“Il carcere al tempo del Coronavirus”: la situazione dietro le sbarre resta critica di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 23 maggio 2020 È stato presentato ieri mattina in diretta Facebook il XVI Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione in Italia, dal titolo “Il carcere al tempo del coronavirus”. Uno dei dati emersi è quello sul tasso di contagio in carcere, significativamente più alto rispetto a quello della società libera. Oltre a esponenti dell’associazione, erano presenti il nuovo capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Dino Petralia, alla sua prima uscita pubblica nel nuovo ruolo, il direttore generale per l’Esecuzione Penale Esterna Lucia Castellano, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis e il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà Mauro Palma, i quali tutti hanno portato contributi significativi alla discussione in termini di apertura prospettica e visione di sistema. Il tasso di affollamento effettivo delle carceri italiane, come si legge nel Rapporto, era all’inizio dell’emergenza sanitaria pari a 130,4%. Poco meno di 15.000 persone erano recluse oltre i posti letto disponibili. Il 15 maggio 2020 il tasso di affollamento era sceso a 112,2%. Le 8.551 unità in meno nella popolazione detenuta sono dovute in parte alle detenzioni domiciliari concesse - 3.282 dall’entrata in vigore del decreto Cura Italia, tendenzialmente riguardanti persone condannate per reati non gravi con meno di 18 mesi da scontare - e in parte a un forte calo nel numero degli ingressi, avendo il lockdown generale fatto diminuire reati e arresti. I detenuti al 41bis scarcerati sono stati 4 (alcuni hanno fatto ritorno in carcere). In tutta Italia i detenuti sottoposti a questo regime sono 747, di cui 390 con condanna definitiva e 354 in custodia cautelare. Rimane critica la situazione di molte carceri, quali ad esempio Latina (tasso di affollamento pari a 179,2%), Taranto (187,6%) o Larino (194,7%). Anche nelle regioni maggiormente colpite dal Covid-19 troviamo istituti come Como (161,4%), Pordenone (156,8%), Vigevano (148,7%), Busto Arsizio (148,3%) o Tolmezzo (148,3%) che destano ancora grande preoccupazione. I primi casi di contagio in carcere si sono registrati verso la metà di marzo. Attualmente sono 119 i detenuti positivi al virus, mentre si contano 162 contagi tra il personale. Se guardiamo al numero complessivo di detenuti contagiati nel corso di questi mesi, vediamo che il tasso di contagio è stato significativamente più elevato di quello esterno. Anche qui la situazione è assai disomogenea. Nella maggior parte degli istituti non si è verificato alcun contagio, mentre a Verona si sarebbero riscontrati 29 casi e a Torino 67, numeri molto alti se paragonati al resto del paese. Nel corso del 2019 Antigone ha visitato 98 strutture penitenziarie. In sole 59 di queste è garantita la presenza di un medico 24 ore su 24. Sempre negli istituti visitati, una media del 27,6% dei detenuti risultava in terapia psichiatrica. Ma anche su questo la situazione non è omogenea: nel carcere di Spoleto risultava in terapia il 97% dei reclusi, a Lucca il 90%, a Vercelli l’86%. La presenza di psichiatri in questi istituti era garantita di media per 7,4 ore settimanali ogni 100 detenuti. In 25 delle 98 carceri visitate abbiamo trovato celle in cui non era rispettato il criterio dei tre metri quadri per detenuto. In 45, ovvero circa la metà, c’erano celle senza acqua calda per lavarsi. In 52, ben più del 50%, si trovavano celle prive di doccia, cosa che costringe i detenuti a usare docce comuni. In 8 istituti tra quelli visitati c’erano celle con il water a vista in mezzo alla stanza anziché in un ambiente separato. In 29 istituti si è riscontrato un accesso alla luce del giorno e all’aerazione degli ambienti ridotto, se non addirittura compromesso, dalla presenza di schermature alle finestre. La popolazione detenuta è inoltre sempre più anziana, altro elemento di preoccupazione nell’emergenza sanitaria. Alla fine del 2009 le persone detenute con più di 40 anni erano meno del 40%, alla fine del 2019 erano oltre il 50%. La percentuale di chi ha più di 60 anni è più che raddoppiata, passando dal 4,1 all’8,6%. I dati sulle pene inflitte mostrano come esse siano parecchio più lunghe rispetto alla media europea, scardinando quel pregiudizio non basato su alcun dato che vedrebbe nell’Italia il Paese dalle pene miti. Molto incide sulla detenzione la normativa sulle droghe, in violazione della quale è in carcere il 32% dei detenuti (la media europea è del 18%). In custodia cautelare, dunque presunti innocenti, il 33% del totale dei detenuti: la media europea è di ben 10 punti percentuali inferiore. L’identikit del detenuto tipo ci mostra la bassa scolarizzazione, lo scarso impiego lavorativo, la scarsa formazione professionale. Nel 2019 si sono tolti la vita 53 detenuti mentre nei primi mesi del 2020 sono stati 17. Il tasso è di 8,7 suicidi su 10.000 detenuti presenti, a fronte di un tasso nel paese di 0,65 suicidi su 10.000 abitanti. Il carcere, infine, costa tanto. In questo 2020 costerà a tutti noi ben tre miliardi di euro. Nonostante l’investimento sulla rieducazione del condannato non sia purtroppo il cuore del sistema (si contano solo 774 educatori in totale, vale a dire un educatore ogni 79 detenuti) ciascun detenuto ci costa 134,5 euro al giorno (tenendo conto del numero dei detenuti a fine febbraio). Visti i tassi di recidiva, la marginalità sociale e la scarsa pericolosità di tanta gente che imprigioniamo - valga per tutti la gestione delle tossicodipendenze - non sembrerebbe un ottimo investimento. *Coordinatrice associazione Antigone Antigone lancia un appello: “Non bisogna ritornare indietro” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 maggio 2020 Il capo del Dap, Dino Petralia, alla presentazione del Rapporto dell’associazione. Durante la presentazione del sedicesimo rapporto di Antigone sulle carceri, significativo l’intervento del neo capo del Dap Dino Petralia. “Ho sempre apprezzato Antigone non solo per il focus che fa sulle carceri - ha detto - ma per tutto ciò che gira intorno. Per me è un ausilio importante e prometto la mia attenzione alle istanze che provengono dall’associazione”. Ma non solo. Il capo del Dap ha voluto sottolineare che il compito dell’Amministrazione penitenziaria non è solo garantire la sicurezza, ma anche “garantire le garanzie”. La frase chiave che riassume il sedicesimo rapporto di Antigone sul carcere al tempo del coronavirus è “Non bisogna ritornare indietro”. Perché? Si legge che a fine febbraio i detenuti erano 61.230 a fronte di una capienza regolamentare di 50.931 posti. Il tasso di affollamento ufficiale era dunque del 120,2%, anche se i posti effettivamente disponibili erano circa 4.000 in meno, e dunque il tasso di affollamento effettivo era intorno al 130%. Oggi, proprio per far fronte all’emergenza Covid-19, c’è stata una significativa riduzione della popolazione detenuta che, secondo Antigone, va ridotta ancora di più e mantenere quindi il trend in controtendenza rispetto, appunto, nei mesi scorsi prima dell’emergenza. Il 15 maggio, infatti, i detenuti presenti erano 52.679, a fronte di una capienza regolamentare che al 30 aprile era di 50.438 posti. I detenuti sono dunque calati notevolmente, sono 8.551 in meno rispetto a fine febbraio, “ma - scrive Alessio Scandurra di Antigone - nonostante le polemiche scatenatesi per la concessione della detenzione domiciliare ad alcuni esponenti della criminalità organizzata, di fatto il traguardo auspicato ad oggi non è stato raggiunto”. Il dato oggettivo è che comunque la riduzione c’è stata. “Si è costruita una sinergia di rete tra direzioni penitenziarie, magistratura di sorveglianza, associazioni e garanti territoriali - scrive Patrizio Gonnella nella prefazione del rapporto di Antigone - ai fini della promozione di una tendenza deflattiva. I numeri bassi sono funzionali ad assicurare la legalità interna e internazionale, nonché a creare le condizioni per organizzare politiche carcerarie effettivamente dirette alla reintegrazione sociale. I numeri alti trasformano i detenuti in cifre, dunque anonime per le istituzioni”. Ma va mantenuto anche l’utilizzo degli strumenti informatici come skype utili al rafforzamento dei legami tra detenuti e i propri familiari. Gonnella ricorda che da qualche settimana in molte carceri italiane i detenuti utilizzano smartphone di Stato, e non personali, per video- telefonare ai propri parenti. Una circolare dell’amministrazione penitenziaria lo ha autorizzato. “Ben venga - scrive sempre il presidente di Antigone Gonnella - un provvedimento che tiene conto della solitudine, della disperazione, dell’ansia di chi sta dentro e di chi sta fuori. Si tratta di una concessione che deve trasformarsi in un diritto, evitando di tornare indietro ai tempi della mancanza assoluta di comunicazione”. Il rapporto fa una panoramica, per poi scendere nel dettaglio, sulle condizioni carcerarie di tutto il 2019. Il tasso di affollamento era altissimo. Tutto questo si traduce in condizioni di vita in carcere molto difficili, anche da un punto di vista igienico. In 14 istituti visitati le celle più affollate ospitavano 5 detenuti, in 13 c’erano celle da 6, in due istituti c’erano celle da 7, in 5 c’erano celle che ospitavano anche 8 persone ed in 3, Poggioreale, Pozzuoli e Bolzano, c’erano celle che ne ospitavano 12 contemporaneamente. “Alla faccia del distanziamento sociale”, sottolinea Alessio Scandurra di Antigone. Altro dato posto in evidenza è quello che smonta lo stereotipo per cui in Italia chi va in carcere ne esce subito dopo: “Il 27% aveva una pena compresa tra i 5 e i 10 anni (il doppio della Francia, a fronte di una media europea del 20,5%), il 17% tra i 10 e i 20 anni (media europea del 12%) e il 6% più di 20 anni (media europea del 2,5%). Gli ergastolani erano (e sono) più della media: il 4,4%, a fronte di una media del 3%”, si legge nel rapporto”. Si approfondiscono anche le rivolte con la conseguenza di 13 detenuti morti. Ma non mancano alcune segnalazioni di presunte violenze che sarebbero avvenute non per sedare le rivolte stesse ma successivamente. Antigone ha presentato quattro esposti relativi a quattro diverse carceri. Le ricostruzioni parlano di presunti pestaggi brutali e organizzati avvenuti con i detenuti ormai in cella, a luci spente. Antigone aspetta che le indagini facciano il loro corso. Si parla anche della diffusione del Covid-19 nelle carceri dove, almeno ad oggi, l’impatto è contenuto. Ma nel contempo si ribadisce che il pericolo non ancora scampato e “quando il virus alla fine entra in luoghi sovraffollati e malsani come le nostre carceri fermarlo diventa molto complicato”, sottolinea Scandurra nel rapporto. Non per ultimo viene affrontata la questione dei braccialetti elettronici. “Dove sono i 15.000 braccialetti che dovrebbero essere già attivi? E quanto ci vorrà perché le quasi 12.000 persone a cui manca meno di un anno e mezzo da scontare possano lasciare il carcere munite di controllo elettronico?”, scrive Perla Allegri di Antigone ricordando l’ultimo bando vinto e la poca trasparenza sulla questione. Carceri sovraffollate. Antigone: “Spazio in cella questione vitale anche post Covid” di Federica Olivo huffingtonpost.it, 23 maggio 2020 “L’Italia non è il Paese della dolcezza delle pene” si legge nel report annuale. Un detenuto su tre in carcere per droga. Il 33% attende il giudizio. Sono 747 i detenuti al 41bis, aumentano gli ergastolani. Lo spazio in carcere come questione vitale. Prima, durante, ma anche dopo l’emergenza Covid. Per tutelare la salute in primis, ma anche per restituire legalità - e dignità - ai ristretti. Parte da questo elemento l’ultimo report dell’Associazione Antigone sulle carceri. Il lavoro, presentato sui canali social alle 11 di questa mattina, che HuffPost ha potuto visionare in anteprima, parte da come gli istituti di pena hanno affrontato l’emergenza Covid. Il contagio, nella maggior parte dei casi, non ha raggiunto le cifre che si temevano. Ad oggi sono 119 i detenuti che hanno contratto il coronavirus. Moltissimi casi, 67, sono stati registrati a Torino. Situazione seria anche a Verona, dove i detenuti che hanno contratto il Covid sono stati 29. Tra gli agenti penitenziari i casi di positività sono stati 162. Da quando, a febbraio, è iniziata la crisi Covid la popolazione carceraria è stata ridotta di circa 8500 unità. Nel dossier si legge: “Dunque all’inizio dell’emergenza vi erano 10.229 persone in più rispetto alla capienza regolamentare. Il dato sulla capienza non tiene conto di situazioni transitorie che comportano scostamenti temporanei dal valore indicato. Si calcola che circa altri 4 mila posti non siano effettivamente disponibili. Dunque inizia l’emergenza con una sovra-popolazione detenuta pari a poco meno di 15 mila unità. Il tasso di affollamento era del 130,4%. Il 15 maggio 2020 i detenuti presenti erano 52.679. Il tasso di affollamento scende al 112,2%. I detenuti sono 8.551 in meno rispetto a fine febbraio”. Il sovraffollamento, per quanto ridotto di molto, resta. Antigone ripercorre le tappe essenziali che hanno portato alla diminuzione di reclusi in carcere. Ai quali è stata assegnata la detenzione domiciliare. Si legge nel rapporto: “Da fine febbraio al 19 marzo le presenze in carcere sono calate di 95 persone in meno al giorno. Questa tendenza accelera con l’entrata in vigore del decreto “Cura Italia”, che prevede le prime misure deflattive: dal 19 marzo al 16 aprile la popolazione detenuta cala ulteriormente di 158 persone in meno al giorno. Dal 16 aprile 2020 in poi il clima cambia. Si pone il tema delle scarcerazioni di persone appartenenti alla criminalità organizzata. Dal 16 aprile al 15 maggio le presenze in carcere calano di 77,3 presenti al giorno, meno della metà di prima. Il Garante nazionale riferisce che le detenzioni domiciliari concesse dopo il 18 marzo erano al 15 maggio 3.282 in tutto, e in 919 casi era stato adottato il braccialetto elettronico. Sono persone condannate per reati non gravi con meno di 18 mesi da scontare. Fuori dall’Italia la riduzione della popolazione detenuta ha avuto percentuali analoghe in Francia, mentre negli Usa è calata dell’1,8%. Ma il tema dello spazio, e del sovraffollamento, non si esaurisce con l’emergenza Covid. “Sono critiche - si legge ancora nel report - le situazioni di Latina (179,2%), Taranto (187,6%) o Larino (194,7%) ed anche nelle regioni più a rischio ci sono carceri come Como (161,4%), Pordenone (156,8%), Vigevano (148,7%), Busto Arsizio (148,3%) o Tolmezzo (148,3%) che destano ancora grande preoccupazione”. Oltre la crisi portata dal Coronavirus, restano altri elementi che fanno dell’Italia un caso particolare rispetto all’Europa: il numero di ultrasessantenni in cella, l’alta percentuale dei detenuti imputati o condannati per droga, l’incremento degli ergastolani. E il dato, oggettivo, che “l’Italia non è il Paese della dolcezza delle pene”. Quanto all’età media della popolazione, si legge nel rapporto: “Alla fine del 2009 le persone detenute con più di 40 anni erano meno del 40%, alla fine del 2019 erano oltre il 50%. La percentuale di quelle con più di 60 anni è più che raddoppiata, passando dal 4,1 all’8,6%. È una popolazione più vecchia rispetto alla media europea. Gli ultracinquantenni, a inizio 2019, erano il 25% del totale. Solo in Bulgaria erano di più (35%), a fronte di una media europea del 16%”. Pesa il dato dei detenuti per droga: sono un terzo del totale e, sottolinea Antigone, “con un’altra legge si risparmierebbe un miliardo di euro”. In Italia, si legge ancora nel rapporto, “i detenuti condannati per violazione della normativa sulle droghe erano il 32%, la media europea era del 18%. I detenuti tossicodipendenti arrivano a sfiorare di media i 30 punti percentuali degli ingressi nel 2019, mentre rappresentano stabilmente più di un quarto dei presenti”. Antigone smonta la retorica delle pene troppo brevi: “I dati mostrano come sia infondato lo stereotipo per cui in Italia chi va in carcere ne esce subito dopo. Il 27% aveva una pena compresa tra i 5 e i 10 anni (il doppio della Francia, a fronte di una media europea del 20,5%), il 17% tra i 10 e i 20 anni (media europea del 12%) e il 6% più di 20 anni (media europea del 2,5%). Gli ergastolani erano (e sono) più della media: il 4,4%, a fronte di una media del 3%”. Tanti in cella senza ancora una condanna: “Com’è noto - si legge nel rapporto - il nostro paese si distingue per l’alta percentuale di detenuti in attesa di giudizio: a inizio 2019 erano il 33%, dieci punti sopra la media europea (del 23%). Un passaggio sui reclusi al 41bis, dopo settimane di polemica nata da un equivoco. “Al 18 maggio sono 4 i detenuti al 41bis a cui è stata concessa la detenzione domiciliare per motivi di salute. In tutto i detenuti al 41bis sono 747 (di cui 12 donne). 390 hanno una condanna definitiva. L’età media è di 55 anni, il 35% (263) ha oltre 60 anni. 494 reclusi in alta sicurezza sono stati scarcerati di cui 253 erano in attesa di giudizio; degli altri 245 solo 6 sono stati scarcerati grazie alle misure previste dal decreto “Cura Italia” per decisione del magistrato di sorveglianza. In tutto i detenuti sottoposti al regime di alta sicurezza (AS3) sono 9.014 (8.796 uomini e 218 donne) divisi in 55 istituti. In AS2 sono 84 in totale di cui 52 per terrorismo islamico. Degli 84 in totale 75 sono uomini e 9 donne (in calo del 20% rispetto al 2018)”. Intanto, proprio mentre Antigone discuteva, tra gli altri, con il Garante Mauro Palma, con il nuovo capo del Dap Dino Petralia e con il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis di carcere duro, dalla Consulta arriva una decisione sul 41bis. Non saranno più vietati gli scambi di oggetti di piccolo valore, come il cibo o prodotti per l’igiene personale. A patto che avvengano tra detenuti appartenenti allo stesso “gruppo di socialità”. Detenuti in calo, grazie ai magistrati sotto attacco di Alessio Scandurra* Il Riformista, 23 maggio 2020 L’impegno soprattutto dei tribunali di sorveglianza ha fatto sì che 8.551 detenuti siano potuti uscire dal carcere evitando così la catastrofe. Ma in molti istituti il sovraffollamento è ancora una terribile realtà. Nel paese è iniziata la fase 2. Ed anche in carcere. Dal 18 maggio riprendono, anche se con diversi limiti, e a quanto ci risulta non ovunque, i colloqui in presenza dei detenuti con i loro familiari, dopo più di due mesi in cui ci si poteva guardare negli occhi solo in videoconferenza. Ma la normalità, parola strana per un luogo anomalo come il carcere, è ancora lontana. Passeranno mesi prima che le attività di formazione, il lavoro, lo sport o la socialità tornino quelli di prima. Antigone intanto ha presentato ieri Il carcere al tempo del coronavirus, il nostro XVI rapporto sulle condizioni di detenzione, per provare a raccontare cos’è successo in carcere fino ad oggi. Un’impresa non semplice se si pensa che, per quanto mi riguarda per la prima volta da quando faccio parte dell’associazione, non ci è stato possibile entrare in carcere per vedere con i nostri occhi cosa stava succedendo. Ed è successo di tutto. Dalla fine di febbraio a metà maggio in carcere ci sono 8.551 detenuti in meno, un calo non da poco, anche se le presenze restano al disopra della capienza regolamentare, che è di 50.931 posti. Un calo che si è concentrato nelle regioni del nord, ma che lascia molti istituti, anche nelle zone più colpite dalla pandemia, ancora troppo affollati. Il calo è dovuto in parte alle misure adottate dal Governo con il decreto “Cura Italia”, ma solo in parte, dato che i numeri erano già iniziati a scendere da prima. Assai più del decreto ha probabilmente contato la volontà degli operatori e dei magistrati di evitare la catastrofe. E per fortuna ad oggi quella catastrofe non c’è stata. I primi casi si sono registrati a partire da metà marzo e al 15 maggio erano 119 i detenuti contagiati, di cui 2 in ospedale, mentre erano 162 i contagi tra il personale. 