Lettera aperta al Sottosegretario alla Giustizia Giorgis di Carla Chiappini* Ristretti Orizzonti, 24 maggio 2020 Andrea Giorgis ha recentemente riconosciuto la necessità di dare nuovo impulso all’area penale esterna e alle misure di comunità. Gentile Dottore, mi permetto dunque di proporle alcune riflessioni, anticipandole subito - per necessità di chiarezza - il punto di osservazione da cui le scrivo. Da cinque anni, insieme a un gruppo di giovani laureate in Scienze dell’Educazione sono impegnata a Piacenza con una piccola ma tenace associazione nell’accoglienza di persone messe alla prova. In questo lasso di tempo, ormai non brevissimo, sono quasi 90 i soggetti di cui ci siamo occupati, offrendo un servizio importante alla intera comunità cittadina ma anche al sistema della giustizia e all’Ufficio Distrettuale di Esecuzione Penale Esterna di competenza, che per noi è quello di Reggio Emilia. Purtroppo quello che abbiamo visto lungo questi anni ci ha parecchio scoraggiato: giudici frettolosi, assistenti sociali competenti e in genere molto generose ma oberate di lavoro, totale indifferenza delle istituzioni. Lavorare così è davvero demotivante. Nel nostro caso specifico, mettiamo sul tavolo a titolo gratuito competenze certificate (e non solo millantate come purtroppo spesso accade), competenze che sul mercato professionale hanno un costo anche molto alto. Le rare volte in cui abbiamo avuto occasione di presentare la complessità di un impegno serio nell’ambito della MAP, abbiamo trovato generica gratitudine e qualche inutile applauso di cui non ci importa un bel niente. Di cui, per essere più chiara, “francamente me ne infischio!”. Vorremmo impegnarci per un Paese serio, che alle pregevoli dichiarazioni ideali, faccia seguire impegni concreti. Senza sforzi economici non si va da nessuna parte. Abbiamo bisogno di giudici ordinari formati sul senso della messa alla prova, di assistenti sociali che vadano a integrare il personale sovraccarico degli uffici, di educatori che le affianchino, di psicologi. Arrivano da noi ragazzi giovanissimi imputati per rissa, guida in stato di ebbrezza, spaccio e coltivazione di erba. E sono tanti. In un sistema di giustizia serio e integrato si potrebbe lavorare molto bene con loro, invece l’edificio scricchiola da tutte le parti e troppo spesso siamo noi volontari a sostenere e contenere le situazioni di crisi. Come e quando possiamo, con passione e - ci tengo a sottolinearlo - competenza. Fino a quando? Non lo so, francamente non lo so. Certo è facile sentirsi scoraggiati e delusi. Lo ribadisco con parole più chiare: aspettiamo di vedere impegni concreti e non generiche dichiarazioni di buona volontà, aspettiamo di essere ascoltati con attenzione. Non abbiamo bisogno di pacche sulle spalle ma di un confronto alla pari e di serietà istituzionale. Grazie *Giornalista, presidente dell’Associazione “Verso Itaca Onlus” e componente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia No al sovraffollamento, sì alle tecnologie: sul carcere non torniamo indietro di Lucia Aversano retisolidali.it, 24 maggio 2020 Presentato il Rapporto Antigone sul carcere: la crisi può trasformarsi in opportunità, se non torniamo al sovraffollamento precedente. “Il Sedicesimo rapporto di Antigone è un rapporto anomalo rispetto a quelli passati: sarà studiato negli anni a venire”, esordisce così Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, nel corso della presentazione del rapporto tenutasi in diretta streaming il 22 maggio 2020. Al suo interno, infatti, oltre ai dati relativi al 2019, sono stati riportati i dati riguardanti i primi mesi del 2020, inerenti alla situazione degli istituti penitenziari durante l’emergenza covid19. Sono dati incoraggianti, secondo Antigone, che mostrano come sia possibile ridurre il sovraffollamento delle carceri grazie alle misure alternative, e come l’emergenza Covid19 abbia alleggerito una delle emergenze croniche italiane, quella del sovraffollamento carceri. Il pericolo del contagio - “A fine febbraio”, si legge nel rapporto, “i detenuti erano 61.230 a fronte di una capienza regolamentare di 50.931 posti. Le donne in tutto erano 2.702, il 4,4% dei presenti, gli stranieri 19.899, il 32,5%. Il tasso di affollamento ufficiale era dunque del 120,2%, anche se sappiamo che, allora come oggi, i posti effettivamente disponibili erano circa 4mila in meno, e dunque il tasso di affollamento effettivo era intorno al 130%”. Il report restituisce la fotografia di un 2019 in cui la popolazione carceraria aumenta e invecchia. I dati presentati raccontano che “alla fine del 2019 oltre il 50% dei reclusi aveva piu? di 40 anni, mentre l’8,6% era over 60”. Emerge inoltre che questi ultimi sono raddoppiati rispetto a 10 anni prima, passando dal 4,1 del 2009 all’8,6 dello scorso anno. Questi numeri, letti in un’ottica di emergenza sanitaria, risultano essere allarmanti (ne abbiamo parlato anche qui) per questo il Terzo settore, insieme alle Amministrazioni, hanno collaborato strettamente e incessantemente per evitare che le carceri divenissero focolai pandemici. Sebbene non tutte le richieste del Terzo settore, per contrastare la pandemia, siano state accolte, i contagi all’interno del carcere, al momento, sono stati contenuti: 119 tra le persone detenute e 162 tra il personale. Questo grazie alle misure prese: dall’inizio della pandemia i detenuti reclusi nelle strutture penitenziarie sono diminuiti di 7.326 unità, che corrisponde ad un calo del 12%. “Di conseguenza”, evidenzia il rapporto, “è sceso anche il tasso di affollamento medio del Paese, che ha raggiunto il 107%. Restano però critiche alcune situazioni come quelle di Latina (179,2%), Taranto (187,6%) o Larino (194,7%)”. L’introduzione delle tecnologie - Le condizioni di vita dei detenuti, durante l’emergenza, già difficili per via del sovraffollamento, sono peggiorate con l’interruzione delle attività, prima, e dei colloqui con l’esterno, poi. Per tale ragione, e per evitare l’esacerbarsi delle tensioni all’interno delle strutture, si è giunti rapidamente all’implementazione di quelle tecnologie che da anni vengono richieste da più parti, e che fino ad oggi erano utilizzate raramente e da pochissimi penitenziari. Grazie anche al contributo di aziende private del settore delle telecomunicazioni, che hanno donato i supporti tecnologici necessari, sono stati introdotti strumenti tecnologici per far sì che i ristretti potessero continuare ad avere un contatto con l’esterno che non si limitasse ai 10 minuti di telefonate settimanali. Tali implementazioni sono state fatte su larga scala, avvenimento impensabile fino a qualche mese prima, sebbene il dibattito attorno a questo tema sia in atto da decenni. Non torniamo indietro - Se i numeri di marzo e aprile, rispetto al sovraffollamento carceri, sono scesi costantemente, facendo sperare un’inversione di tendenza, già a maggio si sta registrando un rallentamento nella concessione delle misure alternative. “I numeri con cui è iniziata la pandemia erano numeri in affanno”, ribadisce Pietro Gonnella, presidente di Antigone. “Quei numeri rendono difficile la pena come costituzionalmente prevista e dunque non bisogna tornare indietro nell’applicazione delle misure alternative, ma bisogna perseguire questa strada; e non bisogna tornare indietro nemmeno sulle concessioni tecnologiche perché la tecnologia può evitare l’isolamento, aiutare la didattica e può essere utilizzata per l’informazione di qualità”. A margine della presentazione del Rapporto, nel suo intervento conclusivo, Mauro Palma, tra i fondatori di Antigone, ribadisce un concetto forse banale, ma quanto mai attuale: quello di “costruire un nuovo linguaggio intorno al carcere”, evitando l’accezione sempre negativa che viene utilizzata per descrivere tale realtà, che non permette un ragionamento sulla tematica scevro dai pregiudizi. Emma Bonino: “21mila detenuti in attesa di giudizio ed esclusi dai benefici” farodiroma.it, 24 maggio 2020 La crisi profonda delle carceri descritta da Emma Bonino in Parlamento. “Le condizioni terribili” delle carceri italiane sono state illustrate dalla leader di +Europa, Emma Bonino, nel dibattito parlamentare sulla sfiducia al ministro Bonafede. “Signor collega - ha chiarito la Bonino - le comunico, come lei ben sa, che i boss al 41bis scarcerati sono 3, di cui 2 malati e ultraottantenni. Dico questo per essere chiari. Le dico anche che nella lista dei 300-400 detenuti scarcerati, oltre 120 non hanno mai avuto neanche il primo grado di processo e altri 200 non hanno mai avuto condanne definitive. E se voi siete contenti che un giornalista spari in prima serata l’elenco (nome e cognome, senza neanche la data di nascita), a me questo fa paura, perché tanti possono essere i casi di omonimia e tante persone possono finire in questo macello giudiziario. Ieri nelle carceri italiane c’erano ancora 21.000 detenuti in attesa di giudizio, il 40 per cento del totale. Vi sembra possibile? Lei così non governa le carceri, ma paga semplicemente una tangente ideologica al populismo penale, anzi al populismo penitenziario. E lei sa che, tra gli altri che rimangono, più di 17.000 hanno meno di due anni da scontare e 8.000 solo un anno; quindi tra un anno saranno comunque fuori. Io non so, signor Ministro, cosa succederà; lo scopriremo presto. Sappiamo però che della malattia della giustizia italiana lei è solo un sintomo e non un rimedio; quindi non sarà lei a liberarcene. Al contrario, se rimarrà in via Arenula, contribuirà a renderla cronica, diffondendo come sentimenti prevalenti non la fiducia, ma la paura della giustizia. In conclusione: dov’è finita la riforma del codice penale? Mi dica anche dov’è finita la promessa riforma del Consiglio superiore della magistratura, così tanto in prima pagina, e non per buone ragioni, in questi giorni. Basta tutto questo, per me, per dire che voglio una giustizia che non faccia paura ai cittadini, ma restituisca loro la fiducia nel giusto processo e nella corretta amministrazione. I boss della mafia, il Covid e le prigioni di Sergio Nazzaro ansa.it, 24 maggio 2020 Anche il sistema carcerario italiano è stato messo in crisi dalla pandemia e dalla mafia. Come in tutte le emergenze nazionali, la mafia ha aggravato la situazione e ne ha approfittato: dal 7 al 9 marzo, una crisi ha scosso l’Italia quando il Paese è stato testimone di alcuni scontri in carcere, che in alcuni casi hanno portato allo scoppio di epidemie. La violenza è stata scatenata da due principali catalizzatori: il divieto di visita alle famiglie, legato al Covid-19, e il crescente rischio di contagio della popolazione carceraria. Ma non sono stati questi gli unici fattori che hanno portato alla crisi carceraria italiana: circa sei settimane dopo, l’annuncio dell’imminente rilascio di numerosi capi mafiosi per motivi di salute ha suscitato un diffuso sdegno: l’Italia ha una delle più grandi popolazioni carcerarie d’Europa e da tempo lotta contro il sovraffollamento delle strutture carcerarie, soprattutto a causa dell’elevato numero di detenuti in attesa di giudizio. Questa è una delle maggiori sfide che il sistema carcerario italiano deve affrontare. Nel 2013 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che il sovraffollamento delle carceri del Paese viola i diritti fondamentali. Un’altra questione controversa nel sistema carcerario italiano è il cosiddetto regime del “41-bis”, un sistema di detenzione speciale di alta sicurezza per i detenuti condannati per reati di mafia o di terrorismo. Il regime (che prende il nome dall’articolo 41b della legge sull’amministrazione penitenziaria) è riservato ai capi mafiosi più pericolosi e prevede il completo isolamento dei detenuti, ai quali non è consentito alcun contatto con l’esterno. A novembre 2019, pochi mesi prima dello scoppio della pandemia, in Italia erano 753 i detenuti (741 maschi e 12 femmine) detenuti sotto questo regime di alta sicurezza. La stragrande maggioranza di essi era stata condannata per reati di mafia: di questa parte della popolazione carceraria, 268 provenivano dalla Camorra (un’associazione mafiosa della regione Campania e di Napoli), 230 da Cosa Nostra (la mafia siciliana) e 202 dalla ‘Ndrangheta (un ramo associato alla regione Calabria meridionale del Paese). I restanti detenuti sono quelli che hanno legami con altri gruppi della criminalità organizzata, come la Stidda, la Sacra Corona Unita e altri. Il regime carcerario 41-bis è