eletti ed elettori. A metà consiliatura, poi, si potrebbe sorteggiare la metà dei componenti, sia laici che togati, come avvenne con la Corte costituzionale; i sorteggiati decadono”. I nuovi componenti sarebbero eletti quando i precedenti scadono. “Oggi inoltre - spiega l’ex magistrato - c’è uno scarto di conoscenza tra laici e togati. Il togato quando arriva nel Csm sa tutto, il laico non sa niente e ci mette almeno un anno per capire quali sono le regole e le prassi. Nel frattempo i togati hanno già organizzato tutti i passaggi. Se si allungasse la durata della consiliatura e si introducesse la rotazione dei componenti a metà mandato, i nuovi laici sarebbero ‘guidati’ dai laici che sono rimasti in carica, e ciò consentirebbe una loro conoscenza più rapida delle prassi del Consiglio”. Per Violante andrebbe anche aumentato il numero di componenti del Csm, mantenendo la proporzione esistente tra laici e togati, “in modo tale che le pratiche non finiscano per concentrarsi nelle mani di poche persone”. Si devono prevedere altre misure? “Nelle attuali condizioni politiche non andrei oltre”, ribadisce Violante, anche perché “è impensabile eliminare del tutto il peso delle correnti: anche se le cancellassimo, come fece il fascismo - e si tratta di un precedente non positivo - i gruppi si riformerebbero, perché quando si vota ci si mette insieme per decidere chi sono i candidati”. Per Violante bisognerebbe far cadere anche un altro velo di ipocrisia, che riguarda la rilevanza politica delle toghe all’interno della società italiana: “Il magistrato di oggi non è quello di cinquant’anni fa. Sulla magistratura si è riversato un carico di responsabilità che fuoriesce dagli ordinari binari della stretta applicazione della legge. Questo non è un problema solo italiano. Il giudice governa molta parte delle relazioni sociali, economiche e politiche. L’ordinamento giuridico ha avuto una espansione enorme nella disciplina di settori ai quali nel passato l’accesso del diritto era fortemente limitato”. A ciò, prosegue Violante. “si aggiungono i compiti di carattere politico-rappresentativo che la magistratura ha assunto nel decidere più sulla base di orientamenti di carattere ideale che sulla base della stretta applicazione delle norme. La magistratura è diventata, suo malgrado, una componente del sistema di governo del paese; conseguentemente magistrati meno responsabili sono caduti nelle logiche tipiche della politica meno rispettabile”. Insomma, conclude Violante, “è in relazione a questo modello di magistrato che bisogna pensare a come intervenire per risolvere le disfunzioni emerse negli ultimi mesi, senza credere che sia possibile riportare il magistrato alle dimensioni burocratico-funzionali di cinquant’anni fa”. Verini (Pd): “Basta correntismo, la riforma del Csm rigenererà la magistratura” di Giulia Merlo Il Dubbio, 26 maggio 2020 Il responsabile dem della Giustizia chiede che la riforma venga fatta “presto. E bene”, perché serve una fase nuova, di discontinuità, anche nella gestione del ministero di Via Arenula. “Riforma, presto. E bene”. Questo è il mantra di Walter Verini, deputato e responsabile Giustizia dei dem, che guarda con preoccupazione a ciò che sta avvenendo dentro e fuori dal Csm e ribadisce: “La magistratura va rigenerata, per farle recuperare piena credibilità”. La riforma del Csm non sembra più rinviabile. Da dove si parte? In realtà siamo già partiti, perché la riforma del Csm era contenuta nella legge di riforma del processo penale. Poi si è deciso di scegliere un iter autonomo, perché si tratta di una riforma di carattere ordinamentale, ma la bozza di progetto già esiste e non si parte da zero. E ricordo che come Pd abbiamo depositato a iniziò legislatura una proposta di legge (a prima firma Ceccanti) per la riforma del sistema elettorale dell’organo di autogoverno. Né è una novità di questi giorni l’opinione condivisa della necessità di contribuire, come governo e come Parlamento, a un recupero di credibilità da parte della magistratura. È urgente e necessario che ora inizi il dibattito, sia a livello di maggioranza che a livello parlamentare. Dopo lo scandalo bisogna azzerare tutto per ripartire da capo? Non confondiamo le cause con gli effetti. Le pratiche degenerative cui abbiamo assistito sono gli effetti di una degenerazione correntizia della magistratura, ma non è sempre stato così. Quando nacquero quelle che in origine erano le aree culturali della magistratura, tutti le valutarono positivamente come elemento di pluralismo nella visione del diritto. Il problema è nato quando, con il tempo, queste aree si sono trasformate in correntismo. È evidente, allora, che ora vanno cancellate queste degenerazioni, non il pensiero plurale tra i magistrati. Ma, per farlo, serve una forte volontà dall’interno del corpo della magistratura. Quali sono le linee maestre di questa riforma? Bisogna ripartire dalle parole del Presidente Mattarella, pronunciate un anno fa dopo l’esplosione della vicenda Palamara e la catena di dimissioni che ne seguì. La magistratura deve lavorare per una sua autorigenerazione, con l’obiettivo di ritrovare la terzietà e la credibilità necessarie per essere una componente fondamentale della nostra democrazia. Al Parlamento, invece, spetta il compito di indicare lo strumenti e sbocchi legislativi e costituzionali di questa rigenerazione. Va cambiato il meccanismo elettorale: eliminando il sistema delle liste su base nazionale e divise in correnti, per introdurre collegi che coincidono con i distretti giudiziari. In questo modo si favorisce il voto sulla base della credibilità anche nei propri distretti giudiziari e non sulla base delle correnti. Naturalmente evitando dimensioni localistiche dell’esercizio della giurisdizione. Bisogna poi scardinare il meccanismo per il quale le promozioni e le nomine dei vertici avvengono “a pacchetto” e favoriscono le logiche spartitorie, introducendo invece criteri il più possibile oggettivi, sulla base di merito, produttività e performance del singolo. Infine, è necessario distinguere dentro il Csm il momento disciplinare da quello legato alla decisione degli incarichi. Serve una distinzione e un ritorno al plenum aumentato, in modo che chi sta nella commissione disciplinare non sia anche tra i votanti per decidere le promozioni. Queste tre coese aiuteranno la rigenerazione che potrà restituire alla magistratura piena credibilità. Sul meccanismo delle nomine non è facile incidere… Siamo consapevoli che i giudizi ai singoli magistrati vengono dati dai consigli giudiziari ed è rarissimo vedere giudizi men che positivi. Per questo, credo sia necessario articolare di più le componenti nei consigli, rafforzando la presenza dell’avvocatura come soggetto importante - tra gli altri - per valutare le performance dei magistrati. Oggi il tema della riforma del Csm è tornato dopo le dimissioni dei membri della giunta dell’Anm. Vale anche per loro ciò che diceva in merito alla autorigenerazione? Io credo fortemente nell’indipendenza della magistratura, dunque non mi permetto di dire nulla. Sottolineo solo come esista una differenza tra correnti e correntismo. Al Paese serve una svolta che archivi l’attuale organizzazione correntizia per dar vita a un nuovo inizio dell’associazionismo in magistratura, fondato sulle idee, la cultura giuridica e pluralismo. Sarebbe in qualche modo anche un gesto di generosità democratica, oltre che di necessità. La giustizia, infatti, non è dei magistrati o degli avvocati, ma dei cittadini, che hanno diritto a venire giudicati in modo giusto e rapido. E anche la politica avrebbe il dovere di favorire un clima di rinnovamento, facendola finita con gli “opposti estremismi” del populismo giustizialista e e del garantismo a corrente alternata. Giustizia giusta e rapida, garanzie e diritti: devono stare insieme. Le intercettazioni di Palamara contro l’ex ministro Salvini, però, hanno aperto il vaso di Pandora anche sul rischio di una non equidistanza della magistratura dalla politica... Io penso che il magistrato, in qualsiasi sede, sia tenuto a sobrietà e rigore anche nel linguaggio. È evidente che quelle parole tra due magistrati su Salvini siano state infelici e sbagliate, però attengono a una conversazione privata tra due persone. Per questo, pensare che la magistratura intera abbia un pregiudizio nei confronti del capo della Lega mi sembra un pretesto: non c’è alcun riscontro che permetta di considerare una conversazione privata un orientamento generale della magistratura, né di pensare che ci sia in atto una persecuzione. Del resto, anche in questo caso Salvini si dimostra ultra-garantista con sé stesso e per nulla garantista quando si tratta dei diritti dei soggetti più poveri e fragili della società e gli ultimi del mondo. Quindi, per lo stesso principio, non bisogna nemmeno considerare quello di Palamara un “sistema” diffuso? Non nego che ci siano stati e ci siano singoli magistrati che, per protagonismo, abbiano con le loro inchieste o con le loro parole cercato di condizionare la politica. Tuttavia, penso che il fenomeno non debba venire ascritto a tutta la magistratura. Aggiungo: negli anni ci sono anche stati pezzi della politica che hanno tentato di condizionare l’autonomia della magistratura. Oggi, quel che conta è che la strada maestra torni ad essere il rigoroso rispetto della separazione dei poteri. A tutela dei magistrati, delle istituzioni e della politica. E quindi della comunità nazionale. Eppure, tutto è nato a causa della pubblicazione indebita di intercettazioni, per altro senza alcuna