Pignatone: “I reati e il carcere: è ora di cambiare tutto” di Nicola Mirenzi huffingtonpost.it, 25 maggio 2020 Intervista all’ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, che invita giuristi, filosofi e antropologi ad avviare un dibattito per riformare una giustizia che non regge più. Dopo quarantacinque anni di servizio nella magistratura si è convinto che bisogna mettere un punto: “L’idea che attraverso il diritto penale si possano risolvere i problemi della vita associata ha avuto effetti perversi. Sono anni che la politica scarica così sulla giustizia questioni che le competono e non riesce ad affrontare altrimenti. A ogni dramma, pezzi dell’opinione pubblica invocano giustizia, chiedono la creazione di nuove fattispecie di reato, vanno alla ricerca di un colpevole da punire per mettere le cose a posto. L’area del penale si è allargata a dismisura, penetrando in ogni piega della vita sociale. Il sistema è stato sommerso dalle pratiche, aggiungendo un altro problema a quelli che già c’erano. È il momento di invertire la tendenza e attuare un’immediata, radicale e ampia depenalizzazione, riducendo il numero dei reati drasticamente”. Da un anno Giuseppe Pignatone è il presidente del Tribunale dello Stato Vaticano. Lo ha nominato Papa Francesco al termine del suo corpo a corpo - lungo quattro decenni - con le mafie italiane - prima Cosa Nostra a Palermo (coordinando, tra le altre, le indagini che portarono all’arresto di Bernardo Provenzano), poi la ‘ndrangheta a Reggio Calabria, infine le mafie a Roma. Gli chiediamo di intervenire nel dibattito aperto da Gherardo Colombo sull’abolizione del carcere e gli vengono subito in mente due discorsi che Francesco ha tenuto di fronte ai penalisti di tutto il mondo, uno nel 2014, l’altro nel 2019: “Il Pontefice pone il problema di una giustizia che restauri i legami tra chi ha commesso il reato, le vittime e la società, attraverso un modello fondato sul dialogo. Dice che è il carcere deve avere sempre una ‘finestra’, cioè un orizzonte, poiché l’obiettivo della detenzione è il reinserimento della persona nella società, non la sua punizione brutale. È una sfida che una società razionale, pacifica e democratica deve affrontare, laicamente”. Lei abolirebbe il carcere? Io credo che sia legittimo, e anche nobile, immaginare una società senza carcere. Chi si è trovato a fare il lavoro che ho fatto io, è il primo a sognare una società in cui il carcere non sia più necessario. Un mondo in cui i fatti gravi che lo rendono indispensabile non accadano più. Al momento, però, non è realistico crederlo. Non c’è un solo stato al mondo in cui il carcere non ci sia. Perché? Perché il carcere è necessario a garantire la sicurezza dei cittadini, quando non ci siano altri modi per farlo. Per esempio, lasciare che un mafioso affiliato alle organizzazioni tradizionali torni sul proprio territorio, significa consentire all’associazione a cui ha giurato fedeltà di reinserirlo immediatamente nel circuito operativo criminale. Neanche Colombo propone di abolirlo per questi reati... Bisogna entrare nel merito. Nei penitenziari, oggi, c’è un numero notevole di persone che sconta pene per reati gravissimi. Poi, ci sono persone che hanno commesso una serie di reati che, presi singolarmente, prevedono pene modeste, ma sommati raggiungono cifre alte. Ci sono quelli che hanno processi in corso e per cui il giudice ritiene ci siano esigenze cautelari, anche per evitare l’inquinamento delle prove. Infine, c’è un’altra fetta grande di persone - nella stragrande maggioranza, stranieri - che sono in carcere perché il giudice non può fargli scontare delle pene alternative, poiché non hanno una casa in cui andare. Dove vuole arrivare? A dire che, se si guarda dentro il carcere, diventa chiaro che esso è solo un frammento di un problema più vasto, che ha caratteri sociali, economici, politici. Affrontarlo come una questione esclusivamente penale sarebbe riduttivo e sbagliato. Lei come lo affronterebbe? Io sono entrato per la prima volta in un carcere nel 1974. Facevo l’uditore a Palermo. Mi occupavo di contrabbandi, oltraggi, poi sono cominciati i processi per mafia. La situazione delle carceri è cambiata molto, da allora. I valori costituzionali hanno fatto progressi enormi. Soprattutto, per merito delle persone che ci lavorano. Bisogna andare ancora più avanti, rifiutando culturalmente l’idea che il degrado - là dove c’è - sia un problema dei detenuti, e tanto peggio per loro. Questo è inaccettabile. Secondo lei, oggi il carcere ha un orizzonte? Nella maggior parte dei casi, siamo ancora lontani dall’idea del carcere di cui parla Francesco: una finestra aperta sull’avvenire. In alcune carceri, invece, questa possibilità è stata realizzata. I detenuti possono lavorare, istruirsi, prepararsi al futuro. È necessario un grande lavoro culturale e politico per spingere il carcere reale ad avvicinarsi sempre di più al carcere ideale. Riconoscendo quanto di buono è già stato fatto e proseguendo il cammino. Per esempio? Già oggi, come ha ricordato Luciano Violante, ci sono 53 mila persone che scontano la pena in prigione e 61 mila che la scontano fuori. È un risultato che venti o trent’anni fa sarebbe stato inimmaginabile. Lei come andrebbe avanti? Da una parte, facendo un salto di qualità nelle depenalizzazioni. In molti casi, fatti che oggi danno vita a processi per truffa o appropriazione indebita sono solo questioni di natura civilistica, in molti altri casi basterebbe, come nel resto d’Europa, una sanzione amministrativa. Ciò alleggerirebbe il sistema penale, rendendolo più veloce ed efficace. E dall’altra? Aprendo un dibattito culturale, che coinvolga giuristi, filosofi, antropologi, sociologi, per stabilire su basi nuove quali siano i reati che giustificano il carcere in questo secolo, ripensando il processo penale a trent’anni dall’entrata in vigore. Con chi ne parlerebbe? L’avvocato Franco Coppi, in alcuni suoi interventi, ha posto il problema in termini che condivido, citando alcuni ‘fallimenti disastrosi’ del codice del 1989. Io penso che i giuristi italiani dovrebbero sedersi intorno a un tavolo, senza tabù e pregiudizi, e cominciare a discuterne. In che sede? Il senso di una discussione del genere è offrire al Paese una base sulla quale confrontarsi, e al Parlamento un progetto sul quale decidere. Non penso certo a un convegno tra addetti ai lavori. La riforma del processo penale investe la sfera culturale, sociale, politica. Deve essere discussa a tutti questi livelli. Avrebbe nemici? Un cambiamento del genere si scontrerebbe con i sostenitori dello statu quo, presenti in tutti le categorie del mondo della giustizia, così come nell’opinione pubblica. Il panpenalismo è uno degli aspetti di una cultura che alcuni chiamano populismo penale, dilagato negli ultimi anni. È ovvio che una riforma così profonda dovrebbe affrontare queste resistenze. Da cristiano, il carcere le ha mai posto un problema di coscienza? No, non ho mai avuto un problema di coscienza nell’applicare le leggi dello stato italiano. Credo che l’Italia sia riuscita ad affrontare anche i periodi peggiori della propria storia - come il terrorismo e le stragi di mafia - rispettando lo stato di diritto e la Costituzione. Nemmeno di fronte al 41bis? Comunemente questo regime è noto come “carcere duro”. È un’espressione che ritengo fuorviante. Poiché il 41bis non è stato pensato per aggiungere crudeltà alla pena, come l’aggettivo - “duro” - lascia credere. È stato pensato per impedire le comunicazioni del mafioso con l’esterno. L’ho avuto sempre chiaro in mente. L’obiettivo - come dice ancora Papa Francesco - è “fare giustizia alla vittima, non giustiziare l’aggressore”. La settimana nera della giustizia di Carlo Fusi Il Dubbio, 25 maggio 2020 Dall’azzeramento dell’Anm, alle intercettazioni dei magistrati contro Salvini, iniziano i sette giorni più difficili per la giustizia italiana. A poco meno di un anno di distanza dallo scandalo che investì Luca Palamara e il Csm, è di nuovo bufera sulla giustizia. Nuove intercettazioni, nuove accuse, le dimissioni di intere aree dalla giunta dell’Anm, la protesta della Lega per le critiche espresse in una chat da alcuni giudici contro Matteo Salvini. Una situazione di caos e veleni che torna e che fa dire al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che “il terremoto che sta investendo la magistratura italiana impone una risposta tempestiva delle istituzioni”. E il Guardasigilli ripropone la necessità di una riforma del Csm. Una riforma chiesta nuovamente anche dal Pd, che per voce di Walter Verini ritiene “importante” la volontà di Bonafede: “questo il Pd aveva chiesto per contribuire ad archiviare le degenerazioni correntizie che, come vediamo in queste ore, hanno investito la magistratura”. La vicenda, ovviamente, viene seguita con attenzione anche dal Quirinale. Sergio Mattarella, in base alla Costituzione, presiede il Csm e già un anno fa tenne un durissimo discorso per chiedere, nel pieno dello scandalo: “Quel che è emerso, da un’inchiesta in corso, ha disvelato un quadro sconcertante e inaccettabile”. Nel suo intervento del 21 giugno, il Capo dello Stato incalzò le toghe: “Oggi si volta pagina nella vita del Csm. La prima di un percorso di cui non ci si può nascondere difficoltà e fatica di impegno. Dimostrando la capacità di reagire con fermezza contro ogni forma di degenerazione”. Allora, e in pochi mesi, si dimisero cinque consiglieri sui 16 togati del Csm. A Mattarella giunsero diverse sollecitazioni a sciogliere l’organo di autogoverno delle toghe ma il Presidente fece capire che uno scioglimento avrebbe bloccato il processo di riforma, agevolato l’elezione di un nuovo Csm sempre con le vecchie regole (contestate da quasi tutto l’arco costituzionale) e bloccato i procedimenti disciplinari appena avviati. Situazione analoga a quella attuale, in realtà: lo scioglimento azzererebbe le azioni disciplinari in corso, la cui iniziativa, va ricordato, è in capo al Guardasigilli e al Procuratore generale della Cassazione. Perché se l’ultima bufera è recente, i provvedimenti disciplinari, e in alcuni casi anche quelli giudiziari, sono invece già aperti proprio per le toghe finite nuovamente nella tempesta. E dunque solo la sopravvivenza dell’attuale Csm garantirebbe una loro conclusione. Lo scioglimento, poi, è una extrema ratio prevista solo in caso il Csm sia impossibilitato a funzionare (per mancanza del numero legale dei componenti o, secondo alcuni costituzionalisti, per insanabili contrasti con altri poteri dello Stato), un evento talmente eccezionale da non essersi mai verificato dalla data della sua istituzione. Toghe, Bonafede e il Pd: subito la riforma del Csm di Marco Conti Il Messaggero, 25 maggio 2020 Il ministro dopo lo scandalo intercettazioni che ha travolto il sindacato: “È un terremoto”. Travolta dalle intercettazioni l’Anm, o meglio le correnti interne, cercano di trascinare con sé il Csm e c’è anche chi invoca il presidente della Repubblica Sergio Mattarella al quale si chiede di sciogliere l’attuale Consiglio Superiore della magistratura pur non avendo il Capo dello Stato nessun potere di mandare a casa il vicepresidente Davide Ermini e i suoi consiglieri. Eppure quasi un anno fa, nel pieno dello scandalo-Palamara e subito dopo il terremoto che si abbatté sulla magistratura che causò anche le dimissioni di due togati dal Csm, fu lo stesso Mattarella a chiedere di voltare pagina. Allora il presidente della Repubblica intervenne alla riunione del Csm in qualità di presidente e usò parole durissime chiedendo un “cambio dei comportamenti”, dicendo anche che “accanto a questo vi è quello di modifiche normative, ritenute opportune e necessarie, in conformità alla Costituzione”. Ruoli diversi, tra magistratura e politica, con quest’ultima che avrebbe dovuto provvedere ad “una stagione di riforme sui temi della giustizia e dell’ordinamento giudiziario”. Ciò che a distanza di mesi esce dal trojan inserito nel cellulare di Luca Palamara, rinnova l’esigenza di quell’appello del Capo dello Stato anche se aggiunge poco al quadro già noto di una costante spartizione di poltrone e cariche dove il Csm diventa l’approdo finale di magistrati chiamati ad ubbidire alla corrente che li ha eletti. Un metodo denunciato più volte da tutte le componenti, ma ribadito anche ieri con comunicati e prese di posizione che spingono il governo e la maggioranza a ricordarsi che così la giustizia non può funzionare, e che occorre intervenire incidendo anche sui meccanismi di nomina del Csm. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede lo annuncia sui social: “Questa settimana porterò all’attenzione della maggioranza il progetto di riforma, su cui tra l’altro avevamo già trovato un’ottima convergenza poco prima che scoppiasse la pandemia”. “Al centro del progetto - spiega Bonafede - ci sono: un nuovo sistema elettorale sottratto alle degenerazioni del correntismo; l’individuazione di meccanismi che garantiscano che i criteri con cui si procede nelle nomine siano ispirati soltanto al merito, la netta separazione tra politica e magistratura con il blocco delle cosiddette porte girevoli”. Un’accelerazione, dopo mesi di attese, che viene vista con favore dal Pd. Walter Verini, responsabile giustizia dei dem, lo sottolinea dicendo che il Pd lo aveva chiesto “per contribuire ad archiviare le degenerazioni correntizie”. Un “fate presto”, che un altro dem come Stefano Ceccanti ribadisce. L’obiettivo della politica sembra essere quello di riprendere il controllo del sistema giudiziario italiano che è ormai da tempo gestito da un’associazione di magistrati nella quale si continua consumare uno scontro durissimo. Difficile che si arrivi ad una riforma complessiva o alla separazione delle carriere dei giudici come anche ieri sono tornati a chiedere gli avvocati. Il metodo della pubblicazione delle intercettazioni uscite in questi giorni è sempre lo stesso e continua ad essere applicato anche da parte di coloro che a suo tempo lo hanno criticato. Spezzoni di conversazioni e di messaggi, di fatto antecedenti a quanto è già emerso nelle intercettazioni dei mesi scorsi e che sono costate a Luca Palamara la sospensione in via cautelare e a breve un processo per corruzione. Il classico ventilatore, acceso dopo un anno, e che stavolta è rivolto verso il Csm e Davide Ermini, vicepresidente del Csm, uscito a testa alta anche dallo scandalo scoppiato un anno fa. La seconda stagione di intercettazioni colpisce e manda in frantumi l’Anm. I nuovi tasselli hanno riguardato il rapporto tra il Guardasigilli e il magistrato Nino Di Matteo, nonché la scelta dei magistrati che sono andati a ricoprire posti importanti all’interno del ministero, con un filo rosso che li lega: l’inchiesta sulla presunta trattativa stato-mafia. Intercettazioni, Bonafede: “In settimana la riforma del Csm” di Carlotta De Leo Corriere della Sera, 25 maggio 2020 Terremoto nell’Anm, lunedì plenum ad alta tensione. La corrente Area accusa Unicost “sulla questione morale”. E Salvini, tirato in ballo nelle chat dei magistrati del caso Palamara, se la prende con i media: “È il silenzio degli indecenti”. “La riforma del Consiglio superiore della magistratura non può più attendere. Questa settimana porterò all’attenzione della maggioranza il progetto di riforma, su cui tra l’altro avevamo già trovato un’ottima convergenza poco prima che scoppiasse la pandemia”. Lo scrive il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede dopo il terremoto che ha investito la giunta dell’Anm in seguito alle ultime intercettazioni legate al caso Palamara. Quello che sta investendo la magistratura italiana, sostiene il Guardasigilli, è un “vero e proprio terremoto che impone una risposta tempestiva delle istituzioni”. Al centro del progetto di riforma, spiega Bonafede, “un nuovo sistema elettorale sottratto alle degenerazioni del correntismo” e meccanismi che garantiscano la meritocrazia nelle nomine. Ma soprattutto “la netta separazione tra politica e magistratura con il blocco delle cosiddette `porte girevoli´; si tratta di innovazioni di cui si parla da decenni. Ora non sono più non rinviabili”: su questa riforma “le istituzioni non devono dividersi ma compattarsi”. Un plenum ad alta tensione - Con la pubblicazione delle chat di Luca Palamara, sale di livello scontro tra le due correnti che avevano in mano la guida dell’Associazione nazionale magistrati. Il rischio è lo scioglimento della giunta dell’Anm dopo le dimissioni, sabato, del presidente Luca Poniz di Area (la corrente progressista delle toghe) e del segretario Giuliano Caputo di Unicost (che raggruppa i moderati, Palamara ne è stato esponente di spicco). In vista del consiglio del Comitato direttivo centrale (il ‘parlamentino’ delle toghe) convocato lunedì per cercare di spegnere l’incendio e trovare una nuova maggioranza e traghettare l’Anm verso nuove elezioni. L’unica corrente a restare in giunta dopo le dimissioni è Magistratura Indipendente di Piercamillo Davigo. Si preannuncia un “plenum” ad alta tensione dove non sarà facile ricomporre la frattura. Area accusa Unicost sulla questione morale - Anche perché domenica la corrente Area ha attaccato Unicost rendendo noti quali sono stati i motivi della rottura: un passo indietro di Unicost sulla “questione morale”. “Sabato è emerso che la componente di Unicost non sembra in grado di mantenere la posizione di fermezza assunta un anno fa”. E, in una nota, spiega: “A giugno scorso si è insediata una nuova giunta guidata da Poniz che ha messo al centro del programma questione morale e rilancio di Anm. In quel progetto era coinvolta anche Unicost perché, aveva dimostrato di sapere prendere le distanze da chi, tra i suoi componenti, era coinvolto nello scandalo”. Ad un anno di distanza, “è partita un’operazione mediatica di diffusione di ulteriori conversazioni che documentano altri episodi, diversi da quelli che giustificarono le dimissioni di componenti del Csm, ma espressivi di un malcostume”, lo stesso “denunciato dal presidente Poniz e col quale Area fa e ha iniziato a fare i conti da tempo”. Di fronte a questo quadro “l’Anm ha bisogno di parole forti e chiare. Per questo - prosegue Area - sono venute meno le condizioni che ci avevano indotto ad assumere la guida dell’Anm e per questo, e solo per questo” Poniz e la sua corrente si sono dimessi. Intercettazioni, le mire di Palamara e le trame tra correnti: “Io non mollo, mi devono uccidere” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 25 maggio 2020 I dialoghi con cui l’ex pm indagato per corruzione si preparava alla partita della sua vita. “E secondo te io mollo? Mi devono uccidere. Peggio per chi si mette contro”. Esattamente un anno fa, la mattina del 23 maggio 2019, Luca Palamara si mostrava determinato e combattivo nei messaggi inviati al suo collega (anche di corrente) Cesare Sirignano. La commissione Incarichi direttivi del Consiglio superiore della magistratura aveva appena votato i tre candidati per la guida della Procura di Roma, e in testa risultava Marcello Viola, sostenuto dal gruppo Magistratura indipendente e candidato occulto di Palamara. Ma la battaglia finale si sarebbe combattuta al plenum del Csm, e l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati (nonché ex componente del Consiglio) affilava le armi. Soprattutto contro i togati di Area, il cartello che raduna la sinistra giudiziaria, intenzionati a ostacolare la nomina sponsorizzata da Palamara. Che li apostrofava così: “Sono dei banditi, vergognosi”. È un frammento di dialogo che aiuta a comprendere la posta in gioco per la quale l’ex pm oggi indagato per corruzione si preparava alla partita della sua vita. Svelata una settimana più tardi dal decreto di perquisizione con cui la Procura di Perugia rivelò non solo l’inchiesta a suo carico, ma pure le trame occulte con cui Palamara stava pilotando dall’esterno del Csm la nomina del nuovo procuratore della capitale, insieme ai deputati del Pd Cosimo Ferri (giudice in aspettativa ma capo riconosciuto di Magistratura indipendente) e Luca Lotti. La prima crisi - La scoperta di quelle manovre provocò - oltre al terremoto nel Csm, con le dimissioni di tre componenti di Mi e due di Unicost - la prima crisi all’interno dell’Anm: il governo a tre Unicost- Area-Mi- si sfaldò perché Mi fu accusata di non aver reagito con sufficiente fermezza contro i propri consiglieri coinvolti nelle “riunioni segrete notturne” col trio Palamara-Ferri-Lotti, e nacque una nuova giunta sostenuta da Area, Unicost (che invece aveva “epurato” il suo leader e i due componenti del Csm dimissionari) e i davighiani di Autonomia e indipendenza. Un anno dopo siamo daccapo, nuova crisi. Stavolta la rottura è tra Area e Unicost, perché chiusa l’indagine a carico di Palamara sono stati depositati tutti gli atti raccolti dagli inquirenti. Comprese le chat dei dialoghi WhatsApp contenute nel cellulare di Palamara, dal 2017 in avanti; cioè quando Palamara sedeva al Csm (fino a settembre 2018) e governava la magistratura facendo spesso accordi e alleanze con i togati di Area e i laici di centrosinistra (anche perché al fianco di Area aveva già guidato l’Anm, tra il 2008 e il 2012). Gli attacchi a Salvini - Risalgono a quel periodo le conversazioni con i colleghi della sua stessa corrente, ma anche di Area e di Mi, che svelano patti e manovre per piazzare questo o quel magistrato nei vari posti, e “fotterne” altri; spartizioni di nomine e incarichi “espressive di un malcostume diffuso di correntismo degenerato e carrierismo spinto, fino a pratiche di vera e propria clientela”, per dirla con il comunicato firmato da Area. Che chiedeva prese di posizione più radicali da parte di Unicost, e da qui è nata la seconda crisi nel sindacato dei giudici. Fino all’autunno 2018, quindi, Palamara è stato un alleato della sinistra giudiziaria, e anche da questo derivano gli attacchi al leader leghista Matteo Salvini in alcune conversazioni private. Quando a fine agosto 2018 il procuratore di Viterbo Paolo Auriemma (compagno di corrente, pure lui ex Csm) si schiera al fianco del neoministro dell’Interno finito sotto inchiesta per via dei migranti trattenuti a bordo della nave Diciotti, Palamara gli risponde: “Hai ragione, ma ora bisogna attaccarlo”. Pochi giorni dopo manda una foto dalla festa di Santa Rosalia a Viterbo all’allora presidente dell’Anm (sempre di Unicost) Francesco Minisci, e commenta: “C’è anche quella merda di Salvini ma mi sono nascosto”. Minisci risponde con un neutro “Va dappertutto”. Qualche mese dopo sarà lui a finire nel mirino di Palamara, che scrive a Sirignano: “Già fottuto Minisci”. Le nuove alleanze - A fine settembre, terminata l’esperienza al Csm, le alleanze e gli schieramenti cambiano. Perché nel nuovo Consiglio Area non è più l’alleato per lui affidabile di prima; e soprattutto ha capito che non lo sosterrà per l’agognata poltrona di procuratore aggiunto a Roma (lasciata libera dal neo consigliere Giuseppe Cascini, da poco nominato proprio con l’appoggio dell’ex pm che in questo modo aveva preparato la staffetta). Nasce così l’alleanza con Mi e Cosimo Ferri (già berlusconiano, ora transitato dal Pd a Italia Viva), che doveva portare alla nomina del nuovo procuratore di Roma e poi di sé stesso come vice. Ma l’inchiesta per corruzione ha fatto saltare tutto. Scoperchiando un anno fa le trame extra-consiliari, e oggi il resto delle sue multiformi relazioni e opinioni. Compresi i propositi di vendetta contro i colleghi di Area. “Bisogna sputtanarli”, gli scriveva Sirignano, che il Csm ha appena trasferito dalla Superprocura antimafia, per un’altra intercettazione in cui parlava con Palamara del suo ufficio e della nomina del nuovo procuratore di Perugia. E lui replicava convinto: “Esatto”. “Proteggete solo i vostri”. “Pensate alle poltrone”. Tutti contro tutti all’Anm di Liana Milella La Repubblica, 25 maggio 2020 Scambi di accuse tra il presidente Poniz e il segretario Caputo. Interviene Bonafede: “Riforma Csm subito”. Via libera di Zingaretti. Non è cambiato niente. Proprio come un anno fa lo scandalo Palamara sta travolgendo la magistratura. Il Guardasigilli Bonafede corre ai ripari e rilancia la riforma del Csm, ma lo stesso Csm e l’Anm, il sindacato delle toghe, sono lacerati dallo scontro tra le correnti. Sul Csm mette la mano il capo dello Stato, e dello stesso Csm, Mattarella perché un organo costituzionale non si può sciogliere dall’esterno e a breve, a Perugia, comincerà l’udienza preliminare del processo per corruzione a Palamara. Ma il terremoto squassa e azzera l’Anm. Tre anni di chat di Luca Palamara - che l’ex pm di Roma, pur sapendo di essere sotto inchiesta a Perugia, non ha mai distrutto - svelano toghe alla continua ricerca di posti, pronte agli sgambetti, ma anche alla delegittimazione dei colleghi. Proprio le chat esplodono nell’Anm. Ecco che il presidente Luca Poniz, della sinistra di Area, sabato accusa pesantemente Unicost: “Volete solo proteggere i vostri”. Che sono finiti nelle chat a mendicare posti. Replica il segretario Giuliano Caputo di Unicost: “Dici bugie, tu vuoi solo candidarti di nuovo”. Perché a ottobre, online, si eleggeranno i nuovi componenti. In una guerra tra correnti che non ha precedenti nella storia della magistratura. Se lo spettacolo è questo, ed è un brutto spettacolo, il Guardasigilli Alfonso Bonafede non poteva stare a guardare. Come gli rimprovera la sua, da sempre antagonista, Giulia Bongiorno della Lega. Bonafede dice “basta”, parla di “terremoto” nella magistratura. Dà la “risposta tempestiva” che serve, la riforma del Csm. L’annuncia con il solito post su Fb perché “non si può più attendere”. Una riforma che avrebbe potuto essere legge già da due anni perché Bonafede l’aveva già inserita nella riforma della giustizia presentata col governo gialloverde. Allora chiedeva il sorteggio per eleggere i togati del Csm, oggi propone una soluzione più blanda, piccoli collegi uninominali. Poi regole rigide per le nomine. Infine lo stop alle cosiddette porte