8 ad oggi i decessi, 4 tra i detenuti e 4 tra gli operatori (2 agenti e 2 medici). In effetti nella maggior parte degli istituti non si è verificato nemmeno un caso ma dove il virus è entrato, come a Verona dove si è parlato di 29 casi di Covid-19, o Torino con 67 contagi, si sono registrati numeri molto alti e situazioni assai difficili da gestire. E il pericolo non è ancora passato. Ma nel frattempo si sono verificate altre catastrofi. Rivolte durate giorni che hanno coinvolto decine di istituti e che sono costate la vita a 13 persone, ed un clima di ansia e di paura, per detenuti e personale, di cui anche noi siamo stati investiti. Abbiamo infatti ricevuto centinaia di richieste di aiuto da amici e familiari che volevano sapere cosa stesse succedendo ai loro cari, come stessero cambiando le regole del carcere, quali fossero in un dato istituto il numero dei contagi e le misure di prevenzione. E noi abbiamo provato a rispondere, coinvolgendo tutti i nostri osservatori e tutti i nostri volontari, che hanno costituito una task force impegnata a rispondere a tutte le richieste e alle segnalazioni che arrivavano. In alcuni casi anche di fatti gravissimi, come le violente rappresaglie a danno di detenuti che si sarebbero verificate dopo le proteste nelle carceri di Milano ‘Opera”, Pavia, Santa Maria Capua Vetere e Melfi, a seguito delle quali nell’arco di un mese abbiamo presentato quattro esposti all’autorità giudiziaria. E nel frattempo il carcere, oltre che cambiare ritmi, cambiava anche aspetto. Fuori venivano installati tendoni per il pre-triage, per monitorare gli ingressi, mentre dentro interi reparti venivano chiusi, dove possibile, per fare spazio a sezioni di isolamento o di quarantena. E mentre cresceva la separazione tra il dentro e il fuori, questo muro sempre più alto veniva scavalcato da nuovi strumenti di comunicazione. Oltre ad aumentare il numero di telefonate a disposizione di cui ciascun detenuto si affacciavano sulla scena strumenti come Skype o WhatsApp, gli stessi con cui noi tutti abbiamo familiarizzato in questi mesi. Nel rapporto pubblicato ieri proviamo a raccontare le molte sfaccettature di questa trasformazione, provando anche ad immaginare che aspetto avrà il carcere che troveremo alla fine del tunnel. *Associazione Antigone Il Sottosegretario Giorgis: “Procedere a investimento serio sulle misure alternative” adnkronos.com, 23 maggio 2020 “L’emergenza sanitaria spero che possa nei prossimi mesi venire progressivamente meno, quello che tuttavia non deve venire meno è cercare di affrontare il problema del sovraffollamento negli istituti penitenziari. Sono stati dati dei numeri che fanno ben sperare sul prosieguo del percorso e che ci dicono di non rimanere fermi”. Lo ha detto il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis nel corso della conferenza stampa online, organizzata da Antigone, in cui sono stati presentati i dati sulla situazione carceraria in Italia prima e dopo l’esplosione dei contagi. Secondo Giorgis serve “far tesoro delle difficoltà e buone pratiche che si sono sperimentate durante l’emergenza sanitaria e dare impulso sostanziale a quell’opzione politica che io credo debba guidare l’azione nei prossimi mesi che si può riassumere nella formula di prendere sul serio la funzione rieducativa della pena e di conseguenza considerare il diritto penale l’ultima risorsa, non come rimedio a tutte le illegalità, soprattutto considerare il carcere l’extrema ratio. Quanto avvenuto per gli istituti minorili bisogna estenderlo anche al carcere degli adulti. Bisogna procedere a un investimento serio sulle misure alternative e a una riforma del processo penale e dell’ordinamento penitenziario coerente con questa opzione. Anche sull’edilizia carceraria c’è molto da fare”. “Se vogliamo proseguire nel processo di riduzione del sovraffollamento, bisognerà mettere in conto l’adozione di nuove misure e quindi anche nuove soluzioni legislative”, ha rimarcato il sottosegretario. L’emergenza, ha continuato Giorgis, “ha anche dimostrato come la tecnologia per certi aspetti possa aiutare un trattamento più consono alla funzione rieducativa della pena. Ora non si deve tornare indietro: cechiamo di trasformare gli esperimenti positivi in soluzioni strutturali ma allo stesso tempo si riconosca come la dimensione di relazione fisica sia insostituibile. Penso alla necessità di far riprendere il più in fretta possibile i servizi educativi e la scuola all’interno delle carceri, che non possono essere del tutto sostituiti dalla tecnologia”, ha concluso. Petralia: “Guida Dap in sinergia con associazioni e Garante detenuti” adnkronos.com, 23 maggio 2020 “Non sarà un lavoro individuale, la guida che intendo dare al Dipartimento sarà frutto di una sinergia lavorativa”, anche con le associazioni e il Garante dei detenuti. “È la ragione per la quale tra le prime voci ascoltate c’è stata appunto Antigone, un’associazione che ho sempre ammirato, soprattutto per il lavoro che fa attorno alle carceri. Sarò sempre attento alle loro istanze e me ne farò interprete e attuatore”. Lo ha detto il nuovo capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Bernardo Petralia durante la conferenza stampa (online) organizzata da Antigone per presentare il XVI rapporto sulle condizioni di detenzione. Parole che hanno suscitato dure critiche da parte della Lega con l’ex sottosegretario alla Giustizia Morrone che ha attaccato: “Il neo-nominato capo Dap ha visto bene di inaugurare il nuovo delicatissimo incarico con uno scivolone clamoroso. Petralia, infatti, come prima dichiarazione pubblica è riuscito a sbertucciare l’intero Corpo di Polizia penitenziaria di cui è il primo referente” perché, ha sottolineato Morrone, ha “rivolto la sua attenzione unicamente ai detenuti, non degnandosi di citare l’indispensabile attività quotidiana degli agenti della Polizia penitenziaria”. Critiche che hanno costretto il neo capo del Dap a chiarire con una nota. “Pare che qualcuno abbia mal interpretato il senso delle parole da me pronunciate - ha sottolineato Petralia - Me ne dispiaccio, anche perché è lungi non solo dal mio modo di essere ma anche dalla mia storia professionale il fatto di non concepire un impegno se non a trecentosessanta gradi. Appare ovvio che il contesto e la cornice nella quale ho svolto l’intervento avessero a che fare con il tema della presentazione: appunto, le condizioni della detenzione negli istituti penitenziari”. “Decontestualizzare affermazioni e intenzioni riportandole a proclami - spiega - è senz’altro riduttivo e fuorviante. Onde scongiurare qualsiasi interpretazione di segno diverso, affermo con assoluta convinzione che nelle mie funzioni sarò capo, orgoglioso e fiero, della Polizia Penitenziaria che ritengo istituzione essenziale e vitale dell’intero sistema carcerario e della sicurezza dei cittadini”. “Non a caso - ha concluso Petralia - ho già fissato un incontro con le rappresentanze sindacali per una doverosa e convinta presentazione nella quale, sono certo, si comprenderà la direzione della mia guida e, soprattutto, la condivisione degli obiettivi, già a me cari, del Corpo della Polizia Penitenziaria”. Il carcere in Italia fa i conti con più di un virus di Giuseppe Rizzo Internazionale, 23 maggio 2020 In tempi in cui di carcere si parla solo quando si sente il clangore dei ferri battuti durante le rivolte o per le polemiche sulle scarcerazioni, torna utile la lettura del rapporto curato dall’associazione Antigone. Quello nuovo è stato presentato il 22 maggio. Alcuni numeri sono prevedibili: al carcere non piace cambiare, è affezionato alle cattive abitudini, specie se sono tra le peggiori. Altri aiutano a smontare luoghi comuni e retoriche pericolose. È meglio cominciare da quelli che misurano il perimetro della questione. A fine febbraio 2020 in Italia le persone in cella erano 61.230. Il 32 per cento c’era finito per reati legati alla droga, il 25 per cento aveva una tossicodipendenza. Un terzo dei detenuti era straniero, lo 0,4 per cento sul totale degli stranieri residenti in Italia. Settecento erano laureati, 19.485 avevano una licenza di scuola media, 882 non avevano alcun titolo di studio. Tanti erano nati in Campania, in Sicilia e in Puglia, tre delle regioni più povere del paese. Per tutti e 61mila, i posti disponibili erano 50mila. L’emergenza sanitaria ha dunque colto gli istituti penitenziari mentre c’era un sovraffollamento del 130 per cento. Per lo stesso motivo a gennaio 2013 la Corte europea aveva condannato l’Italia. I detenuti erano allora 65mila. Per anni si è detto che non si poteva fare niente per evitare che tre, quattro o cinque persone vivessero ammassate in una cella di pochi metri quadri. Nel marzo 2019 il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini dipingeva il sovraffollamento come un “falso problema”. Nel maggio dello stesso anno, il ministro della giustizia Alfonso Bonafede pensava che per affrontarlo si potesse solo costruire più carceri. Poi è arrivata la pandemia. E la preoccupazione che le prigioni si trasformassero in focolai ha spinto Bonafede a fare marcia indietro. Il numero delle persone in cella si poteva ridurre - le associazioni e gli studiosi lo ripetevano da tempo - bastava un decreto che consentisse a chi aveva pochi mesi ancora da scontare, o a chi era stato condannato per reati non gravi, di accedere a pene alternative alla detenzione. In due mesi lo hanno fatto più di ottomila detenuti. I delitti non sono aumentati. Dal 1 gennaio al 31 marzo 2020 sono diminuiti del 29,2 per cento rispetto allo stesso periodo del 2019, a parte l’usura che durante il lockdown è cresciuta del 9,6 per cento. Le scarcerazioni però non sono passate sotto silenzio, specie quando a richiedere i benefici sono stati alcuni criminali condannati per reati gravi come l’associazione mafiosa. “La mettono giù così: “Vi pare giusto che, con la scusa del virus e sotto ricatto di rivolte sobillate dai boss, giudici ribelli abbiano scarcerato 376 pericolosi capimafia al 41bis? E, messa così, la risposta sarebbe una sola”, ha scritto Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera. “Dal 41bis sono usciti non in 376 ma in tre (oggi quattro, ndr)”, fa notare il giornalista, “per tumori e cardiopatie a rischio vita combinati all’incapacità del sistema penitenziario di garantire cure indifferibili. Due terzi degli altri sono ‘boss’ sulla fiducia, visto che attendono ancora sentenze”. Aggiunge Antigone: “494 reclusi in alta sicurezza sono stati scarcerati, di cui 253 erano in attesa di giudizio; degli altri 245 solo sei sono stati scarcerati grazie alle misure previste dal decreto cura Italia”. Travolto dalle polemiche - e già indebolito per non aver saputo gestire le rivolte nelle carceri a inizio marzo, durante le quali sono morti 13 detenuti - Basentini si è dimesso. Bonafede, che lo aveva voluto e difeso, è rimasto al suo posto. In tutta fretta ha firmato un nuovo decreto “per impedire la scarcerazione dei boss” ed è sopravvissuto a due mozioni di sfiducia in parlamento. Per il momento la sua nave è uscita dalla bufera. Quella del carcere - dove 119 detenuti e 162 operatori sono stati contagiati dal covid-19, e otto tra loro sono morti - continua a imbarcare acqua. Allo scoppio del Covid-19 nelle carceri oltre 10.200 detenuti in più rispetto alla capienza di Andrea Carli Il Sole 24 Ore, 23 maggio 2020 All’inizio dell’emergenza sanitaria i detenuti erano 61.230 a fronte di 50.931 posti. In due mesi e mezzo il tasso di affollamento è sceso dal 130,4% al 112,2 per cento. Il 15 maggio i detenuti sono scesi a 52.679. Il messaggio è chiaro: lo spazio, oggi più di prima, è vitale. A lanciarlo è l’associazione Antigone, che nel XVI rapporto sulle condizioni di detenzione (titolo: “Il carcere al tempo del coronavirus”) pubblicato il 22 maggio pone l’accento sul fatto che la pandemia Covid-19 ha colto gli istituti di detenzione italiani già in una condizione di sovraffollamento. Tant’è che dal 7 al 9 marzo è scoppiata la rivolta delle carceri. In un solo weekend sono stati distrutti e devastati, oltre 70 istituti penitenziari, a cui si aggiungono 30 che hanno avuto manifestazioni pacifiche. All’inizio della pandemia erano rinchiuse nelle carceri italiane 10.229 persone in più rispetto alla capienza regolamentare. A fine febbraio 2020, in particolare, i detenuti erano 61.230 a fronte di una capienza regolamentare di 50.931 posti. Ma con le misure di decongestionamento via via adottate in seguito all’emergenza coronavirus, le presenze in carcere sono diminuite progressivamente fino ai 52.679 detenuti registrati il 15 maggio. “Senza le misure alternative i numeri del carcere sarebbero esplosi” - Senza le misure alternative adottate (dalla liberazione anticipata, che prevede sconti di pena per chi partecipa ai programmi di rieducazione, alla detenzione domiciliare per chi ha una pena da scontare sotto i 18 mesi), “i numeri del carcere sarebbero esplosi”, si legge nel documento. A fine 2008 tra detenzione domiciliare, affidamento in prova ai servizi sociali e semilibertà erano coinvolte 7.530 persone; 12 anni dopo, il 15 aprile 2020, erano 30.416. Nel 2008 le persone in detenzione domiciliare erano 2.257. Il 15 aprile 2020 erano 10.826. L’affidamento in prova ai servizi sociali nel 2008 riguardava poco più di 4.000 persone. Il 15 aprile 2020 erano 18.598. Allo stesso tempo tuttavia la popolazione detenuta, dal 2015 fino al mese di marzo 2020 (cioè fino all’arrivo dell’emergenza sanitaria), è aumentata in maniera costante. In due mesi e mezzo scende tasso di affollamento: dal 130,4% al 112,2% - Dopo che è scattata l’emergenza coronavirus, in due mesi e mezzo il tasso di affollamento è sceso dal 130,4% al 112,2 per cento. Dunque inizia l’emergenza sanitaria con una sovra-popolazione detenuta pari a poco meno di 15 mila unità. A fine febbraio il tasso di affollamento è del 130,4%. Il 15 maggio i detenuti presenti sono 52.679. Il tasso di affollamento scende al 112,2%. Le persone detenute sono 8.551 in meno rispetto a fine febbraio. Fuori dall’Italia la riduzione della popolazione detenuta ha avuto percentuali analoghe in Francia, mentre negli Usa è calata dell’1,8%. Con il Cura Italia accelera il calo della popolazione detenuta - Da fine febbraio al 19 marzo le presenze in carcere calano di 95 persone in meno al giorno. Questa tendenza accelera con l’entrata in vigore del decreto “Cura Italia”, che individua nella detenzione domiciliare con braccialetto elettronico di tutti i detenuti con un residuo di pena da scontare tra i 6 e 18 mesi, il principale strumento di deflazione della popolazione detenuta. Dal 19 marzo al 16 aprile la popolazione detenuta cala ulteriormente di 158 persone in meno al giorno. Al 15 maggio 3.282 persone ai domiciliari - Dal 16 aprile in poi, sottolinea l’indagine, il clima cambia. “Si pone il tema delle scarcerazioni di persone appartenenti alla criminalità organizzata”. Dal 16 aprile al 15 maggio le presenze in carcere calano di 77,3 presenti al giorno, meno della metà di prima. Il Garante nazionale riferisce che le detenzioni domiciliari concesse dopo il 18 marzo erano al 15 maggio 3.282 in tutto, e in 919 casi era stato adottato il braccialetto elettronico. Sono persone condannate per reati non gravi con meno di 18 mesi da scontare. Il 41bis: al 18 maggio, a 4 detenuti detenzione domiciliare per salute - Al 18 maggio sono 4 i detenuti al 41bis a cui è stata concessa la detenzione domiciliare per motivi di salute. In tutto i detenuti al 41bis sono 747 (di cui 12 donne), 390 hanno una condanna definitiva. L’età media è di 55 anni, il 35% (263) ha oltre 60 anni. Sono stati scarcerati 494 reclusi in alta sicurezza di cui 253 erano in attesa di giudizio; degli altri 245 sei sono stati scarcerati grazie alle misure previste dal “Cura Italia” per decisione del magistrato di sorveglianza. In tutto i detenuti sottoposti al regime di alta sicurezza (AS3) sono 9.014 (8.796 uomini e 218 donne) divisi in 55 istituti. In AS2 sono 84 in totale di cui 52 per terrorismo islamico. Degli 84 in totale 75 sono uomini e 9 donne (in calo del 20% rispetto al 2018). Le carceri ad oggi più affollate: Larino, Taranto e Latina - Secondo Antigone ad oggi risulta critica la situazione nelle carceri di Larino (194,7%), Taranto (187,6%) e Latina (179,2%). E anche nelle regioni più a rischio ci sono carceri come Como (161,4%), Pordenone (156,8%), Vigevano (148,7%), Busto Arsizio (148,3%) o Tolmezzo (148,3%) che destano ancora grande preoccupazione. I contagi nelle carceri - I primi casi di contagio nelle carceri si sono registrati a partire da metà marzo e attualmente, come riferisce il Garante nazionale, sono 119 i contagiati tra le persone detenute di cui 2 in ospedale, mentre sono 162 i contagi tra il personale. Anche in questo caso la situazione è però molto disomogenea. Nella maggior parte degli istituti, non si è verificato nemmeno un caso di contagio ma a Verona ad esempio si è parlato di 29 casi di Covid-19, a Torino di 67, numeri altissimi se paragonati al resto del paese. I detenuti stranieri diminuiscono del 4,36% negli ultimi 11 anni - Al 31 dicembre 2019 i detenuti stranieri nelle carceri italiane erano 19.888, essendo diminuiti di 4,36 punti percentuali e 1.674 unità in undici anni. La percentuale degli stranieri detenuti sul totale degli stranieri residenti nel Paese cala dal 0,6% del 2008 al 0,4% del 2019. Le nazioni più rappresentate in carcere sono Marocco (18,4% del totale degli stranieri detenuti), Romania (12%, in calo progressivo), Albania (12,1%), Tunisia (10,2%), Nigeria (8,4%). Gli stranieri accedono in misura inferiore, in termini percentuali, anche alle misure alternative: costituiscono il 17,5% delle persone prese in carico dal sistema dell’esecuzione penale esterna. Anche qui le nazionalità più rappresentate sono Marocco, Albania, Romania, Tunisia e Nigeria. I dati su reati e pene ci dicono che gli stranieri commettono generalmente reati meno gravi e vengono condannati a pene meno severe. I delitti maggiormente commessi riguardano la violazione della legge sugli stupefacenti (35,8%). La percentuale scende al 30,97% se guardiamo ai reati contro la persona e al 2,4% per l’associazione a delinquere di stampo mafioso. Gli stranieri condannati all’ergastolo