oggetto di molti dibattiti sia a livello nazionale che europeo. Nel 2007 un giudice americano ha respinto la richiesta di estradizione dell’Italia per il boss mafioso Rosario Gambino, con la motivazione che il regime carcerario equivaleva alla tortura, citando la Convenzione Onu contro la tortura. Il caso più recente per riaccendere l’acceso dibattito è stato quello del mafioso Marcello Viola nel 2019, in cui la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) ha deciso che l’erogazione dei benefici carcerari doveva essere concessa anche ai detenuti che non collaboravano con le autorità, fino ad allora esclusi da tali benefici. Si è sostenuto che la collaborazione con lo Stato non può essere l’unico mezzo per valutare un detenuto, ma il regime carcerario 41-bis non è solo costituzionale, ma è ritenuto da molti necessario. L’Italia è la patria di una serie di criminali di alto profilo, da cui l’unicità della legislazione antimafia del Paese, e le decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, o di un giudice degli Stati Uniti, potrebbero apparire ad alcuni come una sottovalutazione dei potenziali rischi associati all’allentamento delle restrizioni sui boss mafiosi. Cittadini rinchiusi, detenuti evasi due giorni prima che il primo ministro italiano, Giuseppe Conte, annunciasse un blocco nazionale, parte delle misure del governo per contrastare la pandemia, i violenti disordini sono scoppiati spontaneamente nelle carceri italiane in tutta la penisola sabato 7 marzo. Le proteste, legate al sovraffollamento e ai timori per la diffusione della malattia, continueranno per tutto il fine settimana, con sporadici episodi di violenza che si protrarranno per diverse settimane. I cittadini italiani, ora confinati nelle loro case per legge, hanno assistito alla trasmissione di immagini di evasioni, di carceri in fiamme e di battaglioni di agenti delle forze dell’ordine che lottano per mantenere l’ordine, sia all’interno che all’esterno delle carceri. Durante quei pochi giorni, sembrava che si stesse materializzando lo scenario peggiore - che l’ordine democratico del Paese fosse sull’orlo del collasso. All’11 marzo, 14 prigionieri erano morti durante i disordini e centinaia di agenti di polizia penitenziaria erano rimasti feriti. I danni alle proprietà sono ammontati a decine di milioni di euro e hanno ridotto la capacità del sistema carcerario di 2.000 unità, prima conseguenza tangibile dei disordini. Tuttavia, secondo l’opinione pubblica, uno degli eventi più critici è stato l’evasione di 72 detenuti da un carcere della città sudorientale di Foggia, tra cui alcuni pericolosi mafiosi. Nelle 48 ore successive, le forze dell’ordine sono riuscite a radunarne 61 in una caccia all’uomo senza precedenti, mai vista nella storia della Repubblica Italiana. Ma molti erano ancora in libertà e, come la pandemia stessa, che si era infiltrata costantemente nei tendini della società, il panico pubblico generato dalle epidemie e dai disordini in carcere si è diffuso in modo virale sui servizi di messaggistica. Immagini di edifici in fiamme, di prigionieri in fuga e di folle di detenuti che distruggevano le celle del carcere sono state condivise freneticamente da milioni di italiani in tutto il Paese; la messaggistica sociale e i video hanno dato l’impressione che lo Stato stesse perdendo il controllo del sistema carcerario, il luogo della sicurezza che separa i buoni dai cattivi, i cittadini dai criminali. Proprio come il coronavirus stava dilaniando la popolazione, c’era il timore che lo facessero anche i criminali: “Non ho dubbi che sia stata la mafia a orchestrare i disordini meticolosamente pianificati”, ha detto un investigatore veterano specializzato nel sistema carcerario, che ha voluto rimanere anonimo. Appena sono iniziati i disordini, i parenti dei detenuti sono stati subito fuori a protestare - era quasi come se lo sapessero”. Lo sapevano, questo è certo. Che i detenuti mafiosi possano aver dato inizio ai disordini è una teoria credibile - dopo tutto, i cellulari sono stati scoperti nelle sezioni di alta sicurezza di alcune carceri che detengono prigionieri di 41-bis, e sono in corso indagini sui meccanismi che hanno permesso il contrabbando”. L’obiettivo finale dei gruppi mafiosi all’interno del sistema carcerario è quello di mantenere il controllo delle loro reti comunicando con il mondo esterno. Per dirla con le parole di un alto funzionario penitenziario, questi detenuti sono “continuamente sostenuti dal loro mondo criminale”. E, come l’esperienza precedente ha dimostrato, i gruppi mafiosi approfittano delle emergenze. Nel caso del terremoto del 1980 in Irpinia, nel Sud Italia, una fonte stima che una parte significativa dei 26 miliardi di euro spesi per la ricostruzione sia stata utilizzata per arricchire i clan camorristi come i Casalesi: dopo l’evasione, la liberazione non poteva essere più infausta. A poche settimane dalla rivolta carceraria, una nota inviata dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che alludeva alla potenziale liberazione di boss mafiosi dal carcere per motivi di salute è arrivata come un secondo colpo per l’opinione pubblica italiana, ancora scossa dai recenti disordini in cui decine di detenuti erano riusciti a fuggire. La nota del dipartimento chiedeva ai direttori delle carceri di rivelare i nomi di tutti i detenuti che presentavano condizioni di salute, al fine di valutare le misure appropriate da adottare nel caso in cui il servizio penitenziario non fosse in grado di fornire le cure sanitarie necessarie. Il sistema penitenziario italiano è fortemente carente di strutture sanitarie adeguate, come ha chiarito una fonte del Ministero della Giustizia (sotto il quale ricade il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria): Il documento in sé non rilascia i detenuti - questo è chiaro. Ma di fronte a noi c’è una mafia che sa sfruttare ogni minima concessione”. I detenuti in regime del 41-bis sono al sicuro, sono isolati. Ma molti di loro sono in cattive condizioni di salute e hanno bisogno di cure, il che significa che, se le autorità carcerarie non possono fornirle, è colpa nostra. “Anche se il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, in risposta all’indignazione pubblica per l’idea di un potenziale rilascio di alcuni mafiosi, ha inviato una dichiarazione il 20 aprile, chiarendo di non aver emanato alcuna disposizione in merito al rilascio dei detenuti di alta sicurezza (e sostenendo che si trattava solo di un “esercizio di controllo”), sembra probabile che gli avvocati dei capi mafiosi abbiano identificato una lacuna nella normativa che ha permesso loro di presentare richieste di rilascio per i loro clienti, in particolare quelli di età superiore ai 70 anni. Questi sono in generale i cosiddetti “vecchi capi”. Tra questi ci sono i capi dei capi - i più anziani della Cosa Nostra, la Camorra e la ‘Ndrangheta. Diversi sono stati rilasciati. Il 10 aprile Rocco Santo Filippone, sotto processo per aver ordinato i bombardamenti che hanno ucciso due carabinieri nel 1994, è stato liberato. Malato e anziano, il boss della ‘Ndrangheta è stato messo agli arresti domiciliari senza nemmeno un cartellino elettronico. Il 22 aprile Francesco Bonura, il cui rilascio è previsto 11 mesi dopo, è stato liberato per gravi problemi di salute. Due giorni dopo, il 24 aprile, Pasquale Zagaria, il cervello economico del clan Casalesi, è stato liberato. Zagaria, che stava scontando la sua condanna sotto il regime del 41-bis, ha il cancro. Tuttavia, non essendoci un ospedale in grado di curarlo, a causa della priorità dei letti d’ospedale per l’emergenza acuta Covid-19 in Italia, Zagaria è stato mandato a scontare il resto della sua condanna agli arresti domiciliari a Pontevico, in Lombardia. La decisione di liberare questi prigionieri ha suscitato gravi critiche da parte di molti, tra cui un magistrato antimafia: “È una follia assoluta, un grave errore”. La decisione di liberare questi prigionieri ha provocato gravi critiche da parte di molti, tra cui un magistrato antimafia: “È una follia assoluta, un grave errore”. Oppure si sarebbe potuto trovare un altro carcere di massima sicurezza con la capacità di curarlo. In nessun caso gli si sarebbe dovuta offrire alcuna concessione. Manda un messaggio così terribile al Paese. ... stiamo parlando di un genio dell’economia criminale, quindi è ancora più pericoloso di molti altri. Questo non fa altro che mandare un messaggio ai nostri cittadini che, mentre sono prigionieri nelle loro case, i boss della mafia sono liberi di andare e venire a loro piacimento: “Al momento di scrivere, il più noto boss camorrista vivente, Raffaele Cutolo, detenuto sotto il regime del 41-bis dal 1993, è in attesa di una decisione sul suo potenziale rilascio dal carcere. Cutolo, un “super boss” della mafia italiana, ormai anziano e malato, non ha mai presentato ricorso, non ha mai mostrato rimorso per i suoi crimini (sta scontando diverse condanne a vita per omicidio) e non ha mai collaborato con lo Stato. Ha una notevole conoscenza interna. Il suo rilascio avrebbe un effetto devastante su tutta la società italiana: mentre l’Italia ha lottato per affrontare l’emergenza Covid-19, come molti altri paesi europei, i gruppi mafiosi italiani hanno gestito l’emergenza alla perfezione. La loro risoluta determinazione e capacità di coordinare le attività dimostra non solo il pericolo che rappresentano, ma anche la loro capacità di cogliere le opportunità non appena si presentano. Appena due settimane dopo il primo confermato caso di coronavirus in Italia, la mafia ha orchestrato alcuni dei più estesi scontri carcerari della storia italiana, dimostrando di essere in sintonia con le difficoltà del Paese in stato di emergenza. Hanno inoltre dimostrato la loro intricata conoscenza della legislazione del Paese in materia di regolamentazione delle carceri. Sono stati in grado di garantire l’accesso alle comunicazioni e alle informazioni, con conseguente rilascio di alcuni membri anziani dei loro consorzi e la mafia è sempre un passo avanti rispetto alle forze dell’ordine. La mafia è sempre un passo avanti rispetto alle forze dell’ordine e può quindi manipolare le norme burocratiche che regolano la legge e le istituzioni. La mafia ha gestito l’emergenza così come gli scienziati impiegati per contrastarla, facendo leva sulla crisi a loro vantaggio, sullo sgomento degli italiani rispettosi della legge. Come il virus stesso, anche la mafia ha rischiato di contagiare la società. Ogni telefonata non controllata è una vittoria per loro, ogni prigioniero rilasciato è una vittoria. La mafia non è stata intimidita dalla pandemia perché sapeva di avere la capacità di sfruttarla a proprio vantaggio. Dall’inizio della crisi, sono stati rilasciati agli arresti domiciliari 376 detenuti condannati per reati di tipo mafioso o in custodia cautelare, di cui 4 detenuti sotto il regime carcerario di massima sicurezza 41-bis, tra cui il boss camorrista Pasquale Zagaria, due boss di Cosa Nostra, Francesco Bonura e Vincenzo Di Piazza, e un boss della ‘Ndrangheta, Vincenzo Iannazzo. Altri 456 detenuti hanno chiesto di essere rilasciati agli arresti domiciliari e il 2 maggio il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sotto la cui sorveglianza si sono verificati i disordini e i rilasci penitenziari, ha rassegnato le dimissioni. Al suo posto c’è Bernardo ‘Dino’ Petralia, un pubblico ministero e un uomo descritto dal Ministro della Giustizia come “che ha dedicato tutta la sua carriera alla giustizia e alla lotta alla mafia”. Petralia è stato il magistrato che ha portato alla scoperta di una delle più grandi raffinerie di droga appartenenti alla mafia negli anni Ottanta. Il vicecapo del dipartimento è Roberto Tartaglia, una delle figure di spicco nelle indagini sul patto tra mafia e stato. La crisi carceraria in Italia durante la pandemia Covid-19 equivale a un manuale di istruzioni di errori da evitare e di opportunità che la mafia è in grado di cogliere. I boss della criminalità italiana hanno saputo sfruttare così bene l’emergenza per un semplice motivo: i virus mortali sanno riconoscersi e rispettarsi a vicenda. Dap. Via il capo dell’ufficio detenuti dopo le “liberazioni” dei mafiosi di Liana Milella La Repubblica, 24 maggio 2020 Giulio Romano era al vertice della struttura che si occupa specificatamente del controllo sui detenuti. Si sarebbe dimesso “per ragioni personali”. Ancora dimissioni al