rilevanza penale. Non è anche questo una parte del problema? A luglio entrerà in vigore la riforma delle intercettazioni Orlando, sia pure con qualche correzione. Quel testo è nato proprio per tenere insieme l’esigenza del diritto all’informazione e quello alla privacy e punta a responsabilizzare gli uffici, impedendo la pubblicazione di materiale senza rilievo penale. Le intercettazioni sono uno strumento di indagine essenziale che non va toccato, ma è altrettanto essenziale che le captazioni senza rilievo vengano tenute riservate. La domanda, ora, è se questo governo avrà la forza di approvare le riforme che lei dice... Noi abbiamo riaffermato con forza questa necessità. Csm, Penale, Civile, Ordinamento Penitenziario. Sono le architravi. Bonafede sarà in grado di portare avanti una legge così controversa, dopo che il suo ruolo è stato messo pesantemente in discussione con due mozioni di sfiducia? Il ministro non è uscito indebolito da quel voto. Ad essere indebolito, secondo me, è chi voleva usare il terreno della giustizia per far cadere il governo. Il tentativo è fallito. Eppure ammetterà che la giustizia rimane un campo minato... Per questo deve aprirsi una fase nuova. Bonafede ha capito e toccato con mano di non essere un ministro 5 Stelle, ma il ministro di una coalizione. Ha visto la lealtà del Pd. Ma ora si deve aprire una fase nuova, anche dì discontinuità. L’urgenza di risollevare il Paese dopo la pandemia, comprende anche una rigenerazione della giustizia. E ha sul tavolo quelli che per noi sono i punti cardine. Insieme a un impegno senza sosta per contrastare le mafie e la corruzione. Il Pd, dopo avergli rinnovato la fiducia, rilancia? Sì, e chiediamo che metta il turbo sulle quattro questioni fondamentali: la riforma del Csm; la riforma del processo penale che dovrà far durare il processo cinque anni, in modo da depotenziare anche il problema della prescrizione; la riforma del processo civile e la riforma dell’ordinamento penitenziario, improntato al carcere come extrema ratio e con il potenziamento delle misure alternative. Costituzione di parte civile non sanabile con le “questioni preliminari” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 26 maggio 2020 Corte di cassazione - Sentenza 25 maggio 2020 n. 15768. La costituzione di parte civile avvenuta in dibattimento è tardiva e dunque non ammissibile. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 15768 depositata ieri, segnalata per il “Massimario”. In un procedimento per violenza sessuale ai danni di una persona affetta da ritardo mentale di grado medio lieve, la difesa della vittima aveva presentato all’udienza preliminare una richiesta di costituzione di parte civile sottoscritta solo dall’amministratore di sostegno e dal difensore. Nel corso della successiva udienza, la difesa dell’imputato ha sollevato difetto di costituzione. Il Tribunale dopo aver valutato l’eccezione tempestiva, ritenendo non completati gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti, ha invitato la vittima a dichiarare se intendesse costituirsi. A quel punto, il suo difensore ha depositato l’atto di costituzione regolarmente firmato da tutti i soggetti. E il tribunale ha ammesso la costituzione. In tal modo, ricostruisce la sentenza, la Corte territoriale ha aderito ad un precedente di Cassazione (Sez. 5, n. 28157 del 03/02/2015) sentenza “Lande”, che fa rientrare nella verifica della regolare costituzione delle parti anche la decisione sulle questioni preliminari. Di diverso avviso la III Sezione penale secondo cui la costituzione di parte civile avvenuta in dibattimento deve ritenersi non tempestiva. Una tesi, quest’ultima, anch’essa con dei precedenti di legittimità (n. 10958 del 24/02/2015) per i quali la costituzione deve avvenire, a pena di decadenza, entro il termine stabilito dall’art. 484 c.p.p. e, dunque, fino a che non siano stati compiuti gli adempimenti relativi alla regolare costituzione delle parti e non fino al diverso termine coincidente con l’apertura del dibattimento. In definitiva, al termine di una ricostruzione sistematica delle norme, la Cassazione arriva alla conclusione che “non è possibile che la costituzione di parte civile sia sanata con la proposizione della questione nella fase delle questioni preliminari, come invece avvenuto nel caso in esame”. Appello: se l’imputato rinuncia alla prescrizione nuovo giudizio senza rinvio di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 26 maggio 2020 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 25 maggio 2020 n. 15758. Quando l’imputato, condannato in primo grado e ricorrente per Cassazione contro la sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato - emessa de plano in secondo grado, in violazione del contraddittorio- abbia rinunciato alla prescrizione, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio con trasmissione degli atti al giudice d’appello per la celebrazione del giudizio. La Corte di cassazione, con la sentenza 15758, accoglie il ricorso contro la sentenza con la quale la corte territoriale aveva dichiarato il non doversi procedere nei confronti dell’imputato per estinzione dei reati per i quali era stato condannato in primo grado: sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione, percosse e minacce. Un verdetto emesso in camera di consiglio de plano, senza notificare all’imputato l’avviso di deposito e la copia del provvedimento, non condiviso dalla difesa, che chiedeva di essere rimessa nei termini per impugnarlo, facendo presente che il suo assistito, nella sua procura speciale conferita al difensore per il ricorso, aveva dichiarato di rinunciare alla prescrizione. La Cassazione chiarisce che non serve una remissione in termini, perché il termine per impugnare i provvedimenti emessi in camera di consiglio decorre dalla notificazione dell’avviso di deposito del provvedimento, che, nello specifico era mancata: il termine non era dunque decorso. A questa considerazione i giudici aggiungono che la violazione del contraddittorio, a causa della pronuncia del plano, giustifica, in caso di interesse concreto alla rinnovazione del giudizio di merito, la dichiarazione di nullità e l’annullamento del provvedimento impugnato. Mentre, se manca una rinuncia espressa alla prescrizione, l’imputato non può pretendere di rinnovare il giudizio di merito. Nello specifico però la rinuncia c’era in virtù di un interesse concreto ed attuale a celebrare un nuovo giudizio, per ottenere un proscioglimento nel merito. La sentenza impugnata deve essere dunque annullata senza rinvio, trasmettendo gli atti al giudice di appello per un nuovo giudizio. Fallimento e reati tributari, il sequestro risparmia i terzi di Laura Ambrosi e Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 26 maggio 2020 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 25 maggio 2020 n. 15776. Nei reati tributari il sequestro penale e la successiva confisca prevalgono sul fallimento della società anche se intervenuto prima della misura cautelare. Tuttavia, i beni appartenenti alle persone estranee al reato e quelli acquisiti in buona fede non possono essere sottoposti a nessun vincolo. A fornire questa rigorosa interpretazione è la Corte di cassazione con la sentenza 15776 depositata ieri. Il Gip sequestrava in via diretta somme depositate sui conti di una società dichiarata fallita, il cui amministratore era indagato per il reato di indebita compensazione di crediti inesistenti. Le somme, secondo l’ipotesi accusatoria, rappresentavano il profitto del reato conseguito dalla società, a nulla rilevando il fallimento avvenuto alcuni anni prima. Il curatore impugnava in Cassazione la decisione del tribunale lamentando, tra l’altro, che le somme sequestrate, in realtà, non fossero più nella disponibilità del reo stante l’avvenuto fallimento. Il curatore è l’organo gestore della procedura regolata dalla legge e, quale ausiliario dello Stato, opera sotto la vigilanza del giudice delegato potendo destinare il denaro della procedura a spese autorizzate previste dalla legge ovvero il pagamento dei creditori sotto il controllo giudiziario. Il sequestro disposto successivamente alla dichiarazione di fallimento, secondo la difesa, non poteva colpire il conto della società, posto che era stato sottratto alla disponibilità del reo. Così la confisca, nell’intento di impedire la restituzione al responsabile degli illeciti dei benefici conseguenti all’attività delittuosa, rischiava di avere effetti illegittimi nei confronti dei creditori in buona fede. La misura cautelare, in concreto, aveva colpito non il patrimonio dell’indagato ma quello della procedura fallimentare (soggetto terzo) totalmente diverso dalla società. Nel corso della procedura, inoltre, era stata autorizzata l’assistenza di vari professionisti che avevano maturato crediti prededucibili non ancora liquidati dal giudice delegato: il sequestro aveva così privato anche tali professionisti dei loro legittimi compensi. La Corte di cassazione ha parzialmente accolto il ricorso. I giudici danno innanzitutto atto dell’orientamento di legittimità secondo cui, nei reati tributari, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, non può essere adottato sui beni già assoggettati alla procedura fallimentare, in quanto la dichiarazione di fallimento fa venir meno il potere di disporre, in capo al fallito, del proprio patrimonio. Secondo, invece, un altro orientamento legittimità, cui aveva aderito il tribunale del riesame, il sequestro penale prevale sui diritti di credito vantati dai terzi stante