costituiscono il 6,2% del totale dei detenuti ergastolani. È rappresentato da stranieri invece il 44,5% del totale di coloro condannati a una pena inferiore a un anno. 8.500 detenuti in meno, ma il sovraffollamento preoccupa ancora Redattore Sociale, 23 maggio 2020 Nell’ultimo rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione in Italia l’impatto dell’emergenza coronavirus sul pianeta carcere. Nonostante il calo della popolazione, in alcuni istituti la situazione è ancora drammatica. Le richieste dell’associazione: “Ridurre reati punibili e superare visione carcerocentrica della società”. Continua a diminuire il numero dei detenuti nelle carceri italiane: al 15 maggio i detenuti presenti erano 52.679 con un tasso di affollamento del 112,2% e con 8.551 detenuti in meno rispetto a fine febbraio. A fare il punto sulla situazione delle carceri in Italia ai tempi del coronavirus è il sedicesimo rapporto di Antigone presentato oggi che aggiorna i dati sul trend in diminuzione già evidenziato nelle prime settimane di maggio dagli stessi dati forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. “In due mesi e mezzo il tasso di affollamento scende dal 130,4% al 112,2% - spiega Antigone. A fine febbraio 2020 i detenuti erano 61.230 a fronte di una capienza regolamentare di 50.931 posti”. Il pianeta carcere, così, vede uno spiraglio di luce sul costante tema del sovraffollamento. I dati di maggio, infatti, sono molto lontani da quelli che hanno procurato una condanna da parte della Corte europea, tuttavia non sono ancora al di sotto o alla pari con quelli della capienza regolamentare. “I detenuti a fine 2012 erano 65.701 - spiega il rapporto di Antigone -. A gennaio 2013 giunse la sentenza della Corte europea che condannò l’Italia per i trattamenti inumani e degradanti prodotti dal sovraffollamento. Dunque all’inizio dell’emergenza vi erano 10.229 persone in più rispetto alla capienza regolamentare”. Tuttavia, spiega Antigone, “il dato sulla capienza non tiene conto di situazioni transitorie che comportano scostamenti temporanei dal valore indicato. Si calcola che circa altri 4 mila posti non siano effettivamente disponibili. Dunque inizia l’emergenza con una sovra-popolazione detenuta pari a poco meno di 15 mila unità”. A invertire il trend in crescita fatto registrare prima dell’emergenza dalla popolazione penitenziaria gli interventi del governo proprio per far fronte alla pandemia. “I detenuti in due mesi e mezzo diminuiscono del 13,9% - spiega Antigone -. Da fine febbraio al 19 marzo le presenze in carcere sono calate di 95 persone in meno al giorno. Questa tendenza accelera con l’entrata in vigore del decreto “Cura Italia”, che prevede le prime misure deflattive: dal 19 marzo al 16 aprile la popolazione detenuta cala ulteriormente di 158 persone in meno al giorno”. Tuttavia, dal 16 aprile 2020 in poi il clima cambia, spiega il rapporto. “Si pone il tema delle scarcerazioni di persone appartenenti alla criminalità organizzata. Dal 16 aprile al 15 maggio le presenze in carcere calano di 77,3 presenti al giorno, meno della metà di prima”. Le detenzioni domiciliari concesse dopo il 18 marzo al 15 maggio erano 3.282 in tutto, e in 919 casi era stato adottato il braccialetto elettronico. “Sono persone condannate per reati non gravi con meno di 18 mesi da scontare”, spiega il rapporto. Nonostante i numeri contenuti nell’ultimo rapporto di Antigone fanno ben sperare, sul fronte sovraffollamento la situazione non è ovunque rosea. Ci sono ancora situazioni critiche, spiega il rapporto, come a Latina, dove si registra un sovraffollamento pari al 179,2% o a Taranto, col 187,6%, oppure a Larino, col 194,7%. Situazione ancora preoccupante nelle carceri di Como, Pordenone, Vigevano, Busto Arsizio e Tolmezzo. Sovraffollamento che, come è facile intuire, potrebbe causare problemi da punto di vista dei contagi. Ad oggi, spiega il rapporto di Antigone, tra i contagiati ci sono 119 detenuti e 162 operatori penitenziari. Otto i deceduti: 4 detenuti e 4 operatori deceduti (2 agenti e 2 medici). “I primi casi si sono registrati a partire da metà marzo e attualmente, come riferisce il Garante nazionale, sono 119 i contagiati tra le persone detenute di cui 2 in ospedale, mentre sono 162 i contagi tra il personale - spiega il rapporto di Antigone -. Anche in questo caso la situazione è però molto disomogenea. Nella maggior parte degli istituti, non si è verificato nemmeno un caso di contagio ma a Verona ad esempio si è parlato di 29 casi di Covid-19, a Torino di 67, numeri altissimi se paragonati al resto del paese”. L’emergenza sanitaria da Covid-19 ha riportato inoltre in auge il tema dello spazio all’interno delle strutture penitenziarie. Secondo Antigone, infatti, in 25 delle 98 carceri visitate dall’associazione nel 2019 c’erano celle in cui non era rispettato il criterio dei 3 mq per detenuto. “In 14 istituti visitati le celle più affollate ospitavano 5 detenuti - spiega il rapporto -, in 13 c’erano celle da 6, in due istituti c’erano celle da 7, in 5 c’erano celle che ospitavano anche 8 persone ed in 3, Poggioreale, Pozzuoli e Bolzano, c’erano celle che ne ospitavano 12 contemporaneamente”. Per Antigone, inoltre, è indispensabile che lo spazio detentivo assicuri standard igienici elevati. “In 45 istituti visitati, circa la metà, c’erano inoltre celle senza acqua calda per lavarsi e in 52, ben più del 50%, c’erano celle senza doccia, cosa che costringe i detenuti ad usare docce comuni - spiega il rapporto -. In 8 istituti tra quelli visitati c’erano celle in cui il wc stava a vista nella cella, anziché in un ambiente separato. L’accesso alla luce del giorno e all’aerazione degli ambienti poi è invece ridotto (se non compromesso) dalla presenza delle schermature alle finestre rilevata in 29 istituti su 98”. Oltre al rispetto delle raccomandazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità per evitare il contagio nelle prigioni, Antigone lancia dieci proposte per il futuro. Al primo posto la riduzione del numero dei reati punibili e la riduzione dei numeri della popolazione detenuta “superando una visione carcerocentrica della società”. Per Antigone, inoltre, è necessario “cambiare legge sulle droghe riducendo l’impatto repressivo”. Tra le richieste anche quella di consentire l’utilizzo di smart-phone e collegamenti a distanza per rapporto con famiglie e per portare avanti attività trattamentali ed educative. Tra le proposte anche quella di investire nelle nuove tecnologie, nella trasparenza informativa verso l’esterno e nell’informazione ai detenuti su regole e prative interne. Infine, Antigone chiede un ruolo più attivo delle Asl e nuovi medici e operatori stabili, riconoscere il ruolo del volontariato e di assumere 300 direttori di carcere. 17 detenuti suicidi nel 2020. In crescita le misure alternative Redattore Sociale, 23 maggio 2020 Nel 2019 sono stati 53 in totale i suicidi negli istituti penitenziari italiani (dato confermato sia dalla fonte del Dap che da Ristretti Orizzonti) a fronte di una presenza media di 60.610 detenuti ovvero un tasso di 8,7 su 10.000 detenuti mediamente presenti, a fronte di un tasso nel paese di 0,65 suicidi su 10.000 abitanti. Al 14 maggio i suicidi in carcere nel 2020 sono stati 17. Sono i dati contenuti nel sedicesimo rapporto di Antigone sulle condizioni detentive. Per quanto riguarda gli atti di autolesionismo, tra gli istituti visitati da Antigone nel 2019 svetta nel numero assoluto Poggioreale con 426 atti (18,79 su 100 detenuti); mentre il valore più alto ogni 100 detenuti lo detiene l’istituto di Campobasso con 110,43 atti ogni 100 detenuti, seguito da Belluno che sfiora quota 100 (98,72). La polizia penitenziaria sotto organico - La polizia penitenziaria è la figura professionale numericamente più presente negli istituti penitenziari. Ha una pianta organica di 37.181 unità e un sotto organico del 12,3%. Al nord la carenza di organico raggiunge il -14,7%, al centro Italia è molto simile (-13,9%) mentre al sud è del -9,4%. Il numero di detenuti per ogni agente è di 1,9, migliore della media europea, di 2,6 detenuti per agente (secondo i dati Space del 2019). Gli educatori sono 774 mentre l’organico previsto è di 895 persone (ovvero -13,5%). Ciò significa 1 educatore ogni 79 detenuti. In termini percentuali è il centro Italia a soffrire maggiormente della carenza di questa figura professionale (-15,7%) mentre nel nord Italia la carenza è del 11,5%. Mancano anche i direttori. Secondo i dati raccolti dall’Osservatorio di Antigone, solo in poco più della metà degli istituti visitati c’è un direttore incaricato esclusivamente in quell’istituto. Fortunatamente è stato bandito un concorso per l’assunzione di 35 nuovi direttori. Dai dati raccolti dall’Osservatorio di Antigone vediamo che i volontari sono circa 1 ogni 13 detenuti, mentre i mediatori culturali sarebbero presenti sono nel 9% degli istituti. Misure alternative in crescita - In dodici anni le misure alternative sono cresciute di quasi 23 mila unità. 110 mila persone complessive sotto controllo penale. E funzionano. Un detenuto su 200 torna dentro per commissione di reato durante la misura. Eppure il budget del Dap è 10 volte superiore a quello del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità. Senza di esse i numeri del carcere sarebbero esplosi. A fine 2008 tra detenzione domiciliare, affidamento in prova ai servizi sociali e semilibertà erano coinvolte 7.530 persone; 12 anni dopo, il 15 aprile 2020, erano 30.416. Nel 2008 le persone in detenzione domiciliare erano 2.257. Il 15 aprile 2020 erano 10.826. L’affidamento in prova ai servizi sociali nel 2008 riguardava poco più di 4.000 persone. Il 15 aprile 2020 erano 18.598. Allo stesso tempo la popolazione detenuta, dal 2015 fino al mese di marzo 2020 (cioè fino all’arrivo dell’emergenza sanitaria), è aumentata in maniera costante. Il totale delle persone in misura alternativa al 15 aprile 2020, messa alla prova compresa, era di 61.386. Le persone adulte sotto controllo penale erano dunque circa 110.000. Nel primo semestre del 2019, su 44.287 misure in esecuzione solo 1.509 erano state revocate: il 3,4%. Di queste, solo lo 0,5% (201) per commissione di nuovi reati. E costano poco, meno di un decimo del carcere. Nel 2020 il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità - che ha in carico le misure alternative - costava il 3,16% del bilancio complessivo del Ministero della Giustizia. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria il 34,3%. In crescita gli ergastolani - I dati mostrano come sia infondato lo stereotipo per cui in Italia chi va in carcere ne esce subito dopo. Il 27% aveva una pena compresa tra i 5 e i 10 anni (il doppio della Francia, a fronte di una media europea del 20,5), il 17% tra i 10 e i 20 anni (media europea del 12) e il 6% più di 20 anni (media europea del 2,5%). Gli ergastolani erano (e sono) più della media: il 4,4%, a fronte di una media del 3. Un terzo dei detenuti è in custodia cautelare - Com’è noto il nostro paese si distingue per l’alta percentuale di detenuti in attesa di giudizio: a inizio 2019 erano il 33%, dieci punti sopra la media europea (del 23). Il carcere “invecchia”: raddoppiati i detenuti over 60. In calo gli stranieri Redattore Sociale, 23 maggio 2020 Raddoppiano nel 2019 gli ultrasessantenni (sono l’8,6%): In Italia popolazione detenuta tra le più vecchie in Europa. Un terzo è dentro per avere violato la legge sugli stupefacenti. Sono 19.888 gli stranieri (-4,36% negli ultimi 11 anni). In crescita gli ergastolani. Il carcere invecchia. Ad evidenziarlo è Antigone nel suo sedicesimo rapporto sulle condizioni di detenzione, dal titolo “Il carcere al tempo del coronavirus”. Stando ai numeri, infatti, raddoppiano nel 2019 gli ultrasessantenni, contribuendo a definire una popolazione detenuta tra le più vecchie in Europa. Carceri affollate e detenuti sempre più anziani. Alla fine del 2009 le persone detenute con più di 40 anni erano meno del 40%, alla fine del 2019 erano oltre il 50%. La percentuale di quelle con più di 60 anni è più che raddoppiata, passando dal 4,1 all’8,6%. È una popolazione più vecchia rispetto alla media europea. Gli ultracinquantenni, a inizio 2019, erano il 25% del totale. Solo in Bulgaria erano di più (35%), a fronte di una media europea del 16%. L’identikit del detenuto tipo - Scolarità bassa, lavora poco, non è sufficientemente formato. È questo l’identikit del detenuto tipo. Su 60.769 detenuti presenti al 31 dicembre 2019, 705 erano i laureati, 4.868 avevano un diploma di scuola superiore, 714 un diploma di scuola professionale, 19.485 una licenza di scuola media, 6.393 la licenza elementare, 882 erano senza nessun titolo di studio. Continua la crescita degli analfabeti, che nel 2019 erano 1.054 (due anni fa, nel 2017, erano meno di 700). Al 31 dicembre 2019 erano 18.070 i detenuti coinvolti in un’attività lavorativa, vale a dire il 29,74% del totale delle persone recluse. La stragrande maggioranza era impiegata dalla stessa Amministrazione Penitenziaria (86,82%), essenzialmente in servizi di istituto (82,30% di questa quota) legati alla pulizia, alla consegna dei pasti e ad altri piccoli incarichi. Il 4,45% delle persone alle dipendenze dell’Amministrazione era impegnata in lavorazioni interne (prime tra tutte sartoria, falegnameria e assemblaggio componenti vari), l’1,14% in colonie agricole, il 7% in compiti di manutenzione del fabbricato e il 5,12% in servizi esterni ex art. 21 dell’Ordinamento Penitenziario. Delle 2.381 persone che lavoravano per soggetti diversi dall’Amministrazione, il 28,56% lo faceva al di fuori del carcere ex art. 21 O.P., il 33,9% era composto da detenuti in semilibertà, l’8,86% lavorava dentro il carcere al servizio di imprese mentre il 28,69% lo faceva al servizio di cooperative. La media delle persone coinvolte in lavori di pubblica utilità secondo l’art. 20-ter O.P., come modificato dal decreto legislativo dell’ottobre 2018, è pari all’1,7% del totale dei detenuti. Nel secondo semestre del 2019, nelle carceri italiane erano attivati 203 corsi di formazione professionale per 2.506 detenuti iscritti (901 stranieri). I corsi terminati sono stati 119 e hanno visto 1.164 persone promosse (429 stranieri). Assai disomogeneo il quadro nazionale, con ben 5 Regioni (Liguria, Molise, Sardegna, Trentino Alto Adige e Veneto) che non hanno attivato alcun corso. Pesa la legge sulle droghe - Un terzo dei detenuti è dentro per avere violato la legge sugli stupefacenti. “Con un’altra legge si risparmierebbe un miliardo di euro”, afferma Antigone. In Italia i detenuti condannati per violazione della normativa sulle droghe erano il 32%, la media europea era del 18%. I detenuti tossicodipendenti arrivano a sfiorare di media i 30 punti percentuali degli ingressi nel 2019, mentre rappresentano stabilmente più di un quarto dei presenti. Pene molto alte, in crescita gli ergastolani - L’Italia non è il paese della dolcezza delle pene. “I dati mostrano come sia infondato lo stereotipo per cui in Italia chi va in carcere ne esce subito dopo”, afferma Antigone. Il 27% aveva una pena compresa tra i 5 e i 10 anni (il doppio della Francia, a fronte di una media europea del 20,5), il 17% tra i 10 e i 20 anni (media europea del 12) e il 6% più di 20 anni (media europea del 2,5%). Gli ergastolani erano (e sono) più della media: il 4,4%, a fronte di una media del 3. Pesa sui numeri la custodia cautelare - Un terzo dei detenuti è in custodia cautelare. Com’è noto il nostro paese si distingue per l’alta percentuale di detenuti in attesa di giudizio: a inizio 2019 erano il 33%, dieci punti sopra la media europea (del 23). Diminuisce il numero degli stranieri detenuti - Diminuiscono del 4,36% negli ultimi 11 anni. Sono dentro per reati meno gravi e con pene più brevi. Al 31 dicembre 2019 i detenuti stranieri nelle carceri italiane erano 19.888, essendo diminuiti di 4,36 punti percentuali e 1.674 unità in undici anni. La percentuale degli stranieri detenuti sul totale degli stranieri residenti nel Paese cala dal 0,6% del 2008 al 0,4% del 2019. Le nazioni più rappresentate in carcere sono Marocco (18,4% del totale degli stranieri detenuti), Romania (12%, in calo progressivo), Albania (12,1%), Tunisia (10,2%), Nigeria (8,4%). Gli stranieri accedono in misura inferiore, in termini percentuali, anche alle misure alternative: costituiscono il 17,5% delle persone prese in carico dal sistema dell’esecuzione penale esterna. Anche qui le nazioni più rappresentate sono Marocco, Albania, Romania, Tunisia e Nigeria. I dati su reati e pene ci dicono che gli stranieri commettono generalmente reati meno gravi e vengono condannati a pene meno severe. I delitti maggiormente commessi riguardano la violazione della legge sugli stupefacenti (35,8%). La percentuale scende al 30,97% se guardiamo ai reati contro la persona e al 2,4% per l’associazione a delinquere di stampo mafioso. Gli stranieri condannati all’ergastolo costituiscono solo il 6,2% del totale dei detenuti ergastolani. È rappresentato da stranieri invece il 44,5% del totale di coloro condannati a una pena inferiore a un anno. Donne detenute: “minimo storico”. Meno di 300 minori negli istituti penali Redattore Sociale, 23 maggio 2020 Rapporto di Antigone sulla situazione del carcere ai tempi del coronavirus. Minori in Ipm: 102 giorni la media di permanenza in carcere, oltre il 40% è di origine straniera. Presenze stabili in comunità. Al 30 aprile 2.224 donne recluse (478 in meno rispetto al 29 febbraio). Un sistema “che resiste e che non è affollato” quello degli Istituti penali per minorenni, diciassette in Italia: diminuiscono le presenze, 102 giorni la media di permanenza in carcere, elevata la rappresentazione dei detenuti stranieri. Lo rileva il sedicesimo rapporto di Antigone, presentato oggi, che fa il punto sulla situazione in Italia del carcere ai tempi del coronavirus. “Se all’inizio del 2019 gli Istituti penali per minorenni italiani ospitavano 440 ragazzi, - spiegano gli osservatori - un anno dopo erano recluse 375 persone (di cui 23 donne), a fronte delle 12.836 in carico ai Servizi della giustizia minorile”. Oggi sono meno di 300 i ragazzi in istituto e oltre il 40% è di origine straniera, là dove - precisa Antigone - solo un ragazzo su quattro, tra quelli presi complessivamente in carico dagli Uffici di servizio sociale per i minorenni, è straniero. La permanenza dei ragazzi in carcere nel corso del 2019 è stata in media di 102 giorni e, con l’emergenza coronavirus il numero delle presenze è diminuito ulteriormente. Se infatti fino al 15 marzo era rimasto sostanzialmente invariato, nel mese successivo è sceso di 74 unità, fino a contare 298 detenuti. Nelle comunità, ministeriali e private, rimane stabile il numero dei ragazzi: 1.034 all’inizio del 2019, 1.104 un anno dopo e al 15 aprile 2020 sono 1.062 (-4% rispetto al mese precedente). Alla metà di aprile, precisa Antigone, non si contava alcuna persona positiva al Covid-19 tra i ragazzi reclusi negli istituti né tra quelli ospitati dalle comunità. Donne detenute al minimo storico - Al 30 aprile 2020 erano 2.224 (4,13% della popolazione ristretta), 478 in meno rispetto al 29 