girevoli (chi entra in politica non torna in magistratura). Bonafede le definisce “innovazioni non rinviabili su cui le istituzioni non devono dividersi ma, al contrario, devono compattarsi”. Arriva il via libera del Pd con il segretario Zingaretti: “C’è bisogno di una riforma del Csm ed è colpa della politica non averla fatta e scandalizzarsi di regole che non vanno bene. Il prossimo step deve essere in tempi rapidissimi una riforma del Csm”. Ma quanto ci vorrà per approvare la riforma? Un anno? E nel frattempo? Passeremo un’estate guardando il film dello scontro sanguinoso tra le correnti. In cui le chat di Palamara scansionano le fasi. Sabato 16 maggio. Esce il WhatsApp di Palamara in cui un componente del direttivo Anm, Angelo Renna di Unicost, pm a Milano, il 17 ottobre del 2017, scrive: “Se riuscite a fottere la Savoia sarebbe un bel colpo”. Lei, di Area, è giudice a Milano, ma anche componente del parlamentino dell’Anm. Domenica 17 Unicost costringe Renna alle dimissioni. Ma in settimana, chat dopo chat, i nomi di Unicost crescono. Ecco Alessandra Salvadori, giudice a Torino, il cui marito Onelio Dodero, nel 2018 corre, e ottiene, la procura di Cuneo. Lei è vice presidente Anm. Ancora: spunta il nome di Bianca Ferramosca, pure in Anm, che a luglio 2018 ringrazia Palamara perché a Roma è diventata presidente di sezione del tribunale. Poi quello dell’ex presidente Anm Francesco Minisci. Giusto giovedì al Csm Area s’intesta la battaglia per trasferire dalla Dna Cesare Sirignano, toga di Unicost. Escono anche nomi di magistrati di Area, però non in Anm. La guerra diventa nucleare. Unicost trema perché con Renna potrebbero cadere pure tutti gli altri. Area s’impunta, via Renna subito. E scuse a Savoia. Poniz non retrocede dall’idea di ricandidarsi. Unicost non ci sta. Crolla tutto. Perché la campagna elettorale per il voto del 18 ottobre (che si sarebbe dovuto tenere già il 22 marzo) è un tutti contro tutti. Poniz: “Lasciamo per tutelare l’Anm. Troppi magistrati pensano più alla carriera che al lavoro” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 25 maggio 2020 Il presidente dimissionario dell’Anm: “Fin quando ai magistrati interessa più la carriera che il lavoro il problema c’è... serve uno sforzo diffuso di coraggio e di un’assunzione di responsabilità di tutti” Luca Poniz, perché si è dimesso da presidente dell’Associazione nazionale magistrati? “Non certo per responsabilità nella vicenda emersa dalle intercettazioni di Luca Palamara, perché non ne ho in alcun modo. Ma perché per affrontarla non ci sono più le condizioni”. Quali condizioni? “Innanzitutto la coesione tra le componenti della giunta. A ciò si aggiunge la timida reazione di Unicost riguardo alle presunte conversazioni di magistrati anche della stessa quella corrente con Palamara che ci ha fatto capire come non ci siano più le condizioni né per un’azione politica piena, in linea con quanto detto e proposto nei mesi precedenti, nè per la questione morale.”. C’è chi vi accusa di non averlo fatto neanche prima. Non è così? “No. Abbiamo chiesto e ottenuto le dimissioni di consiglieri Csm, e del procuratore generale di Cassazione. Certo non abbiamo potere legislativo, ma di proposta. E dopo le prime intercettazioni ne abbiamo fatte alcune importanti al ministro della Giustizia”. Ad esempio? “Sulla riforma del Csm e sui meccanismi di elezione. Sugli incarichi apicali: nessuno dopo averlo ottenuto sembra essere disponibile a tornare a svolgere la funzione prima svolta, in linea con il modello di “magistrati senza carriera” disegnato dalla Costituzione. E appena nominato in certi ruoli apicali può addirittura concorrere a un altro”. Basta secondo lei per correggere il quadro che emerge dalle intercettazioni, di una pletora di magistrati raccomandati? “Fin quando a molti magistrati sembra interessare prevalentemente la carriera, vista più come appagamento di ambizione che nella logica del servizio, il problema c’è. Questo l’ho detto dall’inizio del mio mandato. Ma per questo serve uno sforzo diffuso di coraggio e un’assunzione di responsabilità collettiva”. Claudio Martelli pensa che invece serva sciogliere l’Anm. Non è così? “L’unico che riuscì a ottenerlo fu il regime fascista. Queste smemoratezze sono pericolose. Noi ci siamo dimessi anche per tutelare l’Anm, che non rischia nessuno scioglimento, anche se c’è chi lo vorrebbe”. C’è chi accusa la magistratura di chiedere indipendenza dal potere politico, ma poi di rivolgersi ad esso per appoggi. Si possono evitare commistioni improprie? “Il rapporto con la politica è già disegnato nelle regole di composizione del Csm quanto al rapporto tra componente togata e laica. La relazione dovrebbe esaurirsi lì. Due magistrati possono certamente vedersi a cena e magari continuare a confrontarsi su nomine, certo non può avere voce una persona esterna al Csm. Si discute molto dei togati, ma non ci si preoccupa che negli anni la stessa componente laica ha non di rado espresso candidati molto più vicini alla politica attiva di quanto fosse in passato. Quanto alla crisi dello scorso anno, evidenzio che il presidente della Repubblica ha indicato con nettezza il percorso per il ripristino della legalità”. In queste ore alcuni criticano un mancato intervento del capo dello Stato. “L’equilibrio e la saggezza istituzionale mostrata sempre dal Presidente sono rassicuranti per tutti. Trovo sempre irrispettoso del ruolo del Presidente suggerirgli un intervento, o peggio la linea di esso”. C’è una intercettazione al centro delle polemiche del centrodestra, nella quale si parla di un intervento politico della magistratura contro Matteo Salvini, utilizzando l’incriminazione per sequestro di persona nei confronti dei migranti. Cosa ne pensa? “Quando avremo conoscenza completa di quella conversazione e delle altre potremo parlare meglio e a lungo. Noi abbiamo chiesto quelle chat e i colloqui intercettati, ancora prima che venissero pubblicate sui giornali, ma non ce li hanno purtroppo ancora mandati”. A quale titolo li avete chiesti? “Come Anm siamo una potenziale parte lesa. Mi chiedo a quale titolo processuale l’abbiano avuta i giornalisti prima di noi”. Lunedì si riunisce di nuovo il comitato direttivo. Potreste ritirare le dimissioni? “No. Siamo indisponibili a qualsiasi nuova giunta politica. La nostra era già in prorogatio: le elezioni erano state rinviate a causa del Covid. Da quando siamo stati eletti 4 anni fa sembra passato un secolo. Serve chiarezza, spiegare ai magistrati cosa si vuole fare, e avere da loro un mandato forte. Che noi oggi non abbiamo più”. Il dovere dei magistrati di Armando Spataro La Repubblica, 25 maggio 2020 A distanza di più di un anno dal suo “esplodere”, la vicenda Palamara continua a devastare l’immagine della magistratura e dei suoi organi di rappresentanza (l’Associazione nazionale e le “correnti” che ne fanno parte), oltre che del Consiglio superiore della magistratura. È ormai regola in questo Paese che la pubblicazione di atti giudiziari contenenti riferimenti a condotte anche solo imbarazzanti - e non necessariamente integranti reato - scateni campagne denigratorie. Anche per la magistratura occorre usare attenzione e misura, non essendo accettabile che quanto sta emergendo dalla documentazione sequestrata nel caso Palamara sia ragione di crisi della Anm. Non appare in alcun modo condivisibile che si siano dimessi presidente e segretario dell’Anm. In particolare il presidente e i magistrati del suo gruppo di appartenenza lo hanno fatto perché non tutte le componenti dell’organismo direttivo dell’Associazione sarebbero disponibili a mantenere una posizione di fermezza, come quella assunta un anno fa, contro forme di “malcostume diffuso di correntismo degenerato e carrierismo spinto, fino a pratiche di vera e propria clientela”. Ciò non è servito ad evitare ingiustificati attacchi mediatici all’onorabilità dell’intera Associazione. Anzi, alcuni magistrati che erano stati già designati quali candidati a far parte del futuro Comitato direttivo hanno fatto un passo indietro. Ciò non sembra giusto perché proprio nei momenti difficili, come questo, occorre invece limitarsi a chiedere le dimissioni di chi ha violato regole deontologiche o attivare le valutazioni del “Collegio dei probiviri”. Non si può però negare l’insoddisfazione, ed anzi la forte delusione, dei magistrati per la logica, descritta ormai come imperante, che sembra ridurre l’Anm a mero contenitore di decisioni prese dalle correnti, minando l’effettiva unità associativa e rendendola formale e vuota di contenuti. L’Anm non può essere il luogo dove le correnti depositano i propri deliberati interni dettati da interessi particolari, così come il Csm non può essere l’istituzione dove le scelte dei dirigenti o l’attribuzione di altri incarichi avvengono sulla base di accordi e logiche premiali delle correnti. Se ciò è risultato purtroppo spesso innegabile, non si giustifica affatto la logica della rassegnazione, ma deve affermarsi quella della reazione virtuosa. Nella magistratura si assiste troppo spesso all’ingresso massivo del qualunquismo persino al suo interno: c’è chi auspica automatismi nelle nomine a incarichi direttivi e semi-direttivi, la penalizzazione di chi ha svolto attività fuori ruolo e chi continua a sostenere che la auspicata riforma del Csm deve partire da quella del suo sistema elettorale, invocando in varie forme l’ipotesi del sorteggio per designarne i componenti del Csm. Sarebbe lo strumento per contrastare le deviazioni torrentizie? No, sarebbe un’offesa enorme all’intera magistratura! È questo ciò su cui devono interrogarsi gli elettori: la migliore riforma consiste nell’invocare per i magistrati elettori, così come per i cittadini nelle elezioni politiche, una più approfondita conoscenza dei programmi e dei profili dei candidati. Una scelta consapevole che, senza cancellare luoghi di aggregazione ideale e culturale come le correnti devono essere, conferisce autorevolezza ai rappresentanti eletti. I magistrati e la deriva carrierista di Ezia Maccora* La Stampa, 25 maggio 2020 Quanto emerge dall’inchiesta della Procura di Perugia è una grande ferita per quei magistrati - la maggioranza - che tutti giorni svolgono con coscienza la propria funzione, cercando di garantire, anche nell’emergenza Covid-19, un servizio adeguato. È profondamente sentita la preoccupazione che ciò incrini la fiducia dei cittadini nell’operato della magistratura. Sono stata componente del Consiglio Superiore della Magistratura dal 2006 al 2010 in piena attuazione della riforma ordinamentale, che ha realizzato alcune richieste storiche della magistratura associata. A partire da quella della temporaneità degli incarichi direttivi fino all’abolizione dell’anzianità, in favore del merito e delle attitudini, nella selezione della dirigenza. L’intervento riformatore è stato un’occasione preziosa per avviare una svolta culturale della magistratura. Il nuovo meccanismo non avrebbe, ad esempio, più consentito la nomina di Antonino Meli all’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo negandola a Giovanni Falcone, come era accaduto il 19 giugno 1988. Non è stato facile attuare quella riforma, per le resistenze interne alla magistratura che non accettava il concetto di temporaneità dell’incarico direttivo. Eravamo nel contempo consapevoli che la riforma attribuiva una forte discrezionalità al Consiglio e che quest’ultimo e tutta la magistratura dovevano dimostrarsi in grado di gestirla correttamente. Oggi mi chiedo se quella “sfida culturale” è stata un’illusione e se la magistratura era veramente pronta a fare quel cambio di passo così “rivoluzionario”. La realtà sotto i nostri occhi ci dice che una parte dei magistrati non ha accettato e non accetta la scelta della dirigenza per merito e non per anzianità, così come non accetta la perdita delle funzioni direttive ricoperte, spesso vissuta come un trauma superabile solo procurandosi un ulteriore incarico, eventualmente anche più importante. Nel decennio successivo a quell’intervento riformatore si è anche sviluppata una nuova forma di carrierismo e il Consiglio non è riuscito a instaurare quel clima di fiducia verso le sue decisioni che era indispensabile in un momento in cui allontanandosi il requisito rassicurante e certo dell’anzianità aumentava l’ambito della discrezionalità. Non è stato neanche in grado di attuare una valutazione non formale dei dirigenti allo scadere del quadriennio, uno snodo fondamentale della riforma per rimuovere le professionalità inadeguate. In questo difficile contesto sono dilagate logiche clientelari e corporative ed hanno trovato spazio veri e propri centri di potere. L’indagine della procura di Perugia rappresenta un salto di qualità negativo assoluto se si considera che alcuni componenti del Csm hanno accettato di ritrovarsi in un albergo romano a discutere della nomina del procuratore della Repubblica di due importanti uffici - Roma e Perugia - con imputati e indagati di quelle stesse