vertice delle carceri. Mentre arriva la notizia che è stato appena riportato in cella Francesco Barivelo, condannato per l’omicidio dell’agente di polizia penitenziaria Carmelo Magli. Era in Alta sicurezza ed era stato scarcerato poche settimane fa. Ma torniamo alle dimissioni di Giulia Romano. Dopo il direttore Francesco Basentini, lascia adesso il direttore dell’ufficio detenuti, una figura gerarchicamente strategica nel Dap, poiché sovrintende proprio alla collocazione dei reclusi nelle singole prigioni, ne controlla e autorizza gli spostamenti, si occupa anche del loro trattamento. Per intenderci, quando al vertice di questa struttura c’era l’attuale pm di Marsala Roberto Piscitello fu lui che seguì i casi di Riina e Provenzano che chiedevano, per gravi motivi di salute, di lasciare i rispettivi penitenziari per essere trasferiti in normali ospedali. Piscitello invece propose soluzioni interne, cioè le sezioni degli ospedali già attrezzate per ospitare i detenuti posti al 41bis. Il vertice dell’ufficio detenuti, lo dice la parola stessa, è strategico nella gestione di chi entra ed esce dalle carceri, della sua sistemazione, dei suoi trasferimenti per i processi, dei compagni di cella. Si tratta di un vero e proprio osservatorio che deve avere una sensibilità estrema su quanto accade ogni giorno nelle prigioni. Giulio Romano era al Dap da febbraio, quindi da pochi mesi. Proveniva dalla Cassazione, dov’era stato sostituto procuratore generale dopo un passato da magistrato di sorveglianza. Lo scrive il sito Poliziapenitenziaria.it che dà la notizia delle dimissioni, senza fornire ulteriori informazioni. Il ministero della Giustizia invece parla di dimissioni “per ragioni personali”. Anche il vertice del Dap sostiene che è stato Romano stesso a lasciare. Ma inevitabilmente le sue dimissioni sorprendono dopo le polemiche dei giorni scorsi sulle scarcerazioni dei quasi 500 mafiosi (di cui però la metà non definitivi, quindi in stato di carcerazione preventiva), di cui tre al 41bis, ma gli altri collocati nell’area cosiddetta di Alta sorveglianza Tre, quella più attenuata, nella quale comunque sono reclusi capi e picciotti organici a Cosa nostra. Ormai è noto che una causa scatenante delle scarcerazioni decise dai magistrati di sorveglianza è stata la circolare del 21 marzo in cui il Dap scriveva ai suoi provveditori e direttori delle carceri per sollecitare l’invio senza ritardo alla magistratura, in relazione al rischio Covid, degli elenchi di detenuti con gravi patologie (di cui c’era anche l’elenco), nonché di quelli che superavano i 70 anni. Un foglio firmato di sabato da una funzionaria. Che invece, proprio per il suo significato e le conseguenze che poteva produrre (come in effetti ha prodotto), avrebbe dovuto essere firmato da un responsabile ad alto livello delle prigioni. Quel foglio, comunque, una volta giunto sui tavoli dei magistrati, ha sortito l’unico effetto che poteva avere: valutare la segnalazione del Dap come un motivo in più per scarcerare e mettere ai domiciliari chi chiedeva di uscire in quanto malato. Così è avvenuto. La circolare, di fatto, è già costata la testa del direttore Basentini, che il primo maggio ha rassegnato le dimissioni. Nel frattempo il Guardasigilli Alfonso Bonafede aveva nominato anche un vice capo del dap, l’ex pm Roberto Tartaglia, occupando una poltrona che era rimasta vuota. Nonché il nuovo capo, l’ex procuratore generale di Reggio Calabria Dino Petralia. Adesso, con il passo indietro di Romano, si chiude il cerchio delle responsabilità che hanno portato alle scarcerazioni, anche non valutando a fondo le conseguenze di una circolare come quella del 21 marzo. Ma nel frattempo non solo è scoppiata la polemica su Bonafede, ma il governo ha dovuto fare ben due decreti legge per rivalutare le scarcerazioni già fatte. Sono tornati dentro Francesco Bonura, Cataldo Franco, Carmine Alvaro, Antonino Sacco. Ieri è stata rinviata, per difetti nella notifica, la seduta del tribunale di sorveglianza di Sassari che deve rivalutare i domiciliari di Pasquale Zagaria. Coronavirus: cala il numero dei detenuti positivi agi.it, 24 maggio 2020 Diminuisce il numero di persone positive al Covid-19 presenti in carcere. Ieri i detenuti affetti da Coronavirus erano 104 (più una persona ricoverata in ospedale), mentre le persone positive tra il personale sono150. Sono i dati comunicati dal Garante delle persone private della libertà, Mauro Palma che sottolinea come questi valori non debbano indurre a ridurre l’attenzione “perché in tutte le situazioni connotate da concentrazione e chiusura, basta un battere d’ali a determinare un terremoto”. Per quanto riguarda invece la condizione di affollamento delle carceri, “gli attuali numeri ci dicono che il bilancio tra ingressi, scarcerazioni e uscite in misura alternativa, quantunque tuttora positivo a vantaggio delle seconde rispetto alle prime, va progressivamente riducendosi”. In gennaio tale bilancio, spiega il Garante, prevedeva mediamente ogni giorno l’aumento di 16 presenze che portava quindi a un aumento medio di 500 persone detenute al mese, aprile ha visto una riduzione di più di 90 persone al giorno (che comportano mediamente circa 3.000 al mese), mentre in questi giorni di maggio la riduzione media giornaliera di circa 20. Ma, un esame più accurato di tale bilancio porta a dire che questo valore medio è sbilanciato verso un valore più alto all’inizio di maggio e un valore ridottissimo in questi ultimi giorni. Le persone detenute presenti nelle stanze sono oggi 52.636. Le detenzioni domiciliari concesse dopo il 18 marzo sono 3379, di cui 975 con applicazione del braccialetto elettronico. Sul tema delle carceri il Garante ha avuto uno scambio di opinioni con il nuovo Capo dell’Amministrazione penitenziaria, Dino Petralia: comune l’impegno a che l’esecuzione penale sia sempre attuata nel solco del dettato che la Costituzione e le Convezioni internazionali le assegnano. Entrambi gli interlocutori “hanno riconosciuto la necessità di orientare a tale obiettivo tutte le azioni che dai rispettivi ruoli discendono, ben sapendo di poter contare su un personale che ha operato anche in grave difficoltà negli Istituti penitenziari, ai diversi livelli di professionalità, che merita riconoscimento al pari di altri settori più noti all’opinione pubblica”. Intanto oggi il Garante renderà omaggio alla memoria di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, davanti all’auto conservata presso la Scuola dell’Amministrazione penitenziaria intitolata proprio al giudice Falcone. La Giunta Anm vicina allo scioglimento. Il caso intercettazioni spacca le toghe di Giuseppe Scarpa Il Messaggero, 24 maggio 2020 È crisi ai vertici dell’Associazione nazionale magistrati. Il rischio dello scioglimento della giunta dell’Anm è un’opzione possibile. A dare fuoco alle polveri sono state le nuove chat e intercettazioni depositate nell’inchiesta di Perugia in cui è imputato il pm Luca Palamara con l’accusa di corruzione. La stessa indagine, appena un anno fa, aveva provocato un terremoto all’interno del Csm. All’epoca ad essere travolta era stata la corrente di destra della magistratura, Mi. Adesso il nuovo materiale, allegato alla chiusura indagini del caso Palamara, tocca diversi esponenti dell’ala progressista delle toghe. Per questo motivo, al termine di una riunione del comitato direttivo centrale dell’Anm, andata avanti per 10 ore, Area e Unicost hanno lasciato la giunta, e si sono dimessi il presidente, Luca Poniz, e il segretario, Giuliano Caputo. Per ora resta in giunta il gruppo di Autonomia e Indipendenza, che ha un solo rappresentante, Cesare Bonamartini, vicesegretario. La riunione, che ha bocciato la mozione di Mi sull’anticipo delle elezioni, e ha quindi confermato il voto a ottobre, è stata riconvocata per lunedì, per individuare una nuova composizione che gestisca il governo dell’Associazione fino alle elezioni. Con le dimissioni dei componenti di Area e Unicost, le correnti rispettivamente del presidente Poniz e del segretario Caputo, la giunta rischia lo scioglimento. I gruppi si sono dati appuntamento per domani, per tentare una ricomposizione che consenta di arrivare a ottobre, quando si voterà il 18, 19 e il 20. Magistratura indipendente, gruppo che aveva lasciato la giunta unitaria lo scorso anno, aveva chiesto che si votasse prima ritenendo “delegittimata” l’attuale giunta, già in regime di proroga dopo lo slittamento del voto, originariamente previsto a marzo, a causa dell’emergenza sanitaria, e denunciando la mancanza di una presa di posizione netta di quanto emerso dalle ultime intercettazioni, nelle quali compaiono i nomi di esponenti di Area, rispetto a quanto accaduto un anno fa, con lo scandalo sulle nomine e la bufera che ha travolto il Csm. Un’accusa respinta dal presidente Poniz che ha rivendicato “una posizione politica chiara” e replicato che “Mi non ci può incalzare su una presunta contraddizione”. La segretaria di Magistratura Indipendente, Paola D’Ovidio, ha negato che ci sia stato “lo stesso rigore” e ha invece denunciato “un metodo diverso” nella gestione delle situazioni, citando a esempio il mancato coinvolgimento dei probiviri sui fatti recenti, al contrario di quanto accaduto a maggio dello scorso anno, quando tutti i magistrati coinvolti furono deferiti davanti al collegio. Da parte sua il segretario Caputo, ha sottolineato che “quanto emerso ora è molto diverso da quanto accaduto lo scorso anno, ma sono fatti che noi non ignoriamo”. Intanto il pm Palamara ha chiesto scusa al leader della Lega Matteo Salvini. Da alcune chat contenute nell’inchiesta erano emerse considerazioni negative da parte del pm in una conversazione con un altro collega. I due magistrati convenivano sul fatto che Salvini non stesse sbagliando, quando era ministro dell’Interno, sulla questione migranti. Nonostante ciò, scriveva Palamara, andava ugualmente “attaccato”. Ebbene ieri il pm in un post su Twitter si è scusato pubblicamente: “quando si sbaglia bisogna ammetterlo ed io l’ho fatto, esprimendo il mio più profondo rammarico per le parole dette”. Tutti dimissionari, l’Anm perde la testa. I magistrati nella bufera delle chat di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 24 maggio 2020 Dieci ore di video scontro su come reagire allo scandalo Palamara. Alla fine solo la corrente di Davigo non molla. A scoppio ritardato, lo scandalo delle nomine pilotate al Csm e l’inchiesta di Perugia sull’ex leader della corrente moderata delle toghe Luca Palamara travolge l’Associazione nazionale magistrati. La giunta esecutiva retta in questi mesi di tempesta da tre correnti - Unicost (moderati), Area (sinistra) e Autonomia e indipendenza (Davigo) - è andata in crisi al termine di un lunghissimo e lacerante comitato direttivo centrale durato tutta la giornata di ieri. Alla fine si sono dimessi (quasi) tutti. Dieci ore di solenni litigate in videochat, frammentate dai problemi di connessione e da un paio di interruzioni per mettere a punto le strategie di corrente - poi aggiornate in sottofondo in un continuo pigolio di whatsapp. Toghe associate contro. A scatenare la resa dei conti la nuova tornata di intercettazioni restituita dal trojan del cellulare di Palamara, da qualche giorno scoop quotidiano dei giornali di destra. La corrente più coinvolta nel primo tempo dello scandalo e fuori dal governo dell’Anm, Magistratura indipendente (destra), ha approfittato del coinvolgimento nei colloqui con Palamara di alcuni esponenti di Area (in questo, come in molti altri casi, si tratta di conversazioni prive di rilievo penale) per tentare un ribaltamento della storia. Tutti colpevoli, nessun colpevole. Così la giunta guidata dal pm milanese Luca Poniz (Area), ferma l’anno scorso nel denunciare lo scandalo, è stata accusata da Mi di voler adesso minimizzare, e di restare in sella per coprire l’impatto delle rivelazioni. In realtà le elezioni per il rinnovo del parlamentino dell’Anm sono state già fissate a ottobre, prima non essendo possibile attrezzare l’infrastruttura per il voto online. “Questa esperienza non può proseguire, abbiamo smarrito le premesse comuni” ha detto Poniz, che si è dimesso, ma con Area si è astenuto sulla proposta di anticipare le elezioni a luglio. Avanzata da Mi che con Giancarlo Dominijanni, pm a Pisa, ha previsto che “dal telefono di Palamara uscirà di tutto, queste rivelazioni continueranno per mesi. Possiamo solo tentare di salvare l’Anm