Abolire il carcere di Massimo Lensi Left-Avvenimenti, 22 maggio 2020 Il lockdown ha evidenziato ancora di più la disumanità dell’esecuzione della pena in cella. Alcuni anni fa, durante una visita notturna nell’istituto penitenziario fiorentino di Sollicciano Marco Pannella mi raccontò la sua convinzione che il carcere, tranne che in rarissimi casi, non serve a nulla e che bisognerebbe abolire l’esecuzione della sanzione penale dentro le ristrette mura dei padiglioni carcerari. Il carcere segna sempre il fallimento della prevenzione e pertanto, aggiunse Pannella, bisognerebbe andare nella direzione di rafforzare le misure alternative alla detenzione. Era la notte di San Silvestro e quella visita ispettiva, nel freddo ambientale dell’attesa dell’anno nuovo in una sezione penitenziaria, fu per me importante. Ricordo ancora con nitidezza le detenute che accolsero il leader radicale cantando “Pannella-Pannella aprici la cella” in un turbinio di mani che si allungavano dalle finestrelle dei blindi per accarezzarlo o offrirgli un caffè, che in carcere, si sa, non si rifiuta mai. Oggi stiamo vivendo l’emergenza virus e abbiamo forse capito qualcosa di nuovo attraverso le misure di contenimento sociale della Fase 1, dei blandissimi arresti domiciliari puntellati da sprazzi di libertà condizionata per smaltire i rifiuti o sgranchirsi le gambe. In qualche misura abbiamo anche noi sperimentato il significato della restrizione; e anche quello degli spazi di semantica dell’obbedienza agli ordini delle autorità competenti, che ci giungono con i famosi Dpcm. Come accade a chi in tempi normali si ritrova in prigione non ci siamo scomposti più di tanto nel confronto con il monopolio della forza legittima all’interno di uno Stato democratico. Il carcere, invece, ha vissuto questo periodo come un’emergenza nell’emergenza cronica. Molti autorevoli opinionisti hanno sollevato il problema della dignità del detenuto, altri quello della tutela costituzionale del diritto alla salute. Tutti hanno chiesto di ridurre la popolazione ristretta portandola fuori dagli istituti attraverso l’attivazione di alcune misure previste dal nostro ordinamento: la libertà anticipata speciale, i provvedimenti di grazia presidenziale, o l’utilizzo dei braccialetti elettronici. Poco è accaduto nei fatti e la realtà ha dimostrato come il carcere sia ancora oggi in Italia un tabù. Un luogo della dimenticanza, che è meglio non guardare e non mostrare, pur consapevoli di quanto poco serva ad aumentare il grado di sicurezza di una società civile. Carcerazione ed esecuzione della pena si sono lentamente fuse nell’immaginario giustizialista come un unico totem da difendere in nome di una società che ci si ostina a far credere migliore e più sicura. Eppure i nostri padri costituenti avevano stabilito con precisione che la pena e il carcere sono due cose distinte. Sembra strano ma è proprio così. Fin dalla nascita del sistema attuale, in molti si chiedono se le prigioni siano davvero la soluzione ai problemi della società. I costituenti, ben consci degli orrori della prigione fascista, tentarono, con l’articolo 27 della Costituzione, di cambiare il volto e la finalità della pena, ma non riuscirono a cambiare il carcere. A conferma di questa semplice osservazione basti pensare che tra l’entrata in vigore della Costituzione e la riforma dell’ordinamento penitenziario attuativa della norma costituzionale, trascorsero quasi trent’anni. A nulla sono valsi gli sforzi di Piero Calamandrei, che nel 1948 volle l’istituzione della Commissione parlamentare sullo stato delle carceri. “Le carceri italiane... rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si sia mai avuta: noi crediamo di aver abolita la tortura, e i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura la più raffinata; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice penale comune, e la pena di morte che ammanniscono a goccia a goccia le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice; noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda dei colpevoli, e le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti, o scuole di perfezionamento dei malfattori”. Queste parole di Filippo Turati (riportate nel famoso articolo “Bisogna aver visto” di Piero Calamandrei pubblicato nel marzo 1949 sul numero 3 della rivista Il Ponte interamente dedicato al carcere), riflettono ancora e più quanto s’immagini le condizioni attuali del nostro sistema penitenziario. Il carcere non porta giustizia e non rende la società più sicura e giusta. Il carcere incarna ancora la vendetta e la maledizione di una società classista che, per usare le parole di Foucault, è incapace di guardare oltre lo statuto dei miserabili. Ancor oggi, infatti, la gran parte delle persone imprigionate nelle nostre carceri, certamente per aver commesso un reato, anche grave, altro non sono che “i plebei emarginati nella società capitalista” che quel reato non ha saputo prevenire. L’istituto dell’esecuzione della sanzione penale in carcere andrebbe perciò rivisto, e nel tempo abolito del tutto, attraverso un programma politico concreto fatto di investimenti pubblici in tutti gli aspetti indispensabili a una vita sociale e produttiva e libera dalla violenza. Ormai esiste a livello internazionale un affermato movimento per l’abolizione del carcere e, per quanto possa apparire provocatorio, è inserito nel solco evoluzionista della storia dell’esecuzione della pena. Un’onda lunga che nel tempo ha visto la detenzione coatta trasformarsi da semplice attesa del supplizio a una più complessa privazione della libertà. Aveva ragione Marco Pannella nell’affermare che gli strumenti di prevenzione sono elementi fondanti del futuro, specialmente in una società che sta vivendo la trasformazione del capitalismo come elemento di forza bruta, politica ed economica. In una recente intervista all’Huffington post Gherardo Colombo, già magistrato del pool di Mani pulite, ha definito la prigione disumana e incoerente con la Costituzione. “E vero - ha proseguito - che gli esseri umani sono un miscuglio di contraddizioni e debolezze che fanno fatica a stare insieme. Il Grande Inquisitore conosce bene la natura umana, sa che l’uomo è fragile, che la libertà inquieta. Eppure qual è la sua soluzione? Dominare gli uomini. Indurli a deporre ai suoi piedi la libertà e offrirgli in cambio una custodia. Mantenendoli bambini, bisognosi di chinare la testa. Insegnandogli solo a obbedire. È quello che fa il carcere. Ecco perché è necessario abolirlo”. Il difficile cammino iniziato da Piero Calamandrei prosegue dunque in buona compagnia. Sui presunti piani di rivolte all’interno delle carceri italiane di Enrico Sbriglia Il Riformista, 22 maggio 2020 Mentre il mondo dell’informazione sembra voler mostrare interesse su cosa accaduto in marzo nelle nostre carceri, non sembra però in grado di raccogliere informazioni dagli stessi operatori penitenziari, cioè da quanti hanno, concretamente, fronteggiato la pandemia delle proteste dei detenuti, rivolgendosi innanzi tutto ai direttori degli istituti. La spiegazione è forse dovuta al fatto che da anni a questi dirigenti dello Stato è fatto divieto di comunicare d’iniziativa o su domanda con il mondo dell’informazione, dovendo essere previamente autorizzati. Questo però non sembra che accada nelle altre amministrazioni “securitarie”, dove con profuso di conferenze stampa si descriveranno le vicende, consentendo all’opinione pubblica il diritto alla conoscenza. Il persistere del bavaglio, però, favorisce il formarsi di pericolose opacità. La poca chiarezza alimenta il senso di insicurezza nella collettività, esaltandone le paure, offrendo ai “bracci violenti della legge”, consentendo agli stessi di fomentare il risentimento sociale, nonché di praticare il mantra delle pene esemplari, sempre più ricalco della vendetta di Stato, piuttosto che misure equilibrate e rispettose della nostra Carta, che auspica il recupero delle persone detenute ed esige che le pene non possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Infilare il sasso in bocca ai dirigenti penitenziari potrebbe pure essere un’azione intesa come astuta modalità di sviamento delle responsabilità politiche e di alta amministrazione, evitando il rischio che si sappiano, con obiettività, fatti e circostanze semmai perfette conseguenze di gravi deficit decisionali governativi, dimostrevoli di una reiterata scarsezza di competenza, aggravata dalla miseria di risorse umane e strumentali disponibili. Uguale bavaglio è pure condiviso con i livelli dirigenziali più elevati, provenienti dalla stessa carriera dei direttori e non da quelle extra-moenia dei magistrati, per cui anche i Provveditori Regionali Penitenziari, responsabili del coordinamento delle attività amministrative delle carceri in vaste aree geografiche, nonché dirigenti generali dello Stato, non potranno interloquire con gli organi dell’informazione. E’ pur vero che le OO.SS. della Polizia Penitenziaria, attraverso i loro comunicati, parzialmente compensano il vulnus della conoscenza pubblica, ma altro sarebbe se le informazioni fossero frutto delle dichiarazioni ufficiali di un Direttore o un Provveditore: in molti non dormirebbero sonni tranquilli, pertanto il pericolo di una informazione fastidiosa andrà assolutamente tombato. Che si sappia poco o male del carcere lo si può ricavare anche dall’ignoranza, palese, che pure importanti organi istituzionali mostrano allorquando si riferiscano ad esso. In questi giorni di dialettica parlamentare, spesso si è sbagliato perfino nel tradurre l’acronimo del Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria), ribattezzato come Dipartimento degli Affari Penitenziari, confuso, forse, con altri pensieri di poltrone ministeriali; così come ancora si insiste nell’indicare il Ministero quale di “Grazia e Giustizia”, dimenticando che la Grazia è stata da decenni depennata, perché propria delle attribuzioni del Presidente della Repubblica: ma sono evidentemente dettagli che non interessano taluni neo-legislatori; la pertinenza dei termini è dettaglio superfluo di fronte alla figata del tele-processo e all’auspicata realizzazione di mega-carceri, per migliaia di detenuti (vedasi il costruendo carcere di Nola), allo scopo di ridurne i costi di funzionamento, per quanto le norme penitenziarie, su cui sorvolare, indichino il perfetto contrario. Da fonti autorevoli è stata insinuata la circostanza che le rivolte scoppiate nel marzo scorso sarebbero state ordite dalle criminalità organizzate; inducendo l’opinione pubblica che potesse essere un messaggio rivolto verso chi intendesse semmai inasprire il regime detentivo dell’alta sicurezza e del 41bis. Si è pure dubitato sulla obiettività di quanti, giudici, con le proprie decisioni, avessero consentito, esclusivamente per motivi di salute, la possibilità ai detenuti di fruire di misure diverse dal carcere, di fatto inducendo, senza dirlo, che i provvedimenti non costituissero l’esito di una seria disamina. Da qui, di tutta fretta, l’imporsi di un pre-controllo da parte della Procura Nazionale Antimafia e delle Procure distrettuali sull’operato di altri magistrati. I detenuti beneficiari dei provvedimenti politicamente contestati, quindi facendo strame dell’indipendenza ed autonomia del giudice, sarebbero state oltre 400, forse, di cui alcuni, tre, quattro, boh ! del circuito del 41bis, quello definito inopportunamente, anche da molti procuratori e loro sostituti, come “carcere duro”, favorendo così il rischio di ulteriori contenziosi innanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, perché tale “durezza carceraria” risulterebbe in evidente contrasto con i principi informatori delle regole penitenziarie europee, oltre che della nostra Carta Costituzionale la quale, per inciso, non lo contemplava neanche nei tempi del Fascismo: nomen omen, sarebbe opportuno ricordarselo! Ma, in fondo, siamo anche lo Stato che appella i Presidenti delle Giunte Regionali quali Governatori, benché tale “qualifica” non sia immaginata dalla Costituzione né prevista dalle leggi ordinarie finora emanate. È però il momento di fare alcune considerazioni. Perché, partendo da un altro punto di vista, non potrebbe affermarsi che buona parte se non tutte le manifestazioni di protesta e le rivolte nelle carceri siano state la prevedibile conseguenza, la perfetta reazione o tempesta, conseguente all’applicazione, all’incirca nelle stesse ore e giornate, di disposizioni promanate dagli organi di governo i quali, nello spregio del buon senso e del diritto, comprimevano in modo disumano, percepito come provocatorio dall’uomo in gabbia, quel nugolo di diritti riconosciuti in capo ai detenuti (ed ai loro familiari), per cui una reazione, dentro e fuori le carceri, sarebbe stata d’attendersi? Era corretto, con atto d’imperio unilaterale, senza temerne conseguenze anche tragiche, vietare e/o limitare i colloqui visivi ai detenuti, in particolare quelli con i familiari, indifferenti al fatto che numerosi di quest’ultimi si sobbarcassero sacrifici pesanti per incontrare, per poche ore, i congiunti ristretti, spesso smistati, come pacchi postali, a causa di provvedimenti di trasferimenti, emessi negli ultimi tempi “a nastro”, in carceri anche lontanissime dai luoghi di origine e di residenza, trasportando semmai pure bambini, genitori anziani e malandati, parenti disabili? Era “umano” vietare perfino l’ingresso dei minori, dando insignificanza alla responsabilità genitoriale di una madre o un padre che si rechi ai colloqui del parente imprigionato, senza neanche che ci si fosse assicurati di assicurare in contestualmente un’accoglienza protetta e temporanea dei minori, anche al fine di esonerare da ogni responsabilità gli adulti per la durata del colloquio visivo, evitando il rischio che fossero abbandonati per strada? Si poteva, così superficialmente, impedire gli incontri ai detenuti, che vivono l’asperità del carcere, contando i giorni che li separano dai colloqui con i familiari, minacciando un tanto anche per un tempo indeterminato? Possibile che non se ne comprendesse il significato, intuibile oggi anche da parte dei profani, dopo aver provato Noi tutti, sulla nostra pelle, il lockdown del Covid-19? E’ perciò auspicabile che si faccia chiarezza. Ma anche sulle paure per le scarcerazioni di canuti, ma pare ancora temibili, figuri della criminalità organizzata, occorrono spiegazioni. Diversi di loro avrebbero, infatti, terminato tra qualche tempo la loro pena; altri, invece, ancora sotto processo, sarebbero stati probabilmente scarcerati in sede di giudizio di cognizione, come le statistiche impongono; ma fermandoci ai condannati, davvero possano considerarsi, a distanza di 20, 30 e passa anni, ancora in grado di esercitare azioni di particolare rilevanza criminale: se dopo tutto il tempo trascorso, in regime del 41bis o quello dell’Alta Sicurezza, sono così pericolosi, l’esame della personalità compiuto dagli specialisti del trattamento e della polizia penitenziaria, e tutto l’insieme, numeroso e costoso, degli apparati di sicurezza esterni, operanti in sede di contrasto, di prevenzione e di intelligence, avrebbero clamorosamente mancato il bersaglio. Come altrimenti spiegare la preoccupazione verso detenuti di regola anziani ed ammalati, semmai prossimi al giudizio finale, ancorché emeriti criminali? Così certifichiamo che allo Stato non sono bastati decenni di pene detentive e di processi per renderli innocui, mentre nel frattempo si sarebbero pure insediate nuove leve criminali sui territori: è davvero così? Ma noi mica finanziamo da anni una sicurezza di facciata, un castello di carte bollate e di verbali che fibrilla innanzi al ritorno, in lettiga e con le flebo nelle vene, di delinquenti puniti, almeno, dalla pena naturale del tempo, ma quantomeno questa non incide sulle tasche del contribuente. E poi, a dirla sommessamente, quale migliore occasione di approfondimento investigativo può esserci dalla possibilità di puntare intelligentemente, usando tutte le tecniche di controllo di cui pur si è fatti sfoggio verso i cittadini comuni, nei tempi del Covid-19, gli occhi allenati e gli apparati tecnologici su un soggetto sì scarcerato ma, comunque, tenuto a soggiornare in luoghi (abitazioni, ospedali, etc.) pre-determinati, non sarebbe questa una ghiotta opportunità per approfondire la conoscenza sull’eventuale mantenimento di reti, connivenze e complicità criminali? Boh, forse sono altre le tecniche ed i misteri delle nuove scienze d’indagine. E, infine, visto che ci siamo, il Ministro Bonafede espliciti, con chiarezza, su chi sia il dominus della sicurezza in carcere nel caso di rivolte di detenuti. Sì, perché neanche questo, negli ultimi tempi, paradossalmente, risulta ancora definito e le norme, arrugginite, pur presenti, rischiano di essere considerate “liquide”. Nella mia esperienza pluridecennale, come Direttore, non ho mai permesso che altri ingerissero nella gestione della sicurezza in caso di proteste e rivolte, pur chiedendo aiuto alle forze di polizia per il controllo esterno, né mai ho autorizzato che entrassero all’interno delle aree detentive, o prossime alle stesse, agenti muniti di armi da fuoco. Infatti, ove i detenuti avessero avuto, pure per un solo un attimo, il sopravvento perché forti nel numero e semmai facendosi pure scudo con degli ostaggi, avrebbero avuto l’ulteriore vantaggio dell’utilizzo delle armi sottratte. Ma negli ultimi tempi le cose pare che non siano più così chiare, talché si impone assoluta certezza per le contestuali assunzioni di responsabilità: ai disordini, incendi, devastazioni, non devono aggiungersi ulteriori rischi di interferenze e sovrapposizioni, perché questo può ingenerare soltanto confusioni e morte. Salute in carcere. Ricominciamo dall’etica pubblica di Grazia Zuffa dirittiglobali.it, 22 maggio 2020 Il riferimento non può non essere il principio di etica pubblica, sancito in Italia dalla Costituzione: la salute è un diritto fondamentale, alla base di altri diritti, che riguarda tutti e tutte: da qui discende il diritto alla salute dei reclusi e dei liberi. Sono passati più di due mesi dall’inizio dell’emergenza pandemia in Italia. Oggi, agli esordi della cosiddetta fase due, dobbiamo prendere atto, con una certa amarezza, che la discussione sulle misure da prendere a tutela della salute dei detenuti e delle detenute non è impostata nei termini corretti. Ricominciamo dunque dal principio e dai