l’obbligatorietà della misura ablatoria alla cui salvaguardia è finalizzato il sequestro. Le finalità del fallimento, pertanto, non assorbono la funzione prioritaria assolta dal sequestro. La sentenza, dopo aver manifestato l’adesione a quest’ultimo è più rigoroso orientamento sulla prevalenza del sequestro penale rispetto alle esigenze del fallimento, ha precisato che devono essere comunque garantiti i diritti dei terzi. Ne consegue che il giudice penale, nel disporre il sequestro, deve valutare, se eventuali diritti vantati da terzi, siano o meno stati acquisiti in buona fede. In caso positivo il bene, la cui titolarità sia vantata da un terzo, non può essere sottoposto a sequestro, né a confisca. Se è vero infatti che il sequestro penale è destinato a prevalere sugli interessi dei creditori alla salvaguardia dell’attivo fallimentare, è tuttavia innegabile che, sul piano pratico, risulti indispensabile circoscrivere compiutamente l’entità di quanto confiscabile, senza arrecare pregiudizio alle concorrenti pretese creditorie. Nel caso specifico la verifica non era stata compiuta dal tribunale del riesame che si era limitato a sostenere la prevalenza assoluta del sequestro penale rispetto al fallimento. Da qui l’accoglimento, almeno sotto questo profilo, del ricorso della curatela. Abruzzo. La Fp-Cgil: “chiarimenti urgenti sull’impiego di militari per le carceri” marsica-web.it, 26 maggio 2020 In merito all’impiego dei militari presso le carceri di L’Aquila e Sulmona, la Fp-Cgil chiede chiarimenti urgenti al Prefetto Cinzia Torraco. “Pregiata Autorità, lo scrivente Coordinamento Regionale, dell’Organizzazione Sindacale in intestazione, annoverata tra le rappresentative del Corpo di Polizia Penitenziaria sul piano nazionale, con la presente missiva al fine di chiederLe giuste chiarificazioni in merito a quanto indicato in oggetto, così come di sotto meglio specificato e discusso. Apprendiamo, a mezzo diverse pubblicazioni di stampa locale e nazionale, che presso gli Istituti Penitenziari de quibus sono stati impiegati, per attività di vigilanza esterna, donne e uomini dell’Esercito Italiano. Pur preservando ragioni di ordine e sicurezza, sicuramente valutate ed approfondite presso Codesto Ufficio, nonché la preziosa professionalità dei militari in argomento, appare indispensabile comprendere la ratio di quanto sopra evidenziato, senza voler entrare in alcun merito ma nel mero spirito di collaborazione istituzionale tra le Parti. Ciò posto, considerate alcune legittime perplessità e preoccupazioni la cui genesi è riconducibile sia alla diffusione mediatica di “rischio disordini e rivolte” che, dal canto di questa Sigla, non può che generare eventuali allarmismi tra le fila della collettività pubblica e penitenziaria, sia dal mancato coinvolgimento della mera Polizia Penitenziaria, a cui è demandata l’espletazione di specifici compiti sulle carceri. Non per ultimo, durante le ultime vicissitudini di marzo scorso, in alcuni Istituti del Paese, poliziotti/e penitenziari/e hanno dimostrato elevata professionalità ed elogiabile spirito di abnegazione: qualità che da secoli contraddistinguono il nostro Corpo di appartenenza, nonostante le diverse difficoltà e precarietà che attanagliano le quotidianità. Esautorando, pertanto, disadorne polemiche e note retoriche, la Fp-Cgil non può che continuare a sostenere lo scrupoloso e certosino lavoro della Polizia Penitenziaria, per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza all’interno ed all’esterno delle carceri italiane, nonché perorare le nostre rivendicazioni: perequare le vacanze organiche del Corpo per gusti adeguamenti. Certo di un Suo prezioso interessamento in ordine alla discussione, si resta in attesa di cortese riscontro. Con sensi di stima”. Taranto. Class-action per il rispetto delle misure igienico sanitarie nel carcere Il Riformista, 26 maggio 2020 L’avvocato Egidio Albanese, presidente della Camera Penale di Taranto, gli avvocati Carlo Raffo, Carmine Urso, Marco Pomes, Gianluca Sebastio, Enzo Luca Fumarola, Gianluca Mongelli componenti del Consiglio Direttivo della Camera Penale di Taranto, l’avvocato Mario Calzolaro, il dott. Danilo Vedruccio e Anna Briganti con il patrocinio dell’associazione Nessuno Tocchi Caino - Spes Contra Spem, hanno promosso una class-action procedimentale per il rispetto delle misure igienico sanitarie nel Carcere di Taranto. La class-action ha come interlocutori il Presidente del Consiglio dei Ministri, il Ministro della Giustizia oltre che il Sindaco di Taranto ed è stata determinata dalla consapevolezza, drammatica, che il sovraffollamento carcerario è l’emergenza permanente nel nostro Paese e che oggi, in tempo di pandemia da Covid-19, lo è ancora di più. Il Carcere di Taranto può accogliere 306 persone detenute, ce ne sono invece 608 secondo le ultime stime aggiornate al 4 marzo 2020 sul sito del Ministero della Giustizia. Tale situazione mette a rischio non solo la salute dei detenuti, ma anche quella degli operatori penitenziari e fa vacillare il principio di uguaglianza dei diritti e di non discriminazione sancito dalle carte internazionali dei diritti dell’uomo e dalla Costituzione della Repubblica Italiana. L’iniziativa consiste fondamentalmente in un tentativo di dialogo per l’affermazione dello Stato di Diritto e di tutela dei diritti umani fondamentali che in carcere sono fortemente a rischio non solo per la situazione pandemica. Sulla base di queste premesse l’intero Consiglio Direttivo della Camera Penale di Taranto con gli avv.ti Egidio Albanese (Presidente), Carlo Raffo, Carmine Urso, Marco Pomes, Gianluca Sebastio, Enzo Luca Fumarola, Gianluca Mongelli e l’avv. Mario Calzolaro, il dott. Danilo Vedruccio e Anna Briganti hanno promosso questa iniziativa popolare nei confronti del Governo sul presupposto della funzione sociale dell’avvocatura, intesa come presidio di legalità e del principio di militanza del sapere giuridico posto al servizio dei cittadini contro possibili torti di massa. Nei giorni scorsi è stato trasmesso un atto di invito al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro della Giustizia affinché il Governo consenta “il rispetto delle ripetute prescrizioni governative in materia di mantenimento, nei contatti sociali, di una distanza interpersonale di almeno un metro, di divieto di assembramento e di affettività delle misure igienico sanitarie a protezione della salute del personale penitenziario e dei detenuti”. Il sindaco di Taranto è stato invitato a “verificare tramite i competenti uffici tecnici, di concerto con il Ministero della Giustizia, la sussistenza nelle mura della Casa Circondariale di Taranto delle condizioni oggettive atte a garantire ai detenuti e al personale penitenziario l’applicazione concreta della normativa sopra richiamata in materia di distanza di sicurezza interpersonale, di divieto di assembramento e di affettività delle misure di prevenzione igienico sanitarie”. Preannunciamo inoltre che “in assenza di adempimento del rispetto delle misure di tutela del diritto alla prevenzione dal contagio da agenti virali trasmissibili all’interno della Casa Circondariale di Taranto potrà ritenersi ipotizzabile la fattispecie giuridica del torto di massa idonea a dar corso a promuovere, anche in sostituzione degli Enti locali predetti, ogni rimedio giuridico a livello nazionale e sovranazionale idoneo ad assicurare il ripristino della legalità repubblicana e conseguentemente ad imporre nella detta Casa Circondariale l’applicazione concreta, senza alcuna discriminazione, delle carte fondamentali del diritto universale, comunitario e nazionale in tema di egualitaria tutela della salute. Trapani. Coronavirus nel carcere: “detenuti messi in quarantena in celle disumane” di Maurizio Zoppi Il Sicilia, 26 maggio 2020 La denuncia dell’Associazione Antigone. In merito alla emergenza coronavirus nella Casa circondariale di Trapani aleggiano delle ombre. Numerosi sono i detenuti che evidenziano, a quanto pare, una crisi del Covid-19 all’interno del carcere, ma al momento nessuno dato certo. Ciò che è sicuro e che ci sono dei detenuti messi in quarantena preventiva a causa del coronavirus, i quali vengono inseriti in delle celle “disumane”. La cosiddetta Zona Blu, in cui per lo più trovano accesso i detenuti portati in isolamento. Proprio a dicembre 2019 l’associazione Antigone ha visitato la casa circondariale è il presidente Pino Apprendi aveva affermato ai giornalisti: “Ci sono reparti totalmente ristrutturati, dove il detenuto conduce una vita in ambienti salubri e nel rispetto anche della privacy con docce e servizi nelle celle. Al contempo ci sono reparti? degradati, con docce esterne alle celle, in particolare nella struttura più vecchia dove le celle si affacciano su dei corridoi grandi? e su uno spazio centrale dove regna un vociare continuo - attaccava il presidente di Antigone. Un capitolo a parte? va dedicato all’isolamento? punitivo, dove le celle sono assolutamente invivibili dal punto di vista igienico sanitario, pareti sporche e il gabinetto alla turca è? collocato nello stesso spazio senza pareti, dove vive, si fa per dire, il detenuto. Su questo punto chiederemo una ispezione? all’Asp di Trapani”. Ed è proprio dell’isolamento punitivo che ne scrive l’avvocato Carlo Emma difensore di fiducia di un detenuto che ad oggi è in stato di custodia cautelare dal 24 maggio 2019 presso il carcere Pietro Cerulli. Le parole dell’avvocato - “Il 6 maggio 2021 il mio assistito ha dovuto temporaneamente allontanarsi dall’istituto carcerario per essere sottoposto