Il lockdown è finito, “riapriamo” anche le prigioni di Stefano Anastasia Il Riformista, 21 maggio 2020 Riprendono le visite dei familiari, pur con il divieto di contatto fisico. Perché non possono entrare anche operatori, volontari e docenti per far ripartire tutte quelle attività che tengono vive le speranze dei detenuti? Su uno schermo della direttrice, scorrono le immagini delle diciotto postazioni per i colloqui individuali allestite nella Casa circondariale di Rebibbia Nuovo complesso. Una cosa a metà tra le vecchie, chiassose, sale colloqui, con i banconi divisoti e le mani che si toccano, un gruppo familiare accanto all’altro, e le sigillate stanzette per i colloqui dei 41bis, con quel vetro che impedisce ogni contatto fisico. Inizia così la fase 2 nelle carceri italiane. Senza grande entusiasmo per il ripristino dei colloqui in presenza con i familiari (il primo giorno a Rebibbia N.C. erano 36 i detenuti prenotati per il colloquio in presenza, 240 per i video-colloqui), ma con qualche altro timido segnale di apertura: girato l’angolo, nella vecchia casa di reclusione romana è partita finalmente la didattica a distanza per gli iscritti all’esame di maturità, mentre il direttore della Casa circondariale di Cassino comunica che dall’8 giugno vi si potranno riprendere le attività dell’Università cittadina, ivi compreso lo sportello di informazione legale svolto in collaborazione con l’ufficio del Garante regionale. Segni di vita nuova, segni di speranza per il futuro. La grande paura non è passata: il virus è ancora lì, più fuori che dentro, ma anche dentro. Secondo gli ultimi dati resi pubblici dal Garante nazionale, al 15 maggio erano 121 i detenuti positivi, e 4 ne sono morti. Anche in carcere c’è una leggera flessione dei positivi, ma le condizioni di convivenza e promiscuità sono tali che anche un solo caso non tempestivamente individuato può generare un focolaio di infezione, come è stato a Torino, su cui giustamente la Corte europea dei diritti umani ha chiesto al Governo di riferire. Occorre prudenza, quindi, e giustamente il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e quello della Giustizia minorile raccomandano alle Direzioni degli Istituti di informare i detenuti della possibilità di continuare ad avvalersi delle videochiamate. E i detenuti ormai lo sanno bene, cosa è bene e cosa non è bene fare per prevenire la diffusione del virus. Già mi era capitato a Civitavecchia, nei primi giorni di lockdown, di sentirmi fare una lezione su quel che sarebbe stato necessario a una adeguata politica di prevenzione in carcere, e ieri un detenuto spiegava a me e due operatori sanitari dell’Istituto chi, come e perché dovesse usare i dispositivi di protezione individuale in carcere. Qualche giorno fa una sezione dell’alta sicurezza di Frosinone mi aveva scritto anticipando il rifiuto dei colloqui in presenza, finché i familiari non avessero potuto andarci in assoluta sicurezza. Per questo alcune prescrizioni con cui la Direzione generale dei detenuti ha voluto uniformare le modalità di svolgimento dei colloqui, nonostante l’indicazione legislativa di valutare localmente le circostanze epidemiologiche e ambientali, sono apparse eccessive, sommando norme a norme, come l’uso di guanti e mascherine, alle barriere in plexiglas, fino al distanziamento fisico con annesso divieto di contatto. Si parla tanto in ambiente penitenziario di responsabilizzazione dei detenuti: anche in questo caso si poteva fare di più, obbligando certamente i parenti a lavarsi le mani e a indossare la mascherina prima del colloquio, ma consentendo ai congiunti-disgiunti di tenersi per mano (salvo obbligare il detenuto a lavarsele accuratamente prima di rientrare in sezione). Non sarebbero state sufficienti queste poche prescrizioni che anche fuori dal carcere abbiamo imparato a rispettare in ogni momento della nostra vita? Potrebbe sembrare