rinnovandone la guida”. “Noi non siamo coinvolti nelle vicende dell’albergo Champagne”, ha risposto Area (l’albergo è quello che si trova nei pressi del Csm dove Palamara incontrava l’ex sottosegretario Pd Lotti e il leader ombra di Mi Ferri per decidere le nomine), insistendo a chiedere l’intero fascicolo degli atti di Perugia come antidoto alle rivelazioni a scaglioni. E alla fine si è dimessa anche Unicost, la corrente di Palamara, lasciando l’annuncio al numero due della giunta Anm Giuliano Caputo, pm a Napoli. Il voto a luglio non ci sarà, ma il caos è tale che adesso non si sa come ricominciare. Si sa solo quando; domani sera la riunione del comitato direttivo prosegue davanti agli schermi. La seduta ha assunto anche toni drammatici, quando la giudice del tribunale di Milano Luisa Savoia di Area ha affrontato il consigliere di corte d’appello di Torino Angelo Renna che in uno dei dialoghi con Palamara pubblicati nei giorni scorsi (ma risalente all’ottobre del 2017) si agitava per ostacolarne la carriera: “Se riuscite a fottere la Savoia sarebbe un gran colpo”, la frase di Renna. “O io o lui”, ha detto in sostanza ieri Savoia, dando origine a una specie di corpo a corpo mediato dalle webcam (e da Radio Radicale che ha trasmesso il tutto). Perché Renna si è scusato, ha detto che si vergognava, che anche sua madre si sarebbe vergognata di lui, ma non si è dimesso. Al che è intervenuto in un aggrovigliarsi di microfoni aperti e collegamenti interrotti il giudice di Napoli Giovanni Tedesco, anche lui di Area, avvertendo che se Renna non si fosse dimesso allora anche lui avrebbe lasciato il comitato direttivo per protesta, assieme alla collega Savoia. Citando René Girard e la teoria del capro espiatorio, Renna si è alla fine dimesso. E ha staccato il collegamento. Gli altri hanno continuato fino alle otto, ma senza uscire dall’angolo. Due correnti, Area e Mi, dichiarano adesso che non entreranno in alcuna giunta, nemmeno per il tempo strettamente necessario ad andare alle elezioni. Al governo delle toghe così c’è una sola corrente, con un solo esponente. A schierarsi contro il voto anticipato e anche contro lo scioglimento è stata infatti solo la corrente di Autonomia e indipendenza dell’ammazzasette Davigo. Strano, o forse no a sentire la motivazione: “L’amaro calice va bevuto fino in fondo, fino all’ultima chat. Il disonore sarà il carburante per la rinascita”. Tanto peggio… Giustizia nel caos, l’unico a tacere è il ministro grillino di Renato Farina Libero, 24 maggio 2020 A lui spetta l’azione disciplinare, ma zero accenni sulle interferenze della magistratura nella politica. Dov’è finito il Guardasigilli Alfonso Bonafede? In che ripostiglio si è nascosto? Nella stanzetta dei giochi a guardare i sigilli, come dice la parola stessa, e magari a lucidarli? Oppure sta incollando sull’album delle figurine Panini i ritagli del Fatto che lo esaltano come se fosse Brigitte Bardot? Di certo non sta facendo quello per cui lo stipendio corre ogni mese nelle sue tasche, e che gli imporrebbe il giuramento solenne al Quirinale di rispettare la Costituzione. La poveretta, e ci si scusi l’ardire se la trattiamo come una persona offesa, ha addirittura dedicato al caro Alfonso il suo articolo 110, consacrato al Ministro della Giustizia (una volta si chiamava di Grazia e Giustizia, ma poi ha prevalso un certo pudore). È il solo titolare di dicastero, salvo il presidente del Consiglio, ad essere citato nella Carta, reputandolo un cardine del sistema repubblicano. Gli assegna due compiti imprescindibili: l’organizzazione dei servizi della Giustizia e la titolarità dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati. Cominciamo dal primo dovere di Bonafede. Organizzazione dei Tribunali in tempo di Coronavirus? Trasferimento dei processi civili con connessioni web come fanno i maestri d’asilo con i loro bambinetti? Tutto bloccato. Gli studi legali rischiano il fallimento. Bonafede assente e fallimentare. Soprattutto l’omissione d’atti d’ufficio si addensa sulla sua figura gogoliana, a proposito del secondo dei due compiti mancati: l’azione disciplinare. Per essere esercitata necessita di leggere e informarsi. Roba dura. Poi bisognerebbe pensarci su e decidere. Due cose ardue, inusuali per l’avvocato pugliese trasferito a quel posto con l’incarico non dichiarato di tutelare, abolendo la prescrizione, l’onnipotenza del partito dei Pm. Pensare e decidere non era scritto sul suo contratto di assunzione, aveva solo da ricopiare e poi apporre il famoso sigillo a quanto già pensato e deciso. Altro che offendere qualcuno dei suoi mentori, ordinando al Csm di vagliare il comportamento etico di qualche magistrato, o - Dio non voglia - di un membro potentissimo del citato Sinedrio che dirige le carriere delle toghe. Come potrebbe deferire una gloria dei 5 Stelle come il pm antimafia Nino Di Matteo? D’accordo. Ha appiccicato alla barba implume del suo ministro dei post-it con accuse da galera. Un minimo di onore imporrebbe che il Csm vagliasse la questione, se davvero Di Matteo abbia mentito a proposito della sottomissione di Bonafede ai boss, o abbia ragione Bonafede. Come si fa a delegittimare un eroe, o forse a rischiare che uno dei due resti sputtanato a vita? E così il Csm (ammesso che ne abbia la volontà) resta lì come un pesce bollito, perché non può muovere una matita senza un provvedimento, un timbro, un sigillo, riecco il famoso sigillo, che da Alfonso andrebbe sì guardato ma qualche volta usato, tolto dalla formalina, perché in fondo dà nome e giustificazione allo stipendio del suo titolare. Niente. Bonafede è sparito. Che sia rimasto soffocato dalla mascherina che si è incollato sulla bocca al Senato martedì dopo il suo intervento di accorata difesa delle proprie chiappe? In questi giorni è venuto a galla, nel mondo sulla cui disciplina dovrebbe vigilare il ministro, ogni genere di rottame e brandello di pinne e squame. (1) Lo scontro sottomarino tra i pescecani della magistratura era cosa arcinota da mesi, ma ultimamente a fior d’acqua sono risalite intercettazioni coinvolgenti ermellini di lusso, i quali restano dove sono, silenti e impenitenti come la statua del Commendatore. (2) È emerso che le toghe tra loro discutono con tranquillità, persino per iscritto, tanto sono sicure che nessuno le toccherà, di quale sia il metodo migliore per ingabbiare Matteo Salvini. Alcuni riconoscono che, bloccare le navi cariche di clandestini fuori dai porti da parte dell’allora ministro dell’Interno, sia stata pura obbedienza alla legge. Altri berciano il contrario. Al centro delle dotte considerazioni da giureconsulti non è mai il dilemma su quale sia il modo per tutelare il diritto, ma che cosa sia utile a danneggiare il politico che detestano. Imparzialità saltami addosso. Democrazia fatta a polpette dai denti aguzzi di questi cannibali della giustizia. (3) La commistione e i giochi di potere non sono una prerogativa dei capoccia di questa o quella fazione di magistrati: in questa partita entrano non come testimoni di fatti occulti, ma come protagonisti ed armi improprie firme importanti del giornalismo italiano. Abbiamo indicato un bel po’ di questioni dove magari reati non ce ne sono, ma qualche domanda se tutto sia a posto secondo i codici deontologici ci viene. E la risposta a naso è che l’onore della magistratura, e con essa la credibilità del sistema vada a catafascio. E il ministro che fa, si nasconde? L’ultima tranche di intercettazioni da Cavallo di Troia (Trojan), che per noi non dovrebbero esistere, sono comunque molto istruttive sulla tossicità dell’inchiostro versato da penne di ormai dubbia verginità. Al punto che, togliendo a Libero l’esclusiva delle sue nobili delazioni, il presidente dell’Ordine dei giornalisti Carlo Verna ha annunciato che segnalerà il caso al consiglio disciplinare. Troppo zelo, forse. Però ci auguriamo che un pizzico di questa acribia si infili nelle narici di Bonafede, facendolo starnutire e lo svegli, perché in questa storia di Trojan i giornalisti sono piccole comparse meschine e gelose una dell’altra, ma al centro della scena c’è un sabbah di toghe dove a bollire nel pentolone come vittima sacrificale è la buona fede dei poveri cristi in attesa vana di giustizia. Lotta alla mafia, la profezia di Giovanni Falcone di Luigi Ciotti Il Manifesto, 24 maggio 2020 Ventotto anni: 1992-2020. Le cose sono molto cambiate. E sono certo che Giovanni Falcone - se non fosse stato barbaramente ucciso a Capaci con Francesca, Vito, Rocco, Antonio - ci esorterebbe oggi a trovare un nuovo paradigma nella lotta alle mafie. Perché oggi le mafie hanno il loro più potente e attivo alleato in un’economia selettiva che, su scala mondiale, ha prodotto da un lato abnormi concentrazioni di denaro e di potere, dall’altro ingiustizie e povertà mai viste. Deserti di diritti e democrazia che rappresentano da sempre il terreno su cui prospera il crimine mafioso. Un nuovo paradigma perché, al di là di indagini e arresti - dello straordinario impegno di magistratura, istituzioni, forze di polizia - il contrasto alle mafie deve ripartire oggi dalla consapevolezza che il crimine organizzato è ormai parte organica di un più ampio sistema d’ingiustizie. Facendo del rintracciamento del denaro - “follow the money” - uno dei cardini del proprio metodo investigativo, Giovanni aveva prefigurato con sguardo profetico lo sviluppo economico e imprenditoriale del crimine mafioso. Ci aveva messo in guardia dal rischio che, in un mondo piegato all’idolo e alla logica del profitto, le mafie avrebbero trovato sempre più spazio, nascoste nelle pieghe di un tessuto sociale smagliato, avvantaggiate da una politica incurante del bene comune. Previsione che oggi ha trovato agghiacciante conferma: le mafie non solo sono dovunque, in molte parti d’Europa e del mondo, ma possono agire nell’ombra, quasi indisturbate, usando quei soldi che possiedono in quantità smisurata laddove prima usavano le armi. La corruzione è diventata ormai, come confermano gli analisti più attenti, la cerniera tra noi e loro, la zona grigia che le rende simili a noi e al tempo stesso ci “mafiosizza”, ci rende simili a loro. Ecco allora che ricordare oggi Giovanni Falcone significa ripensare la lotta alle mafie e ripensare anche il concetto di legalità. Non c’è legalità senza giustizia sociale. Se mancano i diritti sociali fondamentali - il lavoro, la casa, l’istruzione, l’assistenza sanitaria - la legalità rischia di diventare un principio che esclude e discrimina. Uno strumento non di giustizia ma di potere. Mai si è parlato di legalità come in questi ultimi ventottanni, e mai come oggi abbiamo una democrazia debole, malata e diseguale, come la pandemia, impietosamente, sta evidenziando. Prova che, della parola legalità, è stato fatto un abuso retorico, per certi versi “sedativo”. Molti dicono “legalità” per mettersi la coscienza in pace, per sentirsi dalla parte giusta. Si esibisce la legalità come una credenziale per poi usarla come lasciapassare, come foglia di fico anche di misfatti e porcherie. Giovanni sapeva bene che la legalità è un mezzo e non un fine, perché - come Paolo Borsellino e come tutti i magistrati che hanno servito la democrazia lottando contro i poteri criminali ma anche contro i cosiddetti “poteri forti” - aveva come orizzonte la giustizia, cioè la libertà e la dignità di ogni essere umano. Ma Giovanni era anche un utopista vero, di quelli che l’utopia non si limitano a sognarla ma la costruiscono giorno dopo giorno. In tal senso va inteso quell’invito alla speranza che oggi più che mai deve scuotere le nostre coscienze: “le mafie non sono invincibili perché, come ogni fatto umano, hanno un inizio e una fine”. Se oggi fosse ancora con noi Giovanni direbbe di nuovo quelle parole, ma con una piccola aggiunta: le mafie non sono invincibili perché sono un fatto umano. Ma per sconfiggerle dobbiamo tornare tutti a essere più giusti e più responsabili. Dunque più umani. L’ultimo processo al boss latitante, tra certezze e misteri di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 24 maggio 2020 Ventotto anni dopo, per la strage di Capaci c’è un processo ancora aperto. Unico imputato è Matteo Messina Denaro, il capomafia latitante già condannato per le bombe del 1993, ma non ancora per quelle del 1992. Dopo tre anni di dibattimento, il 5 giugno il pm Gabriele Paci, procuratore aggiunto di Caltanissetta, comincerà la requisitoria per chiedere alla corte d’assise la