Procure, ammessi a interloquire su strategie complessive utili a influenzare chi doveva esprimere un voto per consentire quelle nomine. Soggetti anche esterni alla magistratura e appartenenti al mondo della politica. Un vulnus senza precedenti per il Consiglio Superiore, per l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, per la fiducia dei cittadini nella giurisdizione, che rende difficile per gli stessi magistrati continuare a tenere vivo quell’anelito riformatore in cui avevamo creduto. Ora il primo passo spetta a noi. Dobbiamo operare una forte autocritica su come abbiamo attuato la riforma del 2007, favorendo di fatto anche ciò che oggi l’inchiesta di Perugia ha svelato. Occorre disinnescare il carrierismo senza negare il valore ed il ruolo assunto dalla dirigenza degli uffici. La temporaneità effettiva nel ruolo di direzione di un ufficio giudiziario, potrebbe essere la migliore riprova che non si acquisisce uno “status” ma un incarico temporaneo per il buon funzionamento della giustizia. Il Consiglio superiore non è un semplice consiglio di amministrazione: è una istituzione di garanzia rappresentativa di idee, di prospettive, di orientamenti su come si effettua il governo della magistratura e su come si organizza il servizio giustizia. Ecco perché, l’attuale legge elettorale che ha, di fatto, sottratto il potere di scelta dei propri rappresentati ai magistrati- elettori, va modificata, investendo su sistemi che inducano il magistrato-elettore a valutare all’atto del voto, unitamente, uomini e idee, individualità e programmi. Un sistema elettorale in grado di rappresentare il pluralismo culturale presente in magistratura e nel contempo in grado di valorizzare la professionalità del magistrato e la sua indipendenza. Interventi che richiedono il sostegno del legislatore per facilitare il percorso di rifondazione di un’etica della responsabilità (dovere ineludibile) soprattutto di chi riveste compiti istituzionali e di rappresentanza, costruendo una temporaneità effettiva degli incarichi direttivi e una nuova legge elettorale. Un percorso necessario per salvaguardare l’indipendenza e l’autonomia della magistratura, funzionale alla richiesta di tutela dei diritti e al controllo di legalità che la nostra società richiede. *Presidente aggiunto Ufficio Gip Milano Perché è urgente riformare la giustizia (anche per l’economia). Parla Vietti di Stefano Vespa formiche.net, 25 maggio 2020 Le dimissioni dei vertici dell’Anm, le inchieste e gli arresti di e fra magistrati, le intercettazioni con protagonista Salvini e il caso Autostrade. Conversazione a tutto tondo con Michele Vietti, ex vice presidente del Csm, sulle riforme di cui ha bisogno la giustizia e non solo: “Serve un grande sforzo collettivo di selezione per accedere alle funzioni di responsabilità, altrimenti diamo l’idea che il treno sia senza guidatore”. “L’Italia ha bisogno di realizzare finalmente le riforme del Csm e della carriera dei magistrati, le proposte ci sono ma restano in un cassetto. E, in generale, c’è bisogno di selezionare una nuova classe dirigente”. Michele Vietti, avvocato e docente di Diritto commerciale, è stato tra l’altro sottosegretario alla Giustizia e vicepresidente del Csm. L’inchiesta sul pm Luca Palamara e le tante intercettazioni stanno gettando scompiglio tra le toghe, comprese le dimissioni dei vertici dell’Anm, e imbarazzo nella magistratura e nella politica: in questo quadro Vietti rilancia le proposte di cui si discute da anni. I nodi vengono al pettine nella magistratura: le intercettazioni dell’inchiesta sul pm Luca Palamara hanno portato alle dimissioni del vertice dell’Anm. Sta venendo meno la credibilità del potere giudiziario. Qual è l’impatto politico e, anche, sulla gente comune? Per la gente comune è negativo. In verità, per chi conosce il sistema, se le nomine degli uffici direttivi continuano a essere lottizzate tra le correnti e affidate ai giochi di potere, purtroppo non può stupire che ci si affanni a pietire con i capicorrente per indicare tizio o caio per un certo posto. Ma proviamo ad uscire dal pettegolezzo delle intercettazioni, che rappresentano peraltro una nemesi per i magistrati (a proposito: cosa si è fatto per regolare la loro pubblicazione?). Chiediamoci: un anno dopo l’inizio del cosiddetto caso Palamara, che cosa si è fatto? La tragica risposta è che non si è fatto nulla. Questo è il vero scandalo. Ricordiamo gli interventi di cui si parla inutilmente da anni? Si dovrebbe intervenire sulla legge elettorale del Csm, sul meccanismo di nomina degli uffici direttivi, su quello della progressione in carriera dei magistrati, sul sistema disciplinare che va assolutamente irrigidito. Se non si fa questo, e non lo si è fatto, la responsabilità è della politica. È maggiore la responsabilità della politica o la resistenza della magistratura a farsi “toccare”? Tutti i riformandi oppongono resistenza. La deriva del Csm sta nel fatto che da governo autonomo della magistratura come l’ha disegnato il costituente è diventato una sorta di autogoverno. La magistratura può anche non collaborare e così facendo si dimostra miope, come prova questo ritorno di fiamma, perché avrebbe dovuto anch’essa invocare a gran voce una riforma invece di dire “calati juncu ca passa la china” e attendere il passaggio della piena. Si confida sempre che tutto si risolva all’italiana perché la memoria collettiva si affievolisce e facciamo finta di niente. Il vicesegretario del Pd ed ex ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha detto che serve una seria riflessione su come riformare il Csm... Ho letto con piacere le parole di Orlando, bisogna fare questa benedetta riforma e ricondurre le correnti ad aggregazioni culturali e luogo di promozione di idee di politica giudiziaria, spezzando questo cordone ombelicale di voto, potere e nomine. Nel Vangelo è scritto “Oportet ut scandala eveniant”, ma è opportuno se poi facciamo tesoro degli scandali per cambiare. In alcune intercettazioni è stato attaccato Matteo Salvini in modo oggettivamente inaccettabile per l’imparzialità che dovrebbe caratterizzare la magistratura. L’imbarazzo è stato evidente... È grave. È vero che non si trattava dei magistrati impegnati nelle inchieste su Salvini, ma rappresenta comunque un vulnus al dovere del magistrato di apparire, oltre che essere, imparziale. Quante speranze ci sono di fare delle vere riforme? Ho presieduto una commissione nominata dall’allora ministro Orlando che nel 2018 gli consegnò una serie di proposte articolate per intervenire su questi temi. Un’analoga commissione presieduta dall’ex ministro della Giustizia ed ex presidente del tribunale di Roma, Luigi Scotti, aveva formulato varie alternative per cambiare la legge elettorale del Csm. Sono nei cassetti del ministero: si può cominciare a ragionarci? Nel frattempo avvengono fatti di cronaca come l’arresto del procuratore di Taranto, Carlo Maria Capristo, che alimentano una percezione sempre più negativa delle toghe... Soprattutto perché l’inchiesta riguarda fatti che risalivano alla procura di Trani e che Trani fosse un ufficio anomalo non è notizia di oggi: basti pensare alla convocazione della Consob e all’inchiesta sulle agenzie di rating. C’era già all’epoca qualcosa che non funzionava. Allargando il discorso, in questa emergenza cresce la voglia di derogare dalle norme per ottenere dei risultati, dal cosiddetto “modello Genova” alla richiesta di commissariare tutto... La credibilità di uno Stato dipende anche dalla certezza del diritto che è la condizione per attrarre investimenti nazionali e internazionali. Dove non ci sono certezza del diritto e regole chiare che vengono fatte rispettare non c’è neanche attrattività economica. L’Italia non cresce da decenni perché produce regole confuse che spesso non sono rispettate neanche da quelli che le scrivono. L’ignoranza che di frequente caratterizza la classe dirigente non è una scusante. Alla base c’è una scarsa preparazione che crea danni... L’unica cosa buona prodotta dall’epidemia è che la rivalutazione della competenza insieme con il rispetto delle regole. Non ci si può svegliare una mattina e interpretare le norme a proprio uso e consumo: è un atteggiamento che mette in fuga gli imprenditori. Fa riferimento alla questione Atlantia e alla controllata Autostrade esplosa dopo il crollo del ponte Morandi? Dal Movimento 5 stelle si chiede il commissariamento di un’azienda privata e quotata in Borsa... È un esempio di scarsa competenza su temi complessi. Oggi l’Italia vive una straordinaria emergenza, soprattutto economica, con una classe politica debole e una magistratura delegittimata. Una situazione rischiosa... Credo che bisognerà fare ricorso a tutte le nostre migliori risorse per uscirne, soprattutto selezionando una nuova classe dirigente, non solo politica. Ha ragione Ferruccio de Bortoli quando scrive sul Corriere della Sera dell’esigenza di una grande iniziativa di formazione e di educazione nazionale. I partiti non fanno più selezione e neanche le “agenzie” tradizionali come la Chiesa, il sindacato, la Confindustria. Serve un grande sforzo collettivo di selezione per accedere alle funzioni di responsabilità, altrimenti diamo l’idea che il treno sia senza guidatore. Cimini: “Palamara capro espiatorio: è guerra per bande e il problema è Davigo” di Paolo Vites ilsussidiario.net, 25 maggio 2020 L’Anm rischia lo scioglimento e lo scontro fra correnti è all’ultimo stadio. I silenzi del Colle. “Non siamo più da 40 anni in uno stato di diritto, c’è un conflitto di poteri, non c’è più la Costituzione, è una guerra per bande a cui i magistrati partecipano”. Così ci ha detto in questa intervista Frank Cimini, ex giornalista del Mattino di Napoli che ha seguito le cronache di Tangentopoli e che ora ha un blog, giustiziami.it. Siamo davanti al rischio dello scioglimento della giunta dell’Associazione nazionale magistrati dopo la pubblicazione di una serie di intercettazioni telefoniche che coinvolgono anche la corrente progressista delle toghe. Si sono già dimessi il presidente della corrente di Area e il segretario di quella di Unicost, restano solo quelle di Autonomia e Indipendenza. Tutto si fa risalire allo scandalo cosiddetto delle vacche, ci ha detto ancora Cimini, che vede coinvolto il magistrato Luca Palamara, il quale non è che uno capro espiatorio: “La magistratura oggi è una forza politica per conto suo senza appartenenze di partito. Si muove per accrescere il suo potere nella politica, questa è la vera lezione di Mani Pulite che nessuno vuole capire”. Cosa sta succedendo? Perché si parla di scioglimento di Anm e chi comanda? Comanda la magistratura associata, quella maggiormente politicizzata. Si sta rivelando una situazione di grande caos, temo per loro che la cosa stia sfuggendo di mano. Probabilmente per noi cittadini è perfino bene che questo accada. Ci sono state tante, troppe forzature. Ad esempio? Già quando è scoppiato lo scandalo del mercato delle vacche (il cosiddetto scandalo in seguito alle intercettazioni telefoniche del magistrato Luca Palamara, ndr) la cosa alla fine è stata dimenticata grazie all’aiuto dei giornali, che l’hanno silenziata e zittita. Si scopre oggi, da quei pochi giornali che hanno pubblicato le intercettazioni telefoniche, che anche i giornalisti giudiziari ci sono dentro fino al collo. Come mai? Dalle parole che si sentono si vede che c’è un rapporto di complicità, si mettono d’accordo su quello che devono scrivere, parteggiano per l’uno o per l’altro. Questo finisce per inquinare tutto. Il caso Palamara viene indicato come il momento da cui è scaturito tutto. È così? Sì, è stato l’inizio. Non so se sarà condannato, benché abbia delle colpe; le accuse più gravi sono cadute. Non si è cioè in grado di dimostrare la corruzione. Lui comunque è il capro espiatorio. Viene usato da tempo per scaricare tutto su di lui. Non siamo davanti a un caso Palamara, ma un caso magistratura. Come si è arrivati a questo punto e quale corrente influenza di più quanto succede nel Consiglio superiore della magistratura? Fino ad adesso l’uomo forte del Csm è Davigo. Più che la sua corrente è lui, però ha un problema. A ottobre compie 70 anni e deve andare in pensione. Lui dice che essendo un incarico elettivo ha diritto a portarlo a termine, ma essendo stato eletto in quanto magistrato non può restare. Perché non vuole lasciare? Non vuole andare via perché se si dimette subentra un collega che non la pensa come lui. Questo è un vero scandalo di cui non si parla. La colpa non è solo sua, ma le autorità di controllo, gli organismi istituzionali hanno il dovere di chiarire questa cosa. Non si può aspettare ottobre, il caso riguarda gli equilibri del Csm. Quello che sta succedendo adesso non dipende dal solo Davigo ma da quello che si permette a Davigo di fare. La gente si chiede se la magistratura è influenzata dalla politica o è una forza politica autonoma. Come stanno le cose? È una forza politica per conto suo senza appartenenze. Si muove per accrescere