principi. Il punto di riferimento, per qualsiasi piano, non può non essere il principio di etica pubblica, sancito in Italia dalla Costituzione: la salute è un diritto fondamentale, alla base di altri diritti, che riguarda tutti e tutte: da qui discende il diritto alle pari opportunità nella tutela della salute dei reclusi e dei liberi. Sappiamo che il diritto dei reclusi è costantemente minacciato: da un lato entra in contraddizione con la condizione stessa di privazione della libertà (e di totale dipendenza dall’istituzione), che priva la persona di un determinante importante della salute psichica, prima ancora che fisica; dall’altro, è permanentemente a rischio di essere compresso e distorto dalle esigenze di sicurezza, spesso sospinte dal vento di pulsioni sociali afflittive, a sostegno implicito (ma spesso anche esplicito) di quei “trattamenti contrari al senso di umanità” che la Costituzione esclude. Dunque, la tutela della salute dei detenuti/e è fonte di permanente conflitto. Proprio per questo richiederebbe un impegno costante da parte delle istituzioni competenti. Una precisazione: di pari opportunità (alla tutela della salute) si deve parlare, non di parità, poiché le condizioni di vita dei liberi e dei reclusi non sono comparabili. Tantomeno in tempi di coronavirus. Prendiamo un esempio: nel contrasto alla pandemia, si fa continuamente appello alla responsabilità individuale nel proteggersi e nel seguire comportamenti corretti di “distanziamento” dagli altri. Insomma, il ritornello è “la salute è nelle tue mani”. C’è del vero in questo, ma è una verità parziale, perché le disuguaglianze socioeconomiche si traducono in maggiori/minori possibilità di autotutelarsi. Chi vive in strada, o vive in un campo nomadi senza servizi igienici, non è detto che sia “meno responsabile”. Piuttosto, il dito andrebbe puntato verso la responsabilità sociale: poco o niente le istituzioni fanno per permettere a queste persone di difendere meglio se stesse e gli altri. Nel caso dei reclusi che non scelgono dove stare e con chi stare, la responsabilità collettiva è massima. Qualcosa di simile si può dire, pur con le dovute differenze, per tutte le persone istituzionalizzate, come gli anziani. Da qui la domanda, semplice e al tempo stesso corretta: come assicurare anche dentro le carceri la tutela dei detenuti e del personale dal rischio pandemia? I dipartimenti di prevenzione delle ASL sono stati in grado di elaborare piani specifici di tutela per le singole carceri? Sottolineo la responsabilità delle autorità sanitarie locali, poiché sono loro ad avere in carico la salute dei detenuti, ad avere il compito di indicare le linee d’azione e predisporre gli interventi, non il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. Sono giorni e mesi in cui esperti e scienziati decidono sulle nostre vite. Si è appena conclusa una detenzione domiciliare di massa, decretata dal governo sotto “dettatura” (più che suggerimento) di comitati scientifici. Non mi pare che ci sia stato uno sforzo né a livello di pull “scientifici”, né di articolazioni sanitarie locali, per formulare piani di prevenzione specifici per le carceri. I numeri parlano da sé. Siamo a circa 53.000 presenze alla fine di aprile, in calo rispetto alle 57.800 di fine marzo: un semplice contenimento del sovraffollamento, un obiettivo “fai da te”, che ha ben poco a che fare con l’emergenza sanitaria. Siamo cioè lontani dalla capienza regolamentare (di circa 47.000 persone), che dovrebbe essere obiettivo di tutela standard della salute in tempi normali. E ancora più lontani dalle 40.000 presenze, che potrebbero permettere l’isolamento di tutti i positivi e una convivenza minimamente compatibile con la regola aurea del “distanziamento sociale”. Più alla radice, mancano piani organici di screening periodici di detenuti e di agenti, con conseguente predisposizione di percorsi di sicurezza in caso di positività, spazi appropriati per la quarantena, pronta presa in carico dei sintomatici. Ancora meno si è pensato a piani di adeguamento degli standard igienici delle carceri (docce in tutte le celle, mense in tutti gli istituti, per dividere gli spazi del cibo da quelli del pernottamento etc.). È questo il metro di misura giusto per stabilire se il diritto alla salute dei reclusi/e sia rispettato o meno, in tempi di coronavirus. Guardando al dibattito mediatico, balza agli occhi che la prima carenza sta proprio nel metro di giudizio. Si è detto che i contagiati in carcere sono “pochi”. C’è perfino chi si è buttato a calcolare percentuali di contagio, (supposte) inferiori in carcere rispetto alla comunità. Ci si è avvalsi della macabra contabilità dei morti in detenzione (anch’essi “pochi”) per decretare che “il carcere è un luogo sicuro”, e che “i detenuti stanno meglio dentro che fuori”. Ci si è perfino avventurati in (altrettanto macabri) paragoni fra i contagi “limitati” nelle carceri e la strage nelle Residenze Assistite per anziani: prendendo a pretesto la vergognosa incuria per gli anziani a giustificazione dell’inazione per i detenuti (sottinteso: “per i detenuti si fa perfino troppo”). Proviamo a rovesciare la funebre logica. Anche una sola vita persa - quando la si sarebbe potuta salvare - testimonia della violazione del diritto alla vita. E, insieme, di una sconfitta del senso di civiltà. Ridisegnare il sistema dell’assistenza sanitaria in carcere di Luciano Lucanìa* sanitainformazione.it, 22 maggio 2020 La sanità penitenziaria ha vissuto, anche lei, l’esperienza della pandemia da Coronavirus. Non era impreparata alle malattie virali: il carcere convive da decenni con HIV ed epatite B e C, ma certo la velocità di diffusione e l’impatto drammatico sul territorio, ed in particolare su alcuni territori, erano del tutto sconosciuti ed oltremodo preoccupanti. L’impatto c’è stato, certamente limitato e più evidente nelle aree della nazione più colpite. Il distanziamento sociale, che nel caso ha avuto come primo riflesso la sospensione dei colloqui e la loro conversione in videochiamate con le tecnologie attuali, comunque maggiori nella frequenza, è stata una misura ben accettata dai detenuti, e che proseguirà a richiesta anche nella fase 2, quando i colloqui riprenderanno ma con misure rigide di prevenzione. Abbiamo chiesto, come Società Scientifica, lo screening - i tamponi! - a tutto il personale che aveva accesso alle aree detentive: sanitario, di polizia penitenziaria, del trattamento. Ma l’effetto è stato assolutamente difforme sul territorio. Oggi si comincia a riaprire, ma senza la certezza di comportamenti sociali adeguati e con tutti i rischi conseguenti. Non possiamo quindi che ritenere ancora valido quanto abbiamo sin adesso proposto, anche per prepararci ad una eventuale ulteriore ondata di malattia, ma dobbiamo ripensare ai limiti del sistema di tutela della salute in carcere. La frammentazione e diseguaglianza strutturale, nelle varie regioni e financo nelle singole aziende sanitarie, dell’organizzazione e della gestione del personale sanitario, da cui in maniera diretta l’approccio al sistema e, quindi, al detenuto ed al detenuto-paziente, è il primo vero problema, non risolto dalla normativa di transito e caleidoscopio di azioni nelle varie realtà del territorio. L’esito è una realtà fragile, nella quale offrire sanità ad una coorte di popolazione “difficile” intrinsecamente anch’essa più fragile e le cui problematiche di patologia si evidenziano di maggiore difficoltà gestionale rispetto al mondo “fuori”, è sempre più complesso. Un mondo chiuso nel quale anche le patologie psichiatriche sono esplose e non trovano, né possono trovare, adeguate soluzioni interne. Ad una costruzione teorica complessa e condivisibile, anche per la salute mentale, non ha fatto seguito la realizzazione di una vera rete sul territorio, dentro e fuori le mura. Allora approfittiamo di questa occasione per ripartire. Chiediamo di ridisegnare il sistema dell’assistenza sanitaria in carcere, del modello di erogazione delle prestazioni, della necessità di fare prevenzione e clinica adeguata ad un utente certamente particolare, cui la limitazione della libertà personale condiziona differente risposta sia alla malattia che a quanto le ruota intorno. È una sanità diversa. Molti lo hanno negato, ma hanno sbagliato e continuano a sbagliare. In carcere le ideologie devono restare fuori. La limitazione della libertà - legata al mancato rispetto delle regole generali di convivenza sociale - è un fattore intrinsecamente complicante ogni forma di patologia. Chi lavora all’interno lo sa, ma devono saperlo anche gli altri. *Presidente della Società italiana di medicina e sanità penitenziaria Carceri: tra virus e rivolte, il racconto dei protagonisti fpcgil.it, 22 maggio 2020 Tra Fase 1 e Fase 2, e il cambio di vertici del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, tra il rischio del contagio e la gestione delle rivolte, ecco il racconto dei protagonisti delle vicende che hanno coinvolto le carceri in questi mesi. Un evento inaspettato, tragico, che ci ha investito all’improvviso tra fine febbraio e inizio marzo, ha stravolto le nostre abitudini consolidate e ha messo in evidenza tutte le fragilità del nostro sistema. Pensiamo al nostro servizio sanitario, pensiamo alle carceri. In queste ultime si sono vissute situazioni tra le più complicate e pericolose di tutta la vicenda. Tutti abbiamo tremato all’idea che un virus così virulento potesse infiltrarsi in un ambiente chiuso, ‘indifeso’ e che potesse fare danni di grossa portata. Per limitare al minimo il rischio di contagio tra detenuti, visitatori e lavoratori, sono state messe in atto una serie di misure che hanno portato alla scarcerazione di quasi 10 mila detenuti a cui sono state applicate misure alternative alla detenzione (passando dai 61.230 detenuti di inizio marzo ai 52.679 attuali). Questo ha fatto sì che la situazione non precipitasse e che non dovessimo assistere ad una tragedia nella tragedia. In un’istituzione chiusa dove il rischio epidemiologico era altissimo si sono registrati un totale di 119 contagi tra i detenuti e 162 tra i lavoratori. E come se non bastasse, alla preoccupazione in termini sanitari si è aggiunta una questione di sicurezza, a causa dell’esplosione delle rivolte di detenuti e alle conseguenti evasioni, che ha interessato circa 50 carceri in tutto il Paese (tra cui Foggia, Napoli, Milano, Salerno, Roma) e ha coinvolto 6 mila detenuti. Tutto questo ha creato una miscela esplosiva che ha messo a dura prova il sistema e ha portato alle dimissioni del capo del Dap, Francesco Basentini, sostituito con Bernardo Petralia. Tra caos, paura e incertezza da parte di tutte quelle figure professionali che dentro al carcere svolgono la loro professione: polizia penitenziaria, assistenti sociali, educatori. Oggi sono proprio i protagonisti di questa storia a raccontarci la loro esperienza, tra i timori delle settimane passate e le incertezze di quelle che verranno, con l’avvio di una fase 2 non rassicurante. Antonino, poliziotto penitenziario, era di turno quando è esplosa la rivolta a Bologna “Da giorni si respirava un’aria tesa, arrivavano le notizie delle prime rivolte in alcuni carceri del Paese. L’indomani avremmo dovuto comunicare ai detenuti che i colloqui in presenza con amici e parenti erano interrotti. Si avvertiva una sensazione forte. Tornai a casa e dissi a mia moglie: “Mi sa che domani non torno a casa”. Il giorno successivo, il 9 marzo, ero di servizio. E’ stato un crescendo di tensione. Il direttore ha incontrato i detenuti per informarli e si sono cominciati a sentire rumori e vocii di sottofondo che arrivavano dalle sezioni. Dopo poco sono esplosi i disordini e i detenuti hanno preso il controllo del carcere. Hanno cominciato ad aprire i cancelli, a forzarli. Erano circa 600 contro 150 agenti. Abbiamo dovuto abbandonare il reparto perché il rischio era veramente pesante. Sono sensazioni che non si dimenticano, di completa perdita di controllo, di essere assaliti. Da quel momento sono stati due giorni incredibili: carabinieri, elicotteri che sorvolavano il carcere, incendi… Dopo due giorni abbiamo deciso di rientrare e di riprendere il controllo della situazione. Fortunatamente molti detenuti si sono arresi, erano stremati. Abbiamo trovato l’istituto completamente distrutto. Questi episodi rimarranno nella storia. La cosa che più ci è dispiaciuta di tutta questa vicenda però è stata la sensazione di essere abbandonati: i dispositivi di sicurezza arrivati in ritardo, test e tamponi che hanno cominciato ad essere effettuati solo da pochi giorni, nonostante avessimo da subito registrato i primi contagi e anche qualche deceduto. In questo abbandono noi abbiamo continuato a lavorare, a tornare dalle nostre famiglie con il dubbio di essere potenziali veicoli del contagio. Non è stata affatto bella la sensazione, portata addosso per due mesi, di essere possibili portatori del virus”. Stefano è un educatore che lavora con i detenuti del carcere di Livorno Il loro lavoro non si è mai interrotto. Fino all’ultimo hanno continuato a garantire la loro presenza, mettendo a rischio la propria salute. “Fin da subito ci è stato chiesto di essere presenti il più possibile, anche per ridurre il disagio dei detenuti a cui era stato impedito di vedere i parenti. Questo perché tra detenuti ed educatore si instaura un rapporto particolare: lì dentro siamo noi la loro famiglia. Solitamente ci circondano, ci abbracciano. Sto parlando di un educatore per 100 detenuti. Questo vuol dire anche però che svolgere il nostro lavoro in una condizione di emergenza sanitaria è ancora più pericoloso. Nonostante questo, in un primo momento non ci è stato concesso neanche il diritto di tutelarci: ci hanno intimato, anche con una certa ostilità, di non indossare la mascherina per non creare allarme e spaventare i detenuti. Una gravissima sottovalutazione del problema da parte dell’amministrazione. A un certo punto, invece, hanno preso atto che non si poteva continuare a negare l’evidenza. Quando hanno capito che il fatto che i detenuti si potessero spaventare era il male minore, e che andava evitata una strage di contagi, allora sono arrivate le mascherine e ci è stato concesso di indossarle. Come se poi i detenuti non avessero la tv e non vedessero cosa accade al di fuori. Il modo di affrontare l’emergenza da parte dell’amministrazione è stato assolutamente insufficiente. Sono andati nel pallone. Ci sono state poche direttive, in ritardo e confuse. Ci siamo ritrovati in balia delle cose. Ciò che rivendichiamo noi è semplice rispetto, per la persona prima ancora che per il lavoratore. I diritti non si barattano”. Paola, assistente sociale di Roma, racconta come è cambiato il lavoro con il virus “E’ stato un periodo molto pesante. Avevamo paura di andare in ufficio ma dovevamo continuare a lavorare. Basti pensare che solo al Uepe di Roma abbiamo in carico più di 4.400 persone. La verità è che non ci siamo fermati mai. In carcere la situazione era troppo a rischio, quindi abbiamo interrotto gli incontri con i detenuti ma siamo rimasti in contatto con le loro famiglie per svolgere le indagini socio-familiari. E in ufficio abbiamo proseguito gli incontri con le persone che iniziavano una misura alternativa al carcere, ma con appuntamenti che impedissero che si creasse affollamento, mantenendo un contatto telefonico con gli altri utenti per rispondere alle loro numerose richieste di aiuto. Tutto questo però senza divisori e senza dispositivi di protezione (le mascherine sono arrivate a inizio aprile) ma soprattutto senza che nessuno ci dicesse cosa dovevamo fare. Ogni ufficio si è organizzato per sé. Per avere qualche giorno di smart-working noi assistenti sociali, psicologi e operatori amministrativi, abbiamo dovuto combattere con un’amministrazione disorganizzata e resistente. E’ dovuto intervenire il sindacato. Mi rendo conto che il problema è prima di tutto culturale: siamo ancora restii a concedere una modalità di lavoro che non preveda la presenza. Come se da quello dipendesse l’efficienza. E così siamo entrati in smart-working in ritardo e senza che ci venissero forniti gli strumenti: né pc né collegamento a internet. Con questa fase 2 dovremmo tornare, un passo per volta, alla normalità. Le direzioni stanno spingendo molto per questo. Ma ci vuole la massima attenzione per non mettere a repentaglio quanto fatto finora. Noi siamo disposti al confronto: rientrare sì ma in massima sicurezza. Il Covid ci ha cambiato la vita, ha cambiato le nostre abitudini. Ma abbiamo sentito molto forte la responsabilità di quello che ci veniva chiesto e non ci siamo mai tirati indietro”. In tutta questa storia, anche i dirigenti degli istituti penitenziari, come il resto del personale, si sono ritrovati a dover fronteggiare un’emergenza imprevista, pericolosa e fuori dall’ordinario, con un’enorme responsabilità sulle spalle. E, nonostante le direttive confuse che arrivavano da parte dell’amministrazione, hanno adottato tutte le misure di prevenzione del contagio che venivano impartite, adattandole ai contesti e lavorando in sinergia con i presidi sanitari locali. Bonafede in Antimafia: “Scongiurata diffusione massiva virus nelle carceri” di Gianni Parlatore gnewsonline.it, 22 maggio 2020 Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha svolto ieri pomeriggio un’audizione dinanzi alla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere. Il Guardasigilli si è soffermato sulle misure prese per affrontare l’emergenza sanitaria nelle carceri: “L’azione del Ministero, tramite il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, è stata immediata e indirizzata a 360 gradi a copertura di ogni aspetto e ha permesso di scongiurare nella cosiddetta Fase 1 la diffusione massiva del contagio nelle carceri italiane”. Tra le iniziative assunte, Bonafede ha ricordato l’installazione, in accordo con la Protezione civile, di 145 tensostrutture agli ingressi degli istituti penitenziari, la misurazione della temperatura attraverso termo-scanner, in numerosi istituti, nei confronti di tutte le persone che hanno accesso alle strutture e la fornitura di mascherina chirurgica e di guanti agli agenti di Polizia Penitenziaria, e di altri dispositivi di protezione individuale al personale che effettua le traduzioni. Affrontando il tema delle scarcerazioni durante il periodo dell’epidemia, Bonafede ha specificato che “il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, dopo