condanna dell’ultimo mafioso alla sbarra per la morte di Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, i tre poliziotti Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo; e due mesi dopo di Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. Il processo all’ultimo padrino di quella stagione di morte rimasto in libertà ha scandagliato a fondo i misteri e le varie piste che, in oltre un quarto di secolo, si sono accavallate e sommate alle verità accertate sulle responsabilità della mafia nella morte di Falcone. Confermando i due punti fermi sui quali gli inquirenti nisseni (che dal 2008, dopo le confessioni del pentito Gaspare Spatuzza, hanno riscritto la storia della strage di via D’Amelio, e continuano a lavorare, con pochi mezzi e senza clamori, per tentare di colmare i vuoti ancora aperti) hanno fondato la loro ricostruzione giudiziaria. Che ormai è anche storica, considerato il tempo trascorso e le conoscenze raggiunte. Il primo è che quella di Capaci fu una strage di mafia, deliberata da Totò Riina nell’ambito delle vendette pianificate dopo che gli ergastoli inflitti nel maxi-processo istruito dal pool di Falcone e Borsellino divennero definitivi. Nessuna ipotesi sull’uso di artificieri diversi dal gruppo di fuoco mafioso ha trovato conferme; anche le più recenti analisi del Dna sui reperti non hanno fatto altro che riscontrare una volta di più la presenza dei boss già individuati. Per uccidere il magistrato simbolo della lotta alla mafia il boss di Corleone s’è servito anche di Matteo Messina Denaro, “uomo d’onore” in ascesa dopo la morte del padre, inviato a Roma per verificare la possibilità di colpire il bersaglio nella capitale. Il “capo dei capi” decise di ucciderlo dopo aver ricevuto rassicurazioni, dagli “ambienti esterni” a Cosa nostra a cui aveva “tastato il polso”, che non ci sarebbero state reazioni esagerate da parte delle istituzioni: le conseguenze della strage di Capaci potevano essere ammortizzate dalle cosche, garantendo comunque un guadagno nel raffronto tra costi e benefici. E probabilmente così sarebbe andata se, a soli due mesi di distanza, non ci fosse stata la bomba di via D’Amelio. L’uccisione di Borsellino - è il secondo punto fermo delle conclusioni raggiunte dalla Procura di Caltanissetta - rivitalizzò la risposta dello Stato che, passato lo sdegno delle prime settimane, si stava già affievolendo; rivelandosi un pessimo affare per Cosa nostra. E ai misteri sulla decisione di Riina di accelerare quell’attentato, si sommano quelli sulle indagini depistate: sempre a Caltanissetta è in corso un processo a tre poliziotti accusati di avere manipolato il falso pentito su cui, fino all’entrata in scena di Spatuzza, è stata costruita una falsa verità su quella strage. Ma depistaggi e misteri non si fermano al pentito bugiardo. Sulla strage di via D’Amelio, nulla o quasi si spiega: sia sul versante mafioso che su quello dello Stato. È in questa direzione che prosegue il lavoro dei pm nisseni. Ad esempio continuando a indagare sulla morte del boss Vincenzo Milazzo, ucciso cinque giorni prima di Borsellino. Aveva una relazione con una donna imparentata con un funzionario dei servizi segreti; sapeva dei contatti tra il Gotha di Cosa nostra e ambienti istituzionali, ed era contrario al programma stragista di Riina. Che lo fece ammazzare montando “una tragedia” nei suoi confronti, e ordinò di eliminare anche la fidanzata. Fare un po’ di luce su quel delitto potrebbe servire anche a illuminare i lati oscuri sulle bombe che ventotto anni fa fecero tremare la Sicilia, l’Italia e il mondo. Abruzzo. All’esterno delle carceri di Sulmona e L’Aquila vigila l’esercito di Marina Moretti rete8.it, 24 maggio 2020 A partire da oggi è l’esercito a vigilare l’esterno delle carceri di Sulmona e L’Aquila. Lo ha comunicato Mauro Nardella, segretario territoriale della Uil-Pa, soddisfatto per la novità che garantirà il potenziamento della sicurezza e una utile simbiosi tra esercito e polizia penitenziaria: “Il servizio di vigilanza esterna agli istituti penitenziari, detta Veip, darà un consistente sostegno a realtà penitenziarie che ospitano detenuti tra i più pericolosi d’Italia”. Franco Migliarini, della segreteria regionale Uil-Pa, ha aggiunto: “Il connubio tra esercito e polizia penitenziaria, dopo la positiva esperienza della sanificazione degli ambienti carcerari, acquisisce in questo modo sempre maggiore importanza, tanto più per la sicurezza da garantire ai penitenziari”. Trani (Bat). Emergenza strutture penitenziarie: “C’era una volta il super-carcere” Gazzetta del Mezzogiorno, 24 maggio 2020 “La Sezione Blu, quella in cui erano ospitati terroristi e famosi criminali, è in preda ormai a degrado strutturale”. “C’era una volta il carcere di Trani che era considerato il fiore all’occhiello del sistema penitenziario italiano, poiché ospitava in sicurezza, la crema del terrorismo rosso, nero nonché i più famosi criminali italiani del momento”. Inizia così l’Sos lanciato da Federico Pilagatti e Sante Giusto, segretari regionali del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria). “Il penitenziario di Trani - proseguono - costruito negli anni 70 diventò un carcere a massima sicurezza poiché a quel tempo era considerato strutturalmente all’avanguardia e molto sicuro. Da allora sono passati 50 anni e molti lavori di manutenzione anche straordinari sono stati eseguiti poiché la struttura con gli anni è diventata fatiscente. Purtroppo da allora la famosa sezione “blu” quella in cui erano ospitati terroristi e famosi criminali, è rimasta la stessa diventando un monumento al degrado ed alla fatiscenza, e nonostante ciò si continuano ad ospitare circa 200 detenuti costringendo anche i poliziotti a lavorare in condizioni igienico sanitarie fatiscenti”. Ancora: “Negli ultimi tempi il Sindacato autonomo polizia penitenziaria ha più volte denunciato all’amministrazione penitenziaria ed ai mass media lo stato di degrado presente in tale reparto che ospita più del 60% della popolazione detenuta di Trani, con stanze singole con al centro un water, e locali docce da far paura. Il Sappe, nonostante gli “avvertimenti” minacciosi dell’amministrazione che non voleva, ha pure documentato con foto una situazione di assoluto degrado che offende la dignità di detenuti e la professionalità dei poliziotti. Chissà dove sono le varie associazione che tutelano i diritti dei detenuti (Antigone, per esempio) radicali e garanti sempre pronti a denunciare situazioni anomale o sparare addosso ai poliziotti”. E poi: “A seguito delle forti proteste del Sappe, l’amministrazione penitenziaria promise che, appena pronto il nuovo padiglione da 200 posti, ci sarebbe stato il trasloco dei detenuti, con la chiusura immediata della sezione della vergogna. La battaglia del sindacato fu anche condivisa dall’allora direttrice del carcere di Trani dott.ssa Piarulli che addossava la responsabilità di questa vergogna ad una amministrazione inefficiente ed inesistente. Come pure la dirigente del carcere insieme ai sindacati ha sempre sostenuto la necessità di integrare i poliziotti penitenziari di Trani che si erano vista scippare con i nuovi organici del 2017, una cinquantina di unità. Tutto ciò, oltre alla grave situazione igienico sanitaria già descritta, ha comportato aggravio di lavoro per i polizotti in servizio costretti a carichi di lavoro massacranti”. Pilagatti e Giusto aggiungono: “Proprio con la dott.ssa Piarulli in più occasioni abbiamo firmato documenti con cui si chiedeva al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria l’integrazione degli organici i poliziotti, al fine di garantire i diritti previsti dalle leggi dello stato a tutela dei lavoratori. Il 23 marzo 2018 alla notizia dell’elezione della direttrice del carcere di Trani a senatrice della Repubblica per il movimento 5 stelle, non solo il Sappe ed i poliziotti della regione, ma soprattutto quelli di Trani sono stati molto felici poiché finalmente potevano contare sull’aiuto di chi in prima linea era a conoscenza delle problematiche penitenziarie pugliesi, e tranesi in particolare. Purtroppo però sono trascorsi due anni dall’elezione della senatrice Piarulli, ma nessun intervento concreto a favore delle carceri pugliesi e di quello di Trani è stato posto in essere, nonostante il ministro della giustizia Buonafede sia della sua stessa parte politica. Il Sappe, che rappresenta la quasi metà dei poliziotti pugliesi, ha ancora molta fiducia nella senatrice Piarulli e spera che questa assenza biennale sia dovuta al noviziato in parlamento. Ci auguriamo che già da domani inizi ad interessarsi concretamente delle problematiche penitenziarie pugliesi che sono molto complesse e delicate a partire proprio dall’imminente apertura del nuovo Padiglione di 200 posti del carcere di Trani, pretendendo dall’amministrazione penitenziaria di utilizzare tale reparto solo per ospitare i detenuti attualmente ristretti nella sezione Blu ai limiti della dignità umana, che deve finalmente essere chiusa. Nel contempo deve anche preoccuparsi che in occasione di tale apertura, il Dap garantisca l’invio di un adeguato numero di poliziotti (almeno 50), per assicurare l’efficienza dei servizi”. Conclusione: “Stesso impegno chiediamo per le imminenti aperture dei padiglioni di Lecce e Taranto, ove sembrerebbe che il Dap non abbia intenzione di integrare l’organico di polizia penitenziaria necessario per tali aperture. Ultima cosa: nei nuovi padiglioni di Lecce, Taranto e Trani, devono essere ospitati i detenuti ristretti nella regione, poiché allo stato la Puglia è di gran lunga il distretto più affollato della nazione con una percentuale superiore al 50%, mentre a livello nazionale tale affollamento non supera l’8% con regioni che hanno carceri quasi vuote”. Avezzano (Aq). Escluso coronavirus in carcere, oltre 100 le analisi effettuate Il Centro, 24 maggio 2020 Eseguiti i tamponi ai detenuti e agli agenti di polizia penitenziaria. Nessuno positivo nel carcere San Nicola di Avezzano dove sono stati eseguiti tamponi a tutto il personale di polizia penitenziaria e a tutta la popolazione carceraria. La Casa circondariale di Avezzano è la prima ad aver raggiunto l’obiettivo del “processamento” di tutti i test e quindi della mappatura della situazione in ambito penitenziario. Da diversi giorni il mondo penitenziario della regione si ritrova al centro dell’attenzione per l’attivazione di un protocollo anti-covid che vede tutto il personale di polizia penitenziaria e sanitario sottoposto a tamponi. Negativi i 45 agenti in servizio nella casa circondariale di Avezzano, ma anche i 5 sanitari e i 65 detenuti. L’istituto risulta essere quindi “covid-free”, Un risultato raggiunto anche grazie al contributo della Uil e della Cisl, che hanno pressato affinché tutti fossero sottoposti a test. “Una bella notizia”, secondo Franco Migliarini, segretario generale della Uil Pa Abruzzo e Mauro Nardella, segretario generale territoriale Uil-polizia penitenziaria, “che non può non tirare in ballo la vicenda riguardante i carabinieri di Avezzano a cui sarebbe stato vietato l’accesso alla mensa agenti. Un servizio finora assicurato per il quale però ora sarebbe stata posta come condizione l’essere sottoposti a tampone anche da parte dei militari dell’Arma. Se il motivo è questo”, precisano Migliarini e Nardella, “la vicenda ci esorta a dire che, a scanso di equivoci, visto che tutelare l’ambiente carcerario dal contagio risulta importante, male non sarebbe se la politica adottata nei confronti della polizia penitenziaria fosse estesa a tutti gli appartenenti delle forze dell’ordine”. Infatti in carcere le forze di polizia non entrano solo, come nel caso di Avezzano, per la consumazione del pasto, ma anche e soprattutto per consegnare persone arrestate. Napoli. Ripresa dei colloqui nel carcere femminile di Pozzuoli di Antonella Barone gnewsonline.it, 24 maggio 2020 Riprendono gradualmente i colloqui in presenza con i familiari negli istituti penitenziari, con gradualità e nel rispetto delle norme di tutela sanitaria. Tra le carceri che hanno già riaperto le apposite sale ai parenti delle persone detenute, la casa circondariale femminile di Pozzuoli. Schermi, mascherine, distanza di sicurezza, niente baci e abbracci: limiti indispensabili ma più “sofferti” dalle trenta donne con figli piccoli, alcune delle quali hanno preferito continuare con le videochiamate, per evitare slanci ed effusioni dei bambini, difficili da