a risonanza magnetica funzionale cranio-encefalica. Il carcerato è stato accompagnato da personale di Polizia Penitenziaria nel rigoroso rispetto dei protocolli di prevenzione attiva e passiva del contagio da Covid-19 ma riaccompagnato in carcere è stato sottoposto al regime di quarantena fiduciaria mediante reclusione nella “sezione blu”. Il mio assistito ha dichiarato di essersi ritrovato senza alcun apparente motivo recluso in una piccolissima cella munita di un limitatissimo spazio calpestabile, priva di luce elettrica, scarsamente illuminata. Ha dichiarato altresì di trovarsi in evidente stress da mancanza di riposo psico-fisico, giacché il sonno notturno suo e dei suoi compagni di Sezione è sovente interrotto dalle grida e dai lamenti provenienti dagli occupanti delle celle vicine. inoltre ha assistito ad atti di autolesionismo praticati da altri detenuti occupanti quelle celle (testate alla parete). Nella sezione Blu nelle aberranti condizioni dianzi descritte, restano ancora, per le serre ragioni, numerosi detenuti, sistemati addirittura in letti a castello e dunque costretti per due settimane, ad alternarsi tra loro per stare in piedi, stante il pochissimo spazio utile a disposizione”. Pino Apprendi: “A quanto pare non è cambiato nulla” - “Avevamo avuto assicurazioni da parte della direttrice del carcere Teresa Monachino che la presenza nella zona blu era solo un caso occasionale. Dopo la nostra denuncia nulla è stato fatto per evitare quegli spazi angusti. Faremo richiesta al garante Regionale e all’Asp di intervenire velocemente per capire lo stato di salute della struttura e dei carcerati”. Milano. “Noi, al lavoro senza protocollo”. I sindacati diffidano l’Uepe Il Giorno, 26 maggio 2020 Si occupano dei detenuti che scontano la pena fuori dal carcere, monitorando affidamenti in prova, semilibertà o domiciliari. Chiedono di lavorare in condizioni di sicurezza al rientro negli uffici dopo il lockdown. Lo scontro tra i sindacati e la direzione dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna (Uepe) si è concretizzato in una dura lettera inviata da Fp-Cgil, Cisl Fp e Uil-Pa Milano alla Prefettura di Milano, nella quale diffidano “alla ripresa delle attività in assenza della sottoscrizione del protocollo sulla sicurezza”. Mettono nero su bianco una richiesta di “intervento del prefetto e della commissione territoriale per la verifica del protocollo sulla sicurezza istituita presso la prefettura, affinché gli stessi verifichino la corretta posizione dell’Uepe”. Un passo formale preceduto da incontri sulla ripresa delle attività “in presenza” che, per i sindacati, si sono conclusi con una fumata nera. San Vito al Tagliamento (Pn). Nuovo carcere, i lavori ripartiranno in autunno Il Gazzettino, 26 maggio 2020 Ieri il sopralluogo in cantiere dopo il colpo di scena del cambio d’impresa. “Se non ci saranno intoppi, in autunno potrà ripartire il cantiere del carcere”. L’annuncio dell’accelerazione dell’iter del nuovo istituto penitenziario del Friuli Occidentale arriva dal responsabile della pratica del Provveditorato triveneto alle opere pubbliche, Francesco Sorrentino. Lo ha comunicato ieri, durante il sopralluogo all’ex caserma Dall’Armi. L’occasione era quella di valutare la consistenza dei lavori del cantiere della struttura da 300 posti nell’ex sito militare di via Divisione Garibaldi. Ieri si è dunque accertato la situazione con l’azienda che aveva originariamente vinto l’appalto, ovvero l’Associazione temporanea d’imprese Kostruttiva-Riccesi. Un passaggio conseguente la sentenza della Corte di Cassazione del 20 gennaio 2020, che ha definitivamente chiarito che è la Pizzarotti di Parma a dover subentrare al contratto per la costruzione che sorgerà al posto dell’ex caserma. Con il verbale di consistenza lavori, nel concreto si è verificato quanto finora realizzato dall’Ati, per quantificare il dovuto. Nel contempo, il Provveditorato può rientrare in possesso del bene demaniale. Un passaggio necessario prima della futura stipula del contratto con la subentrante Pizzarotti, un colosso con un portafoglio ordini da 13 miliardi di euro, arrivata inizialmente seconda nella gara. Cosa succederà ora? Sorrentino ieri lo ha spiegato: “Si stanno facendo verifiche dal punto di vista giuridico con l’Avvocatura di Stato sulla modalità di subentro di Pizzarotti perché le condizioni economiche sono completamente differenti. Avevano offerto in gara d’appalto un ribasso dell’1 per cento, mentre l’Ati Kostruttiva-Riccesi aveva presentato un ribasso di circa il 25%. Si parla di un delta economico, compreso di Iva e altro, di circa 8 milioni di euro”. Pertanto, nel caso in cui l’Avvocatura di Stato confermasse l’applicazione del ribasso della gara d’appalto, si dovrà richiedere un’ulteriore tranche di fondi a integrazione, poiché l’importo complessivo dei lavori del nuovo istituto penitenziario passerebbe da 22 a 30 milioni di euro. Il passaggio di verifica dei fondi dovrebbe richiedere tempi stretti, non oltre un paio di mesi. Durante il sopralluogo di ieri nell’area a lato della strada regionale 463, alle porte della cittadina, è stata usata più volte la parola accelerare parlando dell’iter realizzativo. L’ha usata il sindaco Antonio Di Bisceglie e l’ha ribadita soprattutto il responsabile della pratica, Francesco Sorrentino, confermando che “la volontà è quella di accelerare in questa fase i vari adempimenti per arrivare al più presto alla stipula del contratto con la Pizzarotti. Se non ci saranno intoppi, facendo tutti gli scongiuri, si prevede la consegna dei lavori per l’autunno. Il che ci porta a ipotizzare che la fine dei lavori dell’istituto penitenziario possa avvenire tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023”. Bollate (Mi). Postazioni Skype nel carcere, sostegno prezioso in piena emergenza di Raul Leoni gnewsonline.it, 26 maggio 2020 Gestire l’emergenza con il contributo di tutti, istituzioni e realtà sociali: una sinergia a sostegno delle attività all’interno delle strutture penitenziarie che si è rivelata fondamentale nelle fasi più difficili della diffusione della pandemia sul territorio nazionale. I primi giorni di marzo, quelli del periodo più complicato dell’emergenza Coronavirus, avevano messo gli istituti di fronte alla necessità di rivedere le modalità dei colloqui, da garantire ai detenuti nel rispetto delle prescrizioni sanitarie dettate da un momento straordinario, con l’obiettivo di evitare la diffusione del contagio. Anche nel carcere di Bollate la soluzione adottata, quella dei video-colloqui, ha richiesto impegno e spirito di adattamento da parte della direzione e del personale di Polizia Penitenziaria: ma nella gestione dei colloqui a distanza l’istituto milanese ha goduto di un ulteriore supporto grazie alla cooperativa sociale “Bee.4 Altre menti”. Con il contributo della fondazione “Peppino Vismara”, nell’ambito del progetto “Lavorare ne vale la pena”, l’associazione ha reso possibile il potenziamento delle postazioni riservate ai detenuti per i colloqui via Skype con i familiari. In appena 24 ore il numero di dispositivi è stato portato a sei, per poi arrivare in pochi giorni a otto. La collaborazione con la direzione della struttura detentiva ha permesso di portare a termine un lavoro che si è rivelato prezioso nella gestione dei momenti di socialità dei detenuti, seppur a distanza. Un circolo virtuoso per mettersi alle spalle l’emergenza e ripartire. Palermo. Al via i colloqui in carcere, gli avvocati: “lasciati per strada sotto il sole per ore” Giornale di Sicilia, 26 maggio 2020 Da oggi al via i colloqui al carcere Pagliarelli di Palermo, dopo la sosta per il lockdown, ma scoppia subito la protesta da parte degli avvocati in attesa di parlare con i propri detenuti assistiti. La direttrice del carcere, nei giorni scorsi, ha stabilito alcune regole per entrare all’interno dell’istituto penitenziario, quali indossare guanti, mascherine e visiere. Inoltre, vista la difficoltà di reperire il materiale per creare barriere divisorie, è stata concessa la possibilità di far entrare soltanto due avvocati per volta per effettuare i colloqui con ogni singolo detenuto assistito. Gli avvocati, come si legge nella nota della direzione del Pagliarelli, hanno l’obbligo, inoltre, di prenotare i colloqui tramite email indicando l’orario ma oggi i tempi non sono stati assolutamente rispettati. I legali, stamattina, sono arrivati puntualmente davanti al carcere ma sono stati lasciati per strada, fuori dalla struttura, in attesa di essere chiamati. Tra i presenti anche professionisti di una certa età che hanno dovuto attendere il proprio turno sotto il sole. “La nota della direttrice non prevede che gli avvocati debbano stare fuori dal carcere sotto il sole in attesa di essere chiamati - dichiara l’avvocato Marco Traina. Peraltro i primi colleghi usciti dal colloquio con i propri assistiti hanno parlato soltanto dieci minuti per non togliere tempo agli altri colleghi che aspettano fuori. Ma anche con questa accortezza tra noi avvocati, i tempi sono biblici”. Bologna. Le carcerazioni preventive degli anarchici: oggi il riesame di Frank Cimini Il Riformista, 26 maggio 2020 L’accusa è di associazione sovversiva finalizzata ad atti di terrorismo. Ma l’unico atto è quello di aver protestato contro il sovraffollamento negli istituti di pena. Va ricordato che erano stati gli stessi inquirenti nella conferenza stampa relativa all’operazione a sostenere che gli arresti facevano parte di una strategia di tipo preventivo al fine di evitare episodi di violenza nelle