un accorto e approfondito esame, ha potuto verificare che il numero di detenuti effettivamente scarcerati per motivazioni legate in tutto o in parte al rischio determinato dal Covid-19 è formato da 256 persone”, aggiungendo che “le scarcerazioni non sono dipese da norme varate da questo Governo”. Per il ministro, inoltre, “dopo l’entrata in vigore del decreto legge n. 28 del 30 aprile, il trend delle scarcerazioni di detenuti definitivi sottoposti al regime differenziato 41bis, o inseriti nel circuito dell’alta sicurezza si è quasi azzerato, mentre molti detenuti scarcerati sono già tornati in carcere”. Bonafede è salvo ma ridimensionato: “Ora scelte condivise” di Claudia Fusani Il Riformista, 22 maggio 2020 Missione compiuta. Il Senato ha salvato il soldato Bonafede rimasto prigioniero nella palude amica del giustizialismo. Le truppe alleate sono intervenute, i senatori di Italia Viva lo hanno tecnicamente esfiltrato e lo hanno riportato in salvo. Senza i voti dei renziani Bonafede sarebbe stato sfiduciato e Conte sarebbe già salito al Colle. Il ministro della Giustizia è però malconcio e commissariato. Se nella prima parte del suo intervento ha rivendicato il suo operato e la sua “anti-mafiosità” buttando la croce su “leggi fatte quando non era al governo”, nella seconda ha preso atto di essere ministro di una coalizione e che d’ora in poi, ogni ulteriore passo, sarà “concordato in una Commissione con tutte le anime della maggioranza rispettando due principi fondamentali: il diritto alla difesa e la certezza dei tempi del processo”. Finisce così la golden share grillina sulla giustizia. E tutto, a cominciare dalla prescrizione, sarà nuovamente discusso. Erano due le mozioni di sfiducia individuale: la 230 firmata da Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia molto politica, delle serie facciamo fuori un ministro inadeguato per far fuori tutto il governo; la 235 a prima firma Emma Bonino e a cui hanno aderito pezzi di Forza Italia, i Socialisti e Richetti (Azione di Calenda) molto più di merito e che, presentata domenica, ha fatto oscillare Italia viva. “Come si fa a non votare questo documento?”, è stato il tormentone in questi giorni. L’imbarazzo è stato tolto di mezzo dal premier Conte. “Se Bonafede sarà sfiduciato, cade il governo e si va a votare”, ha chiarito il premier. Una difesa a testuggine ieri mattina plastica nel banco del governo nell’aula di palazzo Madama dove Bonafede era seduto tra il premier Conte e il capodelegazione Pd nonché ministro dei Beni culturali Dario Franceschini e poi Di Maio, Boccia, Bellanova, Gualtieri. L’esito non era scontato ma prevedibile. “Se non fosse caduto il governo avrei votato la mozione Bonino”, ha confessato il capogruppo di Italia viva Davide Faraone. Il leader di Italia Viva non ha perso una parola dell’intervento di Emma Bonino quando ha accusato Bonafede di “pagare una tangente ideologica al populismo penale” e quando lo ha definito “sintomo e non rimedio della giustizia italiana”. Non ha ovviamente perso una parola dell’intervento del ministro, quella prima parte quasi irritante (“io sono l’antimafia”; “il piano di prevenzione nelle carceri ha funzionato”; se i boss sono usciti “lo hanno deciso i giudici di sorveglianza”) che è stato però solo lo zucchero per buttare giù il boccone amaro: “D’ora in poi ci sarà una Commissione per monitorare tutte le riforme e il confronto sarà costante, approfondito e di reale collaborazione”. È il segnale atteso. Il ramoscello d’ulivo frutto di ore e ore di limature e incontri di cui lo stesso Conte si è fatto garante. Quanto tocca a Renzi la strada è ormai segnata. “Le mozioni che la sfiduciano - dice il leader di Italia viva - hanno posto questioni vere, non strumentali. Ma non le voteremo perché Conte avrebbe tratto le conseguenze politiche di quel voto. Quando il Presidente del Consiglio parla si rispetta istituzionalmente e si ascolta politicamente, osserviamo quindi la ragion di Stato”. Ciò detto, Renzi non rinuncia a levarsi parecchi sassi dalle scarpe. “La verità è che per tutto quello che è successo lei dovrebbe andare a casa signor ministro, così come chiese di farlo all’onorevole Boschi, Lupi, Guidi, Lotti, all’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Certe sue posizioni giustizialiste ci hanno fatto male e mai avremmo potuto immaginare una vendetta così perfetta”. Ma la politica “non è vendetta” e “la cultura del sospetto è l’anticamera non della verità ma del khomeinismo”. Quindi, d’ora in poi, “faccia il ministro della Giustizia e non dei giustizialisti”. Renzi ha smentito ogni tipo di baratto con posti al governo. “Noi non vogliamo strapuntini ma sbloccare le opere”, ha detto al premier Conte. Più probabile, semmai, che a metà luglio Italia viva possa avere tra Camera e Senato qualche presidente di Commissione di peso ora a guida Lega: Bilancio, Trasporti, Giustizia. Si fanno i nomi di Marattin, Paita, Boschi e Migliore. Se la durezza di Renzi era nelle cose, Bonafede ha accusato la severità del Pd che chiede “la Fase 2 della giustizia”. Franco Mirabelli e Anna Rossomando hanno chiesto “più cultura delle garanzie”. Quella della prescrizione e delle intercettazioni sono riforme che non sono piaciute. E finalmente lo hanno detto pubblicamente. Il voto fotografa la realtà: senza i sedici senatori renziani il governo Conte non ha la maggioranza. La prima mozione ha ottenuto 131 voti a favore e 160 contrari. Maggioranza ancora più risicata (158 voti) per respingere la mozione Bonino. Caiazza: “Partecipiamo ad un tavolo se c’è spazio per le nostre idee” di Angela Stella Il Riformista, 22 maggio 2020 L’avvocato Gian Domenico Caiazza, Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane, è molto chiaro: o al tavolo permanente sulla giustizia annunciato dal Ministro Bonafede si fanno entrare le idee liberali del diritto o a noi penalisti non interessa stare a quel tavolo. Presidente cosa ne pensa del discorso che il Ministro Bonafede ha tenuto ieri al Senato? Il Ministro ha confermato tutte le ragioni per le quali noi penalisti lo giudichiamo il Ministro più lontano dalle idee del diritto penale liberale e del giusto processo che noi pensiamo di rappresentare e tutelare. Mi è parso invece ineccepibile nella sua risposta a Lega e Forza Italia sulle scarcerazioni, nel senso che sicuramente il Ministro non ha scarcerato nessuno. Le scarcerazioni sono opera della magistratura di sorveglianza in applicazione di leggi dello Stato. Il Ministro ha annunciato una commissione su impatto della prescrizione e sul nuovo processo penale e civile... Non so se ci sia in questa proposta l’idea di rivedere la norma sulla prescrizione. Se sarà così ne saremo lieti. Vedremo di cosa si tratta in concreto. Bisogna capire bene soprattutto quali siano gli obiettivi del tavolo e anche i tempi di lavoro. Sembrerebbe che Renzi abbia fatto il suo nome per metterla ai vertici di questa commissione... Io non so nulla, ho letto da qualche parte che sarebbe stato fatto il mio nome quale presidente dell’Ucpi. Naturalmente sono, anzi siamo lusingati come penalisti e grati al senatore Renzi per il segno di grande attenzione nei nostri confronti. Aspettiamo di capire di cosa si tratta nello specifico. Ci tengo a dire che a noi interessa partecipare ad un tavolo quando siamo certi di poter dare un contributo con le nostre idee. Gli Stati Generali dell’Esecuzione penale erano stati una ottima occasione per riformare la giustizia ma tutto è stato vanificato e al Governo non c’erano i Cinque Stelle... Si era fatto comunque un gran lavoro, ne era uscito un prodotto molto importante. Però è vero che dopo è stato abbandonato. C’è il rischio che questo tavolo sia del fumo negli occhi per giochi di partito... Sicuramente questa non è l’intenzione del senatore Renzi ma voglio sottolineare che noi non ci presteremo mai ad una operazione che dia solo fumo negli occhi. O c’è spazio per le idee liberali del diritto penale e del giusto processo o a noi non interessa stare da nessuna parte. Il Segretario di Più Europa, Benedetto della Vedova, ha dichiarato che “il populismo giudiziario del M5S vince con i voti di PD e IV”... Io non ho minimamente condiviso la mozione di sfiducia del centrodestra perché è più populista e giustizialista del Ministro. Questa gara tra populisti non ci appassiona. Ho trovato comunque la risposta del Ministro a quella mozione molto seria e plausibile. Invece per quanto concerne quella della Bonino sono d’accordo sul contenuto ma contrario al metodo. Certo, Italia Viva e Pd sono nella coalizione di Governo, non è che lo scopriamo adesso, ossia quando non fanno cadere il Governo. Mi pare che nelle intenzioni di Italia Viva soprattutto e qualche volta anche in quelle del Partito Democratico si cerchi di condizionarla, di contenerla. Secondo me si fa ancora troppo poco ma le logiche delle coalizioni sono queste. Invece, il segretario del Partito Radicale Maurizio Turco, in merito alla mozione della senatrice Bonino, ha scritto “ da almeno trent’anni siamo contro le sfiducie individuali a Ministri”... Non mi occupo di ortodossia radicale, proprio perché sono un vecchio radicale. Però non condivido la pratica della mozione individuale: il merito della mozione Bonino lo condivido dalla prima all’ultima parola come analisi della giustizia populista e giustizialista del Ministro Bonafede. Però quando si sfiducia il Ministro, lo si deve fare in base ad un grave fatto personale: come sospettato di corruzione o per aver molestato un bambino, ma non per atti che sono stati approvati dalle maggioranze governative. Con questa logica l’opposizione dovrebbe chiedere le dimissioni ogni volta che un Ministro adotta un provvedimento non condivisibile. Bonafede in Antimafia: “Nessuna pressione di Napolitano su mancata nomina di Di Matteo” di Simona Musco Il Dubbio, 22 maggio 2020 Il ministro: i detenuti al 41bis o in alta sicurezza scarcerati per motivi legati al rischio Covid 19 sono in realtà 256. “Il contrasto alla criminalità organizzata è un’azione prioritaria e irrinunciabile” di questo governo. È iniziata così l’audizione del ministro Alfonso Bonafede davanti alla Commissione Antimafia, davanti alla quale ha spiegato le scelte compiute in ambito penitenziario, le stesse che lo hanno esposto ieri alle due mozioni di sfiducia e diverse informative in aula per giustificare le proprie mosse, che hanno portato ad un cambio di guardia al Dap. Una scelta, questa, compiuta anche a seguito delle dichiarazioni del pm Nino Di Matteo, che ha paventato pressioni sul ministro per evitare che quel posto venisse occupato proprio da lui, inviso ai boss che, dal carcere, protestavano per una sua eventuale nomina. Sono tuttora “in corso” gli “accertamenti” disposti da via Arenula dopo le scarcerazioni avvenute nelle scorse settimane, ha chiarito Bonafede. Che ha escluso “qualsiasi tipo di pressione da parte dell’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano” contro la nomina di Antonino Di Matteo a capo del Dap. L’emergenza epidemiologica, ha sottolineato Bonafede, con riferimento alle carceri presentava due aspetti peculiari: se da un lato si tratta di strutture chiuse “nelle quali è più difficile per il virus entrare”, dall’altro “è vero che nel caso in cui il virus riesca ad entrare all’interno dell’istituto penitenziario, così come in qualsiasi altra struttura chiusa, la concentrazione di persone all’interno ne aumenta potenzialmente la sua capacità di diffusione. Dunque l’estrema necessità di adottare presidi di tutela sia per coloro che vivono e lavorano all’interno delle carceri sia per la comunità tutta, al fine di evitare che nuovi focolai potessero avere un impatto devastante, sovraccaricando le strutture sanitarie, spinte nella fase iniziale al limite della pressione”. L’azione del ministero, tramite il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è stata immediatamente indirizzata alla “chiusura” del carcere, “per contenere e limitare gli eventuali contagi e provvedere all’assistenza medica degli eventuali contagiati”, ha sottolineato ancora Bonafede. Il ministro ha dunque elencato le circolari emanate, indirizzate al coordinamento con le autorità sanitarie e all’applicazione dei protocolli, con controlli, fornitura di presidi e limitazione delle occasioni di contagio. Sono 102 su 53.458 le persone recluse attualmente positive, di cui una ricoverata in struttura sanitaria esterna. Il picco di detenuti positivi è stato di 162 casi su tutto il territorio nazionale, mentre risultano guarite 122 persone recluse. Tra il personale in servizio, sono 154 i dipendenti su 40.751 che risultano attualmente positivi, di cui quattro del personale amministrativo e 150 poliziotti penitenziari, mentre risultano guarite 142 persone. “Riguardo alle scarcerazioni dei detenuti al 41bis o in alta sicurezza - ha spiegato -, un primo numero fornito indicava in 497 le persone scarcerate appartenenti alle categorie indicate, con provvedimenti riconducibili all’emergenza sanitaria in atto. In realtà il Dap, dopo un accorto e approfondito esame analitico di ogni provvedimento che veniva richiamato, ha potuto verificare che il numero di detenuti effettivamente scarcerati per motivazioni legate in tutto o in parte al rischio determinato dal Covid 19 è in realtà di 256 persone. Si tratta dunque dei casi in cui, andando a leggere l’ordinanza, risulta che ci sia anche solo un riferimento al Covid 19”. Il ministero ha disposto subito che il Dap si relazionasse immediatamente con il capo della polizia e plurimi organi investigativi inviando l’elenco dei detenuti ammessi al regime domiciliare per provvedere ai controlli soprattutto nei confronti dei soggetti più pericolosi. “Le scarcerazioni, ci tengo a precisarlo, non sono dipese da norme varate da questo governo”, ha ribadito Bonafede, ricordando la norma che consente l’accesso ai domiciliari per i detenuti con pene da scontare inferiori ai 18 mesi - la 199 del 2010 - fermo restando comunque la possibilità del magistrato di sorveglianza di non concedere i domiciliari in caso non ce ne fossero i presupposti e l’esclusione dai benefici per i condannati per reati di criminalità organizzata e i soggetti condannati per i delinquenti abituali e i detenuti sottoposti a sorveglianza particolare. Escluse anche le persone che nell’ultimo anno sono state sanzionate per comportamenti violenti in carcere e hanno partecipato alle sommosse e alle rivolte. La sentenza Cedu sull’ergastolo ostativo: l’Italia non condivide la decisione Il primo tema toccato è stato quello relativo alle prospettive di riforma in relazione all’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, soprattutto a seguito delle pronunce della Corte costituzionale e della Cedu. Una delle questioni alla base della discussione è il tentativo di far convivere il fine rieducativo della pena, previsto dall’articolo 27 della Costituzione, e le esigenze di sicurezza, minacciate da un ritorno del detenuto al suo ambiente criminale originario senza dimostrare la recisione del suo legame con l’ambiente di appartenenza. Secondo le criticità messe in evidenza dalla Consulta, l’attuale disposizione ha previsto importanti modifiche in relazione alla collaborazione, non necessaria ai fini dei benefici nel caso in cui la collaborazione risulti inutile o impossibile. A ciò si aggiunge la valutazione della Cedu sull’ergastolo ostativo, con la censura per violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti, nella misura in cui il divieto all’accesso ai benefici penitenziari ai detenuti condannati all’ergastolo ostativo per reati di mafia o terrorismo, in particolare la liberazione condizionale, nel caso in cui non abbiano offerto prove della loro rieducazione o della collaborazione con la giustizia, non sia controbilanciato con concrete prospettive di riduzione della pena. Una pronuncia con la quale la Cedu ha invitato l’Italia a produrre una norma che prevede per gli ergastolani per mafia forme di rivisitazione critica del proprio trascorso mafioso, valutabili come requisito d’accesso ai benefici, in luogo della collaborazione. Una decisione che il governo, ha sottolineato il ministro, ha deciso di impugnare: “Non condividiamo nella maniera più assoluta questa decisione e faremo valere in tutte le sedi le ragioni del governo italiano e di una scelta che lo Stato ha fatto anni fa” dell’ordinamento penitenziario, approvata dalla Commissione parlamentare antimafia, ha spiegato Bonafede, “rappresenta un punto di partenza per qualsiasi attività di carattere legislativo, su cui auspico possa esserci una convergenza trasversale delle forze parlamentari sia di maggioranza che di opposizione”. Il ministro ha sottolineato la “totale disponibilità del ministero”, sottolineando che il decreto antimafia approvato il 30 aprile scorso, “potrebbe essere uno schema da replicare nel nuovo assetto normativo”, con “elementi utili per il percorso parlamentare”. È giusto che Cesare Battisti sia sepolto vivo? di Tiziana Maiolo Il Riformista, 22 maggio 2020 Assegnato a Rebibbia, è recluso a Oristano. Per i pm non deve stare in regime ostativo ma vive in isolamento: può incontrare solo “omologhi”. Ma, guarda caso, non ce ne sono. I tempi sono quel che sono e l’immagine del detenuto è quel che è. Ma per quali motivi di alta sicurezza Cesare Battisti deve stare a Oristano, quando la sua destinazione era Rebibbia e le sue condanne definitive sono avvenute a Milano? Non c’è anche qualche violazione dei diritti della difesa nel tenere l’assistito a un migliaio di chilometri dal suo difensore di fiducia? E non c’è qualcosa di disumano nel costringere i suoi unici parenti, che vivono nel grossetano, a dissanguarsi per i soggiorni sardi? L’avvocato Steccanella non lo dice, ma possiamo farlo noi: o si decide che in Italia esiste una sorta di Guantánamo o Cesare Battisti deve esser tirato fuori da quel buco nero dove è sepolto da più di un anno. Sono due le richieste che il suo legale ha avanzato nei giorni scorsi al giudice di sorveglianza e al Dap: la declassificazione che porti il detenuto a un regime di normalità, e il trasferimento al Carcere di Opera o di Rebibbia. Cioè dove avrebbe dovuto andare, secondo quanto scritto dalla polizia al suo avvocato fin da quando, alle 12,38 del 14 gennaio di un anno fa fu fatto sbarcare all’aeroporto di Ciampino in arrivo dalla Bolivia e portato nei locali del trentunesimo Stormo dell’aeronautica militare e preso in custodia dalla