arginare dopo mesi di lontananza. Le detenute hanno avuto l’opportunità di usare il telefono due volte a settimana per videochiamare la famiglia grazie allo “Spazio Famiglia”, attivato in seguito al protocollo sottoscritto dalla casa circondariale femminile di Pozzuoli con le associazioni Anfi-sezione di Napoli, “Mai più violenza infinita” e con il Garante dell’infanzia e dell’adolescenza della Regione Campania. Fra le attività previste dall’accordo, rientra anche l’iniziativa “Video-amiamoci”: messaggi, disegni e poesie di figli delle donne recluse raccolti in un video trasmesso in carcere in occasione della Festa della mamma. All’interno dell’istituto di Pozzuoli non sono mancate le attività durante il periodo del lockdown. Hanno, infatti, continuato a confezionare mascherine le detenute della sartoria, a produrre caffè le dipendenti della cooperativa “Le Lazzarelle” e a studiare con la teledidattica le allieve del corso per il conseguimento della licenza media. Attenzione particolare a detenute madri, nel periodo della ripresa, anche dall’Associazione italiana lotta agli abusi (Aila), che a Milano ha organizzato una raccolta di mascherine, gel igienizzante e guanti monouso da destinare all’Istituto Custodia Attenuata per Madri (Icam), sezione della casa circondariale di San Vittore, dove sono ospitate donne con bambini piccoli. Napoli. Esami on-line per detenuti alta sicurezza ildenaro.it, 24 maggio 2020 Didattica ed esami via web anche per i detenuti del reparto di Alta Sicurezza “Avellino” del carcere napoletano di Poggioreale. Lo rende noto il vice segretario dell’Osapp Campania, Luigi Castaldo, secondo il quale, la direzione, dimostrando “elevate capacità manageriali”, sta portando avanti l’iniziativa “in linea con il Dpcm della seconda fase emergenziale Covid-19, in linea con le direttive del Ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina”. Il progetto, fa sapere ancora Castaldo, “malgrado la pandemia prevede, grazie all’impegno del direttore della struttura penitenziaria Carlo Berdini, vari corsi scolastici per scuola media e superiori, sempre da remoto, per detenuti con pene definitive di lunghi periodi, seguendo il Pon del Cpia”. “L’Osapp - conclude Castaldo - elogia l’operato degli agenti della Polizia Penitenziaria di Poggioreale, veri e propri angeli blu in uniforme, che anche in questa circostanza stanno assolvendo al loro giuramento sacrificandosi”. Benevento. “Oblivion”, in scena nel carcere sei detenute e quattro ballerine di Massimiliano Craus Corriere del Mezzogiorno, 24 maggio 2020 La danza ha donato sollievo alle detenute del carcere femminile di Benevento per volontà della Questura. Nella casa circondariale sannita la coreografa e direttrice artistica del Balletto di Benevento Carmen Castiello ha realizzato un progetto di attività corporea con la coreografia “Oblivion”, seguendo il protocollo usato nel carcere di massima sicurezza filippino di Cebu. Sei detenute e quattro ballerine dell’ensemble diretto dalla Castiello si sono esibite dopo un graduale percorso di danza che la stessa coreografa ha descritto come “un laboratorio del movimento e della musica che ha offerto loro la possibilità di appropriarsi di uno spazio interiore e di liberarsi, approdando ad una sensazione di libertà. Nei nostri incontri e nel loro raccontarsi, affiorava la paura di dimenticare il volto dei propri cari, del mare, del vento e degli odori della vita. Così attraverso i suoni cercavamo suggestioni ed alla sofferenza seguivano abbracci e condivisioni, momenti di dolore e felicità. E da lì la danza che le ha viste protagoniste in scena con le interpreti del Balletto di Benevento”: Odette e Giselle Marucci, Ilaria Mandato e Lucrezia Delli Veneri. Dopo la paura, ecco la rabbia che causa le solite divisioni di Giuseppe De Rita Corriere della Sera, 24 maggio 2020 Nella storia d’Italia le tentazioni al conflitto interno sono state più che frequenti, ma non vanno sottovalutate in vista di mesi difficili sul piano economico e sociopolitico. Ho vissuto con un certo distacco la recente pandemia da coronavirus, visto che essa ha toccato marginalmente le zone di mia più frequente presenza (dal Molise all’Umbria, dalla Basilicata a Roma) ma lontane dalla cupa drammaticità delle zone cosiddette rosse. Non è stato naturalmente un privilegio di casta, ma una fortunata contingenza, garantita dalla tradizionale differenziazione geografica e socioeconomica del nostro Paese, una differenziazione da me spesso verificata; e talvolta cantata nel lavoro di ricerca; e sempre indicata come paradigma di riferimento per ogni processo e intervento di sviluppo. L’avrei suggerita anche per il fronteggiamento della pandemia, ma si è preferita una prudente uniformità d’azione. Una uniformità che si è accompagnata al diffondersi altrettanto uniforme di tre sentimenti collettivi: la paura del contagio; la rabbia contro i disertori nella battaglia contro il contagio; e la propensione a dividersi anche nelle attuali speciali contingenze. Anzitutto la paura, ampiamente circolata non solo nelle zone più esposte al contagio, ma in città, in paesi, in borghi dove il coronavirus non si è neppure affacciato. Tutti in casa; con le porte serrate, anche ai condomini (“magari salutiamoci dalla finestra”); la spesa fatta solo per telefono; un profluvio di mascherine, anche in luoghi di improbabile pericolo; e la resistenza istintiva a ogni significativa relazione interpersonale. La dichiarazione dello “stato di emergenza” ha funzionato come una dichiarazione di guerra e tutti hanno pensato di vivere una paura da guerra, non avendo però personale ricordo del terrore causato dal volo di centinaia di fortezze volanti e delle migliaia di bombe da esse sganciate, mentre a terra le motociclette delle SS sparavano ad altezza d’uomo. Mi sono spesso domandato nelle scorse settimane perché i cittadini di Roma o di Matera dovessero vivere in una paura irrefrenabile del coronavirus. E non ho trovato risposta sul puro piano del ragionamento: la paura è stata una esplosione antropologica, quasi misteriosa, ed è stato inutile cercare di far ragionare nove su dieci dei miei amici umbri, romani, meridionali. Mi è capitato, nella notte del recente terremoto a Roma, di veder scendere in strada persone che indossavano la mascherina alle 5 del mattino. L’ho fatto notare quasi per scherzo e sono stato guardato con rabbia, quasi con astio. Una rabbia diffusa ha infatti accompagnato la paura legittimando piccoli e grandi episodi di denuncia e di disprezzo per chi attentava alla collettiva difesa dal contagio. Mi sono arrivati rimproveri di ogni tipo: per la presunzione di continuare a lavorare, o per la libertà di una visita in chiesa; fino ad arrivare al vecchietto sconosciuto che battendo con forza il suo bastone sulla mia auto urlava “delinquente, è uscito senza mascherina, arrestatelo” a un vigile urbano alquanto interdetto. Forse sono stato sfortunato nel vivere in un ettaro di vicinato nervoso, ma ho respirato a pieni polmoni la “rabbia da paura”, che è stata la cifra psicologica collettiva di questi ultimi mesi; di cui qualche scoria negativa certo resterà. Anche perché paura e rabbia hanno innescato un terzo sentimento collettivo: la propensione a dividerci. È vero che nella storia d’Italia le tentazioni divisive sono state più che frequenti; ma avrei sperato nella pandemia potessimo rifiutarle, ritrovando senso e cammino comune. E invece no, ci siamo divisi fra chi ha avuto paura e chi no; chi si fidava dei virologi e chi no; chi si arrabbiava sul possesso delle mascherine o no; chi voleva la riapertura delle imprese e chi no; chi accettava la selezione degli “affetti stabili” e chi ci ironizzava su; chi stigmatizzava ogni assembramento e chi invece trovava modo di scendere in piazza, chi ritiene che non si poteva reagire meglio e chi comincia a pensare ad attribuzione di colpe e danni. Anche stavolta non siamo sfuggiti all’antropologica tendenza alla divisione, pur se paradossalmente vissuta in un periodo di pace domestica e di inerzia delle emozioni. Non sottovalutiamo questa coazione a dividerci: ci aspettano infatti mesi difficili sul piano economico e verosimilmente sociopolitico, dove avremo più paura (di riduzione dei redditi come del lavoro); e avremo più squilibri e diseguaglianze fra diversi strati della popolazione. Potremo dover fronteggiare un insieme di conflitti sociali (alcuni prevedono rivolte); e alla rabbia da paura potrebbe subentrare una rabbia da indigenza che sarebbe bene evitare. Magari non ripetendo l’uniformità di intervento messo in atto nella pandemia (se ne avverte il contagio nella propensione ad usare lo strumento dell’assistenzialismo a pioggia) ma piuttosto con una puntuale conoscenza delle diverse realtà territoriali, articolando analisi e interventi, unica strada per non lasciare che paura e rabbia diventino pandemie. Migranti. Il Consiglio di Stato “boccia” quei segreti del governo di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 24 maggio 2020 Il ministero degli Esteri aveva negato l’accesso ad alcuni atti nel presupposto che quelle informazioni fossero “suscettibili di recare pregiudizio concreto alla tutela delle relazioni internazionali dell’Italia”. Ma il Consiglio di Stato non è d’accordo. No perché no, non è un motivo per negare il controllo sull’utilizzo delle risorse pubbliche. No perché altrimenti si fa un danno alla patria, nemmeno. Dal Consiglio di Stato, che ribalta l’iniziale diniego del Tar Lazio, arriva una spinta all’accesso civico anche agli atti delle agenzie delle Nazioni Unite quando a erogare ad esse denaro sia il governo italiano: i giudici amministrativi, accogliendo l’appello dell’Asgi, hanno infatti annullato i provvedimenti con i quali nel 2019 il ministero degli Esteri si era rifiutato di esibire i documenti sull’accordo con l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), nel quale nel 2017 l’Italia si impegnava a versarle 18 milioni per finanziare il rimpatrio di migranti che accettassero di rientrare nei Paesi di origine con un piccolo capitale per avviare una micro-impresa. Il Ministero aveva negato l’accesso agli atti “in considerazione delle condizioni estremamente delicate nelle quali Oim opera in Libia”, e nel presupposto che quelle informazioni fossero “suscettibili di recare pregiudizio concreto alla tutela delle relazioni internazionali dell’Italia”, al punto da potersi “tradurre in una sostanziale e immediata riduzione del ruolo dell’Italia nei Paesi in cui opera insieme all’Oim, in particolare in Libia”. Ma questo presupposto, osserva ora la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato redatta da Francesco Gambato Spisani, deve poter essere controllato caso per caso, specie se il governo non ha apposto, come avrebbe potuto, un formale segreto: scelta che “però - rimarca la sentenza - è evidente richieda un atto espresso, con assunzione della relativa responsabilità, nel caso limite del segreto di Stato, anche politica”. Senza la quale, invece, “sussiste un contrario oggettivo interesse a prevenire la mala gestione di questi fondi, ricostruendo dall’origine motivazioni e destinazioni delle risorse”. La cecità disumana con cui si è parlato dei braccianti immigrati di Aboubakar Soumahoro L’Espresso, 24 maggio 2020 Quello sui lavoratori da regolarizzare è stato un dibattito avvilente. Dove il cibo non era più al servizio delle persone, ma viceversa. Mentre i partiti, per mero calcolo politico, hanno giustificato come “utile” ciò che era semplicemente giusto. “Disgraziatamente, non tardò a dimostrarsi l’inanità di tali voti, le aspettative del Governo e le previsioni della comunità scientifica andarono semplicemente a rotoli. La cecità stava dilagando, non come una marea repentina che tutto inondasse e spingesse avanti, ma come un’infiltrazione insidiosa di mille e uno rigagnoli inquietanti che, dopo aver inzuppato lentamente la terra, all’improvviso la sommergono completamente. Davanti all’allarme sociale, ormai sul punto di esserne travolte, le autorità promossero in tutta fretta riunioni mediche, soprattutto di oculisti e neurologi”, scrisse il premio Nobel per la letteratura, José Saramago, in Cecità, un racconto narrato con fantastica maestria durante un’epidemia. L’attuale pandemia del Covid-19, spogliandoci dallo superfluo, ci ha restituito la consapevolezza della fragilità dell’esistenza e della preziosità della vita. Infatti, l’abnegazione del personale medico - impegnato a sottrarre i malati (indipendentemente dalla provenienza geografica e dall’utilità economica) dalle grinfie della morte anche a costo della propria vita - è una nobile testimonianza dell’alto valore della Vita. Accanto a questo encomiabile impegno, è tuttavia avvilente vedere una politica impegnata in un’opera autoreferenziale, sul tema della regolarizzazione, per interessi economici e calcoli politico-elettoralistici, senza tenere conto della salvaguardia della Vita umana. Tuttavia, l’Italia di Giuseppe Di Vittorio avrebbe dovuto vedere una politica impegnata, accanto al personale medico, a mettere in sicurezza la vita di tutti gli esseri umani presenti sul territorio nazionale. L’Italia di grandi statisti, architetti della nostra democrazia, avrebbe dovuto vedere una politica coesa nel concedere un permesso di soggiorno per “emergenza sanitaria” (convertibile in lavoro) a tutti quelli che ne sono sprovvisti al fine di permettergli di accedere ai servizi sanitari per la propria sicurezza e di quella di tutta la nostra comunità. L’Italia dei nostri padri fondatori avrebbe dovuto vedere una politica audace, coraggiosa e capace di emanciparsi dalla prigionia del consenso elettorale per il bene di tutti gli Esseri Umani. Invece, il nostro grande paese ha assistito ad un dibattito politico sulla regolarizzazione per necessità di braccia al fine di salvare la frutta e la verdura. L’essere umano non deve essere al servizio del cibo ma è il cibo che deve essere al servizio dell’essere umano. Questa teoria della regolarizzazione delle braccia è frutto del paradigma utilitaristico che tende a “mettere i benefici al di sopra dell’uomo”, come sostiene Papa Francesco. In un contesto di guerra contro il Covid-19, un simile dibattito politico, oltre ad essere decontestualizzato, è cinicamente disumano e lede profondamente alla dignità umana. Tuttavia, la dialettica politica sulla regolarizzazione delle braccia (da impegnare in agricoltura per salvare la frutta e la verdura) necessità di alcune precisazioni alfine di avere un quadro più chiaro e esaustivo della situazione. A questo riguardo, occorre rammentare che il IX Rapporto annuale del Ministero del Lavoro rileva che l’82% dei lavoratori del settore agricolo sono italiani. Mentre l’11,4% dei lavoratori del settore è rappresentato da lavoratori regolarmente residente in Italia e provenienti in maggioranza da paesi non europei. Il restante 6,5% è costituito da lavoratori comunitari stagionali provenienti dai paesi dell’Est. Nella sua informativa urgente alle Camere del 16 aprile 2020 sulle iniziative di competenza per fronteggiare l’emergenza epidemiologica del Covid-19 la Ministra della Politiche agricole alimentari e forestali sottolineava che “le associazioni [datoriali] ci parlano di una carenza di manodopera stagionale tra le 270 e le 350mila unità” per questa raccolta stagionale. A questo proposito, considerato che il governo si sta premurando di fare da agenzia di collocamento per gli agricoltori al fine di assicurare approvvigionamenti alla grande distribuzione organizzata (Gdo), forse si potrebbe pensare di fare una call pubblica (come quella fatta nei mesi scorsi per il personale medico) che precisa le condizioni di reclutamento. Per scongiurare il rischio di razzializare il lavoro della terra (che richiede specifiche competenze), questa call dovrebbe essere rivolta a tutti e non usare i percettori del reddito di cittadinanza denudando il lavoro salariato di dignità. Rispetto all’utilizzo delle braccia di questi percettori, credo sia superfluo rammentare che devono essere impegnati, seconda la declinazione del Ministero del Lavoro, in attività di pubblica utilità. Altrimenti sarebbe bizzarro pagare, con i soldi del contribuente, queste braccia da impegnare in campi privati. Un altro aspetto sconcertante circa il dibattito politico sulla regolarizzazione è quello legato al tentativo di giustificare al proprio elettorato la necessità di salvare la vita degli esseri umani invisibili. Se occorre giustificare la necessità di salvare una vita umana, temo che dovremo interrogarci sullo stato di salute della nostra umanità. Una delle giustificazioni offerte per la regolarizzazione delle braccia da usare in agricoltura è quella di sottrarre i braccianti al caporalato e agli insediamenti rurali. La complessa realtà dello sfruttamento nella filiera agricola (un tema che doveva essere affrontato da molto tempo e che merita di essere approfondito in separata sede) non può essere trattato con semplicismo. Purtroppo, si rischia di creare in questo modo aspettative che saranno inattese, visto che l’opinione pubblica sensibilizzata si aspetterà la fine del caporalato e degli insediamenti rurali con l’entrata in vigore della regolarizzazione delle braccia. A questo riguardo, vale la pena ricordare che Soumaila Sacko, un bracciante con un regolare permesso di soggiorno, è stato ucciso mentre raccoglieva lamiere per costruire una baracca di fortuna negli insediamenti nella Piana di Gioia tauro (Calabria). Soumaila Sacko, come molti braccianti con un regolare permesso di soggiorno e senza possibilità di essere iscritti all’anagrafe (precludendoli ad avere accesso ai servizi sanitari), vivono negli insediamenti non per mancanza di documenti ma anche per mancanza di soldi. Quindi, se si desidera veramente combattere lo sfruttamento e il caporalato occorre avere l’audacia di rivedere lo strapotere della Gdo come segnala la direttiva Europea 633 del 2019 e l’indagine conoscitiva dell’Agcom del 2013. Tuttavia, è sorprendente vedere che il ruolo della Gdo continua a essere completamente assente dal dibattito politico sullo sfruttamento dei braccianti. Un’iniziativa seria sulla regolarizzazione doveva essere pensata, ponderata, declinata e interpretata in relazione all’attuale contesto di pandemia al fine di proteggere tutti nessuno escluso (anche le vittime dei vari decreti (in) sicurezza ancora in vigore e della legge Bossi-Fini), dal Covid-19. È complicato pensare di fare il tracciamento della pestilenza, anche attraverso applicazioni sofisticate, se si continua ad avere zone d’ombra nel nostro tessuto sociale costituite da esseri umani presenti sul territorio ma inesistenti per lo Stato. In un contesto di sfida sanitaria un provvedimento di regolarizzazione doveva essere varato per rispondere alle esigenze sanitarie ed essere un punto cardine nella strategia nazionale per tutelare la salute pubblica. Invece, questa regolarizzazione delle braccia decontestualizzata di fatto non ne tiene conto, rischiando così di essere adeguato per la salute pubblica e inappropriato per l’emergenza socio-lavorativa generata dalla pandemia. Tuttavia, questa regolarizzazione manca di capacità di rappresentare (attraverso una visione che pone al centro dell’azione politica l’essere umano prima ancora di essere un lavoratore) i bisogni, i dolori e le sofferenze degli esseri umani, sia concretamente che moralmente. Purtroppo, tutto ciò rischia di fagocitarci in un disorientamento caratterizzato come quello descritto da José Saramago in Cecità. “Per noi schiavi dei campi il Covid è solo una minaccia in più” di Francesca Sironi L’Espresso, 24 maggio 2020 “Lavoriamo come in un formicaio. Qui non sappiamo neanche cosa sia un contratto di lavoro”. Con una paga di tre euro netti l’ora pagano 120 al mese d’affitto agli stessi padroni per dormire con altri 40 in una baracca di lamiera e cartone. Senz’acqua potabile, e con un unico bagno. Ecco le loro testimonianze. “Ma cosa volete che sia il Covid? È solo una minaccia in più. Fra le altre. “Lavoriamo come schiavi da sempre e con il coronavirus le cose sono solo peggiorate. Parlo tutti i giorni con gli indiani e i bangladesi, e sono tutti reclutati ogni mattina tramite furgoncini da caporali che sono agli ordini del padrone. Caricano lavoratori pronti a rompersi la schiena e a respirare i veleni che diffondiamo sotto le serre senza mascherine e guanti. Ho visto anche questa mattina furgoncini scaricare ognuno venti persone. E domani mattina accadrà lo stesso. È pieno ovunque. Le mascherine non ci sono mai state date, i guanti ce li compriamo noi e raccogliamo tutti ammucchiati. Non si può lasciare il prodotto sulla pianta. Il padrone ti caccia se fai una cosa del genere. Altro che distanziamento. Lavoriamo come in un formicaio. Sono settimane che nonostante il coronavirus io lavoro ammucchiato per raccogliere carote e rape tra Sabaudia, San Felice Circeo e Terracina. Lavorano tutti a nero. Qui non sappiamo neanche cosa sia un contratto di lavoro”. Quello sui lavoratori da regolarizzare è stato un dibattito avvilente. Dove il cibo non era più al servizio delle persone, ma viceversa. Mentre i partiti, per mero calcolo politico, hanno giustificato come “utile” ciò che era semplicemente giusto. Benedetto, nome di fantasia, ha 45 anni. Da quando ne ha sedici lavora nelle campagne dell’Agro Pontino, la terra di bonifica del Lazio su cui si piegano ogni mattina migliaia di braccianti. In gran parte pagati in modo irregolare: o completamente in nero, oppure sotto contratti da cui risultano meno ore di quelle effettivamente impiegate. Così anche per i lavoratori formalmente contrattualizzati a nove euro lordi all’ora, come da norma, i compensi reali e le tutele sono in realtà molto inferiori. “I padroni pagano, corrompono tutti, pagano anche la camorra per garantirgli protezione e poi si rifanno su noi avvelenandoci e spremendoci come limoni. I controlli sono rarissimi e tranne alcune eccezioni spesso gli ispettori si fanno solo delle passeggiate in campagna senza controllare seriamente come lavoriamo e quanto veniamo pagati”. Marco Omizzolo è il ricercatore Eurispes e presidente dell’associazione “in Migrazione” che ha supportato i braccianti Sikh di Latina nel loro primo sciopero tre anni fa. Non ha mai smesso di tenere contatti con mediatori e lavoranti agricoli: segue Benedetto da anni, e con lui gli extracomunitari che si trovano ai margini dei margini. “Perché sono persone escluse da qualsiasi politica. Non parlano la lingua, non hanno accesso a informazioni e risorse”, riflette Omizzolo: “Sanno del Covid, ma abbiamo dovuto portare noi cinquemila mascherine nei campi, e spiegare loro i contenuti dei decreti, grazie a dei mediatori, altrimenti non avrebbero capito come comportarsi. Ai caporali ovviamente non interessa della loro salute”. Interessa altro: “L’emergenza coronavirus ha impoverito molti settori, nel Lazio e non solo. Quello zootecnico, ad esempio, perché latte e mozzarelle erano acquistate soprattutto dai ristoratori. La domanda crollata delle pizzerie non è stata compensata dai consumi al supermercato. Chi si occupa degli allevamenti sta scivolando così nella povertà”, spiega Omizzolo. “Ma il settore dell’ortofrutta invece ha aumentato gli ordini. Caricandone il peso solo sui lavoratori: i caporali chiedono orari più lunghi e intensi. Il business dell’agro-mafia in Italia vale secondo le nostre stime 25 miliardi di euro”. L’osservatorio Placido Rizzotto della federazione agro-industriali (Flai) della Cgil stima che nei campi italiani lavorino almeno 220 mila stranieri irregolari. “160 mila sono i braccianti che vivono nei ghetti o negli accampamenti informali”, spiega il responsabile Jean-Renè Bilongo: “A questi vanno aggiunti i richiedenti asilo che avevano una protezione internazionale decaduta con i decreti sicurezza di Salvini, e gli stagionali rimasti in attesa del decreto flussi”. Bah Ibraim arriva dal Gambia. Da un anno e mezzo raccoglie pomodori in un’azienda agricola della zona di Foggia, senza contratto. Prende tre euro netti l’ora. Ma deve pagarne 120 al mese d’affitto agli stessi padroni per dormire con altri 40 in una baracca di lamiera e cartone. Senz’acqua potabile, e con un unico bagno. Per loro l’emergenza virus è stata solo un surplus di paura: del contagio, sì, ma soprattutto della strada. Non si spostano quasi mai, temendo controlli di polizia, e quindi il rischio di essere espulsi. Il Covid li ha chiusi in un pezzo di terra da cui non si spostano nemmeno per fare un giro in paese. Muca invece è nato a Lushnje, una cittadina a Sud di Tirana. Vive nella zona di Caserta da cinque anni, insieme a zii, cugini e parenti. Tutti, in famiglia, sono braccianti. Muca è senza documenti. Un’azienda dell’Agro Falerno ha provato più volte a regolarizzarlo come stagionale. “Ma le quote riservate nei decreti flussi alla nazionalità albanese in Campania