manifestazioni di piazza causate dalla crisi economica legata alla vicenda del coronavirus. Insomma il problema appare essenzialmente politico dal momento che secondo la difesa sarebbero labili gli indizi anche in relazione all’episodio del danneggiamento di due antenne a dicembre del 2018. Non ci sarebbero collegamenti dimostrati tra la frase vergata sul muro ritenuta una sorta di rivendicazione e il fatto che pochi giorni dopo alcuni degli indagati venivano colti a realizzare la scritta “no alla sorveglianza”. Le informative utilizzate per emettere l’ordinanza di arresto fanno più volte riferimento a manifestazioni in solidarietà con i detenuti e con gli immigrati trattenuti nei Cpr, con scoppi di petardi utilizzati per far sentire la presenza delle proteste all’interno delle strutture. L’avvocato Ettore Grenci cita la sentenza della Cassazione cui si ricorda che la semplice idea eversiva non accompagnata da propositi attuali e concreti di violenza non vale a realizzare il reato “ricevendo tutela proprio dall’assetto costituzionale dello Stato che essa mira a travolgere”. La posizione della procura di Bologna fatta propria dal gip in riferimento agli arresti tende a prospettare il terrorismo come una sorta di reato di pericolo. Non è la prima volta che accade. Ci aveva già provato la procura di Torino con la storia del compressore bruciacchiato in occasione di un assalto al cantiere di Chiomonte dell’alta velocità. La vicenda aveva portato a detenzioni in regime di alta sorveglianza e a durissime polemiche. Alla fine però il cosiddetto teorema Caselli veniva bocciato per ben tre volte dalla Cassazione nonostante il tentativo della procura di trasformare quel marchingegno danneggiato dalle bottiglie molotov in una sorta di caso Moro del terzo millennio. Napoli. “Io, ex ragazza di Nisida disoccupata per il virus” di Daniela De Crescenzo Il Mattino, 26 maggio 2020 La storia di Valentina: rivoglio il lavoro, altrimenti rischio di tornare nel tunnel. “In carcere ho imparato a scrivere e recitare: datemi un’altra opportunità”. “Il virus ha messo in pericolo anche la vita di tanti ragazzi che, usciti dal carcere, stavano cercando di ricostruirsi un’esistenza. Sono stata a Nisida fino a gennaio, poi ho cominciato a lavorare con un contratto regolare, e quindi ho dovuto affrontare meno problemi, ma quelli “a nero” non hanno più nulla e rischiano di ricadere negli errori del passato”. Valentina C. è una delle ragazze che, uscite dal penitenziario minorile, ha raccontato la sua storia nel volume “Dietro l’angolo, c’è ancora la strada” (Guida editore) che sarà presentato giovedì on line, e raccoglie storie scritte dai ragazzi con sette autori, alcuni racconti di Maria Franco - curatrice della raccolta e per trentacinque anni docente di Nisida - e testimonianze dirette di chi ha scelto di cambiare strada. Valentina è una di loro. Dopo sette anni sei tornata libera, poi con il lockdown tutto è cambiato. “Ho smesso di lavorare all’improvviso. Appena è arrivato lo stop ho cominciato a vivere con la speranza che tutto finisse presto”. Pensi che adesso ricominciare sarà difficile? “Non credo: la voglia di tornare a lavorare è tanta. Sarà sicuramente un po’ più complicato mantenere condizioni di sicurezza e vincere e la paura di questo virus. Ma se non c’è un inizio non ci può essere nemmeno una fine, quindi, ovviamente con tutte le precauzioni, prima ci rialziamo, prima ricominciamo: i soldi della cassa integrazione non sono mai arrivati, a me e a tanti amici miei. Ci sono padri di famiglia che devono far mangiare i propri figli onestamente. Se lo Stato non li aiuta aumenta il pericolo della criminalità soprattutto tra i giovani, e quelli che vivono situazioni già a rischio”. Nel tuo racconto autobiografico parli molto di Nisida. Come ci hai vissuto? “Per me il carcere è stato un luogo di rinascita: ognuno di noi lì dentro deve aprire gli occhi e guardarsi dentro. Fortunatamente ci sono persone che ti danno la possibilità di farlo. E soprattutto hai il tempo. Poi ci sono quelle mura bianche che quasi ti costringono a pensare. È doloroso fare un percorso interiore, ti lacera dentro. Ma se impariamo a volerci bene riusciamo a vedere i nostri errori con la voglia di diventare persone pulite”. Cosa ti ha aiutato? “A Nisida ho scoperto la scrittura: è stata una liberazione. Scrivendo acquisisci consapevolezza di te stessa. Poi decidi se vuoi vagare in altri mondi, in altre storie. Un meraviglioso viaggio interiore, come succede anche con la lettura”. In carcere si praticavano molte attività? “Certo. Ho amato molto il teatro che mi ha aiutato a mostrarmi in piena naturalezza. Ho sempre voluto recitare, ma non avevo mai avuto la possibilità di farlo, invece a Nisida sì: sul palco mi sento davvero me stessa. Anche il canto è stato importante, come la ceramica grazie alla quale ho trovato il mio primo lavoro. È stato importante partecipare agli incontri dedicati alla mediazione con il cappellano: è stato lì che ho capito il male che avevo fatto e sono arrivata al pentimento. Parlare dei propri errori, confrontarsi con gli altri: tutto questo ti fa riflettere e metabolizzare il passato”. Tu hai raccontato la tua vita in più libri di Nisida e parli del carcere come un’opportunità. Molti lo fanno? “Non credo. Ci sono ragazzi che provengono da famiglie legate alla criminalità: per loro è più difficile cambiare rispetto a quelli che, come me, non hanno vissuto sempre nella malavita. In carcere ho conosciuto un ragazzo che veniva da una famiglia di spacciatori. Sognava una vita diversa, aveva tutte le intenzioni e le qualità per uscire dal tunnel. Ma una volta tornato a casa è stato risucchiato di nuovo dal buio: è stato impossibile salvarsi. Mi auguro di riuscirci. Ce la sto mettendo tutta. E spero ce la facciano anche gli altri che hanno sbagliato come me, tutti meritiamo una seconda possibilità”. Di Nisida ti manca qualcosa? “Mi mancano le ragazze e tutte le persone che mi sono state vicine, mi manca il mare che vedevo dalla finestra. Se vivi il carcere come un’opportunità paradossalmente è là che torni libera”. Como. Covid al Bassone: nessun caso tra i detenuti, positivi due impiegati amministrativi primacomo.it La relazione sulla situazione è stata letta in consiglio comunale dal sindaco Mario Landriscina. Il sindaco Mario Landriscina ha letto durante la seduta di consiglio comunale di questa sera, 25 maggio 2020, una comunicazione sulla situazione all’interno della Casa Circondariale di Como relativa al Covid 19. A farne richiesta erano stati i consiglieri del Partito Democratico. La nota spiega che: “In questa casa circondariale allo stato non si sono registrati casi di positività al virus nella popolazione detenuta. Si rassicura poi che tutto il personale, a partire dall’inizio della diffusione dell’infezione viene dotato di Dpi e sottoposti a controlli a cura della Asst Lariana presso la tensostruttura all’esterno del penitenziario. Al momento, a seguito dei controlli con tampone effettuati nella prima metà di aprile su tutti gli operatori penitenziari sono stati riscontrati due casi di positività a Covid 19 riguardante personale amministrativo impiegato in uffici esterni al settore detentivo. Per nessuno dei due si è reso necessario il ricovero ospedaliero e uno di questi ha finito il periodo di quarantena obbligatoria essendo risultato negativo a due tamponi”. Pavia. La vita dopo il carcere: “Una rete di sostegno è fondamentale per tutti” di Alice Giuriato e Aurora Zanellato* La Provincia Pavese, 26 maggio 2020 Intervista a don Dario Crotti, cappellano di Torre del Gallo a Pavia: “Non possiamo mai dimenticare le persone innocenti vittime di reato”. Lavoro difficile da trovare, pregiudizi da affrontare, relazioni affettive nuove: sono queste le difficoltà che chi è stato in carcere deve affrontare una volta uscito. “Ciascuno - spiega invece don Dario Crotti, cappellano del carcere di Pavia, punto di riferimento dei carcerati e delle rispettive famiglie - è più grande degli errori e dei reati che potrebbe avere commesso. Ma è fondamentale imbastire ogni discorso a partire dal dolore subito dalle vittime dei reati: mai dobbiamo dimenticarci delle persone innocenti che sono state in vario modo vittime di un reato. E anche la comunità civile, sociale, è sempre portatrice di una ferita che il reato le infligge”. Don Crotti, quali sono i rapporti tra detenuti e agenti di polizia penitenziaria? “Relazioni positive e fondate, nella maggior parte dei casi, sul rispetto. I rapporti sono migliorati con gli anni e variano a seconda della persona. Dopo la scarcerazione, molti ex-detenuti tendono a mostrare riconoscenza verso chi li ha aiutati e anche per gli agenti, il cui lavoro è molto difficile e spazia per una multiforme tipologia di interventi, spesso anche di cura, ascolto, mediazione e rassicurazione”. Quanto influiscono le amicizie nel percorso? “In carcere, come fuori, si dividono in positive o negative. Ci sono quelle solidali e durature che aiutano a vivere la pena in un’ottica educativa e riabilitativa; al contrario le amicizie negative possono portare a una socializzazione maggiore nel mondo del crimine. Dipende anche dal background culturale: ciascuno ha la libertà di scegliere quali relazioni portare avanti, anche se all’interno del carcere pressioni e condizionamenti possono essere amplificate al punto che uno non sia così libero di esprimere sé stesso pienamente”. Come reagiscono le famiglie alla carcerazione? “Ci sono sfumature differenti a seconda del tipo di reato e famiglia. L’effetto negativo è