Polizia penitenziaria di Rebibbia. “E lì associato”, scriveva il funzionario di ps. Che cosa è successo da quel momento e mentre il ministro Bonafede viveva la sua “giornata indimenticabile” esibendo lo scalpo di Cesare Battisti? Chi ha deciso improvvisamente il trasferimento del detenuto da Roma a Oristano? Tra l’altro, a parte i sei mesi di isolamento, ormai scontati, decisi dalla corte d’assise d’appello di Milano in esecuzione di pena, questo ergastolano “non soggiace a regime diverso da quello ordinario, per il principio di irretroattività”, scrivono i magistrati. Quindi non è sottoposto al regime ostativo dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario e neanche a quello del 41bis. Però Dap gli ha attribuito la classificazione Alta Sicurezza 2, in quanto terrorista. Ma terrorista di ieri (il suo ultimo delitto risale al 19 aprile 1979, 41 anni fa) o terrorista di oggi? In ogni caso, resta il fatto che un detenuto classificato AS2 può incontrarsi solo con i suoi omologhi e che a Oristano non ce ne sono, e che quindi questo ergastolano sta vivendo mt isolamento illegittimo. Di fatto, ma pur sempre illegittimo. La nuova dirigenza del Dap ha qualcosa da dire? E il giudice di sorveglianza? Prima di ricordare chi era Cesare Battisti ieri, vediamo chi è oggi. Ascoltiamo per prime le parole dei giudici. Per esempio quelle emerse dalla camera di consiglio dei magistrati di sorveglianza del 26 novembre 2019. Il detenuto, si dice, ‘ha dato prova di partecipare all’opera di rieducazione” e ha tenuto “condotta regolare”. Per questo motivo gli sono stati riconosciuti i 45 giorni di riduzione di pena, per i primi sei mesi di detenzione, agli effetti della liberazione anticipata. Dopo queste parole, si può ancora ritenere attuale la pericolosità della persona, o la si deve ancorare per sempre a quel che è accaduto 40 anni prima? Anche la collaborazione spontanea con la magistratura (certo, tardiva, dopo 38 anni di latitanza) andrebbe presa in considerazione. Soprattutto se pensiamo che dei suoi sessanta coimputati nessuno è stato condannato all’ergastolo e sono ormai tutti liberi, in coincidenza anche con un bell’esercito di mafiosi assassini e “pentiti”. La confessione a Cesare Battisti è anche costata in termini di isolamento politico. Non tanto da parte degli intellettuali francesi che lo hanno sempre sostenuto, ma in terra italiana. Lo ha difeso solo Arrigo Cavallina, che aveva dieci anni più diluii quando si erano conosciuti nel carcere di Udine e Battisti era un giovane rapinatore di famiglia comunista e con brevi passaggi nella Fgci e in Lotta Continua, e che lo aveva condono per mano nei Pac, i proletari armati per il comunismo. In un libro recente Cavallina ha ricordato che fin dal 1981 il suo compagno Cesare era molto critico nei confronti della lotta armata Sono lontanissimi quei tempi, e chissà quanti di quegli ex terroristi amano ancora il termine “compagni”. Pure, Cesare Battisti ha sentito il bisogno di scrivere quella lettera aperta a chi lo criticava. Lui vuole uscire da un vestito che da tempo non è più il suo, quello del “mito Battisti” che, dice, “è stato costruito per abbatterlo”. Un buon mito sventolato anche dai compagni. “E succede che, poco importa che quel mito sia fatto di carne e ossa, che non ne possa più di essere martirizzato...un martire da agitare, secondo i gusti, da un lato o dall’altro della barricata”. Non può che concludere con “un abbraccio a chi lo vuole”, sapendo che non saranno in molti a volerlo. Questo è oggi Cesare Battisti. Consentiamogli di uscire da quel “mito”, più negativo che positivo, e di diventare un ergastolano normale in un carcere normale. Si chiede troppo? Rinvii e poche udienze: la “Fase 2” l’altra faccia dei tribunali a scartamento ridotto di Matteo Marcelli Avvenire, 22 maggio 2020 A poco più di una settimana dalla ripresa delle attività dei tribunali (il 12 maggio scorso), la fase 2 della Giustizia stenta a decollare e i procedimenti arrancano tra rinvii, assenza di personale nelle cancellerie e una drastica riduzione del numero di cause trattate. L’Organismo congressuale forense parla di “caos generale” dovuto alla mancanza di coordinamento tra gli uffici giudiziari nel redigere le circolari per la riapertura. Nel dossier preparato dall’Ocf si prendono in esame le maggiori città italiane e si scopre che a Roma, ad esempio, nell’ufficio del Giudice di Pace vengono trattate 4 cause al giorno anziché le usuali 40, mentre in Corte d’appello, civile e penale, vengono disposti rinvii ad un anno. A Milano sono rinviate in autunno le cause davanti al Giudice di Pace civile, quelle iscritte a ruolo nei primi di marzo, per le quali c’è la disponibilità dei fascicoli. In caso contrario il rinvio è disposto a data da destinarsi. In Tribunale, sempre per il settore civile, si trattano i procedimenti in cui non devono essere presenti parti diverse da magistrati e avvocati (ma ogni giudice si regola in modo diverso sulle modalità), mentre tutto il resto viene rinviato. In Sicilia le separazioni avvengono solo per via consensuale, ma ad Agrigento si affrontano solo le giudiziali e in altri capoluoghi le udienze sono sospese e rinviate. Anche a Bari, per quanto riguarda il penale, i processi con imputati detenuti si celebrano in aula, ma con gli accusati collegati da remoto, mentre quelli con imputati liberi si celebrano di persona (ma fino a un massimo di 4 imputati). “Stiamo raccogliendo i dati attraverso le nostre 131 camere penali territoriali e non abbiamo ancora risposte dettagliate. Ma i segnali che arrivano sono quelli di una paralisi pressoché generalizzata e largamente ingiustificata- spiega ad Avvenire Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere Penali. Nonostante molte circolari organizzative prodotte dai singoli uffici giudiziari siano condivisibili, assegnano al presidente delle singole sezioni una discrezionalità immotivata, dando la possibilità di disporre rinvii in base a valutazioni di opportunità non sindacabili”. Per non parlare dell’assenza di linee guida comuni sulla sicurezza sanitaria: “C’è una grande approssimazione riguardo alle sanificazioni e all’utilizzo di dispositivi di protezione e via dicendo - prosegue Caiazza. Si improvvisa. C’è chi ha organizzato nuovi percorsi all’interno dei palazzi di giustizia e chi no, mentre altri restano chiusi e basta. Uffici così complessi non possono essere affidati alla gestione di pur eccellenti magistrati, servono figure manageriali dedicate”. Il punto non sono tanto le differenze su base territoriale, quanto le incongruenze riscontrabili in situazioni simili: “C’è un senso nell’affidare il regolamento dei protocolli per la ripresa ai singoli uffici giudiziari. Ma ci sono evidenti differenze non giustificabili con le esigenze sottese al provvedimento, anche all’interno dello stesso distretto - fa notare Maria Masi, presidente del Consiglio nazionale forense È necessaria un’interlocuzione tra i capi degli uffici e le avvocature, ma non sempre c’è stata”. C’è poi il nodo del processo in remoto, su cui le Camere penali hanno già avanzato numerosi rilievi. “Notiamo un atteggiamento di resistenza da parte dell’Anm a un ritorno nelle aule - insiste Caiazza. Ma se stiamo aprendo anche i ristoranti e i parrucchieri, per quale oscura ragione non si può stare in aula con un giudice a distanza di sicurezza e adottando tutte le misure di cautela necessarie? Non si può avere la pretesa che l’unica forma di rientro sia quella del processo telematico”. D’altro canto, come sottolinea ancora Masi, anche nei casi in cui l’avvocatura si è dichiarata favorevole al remoto, si continuano a preferire i rinvii o almeno, aggiunge, “questo è quello che suggeriscono le prime evidenze”. Al conto va aggiunta anche l’annosa questione della carenza del personale di cancelleria e la sua impossibilità di operare in telelavoro. Come rilevato dalle Camere penali, se da una parte anche in smart working gli amministrativi delle cancellerie non sono autorizzati a collegarsi all’intranet della giustizia (rendendo di fatto inutile il lavoro da casa), dall’altra si fatica a capire la differenza di trattamento rispetto ad altri uffici pubblici essenziali, come le poste ad esempio, che non hanno mai chiuso neanche durante la fase 1. Infine, la norma che ha sospeso la decorrenza dei termini processuali per depositare le istanze d’appello ha bloccato anche i termini per il deposito degli atti dei magistrati. Tribunali, pochi negli uffici e a casa senza accessi: rebus dei processi in aula e a distanza di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 22 maggio 2020 Raccomandato il telelavoro che però frena le cancellerie. Da Pavia e Torino si inizia a parlare della necessità di un’amnistia. La provocazione dei penalisti: senza udienze, restituiamo la toga. Dopo aver pesato in 8 chili di carta le “linee guida” per decriptare i processi celebrabili o rinviabili, oggi a Roma i penalisti faranno il gesto di restituire al presidente dell’Ordine degli Avvocati la toga, “ormai inutile visto il numero esiguo di processi effettivamente celebrati” nella teorica ripartenza dopo la chiusura semi totale (escluse urgenze) da marzo all’11 maggio. E pure i civilisti lamentano: “C’è stato un equivoco: i protocolli dovevano servire a gestire l’organizzazione, ma ora ci troviamo con 200 protocolli che di fatto sono diventati 200 codici di procedura civile”. Anche perché - di fronte all’imperativo di evitare assembramenti e tenere distanze di sicurezza - si fa presto a dire smart-working. A Milano, dove i pm sono “invitati a recarsi in ufficio non più di tre giorni a settimana”, anche ai cancellieri è raccomandato di essere “presenti al 30% per un totale di non più di 2/3 giorni”, uno per stanza, perché “il primario interesse” resta “lo svuotamento fisico di uffici e corridoi”, nella convinzione che comunque “l’utilizzazione massiva dell’informatica assicuri la piena efficienza dell’Ufficio”. Ma l’indicazione delle circolari del ministero di privilegiare il lavoro da casa si scontra in concreto, a detta del presidente del Tribunale, soprattutto con il fatto che i cancellieri, “nonostante le richieste reiterate al ministero nel corso del tempo dai capi degli Uffici giudiziari di tutto il Paese, non hanno accesso ai registri di cognizione civile e penale”, con il risultato che “si sono già determinati un forte accumulo e vari ritardi”. Non aiuta lo schizofrenico pendolo legislativo sul processo telematico a distanza: prima, nella fase di chiusura totale, è stato introdotto come unica possibilità di fare almeno le convalide degli arresti e le direttissime (arrestato in caserma, avvocato in studio, pm in ufficio, giudice in aula); poi il partito dei pm si è fatto fare un emendamento governativo che estendeva il “remoto” persino alle più delicate istruttorie; poi, a distanza di appena 8 giorni, il contro-partito degli avvocati si è fatto fare un opposto decreto legge assai limitante fuori dai casi di consenso. E in più pesano gli ostacoli pratici. Come la risposta ai giudici che segnalano ricorrenti problemi di continuità della connessione Teams (“il problema è noto e si sta riscontrando a macchia di leopardo sull’intero territorio”). O come le difficoltà, segnalate dai giudici ai pm milanesi, di organizzare l’udienza a distanza se la trasmissione dei fascicoli del pm manca o avviene troppo a ridosso. Gli sbalzi locali, anche in una stessa regione, sono notevoli. A Bergamo l’Ufficio successioni ha già tutto esaurito sino a dicembre, Busto Arsizio e Como macinano processi quasi in normalità. Ma la media nazionale, salvo le urgenze, svolge processi dall’agevole logistica, con poche parti in aula o semplici incombenze eseguibili a distanza su consenso dei legali: quasi tutto il resto viene rinviato. Bologna - tra le sedi più organizzate - sta riuscendo a fare in aula-bunker l’Appello di ‘ndrangheta Aemilia, e Palermo l’Appello della Trattativa Stato-mafia. Ma lo schema-tipo sono le udienze di giugno annullate a Milano nel processo Eni-Nigeria: requisitoria nella solita aula no, perché le norme anti-virus non fanno stare tutti; l’aula-bunker neanche, perché (sebbene per tutto giugno vi siano prenotati processi) il pm non si sente rassicurato dal ricircolo dell’aria; un po’ in aula e un po’ a distanza su Teams nemmeno, perché gli avvocati vogliono ascoltare di persona; il cortile all’aperto è un miraggio del pm. Persino ormai più dell’impronunciabile parola - amnistia - che inizia a essere usata dal presidente del Tribunale di Pavia: “Prosciugato l’arretrato in 5 anni, ora per andare in pari calcolo 3 anni: l’amnistia, per quanto impopolare, è una necessità”. “A costo - concorda su Avvenire il procuratore aggiunto di Torino, Paolo Borgna - di provocare, oggi, qualche piccola ingiustizia che servirà però a evitare, domani, più gravi e generali ingiustizie”. Pene fino a 16 anni a tutela dei medici di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 maggio 2020 Da eroi nazionali a soggetti da proteggere. Con il disegno di legge approvato ieri all’unanimità, ora di nuovo all’esame del Senato per un passaggio che si annuncia assai veloce, dal Parlamento arriva un segnale di attenzione a medici e infermieri. Arriva però sulla scia di un paradosso, la necessità di rafforzare la tutela penale contro la serie di aggressioni, troppe volte non solo verbali, di cui le professioni sanitarie sono vittime. Per il ministro della Salute, roberto Speranza, “è un bel risultato l’approvazione all’unanimità nell’Aula della Camera del disegno di legge contro la violenza sugli operatori sanitari. È un tema su cui sono impegnato dall’inizio del mio mandato. In questi mesi - afferma il ministro - tutti hanno compreso valore e dedizione dei nostri medici, infermieri, e di tutti coloro che lavorano per la sanità italiana. Rafforzare le loro tutele giuridiche e sanzionare ogni forma di aggressione è un modo concreto di prendersi cura di chi si prende cura di noi”. Nel dettaglio, il disegno di legge estende l’applicazione delle sanzioni oggi previste dal reato di lesioni gravi e gravissime per i rappresentanti delle forze dell’ordine in occasione di manifestazioni sportive alle vittime che svolgono la professione sanitaria, aggredite nell’esercizio delle proprie funzioni. La pena, assai severa, da 4 a 10 anni in caso di lesioni gravi e da 8 a 16 anni in caso di lesioni gravissime, potrà colpire anche chi aggredisce un incaricato di pubblico servizio nello svolgimento di attività di cura, assistenza sanitaria, soccorso, coprendo in questo modo anche, per esempio, i volontari delle ambulanze. Introdotta poi una circostanza aggravante comune per colpire chi commette reati con violenza o minacce a danno di medici e infermieri. Nel caso poi di percosse la ordinaria procedibilità a querela viene cancellata a favore di quella d’ufficio nei casi in cui è possibile l’applicazione dell’aggravante. Alle strutture pubbliche e private che impiegano personale sanitario, dalle asl al privato sociale, il disegno di legge impone poi l’obbligo di costituirsi parte civile nei processi per aggressioni commesse ai danni del proprio personale sanitario. Al di fuori del perimetro penale, poi, è istituita una sanzione amministrativa da 500 a 5.000 euro per colpire chi adotta condotte violente, offensive o moleste nei confronti del personale sanitario e degli incaricati di pubblico servizio presso le strutture sanitarie. In funzione di prevenzione poi, le strutture che impiegano personale sanitario devono prevedere nei propri piani per la sicurezza, protocolli operativi con le forze dell’ordine per assicurarne l’immediato intervento. Secondo un’indagine del sindacato Anaao-Assomed, su 2059 medici, riferita ai mesi di gennaio e febbraio 2020, gli psichiatri guidano la classifica dei camici bianchi più colpiti, seguiti dai colleghi del pronto soccorso. Il 55,44% dei medici che ha risposto all’indagine ha affermato di essere stato personalmente vittima di violenza, 1137 medici rispetto ali 832 dell’analoga indagine condotta nel 2018. Il rischio è avvertito soprattutto dai medici donne e, comunque, non è più un fenomeno circoscritto al solo Meridione. Tar, sì del Garante privacy ai processi in videoconferenza di Antonello Cherchi Il Sole 24 Ore, 22 maggio 2020 Il processo amministrativo a distanza aperto anche agli avvocati incassa il via libera del Garante della privacy. L’Autorità ha, però, raccomandato che, una volta terminata l’emergenza sanitaria, la giustizia amministrativa si doti i una propria piattaforma informatica per le udienze online, invece di ricorrere, come si fa oggi, a Teams di Microsoft. Il parere dell’Authority prende le mosse dall’articolo 4 del decreto legge Giustizia (il Dl 28/2020), che dal 30 maggio al 31 luglio prossimi ha aperto le porte dei processi online -finora consentiti solo ai giudici - anche agli avvocati. E lunedì prossimo sarà sottoscritto tra giudici amministrativi e legali un protocollo d’intesa in vista del debutto della novità. Il Dl Giustizia ha anche affidato al presidente del Consiglio di Stato il compito di aggiornare le regole tecniche del Pat (processo amministrativo telematico), che al momento non prevedono udienze a distanza allargate ai difensori. Le regole tecniche rivisitate sono state sottoposte al parere del Garante, perché i profili di tutela dei dati insiti nel nuovo sistema sono significativi. L’impianto messo a punto è risultato in linea con i dettami del Gdpr (il regolamento europeo sulla privacy). In particolare, l’Autorità ha apprezzato il divieto di registrazione delle udienze. Un vincolo che dovrebbe permettere al provider che offre il servizio di videoconferenza di acquisire solo i “metadati” necessari per il collegamento video da remoto - gli identificativi per l’autenticazione coincidenti con gli indirizzi email, gli indirizzi Ip delle postazioni, la data e l’ora della connessione - e nessun altro dato personale. Altro elemento positivo riscontrato dal Garante è la limitazione delle udienze in video solo a quelle con la con presenza degli avvocati, mentre le camere di consiglio decisorie si svolgono in audio-conferenza. Detto questo, resta il nodo dell’infrastruttura tecnologica. Al momento, infatti, il Pat si appoggia, almeno per le videoconferenze, su Teams. La raccomandazione del Garante è che in futuro, una volta usciti dalla crisi, “si adotti una piattaforma “interna”, gestita dagli (o sotto lo stretto controllo degli) organi di giustizia