il suo potere nella politica, questa è la vera lezione di Mani Pulite che nessuno vuole capire o accettare. La magistratura con Mani Pulite è diventata da ordine giudiziario a potere giudiziario incontrollato e incontrollabile. Ci spieghi... Con Mani Pulite la magistratura deve riscuotere i crediti che ha acquisito negli anni di piombo, vuole comandare; mentre la politica è sempre più debole. Quando la politica è debole comandano il capitalismo finanziario, i grandi gruppi, e i magistrati. In questo caos non c’è nessuna forza politica che dica ai magistrati: siete come noi, anzi siete peggio di noi. E perché questo accade? Perché i politici vengono eletti, i magistrati invece vincono dei concorsi e hanno un potere smisurato che nessuno riesce a controllare. Cosa dovrebbe fare il capo dello Stato, che da Costituzione presiede il Csm? Il capo dello Stato brilla per il suo silenzio. Parlando alla commemorazione di Falcone e Borsellino ha detto banalità, acqua fresca. Lui in questo momento è il capo supremo, dovrebbe intervenire e invece si limita a far trasparire dai quirinalisti il suo malumore. Non basta. Presiede il Csm, ha il dovere di parlare. Aveva parlato tempo fa dicendo di cambiare registro, ma il registro non è cambiato. Dovrebbe intervenire e indicare delle soluzioni. Ritiene sia un problema caratteriale o politico? Ma no, lui fa così perché non sa cosa fare. Poi ci sono i suoi collaboratori in materia di giustizia che dalle intercettazioni si capisce che prendono parte alla baruffa, sfruttano il loro potere per intervenire e il caos aumenta. Dovrebbe mandarli tutti a casa. Come valuta in questo frangente la posizione di David Ermini, vicepresidente del Csm? Anche lui non fa una bella figura. Le correnti non hanno da tempo più nulla del loro carattere originario di confronto fra idee, sono organismi di potere, si condizionano le une con le altre. È una sorta di asilo Mariuccia, si dispiacciono per non essere stati invitati a una cena. Siamo ancora in uno Stato di diritto? No, non siamo da 40 anni in uno stato di diritto. C’è un conflitto di poteri, non si osserva più la Costituzione, è una guerra per bande a cui i magistrati partecipano. Chi può mettere fine al potere delle correnti interne all’Anm? È difficile capirlo a questo punto. Tutte le correnti hanno le loro responsabilità non si vede una via di uscita anche perché Mattarella tace. La responsabilità politica è tutta sua, dovrebbe dire qualcosa e invece fa finta di niente. Eredità Covid: il naufragio del processo penale telematico di Gian Domenico Caiazza Il Foglio, 25 maggio 2020 Proviamo a farglielo noi il funerale, al maledetto coronavirus: ci portiamo avanti con il lavoro, e diamo una sbirciatina al suo testamento. Tanta roba in eredità, in materia di giustizia. Intanto, forse una valutazione sociale un po’ meno becera del bene supremo della libertà personale. Dopo due mesi di arresti domiciliari generalizzati e di cervellotici Dpcm che hanno preteso di dirti perfino entro quante centinaia di metri da casa puoi farti una corsetta e chi è autorizzato a essere qualificato come tuo congiunto, questo paese innamorato di forca, carcere e “butta la chiave” qualche pensierino nuovo, o almeno un po’ più prudente, magari riesce a farlo. Questa idea, insomma, di uno stato che, sebbene in nome del diritto alla salute tuo e di tutti noi, mette il naso nella tua vita privata, pretendendo di regolarla anche sul taglio dei capelli, avrà finalmente perso un po’ del suo fascino perverso? Speriamo di sì. Ma intanto altre buone cose le abbiamo ereditate con certezza. Pe esempio, il definitivo naufragio del processo penale telematico. A un certo punto salta fuori l’idea: già che stiamo tutti in casa a smanettare con Zoom, Teams e Skype, facciamo pure i processi da remoto. Giudici, pm, imputati, testimoni, più o meno tutti a casa tranne il cancelliere, che deve verbalizzare e dunque deve starsene in aula solo come un’anima in pena, tra linee che cadono, volti che si “freezzano”, parti che si scollegano, che vedono ma non sentono, che sentono ma non vedono, insomma tutto il noto armamentario. Prima che una idea autoritaria del processo penale, come noi avvocati abbiamo subito denunciato, essa è soprattutto - non si dispiaccia il dott. Gratteri, appassionato ideologo di questa roba qui - una delle idee obiettivamente più stupide che si siano mai sentite proporre in tema di processo penale. Questa fondamentale manifestazione della vita sociale costruita, attraverso i secoli, sulle due immutabili sue connotazioni, ritualità e fisicità, dovrebbe d’improvviso dissolversi dentro lo schermo di tanti computer quante sono le parti in gioco. È una sfida al principio della impenetrabilità dei corpi. Leggete “Il mistero del processo” del grande Salvatore Satta, prima di blaterare simili idiozie. Tanto è vero che perfino se non ci fossero stati i penalisti italiani a vincere questa guerra contro la riduzione a icona del diritto di difesa, state certi che il videogioco sarebbe stato usato da pochi, pochissimi magistrati e avvocati, fanatici della telematica ai limiti del disturbo della personalità. Game over. L’altra, grande eredità che ci lascia il Covid è il definitivo, eclatante naufragio del modello di amministrazione e gestione degli uffici giudiziari fino a oggi vigente. Non sempre ereditare un disastro è solo un male. Può aiutarti a capire che è finalmente giunta l’ora di mettere mano al problema, e questo è il nostro caso. Gli uffici giudiziari - procure, tribunali, corti di appello eccetera - sono governati da magistrati, per meriti di carriera o di corrente qui non importa. Non per essere sempre autoreferenziali, ma sono decenni che noi penalisti poniamo una semplice domanda: in nome di quale know how un buon magistrato dovrebbe essere in grado di gestire realtà complesse quali un tribunale o una corte di appello? A fianco della guida giudiziaria, occorre una guida manageriale che sappia di gestione del personale, informatizzazione, accesso del pubblico, gestione delle emergenze. La pandemia ci ha detto che il re è nudo. Scoccata la fase due, la giurisdizione è nel più totale marasma. Ognuno per suo conto, senza gli strumenti minimi per governare una simile emergenza. Risultato? Tutto chiuso, ripresa dei processi tra lo zero e il venti per cento. Personale amministrativo in smart working all’amatriciana, visto che da casa non possono collegarsi alle banche dati riservate e nemmeno gestire una pec. E soprattutto, decisioni insindacabili. C’è chi apre due aule, chi cinque, chi fa i processi nel cortile, ma in linea di massima l’idea a oggi vincente è: tutto chiuso. Tanto gli stipendi arrivano puntuali in banca, e gli avvocati si arrangino. In un sistema giudiziario già collassato, questo gioco irresponsabile all’accumulo di un futuro arretrato totalmente ingestibile va in scena senza che nessuno possa metterci bocca. Se un giudice oggi rinvia la causa a febbraio 2021, in una città con zero o dieci nuovi contagi al giorno, non c’è nessuno, ma dico nessuno, che possa chiedergliene conto, a cominciare dallo stesso capo dell’ufficio. Monadi ingovernabili in piccoli o meno piccoli granducati, governati da sovrani che stabiliscono loro se c’è il rischio epidemico oppure no. Un disastro catastrofico: vuoi vedere che sia la volta buona che lo si capisca? Un patto tra magistrati e avvocati per sveltire il processo penale di Sergio Lorusso* Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2020 La polarizzazione dell’attenzione dell’opinione pubblica e dei mezzi d’informazione sull’emergenza Covid-19 ha relegato nell’angolo le tante criticità del processo penale, che pure oggi sembra essere scosso da un’onda anomala nata proprio dalle disposizioni straordinarie e temporanee dettate dal legislatore in materia. Il processo online - Al centro il processo a distanza, ovvero la possibilità di compiere determinati atti o attività “da remoto”. Non una novità assoluta, ma che viene estesa a trecentosessanta gradi attraversando fasi e gradi procedimentali. L’innovazione ha ingenerato il consueto scontro tra magistratura e avvocatura, che invece avrebbe dovuto cedere il passo al dialogo tenuto conto del momento ma anche delle potenzialità che l’occasione offre - nell’ottica più generale della giustizia digitale - per rendere più snello ed efficiente il processo svecchiandolo e depurandolo da incrostazioni ormai inaccettabili (in molti uffici giudiziari gli atti circolano ancora in forma cartacea e le copie richieste dai difensori vengono effettuate con le fotocopiatrici) e, al contempo, dando spazio a modalità di svolgimento “smaterializzate” delle udienze (da graduare in relazione alle loro caratteristiche) che non sono necessariamente in contrasto con le garanzie costituzionali. Da un lato, la completa digitalizzazione degli atti processuali (che consenta a tutte le parti la loro trasmissione mediante Pec), dall’altro l’utilizzo obbligatorio delle modalità in presenza soltanto per gli atti più delicati, a partire da quelli di formazione della prova (fatta salva la possibilità delle parti di accordarsi per l’utilizzo della modalità a distanza), che coinvolgono in prima battuta contradditorio e diritto di difesa. In mezzo atti e attività di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria e dal pubblico ministero - che, se unilaterali, non mettono in crisi le suddette garanzie - e udienze destinate a meri adempimenti formali (a partire da quell’udienza di smistamento non codificata ma elaborata dalla prassi) o, al più, all’esame di questioni processuali. Occorrerebbe poi distinguere in relazione alla complessità del processo, mediante parametri accuratamente definiti, privilegiando magari le vicende giudiziarie di più facile risoluzione in ragione del numero degli imputati e del “peso” dell’istruttoria dibattimentale o l’urgenza del procedimento. Si tratta solo di input, che necessitano naturalmente di un’attenta valutazione. Il processo reale cede il passo a quello virtuale? È un approccio sbagliato, che mette in contrapposizione due modalità di per sé non inconciliabili. La tecnologia riduce le distanze - L’evoluzione tecnologica, del resto, ha ridotto - pur senza annullarle - le distanze anche in questo campo, consentendo la trasmissione di immagini di elevata qualità che consentono di percepire sembianze fisiche, gestualità e linguaggio del corpo in maniera impensabile fino a qualche anno fa. La rivoluzione digitale è un dato di fatto. Non la si può ignorare. E l’emergenza pandemica che ci ha colto all’improvviso, come il cigno nero di Nassim Nicholas Taleb, rappresenta l’occasione non cercata né voluta per far emergere tendenze latenti che non possono essere ignorate da sterili approcci vintage. Il punto non è se debba o meno “contagiare” il processo penale - toccandolo fino alle sue fondamenta - ma come debba farlo. Il governo è impegnato nella perenne lotta contro i tempi irragionevoli del nostro processo, spesso utilizzando strumenti impropri. Interventi di questo genere potrebbero contribuire a semplificare - e, dunque, ad accelerare - le dinamiche procedimentali senza con questo ledere il diritto di difesa e le garanzie del “giusto processo”. A patto, però, che i contendenti processuali riescano a guardarvi senza preconcetti e mettendo da parte fazioni e schieramenti che non fanno bene alla giustizia penale. *Ordinario di diritto processuale penale Università degli Studi di Foggia Il paradosso degli eredi di Falcone: accusati di mafia da Pm che di Cosa nostra non sanno nulla di Piero Sansonetti Il Riformista, 25 maggio 2020 Il paradosso degli eredi di Falcone: accusati di mafia da giovani Pm che di Cosa nostra non sanno nulla. Personalmente ricordo molto bene quel giorno di 28 anni fa. Arrivò la notizia in redazione poco prima del Tg3 e restammo sgomenti. Falcone in fin di vita, Falcone morto, e anche sua moglie, morta, e gli uomini della scorta, e la potenza e la scientificità mostruosa dell’attentato. La Fiat Croma demolita dalla bomba. E poi un’altra cosa: il pensiero di quel che avevamo scritto e fatto nei mesi precedenti. Dico noi dell’Unità. Allora ero vicedirettore dell’Unità. Da qualche giorno il direttore era cambiato ed era venuto a dirigerci un giovane e brillante leader politico: Walter Veltroni. Cosa avevamo fatto e detto noi dell’Unità? Semplicemente avevamo con una certa cocciutaggine dato sponda ad una campagna contro Falcone. Con l’idea che Falcone avesse ceduto alle pressioni di quel pezzo di politica che era compromesso con la mafia e che Falcone volesse nascondere il “terzo livello”. In gergo si chiamava così: terzo livello. Si diceva che la mafia fosse fatta a tre strati: la truppa, poi i capi (cioè la cupola, che allora era guidata da Totò Riina il quale aveva spodestato il vecchio Greco) e infine il terzo livello, e cioè la direzione vera, composta da un certo numero di esponenti altissimi della politica italiana. La suggestione era che nel seggio più alto ci fosse Andreotti. Falcone smentì