sono irrisorie”, spiegano i sindacalisti che sono in contatto con lui ogni giorno in attesa della sanatoria: “È mortificante e disumano”. Per l’emergenza sanitaria, il proprietario agricolo ha chiesto a tutti i lavoratori di arrivare ai campi con mezzi propri. Quanti sono senza documenti si sentono così doppiamente braccati: mentre temono in bici di raggiungere le serre. E mentre sgobbano per ore pagati la metà di quanto previsto. “Qui fra Lagosanto e Ferrara è sempre più difficile entrare in contatto con le donne rumene che raccolgono fragole e asparagi. Perché da mesi praticamente non escono mai dai vivai dove lavorano e abitano. Gia prima si affacciavano in paese solo per fare la spesa. Ora nemmeno quello”. Dario Alba segue da anni le terre basse del Delta per la Flai Cgil, dove la maggior parte del raccolto è garantito grazie alle madri che arrivano apposta dalla Romania per infangarsi le mani e mandare i soldi a casa prima di rientrare. “Quando è scoppiato il focolaio in Lombardia e si è iniziato a parlare di chiusura dei confini, moltissime sono scappate”, racconta: “Erano disperate. Dicevano: non vogliamo morire in Italia. Alcune imprese hanno organizzato pullman che attraversavano le regioni del Nord e le riportavano dalle famiglie. È stato drammatico”. Tante sono rimaste però. “E a loro i padroni chiedono di lavorare di più. L’Emilia-Romagna si è fatta promotrice di un portale dove si possono incontrare domanda e offerta di impieghi agricoli. È un’iniziativa meritevole, e che chiediamo da tempo, perché il pubblico partecipi all’intermediazione per evitare infiltrazioni mafiose e sfruttamento, come prevede la legge del 2016 sul caporalato”, continua: “Sulla piattaforma si sono iscritti anche molti italiani che hanno perso impiego per il Covid: ex baristi, disoccupati. Ma nelle campagne i padroni stanno chiedendo più sforzi agli stranieri, considerati più abituati a un lavoro ingrato e pesante”. Stati Uniti. Disabile mentale libero dopo 43 anni di carcere da innocente di Loretta Bricchi Lee Avvenire, 24 maggio 2020 Per metà della detenzione nel braccio della morte, poi per le sue condizioni è sfuggito al boia in Georgia. L’afroamericano subì discriminazioni razziali. Johnny Lee Gates, 63 anni, è libero dopo 43 anni di carcere, 26 dei quali trascorsi nel braccio della morte in Georgia. Condannato nel 1977 per omicidio, stupro e rapina, l’afroamericano 63enne si è sempre detto estraneo all’uccisione di Katharina Wright. Ma il suo quoziente intellettivo di 65 lo aveva portato prima a contraddirsi poi, secondo gli inquirenti, a confessare e alla fine (in base a quanto affermato) a essere condannato a morte: pena evitata e commutata in ergastolo solo in quanto l’esecuzione di un disabile mentale è anticostituzionale. La scoperta di ulteriori prove e l’accertamento della discriminazione razziale subita, gli avevano garantito un nuovo processo. Nel 2015 il Georgia Innocence Project (l’organismo indipendente di avvocati che assiste i condannati e spesso riesce a far riesaminare i casi) era riuscito a chiedere nuovi test del Dna su due elementi di prova: una cravatta del marito e una cintura di accappatoio con cui, secondo la giuria del 1977, Gates aveva soffocato Katarina Wright. Il Dna rinvenuto era di almeno cinque persone diverse, ma non di Johnny Gates. I legali gli sono stati molto vicini e per ottenere la libertà Gates ha accettato il cosiddetto “patteggiamento Alford”: una procedura per cui il ricorrente non dichiara la sua colpevolezza ma ammette che la procura ha avuto a disposizione sufficienti prove per condannarlo. Sulla base del patteggiamento, Gates è stato condannato a 40 anni per omicidio colposo. Avendone già scontati 43, è tornato in libertà Gli Usa sanzionano 33 entità cinesi per violazioni dei diritti umani di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 24 maggio 2020 Gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni a 33 società e istituzioni della Repubblica Popolare Cinese per violazioni dei diritti umani a Xinjiang sugli uiguri. Lo ha annunciato il Dipartimento del Commercio, sottolineando che le aziende incontreranno restrizioni nell’accedere alla tecnologia americana. I provvedimenti colpiranno l’Istituto di scienza forense del ministero della Pubblica sicurezza cinese e la compagnia Aksu Huafu Textiles, accusate di “violazioni e abusi dei diritti umani”. Altre sette aziende saranno sanzionate per aver rafforzato le attività di sorveglianza nello Xinjiang, con l’imposizione di restrizioni alle esportazioni in Usa. “Si tratta - scrive il dipartimento di Stato - di nove entità che sono complici di violazioni e abusi dei diritti umani commessi nel quadro di una campagna di repressione, di detenzione arbitraria e di sorveglianza ad alta tecnologia contro la comunità uigura e kazaka e contro altre minoranze musulmane nella Regione autonoma uigura dello Xinjiang”. Nella lista delle sanzioni sono poi state inserite altre 24 entità che hanno “sostenuto l’acquisizione di prodotti per le forze armate cinesi” e che sono specializzate, in particolare, in intelligenza artificiale e in tecnologie per il riconoscimento facciale. Tra queste una delle più famose è NetPosa. La lista nera viene varata proprio mentre il Congresso cinese discute le nuove norme sulla Sicurezza Nazionale che dovranno entrare in vigore ad Hong Kong: saranno vietate manifestazioni “sediziose” e “interferenze dall’estero” e si darà via libera alla censura. Misure che fanno vacillare il principio “Un Paese due sistemi”. La settimana prossima la Camera dei Rappresentanti americana dovrebbe votare una misura che impone sanzioni ai funzionari cinesi per le violazioni dei diritti umani contro la minoranza musulmana degli uiguri. Il provvedimento è stato approvato dal Senato a maggioranza repubblicana il 14 maggio e chiede la chiusura dei campi in cui sono tenuti gli uiguri e richiede che il presidente Donald Trump imponga sanzioni e revochi i visti dei funzionari responsabili delle violazioni. Brasile. La “rabbia bianca” che genera violenza e diseguaglianze di Djamila Ribeiro* Il Manifesto, 24 maggio 2020 Durante la pandemia il sabotaggio dei vari programmi sociali è diventato definitivo. Per l’emergenza, aiuti statali pari a 100 euro mensili ma perlopiù inaccessibili. In un Paese in cui i femminicidi e le aggressioni in ambito domestico sono già molto elevate, si registra nelle ultime settimane un aumento preoccupante. Il Brasile è immerso in una profonda crisi. Fino a poco tempo fa, i giornali del Paese diffondevano ogni giorno notizie sulla situazione e numeri dei morti in Italia. Al di là dell’evidente tragedia che il Paese ha attraversato e ancora attraversa, l’obiettivo del messaggio diffuso in Brasile era parlare delle misure di isolamento, punto su cui, nonostante la raccomandazione delle autorità sanitarie, a oggi non c’è una pacifica intesa. Fra le varie ragioni merita sottolineare la posizione del capo del governo, Jair Bolsonaro. Di formazione militare ed eletto in una consultazione contestata - sia per lo scandalo della divulgazione di massa di fake-news su WhatsApp, sia per la retorica dell’odio nell’esaltazione dei sentimenti coloniali della sua base elettorale di persone bianche - Bolsonaro è stato avvantaggiato direttamente dall’allora giudice Sergio Moro. Questi escluse la candidatura del favorito nei sondaggi, l’ex presidente Luiz Inacio Lula da Silva, e in seguito ha assunto l’incarico di ministro di Bolsonaro, eletto nel contesto di quella frode. A un anno e cinque mesi dall’insediamento, il presidente e la sua cerchia sono responsabili di aver portato il Paese in una profonda crisi amministrativa, politica e della salute pubblica. Oggi in Brasile sui giornali nazionali si parla poco dell’Italia, mentre online spesso si sente dire che qui non abbiamo solo il Covid-19, ma anche Bolsonaro. Il suo mandato ha rafforzato le oppressioni storiche. Dopo 13 anni di coalizione progressista che aveva tenuto conto di istanze storiche del movimento nero e sviluppato importanti politiche sull’istruzione (la creazione di università pubbliche, l’adozione delle quote razziali e l’esenzione fiscale per le università private aderenti al programma governativo sulle rette gratuite per gli studenti poveri), il cambiamento ha prodotto una situazione scomoda per il “patto narcisistico della bianchezza”. Un’espressione brillante, coniata dalla ricercatrice nera brasiliana Cida Bento, in riferimento al patto sotteso tra persone bianche che tra loro si elogiano, si assumono, si premiano, si proteggono. Sospinto dalla rabbia bianca per l’ascesa delle fasce popolari e appoggiato dal discorso religioso oscurantista delle chiese neopentecostali e cattoliche, il governo Bolsonaro ha promosso il taglio di migliaia di borse ai ricercatori, per moltissimi unica fonte di sostentamento, e il congelamento dei versamenti alle università, loro prima fonte di bilancio. Capire che le diseguaglianze non dipendono dalla provvidenza, ma sono la conseguenza di storiche oppressioni, ci offre un importante punto di analisi. Le identità attraversate dalle oppressioni di razza, classe e genere posizionano la donna nera alla base della piramide sociale, dove subisce in modo sproporzionato l’impatto di questi e altri arretramenti. Per esempio, desta attenzione l’aumento del già elevato indice di violenza domestica. I numeri sono sempre stati scioccanti, in un Paese dove il ministero della Salute calcola che una donna viene aggredita ogni 4 minuti e negli ultimi anni i femminicidi di donne nere in ambiente domestico sono aumentati del 54%, mentre quelli di donne bianche sono diminuiti del 10%. Il dato mostra quanto sia fondamentale pensare in termini di razza quando si formulano politiche pubbliche. Invece, oltre a essere impreparato sotto questo punto di vista, il governo ha tagliato gli investimenti a tutte le politiche destinate alle donne. Stiamo parlando di una riduzione da 119 milioni di Reais (circa 20 milioni di euro, nell’assurda quotazione di 6 a 1 della moneta brasiliana) nel 2015 a 5,3 milioni di Reais nel 2019. Nel pieno di questo attacco alle donne è arrivata la pandemia, con un aumento del 35% dei casi di denunce di violenza domestica, con il forte sospetto di sotto-rappresentazione. A ciò si sommano molte altre violenze, difficilmente riassumibili in un articolo, tra cui l’attacco alla popolazione indigena, il sovraffollamento carcerario sotto minaccia imminente di strage, la totale mancanza di riforme dell’austerità. In materia di assistenza sociale, a oltre un milione e mezzo di famiglie è stato sospeso l’aiuto economico mensile, che può arrivare a 45 euro. Il programma “Bolsa Família”, premiato a livello internazionale e capace di innescare trasformazioni sociali nelle secolari strutture diseguali del Paese, oggi viene strangolato. Con l’arrivo della pandemia, dopo molte proteste e a malincuore, il governo ha approvato aiuti d’emergenza alle famiglie bisognose, un versamento mensile di circa 100 euro, molti dei quali non vengono concessi. Il sabotaggio di vari programmi sociali è accompagnato dalla pratica politica neoliberale di smantellamento dello Stato per consegnarne quote alla privatizzazione. È curioso vedere come, in generale, le istituzioni europee restino scioccate dalla brutalità di Bolsonaro, ma fino a un certo limite. Questo limite è molto evidente nelle proprietà e nelle ricchezze naturali brasiliane privatizzate al prezzo di colonie per gruppi finanziari statunitensi, cinesi o - guarda un po’ - europei. Sotto un comandante militare, burattino su cui ricade la denuncia degli orrori umanitari che il suo gruppo promuove e servile rispetto agli interessi delle agende economiche sfruttatrici dell’emisfero nord, vediamo che il ciclo coloniale si reinventa come meccanismo. Capire le radici coloniali è un passo importante per comprendere il presente. I governi che così tanto guadagnano con la miseria del Brasile che cosa restituiscono al Paese in politiche e agende umanitarie? Se non fosse per la pandemia, in questi giorni sarei in Italia (per il lancio del suo libro Il luogo della parola, tradotto dall’editrice Capovolte, ndr). Spero di venirci presto, per discutere di questo e altri temi. Fino ad allora, continueremo il lavoro di denuncia di questo governo e delle agende internazionali responsabili di mantenerlo al potere mentre fustiga i gruppi sociali che storicamente resistono al sistema coloniale ancora vigente in Brasile.