amministrativa”. Infatti, “la disponibilità di software open source di affidabilità ed accuratezza del tutto comparabili ai migliori prodotti industriali offre il non trascurabile vantaggio di prestarsi a “implementazioni” di tipo on premises (quindi su data center e reti della giustizia amministrativa) o comunque su infrastrutture gestite anche collettivamente da o con altre amministrazioni pubbliche, evitando in radice flussi transfrontalieri interni od esterni all’Unione europea”. Semilibertà applicabile in via provvisoria anche se pena è superiore a 6 mesi di Anna Larussa altalex.com, 22 maggio 2020 Il magistrato di sorveglianza può concederla al condannato a pena non superiore a 4 anni, senza attendere la decisione definitiva del Tribunale di sorveglianza (Corte cost. n. 74/2020). E’ illegittimo l’art. 50, comma 6, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non consente al magistrato di sorveglianza di applicare in via provvisoria la semilibertà, ai sensi dell’art. 47, comma 4, o.p., in quanto compatibile, anche nell’ipotesi prevista dal terzo periodo del comma 2 dello stesso art. 50 (Corte costituzionale, sentenza n. 74/2020). Il giudizio a quo - La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dal Magistrato di sorveglianza di Avellino, investito dell’istanza di un detenuto, corredata dall’attestato di un’offerta di lavoro, volta a ottenere l’applicazione provvisoria dell’affidamento in prova al servizio sociale o, in subordine, della semilibertà. Il giudice a quo ha in particolare dubitato della legittimità costituzionale dell’art. 50, comma 6, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (ordinamento penitenziario), nella parte in cui prevede che il magistrato di sorveglianza possa applicare in via provvisoria la semilibertà solo nel caso di pena detentiva non superiore a sei mesi. Tale disposizione, ad avviso del rimettente, violerebbe l’art. 3, primo comma, della Costituzione sotto un duplice profilo: anzitutto, in quanto, in contrasto con il criterio di gradualità nell’accesso ai benefici penitenziari, essa prevede per l’ammissione in via provvisoria alla semilibertà, una limitazione più stringente di quella prevista per l’affidamento in prova al servizio sociale, che può essere applicato provvisoriamente dal magistrato di sorveglianza, ai sensi dell’art. 47, comma 4, o.p., in rapporto a pene detentive da espiare, anche residue, fino a quattro anni; in secondo luogo, per l’irragionevole disparità di trattamento cui dà luogo rispetto ai condannati liberi che fruiscono della sospensione dell’esecuzione della pena ai sensi dell’art. 656, comma 5, c.p.p.: questi ultimi, infatti, ove debbano espiare una pena, anche residua, superiore a sei mesi ma inferiore a quattro anni, possono accedere alla semilibertà, in forza dell’art. 50, comma 2, o.p.. (che riguarda appunto le pene superiori a sei mesi), anche prima dell’espiazione della metà della pena, laddove il tribunale ritenga insussistenti i presupposti per la concessione dell’affidamento in prova. La norma censurata violerebbe, inoltre, l’art. 27, primo e terzo comma, Cost., compromettendo la funzione rieducativa della pena, cui è preordinata la progressività del trattamento penitenziario: ciò, in quanto il condannato che debba espiare una pena superiore a sei mesi dovrebbe attendere i tempi per la decisione del tribunale di sorveglianza, pur avendo scontato la metà della pena e dato prova della “volontà di recupero”, con il rischio di perdere le opportunità di lavoro addotte a sostegno dell’istanza e senza poter sperimentare la misura pù contenuta in vista della concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale. La disciplina - La questione attiene alla procedura di applicazione della semilibertà (in particolare della semilibertà “surrogatoria”, come vedremo qui a breve) che, come noto, consente al condannato e all’internato “di trascorrere parte del giorno fuori dell’istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale” (art. 48, comma 1, o.p.). All’interno della figura si distinguono tre ipotesi: la semilibertà per le pene dell’arresto e della detenzione non superiore a sei mesi, finalizzata a limitare gli effetti desocializzanti della carcerazione di breve durata (art. 50, comma 1, ordin. penit.); la semilibertà per pene medio-lunghe, cui possono accedere, in base ai progressi compiuti nel corso del trattamento e in vista del graduale reinserimento nella società (art. 50, comma 4, ordin. penit.), i condannati che abbiano espiato almeno la metà della pena (o i due terzi, cfr. art. 4-bis, o.p.), indipendentemente dall’entità della pena residua (art. 50, comma 2, primo periodo, o.p.); infine, la semilibertà cosiddetta “surrogatoria” dell’affidamento in prova al servizio sociale, concedibile ai condannati che debbano espiare una pena rientrante nel limite di fruibilità dell’affidamento in prova (pena detentiva, anche residua, non superiore a quattro anni ex art. 47, comma 3-bis, o.p.) ma che, in concreto, non siano ritenuti ancora meritevoli di tale beneficio: nel qual caso possono essere ammessi alla semilibertà, ancorché non abbiano ancora espiato la metà della pena (art. 50, comma 2, terzo periodo, o.p.). Le censure del magistrato di Avellino riguardavano proprio quest’ultima ipotesi poiché per essa non è richiamato (a differenza di quanto previsto per l’ipotesi di semilibertà in relazione alle pene detentive brevi) l’art. 47 comma 4 o.p., in virtù del quale “quando sussiste un grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione”, il magistrato di sorveglianza, ove siano offerte “concrete indicazioni” in ordine all’esistenza dei presupposti per l’affidamento in prova e alla sussistenza del grave pregiudizio, e non vi sia pericolo di fuga, può disporre l’applicazione provvisoria della misura con ordinanza, fino alla decisione del tribunale di sorveglianza, che deve intervenire nel termine, ordinatorio, di sessanta giorni. Proprio della limitazione conseguente al mancato richiamo della suddetta disciplina si doleva il rimettente, in ragione del fatto che, rebus sic stantibus, il magistrato di sorveglianza, non potrebbe applicare la semilibertà in rapporto a pene superiori a sei mesi ma inferiori a quattro, pur potendo invece applicare in via provvisoria l’affidamento in prova al servizio sociale in rapporto a pene fino a quattro anni. La decisione - La Corte ha accolto la questione in relazione alla riconosciuta violazione dell’art. 3 Cost. Ciò ha fatto evidenziando come la dedotta discriminazione tra semilibertà e affidamento in prova concernesse non le condizioni di accesso alla misura, da tempo allineate rispetto al limite di pena, ma le modalità di accesso per il tramite della procedura di applicazione provvisoria sopra descritta, idonea ad evitare al condannato i tempi di attesa della decisione del tribunale di sorveglianza e i pregiudizi ad essi connessi. Posta tale precisazione, la Corte ne ha inferito che, una volta omologato il limite di pena suscettivo di dare la stura ai due benefici, non v’è più alcuna ragione per lasciare disallineata in peius la semilibertà surrogatoria, quanto alla possibilità di accesso accelerato al beneficio tramite provvedimento dell’organo monocratico. La mancata estensione della procedura prevista dall’art. 47, comma 4, o.p. penit. alla semilibertà “surrogatoria” non è giustificabile, secondo la Corte, soprattutto ove si consideri che l’attesa dei tempi richiesti per la decisione del tribunale di sorveglianza potrebbe far perdere al condannato, che pure sia già in possesso di tutti i requisiti per la fruizione della misura, l’opportunità di lavoro in relazione alla quale è stata formulata l’istanza di semilibertà e, con essa, l’effetto risocializzante connesso allo svolgimento dell’attività lavorativa extra moenia, anche in vista della successiva ammissione al beneficio più ampio. In disparte la considerazione secondo cui l’ammissione alla misura avviene pur sempre in via provvisoria, sotto la condizione della conferma da parte del tribunale di sorveglianza. Alla luce di tali considerazioni la Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 50, comma 6, o.p. nella parte in cui non consente al magistrato di sorveglianza di applicare in via provvisoria la semilibertà, ai sensi dell’art. 47, comma 4, o.p., in quanto compatibile, anche nell’ipotesi prevista dal terzo periodo del comma 2 dello stesso art. 50 ovvero quando la pena detentiva da espiare sia superiore a sei mesi, ma non a quattro anni. Alle Sezioni unite il computo dello “spazio minimo disponibile” per ciascun detenuto giurisprudenzapenale.com, 22 maggio 2020 Cassazione Penale, Sez. IV, Ordinanza, 11 maggio 2020 (ud. 21 febbraio 2020), n. 14260. Segnaliamo ai lettori l’ordinanza con cui sono state rimesse alle Sezioni Unite le seguenti questioni di diritto: a) se i criteri di computo dello “spazio minimo disponibile” per ciascun detenuto - fissato in tre metri quadrati dalla Corte EDU e dagli orientamenti costanti della giurisprudenza della Corte di legittimità - debbano essere definiti considerando la superficie netta della stanza e detraendo, pertanto, lo spazio occupato da mobili e strutture tendenzialmente fisse ovvero includendo gli arredi necessari allo svolgimento delle attività quotidiane di vita; b) se assuma rilievo, in particolare, lo spazio occupato dal letto o dai letti nelle camere a più posti, indipendentemente dalla struttura di letto “a castello” o di letto “singolo” ovvero se debba essere detratto, per il suo maggiore ingombro e minore fruibilità, solo il letto a castello e non quello singolo; c) se, infine, nel caso di accertata violazione dello spazio minimo (tre metri quadrati), secondo il corretto criterio di calcolo, al lordo o al netto dei mobili, possa comunque escludersi la violazione dell’art. 3 della Cedu nel concorso di altre condizioni, come individuate dalla stessa Corte Edu (breve durata della detenzione, sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella con lo svolgimento di adeguate attività, dignitose condizioni carcerarie) ovvero se tali fattori compensativi incidano solo quando lo spazio pro capite sia compreso tra i tre e i quattro metri quadrati. Violenza privata impedire l’ingresso nello studio associato del legale “ospite” di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 22 maggio 2020 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 15633. Scatta il reato di violenza privata a carico del titolare dello studio associato, che impedisce l’ingresso del legale mettendo prima la chiave all’interno della porta poi facendo “scudo” con il suo corpo. Ai fini del reato è ininfluente il fatto che il professionista “estromesso” sia socio dello studio o meno o che abbia un rapporto diretto di locazione con il proprietario dell’immobile. La Corte di cassazione, con la sentenza 15633, accoglie il ricorso contro la decisione della corte d’Appello che aveva escluso l’esistenza del reato, avallando la tesi del titolare, secondo il quale il ricorrente si rifiutava di lasciare l’ufficio, benché gli fosse stata offerta solo una sistemazione temporanea. Per la Suprema corte, che annulla con rinvio, ci sono gli estremi del reato dal momento che al legale era stato impedito di accedere agli strumenti con i quali esercitava la sua professione. E questo, malgrado, ci fosse una targa con il nome del ricorrente all’ingresso del palazzo e nonostante il dominus avesse messo a sua disposizione degli arredi, e il legale “cacciato”, contribuisse in qualche misura alle spese. Elementi che fanno propendere per un rapporto stabile con i locali. I giudici di legittimità precisano che l’esistenza delle ragioni che avrebbero consentito di escludere dall’immobile il ricorrente potrebbero essere rilevanti ai fini della qualificazione della condotta come esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ma non possono consentire “una violenta condotta idonea a incidere sulla libertà di autodeterminazione”. A fronte di un evidente accordo tra i professionisti dello studio, è poi del tutto irrilevante l’esistenza o meno di un’associazione professionale o di un rapporto locatizio diretto con il proprietario dell’immobile “o ancora una situazione qualificabile in termini di possesso, al fine dell’esercizio delle azioni civilistiche poste a protezione di quest’ultimo”. Piemonte. Garante: “Bene test sierologici sul personale, ma la lotta al virus non è ancora vinta” targatocn.it, 22 maggio 2020 Mellano auspica una sempre più stretta collaborazione tra Regione e sistema-carcere: “Il virus non fa distinzione fra detenuti e personale: insistere con la prevenzione”. La Regione Piemonte ha annunciato il via ai test sierologici sugli agenti delle forze dell’ordine: l’iniziativa coinvolgerà complessivamente circa 20 mila persone su base volontaria. Sarà eseguito nelle prossime settimane ed è mirato alla ricerca degli anticorpi IgG, indicativi del possibile contatto con il virus. Chi risulterà positivo, verrà sottoposto al test molecolare (tampone) per la formulazione della diagnosi di positività o negatività al Covid-19. Del totale complessivo, sono oltre 2.600 i test previsti per il personale di polizia penitenziaria (in tutto gli agenti di Polizia penitenziaria in Piemonte sono circa 3.000, ma una parte hanno già avuto il tampone in occasione dei contagi registrati o delle scelte delle singole Asl competenti). Inoltre circa 200 saranno i test disponibili per il personale civile in servizio nelle carceri piemontesi (circa 500 operatori in tutto, in minima parte hanno avuto la possibilità di effettuare il tampone, ad esempio a Saluzzo e Fossano). Inoltre si sta definendo, anche su suggerimento del Coordinamento dei Garanti delle persone detenute, una collaborazione dell’Amministrazione penitenziaria con l’organizzazione internazionale “Medici senza Frontiere”, in particolare sul fronte della verifica delle procedure, della formazione del personale penitenziario e della prevenzione. Sicuramente verranno coinvolti in questa iniziativa le carceri di Torino e Saluzzo. Bruno Mellano, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale del Piemonte, ha espresso soddisfazione: “Consideriamo molto positiva la presa di posizione della Giunta Regionale in merito ai controlli sanitari sul personale impegnato sul caldo fronte delle carceri piemontesi: come più volte chiesto dai sindacati di polizia penitenziaria e dai garanti dei detenuti attivi a livello territoriale, solo con una continua attività di monitoraggio si potrà compiere un salto di qualità nella lotta al Covid-19”. Mellano ha auspicato anche il rafforzamento e la valorizzazione del rapporto di collaborazione tra Regione Piemonte e Amministrazione penitenziaria: “I rischi di contagio Covid-19 insiti nella vita quotidiana di strutture chiuse sono purtroppo sotto gli occhi di tutti: solo con una continua e proficua interlocuzione tra Amministrazione penitenziaria e autorità sanitarie, in capo alla Regione, si potrà registrare un vantaggio strategico nella lotta al coronavirus. L’annunciata campagna di test sierologico non deve tuttavia far abbassare la guardia: la battaglia contro il virus nelle carceri non è vinta: assieme al monitoraggio, è necessario insistere con un preciso e rigoroso rispetto delle misure di prevenzione e degli equipaggiamenti da parte di chi entra ed esce dagli istituti penitenziari, con un’adeguata fornitura di guanti, mascherine per i detenuti e i parenti in visita” - ha concluso Mellano, impegnato assieme ai Garanti comunali nel monitoraggio della situazione piemontese, in stretto collegamento col Garante nazionale. Calabria. Detenuti discriminati per l’orientamento sessuale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 maggio 2020 Lo si rileva nel rapporto del garante, reso pubblico di recente. in alcuni casi nella causale di trasferimento si specifica: alla sezione “protetti- promiscua” - “camera per omosex”. Nei penitenziari calabresi c’è un problema di discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale. A rivelarlo è il Garante nazionale delle persone private della libertà nel suo rapporto reso pubblico recentemente e che risale alle visite effettuate nel 2018, ma finora senza alcuna risposta da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). Si legge che nella Regione sono presenti quattro sezioni per detenuti protetti, di cui tre per persone che hanno commesso reati a riprovazione sociale (negli Istituti di Castrovillari, Reggio Calabria “Arghillà” e Vibo Valentia) e una sezione di tipo promiscua per gli altri detenuti destinatari di protezione. La criticità in questo caso evidenziata è doppia: il fatto che ci sia una sola sezione protetta per detenuti che non abbiano commesso reati a riprovazione sociale in tutta la Regione e la caratteristica di “promiscuità “della sezione stessa (per persone omosessuali, transessuali e ex appartenenti alle Forze dell’ordine). Il Garante osserva che l’articolo 14 dell’ordinamento penitenziari prevede infatti, la possibile assegnazione in sezioni protette distribuite su tutto il territorio nazionale in maniera uniforme in ragione dell’identità di genere o dell’orientamento sessuale, su chiara richiesta dell’interessato. Al contrario, nella sezione protetti promiscua dell’Istituto di Castrovillari il Garante ha trovato allocate persone in ragione del loro orientamento sessuale senza che le stesse persone interessate ne avessero fatto richiesta, secondo quanto riferito dalla Direzione e secondo quanto riscontrato dalla delegazione: si denuncia che in alcuni casi, nella comunicazione del Provveditorato, non solo nella categoria cui è assegnato il detenuto a fianco alla dicitura “Media sicurezza” vi è aggiunto “Protetto- Omosex”, ma nella causale di trasferimento e assegnazione si specifica: “alla Sezione “Protetti- promiscua” - “Camera per omosex” della Casa circondariale di Castrovillari”. Per il Garante nazionale tutto ciò è in palese contrasto con il diritto alla riservatezza e del diritto della persona alla scelta rispetto alla possibile allocazione in una sezione protetta oppure no. Il Garante ritiene tale situazione non accettabile. Per questo motivo raccomanda il pieno rispetto dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere delle persone detenute, evitando l’implicita discriminazione propria dell’allocazione in sezioni separate, senza il loro consenso, così come stabilito dall’ordinamento penitenziario e dal Principio 9, comma A) e C) dei