quell’idea, disse chiaramente che per fare la lotta alla mafia si doveva fare la lotta alla mafia. Cercando i soldi, gli indizi, le prove, i colpevoli. Usando la tecnologia, i pentiti, le proprie capacità di indagine sul terreno. E non inseguendo teorie bislacche scritte a tavolino. E neppure affidandosi alle speranze che dalla lotta alla mafia potessero venire dei danni per i propri avversari e quindi dei vantaggi per sé. Il terzo livello - disse - non esiste. Poco prima di lasciare la magistratura, costretto dalla guerra che gli facevano i colleghi - e la politica, e i giornali - Falcone aveva incriminato per calunnia un pentito - si chiamava Pellegritti - che voleva tirare in ballo Andreotti. Lo incriminò perché le sue accuse apparivano del tutto infondate e prive di riscontri. Falcone usò in modo molto spregiudicato i pentiti, però sapeva usarli: non andava dietro a chiunque e nemmeno pretendeva di imbeccarli. Li ascoltava, controllava, riscontrava, cercava prove. Dopo di lui nessuno più ha fatto così. I pentiti sono diventati i padroni delle Procure. Dicevo di quel pensiero: avevamo sbagliato tutto. Avevamo pensato che Falcone fosse un moderato, uno che voleva il compromesso. Che abbaglio. Falcone era semplicemente il più geniale investigatore mai apparso nel nostro paese, conosceva il suo mestiere, talvolta lo esercitava persino in modo spavaldo e forse eccessivamente aggressivo, e facendo così - in pochi anni - aveva inferto alla mafia i colpi più pesanti che mai la mafia avesse ricevuto in tutta la sua storia secolare. Falcone usò persino strumenti discutibili, come il maxiprocesso, e probabilmente lo fece sapendo che quegli strumenti erano discutibili, ma faceva queste cose dentro una visione politica e del diritto, e con la forza di una professionalità che nessun altro si è mai sognato di possedere. Falcone lavorava con un gruppo ristretto e molto fidato di collaboratori. Quando lasciò la procura di Palermo per andare a Roma con Claudio Martelli al ministero della Giustizia, lasciò in Sicilia alcuni dei suoi uomini più sicuri e combattivi. Volete un nome? Il più forte, il più illustre? Era un colonnello. Si chiamava Mario Mori. Aveva fatto esperienza col generale Dalla Chiesa, prima sulla frontiera del terrorismo e poi su quello di Cosa Nostra. Era abile, determinato, intelligente. Conosceva perfettamente Falcone, i suoi metodi, la struttura delle sue indagini. Stava lavorando su un dossier che aveva impostato con Falcone. Si chiamava Mafia e Appalti. Aveva messo insieme tutte le informazioni sui rapporti di Cosa Nostra con le imprese del Nord. Falcone fece pressioni perché il dossier fosse preso in mano da Borsellino. Anche Borsellino fece pressioni per averlo. Era un dossier che poteva travolgere la borghesia italiana. La mattina del 19 luglio (del 1992) il Procuratore di Palermo Giammanco telefonò a Borsellino e gli disse che gli avrebbe affidato il dossier. All’ora di pranzo però Borsellino fu ucciso. E in realtà cinque giorni prima della sua morte due sostituti di Giammanco avevano già firmato la richiesta di archiviazione di quel dossier. La storia del dossier finisce lì, muore con Borsellino tutto il lavoro di Falcone sui rapporti tra mafia e borghesia del Nord. Mori, dopo quel colpo, si ritirò in buon ordine, perché Mori è un carabiniere. E da carabiniere continuò la sua guerra strenua con la mafia. Era una guerra pericolosissima, perché aveva di fronte i corleonesi, quelli che i mafiosi siciliani chiamavano “I viddani”, che avevano travolto la mafia di Palermo e ora stavano conducendo una politica da esercito, non da cosca: da falange militare feroce, sparavano più che potevano, attentati, dinamite, morte morte morte. L’hanno persa quella battaglia i “viddani”, facendo e lasciando molte vittime sul campo. Mori l’ha vinta. Ma la compagnia dell’antimafia, quella che aveva perseguitato Falcone, gli si rivoltò contro, come aveva fatto con Falcone. Mori e i suoi uomini, cioè quel pugno di audaci militari combattenti che sconfisse l’esercito di Riina e salvò l’Italia da un bagno di sangue, oggi sono sotto processo. È il più spaventoso e triste paradosso della storia della repubblica. La mafia se la ride. Il processo “trattativa” quello voluto da Ingroia e Di Matteo è la più clamorosa ingiustizia della storia della Sicilia. Si fonda sulle accuse di un mafioso e del figlio di un mafioso: Brusca e Ciancimino. Gli eroi sono processati dai burocrati. I nemici della mafia messi sotto accusa da un apparato statale di dilettanti. Povero Falcone. Povero Falcone. P.S. Quel giorno, il 23 maggio, andai dal nuovo direttore e gli dissi che volevo scrivere un articolo per dire quanto e perché noi dell’Unità avevamo sbagliato a schierarci coi dilettanti dell’antimafia contro Falcone. Veltroni me lo fece scrivere e lo pubblicò, mi pare il giorno dopo. Io vado molto fiero di quell’articolo. Giustizia nel caos per il coronavirus. Rinviato a ottobre il processo a Salvini di Alessandra Ziniti La Repubblica, 25 maggio 2020 Il leader leghista imputato per la vicenda della Gregoretti. Le accuse: sequestro di persona per i migranti trattenuti a bordo della nave militare. Il dibattimento avrebbe dovuto aprirsi il 4 luglio. Il giudice Sarpietro: “Migliaia di cause rinviate, costretti a rimandare”. E sulle intercettazioni di Palamara: “Il senatore stia tranquillo, avrà un giudizio equo”. Il caos giustizia provocato dall’emergenza Coronavirus aiuta Matteo Salvini e, alla vigilia del voto del Senato sulla nuova richiesta di rinvio a giudizio per il caso Open Arms, il leader leghista vede allontanarsi lo spettro del processo che è invece già Stato deciso dopo che mesi fa il Parlamento ha concesso l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti chiesta dal tribunale dei ministri di Catania, di parere diverso rispetto al procuratore Carmelo Zuccaro che aveva chiesto l’archiviazione. Il processo, che vede Salvini imputato sempre di sequestro di persona per i migranti trattenuti a bordo della nave militare Gregoretti, avrebbe dovuto aprirsi a Catania il 4 luglio, ma è Stato rinviato ad ottobre. Il presidente dell’ufficio del giudice dell’udienza preliminare Nunzio Sarpietro che si occuperà personalmente del caso è stato costretto al rinvio: “I nostri ruoli sono stati travolti dallo stop per l’emergenza coronavirus, ci sono migliaia di processi rinviati che hanno precedenza e ho dovuto spostare l’inizio del processo che vede imputato il senatore Salvini ad ottobre”, spiega. Salvini in queste ore cavalca la strategia del timore di un giudizio precostituito nei suoi confronti dopo le intercettazioni sulla chat dell’ex consigliere del Csm Palamara. Ma Sarpietro, dopo aver letto le parole scritte da Salvini a Mattarella, lo rassicura: “Stia tranquillo il senatore Salvini, avrà un processo equo giusto e imparziale come tutti i cittadini. Né io né nessun giudice che si è occupato di questo fascicolo abbiamo nulla a che spartire con Palamara. E sono d’accordo con lui: quelle intercettazioni tra magistrati sono una vergogna”. Stranieri minori, no regole standard per i gravi motivi che autorizzano l’ingresso del familiare di Mario Finocchiaro Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2020 Cassazione - Sezione I civile - Ordinanza 6 marzo 2020 n. 6472. Le situazioni che possono integrare i gravi motivi (connessi con lo sviluppo psicofisico e tenuto conto della età e delle condizioni di salute del minore che si trova nel territorio nazionale) che autorizzano il tribunale per i minorenni ad autorizzare l’ingresso o la permanenza del familiare, per un periodo di tempo determinato, di cui all’articolo 31, comma 3, del decreto legislativo n. 286 del 1998, non si prestano a essere catalogate o standardizzate. Quindi secondo la Cassazione, ordinanza 6 marzo 2020 n. 6472, incombe su chi richiede l’autorizzazione l’onere di allegazione della specifica situazione di grave pregiudizio che potrebbe derivare al minore dall’allontanamento del genitore, non essendo sufficiente la mera indicazione del pericolo di disgregazione familiare, della necessità di entrambe le figure genitoriali, o la allegazione di un disagio in caso di rimpatrio insieme ai genitori o a causa dall’allontanamento di un genitore. Spetta, infine, al giudice del merito, valutare le circostanze del caso concreto, con particolare attenzione. E il giudice, investito della richiesta di autorizzare l’ingresso o la permanenza del familiare di un minore che si trovi in Italia, per un periodo di tempo determinato, è chiamato, in primo luogo, ad accertare la sussistenza di gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore stesso. Esaurito positivamente tale accertamento, a fronte del compimento da parte del familiare istante di attività incompatibili con la permanenza in Italia, il giudice potrà negare la autorizzazione solo all’esito di un esame complessivo, svolto in concreto e non in astratto, della sua condotta, cui segua un attento giudizio di bilanciamento tra l’interesse statuale alla tutela dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale e il preminente interesse del minore. Esimente del diritto di cronaca nel reato di diffamazione a mezzo stampa Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2020 Reati contro la persona - Delitti contro l’onore - Diffamazione - A mezzo stampa - Diritto di cronaca - Configurabilità. In tema di diffamazione a mezzo stampa e di scriminante del diritto di cronaca, è configurabile una soglia di tolleranza, capace di sottrarre all’area della rilevanza penale le discrasie tra la realtà oggettiva e i fatti così come filtrati e riportati nell’articolo, le quali, alla luce anche del contesto in cui si inseriscono, sono definibili come marginali o secondarie, individuando caso per caso il discrimine nella effettiva capacità offensiva del bene giuridico tutelato dalla fattispecie incriminatrice. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 14 maggio 2020 n. 15093. Reati contro la persona - Delitti contro l’onore - Diffamazione a mezzo stampa - Esimente del diritto di cronaca - Verità della notizia. Non è irrilevante per la reputazione di un soggetto l’attribuzione di un fatto illecito diverso da quello su cui effettivamente si indaga o in relazione al quale viene esercitata l’azione penale e pertanto, in tema di diritto di cronaca giornalistica, la verità della notizia mutuata da un provvedimento giudiziario sussiste solo qualora essa sia fedele al contenuto del provvedimento stesso. • Corte di cassazione, sezione 5 penale, sentenza 6 maggio 2020 n. 13782. Diffamazione a mezzo stampa - Circostanze aggravanti - Condanna - Omesso controllo - Responsabilità del direttore del quotidiano - Statuizioni civili - Presupposti - Morte dell’imputato - Estinzione del reato - Sospensione condizionale della pena - Revoca del beneficio - Articolo 190 c.p.p. - Elementi probatori - Art. 51 c.p. - Dichiarazioni testimoniali - Utilizzabilità - Valutazione del giudice di merito - Criteri. In tema di diffamazione a mezzo stampa, l’attribuzione di una condotta intenzionale, che può integrare gli estremi di reato, supera certamente il limite della continenza, ed esclude, pertanto, la scriminante del diritto di critica, la quale non può essere invocata allorché siano attribuite condotte illecite o moralmente disonorevoli. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 29 aprile 2020 n. 13268. Stampa - Cause di giustificazione - Diritto di cronaca - Limiti - Verità del fatto - Contenuto - Rilevanza di marginali inesattezze - Esclusione - Fattispecie. In tema di diffamazione a mezzo stampa, ricorre l’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca qualora, nel riportare un evento storicamente vero, siano rappresentate modeste e marginali inesattezze che riguardino semplici modalità del fatto, senza modificarne la struttura essenziale. (In applicazione del principio, la S.C. Corte ha ritenuto immune da censure la decisione che aveva negato la sussistenza dell’esimente di cui all’art. 51 cod. pen.nei confronti del giornalista e direttore di un giornale per la pubblicazione di un articolo che, nel riferirsi all’attività professionale di un medico veterinario, aveva falsamente esposto che questi aveva millantato un intervento chirurgico mai eseguito, laddove invece, in realtà, detto intervento era stato eseguito, pur se in modo errato). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 30 settembre 2016 n. 41099. Reati contro la persona - Delitti contro l’onore - Diffamazione - Col mezzo della stampa - Cronaca giudiziaria - Limiti - Titolo che non trovi alcun riscontro negli atti giudiziari e in specie nell’oggetto dell’imputazione - Integrazione del reato di cui all’art. 595 cod. pen. In tema di diffamazione a mezzo stampa, non sussiste l’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca (nella specie giudiziaria) qualora il titolo dell’articolo attribuisca alla persona offesa nei cui confronti penda un procedimento penale - una condotta sostanzialmente diversa da quella avente riscontro negli atti giudiziari e nell’oggetto dell’imputazione; né, a tal fine, rileva l’estraneità del titolo al resoconto giudiziario esposto nell’articolo, in quanto il titolo di un articolo di stampa può assumere carattere diffamatorio non solo per il suo contenuto intrinseco ma anche per la sua efficacia suggestiva rispetto al testo dell’articolo, in specie ove esso ne travisi e amplifichi il contenuto. (Nella specie il testo dell’articolo riferiva di un procedimento penale relativo a irregolarità verificatesi nella sperimentazione della terapia oncologica Di Bella, avente per oggetto l’ipotesi di reato di cui all’art. 443 cod. pen., per avere somministrato ai pazienti farmaci con composizione diversa da quella indicata nei protocolli della terapia Di Bella mentre il titolo era del seguente tenore “così hanno truffato Di Bella”. La S. C. ha ritenuto che il termine ‘truffa contenuto nel titolo non trovava alcuna corrispondenza nel procedimento penale di cui riferiva l’articolo in questione). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 8 febbraio 2011 n. 4558. Belluno. “Uepe, un ufficio in città: ora ci sono le premesse” di Federica Fant Il Gazzettino, 25 maggio 2020 Uffici di esecuzione penale esterna: sono cambiate le regole. Con impegno si potrebbe farne aprire uno anche a Belluno. Il consigliere comunale di minoranza, Raffaele Addamiano chiede che si lavori per raggiungere l’obiettivo. “Sono stati creati - esordisce Addamiano (Obiettivo Belluno Fratelli d’Italia) - i primi nuclei di polizia penitenziaria negli uffici di esecuzione penale esterna e ci sono una settantina di funzionari ad hoc pronti a prendere servizio. Queste le novità per quanto riguarda gli Uepe. A Belluno come siamo messi?”, si domanda il consigliere, che lo scorso novembre aveva scritto una mozione in proposito. Era poi passata con successo in Consiglio comunale, proprio sulla necessità che il comune di Belluno si adoperasse per ottenere un ufficio Uepe nell’ambito della giustizia di prossimità. È un servizio fondamentale, tanto più in un territorio interamente montano, quale la provincia di Belluno. L’ufficio in questione si occupa, tra le altre cose, di monitorare le attività degli uffici di esecuzione esterna e di tenere rapporti con gli enti locali e le organizzazioni di volontariato per l’attività trattamentale e per la stipula di convenzioni per lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità ai fini della messa alla prova, ovvero quel beneficio di legge che consente all’imputato di estinguere il reato con lavori socialmente utili. A suo tempo il Garante dei detenuti, Emilio Guerra, espose ai consiglieri comunali la sua relazione annuale, ricordando come nella casa circondariale di Baldenich c’erano, qualche mese fa, 88 detenuti su 87 posti disponibili. Di quelli 61 erano stranieri, con prevalenza albanese e marocchini. Ma al di là dei dati, il dottor Guerra aveva lanciato un appello ai consiglieri: “Muovetevi, ci aveva detto racconta il consigliere Raffaele Addamiano -, occorre una forte sensibilizzazione per costruire un ufficio Uepe. Il Garante ci aveva fornito un altro dato: si pensi che sono 787 i casi in provincia che vengono smaltiti dall’ufficio Uepe, solo nello scorso anno”. A fine novembre Addamiano aveva presentato una mozione in Comune che chiedeva di cercare di far istituire un Uepe a Belluno. Chiedeva, in particolare, due cose: rendere gli uffici a Treviso fruibili al Bellunese, senza dover quindi arrivare fino a Mestre e, seconda questione, impegnarsi per ottenere un ufficio direttamente a Belluno, sempre sulla scorta della giustizia di prossimità, cioè vicina al cittadino. “Abbiamo lavorato di comune accordo - ha ricordato il consigliere di Obiettivo Belluno con l’onorevole Luca De Carlo di Fratelli d’Italia, che ha presentato al ministro Alfonso Buonafede un’interrogazione, chiedendo si attivasse per l’ufficio Uepe in comune di Belluno. Ora arriviamo al punto che il Governo ha messo a disposizione una settantina di funzionari, che potrebbero ricoprire quell’incarico conclude Addamiano - oltre ad agenti della polizia penitenziaria”. Alla luce di queste possibilità il Comune e il Tribunale di Sorveglianza di Venezia, se interpellato, potrebbero arrivare ad un accordo. Padova. Un cono al gusto di “libertà”: aperta in via Roma la Gelateria Giotto padovaoggi.it, 25 maggio 2020 Il gelato artigianale viene prodotto all’interno del carcere di Padova nel laboratorio della Pasticceria Giotto, conosciuta per l’impegno nel recupero e reinserimento sociale dei detenuti”. “È in una giornata di pioggia che vogliamo comunicare che ci trasferiamo. Perché questo periodo, per noi è un po’ come una stagione di pioggia in cui nessuno entra per chiedere un gelato, troppo freddo e troppa poca voglia per un cono ghiacciato. La nuova apertura doveva essere una festa, oggi è ancora di più. Assume i toni rossastri di questo tramonto che ci auguriamo porti il sereno dopo il temporale, del vento tiepido che speriamo spazzi via le nubi nella notte, del sole che ci auguriamo splenda alto, domani. Per festeggiare tutti insieme, mangiando un gelato colorato che avrà #ilgustodellalibertà”. L’annuncio - fatto sulla pagina Facebook - risale al 28 aprile. E ora, meno di un mese dopo, quello speciale cono al “gusto della libertà” si può finalmente mangiare: aperta da venerdì 22 maggio in via Roma a Padova la Gelateria “Giotto”. Il nome vi suggerisce qualcosa? Esatto: il gelato artigianale viene prodotto proprio all’interno del carcere di Padova nel laboratorio della Pasticceria Giotto, conosciuta per l’impegno nel recupero e reinserimento sociale dei detenuti. Ecco perché il gelato è “buono 2 volte”. Ed ecco perché sa di libertà... Ministero dell’Istruzione e Rai aprono una “aula virtuale” per i Cpia (e i detenuti-studenti) rai.it, 25 maggio 2020 Ministero dell’Istruzione e Rai aprono in tv una nuova “aula”, dedicata agli iscritti ai Centri Provinciali per l’istruzione degli adulti (Cpia). Un progetto nato per non lasciare indietro nessuno. Da lunedì 25 maggio prende il via “La Scuola in Tivù - Istruzione degli adulti”. La trasmissione andrà in onda su Rai Scuola (canale 146) dal lunedì al venerdì alle 11.00 e, in replica, alle 16.00 e alle 21.00. Un percorso didattico di 30 puntate organizzato su quattro assi culturali (dei linguaggi, matematico, storico-sociale e scientifico-tecnologico): 22 lezioni, una per ciascuna delle competenze previste dai percorsi di istruzione per gli adulti di primo livello, più altre 8 di approfondimento. Le 30 puntate sono rivolte agli adulti iscritti ai Cpia che sono quasi 230mila, di cui più di 13mila i detenuti che studiano nelle sezioni carcerarie. In particolare, le lezioni sono destinate agli iscritti ai percorsi di primo livello. “La Scuola in Tivù - Istruzione degli adulti” va ad aggiungersi alla programmazione speciale messa in campo dal Ministero dell’Istruzione e dalla Rai in occasione della sospensione delle lezioni a scuola a seguito dell’emergenza sanitaria. Ogni giorno, su diversi canali televisivi, viene proposta un’offerta dedicata alle diverse fasce d’età: dai più piccoli fino agli studenti che devono affrontare gli Esami di Stato del secondo ciclo. A tenere le video-lezioni per gli adulti saranno docenti dei 130 Cpia presenti in Italia. Insegnanti che conoscono bene gli studenti e le loro necessità. Il programma della prima settimana prevede lezioni per interagire oralmente in maniera efficace e collaborativa; leggere, comprendere e interpretare testi scritti di vario tipo (asse dei linguaggi); operare con i numeri interi e razionali (asse matematico); orientarsi nella complessità del presente (asse storico-sociale) e osservare, analizzare e descrivere fenomeni appartenenti alla realtà naturale e artificiale (asse scientifico-tecnologico). Appello urgente per il rispetto dei diritti umani dei detenuti nel mondo politicamentecorretto.com, 25 maggio 2020 L’europarlamentare M5S Marco Zullo è uno dei firmatari della lettera aperta che denuncia le gravi violazioni dei diritti umani nelle carceri e chiede l’immediato rilascio dei prigionieri politici detenuti nel mondo. “Durante questa crisi globale, i detenuti appartengono a una delle categorie più vulnerabili rispetto a un possibile contagio - dichiara l’eurodeputato Marco Zullo del Movimento 5 Stelle - per questo motivo nei giorni scorsi mi sono fatto promotore di una lettera aperta firmata da 17 Premi Sakharov (il premio Sakharov è il premio assegnato ogni anno dal Parlamento Europeo a uno o più difensori dei diritti umani che si siano particolarmente distinti per le proprie battaglie) e da numerosi altri eurodeputati. Nella lettera, denunciamo queste gravi violazioni e chiediamo l’immediato rilascio dei prigionieri politici detenuti”. Prosegue Zullo “le carceri sono luoghi in cui spesso il sovraffollamento, la mancanza di ricambio d’aria e la promiscuità rendono particolarmente difficile la rigida applicazione delle prescrizioni sanitarie, quando non anche il mantenimento delle più basilari norme igieniche. Se ciò è tristemente vero per l’Italia - come denuncia il XVI Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione presentato ieri e come abbiamo denunciato più volte anche noi in passato - è ancor più vero per quei Paesi in via di sviluppo in cui le condizioni carcerarie si caratterizzano anche per l’assenza di acqua corrente, di cibo salubre e per condizioni di detenzione spesso inumane e degradanti, quando non anche per il compimento di veri e propri atti di tortura”. “Ho accolto con soddisfazione le notizie relative alle misure deflattive prese da alcuni Paesi - continua l’eurodeputato - in linea con le raccomandazioni delle Nazioni Unite. È tuttavia deprecabile che in molti casi da queste misure siano stati scientemente esclusi gli oppositori politici e i difensori dei diritti umani, a volte con l’intento positivo di esporli a un maggior rischio di contagio. Ciò avviene in spregio alle disposizioni su “Covid-19 e detenuti” congiuntamente emanate dall’Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite e dall’Oms e in violazione della Convenzione Onu contro la tortura e altri trattamenti inumani e degradanti. Oggi più che mai è importante tenere alta l’attenzione dei media e della società su queste gravi violazioni dei diritti umani. Durante una pandemia che colpisce indiscriminatamente uomini e donne di ogni nazionalità ed estrazione sociale, non possiamo rischiare di dimenticarci dei soggetti vulnerabili”, così in una nota l’europarlamentare Marco Zullo. Africa, aumentano i morti per Covid-19. Migranti osservati speciali di Graziella Melina Il Messaggero, 25 maggio 2020 L’Onu: “Possibili 3,3 milioni di vittime” Ieri 400 arrivi in Sicilia, il Viminale alza l’allerta. Vella: tutti sottoposti a screening. L’aumento dei casi da Covid 19 in Africa preoccupa le autorità sanitarie mondiali. I contagiati hanno superato le 100mila unità, mentre i morti sono circa 3200. Ma vista la mancanza di strutture assistenziali adeguate, il direttore regionale dell’Oms per l’Africa Matshidiso Moeti continua a lanciare l’allarme: “Per ora - mette in guardia - è stato risparmiato al continente un elevato numero di morti che hanno devastato altre aree del mondo”. Del resto, l’Onu qualche giorno fa aveva dato un numero impressionante: 3,3 milioni di vittime possibili. In realtà, almeno in questa fase, l’emergenza africana è tenuta sotto controllo anche dai Paesi più vicini, come l’Italia appunto. Secondo il report pubblicato ieri dall’Istituto Nazionale Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani di Roma, in Africa finora “l’impatto della pandemia è stato meno grave che in Asia, Europa o Nord-America. Dieci nazioni concentrano il 75% del totale dei casi del continente, ma in 25 nazioni è attiva la trasmissione comunitaria del virus. Circa il 60% dei casi del Sud Africa, pari al 10% dei casi di tutta l’Africa, si concentra nella sola Città del Capo”. La ragione sarebbe da attribuire al “maggiore afflusso di turisti nella città sudafricana rispetto al resto del continente, e in quattro focolai particolarmente importanti, verificatisi in due supermercati, in una industria farmaceutica e una miniera d’oro, che hanno causato una diffusione sostenuta del virus”. Anche l’Istituto Superiore di Sanità monitora da tempo l’epidemia e delinea i possibili scenari: “Forse l’Africa - rimarca l’Iss - potrebbe contrastare l’impatto dell’epidemia grazie a un’ipotetica immunità genetica al Sars-CoV-2, o grazie alle temperature più calde che potrebbero rendere il virus meno attivo, oppure grazie alla prevalente giovane età della popolazione africana”. L’età media è infatti di 19,7 anni, il 60% della popolazione ha meno di 25 anni. Ma c’è da tenere in considerazione anche il problema dell’impossibilità di tracciare il reale numero dei contagiati: molti casi, infatti, potrebbero non essere riconosciuti come tali, o perché asintomatici o perché non sottoposti a test specifici. Eppure, l’Ufficio