febbraio, segnando secondo il rapporto un minimo storico. Le detenute si trovano sparse tra i quattro istituti di pena femminili presenti in Italia - a Roma (“G. Stefanini” Rebibbia Femminile), Pozzuoli, Trani, Venezia (“Giudecca”) - e le 44 sezioni femminili all’interno di carceri maschili: 519 le detenute ristrette nei primi, 1.705 nelle seconde. Reclusi con le mamme 40 bambini - Al 30 aprile 2020 le detenute con figli minori di 3 anni sono 34, con 40 i figli a carico, ma appena due mesi prima, il 29 febbraio, erano 54 con 59 figli. Si trovano all’Icam di Lauro, a Salerno, Bologna, Roma Rebibbia Femminile, Bollate, Milano San Vittore, Torino Le Vallette, Firenze “Sollicciano” e Venezia “Giudecca”. Da Meet a Zoom, la didattica è online - Sono 56 gli istituti penali (tra cui Opera, San Vittore, Regina Coeli, Secondigliano, Cremona) che hanno aderito alla proposta della Cisco Academy, già presente a Bollate con diversi corsi, che ha deciso di concedere gratuitamente Webex meeting alle strutture che ne avessero fatto richiesta. “Finalmente un progetto che riduce le distanze con la vita reale”, commenta Antigone che ricorda tra i diversi programmi per la realizzazione di videoconferenze l’utilizzo di Meet, sia per le classi di scuola media e superiore, che per i percorsi di alfabetizzazione in istituti come a Bergamo e Terni; il programma Zoom, che a Velletri è stato inizialmente adottato per le classi quinte della scuola primaria, con sessioni da 40 minuti, per poi essere esteso alle altre classi, anche se con collegamenti di durata minore. “In alcuni istituti sono state organizzate sedute di video lezioni solo per alcuni cicli di istruzione e solo per alcune ore a settimana (a San Gimignano le video-lezioni sono rivolte alla classe quinta per due volte alla settimana) o dividendo gli studenti in turni; in altri, per ovviare alla mancanza dei pc, è stata utilizzata la Lim in classe”. Progetti di didattica a distanza sono stati attivati anche negli istituti penali di Volterra, Massa Marittima, Chieti, Milano Bicocca, Padova, Siracusa ai quali, seppur in fase di avvio, di Catania, Treviso, Livorno e Gorgona. Sui presunti piani di rivolte all’interno delle carceri italiane di Enrico Sbriglia Il Riformista, 23 maggio 2020 Mentre il mondo dell’informazione sembra voler mostrare interesse su cosa accaduto in marzo nelle nostre carceri, non sembra però in grado di raccogliere informazioni dagli stessi operatori penitenziari, cioè da quanti hanno, concretamente, fronteggiato la pandemia delle proteste dei detenuti, rivolgendosi innanzi tutto ai direttori degli istituti. La spiegazione è forse dovuta al fatto che da anni a questi dirigenti dello Stato è fatto divieto di comunicare d’iniziativa o su domanda con il mondo dell’informazione, dovendo essere previamente autorizzati. Questo però non sembra che accada nelle altre amministrazioni “securitarie”, dove con profuso di conferenze stampa si descriveranno le vicende, consentendo all’opinione pubblica il diritto alla conoscenza. Il persistere del bavaglio, però, favorisce il formarsi di pericolose opacità. La poca chiarezza alimenta il senso di insicurezza nella collettività, esaltandone le paure, offrendo ai “bracci violenti della legge”, consentendo agli stessi di fomentare il risentimento sociale, nonché di praticare il mantra delle pene esemplari, sempre più ricalco della vendetta di Stato, piuttosto che misure equilibrate e rispettose della nostra Carta, che auspica il recupero delle persone detenute ed esige che le pene non possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Infilare il sasso in bocca ai dirigenti penitenziari potrebbe pure essere un’azione intesa come astuta modalità di sviamento delle responsabilità politiche e di alta amministrazione, evitando il rischio che si sappiano, con obiettività, fatti e circostanze semmai perfette conseguenze di gravi deficit decisionali governativi, dimostrevoli di una reiterata scarsezza di competenza, aggravata dalla miseria di risorse umane e strumentali disponibili. Uguale bavaglio è pure condiviso con i livelli dirigenziali più elevati, provenienti dalla stessa carriera dei direttori e non da quelle extra-moenia dei magistrati, per cui anche i Provveditori Regionali Penitenziari, responsabili del coordinamento delle attività amministrative delle carceri in vaste aree geografiche, nonché dirigenti generali dello Stato, non potranno interloquire con gli organi dell’informazione. È pur vero che le OO.SS. della Polizia Penitenziaria, attraverso i loro comunicati, parzialmente compensano il vulnus della conoscenza pubblica, ma altro sarebbe se le informazioni fossero frutto delle dichiarazioni ufficiali di un Direttore o un Provveditore: in molti non dormirebbero sonni tranquilli, pertanto il pericolo di una informazione fastidiosa andrà assolutamente tombato. Che si sappia poco o male del carcere lo si può ricavare anche dall’ignoranza, palese, che pure importanti organi istituzionali mostrano allorquando si riferiscano ad esso. In questi giorni di dialettica parlamentare, spesso si è sbagliato perfino nel tradurre l’acronimo del Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria), ribattezzato come Dipartimento degli Affari Penitenziari, confuso, forse, con altri pensieri di poltrone ministeriali; così come ancora si insiste nell’indicare il Ministero quale di “Grazia e Giustizia”, dimenticando che la Grazia è stata da decenni depennata, perché propria delle attribuzioni del Presidente della Repubblica: ma sono evidentemente dettagli che non interessano taluni neo-legislatori; la pertinenza dei termini è dettaglio superfluo di fronte alla figata del tele-processo e all’auspicata realizzazione di mega-carceri, per migliaia di detenuti (vedasi il costruendo carcere di Nola), allo scopo di ridurne i costi di funzionamento, per quanto le norme penitenziarie, su cui sorvolare, indichino il perfetto contrario. Da fonti autorevoli è stata insinuata la circostanza che le rivolte scoppiate nel marzo scorso sarebbero state ordite dalle criminalità organizzate; inducendo l’opinione pubblica che potesse essere un messaggio rivolto verso chi intendesse semmai inasprire il regime detentivo dell’alta sicurezza e del 41bis. Si è pure dubitato sulla obiettività di quanti, giudici, con le proprie decisioni, avessero consentito, esclusivamente per motivi di salute, la possibilità ai detenuti di fruire di misure diverse dal carcere, di fatto inducendo, senza dirlo, che i provvedimenti non costituissero l’esito di una seria disamina. Da qui, di tutta fretta, l’imporsi di un pre-controllo da parte della Procura Nazionale Antimafia e delle Procure distrettuali sull’operato di altri magistrati. I detenuti beneficiari dei provvedimenti politicamente contestati, quindi facendo strame dell’indipendenza ed autonomia del giudice, sarebbero state oltre 400, forse, di cui alcuni, tre, quattro, boh ! del circuito del 41bis, quello definito inopportunamente, anche da molti procuratori e loro sostituti, come “carcere duro”, favorendo così il rischio di ulteriori contenziosi innanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, perché tale “durezza carceraria” risulterebbe in evidente contrasto con i principi informatori delle regole penitenziarie europee, oltre che della nostra Carta Costituzionale la quale, per inciso, non lo contemplava neanche nei tempi del Fascismo: nomen omen, sarebbe opportuno ricordarselo! Ma, in fondo, siamo anche lo Stato che appella i Presidenti delle Giunte Regionali quali Governatori, benché tale “qualifica” non sia immaginata dalla Costituzione né prevista dalle leggi ordinarie finora emanate. È però il momento di fare alcune considerazioni. Perché, partendo da un altro punto di vista, non potrebbe affermarsi che buona parte se non tutte le manifestazioni di protesta e le rivolte nelle carceri siano state la prevedibile conseguenza, la perfetta reazione o tempesta, conseguente all’applicazione, all’incirca nelle stesse ore e giornate, di disposizioni promanate dagli organi di governo i quali, nello spregio del buon senso e del diritto, comprimevano in modo disumano, percepito come provocatorio dall’uomo in gabbia, quel nugolo di diritti riconosciuti in capo ai detenuti (ed ai loro familiari), per cui una reazione, dentro e fuori le carceri, sarebbe stata d’attendersi? Era corretto, con atto d’imperio unilaterale, senza temerne conseguenze anche tragiche, vietare e/o limitare i colloqui visivi ai detenuti, in particolare quelli con i familiari, indifferenti al fatto che numerosi di quest’ultimi si sobbarcassero sacrifici pesanti per incontrare, per poche ore, i congiunti ristretti, spesso smistati, come pacchi postali, a causa di provvedimenti di trasferimenti, emessi negli ultimi tempi “a nastro”, in carceri anche lontanissime dai luoghi di origine e di residenza, trasportando semmai pure bambini, genitori anziani e malandati, parenti disabili? Era “umano” vietare perfino l’ingresso dei minori, dando insignificanza alla responsabilità genitoriale di una madre o un padre che si rechi ai colloqui del parente imprigionato, senza neanche che ci si fosse assicurati di assicurare in contestualmente un’accoglienza protetta e temporanea dei minori, anche al fine di esonerare da ogni responsabilità gli adulti per la durata del colloquio visivo, evitando il rischio che fossero abbandonati per strada? Si poteva, così superficialmente, impedire gli incontri ai detenuti, che vivono l’asperità del carcere, contando i giorni che li separano dai colloqui con i familiari, minacciando un tanto anche per un tempo indeterminato? Possibile che non se ne comprendesse il significato, intuibile oggi anche da parte dei profani, dopo aver provato Noi tutti, sulla nostra pelle, il lockdown del Covid-19? È perciò auspicabile che si faccia chiarezza. Ma anche sulle paure per le scarcerazioni di canuti, ma pare ancora temibili, figuri della criminalità organizzata, occorrono spiegazioni. Diversi di loro avrebbero, infatti, terminato tra qualche tempo la loro pena; altri, invece, ancora sotto processo, sarebbero stati probabilmente scarcerati in sede di giudizio di cognizione, come le statistiche impongono; ma fermandoci ai condannati, davvero possano considerarsi, a distanza di 20, 30 e passa anni, ancora in grado di esercitare azioni di particolare rilevanza criminale: se dopo tutto il tempo trascorso, in regime del 41bis o quello dell’Alta Sicurezza, sono così pericolosi, l’esame della personalità compiuto dagli specialisti del trattamento e della polizia penitenziaria, e tutto l’insieme, numeroso e costoso, degli apparati di sicurezza esterni, operanti in sede di contrasto, di prevenzione e di intelligence, avrebbero clamorosamente mancato il bersaglio. Come altrimenti spiegare la preoccupazione verso detenuti di regola anziani ed ammalati, semmai prossimi al giudizio finale, ancorché emeriti criminali? Così certifichiamo che allo Stato non sono bastati decenni di pene detentive e di processi per renderli innocui, mentre nel frattempo si sarebbero pure insediate nuove leve criminali sui territori: è davvero così? Ma noi mica finanziamo da anni una sicurezza di facciata, un castello di carte bollate e di verbali che fibrilla innanzi al ritorno, in lettiga e con le flebo nelle vene, di delinquenti puniti, almeno, dalla pena naturale del tempo, ma quantomeno questa non incide sulle tasche del contribuente. E poi, a dirla sommessamente, quale migliore occasione di approfondimento investigativo può esserci dalla possibilità di puntare intelligentemente, usando tutte le tecniche di controllo di cui pur si è fatti sfoggio verso i cittadini comuni, nei tempi del Covid-19, gli occhi allenati e gli apparati tecnologici su un soggetto sì scarcerato ma, comunque, tenuto a soggiornare in luoghi (abitazioni, ospedali, etc.) pre-determinati, non sarebbe questa una ghiotta opportunità per approfondire la conoscenza sull’eventuale mantenimento di reti, connivenze e complicità criminali? Boh, forse sono altre le tecniche ed i misteri delle nuove scienze d’indagine. E, infine, visto che ci siamo, il Ministro Bonafede espliciti, con chiarezza, su chi sia il dominus della sicurezza in carcere nel caso di rivolte di detenuti. Sì, perché neanche questo, negli ultimi tempi, paradossalmente, risulta ancora definito e le norme, arrugginite, pur presenti, rischiano di essere considerate “liquide”. Nella mia esperienza pluridecennale, come Direttore, non ho mai permesso che altri ingerissero nella gestione della sicurezza in caso di proteste e rivolte, pur chiedendo aiuto alle forze di polizia per il controllo esterno, né mai ho autorizzato che entrassero all’interno delle aree detentive, o prossime alle stesse, agenti muniti di armi da fuoco. Infatti, ove i detenuti avessero avuto, pure per un solo un attimo, il sopravvento perché forti nel numero e semmai facendosi pure scudo con degli ostaggi, avrebbero avuto l’ulteriore vantaggio dell’utilizzo delle armi sottratte. Ma negli ultimi tempi le cose pare che non siano più così chiare, talché si impone assoluta certezza per le contestuali assunzioni di responsabilità: ai disordini, incendi, devastazioni, non devono aggiungersi ulteriori rischi di interferenze e sovrapposizioni, perché questo può ingenerare soltanto confusioni e morte. Carceri, e Covid. “L’errore della mancata trasparenza” di Rosita Rijtano lavialibera.it, 23 maggio 2020 “Se è stato commesso un grave errore nella gestione delle carceri durante l’emergenza coronavirus, si tratta della mancanza di trasparenza. Ancora una volta gli istituti penitenziari si sono rivelati carenti nel fornire informazioni”. Michele Miravalle, coordinatore nazionale dell’Osservatorio sulle condizioni detentive di Antigone, traccia il bilancio di questi mesi in occasione del nuovo report dell’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale. Un dossier che fornisce un quadro delle condizioni degli istituti di pena italiani, sempre più sovraffollati, insalubri nonché over 60, e mette nero su bianco le carenze che ci sono state nel far fronte alla pandemia. Prima di tutto, familiari e detenuti non sono stati informati su quanto stava accadendo rispettivamente all’interno e all’esterno delle carceri in modo adeguato. Poi è mancata chiarezza sulla controversa lista dei 498 detenuti al 41bis o in alta sicurezza a cui sono stati concessi i domiciliari per motivi di salute. Un’opacità che ha dato adito alla “falsa idea di una scarcerazione di massa dei boss della criminalità organizzata con il pretesto del Covid”, spiega Miravalle. E a cui, dati alla mano, ha corrisposto un’inversione di tendenza. Perché se in virtù delle misure adottate nel decreto Cura Italia per liberare spazi e tutelare le persone più a rischio, da marzo ad aprile la popolazione carceraria è scesa in media di 158 persone al dì, da aprile a maggio - ossia dopo le polemiche - il calo è stato di 77,3 persone al giorno: meno della metà di prima. Con il risultato che il tasso di affollamento medio delle carceri non è andato al di sotto del 107 per cento. Assenza di informazioni e rivolte - Quella dell’emergenza coronavirus nelle carceri sembra una storia punteggiata da omissis. Il primo riguarda detenuti e parenti e risale allo scorso otto marzo, quando è stata stabilita la sospensione dei colloqui di persona all’interno degli istituti penitenziari. Una decisione presa per prevenire i contagi e che tuttavia, stando a quanto si legge nel report di Antigone, sarebbe stato previdente accompagnare “al contempo” da una serie di altre disposizioni: la comunicazione ai detenuti di quello che stava succedendo, sia fuori sia dentro, l’aumento della frequenza e della durata di telefonate e videochiamate, l’invio in detenzione domiciliare o in liberazione anticipata dei tanti a cui restavano pochi mesi da scontare. “Alcune di queste cose sono state fatte, ma tardi”, scrive Claudio Paterniti. Lo confermano i messaggi che l’associazione ha ricevuto in questi mesi da parte di madri, padri, sorelle, fratelli, mogli e mariti di detenuti preoccupati: “Vi chiediamo aiuto, in una cella ce ne sono 6-7, ognuno di loro soffre di una patologia grave. Se il virus dovesse entrare lì come si risolve?”, ha domandato la compagna di uno di loro. “Mio marito prima di essere un detenuto è padre di 2 figli piccoli, che non vede da oltre un mese e che non vedrà per ancora molto tempo”, fa eco un’altra. “Mio fratello da una settimana si trova in isolamento in infermeria con la febbre alta, tosse, dolori e senso di vomito. Da quattro giorni non mangia. Ha appena chiamato al telefono e piangendo ci ha chiesto di aiutarlo. Da ieri pomeriggio nessuno gli misura la febbre”, ha scritto una sorella. “Ne sono arrivati circa 400: una mole enorme che in genere siamo abituati a gestire in un anno e che dimostra quanto sia stata carente l’informazione”, precisa Miravalle. “Basti pensare che l’unico argine all’assenza di notizie sul numero di contagi e decessi è stato il Garante dei detenuti, Mauro Palma. Tra i familiari, che soffrono la pena al pari dei detenuti, si è spesso scatenato un panico genuino”. Non a caso, secondo Miravalle, le carceri dove sono esplose le rivolte più violente sono state quelle in cui “nessuno si era preso la briga di spiegare quanto stava avvenendo, nonostante la circolare del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria avesse prescritto il dialogo”. Il caso Modena - Un esempio citato è quello del Sant’Anna di Modena che scopriamo essere un carcere segnato da profondi problemi strutturali “con un rilevante sovraffollamento, la presenza di una popolazione reclusa in condizioni di estrema marginalità sociale ed economica”, e di cui circa il 30 per cento ha problemi di tossicodipendenza. Nell’istituto penitenziario modenese si trovavano nove dei tredici detenuti deceduti a seguito dei tafferugli, anche se quattro di loro sono morti dopo essere stati trasferiti in istituti di pena a oltre duecento chilometri di distanza. Secondo le prime ricostruzioni ufficiali, la causa sarebbe stata overdose da metadone (un farmaco utilizzato nella terapia di sostituzione da eroina), o da altri farmaci, presi durante il saccheggio delle infermerie degli istituti penitenziari. “La più grande morte collettiva avvenuta negli ultimi trent’anni - prosegue Miravalle. L’episodio ha scoperchiato l’enorme tema irrisolto della tossicodipendenza in carcere e lasciato sospesi molti interrogativi: se i detenuti trasferiti sono morti per overdose, come è stato gestito il trasferimento? C’era un medico con loro? Ci si è fermati prima in un pronto soccorso e, se no, perché? Anche in questo caso c’è stata una mancata trasparenza”. Il secondo grande omissis riguarda l’elenco dei “boss scarcerati” che non solo ha scatenato polemiche costate le dimissioni a Francesco Basentini, ex capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, e su cui il pentastellato ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha rischiato la sfiducia, ma ha anche avuto ripercussioni sulle condizioni dei detenuti. È ormai noto che dei 498 detenuti al 41bis o in alta sicurezza a cui sono stati concessi i domiciliari durante l’emergenza coronavirus solo