Principi di Yogyakarta. Quali sono questi principi evocati dal Garante? “Tutti coloro che sono privati della libertà devono essere trattati nel rispetto della dignità intrinseca della persona umana. L’orientamento sessuale e l’identità di genere sono parte integrante di ciascuna dignità della persona. Gli Stati devono: a) Garantire che la detenzione eviti di emarginare ulteriormente le persone sulla base dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere o sottoporli a rischio di violenza, maltrattamenti o abusi fisici, mentali o sessuali; C) Garantire, per quanto possibile, che tutti i detenuti partecipino alle decisioni relative al luogo di detenzione adeguato al proprio sesso orientamento e identità di genere”. Parma. Per il nuovo padiglione il “no” di associazioni e agenti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 maggio 2020 L’Istituto con i nuovi 200 posti arriverebbe a ospitare 800 detenuti. Arriva un altro secco no alla realizzazione del nuovo padiglione. Continua a far discutere il carcere di Parma, un penitenziario problematico dal punto di vista della tutela del diritto alla salute tanto che la Ausl locale stessa - in documento reso pubblico da Il Dubbio - lo dipinge ad “alta complessità sanitaria”. Se prima erano i sindacati di polizia penitenziaria, ora è la volta delle associazioni a stigmatizzare l’apertura del nuovo padiglione enfatizzato recentemente dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Le Associazioni di volontariato penitenziario e gli Enti del Terzo Settore che operano a favore degli Istituti penitenziari di Parma esprimono infatti preoccupazione per l’annunciato e imminente trasferimento di 200 persone detenute nel nuovo padiglione all’interno dell’area di Strada Burla che porterà la popolazione detenuta a circa 800 unità, con aggravio anche sulle politiche del territorio e sulle già scarse risorse finanziarie. È quanto emerge dall’appello firmato dalla Rete Carcere, associazione San Cristoforo, Svoltare cooperativa sociale, associazione Per Ricominciare, Comunità Betania e Consorzio solidarietà sociale di Parma. “Ci inquieta - si legge nell’appello - in particolare la grave carenza di organico del personale di custodia, del personale dell’area trattamentale, del personale sanitario. Siamo solidali con gli agenti penitenziari che pubblicamente hanno più volte segnalato la carenza di almeno cento unità per assicurare il rispetto dei livelli minimi di sicurezza”. La solidarietà dei volontari delle associazioni si estende all’area educativa composta da 4 funzionari giuridico-pedagogici in servizio (su 10 previsti per il vecchio complesso e senza alcuna previsione per il nuovo) i quali saranno ulteriormente in grave difficoltà nel garantire l’attività di osservazione e programmazione trattamentale nel rispetto del loro mandato istituzionale finalizzato all’umanizzazione della pena e al reinserimento nella società delle persone detenute. “Non dimentichiamo - si continua a leggere nell’appello - anche che nel carcere di Parma esiste un presidio per il trattamento di patologie in fase acuta o cronica; il personale sanitario, in carenza di organico, sarà ulteriormente in difficoltà per garantire il rispetto dei livelli minimi di assistenza sanitaria”. Anche la nuova struttura agli occhi dei volontari pare progettata per finalità di mera custodia essendo priva di locali finalizzati ad attività formative, lavorative, relazionali e socializzanti, salvo diversa destinazione di alcuni locali ora destinati a celle a 3 letti. Le Associazioni ed Enti del Terzo Settore sollecitano perciò le Amministrazioni penitenziarie e territoriali di competenza con delle proposte: rinviare temporaneamente i provvedimenti di apertura del nuovo padiglione; adeguare prioritariamente le suddette piante organiche con il preventivo confronto con il Garante dei Detenuti, con i sindacati di categoria, con la rappresentanza del volontariato; proporre un ragionevole adeguamento della logistica del suddetto padiglione ad un irrinunciabile programma di attività finalizzate all’umanizzazione e al reinserimento. Condividono preoccupazioni e proposte dei firmatari dell’appello anche la Consulta diocesana per la Pastorale sociale e del lavoro, Acli provinciali di Parma e il movimento cristiano dei lavoratori provinciale di Parma. Ricordiamo che il nuovo fabbricato è interamente realizzato con il sistema della prefabbricazione, setti portanti, solai alveolari e bagni prefabbricati. Si articola in altezza in un numero complessivo di sei piani di cui cinque fuori terra ed uno interrato; in pianta, invece, si sviluppa con forma rettangolare, blocco centrale adibito a servizi e due ali laterali simmetriche adibite a spazi propri della vita detentiva. Spazi che però non permetterebbero attività trattamentali. Saluzzo (Cn). “Positivo Covid dopo trasferimento 10 detenuti”, indagine per epidemia colposa di Viviana Lanza Il Riformista, 22 maggio 2020 Epidemia colposa è l’ipotesi di reato al centro della denuncia presentata dall’avvocato Gaetano Aufiero per un detenuto napoletano che in carcere si è ammalato di Covid-19. Il fascicolo è al vaglio della Procura di Cuneo perché i fatti si sono svolti nel carcere di Saluzzo. Per esporli, invitando la magistratura a svolgere indagini e dare risposta agli interrogativi aperti da questa storia, l’avvocato Aufiero ha presentato un lungo e dettagliato esposto. Il tema attorno a cui ruota la storia è uno degli argomenti più attuali e delicati degli ultimi mesi perché affonda le radici nella gestione dell’emergenza sanitaria all’interno degli istituti di pena ai tempi del Coronavirus. L’indagine dovrà chiarire se il trasferimento dal carcere di Bologna di detenuti, poi risultati positivi al Covid, sia stato all’origine del contagio nel carcere di Saluzzo dove il detenuto napoletano, protagonista di questa vicenda, ha contratto l’infezione che da mesi spaventa il mondo. È proprio il trasferimento di detenuti da un carcere all’altro il nodo centrale del caso sottoposto all’attenzione dei magistrati della Procura di Cuneo. Ma ricapitoliamo i fatti. È il 26 aprile quando il detenuto napoletano scopre di essere positivo al Covid-19. È uno dei reclusi della sezione di alta sicurezza del carcere piemontese, e, a parte la perdita del gusto, non ha sintomi gravi, ma viene messo in isolamento come prevede la procedura di sicurezza e tenuto sotto osservazione medica. In quegli stessi giorni, come lui altri detenuti risultano positivi al virus, mentre prima di allora non risultava alcun contagio nelle celle. E si fa caso a una circostanza: qualche settimana prima, proprio in quella sezione di alta sicurezza, erano arrivati alcuni detenuti provenienti dalla casa circondariale di Bologna dove agli inizi di aprile si era verificato il primo caso di detenuto morto per Covid-19. Quel detenuto si chiamava Vincenzo Sucato e la sua morte accese il dibattito sul rischio di focolai all’interno dei penitenziari italiani. Potrebbe esserci un nesso tra i contagi nel carcere di Saluzzo e l’arrivo dei detenuti da Bologna? È questa la domanda a cui la Procura di Cuneo dovrà dare risposta. Ricostruendo la sequenza dei fatti, l’esposto ha sollevato l’interrogativo. “All’indomani del decesso del detenuto nel carcere di Bologna - si sostiene nell’esposto - veniva disposto il trasferimento di decine di detenuti sospettati di essere entrati in contatto con lui in quanto allocati nella medesima sezione di alta sicurezza. Tuttavia - si legge ancora - il predetto trasferimento non veniva eseguito per tutti, alcuni rimanevano in attesa di trasferimento a stretto contatto tra di loro e senza alcuna misura di prevenzione idonea a scongiurare la diffusione del virus Covid-19”: ecco l’ipotesi da verificare attraverso le indagini. “Di tali circa 20 detenuti rimasti a Bologna ben dieci risultavano positivi al test per il Coronavirus. E positivi sono risultati alcuni detenuti della casa di reclusione di Saluzzo ristretti nella stessa sezione dove sono stati reclusi quelli provenienti da Bologna. Prima dell’arrivo dei detenuti da Bologna la casa di reclusione di Saluzzo non aveva registrato casi di contagio tra detenuti”, prosegue l’esposto che l’avvocato Aufiero spiega di aver presentato alla luce delle informazioni raccolte parlando con il suo assistito recluso nel carcere piemontese e con altri detenuti nei diversi istituti penitenziari sparsi sul territorio nazionale: “La gravità delle informazioni apprese ha fatto sorgere nello scrivente l’obbligo, morale prima ancora che giuridico, di rappresentare all’autorità giudiziaria competente tutti i fatti al fine di verificare se corrispondano a verità e possano configurare ipotesi di reato gravi come l’epidemia colposa”. Ora si attende l’esito delle indagini. Cagliari. Il carcere di Uta è Covid free: “I casi sospetti sono tutti negativi” L’Unione Sarda, 22 maggio 2020 L’annuncio dell’associazione Socialismo, Diritti, Riforme dopo i tamponi e i test nella casa circondariale. “I test sierologici rapidi e qualche tampone per i quattro casi sospetti tra i detenuti del carcere di Uta hanno dato riscontro negativo”. A darne notizia è stata Maria Grazia Caligaris, referente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme. “Nella Casa circondariale Ettore Scalas si può parlare di carcere Covid free - spiega l’ex consigliera regionale - un respiro di sollievo per operatori penitenziari, sanitari, detenuti e familiari. Non si può però dimenticare che permangono problematiche sanitarie a cui occorre sempre rivolgere particolare attenzione. L’emergenza covid19 - prosegue - ha fatto passare in secondo piano una complessa realtà sanitaria in cui convivono persone affette da problemi cardiocircolatori, psicologici, psichiatrici, patologie respiratorie, diabetici e con insufficienza renale”. “Il programma di screening - ha evidenziato Luciano Fei, responsabile dell’area sanitaria del carcere e dell’Istituto Penale Minorile - si è concluso positivamente offrendoci garanzie importanti sulla mancata circolazione del coronavirus all’interno della Casa Circondariale. Paradossalmente il timore di poter contrarre un virus così aggressivo e pericoloso ha rivelato un grande senso di responsabilità tra i detenuti, oltre che di tutti gli operatori. Il clima è stato infatti di grande collaborazione e ha permesso di svolgere i test in assoluta sicurezza e serenità. I dati positivi, che abbiamo riscontrato anche nel carcere minorile di Quartucciu, non ci faranno abbassare la guardia, anzi - ha concluso Fei - ma sono uno stimolo ulteriore a fare di più e meglio con il contributo di tutti”. Reggio Calabria. Genitori in carcere, fratellini affidati ai nonni di Rita Bernardini* huffingtonpost.it, 22 maggio 2020 Lo Stato nega loro 20 euro al giorno. Anche la Regione Calabria si è dotata di una legge sull’affido prevedendo un contributo giornaliero per il mantenimento di un minore da rimettere direttamente alla famiglia. Ma questo non avviene. Da quando avevano 13 e 11 anni, fratello e sorella sono stati affidati ai nonni materni con un provvedimento del Tribunale dei minori di Reggio Calabria datato 11 febbraio 2015. I genitori di Anna & Marco (nomi di fantasia) sono infatti finiti in carcere, fatto non certo raro in terra di Calabria se è vero come è vero che, pur rappresentando questa regione il 3,2% dell’intera popolazione italiana, i detenuti nativi calabresi sono, invece, il 6,3% dell’intera popolazione detenuta (dati 2018). Ma torniamo ai due ragazzini e ai nonni che li hanno avuti in affidamento perché c’è un aspetto che fa venire la nausea, ed è il modo in cui le istituzioni calabresi hanno gestito la vicenda in questione disconoscendo la normativa in vigore ed esasperando la già impegnativa quotidianità di questa realtà familiare costretta a fare i conti con la dolorosa esperienza del carcere. La legge italiana sull’affido (n.184/83 e art. 5 n. 149/2001) prevede che la famiglia affidataria (in questo caso, i nonni) accolgano presso di loro i minori provvedendo al loro mantenimento, alla loro educazione e alla loro istruzione; e prevede ciò espressamente quando accade che i genitori finiscono in carcere. Stabilisce altresì che lo Stato, le regioni e gli enti locali intervengano con misure di sostegno e di aiuto economico in favore della famiglia affidataria. Anche la Regione Calabria si è dotata di una legge sull’affido prevedendo un contributo giornaliero di 20 euro per il mantenimento di un minore da rimettere direttamente alla famiglia. Ecco, tutto ciò non è avvenuto nel caso in questione, nonostante l’impegno del nonno che si è trovato di fronte ad un vero e proprio muro di gomma rappresentato dai servizi sociali del Comune di Rosarno i quali, anziché aiutarlo a sbrigare le incombenze burocratiche, lo hanno sottoposto negli anni (quasi sei, visto che i genitori di Anna & Marco sono stati arrestati il 30 luglio del 2014) ad un vero e proprio tour de force che di rimando in rimando (sempre immotivato e irragionevole), lo ha portato ad alzare la cornetta del telefono per raggiungere la sottoscritta e chiedere aiuto. Il nonno di Anna e di Marco è impiegato amministrativo presso un consultorio e già per due volte ha dovuto impegnare parte del suo non certo lauto stipendio per affrontare le spese del mantenimento dei due ragazzi, ivi compresi gli spostamenti per portarli a trovare i genitori in carcere. Anna & Marco - così come i nonni - sono stati davvero bravi e ora sono due liceali con ottimo profitto scolastico benché abbiano dovuto affrontare la difficile fase adolescenziale con un grande cruccio nel cuore. Ora di questa incresciosa vicenda sono sicuramente a conoscenza non solo i servizi sociali del Comune di Rosarno al quale il Tribunale dei Minori fin dal 2014 ha trasmesso il provvedimento di affido (mai revocato) raccomandando “attività di vigilanza e sostegno” in favore dei nonni dei due minori, ma anche - per le lettere scritte dal nonno - il Garante dell’Infanzia della Calabria, il Dipartimento 10 della Regione Calabria (Politiche sociali - Ufficio Affidi ed Adozioni), l’Ufficio Economico e finanziario del Comune di Rosarno, il Sindaco di Rosarno, i Carabinieri di Rosarno e la Procura della Repubblica di Reggio Calabria. Tutti sanno, ma nessuno muove un dito. Possibile che dopo tanto tempo ancora non si dia una risposta certa a questo provato nucleo familiare? Mi viene un dubbio: quello di cui stiamo parlando è un caso isolato in Calabria o altre persone affidatarie di minori devono affrontare la medesima corsa a ostacoli insuperabili che sacrifica i diritti dell’Infanzia? Che fine ha fatto la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989? È necessaria un’iniziativa nonviolenta di sciopero della fame perché sia garantito un diritto scritto nero su bianco sia sulla legge nazionale che su quella regionale della Calabria? Io sono pronta, anche se mi auguro che non sia necessario. P.S. - Anna & Marco sono i protagonisti di una bellissima canzone di Lucio Dalla. Nel testo non sono fratello e sorella, ma mi piace ricordarne il finale “Marco voleva andarsene lontano, qualcuno li ha visti tornare tenendosi per mano”. La mia speranza è che dalla terra di Calabria il sogno di due adolescenti non debba più essere quello di dover emigrare. *Membro del Consiglio Generale del Partito Radicale. Napoli. “Da zero a 20 ingressi al giorno” a Poggioreale, finito il lockdown tornano gli arresti di Francesca Sabella Il Riformista, 22 maggio 2020 Finisce il lockdown e aumentano nuovamente i reati e gli arresti, mentre per decine di detenuti arriva il braccialetto elettronico indispensabile per scontare la pena a casa e riprendono i colloqui nei penitenziari. Inizia così la fase 2 per le carceri della Campania. Le strade deserte, la paura di contrarre il virus e l’incremento delle forze dell’ordine sul territorio, avevano tenuto a casa anche i delinquenti. Ma è bastato un timido inizio di ritorno alla routine per far aumentare di colpo i reati e gli ingressi dietro le sbarre, con il rischio di sovraffollare nuovamente i penitenziari e far salire i numeri dei contagiati da Covid-19. “Durante il lockdown - spiega Antonio Fullone, provveditore dell’amministrazione penitenziaria campana - Nel carcere di Poggioreale ci sono stati giorni nei quali abbiamo registrato zero ingressi o al massimo due. Da quando le misure adottate per il contenimento del virus sono state allentate - continua - abbiamo notato subito l’aumento dei reati con il conseguente trasferimento nel penitenziario. Anche 20 detenuti in un giorno, praticamente sfioriamo i picchi del periodo pre-Covid”. Il dato è una bomba ad orologeria che potrebbe scoppiare da un momento all’altro, mandando all’aria mesi di sacrifici e provvedimenti che avevano tentato di ovviare al problema dell’impossibilità del distanziamento sociale tra i detenuti. La preoccupazione per l’esplosione del contagio nelle carceri aveva portato il governo a emanare il decreto Cura Italia. Il provvedimento aveva concesso la detenzione domiciliare ai reclusi che dovevano scontare una pena o un residuo fino a 18 mesi, il tutto grazie a una procedura semplificata. Una volta lasciata la cella, i detenuti con una pena da scontare tra i sette e i 18 mesi avrebbero dovuto indossare il braccialetto elettronico. “Al momento dell’ok ai domiciliari - ha dichiarato Fullone - 62 detenuti su 80 hanno ricevuto, in tempi brevi, il dispositivo di controllo”. Con il decreto svuota carceri, i detenuti all’interno degli istituti penitenziari della Regione sono passati da 7mila e 500 a 6mila e 300. Con il Cura Italia sono usciti dal carcere 400 detenuti e altri 600 circa hanno ottenuto maggiori concessioni proprio in relazione al particolare momento di emergenza. Tutto questo ha consentito una buona gestione dell’epidemia. “In tutta la Campania - precisa Fullone - abbiamo registrato sette casi di positività tra gli agenti di polizia penitenziaria e quattro tra i detenuti, tutti del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Oggi non abbiamo casi di Covid-19 all’interno delle prigioni della Regione”. Per chi entra in carcere in questo momento così delicato, nel quale si tenta di convivere con il virus, ci sono una serie di passaggi obbligatori. “Per i nuovi detenuti - dice Fullone - è stato istituito un isolamento preventivo di 15 giorni, il monitoraggio della temperatura e la verifica di eventuali sintomi sospetti”. Tra le novità della fase 2 anche la ripresa dei colloqui tra