della Regione africana dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sostiene che più di 40 Paesi sarebbero ora in grado di utilizzare i test specifici, rispetto agli unici due che erano in grado di farlo all’inizio del 2020, ossia Sud Africa e Senegal. A preoccupare le autorità italiane, in realtà, è la possibilità che il virus arrivi dall’Africa in modo incontrollato. Ieri erano circa 400 i migranti sbarcati sulla battigia di Palma di Montechiaro, nell’Agrigentino, e poi in fuga lungo le strade e le campagne. Cinquantadue persone provenienti dall’Africa subsahariana, fra cui alcune donne, sono state invece bloccate dai carabinieri della stazione di Linosa, dopo che erano riusciti ad arrivare sugli scogli della più piccola isola delle Pelagie. Un altro barcone sarebbe stato intercettato in acque internazionali mentre si dirigeva verso l’Italia. E l’attenzione del Viminale su questa nuova ondata è alta. Ma il pericolo che il virus arrivi in Italia portato dai migranti è bassissimo, assicura Stefano Vella, ex direttore del Centro nazionale per la salute globale dell’Istituto Superiore di Sanità e docente di Global Health all’Università Cattolica di Roma. “Queste persone ci mettono talmente tanto ad arrivare che è impossibile che siano contagiati. Il Covid è una malattia acuta, non è come l’Aids. È più probabile che portino la tubercolosi, e proprio per questo al loro arrivo vengono sottoposti ad uno screening accurato. Nel caso in cui provengano dalla Nigeria, è possibile che abbiano già avuto la malattia e ora abbiano sviluppato gli anticorpi. Di certo non la portano durante il trasbordo”. Intanto, l’epidemia potrebbe mettere a rischio un programma locale sanitario legato invece all’hiv: secondo l’Oms una sospensione anche soltanto di sei mesi nella fornitura di farmaci retro-virali nell’Africa subsahariana potrebbe portare entro il 2021 a mezzo milione di morti aggiuntive. I nostri soldati in Africa e la guerra sporca del Sahel di Domenico Quirico La Stampa, 25 maggio 2020 L’abbiamo già sentita più di una volta, questa storia: è la famosa dottrina detta “lotta al terrorismo”, madre di errori, di delitti e di rare, pericolose vittorie. La più recente, in cui stiamo per infilarci anche noi italiani, si chiama con nome in codice “takuba”, ovvero la guerra francese per tenersi nelle transalpine saccocce il Sahel. Un luogo fuori mano, orribile e grandioso come certi paesaggi infernali disegnati da Gustavo Doré. Inesistente, come spesso accade in questo Paese, l’attenzione alle scelte di politica internazionale; si segue come i ciechi incespicanti di Briigel. Alla penombra contribuisce la pratica, di furbizia paesana, di presentare sempre le spedizioni all’estero con accenti pudicamente minimalisti, umanitari, da protezione civile: addestramento di sgangherate polizie, ospedali da difendere. Nel caso elicotteri e forze speciali servirebbero al soccorso dei feriti sul campo di battaglia. Una croce rossa con le mitragliere, insomma. Ma quelli sono i Paesi dei migranti, ricorda qualcuno. Appunto, si risponde, così li aiutiamo a stare a casa loro. Meglio dirlo subito. La guerra che si combatte in quei luoghi, Niger, Burkina Faso, Mali, e di cui diventeremo automaticamente complici di fronte alle popolazioni che la subiscono, è una guerra francese di pacificazione coloniale, un mosaico di feroci conflitti locali: odi tra contadini e nomadi, avversioni tribali, lotte zoologiche per l’acqua, poveri contro meno poveri, sazi e digiuni, ignudi e vestiti. I jihadisti ci sguazzano, ne sono diventati una parte, si cuciono addosso queste rivalità, ci gettano sopra il frettoloso mantello di dio. A commettere atrocità, per liquidare oppositori o etnie scomode, ovviamente dietro le spicce necessità della guerra al jihadismo, sono anche i corrotti governi, infeudati alla Francia, che andiamo a puntellare. Esempio: il Burkina Faso. Chissà se a Roma sanno che è diventato un luogo di esecuzioni di civili sepolti in frettolose fosse comuni nella sabbia, jihadisti del tutto presunti trovati sulla pista con i polsi legati, corpi crivellati dalla mitraglia, senza processo, senza accuse? I militari, i nostri alleati, regolano i conti con i peul, pastori nomadi di pelle chiara come i tuareg, altre vittime designate. La Sicurezza diventa indiscriminata mattanza: già visto, ahimè. Chissà se alla Farnesina hanno mai sentito parlare dei peul, delle loro mandrie di vacche moribonde, dei loro buffi cappelli di paglia. I jihadisti del Sahara, grazie alla miseria, eterno reclutatore, hanno fatto proseliti tra loro. Certo non di massa. Ma qual è il rapporto causa-effetto? Le “conversioni” vengono prima o dopo i soprusi e le violenze subite? Enigma delicato. E decisivo. Attraversiamo allora questa zona del Sahel dove l’antiterrorismo è diventato una rendita finanziaria e diplomatica per regimi putridi, false indipendenze che saccheggiano i propri popoli sotto l’occhio benevolo della République, eterno padrone di tutto, politica economia, sicurezza. Lasciamo per favore le capitali dove si fermano le visite dei nostri presidenti e ministri degli Esteri, incantati dai sorrisoni di pittoreschi leader locali in boubou. Sarebbe imbarazzante verificare le loro biografie di democratici impresentabili: elezioni truffaldine, clan dediti al saccheggio, conti in banca alimentati con gli aiuti allo sviluppo, contributi europei per fermare i migranti, per modernizzare gli eserciti contro la jihad. Sì, anche quelli rubano. Via dai quartieri ricchi dove finiscono le verzure, l’aria condizionata le ambasciate e le banche grandi come cattedrali, ovviamente tutte “per lo sviluppo”. Superiamo periferie interminabili di baracche e capanne dove vecchi dagli occhi lacrimosi e bambini in cenci ci osservano, muti, come guardiani dei morti. Il fiume Niger resta indietro, sembra vacillare su tratti di sabbie chiare, tenendo accanto a sé il verde e la vita. Ci attende un panorama elementare, uno schema di pianori più o meno livellati, sterminate sequenze dell’immane sterrato desertico. Poi si alzano, salendo verso Nord, cordoni di ciglioni rocciosi sempre più alti, montagne buone per scene da giudizio finale, ornate solo di pietre e di cespugli di coriacee piante miserande, coperte di polvere, si direbbe appese a una morte perenne. La solcano piste deserte, lo punteggiano villaggi abbandonati che sembrano aver spento gli occhi. La guerra la affronteremo qui: l’aria presto rovente, che pare decomporre corpi e anime. Il luccichio grigio salino delle pietraie è vertiginoso, si ha l’impressione di procedere a piccoli vortici di argento vivo. Cosa sono quelle sagome che brillano per poi improvvisamente sparire e poi rifarsi più visibili e minacciose? Pick up dello stato islamico del Grande Sahara? O trafficanti di droga in viaggio verso Nord? Migranti in disperato cabotaggio? O una colonna dei cercatori d’oro che corrono verso Tchibarakaten e il mito della ricchezza: un chilo di metallo che a Dubai è venduto per 40 mila euro, loro che vivono in un Paese dove il salario è di 45 euro. Nessun drone ti può aiutare in questa immensità. Bisogna andare a vedere. Il luccichio guizza via, impicciolisce, si perde in una risacca di polvere. La guerra sporca del Sahel: peul tuareg dogon massacri squadre di autodifesa eserciti stracciati e feroci come predoni trafficanti che hanno in tasca il Corano e anche l’adesione al “Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani”, ultima reincarnazione di Al-Qaeda nel Sahara. Percepisci lo squallore di un Paese in guerra, una infezione così grave che sembra corrompere la terra e privarla di colore e di suoni. Questo non è un campo di battaglia, semmai un posto dove si commettono omicidi, eccessi di vendetta, traffici sudici. La Francia è qui perché si sente padrona, l’ultimo posto al mondo dove ancora non si sente un Paesucolo di pensionati, aziende decotte e gilet gialli. L’Africa è nostra, allons enfants! Qui non comandano Hollande o Macron o i diplomatici del Quai d’Orsay. Questa è proprietà dei generali, quelli che napoleone chiamava “les muratiens”, tutto braveria e niente testa, che vedono il mondo come una caserma un po’ più grande. I generali amano le idee semplici, si ispirano ai romanzetti di Laterguy. Che molte rivolte nel cortile saheliano nascondano non le fumerie degli odiatori jihadisti ma soprattutto le macerie eloquenti del malgoverno non interessa. Guerra totale e un po’ di aiuti, qualche pozzo scavato qua e là, una infermeria affidata ovviamente non a quei pasticcioni della cooperazione ma ai militari: il soldato che cura un bambino, perfetto per la copertina di Paris Match. La Francia qui difende le sue illusioni. Ma noi? Egitto, proseguono gli arresti dei giornalisti di Riccardo Noury Corriere della Sera, 25 maggio 2020 “Sostegno al terrorismo” e “diffusione di notizie false”. Le accuse sono sempre le stesse così come lo stesso è il destino cui vanno incontro i giornalisti indipendenti in Egitto: il carcere. Dopo il breve fermo e successivo rilascio su cauzione di Lina Attalah, direttrice del portale Mada Masr, negli ultimi 10 giorni sono stati arrestati almeno altri tre giornalisti: Sameh Hanin, cristiano copto, Haisam Hasan Mahgoub e Moataz Abdul Wahab. La fonte è la Rete araba di informazione sui diritti umani, la stessa che il 21 maggio ha denunciato l’arresto ad Alessandria di una sua ex ricercatrice, Shayma Samy, che collaborava col giornale di un partito socialista. Dopo tre giorni, deve ancora comparire negli uffici della procura. Tecnicamente la sua è l’ennesima sparizione. Iran. Grazia a 3.721 detenuti per la fine del Ramadan ansa.it, 25 maggio 2020 Tra loro alcuni prigionieri politici compreso noto sindacalista. La Guida suprema iraniana, Ali Khamenei, ha concesso la grazia a 3.721 detenuti per la festività della fine del Ramadan, l’Eid al Fitr. Tra di loro figurano alcuni prigionieri politici, compreso il noto sindacalista Esmail Bakhshi. Il presidente Hassan Rohani ha inviato messaggi di auguri ai capi di Stato dei Paesi islamici, esprimendo l’auspicio che si possano presto “superare i problemi che affliggono l’umanità, particolarmente il coronavirus”. Colombia. Nelle carceri è allarme Covid-19, aumentano i detenuti contagiati di Davide Dionisi vaticannews.va, 25 maggio 2020 È allarme Covid nelle carceri colombiane. Gli ultimi dati parlano di 1065 casi positivi, 16 ricoverati e 4 morti. Giovedì scorso si sono aggiunti altri nove casi nell’istituto La Ternera di Cartagena e un altro a Villavicencio, a 67 chilometri a sud di Bogotà, risultando il principale focolaio della malattia nell’ambito dei penitenziari del Paese. Sovraffollamento oltre il 51% - Il tutto in una situazione di sovraffollamento pari al 51 per cento in eccesso rispetto alla capacità di contenimento delle celle, ovvero una palese violazione dei diritti fondamentali. Profonda preoccupazione, di fronte ad una situazione che non accenna a rientrare nella norma, è stata espressa dal Segretariato Nazionale per la Pastorale Sociale-Caritas Colombia per le ripercussioni che l’aumento dei casi potrebbe avere sul sistema sanitario interno. Umanizzare gli istituti - Richiamando la solidarietà di tutti nei confronti delle persone private della libertà, delle loro famiglie, del personale amministrativo e delle guardie, l’organismo della Conferenza episcopale ha ricordato “l’urgente necessità di affrontare la crisi umanitaria nelle carceri con misure che rispettino la dignità umana e proteggano la salute dei detenuti”. In un comunicato viene anche sollecitato l’immediato intervento per “umanizzare gli istituti”, che vuol dire creare le condizioni ottimali di permanenza non solo per gli ospiti, ma anche per il personale che presta servizio in loco. “Garantendo, in primis, le misure di sicurezza e prevenzione”. La situazione delle donne - Si chiede inoltre un programma di ridistribuzione della popolazione carceraria, unita ad una accelerazione dei processi, per superare il sovraffollamento. Inoltre il Segretariato ritiene fondamentale la tutela delle donne ristrette. “Pensiamo soprattutto alle mamme con figli sotto i tre anni, a quelle malate e alle anziane che in questo momento sono ancora più vulnerabili”. Lo scritto richiama l’attenzione anche alle forze dell’ordine e agli agenti di polizia penitenziaria che, negli istituti più difficili, corrono maggiori rischi. Gli scontri all’indomani della diffusione del virus - All’indomani della diffusione del Covid, in 13 case di reclusione si sono verificate numerose proteste da parte dei detenuti. Gli incidenti più gravi a Bogotà, nei centri di detenzione maschili, La Picota e La Modelo, e in quello femminile El Buen Pastor. La rivolta scoppiata nella prigione La Modelo, nella capitale, è stata sedata dall’esercito e dalla polizia carceraria, con un bilancio di almeno 23 detenuti morti. In seguito agli scontri, lo scorso 15 aprile il presidente Ivn Duque ha firmato un decreto che ha consentito la scarcerazione per sei mesi di almeno 4.000 detenuti.