sempre presente, soprattutto nelle relazioni di coppia e quando sono coinvolti minorenni. Il trauma è maggiore quando accade per la prima volta in un nucleo familiare. Negli ultimi anni sono stati portati avanti progetti di genitorialità per agevolare il rapporto tra genitori e figli e permettere ai papà di esprimere gesti di cura o di accudimento. Una famiglia che sostiene il detenuto diventa una motivazione per riuscire a scontare la pena e agisce sul cambiamento. Senza, è più probabile che si ricada nel reato”. Cosa incide sul cambiamento del detenuto? “Prima di tutto le risorse della persona. Ma per evitare la ricaduta nel reato è necessaria una rete esterna al carcere: familiare, lavorativa, mediazione attraverso cooperative e comunità terapeutiche per permettere agli ex detenuti di mettersi in discussione e riparare ai propri errori, di non essere “gettati” fuori dal carcere senza accompagnamento”. Come evitare la discriminazione degli ex detenuti? “C’è la mediazione importante dell’Ufficio locale per l’esecuzione penale esterna che accompagna il detenuto nel reinserimento, cercando attività di volontariato e di pubblica utilità, un impegno che sia riparativo del reato e aiuti il reinserimento. È la logica dei piccoli passi, di una visione che sa andare oltre a fallimenti e insuccessi, la sola alternativa per una società che diventi sempre più comunità, dove ciascuno, vittima e autore del reato, possa tornare a vivere con fiducia e responsabilità”. *Classe 3ª Asu, Liceo a. Cairoli La mafia, una piaga che si può guarire di Dacia Maraini Corriere della Sera, 26 maggio 2020 La mafia è cominciata a metà dell’800 con i gabellotti che, per insipienza e pigrizia dei grandi proprietari terrieri, mantenevano per conto loro l’ordine fra i contadini. Passa poi nelle città e prende a controllare i mercati del pesce e della carne. Diventa potente perché sa ricattare, corrompere e uccidere. Falcone ha detto che la mafia come è cominciata, finirà. Credo che sia importante ripeterlo, perché molti, osservando le capacità di adattamento di Cosa nostra, danno per scontato che non finirà mai. Intanto bisogna ricordare che mafia e criminalità cittadina sono due cose diverse. La criminalità è endemica e la si trova ovunque. La sua forza sta in una brutalità anarcoide e priva di sistema. La mafia invece è un potere parallelo che si basa sul consenso dal basso, ragiona in forma strategica, ha ambizioni governative, anche se si tratta di un governo ombra, si avvale di un piccolo ma agguerrito esercito, dispone di tanti soldi e usufruisce di una rete diplomatica e politica internazionale. Un vero e proprio Stato nello Stato, che conta sulla complicità di parti importanti delle Istituzioni. Questa è la sua unicità e la sua forza. La mafia è cominciata a metà dell’800 con i gabellotti che, per insipienza e pigrizia dei grandi proprietari terrieri, mantenevano per conto loro l’ordine fra i contadini. Passa poi nelle città e prende a controllare i mercati del pesce e della carne. Diventa potente perché sa ricattare, corrompere e uccidere. Ma sa anche trattare con le amministrazioni locali trattando complicità dal basso con chi sente lo Stato assente. Il primo grande cambiamento avviene negli anni Settanta del 900 con il passaggio alla droga. I soldi sono tantissimi, cominciano le rivalità fra le mafie dell’isola. L’enorme quantità di denaro inoltre cambia i rapporti: butta per aria il regime verticale basato sul rispetto verso gli anziani, l’esclusione delle donne, un rapporto di interscambio col territorio. Non a caso, in coincidenza con la metamorfosi, nascono i pentiti. Leonardo Vitale è stato il primo a parlare, facendo i nomi di Riina e Ciancimino. Non fu creduto e fu chiuso in manicomio dove restò dieci anni. Appena uscito, fu ucciso, segno che le sue parole erano veritiere. Più furbo e intelligente è stato Buscetta che, dopo l’uccisione di tanti parenti, decise di collaborare. L’organizzazione mafiosa in quel periodo ampliava a dismisura il suo potere. Riuscì a fare sindaco di Palermo un suo affiliato, Ciancimino, che in pochi anni ha contribuito a distruggere gran parte delle bellezze architettoniche favorendo costruttori senza scrupoli. Falcone che capì anche come intervenire, fu isolato e ucciso. Il resto lo sanno tutti. Se ricordiamo come è nata questa orribile piaga, sapremo pure che possiamo guarirla. Migranti. Open Arms, Salvini si sente isolato: “L’Aula mi manderà in tribunale” di Marco Cremonesi Corriere della Sera, 26 maggio 2020 Il leader della Lega è anche molto preoccupato per le difficoltà della Regione Lombardia nella gestione dell’emergenza coronavirus. “Ma come è possibile processarmi per una vicenda in cui il presidente del Consiglio era perfettamente al corrente di tutto? In cui è chiaro che lui avrebbe potuto intervenire in qualsiasi momento?”. Matteo Salvini ostenta indifferenza all’esito del voto. Questa mattina la Giunta per le Immunità dovrà votare sul mandarlo a giudizio per i fatti della nave Open arms: “Comunque finisca, poi l’aula mi manderà a processo…” dice il capo leghista a chi gli dice che la giunta potrebbe dire no al giudizio con alcuni voti stellati in libera uscita. Salvini scuote la testa: “Solo me, vogliono processare. Intendiamoci, io le responsabilità me le assumo tutte e anche di più: una ong spagnola, nonostante un porto sicuro in Spagna, ha portato i migranti in Italia. Io ho difeso la sovranità, la sicurezza, l’onore e la dignità italiane. E rifarei tutto quanto”. L’ex ministro dell’Interno non accetta il ragionamento di chi gli dice che il premier Conte era forse frenato dall’essere al governo con la Lega: “Macché, era agosto e il governo già boccheggiava”. Salvini questa mattina non si presenterà in giunta, ma l’atteggiamento non è quello della sfida. Probabile, però, che stia facendo riflessioni amare sulla giustizia. Per questo chiede “giustizia vera” sull’episodio dei due cuginetti di Ragusa falciati da un pirata della strada, che secondo il leader leghista “nonostante il curriculum di alcol, droga e aggressioni tra pochi anni rischia di essere già fuori di galera”. La vicenda è riemersa perché la sentenza è attesa per oggi. Ed ha colpito molto Salvini che ne ha parlato con diverse persone. Insomma: possibile che il segretario della Lega in cuor suo faccia il paragone tra un investitore di bambini che (forse) se la caverà con poco e sé stesso che verrà processato per un reato secondo lui inesistente. Da una magistratura in cui ci sono procuratori, vedasi il caso Palamara, che hanno teorizzato “il darmi in testa senza che nessuno si sia sentito in dovere di dire una parola o alzare il ditino, di solito con me sempre pronto”. Insomma, Salvini si sente in qualche modo isolato. Anche nel centrodestra. Oggi si svolgerà a Roma un consiglio federale in cui, oltre a rinnovare i commissari regionali e nominare i capi dipartimento del partito, la Lega metterà a punto la manifestazione fissata per il 2 giugno. Ma con gli alleati, anche su questo, le difficoltà non sono mancate, soprattutto con i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Il senso di isolamento riguarda anche le polemiche sulla gestione del Coronavirus da parte della Regione Lombardia a trazione leghista. Ieri il capo leghista si è chiuso in summit con consiglieri e assessori regionali. L’intenzione, è quella di stare sul pezzo personalmente: ai leghisti Savini ha annunciato che sarà in Regione anche la settimana prossima. Di rimpasti non si parla, non è il momento: “Anche se dopo due anni e mezzo sarebbe fisiologico e senza il virus magari ci sarebbe già stato” osserva un assessore. Malesseri sono emersi sull’opportunità di lanciare una “cabina di regia” per preparare il terreno alle fasi della ripresa post epidemia. Per il momento, l’idea non è ancora matura. Ma Salvini, il punto è questo, non ha alcuna intenzione di mollare la presa sulla “sua” Regione. Infine c’è la questione delle elezioni regionali amministrative. La data a cui sta pensando la maggioranza, il 13 settembre, viene letta dai leghisti come un deliberato sabotaggio per la campagna elettorale. Sbuffa un salviniano: “Ma l’anno scorso non ci hanno spiegato l’impossibilità di campagne elettorali in agosto? Accampano motivi sanitari, ma le carte non ce le fanno vedere”. Oxfam: “Servono 300 miliardi di dollari per i sistemi sanitari del Sud del mondo” di Marinella Salvi Il Manifesto, 26 maggio 2020 Nuovo rapporto Oxfam sul Sud globale al tempo della pandemia: “Nessuno si salva da solo: indispensabile sostenere i paesi poveri per la ripresa nei prossimi 12-18 mesi”. L’inusuale emergenza in Occidente, dovuta alla diffusione del virus Sars-CoV-2 e alle misure per arginarlo, ha oscurato l’attuale condizione umanitaria ed economica nei paesi a basso reddito - i quali non potrebbero proteggere davvero le rispettive popolazioni qualora forme gravi della patologia dilagassero. Oxfam sceglie l’Africa Day per lanciare un nuovo rapporto internazionale, Tutto l’aiuto necessario, che fotografa la realtà del Sud globale al tempo della pandemia Covid-19, lanciando a governi e istituzioni un appello affinché, nei prossimi 12-18 mesi, “quelle economie e i sistemi sanitari più fragili siano messi in condizione di affrontare l’emergenza, con lo stanziamento di 300 miliardi di dollari in aiuti, destinati anzitutto alla prevenzione, ai sistemi sanitari, alla tutela sociale e alla sicurezza alimentare”. Si chiede troppo, rispetto ai 153 miliardi di dollari del 2019? È pur sempre “meno di quanto possiedono insieme i tre uomini più ricchi del mondo” ed