detenuti e familiari. Lo ha comunicato Samuele Ciambriello, garante campano dei detenuti, durante una diretta su Facebook. “In particolare - ha spiegato Ciambriello - i detenuti potranno effettuare un colloquio entro fine maggio e due colloqui a giugno e in queste occasioni, contestualmente, si consegneranno i pacchi”. Via libera, quindi, ma con obbligo di guanti e mascherina, autocertificazione e misurazione della temperatura. I colloqui avverranno in spazi dedicati e separati in modo tale da consentire il distanziamento, ancora fondamentale in questa fase 2 della pandemia. Roma. Covid-19, l’Asl Roma 4 riorganizza l’assistenza ai detenuti ilfaroonline.it, 22 maggio 2020 Sono stati assegnati otto operatori sociosanitari, quattro per ogni sede penitenziaria, dal 4 maggio fino al 31 luglio per il contenimento dell’emergenza. Dal giorno 30 marzo presso la medicina penitenziaria Casa Circondariale è stato assegnato un nuovo ausiliario per un totale di 20 ore settimanali. Successivamente, la Protezione Civile ha istituito un’unità sociosanitaria nazionale per il contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica Covid-19 presso gli istituti penitenziari. Gli operatori sociosanitari sono stati assegnati a ciascun istituto penitenziario del Lazio su indicazione del Ministero Grazia e Giustizia. Sono stati assegnati otto operatori sociosanitari (quattro per ogni sede penitenziaria) dal 4 maggio fino al 31 luglio per il contenimento e contrasto dell’emergenza Covid. Degli otto operatori sociosanitari reclutati hanno aderito cinque persone. Dal 20 maggio 2020, presso i due istituti penitenziari afferenti alla Asl Roma 4, hanno preso servizio cinque operatori degli otto assegnati a seguito dell’ordinanza della Protezione Civile n. 665 del 22/04/2020. Il Dapss (Dipartimento delle Professioni Sanitarie e Sociali), in collaborazione con la Direzione del Distretto 1 e il Direttore degli istituiti penitenziari, ha individuato specifiche attività di supporto per ottimizzare la presenza dei volontari che si sono dimostrati da subito entusiasti di sostenere e collaborare con la nostra Asl per il benessere della popolazione detenuta. Il setting della medicina penitenziaria è particolarmente complesso, poiché è necessario individuare i diversi approcci alla salute, decodificarli ed offrire contestualmente una chiara chiave di lettura per l’assistenza al detenuto. L’orientamento è sicuramente quello di porre maggiore attenzione per i bisogni espressi dai detenuti rispetto a quelli della popolazione libera, visto che il detenuto, privato della libertà, si trova in una oggettiva posizione di svantaggio rispetto al cittadino comune. L’operatore sociosanitario, sotto la guida dell’infermiere, garantisce l’attuazione della pianificazione individualizzata dei bisogni. Altro aspetto da considerare è rivolto al fatto che la popolazione detenuta è multietnica e multiculturale, di conseguenza spesso è difficile condividere con qualcuno di altra cultura/etnia la nostra concezione di salute/malattia. In questo scenario, la presenza dell’operatore facilita il percorso assistenziale, soprattutto in questa “fase due” dell’emergenza, coadiuvando tutte le attività infermieristiche e finalizzate al raggiungimento del benessere psico fisico della persona in detenzione. Lecco. Parla il Garante dei detenuti: “Covid a parte, il problema del carcere è strutturale” leccoonline.com, 22 maggio 2020 A fine aprile erano stati 14 i casi di Covid 19 registrati nella casa circondariale lecchese. I detenuti contagiati sono poi stati trasferiti a San Vittore a Milano. Altri casi si sono registrati successivamente. I dati di qualche giorno fa parlavano di 21 detenuti positivi. Il carcere di via Beccaria a Lecco non ha fatto registrare le rivolte che hanno, anche tragicamente, interessato altri reclusori italiani, per i quali tra l’altro vi è il forte sospetto che ad alimentare la ribellione siano state le organizzazioni criminali mafiose. Ciononostante anche la casa circondariale cittadina ha fatto registrare momenti di tensione per il diffondersi del virus e per le inevitabili restrizioni alla vita sociale dei reclusi. Abbiamo chiesto al garante lecchese dei detenuti, Marco Bellotto, in carica dallo scorso anno, quale sia stata e sia oggi la situazione a Pescarenico. Una percentuale alta (35%) di positivi, considerata la popolazione carceraria lecchese (una sessantina di reclusi). Come si spiega? Non risulta al momento siano state individuate ragioni specifiche alla base dell’avvio e dell’incremento del contagio interno, se non connesse all’intrinseca maggiore vicinanza e frequenza di contatti interpersonali interni, inevitabile in una situazione imposta di condivisione ristretta. D’altra parte - per quanto anche condiviso con la direzione e con il medico interno - l’attenzione alle misure di prevenzione risulterebbe esser sempre stata coerente con le disposizioni previste. Trasferiti a San Vittore perché la casa circondariale non è attrezzata? Dalla fine di aprile, l’amministrazione penitenziaria - con Regione Lombardia - ha creato a San Vittore un reparto sanitario avanzato per la gestione e la cura delle persone in Covid-19 provenienti dai diversi Istituti penitenziari lombardi. Insieme all’offrire personale di polizia e sanitario specializzato, una funzione strategica dell’iniziativa è certamente anche quella di depotenziare al massimo il rischio di contagio interno negli istituti di provenienza. Ma le ragioni specifiche - quantomeno dei trasferimenti dall’istituto di Lecco - non rifletterebbero un’eventuale inadeguatezza interna della gestione sanitaria, quanto il fatto - comunque serio e da riconsiderarsi anche in prospettiva - che nella casa circondariale esiste una copertura medico-sanitaria unicamente attiva sulle dodici ore, non sulle ventiquattro. E’ anche importante la sottolineatura del responsabile-medico dell’Istituto di Lecco, il quale fa presente come le situazioni Covid-positive, trasferite nel reparto specialistico di San Vittore, non presentassero quadri di salute critici. Condizione che ha lasciato una certa serenità relativa anche nei compagni di detenzione rimasti in sede. Gli agenti di Polizia penitenziaria e il resto del personale come stanno? È chiaro che una situazione di emergenza come l’attuale alimenta fatica, preoccupazione e tensione, in tutte le componenti umane chiamate a viverla e a gestirla nel quotidiano. Al riguardo appare comunque un dato confortante quello secondo cui a tutt’oggi risulterebbe un riscontro di assenza di positività (Covid-19) quantomeno registrabile tra tutto il personale penitenziario: il che - tra l’altro - renderebbe più probabile che il contagio ai detenuti possa essersi avviato in istituto per contatto con materiale proveniente dall’esterno piuttosto che da contatti interpersonali. Dopo la sospensione dei colloqui c’è stata agitazione anche a Lecco, alcuni detenuti hanno minacciato lo sciopero della fame. A quanto risulta non ci sarebbero al momento situazioni attive di sciopero della fame, quantomeno collegate a problematiche di gestione della risposta all’emergenza Covid. Come si sta a dispositivi di protezione individuale? Stando in primis al parere del medico, il quantitativo e la gestione dei dispositivi/presidi sanitari internamente a disposizione (mascherine, guanti, prodotti di sanificazione…) risponderebbero adeguatamente alle esigenze e alle indicazioni. Quanti detenuti hanno ottenuto i domiciliari? Ad oggi le persone detenute uscite ai domiciliari, usufruendo delle specifiche misure introdotte dal cosiddetto decreto “svuota-carceri”, risulterebbero al di sotto della decina di unità; altre sarebbero in attesa di risposta dal Tribunale di sorveglianza. La pandemia ha aggravato la situazione anche a Lecco che, per quando sia una piccola struttura, fa registrare problemi analoghi a quelli degli altri reclusori italiani. Tanti detenuti, spazi ridotti anche per lo svago. Quantomeno in riferimento all’ultima annualità, anche di esperienza personale come garante, ritengo si possa positivamente affermare che le naturali dimensioni di problematicità e di conflittualità, tipicamente rintracciabili nella convivenza detentiva, si siano complessivamente mantenute entro forme d’espressione prevalentemente contenute. Quali sono i problemi di convivenza tra i detenuti? Per ragioni di reati e di abitudini con l’arrivo di altre religioni? Risulterebbero minimi anche i contrasti eventualmente ascrivibili alle specifiche distanze culturali e religiose presenti tra i detenuti; al proposito, sembrerebbe emblematicamente significativo richiamare quanto fatto presente dallo stesso cappellano don Marco Tenderini, il quale racconta come diverse persone di credo musulmano abbiano nel tempo scelto di partecipare alla Messa domenicale, per poi confrontarsi sulle diversità confessionali in successivi momenti interni di scambio. In passato anche gli agenti di custodia si sono lamentati per i problemi di organico. Com’è ora la situazione? Dalle informazioni raccolte, per lo più nell’ultimo paio d’anni l’organico penitenziario sarebbe stato via via numericamente rafforzato, per quanto a tutt’oggi non ancora a regime. Con qualche venatura d’amarezza, ma anche d’orgoglio di corpo, lo stesso personale interno fa talora presente come - “dovendo nel tempo fare di questa necessità virtù” - si sia man mano irrobustito adattandosi nell’ottimizzare forze e risorse sempre relativamente sottodimensionate. Le condizioni strutturali? Le condizioni strutturali dello stabile sono - “da sempre” - una delle maggiori condizioni di debolezza delle possibilità gestionali e progettuali della Casa Circondariale. Basti dire che esiste praticamente un unico salone - non a caso definito ‘polifunzionale’ - in grado di accogliere attività che coinvolgano trasversalmente l’intero gruppo detenuti, in primis a scapito della possibilità stessa che le iniziative progettuali in campo (formative, scolastiche, ricreative…) possano essere espresse e utilizzate in reciproca concomitanza. Come inoltre è storicamente noto, non esiste un locale-palestra, potendosi dedurre quanto anche questa specifica carenza ambientale solleciti e disattenda quei bisogni di ‘decompressione’ psico-fisica, tanto più vitali in un contesto costrittivo come la detenzione carceraria. Contribuendo tra l’altro a renderne ulteriormente ‘faticosa’ la permanenza, la conduzione e la gestione. Cremona. Intervista a don Roberto Musa, cappellano del carcere di Ca’ del Ferro di Nicoletta Masetto messaggerosantantonio.it, 22 maggio 2020 Durante l’emergenza Covid-19 ha ascoltato rabbia, paura e voglia di futuro dei detenuti. Facendo i conti, già in mezzo a tanto dolore, con la perdita del padre. Inaugurato nel 1992, Ca’ del Ferro, il carcere cittadino, ha visto, nel 2013, l’aggiunta di un padiglione detentivo più moderno dal punto di vista ingegneristico-architettonico. Da queste mura si vede la città ma, di più, la si sente, avvertendone quasi il respiro. Il carcere si trova proprio dietro l’ospedale. Per settimane i 484 detenuti hanno potuto vedere, e ancor più sentire, l’andirivieni di autoambulanze che, a sirene spiegate, trasportavano i malati più gravi. Anche a Cremona si scatena la protesta contro le misure di restrizione introdotte, agli inizi di marzo, per circoscrivere il contagio. Sono momenti di grande tensione. Sul posto arriva, tra gli altri, don Roberto Musa. È il cappellano del carcere insieme a don Graziano Ghisolfi. Quarantotto anni, nato e cresciuto a Cremona, don Roberto inizia a prestare il suo servizio tra i detenuti nel 2010. In carcere si reca tutte le mattine, neanche il Covid-19 lo ha fermato. Don Roberto, chi può entrare in un carcere? Musa. Dall’inizio è stato vietato l’accesso a qualsiasi persona proveniente dall’esterno. Un cordone sanitario che, almeno qui a Cremona, è scattato da subito, evitando il peggio. Lei è tra i pochi, se non l’unico, che può accedere... Noi cappellani, facendo parte dell’amministrazione penitenziaria, siamo in effetti gli unici che possono entrare, ma chiaramente sono sospese le attività di catechesi e le celebrazioni. Non accedono, poi, i volontari e gli insegnanti, ma il personale ha continuato fedelmente il suo lavoro. Anche il cappellano del carcere è sottoposto a controlli? Tutte le mattine effettuo un pre-triage nella tenda sanitaria montata all’esterno. Viene misurata la temperatura corporea e accertato che indossi tutti i dispositivi di protezione previsti. L’emergenza sanitaria ha finito per isolare, più di prima, chi isolato lo era già... Purtroppo è un momento difficile che ha reso necessario vietare qualsiasi contatto con l’esterno per evitare lo scoppio di un focolaio. Una probabilità non così remota entro realtà promiscue come il carcere o le case di riposo. Cosa è stato vietato? Prima di tutto i colloqui con i parenti. E poi, tutte le attività scolastiche e culturali. Divieti che hanno scatenato la protesta anche a Cremona... Era l’8 marzo, una domenica tranquilla. Avevo finito le mie attività a San Daniele Po, Isola Pescaroli e Sommo con Porto, le tre comunità di cui sono parroco, quando, nel tardo pomeriggio, mi è arrivata una telefonata: alcuni detenuti avevano iniziato a distruggere tutto in segno di protesta contro le restrizioni. In pochi minuti ho raggiunto il carcere. Ingenti i danni provocati, ma per fortuna nessun morto o ferito. Cosa ha evitato il peggio? Di sicuro la tempestività di chi ha preso in mano la situazione con determinazione e pazienza, vale a dire il direttore del carcere, il comandante della polizia penitenziaria e gli agenti. Appena prima della rivolta erano già state messe in atto alcune disposizioni per alleviare l’isolamento (come le telefonate con la famiglia e le videochiamate). Subito dopo sono state potenziate, aumentando le postazioni di videochiamata, riaprendo anche il servizio mail che era stato interrotto nei primi giorni dell’emergenza per problemi tecnici. Qual è stato il suo ruolo? Ho cercato la strada del dialogo: ascoltando le ragioni di chi si è visto privare delle libertà concesse, cercando di far capire il perché si è arrivati a certe misure. Come capita, poi, per fatti simili, c’è sempre qualcuno che tenta di insinuare motivazioni che c’entrano poco o nulla: da queste abbiamo subito sgombrato il campo. In ogni caso, tutto quello che si fa in carcere per i detenuti, lo si fa grazie alla collaborazione e alla condivisione di ideali e passione. È sempre un lavoro di squadra. “Hanno blindato tutto, hanno tolto le speranze a chi le aveva e ora la situazione è destinata a esplodere”, ha detto un detenuto. Quali emozioni ha raccolto in queste settimane? All’inizio tanta rabbia per il fatto di non poter più godere di quelle libertà con cui erano abituati a scandire le giornate, dal colloquio con i famigliari al corso di italiano (gli stranieri sono oltre il 60 per cento), al laboratorio di teatro o all’attività di orticoltura. Poi la paura: per il contagio, la malattia, il futuro. Un momento decisivo? Oltre all’intervento di direttore e comandante, una grande mano l’ha data il professor Angelo Pan direttore di Malattie infettive all’Asst di Cremona. In piena emergenza ha lasciato il suo reparto ed è venuto in carcere. Ha voluto spiegare, in maniera chiara, come ci si contagia, in che modo ci si protegge e si fa prevenzione. Alla fine i detenuti lo hanno ringraziato, applaudendolo a lungo. Come vivono l’emergenza? Nella speranza che tutto finisca. Si sono, poi, autotassati raccogliendo 1.300 euro per l’Ospedale Maggiore, un fronte caldo con centinaia di contagi. Dopo l’emergenza iniziale, i servizi sono stati ripristinati. Anche gli insegnanti hanno ripreso le lezioni online. Cremona è tra le province più colpite. Una tragedia che l’ha toccata da vicino... In questi mesi sono venuti a mancare anche molti parrocchiani. Purtroppo, per nessuno di loro c’è stato il tempo di una carezza, un saluto, un segno di croce. Il 17 marzo ho perso mio padre, anche lui risultato positivo. In mezzo a tanto dolore, ho avuto una piccola fortuna: con mia sorella abbiamo potuto vederlo, seppure da lontano e per un attimo, poco prima della morte avvenuta in casa di riposo. Ci vorrà tempo per curare le ferite. Che cosa rimane, intanto? Quasi tutti qui abbiamo avuto lutti, malati gravi, chi ce l’ha fatta e chi no. Eppure, nella sofferenza profonda, nessuno si è fermato. Lo dico con orgoglio perché, anche nel momento del lutto e della preoccupazione, abbiamo continuato a fare tutto ciò che si poteva. Tutti, senza distinzione: da noi cappellani agli agenti, al direttore. Questa fedeltà, insieme al fatto di mettersi totalmente a disposizione, sono stati attimi di bellezza nei giorni brutti che non sono ancora del tutto passati. Rimane, allora, il coraggio di non essersi mai arresi, nonostante il dolore. Il Papa, anche nella Via Crucis di aprile, ha rivolto il proprio pensiero ai detenuti. Le carceri, ha detto, abbiano sempre una finestra e un orizzonte. Nessuno può cambiare la propria vita se non vede un orizzonte... È quello che, ogni giorno, come cappellani cerchiamo di fare. Tra i nostri detenuti ci sono anziani preoccupati per la propria salute, per quella dei famigliari e, soprattutto, dei nipoti. E ci sono giovani, ognuno con una storia di disagio e di sofferenza alle spalle. Ma proprio come accade per qualsiasi ragazzo di questa età, sia egli dentro o fuori le mura di un carcere, i pensieri, i desideri, le speranze sono ostinatamente proiettati al futuro. I giovani che ascolto hanno voglia di cambiare per poter cambiare il mondo, di fare progetti e mettersi in gioco. La parola d’ordine è “costruire”. Una tessitura lenta, paziente eppure entusiasta e fiduciosa. Come chi, dal proprio balcone guarda fuori e vede, finalmente, l’orizzonte. Napoli. Carcere di Poggioreale, la scuola riprende “a distanza”: a giugno la maturità di Marco Belli gnewsonline.it, 22 maggio 2020 Anche a Napoli, grazie alla collaborazione tra il Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti Napoli Città 2 e la Casa Circondariale “G. Salvia” di Poggioreale, è stato possibile riattivare i corsi della scuola dell’obbligo in modalità interattiva da remoto. In particolare, sono ripresi in questa modalità i corsi di 400 ore per studenti di scuola media che erano stati interrotti ad inizio marzo a causa dell’emergenza sanitaria. I detenuti impegnati in tale attività provengono dai reparti Firenze, Genova e Torino. È stato inoltre