quattro erano reclusi al 41bis, ovvero lo 0,5 per cento del totale delle persone che al 6 novembre 2019 era al carcere duro, pari a 747 individui (di cui 735 uomini e 12 donne). Solo una persona proveniva dalla cosiddetta alta sicurezza 1 (l’ergastolano siracusano Antonio Sudato), in cui vengono collocati i detenuti a cui non è stato rinnovato il decreto di applicazione del regime 41bis. Mentre tutti gli altri erano reclusi nei reparti dell’alta sicurezza 3, dove si trovano le persone condannate o accusate di associazione di stampo mafioso, ma anche di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, sequestro a scopo di estorsione, tratta di essere umani, e di alcuni gravi reati sessuali. “Si tratta di reati che non necessariamente presuppongono l’affiliazione a un’organizzazione mafiosa - precisano gli autori del report -. E anche quando la presuppongono, non in ruoli di vertice”. Insomma, non possono essere definiti “boss”. Inoltre, la maggior parte di quei provvedimenti (253) riguardava persone detenute “in attesa di giudizio”. Eppure, il polverone ha determinato quello che Miravalle definisce “un mutamento di narrazione repentino”. Un cambiamento che ha imposto “il tema della sicurezza su quello della salute” e si riflette in una flessione delle scarcerazioni post polemiche. La conseguenza è il mancato raggiungimento degli obiettivi richiesti dalle associazioni. Come riferisce il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale sul suo sito istituzionale, il 15 maggio i detenuti presenti erano 52.679: oltre ottomila in meno rispetto a febbraio, ma pur sempre troppi a fronte di una capienza regolamentare che al 30 aprile era di 50.438 posti. Restano critiche situazioni come quelle di Latina con un tasso di sovraffollamento medio del 179,2 per cento, Taranto (187,6 per cento) o Larino (194,7 per cento) ed anche nelle regioni più a rischio ci sono carceri come Como (161,4 per cento), Pordenone (156,8 per cento), Vigevano (148,7 per cento), Busto Arsizio (148,3 per cento) o Tolmezzo (148,3 per cento) che “destano ancora grande preoccupazione”. Una questione non di poco conto considerato che in 25 delle 98 carceri visitate da Antigone nel 2019 sono state trovate celle in cui non era rispettato il criterio dei tre metri quadri per detenuto. In 45 c’erano celle senza acqua calda per lavarsi e in 52, ben più del 50 per cento, c’erano celle senza doccia, cosa che costringe i detenuti a usare docce comuni. Inoltre, in otto istituti tra quelli visitati c’erano celle in cui il wc era a vista, anziché in un ambiente separato. Condizioni di igiene precarie che costituiscono l’ambiente ideale per la diffusione del coronavirus. A ciò si aggiunge che alla fine del 2019 le persone con più di 40 anni erano oltre il 50 per cento, mentre la percentuale di quelle con più di 60 anni è più che raddoppiata rispetto al 2009, passando dal 4,1 all’8,6 per cento. “Tutti problemi che il coronavirus ha messo in luce, da cui dovremmo imparare”, conclude Miravalle. Situazione di sofferenza nelle carceri italiane di Anna Lisa Antonucci L’Osservatore Romano, 23 maggio 2020 Il carcere in Italia è lo specchio del Paese, sempre più anziani, una popolazione detenuta tra le più vecchie d’Europa, dove crescono gli analfabeti, gli stranieri sono in diminuzione e, a differenza di quanto viene sbandierato, commettono reati generalmente meno gravi e vengono condannati a pene meno severe. Un’istituzione, dove si rimane in media più che negli altri Paesi europei, molto costosa perché assorbe 3 degli 8,7 miliardi di euro che nel 2020 l’amministrazione della giustizia costa allo Stato, esclusi i finanziamenti per fronteggiare il coronavirus. Un costo giornaliero per detenuto che si aggira intorno ai 134,50 euro. Un luogo dove ci si toglie la vita 13,5 volte di più che all’esterno, dove l’anno passato si sono uccise 53 persone e più di un detenuto su quattro è in terapia psichiatrica. Con alcuni record come quello del carcere di Spoleto dove risulta in terapia psichiatrica il 97 per cento dell’intera popolazione detenuta. Il XVI rapporto annuale dell’associazione Antigone, che si batte per i diritti dei detenuti, fotografa una realtà di sofferenza che in tempi di pandemia ha rischiato di diventare una bomba batteriologica. All’inizio dell’emergenza coronavirus infatti i detenuti nelle carceri italiane erano 61.230 a fronte di una capienza di 50.931 posti, con un tasso di affollamento del 130,4 per cento. In 25 delle 98 carceri visitate da Antigone nel 2019 non era rispettato il criterio dei 3 mq per detenuto stabilito dalla Corte europea. In 14 istituti le celle ospitavano 5 detenuti ma a Poggioreale, Pozzuoli e Bolzano si arrivava fino a 12 persone per cella. A marzo le misure adottate dal Governo per contrastare la diffusione del virus in carcere hanno permesso di abbassare il tasso di affollamento al 112,2 per cento. I detenuti presenti ad oggi sono 52.679 con una diminuzione di 8.551 persone rispetto a fine febbraio scorso. Le detenzioni domiciliari concesse tra il 18 marzo e il 15 maggio sono state 3.282 e hanno riguardato persone condannate per reati non gravi, con meno di 18 mesi da scontare. Sono stati inoltre 4 i detenuti al 41bis cui è stata concessa la detenzione domiciliare per motivi di salute. Infine sono stati scarcerati 494 reclusi in alta sicurezza di cui 253 erano in attesa di giudizio. Negli istituti di pena la paura del virus ha causato, all’inizio di marzo, 49 rivolte e 13 morti per ingestione di metadone e avvelenamento da farmaci. Il contagio, invece, ad oggi, ha riguardato 119 detenuti e 162 operatori penitenziari, le vittime sono state 4 tra i detenuti e 4 tra gli operatori (due agenti e due medici). Contagi limitati anche nelle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) con solo una vittima. “Dunque possiamo dire che, anche grazie al grande lavoro degli operatori penitenziari - ha detto Patrizio Gonnella presidente di Antigone presentando il rapporto - le carceri non si sono trasformate in luoghi di contagio e morte”. “Ma la pandemia - ha aggiunto Gonnella - ha evidenziato l’importanza di ridurre i numeri della popolazione detenuta, rivedere i reati punibili, modificare la legge sulla droga che pesa enormemente sul numero dei reclusi (un terzo del totale è in carcere per aver violato la legge sugli stupefacenti), consentire smartphone e collegamenti a distanza per intensificare i rapporti con le famiglie, le attività trattamentali ed educative, dunque investire nelle tecnologie, aumentare l’informazione ai detenuti, migliorare la sanità in carcere, con la presenza di medici e operatori sanitari stabili ed incrementare il personale penitenziario carente sia tra i direttori che tra gli educatori”. Stop ai permessi facili ai boss. L’Antimafia trova le soluzioni di Clemente Pistilli La Notizia, 23 maggio 2020 A decidere sui benefici sarà un super-tribunale. L’ergastolo ostativo continuerà ad essere un argine. Il legislatore adesso può intervenire. E Morra assicura: dati tutti gli strumenti. “Dopo un lungo e complesso lavoro, la commissione parlamentare antimafia ha approvato la relazione sull’art. 4bis dell’ordinamento penitenziario e sulle conseguenze derivanti dalla sentenza n. 553/2019 della Corte Costituzionale. La relazione - specifica il presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra - dà al Legislatore le soluzioni normative per la riformulazione dell’art. 4bis, utili a recepire principi fissati dalla Corte e a rafforzare l’efficacia della norma con riferimento al fenomeno mafioso”. Occorre insomma solo legiferare. Qualcosa per evitare che persino i boss irriducibili, quelli che non hanno mai collaborato con la giustizia, possano tranquillamente ottenere permessi premio e benefici vari si può e si deve fare. Davanti alle bocciature del cosiddetto ergastolo ostativo giunte dalla Corte di giustizia europea e dalla Corte Costituzionale, il presidente della commissione parlamentare antimafia, Nicola Morra, a novembre aveva assicurato che sarebbe stata trovata una soluzione. Dopo lunghe audizioni e con un lavoro intenso e corale da parte dell’intera commissione, che non ha guardato alle insegne di partito ma all’obiettivo di combattere con i fatti le organizzazioni mafiose, ora è stata messa a punto una relazione, che ha avuto come relatori il senatore Pietro Grasso, di Leu, e la deputata Stefania Ascari, del Movimento 5 Stelle, in cui sono state indicate le possibili strade da percorrere. A partire da quella di un Tribunale unico e veloce per affrontare casi così delicati. La Commissione parlamentare antimafia, negli ultimi mesi, ha audito sul tema il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Federico Cafiero de Raho, il capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, il presidente della commissione carceri ed esecuzione della pena del Consiglio superiore della magistratura, i presidenti dei tribunali di sorveglianza di Bologna e Roma e un accademico, esperto della tematica, docente di diritto costituzionale presso l’Università degli studi Roma Tre. Tutti hanno concordato sull’opportunità che una eventuale modifica legislativa riguardi tutti i benefici penitenziari indicati nell’art. 4bis dell’ordinamento penitenziario oltre che la liberazione condizionale, essendo altrimenti prevedibili ulteriori successivi interventi della Consulta. E tutti hanno sottolineato che sarà comunque il condannato a dover fornire gli elementi idonei a superare la presunzione di attualità di collegamenti con la criminalità, per ottenere la concessione del beneficio, che comunque costituirà un’eccezione alla regola. Il problema che si è però manifestato è stato quello sulla competenza a decidere su tali richieste. Ribadendo che l’ergastolo ostativo “ha costituito un meccanismo fondamentale nel processo di smantellamento delle organizzazioni nostrane, stante le loro peculiarità strutturali”, l’Antimafia ha quindi ipotizzato due soluzioni. Una prevede una giurisdizione esclusiva in capo al Tribunale di sorveglianza di Roma in materia di valutazione dell’accesso ai benefici per i condannati su cui pesa l’ergastolo ostativo, compresi i permessi premio. E la competenza sui reclami potrebbe andare a una sezione della Corte d’appello di Roma integrata dalla presenza di esperti, ma potrebbe anche escludersi il reclamo e prevedere esclusivamente il ricorso in Cassazione. Una seconda ipotesi, considerata immediatamente praticabile, prevede invece un “doppio binario”, con una disciplina differenziata in ragione della tipologia di reati per cui il soggetto è stato condannato. E la competenza per il permesso premio presentate dai condannati e dagli internati per reati associativi, per delitti mafiosi e di criminalità organizzata, eversiva o terroristica e per traffico di stupefacenti andrebbe assegnata al tribunale di sorveglianza territoriale. Per gli altri reati la competenza resterebbe invece al magistrato di sorveglianza. Ribadita infine l’urgenza di realizzare la banca-dati nazionale dei carichi pendenti. Ora cambiamo davvero di Valerio Valentini Il Foglio, 23 maggio 2020 Prescrizione, Csm, Bonafede e il giustizialismo. “Serve discontinuità”, ci dice il sottosegretario Giorgis (Pd). Ora che il polverone s’è depositato, dopo settimane di polemiche intorno alla giustizia e al suo ministro, Andrea Giorgis dice “che si può tornare a discutere seriamente sulle cose da fare, che sono molte”, e che bisogna farlo “con equilibrio e con coraggio”. Pensavamo che si potesse parlare d’altro, per un po’, e invece Giorgis, sottosegretario a Via Arenula del Pd, spiega che il dibattito parlamentare, con le annesse mozioni di sfiducia ad Alfonso Bonafede, “non ha esaurito il dibattito sulle riforme da attuare, ma anzi ne ha ribadito l’urgenza”. Una fase 2, dunque, anche per la giustizia, “perché questo governo è nato sul presupposto che, anche in materia di giustizia, occorresse una forte discontinuità rispetto all’esecutivo precedente, quello in cui il M5s era alleato della Lega. E per realizzarla, questa discontinuità, bisogna appunto procedere nell’attuazione delle riforme rimaste sospese a causa della crisi del Covid. In primo luogo quella del processo penale, su cui il Cdm ha licenziato un testo depositato alla Camera e che è necessario iniziare a discutere subito, coinvolgendo tutti gli operatori del diritto, dall’avvocatura alla magistratura al mondo accademico. L’obiettivo prioritario è quello di garantire un processo che sia, oltreché giusto, anche rapido: nell’interesse di tutti”. Insomma è inutile girarci intorno: il nodo della prescrizione resta ancora da sciogliere. “Il tema va affrontato rapidamente - dice Giorgis - perché, così com’è, il sistema non è in equilibrio. Il Pd non ha mai ritenuto che l’interruzione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, approvata dal governo gialloverde, fosse un punto di arrivo accettabile”. Vi si è spesso accusati di timidezza, sul tema, quasi che foste più preoccupati ad arginare le pressioni renziane che non il giustizialismo grillino. “Non direi. Vedo, ad esempio, che ora è stata confermata la volontà di istituire una commissione di monitoraggio sugli effetti della riforma della prescrizione. Ben venga: era una richiesta che il Pd aveva avanzato fin da subito, insieme a misure capaci di garantire tempi certi alle diverse fasi del processo”. Il premier Conte propone un tavolo allargato anche alle opposizioni, sulla giustizia. “Assolutamente condivisibile”. Ma è possibile far dialogare il M5s con Forza Italia, sul tema? “La demagogia, nel campo della giustizia, rischia di creare disastri. Penso al tema del sovraffollamento carcerario: se si fosse investito di più nelle misure alternative al carcere, sarebbe stato meno difficile anche affrontare l’emergenza sanitaria. Peraltro, i tassi di recidiva diminuiscono notevolmente quando ai condannati viene offerta la possibilità di espiare una pena, pur severa, ma collegata a un progetto di riabilitazione. E, a proposito di discontinuità, nella legge di Bilancio 2020 è stato assunto personale per dare nuovo impulso all’esecuzione penale esterna. Ma se ogni volta che si propongono soluzioni simili si grida allo scandalo per lo ‘svuota-carceri’, tutto si complica”. Crede che lo scontro tra Bonafede e Nino Di Matteo abbia insegnato al M5s che la cultura del sospetto è pericolosa per tutti? “Sono rimasto molto colpito sia per il contenuto sia per la forma delle dichiarazioni del dottor Di Matteo: è quantomeno irrituale, per un magistrato e un membro del Csm, fare certe esternazioni in diretta televisiva. Vedremo, a tal proposito, cosa il Csm deciderà di fare; intanto l’Anm ha opportunamente richiamato tutti i magistrati a una maggiore prudenza. Quanto al giustizialismo, lo si combatte proprio attuando le riforme discusse sin dalla nascita del governo. Il ministro Bonafede, al Senato, ha ribadito che il suo faro è la Costituzione. Bene. Lo prendiamo sul serio. Ciò significa, appunto, un processo giusto e con tempi ragionevoli: articolo 111. Significa funzione rieducativa della pena, articolo 27, ed effettiva garanzia del diritto di difesa anche per i non abbienti, articolo 24. Significa presunzione d’innocenza e separazione dei poteri”. Molto si è discusso sulle scarcerazioni adottate dalla magistratura di sorveglianza. “Nessuna scarcerazione di condannati per mafia è avvenuta in applicazione delle misure del decreto Cura Italia per ridurre il sovraffollamento”. Però il cortocircuito s’è generato anche a causa delle dichiarazioni del M5s, secondo cui sono stati “rimessi dentro”, per decreto, i detenuti scarcerati. “Se è questo il messaggio che è passato, è sbagliato. Il decreto adottato il 10 maggio non ha ordinato alcuna carcerazione, anche perché sarebbe incostituzionale. Ha solo previsto che i magistrati di sorveglianza verifichino, ogni mese, se persistono i presupposti di fatto e le esigenze sanitarie che li hanno indotti a differire l’esecuzione della pena in carcere. Ma il tutto dimostra, nel complesso, come la riforma organica dell’ordinamento penitenziario sia urgente”. E quella del Csm? “Anche. Una riforma da attuare non in violazione dell’autonomia della magistratura, ma anzi a sostegno della credibilità della magistratura stessa. Nessuno vuole negare il pluralismo culturale e associativo dei magistrati, ma bisogna contrastarne le degenerazioni correntizie. Il che impone anche di ripensare la legge per l’elezione dei membri togati del Csm. Nel Pd abbiamo varie idee, che vanno dal doppio turno al collegio uninominale: ci confronteremo, con l’obiettivo di valorizzare, sempre, competenza e rappresentanza. Dopodiché, manca il quarto pilastro: la riforma del processo civile. Il testo è incardinato al Senato senza entrare nello specifico, ricordo che ci sono misure importanti volte a semplificare e razionalizzare la risoluzione delle controversie: si è ipotizzato, ad esempio, di ridurre i riti e sostituire l’articolato procedimento ordinario di cognizione con un rito modellato sullo schema del rito sommario; di introdurre strumenti di istruzione preventiva, di rivedere i casi di negoziazione assistita, ecc. E poi la digitalizzazione. Equilibrio e coraggio, anche qui, perché la riforma della giustizia civile è urgente e serve altresì a sostenere crescita e sviluppo economico. E l’Italia, la crisi economica, ce l’ha ancora davanti a sé”. In Gb e Usa l’arresto è illegale di per sé senza prove. Da noi no, è qui lo sbaglio di Pietro Di Muccio De Quattro Il Dubbio, 23 maggio 2020 La nostra libertà personale non è garantita, gli anglosassoni invece difendono l’habeas corpus. Luttwak e Davigo, intervenuti nella trasmissione di Floris su La7, hanno detto la loro sulla giustizia in Italia ed America. Dallo scambio di opinioni è parso chiaro che i due non erano fatti per capirsi, specialmente in materia di prove e carcerazione preventiva. Luttwak sosteneva che in Italia i Pm accusano senza prove. Davigo rispondeva che le indagini giudiziarie sono fatte appunto per cercare e trovare le prove. Ma è sulla libertà personale che la differenza tra il sistema americano (rectius, anglosassone) e l’ordinamento italiano è parsa quella che è, cioè abissale, sebbene nel breve dibattito il contrasto non sia emerso a dovere. Davigo, patriotticamente, si è spinto a parlare di tutela rigorosissima, costituzionale e legislativa, in Italia. Purtroppo le cose non stanno però come affermato dal famoso magistrato, al quale non farò il torto di considerarlo imperfetto conoscitore del sistema angloamericano e pertanto considererò il suo sperticato elogio del sistema italiano alla stregua di una perorazione pro domo sua piuttosto che l’esposizione di una verità effettuale. Non che egli abbia fatto affermazioni inesatte in punto di diritto. Ha invece magnificato cose esatte che non meritano il plauso. Dunque qualche essenziale precisazione può essere utile a rendersene conto. Nel sistema giudiziario anglosassone, fondato sul trial by jury (processo con giuria: il giudice soprattutto arbitra la procedura, caratterizzata da oralità, concentrazione, immediatezza) e lo stare decisis (obbligatorietà del precedente giudiziale), l’habeas corpus (Che si