è “pari al 6% circa degli impegni presi dai paesi ad alto reddito per la ripresa interna”. Se proprio vogliamo dimenticare le spese per armamenti (o, nel loro piccolo, le frecce tricolori applaudite da assembramenti veri, per celebrare la fase 2). La cancellazione del debito estero è un’altra richiesta di Oxfam: il recente annuncio del Fondo Monetario Internazionale (di voler cancellare il debito di 25 paesi in considerazione della crisi) è “un primo passo avanti ma troppo esiguo e sostiene un numero limitato di nazioni”. Precisa l’organizzazione: “In 46 paesi poveri l’esborso per il pagamento del debito estero è in media il quadruplo della spesa sanitaria - di 70 volte inferiore di quella nei paesi ricchi”. I paesi ricchi non hanno mai onorato l’impegno a versare lo 0,7% del prodotto nazionale lordo alla cooperazione internazionale (una parziale restituzione del maltolto coloniale e post-coloniale). E adesso di fronte a nuove necessità, c’è chi - come la Francia -, ha iniziato a riallocare verso la risposta al Covid-19 le somme prima destinate ad altre malattie mortali o alla malnutrizione infantile. Le disuguaglianze fra nazioni e gruppi sociali sono esacerbate dal coronavirus. Mezzo miliardo di persone potrebbero essere spinte verso la miseria. E, se contagiata, solo meno della metà della popolazione mondiale potrebbe accedere alle cure di base; gli 880 milioni che vivono in baraccopoli non potrebbero mantenere fisicamente norme di distanziamento. E in tante realtà, per lo più nell’Africa sub-sahariana, dove si trovano molti dei paesi più poveri, dilaniati da conflitti e da spostamenti di popolazioni, per troppe famiglie è un problema anche avere abbastanza acqua e sapone per lavarsi le mani più di prima, un elemento cruciale per prevenire e ridurre il rischio. Altre malattie infettive colpiscono acutamente tanti contesti: i sistemi sanitari sono già ridotti allo stremo vista la carenza strutturale di forniture, equipaggiamenti e personale medico. Se il Covid-19 prendesse piede, potrebbero essere trascurate le altre cure. Durante l’epidemia di Ebola, in Sierra Leone, il numero delle donne morte durante la gravidanza fu pari a quello delle vittime del virus. “Ma prevenire è meglio che curare - spiega Francesco Petrelli, consigliere politico di Oxfam Italia su finanza e sviluppo - bisogna concentrare nel breve e nel medio periodo risorse per garantire acqua e igiene, assumere 10 milioni tra medici e infermieri, garantendo assistenza sanitaria di base gratuita per tutti. Il mondo ricco non può pensare di salvarsi da solo”. Le buone misure vanno rese permanenti: nella Repubblica democratica del Congo (Rdc), quando il governo decise di fornire cure gratuite a tutti in risposta all’emergenza Ebola nel 2018, questo migliorò le possibilità di trattare anche altre malattie; tutto perso quando il libero accesso è stato rimosso. “Quattro miliardi di persone sono prive di protezione sociale”: l’insicurezza economica e alimentare da lockdown le sta colpendo in pieno. Quasi 1,3 miliardi di studenti sono penalizzati dalla chiusura delle scuole, che si ripercuote anche sulla loro salute e stato nutrizionale. Il lockdown ha riguardato i due terzi del continente africano. Fughe di capitali, riduzione dei prezzi delle materie prime, azzeramento dei proventi del turismo e delle rimesse avranno effetti devastanti sui mezzi di sussistenza. L’Africa rischia la prima recessione negli ultimi 25 anni. Sostenerne la ripresa è vitale “per non innescare una catastrofe sociale”. Aiutare i sistemi alimentari dei territori: gli interventi devono scongiurare altri milioni di sottonutriti, che rischiano di aggiungersi a quelli pre-pandemia (820 milioni) e alle popolazioni che rischiano la fame a causa degli sciami di locuste. Il sostegno alla produzione agricola è cruciale quanto l’impulso a programmi governativi di acquisto di beni agricoli da piccoli coltivatori per aumentare gli stock, e le misure a favore dei consumatori poveri. Si tratta anche di “riorganizzare gli aiuti” rendendoli più trasparenti ed efficienti, in grado di affrontare le diseguaglianze economiche e di genere e le crisi ambientali. Per una ripresa verde anche a Sud. Spagna. La Fase 1 delle carceri spagnole dalsociale24.it, 26 maggio 2020 Potranno fare visita ai detenuti i soli familiari che vivono nella stessa provincia del carcere. Come in Italia anche in Spagna riprendono i colloqui in presenza nelle carceri. Nel Paese iberico riprenderanno a scaglioni. Il provvedimento interesserà le 43 carceri che si trovano in territori che sono passati alla fase 1 dell’emergenza. Per ora però nessun contatto fisico. La circolare delle Istituzione Penitenziarie spagnole parla chiaro. Le visite saranno effettuate in stanze con pareti divisorie. Inoltre, per poter accedere all’istituto penitenziario, i familiari che si recheranno per fare ai detenuti dovranno indossare obbligatoriamente mascherina e guanti. Potranno fare visita ai detenuti i soli familiari che vivono nella stessa provincia del carcere. Eventuali misure diverse saranno adottate con l’evoluzione della diffusione del Coronavirus. Per quanti non potranno tornare a fare visita in presenza sarà ancora attivo il servizio di videochiamate istituito a seguito della chiusura del 12 marzo scorso. Le restanti 28 dovranno attendere di passare dalla fase 0 alla fase 1. Tra questi ci sono 8 dei 9 istituti di pena della Catalogna. Ancora nella fase 0 anche le carceri di Madrid e Castilla y León. Discorso diverso per i detenuti che potevano usufruire di permessi speciali per malattia o morte di un familiare o la nascita di un figlio. A loro sarà l’istituto a fornire una mascherina per affrontare il viaggio per recarsi a casa. Questi detenuti dovranno firmare il consenso a restare 14 giorni in isolamento al rientro in carcere. Sarà l’istituto a valutare ogni singolo caso. Così come nei casi si semi libertà. Qualche giorno fa il ministero dell’Interno ha scritto ai 13 centri di inserimento sociale e alle 23 sezioni aperte delle carceri chiedendo che siano le strutture di detenzione a valutare i singoli casi Brasile. Nelle favelas, contro neri e poveri, la violenza è di Stato di Francesco Bilotta Il Manifesto, 26 maggio 2020 Ogni anno la polizia uccide 10mila giovani, abusi continui che non si traducono mai in inchieste e punizioni dei responsabili, nascosti dietro “la legittima difesa”. E con Bolsonaro va ancora peggio. Joao Pedro era un menino di 14 anni e viveva nel Complexo do Salgueiro, una favela nell’area metropolitana di Rio de Janeiro. Si trovava nel giardino di casa quando è stato ferito gravemente dai colpi sparati dalla polizia nel corso di un intervento nel quartiere. Portato via dall’elicottero impiegato nell’azione, senza che nessuno potesse accompagnarlo, per 15 ore si perdono le tracce del ragazzo: nessuna informazione sulle sue condizioni e sulla destinazione. Solo il giorno successivo, dopo ripetuti appelli della famiglia e di numerose associazioni, uno scarno comunicato della polizia precisava che il corpo del ragazzo si trovava presso l’Istituto di medicina legale e che le armi erano state usate per “legittima difesa”. Ora l’avvocato della famiglia chiede con insistenza: “Quando è morto il ragazzo? Perché gli agenti di polizia lo hanno trattenuto così a lungo?”. Gullherme Boulos, che dirige il Movimento dei lavoratori senza tetto, dichiara che “il ragazzo è vittima della politica genocida contro poveri e neri e, in un periodo di pandemia in cui si difende la vita, la polizia e il governo sono agenti di morte nelle favelas”. Altri due giovani neri, Rodrigo (19 anni) e Joao Vitor (18 anni), sono stati uccisi nel corso di azioni condotte dalla polizia la scorsa settimana a Rio. Sono 24 gli adolescenti che nei primi mesi di quest’anno hanno trovato la morte nei quartieri di Rio durante lo svolgimento di operazioni di polizia e ogni azione violenza degli agenti è stata giustificata come conseguenza di un “atto di resistenza” nei loro confronti. Lo strumento giuridico dell’atto di resistenza, introdotto durante la dittatura per giustificare la repressione degli oppositori, consente una impunità generalizzata. Una ricerca condotta qualche anno fa dalle Associazioni dei diritti umani, con l’analisi di 12mila autos de resistencia registrati nell’area metropolitana di Rio, ha dimostrato che nel 60% dei casi si è trattato di vere e proprie esecuzioni, con le vittime disarmate o in una situazione di difesa. Questa “licenza d’uccidere” è alla base del genocidio della gioventù nera e povera del Brasile. Nel 2019, nello Stato di Rio, sono state 1.810 le persone uccise dalla polizia, un terzo del totale degli omicidi, una media di cinque al giorno. E nel 75% dei casi si è trattato di giovani neri tra i 15 e i 29 anni. Dopo ogni intervento della polizia, che nella metà dei casi si conclude in modo letale, gli agenti non vengono identificati e processati, si ridimensiona la gravità dei fatti e si colpevolizzano le vittime. Ed è quello che è accaduto nel dicembre del 2019 a Paraisopolis, la più estesa favela di San Paolo. Il brutale intervento della polizia durante una festa di strada per una operazione antidroga si è trasformata, tra spari e inseguimenti, in una strage con la morte di nove ragazzi neri tra i 14 e i 23 anni. I dati dimostrano che non si tratta di incidenti o casi isolati, ma di una violenza istituzionale che viene esercita soprattutto nei quartieri dove il disagio sociale è più acuto. Una logica genocida che va avanti da decenni nei confronti della popolazione nera e che ora viene anche