possibile riattivare il corso di 825 ore nato dalla collaborazione tra il Cpia e l’Istituto Professionale A. Casanova. Gli idonei avranno l’opportunità di iscriversi il prossimo anno al secondo biennio del corso per odontotecnici organizzato dall’Istituto. I detenuti partecipanti, tutti condannati definitivi con fine pena non breve, sono ubicati al reparto di reclusione denominato Genova. Nel mese di giugno è anche prevista la ripresa, sempre da remoto, del Programma Operativo Nazionale (Pon) iniziato ed interrotto qualche mese fa, sempre a cura del Cpia. Il 17 giugno, infine, sarà assicurato l’esame di maturità “in presenza” di coloro che hanno frequentato il quinto anno dell’Istituto Tecnico Fermi-Gadda. I detenuti maturandi sono inseriti nel circuito Alta Sicurezza ed ubicati al reparto Avellino. Turchia. Lo “svuota carceri” non vale per i giornalisti di Desirèe di Marco eastjournal.net, 22 maggio 2020 In Turchia, la legge svuota-carceri adottata a seguito della diffusione del coronavirus esclude dal provvedimento le centinaia di giornalisti, attivisti per i diritti umani, filantropi e avvocati in carcere ormai da anni con accuse di terrorismo e diffusione di informazioni false. Il provvedimento - Il 14 aprile il Parlamento turco, con il voto favorevole del partito Giustizia e Sviluppo (Akp) del presidente Erdogan e del Movimento Nazionalista (MHP) ha adottato un provvedimento che permette il rilascio di tutti quei detenuti che abbiano scontato anche solo metà della pena, e non due terzi come previsto fino ad allora. I detenuti coinvolti dall’amnistia sono circa novantamila, dai quali però restano esclusi gli over 65, quelli affetti da patologie, le detenute con figli di età superiore ai 6 anni e centinaia di giornalisti, avvocati, attivisti per i diritti umani, scrittori, oppositori politici, filantropi e artisti che da anni si battono dal carcere per la difesa dei diritti umani, della libertà di stampa e per i principi democratici. La situazione dei giornalisti - Nonostante le ripetute sentenze della Corte europea dei diritti umani che condannano queste detenzioni, numerosi attivisti e filantropi continuano a rimanere in carcere, come nel caso di Osman Kavala accusato di aver tentato di rovesciare il governo nel 2013 e di essere stato il mandante del tentato golpe del 2016. Dal fallito colpo di stato del 15 luglio 2016 il governo turco - tramite pratiche illegali come lunghe detenzioni preventive o arresti lampo, violando sistematicamente il principio fondamentale della presunzione di innocenza - ha arrestato 152 giornalisti, revocato il tesserino ad altrettanti 800 e ha chiuso 173 agenzie di stampa. I giornalisti che vengono arrestati sono accusati di far parte di organizzazioni terroristiche o di denigrare le istituzioni dello stato. Anche “insultare Erdogan” è diventato, dal 2019, un atto punibile penalmente. E Wikipedia è di nuovo consultabile solo da inizio 2020, dopo tre anni di oscuramento per aver rifiutato di piegarsi alle direttive del governo sull’informazione. Il noto indice delle libertà politiche e civili di Freedom House per il 2020 ha confermato la Turchia in zona rossa, come “paese non libero”. Coronavirus e “fake news” - L’avvento della pandemia ha aggiunto un ulteriore livello alla repressione della libertà di stampa. Con la diffusione del coronavirus i giornalisti, gli attivisti, gli esponenti della cultura vengono accusati di alimentare “fake news”, in contrasto con i dati e con le notizie ufficiali rilasciate dal governo. Le autorità turche oggi paragonano l’informazione e le idee libere a un nuovo virus, la cui circolazione potrebbe mettere a rischio l’intero sistema. In questo contesto, sono sette i giornalisti arrestati nelle scorse settimane con l’accusa di avere “diffuso il panico” tra la popolazione riportando notizie false sulla pandemia, mentre 380 persone sono state indagate per la pubblicazione, su social media, di contenuti critici sulla risposta al virus. Alcuni esponenti del mondo della cultura sono anche andati incontro alla morte per protestare contro le misure repressive del governo. I tre musicisti della band Grup Yorum, punto di riferimento della sinistra rivoluzionaria turca, Mustafa Kocak, Helin Bolek e Ibrahim Gokcek, sono morti uno dopo l’altro nelle scorse settimane a seguito di uno sciopero della fame. Secondo il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic, i problemi sanitari globali richiedono misure efficaci per proteggere vite umane e la lotta alla disinformazione non dovrebbe essere usata come pretesto per introdurre restrizioni alla libertà di stampa. E’ proprio in tempi di crisi infatti, che i cittadini necessitano, più che mai di una stampa libera e della forza delle idee. Eritrea. Migliaia di prigionieri a rischio di contagio da Covid-19 di Riccardo Noury Corriere della Sera, 22 maggio 2020 Non possono fare la doccia né lavare i vestiti regolarmente, non hanno accesso ai gabinetti e devono fare i loro bisogni all’aperto: secondo informazioni ricevute da Amnesty International, questa è la situazione di migliaia di prigionieri nei sovraffollati centri di detenzione dell’Eritrea. La denuncia riguarda in particolare quattro prigioni: Adi Abeyito, Mai Serwa Maximum Security, Mai Serwa Asmera Flowers e Ala. La direzione delle carceri non fornisce prodotti per l’igiene personale come il sapone. Dal 2 aprile le visite dei familiari sono vietate e dunque la situazione è ulteriormente peggiorata, anche dal punto di vista della consegna di prodotti alimentari. Ad Adi Abeyito, che ospita 2500 detenuti in uno spazio previsto per 800, la doccia e il lavaggio dei vestiti sono previsti due volte alla settimana. Nelle altre tre strutture la situazione è persino peggiore. Non è consentito portare scarpe o pantofole per evitare il rischio che i detenuti si arrampichino sul fino spinato per evadere. I gabinetti sono situati fuori dalla struttura e ci si può andare due volte al giorno. Quelli interni sono utilizzabili solo nella stagione delle piogge. A Mai Serwa Asmera Flowers, in realtà un campo di lavoro forzato dove i Testimoni di Geova e altri detenuti sono costretti a lavorare nei campi per un’azienda agricola, non esistono gabinetti. I 700 detenuti devono fare i loro bisogni all’aperto. A Mai Serwa Maximum Security prison ci sono solo 20 gabinetti per 500 detenuti e comunque la capienza massima dovrebbe essere di 230 persone. La prigione di Ala ha una capienza di 1.200 detenuti ma ve ne sono circa il triplo. La distanza fisica è impossibile. Gli spazi variano da celle d’isolamento di due metri per due a container (come nella foto) dove sono stipate fino a 20 persone. Letti e materassi non sono ammessi. La maggior parte dei prigionieri non è mai stata incriminata né tanto meno processata e non ha la minima idea di quando la detenzione terminerà. In questa situazione, tantissimi detenuti hanno sviluppato malattie fisiche e mentali ma all’interno delle quattro strutture detentive sono disponibili solo medici formati al primo soccorso. Nella prigione di Ala i detenuti hanno dovuto comprare a loro spese un termometro e un apparecchio per misurare la pressione che sono stati messi a disposizione di un medico a sua volta prigioniero. L’ospedale più vicino si trova a 26 chilometri di distanza. In queste condizioni, il rischio di diffusione del Covid-19 è altissimo. Amnesty International ha sollecitato il governo eritreo a decongestionare i centri di detenzione, dando priorità ai prigionieri di coscienza, a minorenni, ai detenuti in attesa di giudizio, agli ammalati e agli anziani. Burkina Faso. Hrw chiede indagine su presunte uccisioni extragiudiziali di detenuti agenzianova.com, 22 maggio 2020 Le autorità del Burkina Faso dovrebbero condurre un’indagine “credibile” e “indipendente” sulle accuse di uccisioni extragiudiziali di 12 detenuti che sono state fatte ad alcuni agenti di polizia nel quadro di un’operazione antiterrorismo condotta lo scorso 11 maggio vicino alla città di Fada N’Gourma, nella parte orientale del paese. Lo ha chiesto in un comunicato l’ong Human Rights Watch (Hrw), affermando che testimoni hanno visto gli uomini colpiti alla testa. Il 13 maggio, la procura di Fada N’Gourma, nella regione orientale, ha annunciato l’apertura di un’inchiesta sugli omicidi. Per maggiore indipendenza e imparzialità e per garantire la sicurezza dei testimoni, questa indagine dovrebbe secondo Hrw essere trasferita nella capitale, Ouagadougou, e le sue conclusioni rese pubbliche. Il comandante della stazione di gendarmeria di Tanwalbougou, dove morirono i detenuti, dovrebbe essere immediatamente posto in congedo amministrativo in attesa dell’esito dell’indagine. Secondo Corinne Dufka, direttrice di Hrw per l’Africa occidentale, il decesso dei detenuti sopravvenuto poche ore dopo la loro presa in custodia “è chiaramente un segno di un atto criminale”. “Uccidere i detenuti in nome della sicurezza è sia illegale che controproducente. Coloro che sono stati ritenuti responsabili di questi decessi in custodia dovrebbero essere perseguiti in modo equo”, ha aggiunto. Hrw ha parlato al telefono con 13 persone di questo incidente. Sono residenti di Fada N’Gourma e della zona circostante, nonché di Ouagadougou, tra cui quattro testimoni degli arresti e cinque testimoni del recupero dei corpi e della loro sepoltura. I testimoni hanno fornito un elenco di 12 vittime, tutti membri dell’etnia dei fulani, inclusi due fratelli e un uomo di 70 anni. Le presunte uccisioni sono state perpetrate sullo sfondo del deterioramento della sicurezza e di una crisi umanitaria in Burkina Faso, un paese che, dal 2016, ha affrontato la violenza dei gruppi armati islamisti affiliati ad al Qaeda e allo Stato islamico nel Grande Sahara. Reggiano detenuto in Sri Lanka, appello per farlo tornare reggiosera.it, 22 maggio 2020 Alcuni consiglieri comunali e la famiglia chiedono il ritorno in Italia del giovane Mattia Giberti arrestato oltre un anno fa. “È passato un anno e tre mesi da quando Mattia è stato arrestato in Sri Lanka, con un’accusa di detenzione di sostanze stupefacenti che resta da dimostrare. Mio figlio è in attesa del processo (dal 9 febbraio dell’anno scorso), potrebbe essere innocente a tutti gli effetti, nonostante ciò, con la pandemia in corso, è ancora rinchiuso in un carcere dove le condizioni igieniche sono terribili. Non posso neppure ascoltare la sua voce, chiamarlo per avere notizie sulla sua salute direttamente da lui”. A dirlo è Carla Maramotti, madre di Mattia Giberti, trentasettenne di Pieve Modolena, frazione di Reggio Emilia. Mattia è stato condotto dietro alle sbarre nel paese dell’Asia meridionale nel 2019, perché accusato di detenzione di cocaina. Da allora è in prigione in attesa di un processo che dia lui la possibilità di esercitare il diritto di difendersi, ma finora non è stata annunciata alcuna data di inizio. “L’ultima persona a fargli visita è stata un’amica, alcuni mesi fa. Mi ha raccontato cosa ha visto e sentito: una stanza di circa 50 metri quadri che Mattia condivide con altre decine di detenuti, tra i 40 e i 50 compagni di cella. Quando dormono sono separati dal pavimento solo dalle coperte, non ci sono materassi; topi, scarafaggi e zecche girano tra loro. Il bagno (più che altro un buco) è condiviso da tutti i detenuti presenti in cella, e sono utilizzati anche per lavare i piatti. Il cibo è poco, l’acqua non è potabile. Mi ha fatto sapere nelle celle non c’è pavimento: sono baracche con i tetti di lamiera. Ho saputo inoltre che è dimagrito di più di 10 chili, e il suo stato psicologico non è in buone condizioni. Soffre di depressione, anche a causa della lontananza con la figlia piccola. Solo grazie alla testimonianza della madre di un altro ragazzo italiano che è stato in prigione con Mattia ho saputo che l’hanno scorso ha avuto un’infezione, dalla quale poi è guarito. Molti detenuti comunque soffrono di infezioni alla pelle, scabbia, e le condizioni igieniche sono precarie, come si può immaginare”. “Sono preoccupata, temo per la salute di mio figlio: non esistono dati relativi alla diffusione del covid-19 nelle carceri in Sri Lanka e le condizioni di detenzione sono spaventose, altroché distanziamento sociale. La Farnesina, soprattutto in questo periodo, dovrebbe tutelare tutti i cittadini all’estero, mentre tutto appare bloccato, nonostante il lavoro portato avanti ogni giorno dall’Ambasciata italiana in Sri Lanka. La vicenda di Mattia è dubbia: è stato arrestato in un taxi al cui interno hanno trovato 50 grammi di cocaina, era con un ragazzo israeliano che dopo cinque giorni è stato rimesso in libertà e espulso. A Mattia hanno dato la colpa di tutto, senza una prova certa e ad oggi senza un processo, il tutto in circostanze dubbiose. Ad oggi ci sono state solamente delle udienze ogni 15 giorni per confermare l’arresto. La pena, non ci sono dubbi, è la pena di morte che verrà trasformata in carcere a vita. In Italia per lo stesso reato avrebbe scontato due mesi ai domiciliari, è inaccettabile. L’ambasciata sta facendo un grande lavoro: sono stati fatti decine di passi ufficiali, grida, suppliche che però sono rimaste inascoltate”. “Arresti e detenzione arbitrari sono frequenti in Sri Lanka, come verificato e denunciato sia da organizzazioni non governative internazionali che dalle Nazioni Unite. Lo sono anche i casi di maltrattamento in detenzione. Il Governo italiano deve prestare subito attenzione a questo caso: la famiglia e gli amici di Mattia, la cui paura e ansia sono fondate, meritano al più presto una risposta. Notizie certe circa la sua salute e sulla presa in carico della situazione, a partire dalla possibilità di accedere a un processo” dichiara Giulia Crivellini, Tesoriera di Radicali Italiani. L’appello della famiglia è stato sottoscritto anche da diversi consiglieri comunali di Paolo Burani (immagina Reggio), Palmina Perri (Reggio è), Dario De Lucia (Pd), Fabiana Montanari (Pd), Gianluca Cantergiani (Pd), Lucia Piacentini (Pd), Claudio Pedrazzoli (Pd) e Fabrizio Aguzzoli (M5s). Anche il consigliere regionale di Emilia-Romagna Coraggiosa, Federico Amico esprime preoccupazione per la condizione del reggiano Matia Giberti e auspica un suo ritorno in Italia. Pechino impone a Hong Kong la legge “anti sovversione” di Guido Santevecchi Corriere della Sera, 22 maggio 2020 Il Congresso cinese discute le nuove norme sulla Sicurezza Nazionale che dovranno entrare in vigore nella City: saranno vietate manifestazioni “sediziose” e “interferenze dall’estero” e si darà via libera alla censura. Vacilla il principio “Un paese due sistemi”. Hong Kong e la Cina sono legate dal principio “Un Paese due sistemi”. Ma è il sistema unico delle leggi sulla “Sicurezza nazionale cinese” quello che Xi Jinping ha deciso di imporre anche nella City, dopo l’ondata di manifestazioni democratiche e anti-Pechino dell’anno scorso. Lo ha annunciato ieri notte il portavoce del Congresso del popolo che si riunisce oggi nel palazzone grigio di piazza Tienanmen. “Alla luce delle nuove circostanze, il Congresso eserciterà il suo potere costituzionale, i delegati del Popolo esamineranno la normativa contro le attività secessioniste e sovversive”, ha detto Zhang Yesui. Il funzionario non dato dettagli sulla bozza. Ma basta ricordare che in Cina la polizia è pronta a reprimere ogni assembramento che non sia organizzato dalle autorità. E che può bastare firmare un documento di critica al Partito per finire in carcere. In più, per mesi Pechino ha accusato il fronte democratico di Hong Kong di mire secessioniste e di collusione con potenze straniere, equivalente di alto tradimento. La Legge sulla sicurezza nazionale cinese applicata a Hong Kong significa che se i giovani contestatori torneranno in strada, dopo il lockdown da coronavirus, rischieranno condanne a vita, non solo le bastonate e i lacrimogeni dei poliziotti. I magistrati dell’ex colonia britannica restituita alla madrepatria nel 1997, a differenza dei loro colleghi nel resto della Cina, non sono funzionari politici incaricati di difendere l’interesse supremo del Partito, i giudici di Hong Kong applicano la legge con principi garantisti ereditati dal modello britannico. Da anni Pechino voleva che Hong Kong, Regione Amministrativa Speciale, si adeguasse alla “Legge sulla Sicurezza nazionale” in vigore nella Repubblica popolare. La guerriglia urbana del 2019 ha creato frustrazione nel governo centrale. Hong Kong aveva resistito per 23 anni, aggrappata al suo sistema dove basta presentare regolare richiesta per scendere in strada e manifestare, contestare il governo e le sue scelte politiche o economiche. L’avrebbero dovuta introdurre i deputati del Legislative Council della City, la “National security legislation”, perché il principio della sicurezza nazionale è previsto nella “Basic Law”, la sua costituzione speciale. Ma la disposizione attuativa non è mai stata votata, per l’opposizione popolare: 500 mila in piazza nel 2003 quando ci fu un tentativo di metterla all’ordine del giorno. E anche ora, pur essendo in netta minoranza rispetto ai deputati filo-Pechino, il fronte democratico presente nell’Assemblea legislativa di Hong Kong darebbe battaglia, farebbe almeno ostruzionismo. L’anno scorso la meno dirompente legge sull’estradizione aveva acceso la miccia della ribellione. Bisognerà vedere se ora l’opposizione di Hong Kong avrà la forza di uscire dal letargo virale: l’occasione potrebbe essere il 4 giugno, anniversario della repressione sanguinosa di Tienanmen. Hong Kong è l’unica città cinese dove la gente si riunisce in pubblico per ricordare le vittime: quest’anno la Legge sulla sicurezza nazionale minaccia una battaglia. Perché Xi ha ordinato questa accelerazione dirompente? Il Congresso normalmente vive il momento di massimo (se non unico) interesse nell’annuncio dell’obiettivo di crescita. Quest’anno, con la devastazione causata dal coronavirus, i pianificatori di Pechino sembrano incerti, tentati di soprassedere per timore di indicare una previsione di espansione del Pil troppo bassa e deprimente, o troppo alta e irrealizzabile. Riaccendere il fronte Hong Kong potrebbe anche essere un diversivo. Donald Trump ha già reagito minacciando “una forte reazione” americana. O, forse, Xi ha giocato d’anticipo perché a settembre nella City sono in calendario le elezioni per il rinnovo del Legislative Council e i candidati democratici potrebbero rovesciare la situazione, rendendo impossibile l’introduzione della legge cinese.