produca o esibisca il corpo! è la celeberrima formula che garantisce la libertà del cittadino da qualsiasi arresto e detenzione arbitrari da chiunque effettuati) e il release on bail (rilascio su cauzione) costituiscono le più antiche tutele della libertà personale nelle nazioni di common law. Servono ad impedire l’obbrobrio della carcerazione preventiva all’italiana. Con l’habeas corpus ogni arrestato o detenuto ingiustificatamente ha diritto di chiedere ad una corte di essere rilasciato. L’habeas corpus, ecco la differenza mai abbastanza rilevata, presuppone l’illiceità di qualsiasi arresto o detenzione dell’autorità ed è così fondamentale che, nel Regno Unito, è stato sospeso solo in circostanze eccezionali mentre, negli Stati Uniti, la Costituzione stessa vieta addirittura di sospenderlo se non in caso di rivolta o invasione. In queste nazioni l’arresto è illegale di per sé e l’accusa deve provarne la liceità; in Italia l’arresto è legale di per sé (ovviamente sulla base delle tre ben note quanto labili condizioni processuali, lodate da Davigo come il toccasana giuridico: pericolo di fuga, reiterazione del reato, inquinamento delle prove) e la difesa deve dimostrarne l’illiceità: un rovesciamento della garanzia della libertà personale. Quanto al rilascio su cauzione, esso è un diritto della persona accusata formalmente, che garantisce una somma (malleveria) e si impegna a presentarsi al giudice il giorno stabilito. Il giudice ha ampia discrezionalità sull’ammontare della cauzione e sull’opportunità di concederla, la quale non necessariamente è correlata alla gravità del reato. Negli Stati Uniti l’VIII Emendamento (1791), ricopiato sul Bill of Rights britannico del 1689, vieta le cauzioni eccessive. In Italia, dove predominano i tiepidi verso la libertà personale e gli entusiasti delle manette ai semplici imputati, il rilascio su cauzione viene considerato un favore fatto ai ricchi. Niente di più falso. Tale convinzione alberga nei prevenuti e negli ignoranti. Infatti, l’istituto della cauzione, oltre a rappresentare intuitivamente, almeno per i liberali, un diritto naturale, ha tra gli altri il pregio di essere plasmabile secondo la natura del reato, la personalità e la condizione dell’incolpato, le necessità dell’ordine sociale, e pertanto risponde in modo pieno e concreto alle più profonde esigenze della vera giustizia. Nel Regno Unito, per esempio, l’80% degli accusati viene rimesso in libertà! In Italia, chi si costituisce spontaneamente confessando l’uccisione del coniuge, succede che venga arrestato senza condanna. In barba alle tre condizioni processuali. Un toccasana, appunto. La giustizia tra il letame e il ventilatore di Claudio Cerasa Il Foglio, 23 maggio 2020 Il dramma rimosso delle correnti dei magistrati. Il garantismo utilizzato solo per difendere gli amici. Le intercettazioni irrilevanti usate solo quando conviene. I garantisti finiti al traino dei pm. Una settimana di ordinaria follia giudiziaria. La settimana che si avvia verso la conclusione è stata dominata da una serie di piccole e grandi notizie giudiziarie che hanno contribuito a rafforzare l’immagine di un paese che quando si ritrova a fare i conti con il tema della giustizia si comporta sempre seguendo il modello del letame nel ventilatore. Quando il ventilatore con il letame viene puntato contro di noi, il ventilatore viene sempre considerato come un qualcosa di osceno e detestabile. Quando il ventilatore con il letame viene invece puntato contro gli altri, viene considerato come uno strumento utile a mostrare le oscenità degli altri. Il risultato di questo allegro gioco fatto di letame e di ventilatori è che una parte non indifferente della nostra classe dirigente, della nostra informazione e del nostro mondo politico offre ogni giorno un indizio utile a inquadrare un problema per così dire strutturale del nostro paese che potremmo provare a sintetizzare così: la difesa dello stato di diritto è una battaglia che vale la pena combattere a condizione che quella battaglia non porti benefici ai propri avversari. E il risultato di questo approccio per così dire culturale è che ogni volta che l’Italia prova a fare un passo in avanti sulla cultura del garantismo un secondo dopo ne fa due in avanti sulla cultura del giustizialismo. Prendete quello che è successo negli ultimi giorni all’interno di una serie di storie apparentemente scollegate l’una dall’altra. La prima storia è quella relativa all’arresto del procuratore capo di Taranto Carlo Maria Capristo, finito agli arresti domiciliari con l’accusa di abuso d’ufficio e favoreggiamento. Capristo, come raccontato su queste pagine da Luciano Capone, è divenuto famoso per le inchieste finite nel nulla sulle agenzie di rating e sui complotti della finanza mondiale contro l’Italia e la notizia dell’arresto non ha spinto nessun grande giornale a porsi una sola domanda su quello che è invece un grande scandalo italiano: la legittimità con cui il Csm usa i trasferimenti da una procura all’altra dei magistrati come sanzione accessoria per i magistrati rivelatisi non capaci. Senso della storia: se gli scandali riguardano i magistrati meglio fare silenzio e usare tutte le garanzie del caso, ma se gli scandali riguardano i politici meglio montare la panna e infilare tutto dentro un unico ventilatore. La seconda storia ha a che fare ancora con i magistrati e ci offre questa volta un triplo spunto di riflessione. La storia in questione riguarda gli sviluppi dell’indagine sul magistrato Luca Palamara - indagine relativa alle cosiddette nomine pilotate al Consiglio superiore della magistratura - e in particolare riguarda le intercettazioni di magistrati pubblicate in questi giorni da alcuni quotidiani (in primis la Verità). Punto numero uno: i grandi giornali che da sempre riempiono le proprie pagine con intercettazioni penalmente irrilevanti, in questi giorni non hanno pubblicato una sola riga delle intercettazioni tra Palamara e mezzo mondo togato. E così come risulta curioso il silenzio sulle intercettazioni dei magistrati da parte dei giornali che per molti anni hanno fatto campagne contro le leggi bavaglio per poter pubblicare intercettazioni irrilevanti a carico dei politici, allo stesso tempo risulta curioso - e siamo al punto due - il modo in cui giornali e giornalisti di destra, dopo aver lottato nel passato per introdurre leggi urgentissime che impediscano di passare ai giornalisti intercettazioni non penalmente rilevanti e che impediscano ai giornalisti di pubblicarle, oggi scelgano di pubblicare intercettazioni penalmente irrilevanti a condizione che queste possano sputtanare gli odiati magistrati e a condizione che queste possano dimostrare quanto possa essere perseguitato il loro beniamino politico (nel caso in questione Matteo Salvini, che come racconta oggi Salvatore Merlo i complotti di solito li organizza da solo). Punto numero tre: rispetto all’indignazione manifestata da molti per il fitto traffico delle correnti nessuno che si ponga mai la domanda delle domande: ma il mercato delle nomine della magistratura è o non è incentivato dalla presenza delle correnti? E poi: è mai possibile che quasi nessuno capisca che il problema delle correnti della magistratura non è relativo alle correnti dei magistrati che non ci piacciono (dàgli al magistrato nemico, ma solo se questo non si chiama Davigo) ma è relativo al fatto che sia proprio la presenza delle correnti nella magistratura uno dei mali che corrodono nel profondo la magistratura italiana? A tutto questo va poi aggiunto un dettaglio ulteriore che è quello che riguarda le scene andate in onda nel corso della settimana attorno al caso Di Matteo-Bonafede. Da una parte c’è una scena comica ed è quella offerta dal M5s che per difendere il suo adorato ministro, Alfonso Bonafede, dalle accuse di un magistrato adorato, Nino Di Matteo, ha scelto di fare l’opposto di quanto fatto negli ultimi anni e ha deciso di considerare il ventilatore con il letame sopra come qualcosa non di prelibato e gustoso ma di osceno e detestabile. Dall’altra parte c’è invece una scena meno comica che è quella che hanno offerto i partiti di centrodestra che per poter andare contro un ministro osceno come Alfonso Bonafede hanno scelto di dire di sì a una mozione di sfiducia costruita sulla base di un processo di piazza portato avanti da un pubblico ministero sulla base di illazioni. E quando un paese nell’indifferenza generale sceglie di barattare il rispetto dello stato di diritto con il diritto a usare le armi del giustizialismo per abbattere i propri nemici significa che quel paese quando parla di giustizia ha smesso di comprendere che differenza c’è tra una tavoletta di cioccolato e una tavolata di letame. La gaffe di Palamara aiuta Salvini: cresce la paura del processo di Paolo Delgado Il Dubbio, 23 maggio 2020 Segnale del Colle al leader della Lega dopo la pubblicazione delle intercettazioni del pm che lo attaccano. Potrebbe essere l’occasione per recuperare i consensi persi. L’improvvida conversazione in chat tra magistrati pubblicata due giorni fa dal quotidiano La Verità è la prima buona notizia per Matteo Salvini da 10 mesi a questa parte. Lunedì la giunta per le autorizzazioni del Senato riprenderà la discussione sull’autorizzazione a procedere per il caso della “Open Arms”, martedì si arriverà al voto. A ottobre inizierà il processo per la “Gregoretti”, già fissato per luglio e poi slittato per la crisi Covid. Sono processi pericolosi nei quali il leder leghista rischia grosso, sia sul piano penale, se si arrivasse a condanne in terzo grado, sia su quello politico, già nel caso di eventuali condanne in primo grado. L’imputato rischiava di affrontarli nel conteso peggiore, con un’attenzione dell’opinione pubblica concentrata su tutt’altro, il capitolo migranti precipitato in fondo alla lista delle preoccupazioni degli italiani, una Lega in calo di consensi accelerato. Le parole effettivamente inqualificabili di Palamara, con l’affermazione che l’allora ministro degli Interni dovesse essere attaccato a prescindere dall’effettivo rilievo penale delle sue scelte, aiutano il capo leghista. Gli permetteranno di alzare i toni, rivestire i panni del perseguitato politico, riportare in primo piano un tema, quello dell’immigrazione spodestato dalla crisi sanitaria e dall’ombra crescente di quella economica. Salvini ha reagito con misura, senza strafare. Si è rivolto al capo dello Stato ma senza chiedere impossibili interventi diretti del presidente. II quale, consentendo a rendere noto il colloquio telefonico e farlo definire “cordiale” ha inviato, con i codici bizantini della diplomazia del Colle, un segnale.Certo i processi restano un grosso pericolo è probabile che il sospetto inevitabilmente destato dalle parole di Palamara suggerisca ai giudici estrema prudenza, tanto più che l’accusa più grave, quella di sequestro di persona, appare anche a molti non sospetti di simpatie salviniane tirata per i capelli e l’idea che il premier Conte non condivida le responsabilità del suo allora ministro degli Interni avendo segnalato le sue opinioni contrarie, come se si trattasse di un privato cittadino dissenziente invece che del capo del governo, è decisamente un po’ forte. Va da sé che l’eventuale assoluzione trasformerebbe l’intera vicenda in un boomerang e offrirebbe a Salvini armi preziose e potenti. Il provvidenziale soccorso offerto dalla Verità e soprattutto da Palamara arriva oltre tutto al momento giusto. Un anno fa Matteo Salvini sembrava inarrestabile, i sondaggi registravano un aumento costante della sua popolarità qualsiasi cosa facesse o dicesse. Aveva di fronte un solo compito: scegliere bene il momento e le modalità per mettere in crisi il governo gialloverde. Non avrebbe potuto assolvere peggio a quel compito e da quel momento in poi non ha più azzeccata una. Nella crisi Covid la situazione è peggiorata, in parte perché l’emergenza sanitaria ha rialzato le quotazioni del premier, in parte per la sua incapacità, a differenza dell’alleata-competitor Giorgia Meloni, di assumere una posizione anche solo riconoscibile. Il disastro della Sanità lombarda ha completato l’opera e i sondaggi un anno fa sempre confortanti sono diventati puntualmente impietosi. Solo in apparenza paradossalmente, un appiglio è arrivato dagli un tempo alleati e oggi nemici giurati 5S e dallo stesso premier. Se, accogliendo i suggerimenti del capo dello Stato, avessero aperto uno spiraglio al dialogo e cercato di far funzionare anche solo un po’ la “cabina di regia”, avrebbero rinsaldato in un momento forse decisivo le posizioni dei “governisti” della Lega, come Giorgetti e Zaia, a scapito di quelle del leader descamisado e comiziante. Al contrario i 5S hanno fatto il possibile per far fallire ogni tentativo di dialogo, nel comprensibile timore di aprire la pista per un futuro governo di semi-unità nazionale. Lo stesso Conte, a parte le dichiarazioni pubbliche d’obbligo, nel concreto ha fatto ben poco per agevolare un disgelo anche momentaneo in nome dell’emergenza nazionale. L’indisponibilità al dialogo dei 5S, ma in realtà anche dello stesso premier, tarpa le ali alla Lega moderata proprio mentre l’opinione pubblica inizia a mutare di umore nei confronti del governo, di fronte a una crisi economica che comincia a mordere e di fronte ai ritardi e ai limiti del “ristoro” promesso dal governo. La chat di Palamara amplificherà al massimo, la settimana prossima il voto sulla nuova autorizzazione a procedere e getterà una luce ambigua sull’intera vicenda. Per la prima volta dopo il clamoroso autogoal dello scorso agosto, Salvini ha di fronte un’occasione per recuperare il terreno perso in 10 mesi. Che riesca a coglierla e sfruttarla, però, è tutto da vedere. Si passa da Bonafe a Salvini, dimenticando il dossier Giustizia e la riforma indispensabile di Roberto Vicaretti Il Dubbio, 23 maggio 2020 Cosa resta della settimana che ha riportato la questione giustizia nell’agenda della politica? Sicuramente non i temi della giustizia, utilizzati in modo strumentale per regolare qualche conto all’interno della maggioranza, prendersi qualche ora di visibilità e, magari, riscrivere alcuni equilibri di sottogoverno o in vista della prossima tornata di nomine. Resta, allora, il sapore amaro dell’ennesima occasione persa, che nemmeno l’amo lanciato da Conte alle opposizioni per una riforma organica del sistema riesce a mitigare. Resta, ancora una volta, l’eco di quelle due parole - garantismo e giustizialismo - che da anni si inseguono stancamente nel discorso politico, con protagonisti che, alternativamente e a seconda delle convenienze, indossano i panni del portabandiera dell’una o dell’altra. E i problemi della giustizia? Sono già tornati nella solita cassetta degli attrezzi della polemica politica e lì resteranno per settimane, magari mesi, in attesa del momento giusto per tornare a essere utilizzati dal leader di turno. Ai cittadini, alle imprese e ai lavoratori - e, ovviamente, agli avvocati, ai magistrati e ai giudici - quei problemi torneranno davanti ogni giorno, con quei ritardi, con quelle farraginosità e con quelle disfunzioni dovranno fare i conti ancora a lungo. E la politica attorno a quei problemi continuerà a costruire narrazioni di comodo, propaganda, proclami di riforme epocali da lanciare e tenere in primo piano per il prossimo fatto di cronaca. E non c’è nemmeno troppo da attendere. La settimana prossima si riunisce la Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato, chiamata ad affrontare il caso Salvini - Open Arms. Sul tavolo la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti dell’ex ministro dell’Interno per aver ritardato lo sbarco dei migranti soccorsi dalla nave della Ong. Un antipasto di quello che ci attende lo abbiamo già avuto nelle ultime ore con il colloquio telefonico tra il presidente Mattarella e il leader della Lega, che si è rivolto al Quirinale - anche attraverso una lettera - per condividere con il Capo dello Stato le sue preoccupazioni per il processo che lo attende a Catania per la vicenda Gregoretti. Ci aspetta, insomma, il consueto balletto di dichiarazioni e di accuse incrociate. Vedremo i garantisti di questa settimana (di nuovo) nei panni degli inquisitori e viceversa. Sarà il solito spettacolo offerto alle rispettive tifoserie via social, magari condito da qualche citazione presa in prestito da un’altra era politica e dall’inevitabile e - ahinoi - strumentale rimando alla nostra Costituzione. Tutto solo a uso e consumo del consenso immediato, tutto per raggranellare qualche punto percentuale nel prossimo sondaggio. Una miopia che atterrisce. Il caso dei boss scarcerati poteva essere l’occasione per avviare una sana discussione sulla drammatica condizione dei detenuti nei nostri penitenziari. Si poteva iniziare un confronto attorno al tema delle pene alternative alla detenzione, alla stessa funzione del carcere. Poteva esserci l’opportunità per parlare della magistratura, dei problemi emersi negli ultimi mesi dalle inchieste che hanno toccato il Csm e anche del ruolo e della rilevanza degli avvocati nel sistema. E, magari, si poteva riaprire il capitolo dei tempi della nostra giustizia tanto penale quanto civile che tanto pesa anche sulla capacità del sistema Italia di attrarre investitori. Sarebbe stato - come giusto e logico che fosse - un confronto serrato, duro, magari politicamente alto e fruttuoso per il Paese. E, invece, i protagonisti del nostro Parlamento hanno preferito scegliere la consueta scorciatoia delle polemiche che tanto agitano e scaldano l’opinione pubblica, ma che nulla cambiano nella realtà. Ma, a ben guardare, il punto è proprio questo: chi vuole cambiare la realtà, chi vuole prendere in mano il dossier giustizia senza un puntiglio ideologico per avviare una riforma che sappia curare i mali che da anni segnano il sistema? Il timore, temiamo, è che la risposta sia nessuno. Perché a partiti e leader, in fondo, conviene tener aperto questo capitolo, mostrare e offrire ai propri elettori le ferite del mondo giustizia per lucrare consenso, attaccando l’avversario politico, il magistrato o l’avvocato di turno. Anno dopo anno tutti si sono adeguati a questo spartito, tutti - o quasi - hanno giocato ogni ruolo possibile facendo sentire alternativamente il rumore di fondo del giustizialismo e del garantismo. Ma la giustizia è, però, argomento troppo delicato e serio per essere usato come arma di battaglia politica; la storia recente del nostro Paese è lì a ricordarcelo nella speranza che qualcuno apprenda prima o poi la lezione. Consulta, sì allo scambio di oggetti al 41bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 maggio 2020 Il divieto assoluto è incostituzionale. Ancora una volta la Consulta riporta il 41bis nei ranghi costituzionali. Con la sentenza depositata ieri, diventa illegittimo il divieto assoluto di scambio di oggetti di modico valore, come generi alimentari o per l’igiene personale e della cella, per i detenuti sottoposti al regime del 41bis appartenenti allo stesso “gruppo di socialità”. Il divieto legislativo, comprensibile tra detenuti assegnati a gruppi di socialità diversi, risulta invece irragionevole