incoraggiata e giustificata dal governo. Secondo il Forum brasiliano di sicurezza pubblica, ogni anno in Brasile 25-30mila i giovani tra i 15 e i 29 anni vengono uccisi, un terzo durante operazioni di polizia. E per il 75% si tratta di giovani neri. Nel 2016, sotto la presidenza Dilma, una Commissione parlamentare d’inchiesta, dopo un lungo lavoro di ricerca e analisi degli atti di violenza sulla popolazione nera, attraverso udienze pubbliche e il consulto di specialisti, era arrivata alle seguenti conclusioni: “Riteniamo che l’espressione “Genocidio della popolazione nera” è quella che meglio descrive l’attuale realtà in relazione agli assassini dei giovani neri. Il Brasile non può convivere con una situazione tanto perversa e ignominiosa in cui una parte della popolazione viene decimata. Bisogna ripensare all’azione dello Stato e al ruolo che svolgono gli apparati di polizia e giuridico. Non possiamo consentire che per alcuni il reato porti a un giusto processo e per altri all’esecuzione sommaria. La responsabilità per le azioni violente degli organi di polizia deve essere appurata in tutte le sue dimensioni e riconosciuta come grave violazione dei diritti umani”. L’anno dopo Dilma veniva destituita e il nuovo ministro della giustizia del governo Temer dichiarava che “il Brasile non ha bisogno di ricerche e studi, ma di armi e munizioni per trattare la sicurezza”. L’avvento di Bolsonaro e le sue scelte hanno aggravato la situazione. Lo smantellamento delle politiche sociali sta producendo un ulteriore aumento dei fenomeni di emarginazione, mentre si consente una maggiore flessibilità nell’uso delle armi da fuoco. E saranno i giovani neri a pagare il prezzo più alto. Hong Kong. La Cina non molla: “I manifestanti sono terroristi” di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 26 maggio 2020 La legge sulla sicurezza non sarà ritirata. Duro scontro con gli Stati Uniti. Domenica scorsa, Wang Yi, ministro degli esteri cinese, ha accusato “alcune forze politiche negli Stati Uniti” di “prendere in ostaggio le relazioni tra Cina e Usa e spingere i due paesi sull’orlo di una nuova guerra fredda”. Il casus belli è dato dalla situazione sempre più incandescente di Hong Kong, perché proprio mentre da Pechino arrivavano le parole di Wang, per le strade dell’isola andava in scena una vera e propria guerriglia urbana. Migliaia di manifestanti infatti si sono ripetutamente scontrati con la polizia antisommossa, il confronto è stato durissimo, da una parte cariche e uso di idranti e lacrimogeni, dall’altra armi improprie e molotov. È stato solo il primo tempo di una battaglia (terminata con almeno 180 arresti) che presumibilmente vedrà altri capitoli. Le ragioni di quello che sta succedendo stanno nell’intenzione della Cina di promulgare una legge sulla “sicurezza nazionale”. Un provvedimento proposto giovedì durante l’assise nazionale del Parlamento cinese e che mira a prevenire qualsiasi possibilità di ulteriore autonomia da parte di Hong Kong. I 9 mesi di scontri lo scorso anno infatti hanno lasciato il segno e da Pechino si tenta di stringere la morsa. Se andasse in vigore la nuova legge le proteste diventerebbero automaticamente “sedizione” e “secessione” e come tali verrebbero sanzionate. Anzi Pechino si riserva la possibilità di installare “agenzie” sul territorio di Hong Kong per bloccare ogni tentativo di rivolta. Non solo repressione ma anche il cambiamento della governance che si basa sul concetto di “un paese, due sistemi” ma la cui autonomia verrebbe fortemente limitata ben prima del ritorno alla sovranità completa cinese nel 2047. Washington guarda da vicino la situazione e i segnali giunti sono gravidi di tensioni presenti e future. Per il segretario di Stato Mike Pompeo “sembra che con questa legge sulla sicurezza nazionale prenderanno sostanzialmente il controllo di Hong Kong e se lo faranno...”, puntini di sospensione sostituiti dalle dichiarazioni del consigliere per la sicurezza nazionale Robert O’Brien: “se ciò dovesse accadere ci saranno sanzioni che verranno imposte a Hong Kong e in Cina”. Quanto basta a Pechino per parlare di “guerra fredda” e spingere sulle autorità di Hong Kong per dimostrare la giustezza delle sue posizioni. Non a caso ieri il segretario alla sicurezza dell’ex colonia britannica ha definito la legge “giusta e necessaria”. Per Lee infatti nell’ultimo anno “la violenza a Hong Kong si è intensificata, con molti casi che hanno coinvolto esplosivi e armi da fuoco. Il terrorismo sta crescendo in città e le attività che danneggiano la sicurezza nazionale, come l’indipendenza di Hong Kong, stanno dilagando”. Ma il confronto tra le due superpotenze rimaste sul pianeta si intreccia anche con la pandemia di coronavirus. Le accuse di Trump alla Cina, che sarebbe colpevole di aver mentito sull’origine del virus fino ad affermare che sarebbe sfuggito da un laboratorio di Wuhan, hanno da tempo incendiato le diplomazie. Per questo, sempre il ministero degli Esteri cinese, ha risposto con durezza. “Purtroppo, oltre al furioso coronavirus, negli Stati Uniti si sta diffondendo anche un virus politico hanno cannoneggiato da Pechino. Questo sta sfruttando tutte le opportunità per attaccare e screditare la Cina. Non si può perdere più tempo prezioso ignorando le vita delle persone”. Myanmar. Al tribunale dell’Aja il dossier sulla condizione dei Rohingya di Theo Guzman Il Manifesto, 26 maggio 2020 Da ieri mattina i magistrati della Corte internazionale di giustizia dell’Aja (Icj), il tribunale dell’Onu, hanno in mano il primo rapporto sulla condizione della minoranza musulmana dei Rohingya in Myanmar. Un rapporto del governo birmano che si deve alla sentenza del 23 gennaio scorso con cui l’Icj ha imposto a Yangoon un primo dossier dopo quattro mesi e in seguito ogni sei. La decisione si deve al Gambia che l’11 novembre 2019 ha denunciato il Myanmar all’Icj per “presunte violazioni” della Convenzione sulla prevenzione e punizione del crimine di genocidio. La minoranza rohingya, fino al 2017 ancora in gran maggioranza residente nello Stato birmano del Rakhine, si trova ora in gran maggioranza all’estero: la parte più consistente in Bangladesh, Stato che ne ospita circa un milione, 750mila dei quali fuggiti dal Myanmar dopo una repressione violentissima nell’estate 2017. Questi rapporti sono la base che consentirà l’apertura del processo vero e proprio: il 23 luglio i magistrati ascolteranno le ragioni del Gambia; il 25 gennaio 2021 toccherà alla difesa del Myanmar. Le autorità birmane non hanno reso noto il contenuto del rapporto ma già in aprile il governo ha cominciato a emanare tre direttive che sono la chiara risposta alle preoccupazioni dell’Aja: le direttive ordinano a ministeri e governi delle regioni e degli Stati birmani di garantire che il proprio personale e altri soggetti sotto il loro controllo “non commettano” atti definiti nella Convenzione sul genocidio e proibiscono di “distruggere o rimuovere” eventuali prove. Infine, l’ultima direttiva riguarda l’incitamento all’odio contro i rohingya, social compresi. In questi ultimi mesi intanto l’esercito birmano (Tatmadaw) si è rifatto il trucco: ha arrestato alcuni soldati accusati da un video di aver torturato dei sospetti e ha promesso collaborazione nelle indagini sulla morte di un autista dell’Oms ucciso mentre portava articoli sanitari. È stata anche diffusa la notizia che un campo di sfollati interni rohingya nel Rakhine sarà trasferito in una nuova struttura costata oltre un milione di euro. Fumo negli occhi? Tatmadaw ha annunciato a maggio una tregua di quattro mesi fino ad agosto che esclude però gli Stati Chin e Rakhine, quelli in cui si combatte la guerra guerreggiata come nel caso di circa 200 case nel villaggio (non rohingya) di Lekka, nello Stato del Rakhine, che sono state bruciate a metà maggio da un incendio doloso che, secondo i locali, si deve all’esercito. Inoltre, U Zaw Htay, portavoce della presidenza della Repubblica, ha messo in guardia sul fatto che la scoperta di casi di Covid-19 nei campi rohingya a Cox Bazar in Bangladesh potrebbe ritardare il processo di rimpatrio mentre Dacca ha già iniziato a trasferire alcuni rifugiati sull’isola incolta di Bhasan Char che rischia di diventare la loro prigione a vita. Infine Yanghee Lee, inviato speciale Onu che ha lasciato il suo incarico a marzo, ha detto di ritenere che il Myanmar non abbia fatto nulla per smantellare il sistema di violenza e persecuzione contro i Rohingya che ancora vivono nel Rakhine. Yemen. Il coronavirus arriva nelle carceri degli Houthi agenzianova.com, 26 maggio 2020 L’Associazione delle madri yemenite degli uomini rapiti dagli Houthi ha denunciato casi sospetti di coronavirus tra le persone detenute dai ribelli sciiti Houthi in una prigione della capitale, Sanàa. L’associazione ha dichiarato in una nota, emessa ieri sera, di aver ricevuto un rapporto urgente dai detenuti della prigione centrale di Sanàa, indicando che due persone (identificate come Noureddine Marzia e Muhammad Wasel) sono stati contagiati dalla Covid-19 e trasferiti in quarantena. Le madri dei detenuti hanno espresso grave preoccupazione per la salute e la sicurezza di tutti i loro familiari rapiti e scomparsi, la maggior parte dei quali ha trascorso illegalmente oltre quattro anni dietro le sbarre. La dichiarazione, rilanciata dall’emittente televisiva di proprietà saudita “Al Arabiya”, chiede urgentemente il rilascio di tutte le persone rapite con la forza e detenute dalla prigione centrale, soprattutto dopo l’emergere dei sospetti casi di coronavirus.