se esteso in modo indiscriminato anche ai componenti del medesimo gruppo. Resta fermo che l’Amministrazione penitenziaria potrà disciplinare le modalità degli scambi nonché predeterminare eventuali limitazioni in determinati e peculiari casi, che saranno eventualmente vagliate dal magistrato di sorveglianza. La Corte costituzionale ha dichiarato quindi incostituzionale il divieto legislativo di scambiare oggetti tra detenuti sottoposti al regime dell’articolo 41bis dell’Ordinamento penitenziario appartenenti al medesimo “gruppo di socialità”. Della vicenda sollevata dalla Cassazione ne aveva già data notizia Il Dubbio. Tutto ha avuto inizio grazie al reclamo proposto dall’avvocata Barbara Amicarella del foro de L’Aquila, in seguito al cui accoglimento, dinanzi al magistrato di sorveglianza di Spoleto, l’Avvocatura di Stato aveva proposto reclamo al Tribunale di Sorveglianza di Perugia. Il ricorso veniva respinto, ma l’Avvocatura di Stato proponeva ricorso per Cassazione e in quella sede la Corte ha trasmesso gli atti alla Consulta, dove sono intervenuti anche l’avvocato Valerio Vianello del foro di Roma e Piera Farina del foro de L’Aquila. La Consulta, con la sentenza depositata ieri, ricorda che gli appartenenti al medesimo gruppo di socialità trascorrono insieme alcune ore della giornata dentro il carcere e tra loro possono ovviamente comunicare, verbalmente e con gesti. Pertanto, la Corte ha rilevato che, se è ben comprensibile prevedere il divieto di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti assegnati a gruppi di socialità diversi, risulta invece irragionevole l’estensione indiscriminata del divieto anche ai componenti del medesimo gruppo. I quali, potendo già agevolmente comunicare in varie occasioni, non hanno di regola la necessità di ricorrere a forme nascoste o criptiche di comunicazione, come lo scambio di oggetti cui sia assegnato convenzionalmente un certo significato, da trasmettere successivamente all’esterno attraverso i colloqui con i familiari. Grazie a questa sentenza, non si può fare a meno di riflettere sul fatto che il 41bis originario non conteneva tutte queste limitazioni, ma con il tempo è stato inasprito con ulteriori afflizioni che non hanno ragione di esistere. Piemonte. Il Garante: “Il Coronavirus non distingue tra detenuti e personale” cuneodice.it, 23 maggio 2020 Il commento di Bruno Mellano, garante regionale delle persone detenute, dopo la decisione di rafforzare i controlli sanitari nelle carceri. “Considero assai positivo effettuare controlli sanitari sul personale impegnato nelle carceri piemontesi e auspico un rafforzamento del rapporto di collaborazione tra Regione e Amministrazione penitenziaria”. Lo ha dichiarato il garante regionale delle persone detenute Bruno Mellano all’indomani della decisione della Giunta di somministrare, su base volontaria, i test sierologici agli agenti delle Forze dell’ordine. “Come chiesto ripetutamente dalle organizzazioni sindacali di Polizia penitenziaria e dai garanti dei detenuti attivi a livello territoriale, solo con una continua attività di monitoraggio si potrà compiere un salto di qualità nella lotta al Covid-19”, continua Mellano. Dei circa 3.000 agenti di Polizia penitenziaria si prevede che ad usufruirne potrebbero essere potenzialmente circa 2.600, dal momento che c’è chi si è già sottoposto al tampone per via dei contagi registrati o delle scelte delle Asl competenti. Circa 200 test, inoltre, saranno disponibili per il personale civile in servizio nelle carceri piemontesi (circa 500 operatori in tutto, che in alcuni casi - come a Saluzzo e a Fossano - hanno già avuto la possibilità di effettuare il tampone). I rischi di contagio insiti nella vita quotidiana di strutture chiuse sono sotto gli occhi di tutti. Per questo, sottolinea, “solo una continua e proficua interlocuzione tra Amministrazione penitenziaria e Assessorato alla Sanità potrà garantire un vantaggio strategico nella lotta al Coronavirus”. Oltre al monitoraggio, conclude, “è necessario insistere con il rigoroso rispetto delle misure di prevenzione e di sicurezza da parte di chi entra e di chi esce dagli Istituti penitenziari anche attraverso un’adeguata fornitura di guanti e mascherine per i detenuti e per i loro parenti in visita”. A questo scopo, anche su suggerimento del Coordinamento piemontese dei garanti delle persone detenute, si sta definendo una collaborazione tra Amministrazione penitenziaria e organizzazione internazionale “Medici senza frontiere” per la verifica delle procedure, la formazione del personale penitenziario e la prevenzione che coinvolgerà in via prioritaria gli Istituti penitenziari di Torino, di Alessandria e di Saluzzo. Campania. Il Garante: “Colloqui in carcere, finalmente si riprende” di Emanuela Ribatti linkabile.it, 23 maggio 2020 Proposte di prevenzione sulle baby-gang e inviti alla responsabilità. Il Garante dei detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello, nella sua diretta Facebook affronta diverse tematiche attuali importanti. L’avviso di maggior rilievo è la ripresa dei colloqui in carcere, chiarendo che le modalità, l’organizzazione e i tempi sono stati messi in campo per la completa sicurezza dei detenuti e dei loro parenti e sono state misure decise con il Provveditore Regionale Amministrazione Penitenziaria, i direttori delle carceri, le autorità sanitarie, i medici competenti. In particolare, i detenuti della Campania avranno la possibilità di effettuare un colloquio entro fine maggio e due colloqui a giugno nei quali potrà avvenire la consegna dei pacchi. Inoltre, per chi non effettua i colloqui c’è sempre la possibilità di poter usufruire del servizio adottato sino ad ora, ovvero la videochiamata. Colloqui fondamentali non sono solo quelli con i parenti, ma anche quelli con psicologi, educatori e una serie di figure sociali. Il garante infatti fa un invito anche alla ripresa di questi cammini, sostenendo fortemente che i detenuti hanno bisogno di essere ascoltati. Vengono comunicate informazioni ed aggiornamenti anche per i detenuti che non riescono ad ottenere la detenzione domiciliare perché non hanno un luogo fisico dove poter alloggiare: la regione ha chiesto ed ha ottenuto 300.000 mila euro da mettere in campo per trovare luoghi alternativi al carcere. Il Garante dei detenuti, a proposito di scarcerazione e detenzione domiciliare, esprime la sua solidarietà ai magistrati di sorveglianza che nei giorni scorsi sono stati oggetto di numerose polemiche volte a offendere il loro operato. Cita così una riflessione da lui condivisa a pieno di Marco Puglia, magistrato di sorveglianza del carcere di Santa Maria Capua Vetere: “Pochi hanno capito la delicatezza del nostro ruolo incastrato tra la necessità di tutela della collettività e quella di presidiare, tra l’altro, la salute dei soggetti ristretti che, solo per la loro condizione detentiva, non possono veder ingiustamente compromesso tale fondamentale diritto. E tale compito è a noi affidato trasversalmente nei confronti di qualsiasi categoria di detenuto e di qualsiasi detenuto, anche se si sia macchiato dei più odiosi reati. Ed invero, la forza della legalità risiede proprio in questo: rimanere sempre uguale a se stessa, inalterata, austera ed umana, immobile ma fluida con lo sguardo alto rivolto alla giustizia e non ricurvo e miope verso il dettaglio”. Il primo invito alla responsabilità di Samuele Ciambriello viene fatto, a tutti coloro che fanno parte del sistema penitenziario, denunciando il ritrovamento di cellulari e droga all’interno delle carceri. Ci sono stati cellulari che hanno ripreso e fotografato le celle pubblicandole sui social e dosi di droga ritrovate all’interno dei pacchi consegnati dall’esterno. Bisogna chiedersi “come” accade ciò. In seguito al caso di bullismo e cyber-bullismo di qualche giorno fa ai Colli Aminei, Ciambriello affronta anche il tema delle baby-gang. “Adolescenti a metà, con un blackout cognitivo, con totale assenza di aspirazioni valoriali” - così li definisce, aggiungendo “vivono una povertà economica, educativa, affettiva”. In seguito a queste affermazioni, fa precise proposte di prevenzione alla politica, alle forze sociali e al terzo settore: togliere la patria potestà a quelle famiglie che trascurano i figli o che addirittura li istigano alla microcriminalità e mettere in campo l’aggravante di bullismo “da branco”, diversificandolo da quello individuale. Conclude quindi la sua diretta suggerendo di vivere la giornata nazionale della legalità come giornata della responsabilità perché il nostro silenzio, la nostra indifferenza, le nostre omissioni fanno aumentare il potere della violenza e delle mafie. Il 23 maggio sentiamoci più responsabili, facciamolo sempre. Modena. Rivolta al carcere Sant’Anna, due detenuti denunciano maltrattamenti tvqui.it, 23 maggio 2020 Due detenuti che erano nel carcere di Sant’Anna il giorno della rivolta dello scorso 8 marzo hanno denunciato le Forze dell’Ordine per maltrattamenti. La Procura ha ottenuto il video del circuito di telecamere del carcere e proverà a fare chiarezza. La registrazione riguarda però solo le prime quattro ore della sommossa. Ci sono due denunce, in corso di esame in Procura, presentate da due detenuti che sostengono maltrattamenti da parte della polizia penitenziaria durante la rivolta del carcere Sant’Anna avvenuta lo scorso 8 marzo. Uno dei due detenuti sostiene di non aver mai preso parte alla sommossa e di essere stato percosso e bastonato a rivolta finita. L’altro ha affermato di avere assistito al pestaggio di detenuti che sarebbero stati fatti spogliare. Durante il tragico episodio, esploso quando si sparse la voce che un detenuto in isolamento fosse positivo al coronavirus, persero la vita 9 persone, tutti carcerati. Cinque di loro sono stati trovati morti nelle loro celle per overdose di sostanze saccheggiate dall’ambulatorio dell’infermeria. Quattro sono invece morti durante il viaggio mentre venivano trasferiti in altri carceri. Con l’ausilio delle telecamere interne del carcere, la Procura tenterà di fare luce sulle dinamiche di una vicenda di cui si sa ancora molto poco. Il circuito interno di sicurezza ha ripreso solo le prime quattro ore della rivolta, dopo con il venir meno della corrente l’impianto di è fermato. Non tutto quindi sarà chiarito tramite le immagini attraverso cui la Squadra Mobile della Questura e la Polizia penitenziaria proveranno anche ad individuare i gruppi di rivoltosi responsabili dell’incendio e del danneggiamento del carcere. Salerno. Carcere, la notte della rivolta. Un racconto sul campo Il Dubbio, 23 maggio 2020 Pubblichiamo un estratto del rapporto Antigone, con il racconto sul campo di Luigi Romano. Febbraio sembrava non finire mai. Si rafforzava in ognuno di noi la sensazione di impotenza di fronte al collasso del sistema sanitario, prima in Lombardia e poi in Veneto. Le incertezze stressavano la linea temporale, come quando il respiro viene interrotto di continuo dagli spasmi. Era difficile immaginare l’impatto del Covid sull’ossatura istituzionale e gli effetti concreti sui rapporti e le dinamiche di potere. Dopo, con l’arrivo di marzo, abbiamo incominciato a immaginare tutte le linee di intervento possibili per proteggere le fragilità dell’universo carcerario, ma il più delle volte siamo rimasti incagliati nelle rappresentazioni di un presente distopico e incomprensibile, che ci sfuggiva tra le mani. Non avevamo ancora visto nulla. In quegli stessi giorni abbiamo appreso da una circolare interna all’Amministrazione che il Dap avrebbe disposto - a partire dalla seconda settimana del mese - la sospensione dei colloqui con i familiari dei detenuti. Eravamo consapevoli che questa restrizione, imposta senza alcuna mediazione con il corpo detenuto, avrebbe scatenato il panico. Purtroppo avremmo scoperto in fretta di avere ragione. Il sabato mattina del 7 marzo mi segnalarono che nel carcere di Fuorni si stavano verificando violente proteste. I detenuti avevano ascoltato dai notiziari televisivi le misure emergenziali e i provvedimenti che li riguardavano. Non avevano ricevuto nessuna notifica o avviso, neppure informale, prima. Il panico era esploso in pochi minuti, perché conservare i rapporti con l’esterno, custodire la sfera affettiva in stato di detenzione, è già di per sé molto difficile: quell’interruzione improvvisa, poi, quando il mondo lì fuori si sgretolava sotto i colpi del contagio, era stata percepita come un atto di abbandono che avrebbe messo ancora più distanza con l’emisfero dei “liberi”. Anche il Garante regionale Samuele Ciambriello mi confermava una situazione di assoluta gravità. Ho cercato a quel punto di riflettere con Antigone nazionale su che tipo di intervento potevamo offrire: non c’era molto da pensare, tuttavia; bisognava correre a Salerno monitorando lo stato delle cose, per evitare una totale compressione dei diritti. Con il Garante Ciambriello e Dario Stefano Dell’Aquila ci siamo messi in macchina partendo da piazza Carlo III, a Napoli, dopo esserci scambiati poche parole sotto una pioggia violenta che rimbalzava sulla facciata dell’Albergo dei poveri. Durante il viaggio abbiamo cercato di comunicare con l’interno del carcere, ma le telefonate si susseguivano senza risultati, mentre il Vesuvio si allontanava, scompariva alle nostre spalle, e in meno di un’ora gli strapiombi della costiera amalfitana preannunciavano il nostro ingresso in città. Dopo aver oltrepassato il centro di Salerno (l’istituto, come molti del nostro paese, si trova in periferia), all’uscita della tangenziale le luci delle sirene ci hanno segnalato l’epicentro delle tensioni. Un elicottero ha accompagnato lentamente il nostro percorso verso il cancello esterno. La vista del primo cordone di forze dell’ordine con giubbotti antiproiettile e mitra rivolti verso il carcere anticipava la natura della frattura che si stava generando all’interno. Il piantone all’ingresso, evidentemente nel panico, ci vietava di entrare. Con qualche difficoltà e dopo non poche insistenze siamo stati messi in contatto con la direzione e con il provveditore, entrambi all’interno dell’area detentiva. Qualche minuto dopo eravamo dentro nel cortile antistante, mentre due autoambulanze si precipitavano all’ingresso e il rumore assordante dell’elicottero non ci abbandonava mai. Attendiamo che il Garante regionale incontri la direzione per comprendere cosa sia accaduto. Dentro le mura, il personale della polizia penitenziaria si agitava freneticamente: il via vai sulle scale, il su e giù, il continuo varcare il check point smascheravano la tensione del chiudere i conti in fretta. Nel gabbiotto due agenti osservavano la scena. Nel primo cortile tre squadre in antisommossa presidiavano l’ingresso di una sezione. Ci viene riferito che circa cento detenuti avevano partecipato alle proteste, erano saliti sul tetto e avevano preso il controllo di un padiglione contendendosi per lungo tempo lo spazio fisico con la polizia. Sembra che le agitazioni abbiano interessato solo i detenuti comuni e non abbiano coinvolto il reparto dell’Alta sicurezza. Non c’era una chiara piattaforma rivendicativa, sembrava che la rabbia e la frustrazione dei singoli si polarizzasse scagliandosi contro lo spazio fisico della reclusione. Per ancora un bel po’ gli agenti hanno continuato a spostarsi freneticamente con le loro armi alla mano (destando alcuni dubbi rispetto ai probabili decorsi…), poi gradualmente, con il passare dei minuti, la tensione ha cominciato ad affievolirsi e dopo a sfumare. Del fatto che le operazioni fossero quasi giunte al termine ci siamo resi conto ascoltando le lamentele di chi minacciava di non prendere servizio se non fossero stati trasferiti i protagonisti della rivolta. Il peggio era passato, ma solo in un certo senso. Siamo usciti dal carcere nelle prime ore della sera circondati dai familiari dei detenuti e dalle loro paure, mentre rientravano anche i reparti speciali. All’uscita ci aspettava lo stesso cordone di sicurezza che avevamo trovato varcando il cancello difensivo, mentre dalla strada di fronte arrivavano alcuni blindo vuoti. Qualche detenuto sarebbe stato trasferito in tutta fretta, la notte stessa, e per questo le ore successive dovevano essere monitorate con attenzione. Lasciavo il carcere con un profondo senso di angoscia. I giorni a seguire non sarebbero stati semplici. Dopo qualche tempo, sono venuto a conoscenza che una parte dei detenuti veniva trasferito nelle carceri calabresi e ho cercato di ricostruire gli esiti di quella vicenda ma senza alcun risultato. I “fatti di Salerno” nel mio spazio emotivo rimanevano circoscritti in unico frame: senza origine e fine. Post scriptum. È il 18 di aprile, quando scrivo questo testo. Le rivolte di questa fase emergenziale - l’ennesima - sono cominciate più di un mese fa in Campania e a catena sono dilagate anche in altri istituti del Paese. I decessi tra i detenuti sono stati quattordici. A oggi, ancora non riusciamo a immaginare la fine di questa storia. Parma. Lega e Pd uniti contro l’apertura del nuovo padiglione del carcere La Repubblica, 23 maggio 2020 I partiti chiedono un incremento del numero degli agenti e un ripensamento da parte del ministero della Giustizia. Divisi in Parlamento, uniti a Parma nel chiedere all’amministrazione penitenziaria, e quindi al Guardasigilli Alfonso Bonafede, di rinviare l’apertura del nuovo padiglione del carcere di Parma dove arriveranno 200 detenuti in più. Assume i connotati di una mobilitazione territoriale il no all’ampliamento dell’istituto penitenziario di via Burla: dopo i sindacati, infatti, anche Lega e Pd chiedono un ripensamento. “Un’apertura di cui si parla da tempo, ma che pochi giorni fa il ministro ha annunciato come imminente”, afferma il Pd di Parma, “pensiamo sia opportuno posticipare l’apertura, come richiesto anche da molte associazioni di volontariato che operano nel settore, per consentire un confronto con i rappresentanti di tutte gli attori coinvolti, dai sindacati degli agenti alle associazioni di volontariato ed adeguare al meglio la struttura alle nuove esigenze”. “L’arrivo di altri duecento detenuti, in aggiunta agli ottocento già presenti, avrà un impatto su tutto il mondo carcerario e su tutto ciò che gli orbita intorno”, prosegue la nota del PD, “è quindi necessario, in primo luogo, un aumento dell’organico di polizia penitenziaria, a tutela della sicurezza degli operatori e degli stessi carcerati, ma anche del personale a vario titolo operante nel penitenziario, nonché delle associazioni di volontariato che operano a contatto con i detenuti”. “Il carcere, per svolgere a pieno la sua finalità rieducativa, non deve limitarsi a reprimere, ma deve consentire gli occupanti una serie di attività, lavorative e di recupero, che consentano loro di avere una vita una volta terminata la pena, ed abbassare il tasso di recidiva. È necessario assicurare una continuità di gestione dell’istituto e mettere in campo attività formative e lavorative dei carcerati, nonché accompagnarli, al momento della loro uscita, nella ricerca di un inserimento nel mondo del lavoro, senza il quale il rischio di recidiva è purtroppo molto alto. Auspichiamo che il progetto della lavanderia, già finanziato e da tempo in itinere, trovi finalmente realizzazione in tempi brevi”. “Vogliamo ringraziare pubblicamente gli operatori della polizia penitenziaria del carcere di Parma per il lavoro straordinario svolto in queste settimane difficili, che ha evitato che si verificassero nel nostro carcere episodi di rivolta, come avvenuto in altri penitenziari vicini - concludono i democratici - il Pd di Parma si è impegnato a tutti i livelli, promuovendo la discussione dentro e fuori il consiglio comunale con il partito e il gruppo consigliare, affinché si affrontassero i gravi problemi organizzativi interni e anche in termini di ricaduta territoriale trovando il sostegno anche di altri partiti”. Il senatore parmigiano della Lega Maurizio Campari ha comunicato di avere presentato una interrogazione a Bonafede: “Senza assunzioni di personale, peggioreranno sovraffollamento e sicurezza. “Tra pochi giorni sarà inaugurato il nuovo padiglione da 200 detenuti del Carcere di Parma: in un Paese normale, sarebbe una buona notizia. Oggi in Italia non lo è, perché non risolverà nessuno dei problemi dell’Istituto, ma li aggraverà tutti: i 200 nuovi posti saranno occupati da almeno altri 200 nuovi detenuti e il sovraffollamento resterà immutato. Anche i problemi di sicurezza, la ormai decennale mancanza di una direzione stabile, di organizzazione del lavoro e di personale di Polizia Penitenziaria, resteranno immutati”, dice il senatore. “Come denunciato più volte dalla Lega, in particolare dalla deputata Laura Cavandoli, e dai sindacati di Polizia Penitenziaria - prosegue Campari - l’apertura del nuovo padiglione, che ospiterà ulteriori 200 detenuti, porterà la capienza del carcere a più di 800 ospiti, nonostante la preoccupante mancanza di agenti di Polizia Penitenziaria: 76 Sovrintendenti previsti contro i 3 effettivi, 65 Ispettori previsti contro i 18 effettivi. Vogliamo sapere cosa intende fare il ministro, oltre a tagliare il nastro, fare un paio di comunicati stampa e abbandonare di nuovo il carcere di Parma ai suoi irrisolti problemi di sempre”. La “rivoluzione” in carcere di Maurice Bignami Avvenire, 23 maggio 2020 Nell’autobiografia dell’ex terrorista di Prima Linea la difficile riemersione dagli Anni di piombo attraverso alcuni significativi incontri durante la detenzione. Benedetto fu il carcere, per Maurice Bignami. Fra i fondatori di Prima Linea, seconda organizzazione terroristica degli anni di piombo. Prima, anzi, per numero di militanti, ma di durata più breve, avendo trovato presto una via d’uscita comune, tramite la dissociazione maturata in carcere. Il suo “Addio Rivoluzione: Requiem per gli anni Settanta” (Rubbettino, pagine 406, euro 19) è il racconto di una vita che è stata tante vite. Dall’infanzia a Parigi, con un padre (Torquato) capo partigiano, finito nei guai (assolto anni dopo) in una terra, la “rossa” Emilia, in cui si sono giocati anche i “supplementari” della Guerra di liberazione. Scappato prima in Cecoslovacchia, per poi stabilirsi in Francia. “Concepito da una parte della cortina di ferro e scodellato nell’altra. Insomma, una famiglia normale”, dice con graffiante autoironia Bignami. Una vita quasi da predestinato che lo vede rientrare a Bologna prima che arrivi il Sessantotto. Gli anni giovanili vissuti “nella fantastica (e pericolosissima) condizione di chi non è più sottoposto alle vecchie regole e non è ancora assoggettato a quelle nuove”. Potere operaio, Autonomia, i primi scontri e il primo “assaggio” di carcere nel tumultuoso 1977: “Mi arrestarono a Milano in casa di Toni Negri, dove avevo messo a punto il menabò di un numero speciale della rivista “Rosso” sulle giornate di marzo a Bologna”, in cui fu ucciso negli scontri con gli agenti lo studente di Lotta Continua Francesco Lorusso. Poi il sequestro Moro, spartiacque anche per Prima linea, gli omicidi pianificati ad accelerare la strada verso una rivoluzione che non arrivava. “Sapevamo che il prezzo sarebbe stato altissimo. E non era il carcere, forse nemmeno la morte la parte peggiore della faccenda. Era, comunque la mettessimo, il ritrovarsi con l’umano a brandelli e farci l’abitudine”. Ma all’orrore non ci si abitua: “Si può diventare ex terroristi, ma mai ex assassini”, ha detto in più occasioni Bignami. E forse il libro nasce anche per questo, per il bisogno insopprimibile di far pace con sé stessi, oltre che col mondo. “Nel febbraio 1981 fui arrestato anch’io. Finalmente. Non ne potevo più”, ricorda. Catturato a Torino durante una rapina aveva con sé delle granate, ma scelse di non farle esplodere. Così iniziò la lenta risalita: “Non che il carcere non fosse la fogna che conosciamo”, ma furono anni di riflessione interiore e di incontri. Tanti sacerdoti. Don Salvatore Bussu, cappellano di Badu e Carros (Nuoro) che col famoso sciopero della messa di Natale aprì la strada al ravvedimento di Alberto Franceschini, Franco Bonisoli e Roberto Ognibene, che avevano iniziato lo sciopero della fame, e di tanti altri. Ma è padre Ruggero Cipolla, novello Fra Cristoforo, a rompere il ghiaccio del suo cuore, con la complicità di Teresa che, con i buoni uffici del sacerdote, divenne presto sua moglie nonostante le sbarre a dividerli. E poi don Mario (Bignami lo chiama “Marione”, trascurando il cognome) padre Adolfo Bachelet (fratello di Vittorio, ucciso dalle Br) che divenne, con suor Teresilla Barillà, zelante ricercatore nelle carceri italiane di ex terroristi da riportare sulla retta via. Infine don Luigi Di Liegro, fondatore della Caritas romana, che gli offrì la prima via d’uscita. Ma il vero compagno d’avventura di quegli anni fu un uomo che con la Chiesa non c’entrava nulla, il radicale Sergio D’Elia, che con lui condusse tutto il lavoro a Rebibbia che portò prima a consegnare le armi al cardinale Martini e poi alla “resa” vera e propria dell’organizzazione in carcere, con un documento ufficiale letto al congresso del Partito Radicale del marzo 1987. Documento che aprì le porte, in un virtuoso “do ut des”, alla legge della dissociazione e alla “Gozzini” che permise di uscire dal carcere per lavorare. “Con Maurice ci ha unito una parola: amore”, dice D’Elia a fotografare il passaggio che li accomunò, dal vortice dell’ideologia alla persona. Bignami ha avuto così un’altra possibilità, e nella sua famiglia è entrato anche Amin, il figlio della tata che, quando Maurice era ancora ancora in semilibertà, ha aiutato sua moglie Teresa ad accudire i suoi piccoli, venuto in Italia per sottrarlo alla guerra in atto a Mogadiscio. Ma c’è un altro incontro che ha segnato, più di recente la vita di Bignami. Giuseppe Fidelibus, docente universitario abruzzese riconobbe Maurice nella foto a corredo di un’intervista in cui raccontava la sua conversione al mensile di CI “Tracce”. Non credette ai suoi occhi, era proprio quel detenuto per il quale aveva pregato quando era carabiniere di leva a Firenze, nel 1982, durante un processo. Quella volta, vedendolo andar via pensò che non lo avrebbe più rivisto. Invece i due si sono rincontrati dopo trent’anni e Fidelibus firma la post fazione del libro: “Grazie Maurice, ora mio caro fratellone”, sono le ultime parole del libro. Un carcere che ricorda un po’ il letame dal quale “nascono i fiori” di Fabrizio De André. “Chissà, forse questa segregazione da cui stiamo uscendo poco a poco, a saperla valorizzare, ci consentirà finalmente di concepire un’idea condivisa di futuro per il nostro Paese”. Migranti. Lo Stato feroce che sorveglia il Sud ma ignora la schiavitù dei braccianti di Alberto Cisterna Il Riformista, 23 maggio 2020 Le polemiche sulla regolarizzazione dei migranti clandestini in Italia, praticamente imposta dalla ministra Bellanova a una alquanto riottosa compagine governativa, consente un rapido aggiornamento sulle attività del Comitato di controllo che si occupa di misurare, con precisione barometrica, il tasso di legalità in Italia. Un Comitato all’opera da qualche anno che cura di emettere con regolarità i propri puntuali bollettini e di lanciare i propri agitati allarmi. Questa volta nell’occhio del ciclone c’è l’agricoltura italiana e la sua vitale necessità di disporre di braccia. La nuova emersione degli sfruttati e dei diseredati delle campagne italiane, soprattutto di quelle del Sud, pretende che a cooperare siano gli stessi sfruttatori che devono avviare e garantire le procedure di regolarizzazione. I tanti imprenditori agricoli piccoli e medi che, sia pure per reggere l’urto dei costi e la dittatura della distribuzione, hanno distrutto le vite di decine di migliaia di clandestini costringendoli a un’esistenza terribile, proprio quella che traspariva dalla commozione della Bellanova. Un girone dell’inferno che si dipana da anni e anni sotto gli occhi di tutti e nella cecità colpevole di quasi tutte le istituzioni. In un Mezzogiorno quotidianamente assediato, e da anni, per dare la caccia a mafiosi, ‘ndranghetisti e camorristi; in cui si eseguono decine di migliaia di intercettazioni; in cui si cercano implacabilmente i latitanti casa per casa e si denunciano le infiltrazioni nel circuito economico; in un fazzoletto di terra in cui la pressione investigativa è, giustamente, a livelli altissimi e si eseguono centinaia di arresti. Bene in questa società sorvegliata che è il Sud del paese, migliaia di irregolari tutte le mattine si recano sui campi, vengono prelevati dai caporali ai margini delle vie, caricano i Tir, vivono in accampamenti in condizioni indicibili, circolano per le strade e per le piazze senza che mai sia stata messa in campo una strategia risolutiva per debellare lo sfruttamento e ridare dignità a vite spezzate. Ahimè, evidentemente tutti intenti gli investigatori a dar la caccia al contagio mafioso che appesta la società meridionale e, quindi, purtroppo senza il tempo necessario per andare fino in fondo al più miserabile dei reati, quello che trasforma gli esseri umani in schiavi tutti i giorni e innanzi agli occhi di tutti, bambini compresi. Un olocausto sociale e morale a cielo aperto di cui un giorno la storia potrebbe chiedere conto come ai tedeschi “ignari” dell’eccidio degli ebrei. Ogni tanto qualche ruspa nei campi, qualche incendio tra le tende, qualche spedizione punitiva da reprimere. Ogni tanto qualche arresto. Una goccia nel mare dell’illegalità palese e diffusa. Talmente diffusa da avere reso indifferibile questa regolarizzazione e talmente strutturale da doversi sanare per garantire il funzionamento e la stessa esistenza della filiera agroalimentare ai tempi della pandemia. In questo scenario di insopportabile cecità e di epocale inerzia, il Comitato di controllo immagina di approvare l’ennesima legge per inasprire le norme contro il caporalato e, oggi, tuona contro lo scudo penale del decreto Rilancio che dovrebbe consentire agli imprenditori agricoli di regolarizzare gli immigrati al lavoro nei campi. Quasi che la minaccia delle manette (non le manette, si badi bene, che non scattano quasi mai) e l’assedio verbale delle norme penali dal fortino della Gazzetta ufficiale potessero di per sé impaurire i reprobi e convincere i riottosi. Come se non fosse bastato il fallimento degli inasprimenti di pena per la corruzione, per l’evasione fiscale, per il falso in bilancio, per la mafia, per il voto di scambio, per la violenza sulle donne. Simulacri, spesso pasticciati, che non hanno fatto recedere di un passo malviventi e mascalzoni, trasformando il codice penale in una fortezza di ghiaccio che si scioglie al primo sole. Ma il Comitato di controllo ha sacerdoti e riti, vittime e carnefici, si nutre di lenzuolate di reati e brandisce feroci aumenti di pena. Non può certo denunciare le inerzie e le amnesie di una parte degli apparati di prevenzione e di repressione che quelle lenzuolate periodicamente invocano - e proprio servendosi del Comitato - per coprire la nudità della propria colpa. Ci sono voluti il coraggio e le lacrime di una donna ministro per dare la dimensione di quanto insopportabile fosse quella situazione che lo Stato ha dovuto sanare solo perché nessuno si è davvero mosso per debellarla o, almeno, arginarla. Ungheria. Fine alla detenzione illegale dei richiedenti asilo amnesty.it, 23 maggio 2020 In seguito all’annuncio da parte del governo ungherese della chiusura delle cosiddette zone di transito al confine meridionale con la Serbia, dove i richiedenti asilo vengono detenuti in attesa che vengano esaminate le loro richieste di asilo, Dávid Vig, direttore di Amnesty International Ungheria ha dichiarato in una nota ufficiale: “Sebbene la chiusura delle zone di transito sia un passo fondamentale nella giusta direzione, il governo non dovrebbe chiudere le proprie frontiere ai richiedenti asilo od ostacolare il loro accesso a forme di protezione”. La dichiarazione del governo ungherese giunge dopo che la Corte di giustizia dell’Unione europea la scorsa settimana ha giudicato illegale la prassi dell’Ungheria di porre in detenzione i richiedenti asilo e i migranti nelle zone di transito. In futuro, coloro che chiedono asilo in Ungheria dovranno fare richiesta alle rappresentanze diplomatiche ungheresi presso gli altri paesi. “Le autorità ungheresi devono assicurarsi che i richiedenti asilo abbiano accesso al territorio ungherese e che le loro richieste siano esaminate nel merito e non respinte sulla base del passaggio in un cosiddetto Paese Terzo Sicuro”, continua Dávid Vig. Il caso è stato trasmesso alla Corte di giustizia dell’Unione europea dai giudici ungheresi, e dall’annuncio emerge anche il ruolo fondamentale che un sistema giudiziario indipendente svolge nella protezione dei diritti umani in Ungheria. Secondo il diritto comunitario, gli stati hanno l’obbligo di garantire ai richiedenti asilo l’accesso al proprio territorio. Circa 300 persone detenute nelle zone di transito, tra le quali famiglie con bambini piccoli, sono state trasferite ieri mattina in strutture aperte e semi-aperte. “Speriamo che la chiusura della zona di transito sia il segnale che finalmente il governo ungherese ha deciso di modificare le sue politiche e le sue procedure crudeli e illegittime: sono ancora tante le minacce dirette ai diritti umani delle persone che attraversano le frontiere.”, conclude Dávid Vig. Stati Uniti. Razzismo, fucili e cattivi agenti, si fa giustizia per Arbery di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 23 maggio 2020 La verità sull’omicidio del venticinquenne afroamericano in un video rilanciato dalle star. Arrestato un terzo uomo. Per Barack Obama l’omicidio del venticinquenne afroamericano Ahmaud Arbery è la dimostrazione di quanto sia ancora vivo il pregiudizio razziale. Tre mesi di inchiesta tra polemiche e proteste. Giovedì 21 maggio il Georgia Bureau of Investigation, l’autorità di polizia locale, ha arrestato William Roddie Bryan, il cinquantenne che riprese con il telefonino la sequenza della caccia all’uomo, dell’inseguimento e infine dell’uccisione di Ahmaud. La vicenda risale alla mattina del 23 febbraio. Era domenica e Arbery stava facendo jogging in un quartiere residenziale di Brunswick, cittadina vittoriana dalle querce secolari che si affaccia sull’Atlantico, a sud di Savannah. Nelle settimane precedenti c’era stato qualche furto con scasso nelle case del quartiere. Le voci incontrollate erano già diventate una sentenza: il ladro era un nero. Ma Arbery da quelle parti ci andava solo per correre. Nell’America profonda la stirpe dei giustizieri bianchi non si è ancora estinta. Eccoli i McMicheal, padre e figlio, Gregory 64 anni e Travis, 34. Stanno gironzolando sul loro pick-up bianco, quando avvistano il giovane afroamericano in maglietta, calzoncini e scarpe da tennis. Non esattamente una tenuta da scassinatore. Ma i due non hanno dubbi. Lo fermano e Gregory, ex agente di polizia locale, lo affronta spianando un fucile. Arbery è più agile e lo blocca. Quindi riesce a divincolarsi e ad allontanarsi. Travis osserva la lotta dal pianale del veicolo. Anche lui è armato, spara e uccide Arbery. La sequenza è ripresa da un telefonino. Si scoprirà mesi dopo che era quello di un terzo uomo bianco, William Bryan, conoscente dei McMicheal. Il video compare solo il 5 maggio. Un anonimo lo spedisce a Lee Merritt, noto avvocato per la difesa dei diritti civili, che assume le parti della famiglia Arbery. Nel frattempo nelle procure della Georgia si susseguono fatti inquietanti. Le indagini rimbalzano da un pubblico ministero all’altro. C’è chi si chiama fuori perché aveva lavorato con l’ex poliziotto Gregory. Il 3 aprile il procuratore George Barnhill conclude che non c’è ragione di incriminare i McMichael più Bryan, perché i tre “stavano bloccando un sospetto, in attesa dell’arrivo delle forze dell’ordine”. Gli spari?”Legittima difesa”. Intanto monta la protesta in Georgia. Il 5 maggio le tv trasmettono la clip dell’assassinio e il caso diventa nazionale. Intervengono le star afroamericane del Paese: il campione di basket LeBron James, la regista Ava DuVernay, l’attrice Gabrielle Union. A loro si aggiungono Kim Kardashian e la cantante Taylor Swift. E la magistratura cambia passo. Esce da un’atmosfera da “buio oltre la siepe” e torna nel pur contraddittorio 2020. Il 7 maggio vengono arrestati Gregory e Travis, con l’accusa di omicidio e aggressione aggravata. Il 21 finisce dentro anche il terzo complice, Bryan: concorso in omicidio e tentata falsificazione delle prove. Messico. Rissa tra detenuti dopo partita baseball, 7 morti La Repubblica, 23 maggio 2020 Gli scontri durante una sfida nella prigione di Puente Grande. Sette morti e nove feriti in una rissa al termine di una partita di baseball tra detenuti nella prigione messicana di Puente Grande. Lo ha riferito il procuratore generale della giustizia dello Stato di Jalisco. Il capo della procura, Octavio Solìs, ha confermato che per tre dei 7 detenuti morti la causa del decesso sono stati colpi di arma da fuoco, gli altri a colpi di mazza. Per quanto riguarda i feriti, ha spiegato che due hanno ferite da armi da fuoco. Il procuratore ha indicato che il personale carcerarie ha sentito almeno sei detonazioni di armi da fuoco, è quindi intervenuto per fermare la disputa tra i detenuti, arrestando cinque presunti responsabili degli attacchi e recuperando due pistole, oltre a un dispositivo esplosivo artigianale. Il direttore generale della prevenzione e il reinserimento sociale dello Stato di Jalisco, Josè Antonio Pèrez, ha spiegato che una partita di baseball si era svolta pochi minuti prima della rissa, scatenata da un gruppo di detenuti che ha iniziato l’attacco a un altro e innescando quindi la reazione di altri detenuti intervenuti in difesa degli attaccati, e alcuni degli aggressori sono stati uccisi nella circostanza. Pèrez ha negato che la rissa fosse un tentativo di sommossa o un attacco alla polizia o alle autorità carcerarie o “qualsiasi azione per destabilizzarlo”. Le autorità di Jalisco hanno riferito che le indagini saranno svolte dall’ufficio del procuratore generale dello Stato e che sarà aperta un’indagine tra gli operai della prigione per scoprire come sono entrate le armi e determinare le responsabilità.