oziosa questa domanda, se non fosse che nasce da un’antica idea di specialità del penitenziario che traspare da molte prescrizioni adottate in questi mesi e che potrebbe lasciarlo nel limbo per un tempo indefinito. La fase 2, abbiamo capito, è quella della convivenza con il virus, in cui si dovrebbe passare dalla “massimizzazione della prevenzione”, esperita durante il lockdown, a cui fanno ancora riferimento le circolari ministeriali, alla “minimizzazione dei rischi”, in cui le necessità (sociali e produttive) della vita civile ci obbligano a correrne, ma con giudizio e soprattutto secondo le norme igienico-sanitarie raccomandate dalle autorità competenti. Nella fase 2 penitenziaria, i colloqui con i familiari erano cosa obbligata. C’è una specifica disposizione di legge, a sua volta tutelata da norme costituzionali e internazionali, che era stata sospesa (suscitando le proteste che sappiamo). Non si poteva fare altrimenti, seppure con tutte le cautele del caso (e con anche qualcuna in più). Ma la fase 2 in carcere non può limitarsi a rari e penalizzati colloqui con i familiari. Detenuti e operatori aspettano qualcosa in più. Me lo diceva ancora quel detenuto incontrato ieri: la chiusura di tutte le attività che comportavano l’accesso dall’esterno di volontari e operatori, la chiusura di intere sezioni, se non delle singole stanze, hanno reso ancora più insopportabile la scansione del tempo vuoto in carcere. La tensione è palpabile e avvertita anche dal personale di sezione, dai poliziotti che tutti i giorni devono far fronte alle richieste e alle frustrazioni dei detenuti. Come fuori, anche dentro la fase 2 deve iniziare, non più nel senso della “massimizzazione della prevenzione”, ma in quello della minimizzazione dei rischi”. Va bene incentivare ancora l’uso delle tecnologie, sia per i colloqui con i familiari che per la didattica a distanza, e sarà bene cominciare a pensarne il consolidamento organizzativo nella fase 3, quella del vaccino e del ritorno a una piena e responsabile libertà individuale. Rotto il tabù, dalla rete e dagli strumenti digitali non si potrà tornare indietro. Ma l’uso delle tecnologie informatiche è il buono che è venuto al carcere dalla fase 1, dal lockdown, dalla “massimizzazione della prevenzione”. Non può consistere in questo la fase 2. Se la fase 2 è ritorno alla vita civile e minimizzazione dei rischi e se in carcere la fase 2 parte dal ritorno in visita dei familiari, deve essere seguita da misure che hanno analogo coefficiente di rischio e che possono fare ripartire la vita in carcere e le speranze dei detenuti. Così come, con tutte le cautele del caso, possono entrare in carcere parenti e terze persone, non si capisce perché non possano farlo operatori di enti e associazioni, docenti e formatori che seguono i percorsi individuali dei detenuti, che consentono loro di conseguire un titolo, di ottenere un documento, di avere un sostegno per il reinserimento sociale. Ci vorrà la fase 3 per la riapertura delle carceri alle città, per gli spettacoli, gli incontri sportivi e quant’altro ha fatto vivere straordinarie giornate di normalità ai detenuti e alle detenute in tante carceri italiane, ma perché - con tutte le cautele del caso, con la mascherina, l’igienizzante per le mani e, se proprio è necessario, con il plexiglas parafiato - un volontario, un operatore di patronato, un tutor universitario domani non può andare a parlare con un detenuto per consigliarlo, seguirlo, sostenerlo? E perché i detenuti che hanno o possono avere un lavoro all’esterno non possono esservi ammessi, magari riservando per loro, come è in molti istituti, apposite sezioni che non li facciano convivere con chi la propria giornata la passa in carcere? Ritornare, progressivamente, alla vita ordinaria, minimizzando i rischi della diffusione del virus, è possibile anche in carcere, scommettendo sul senso di responsabilità di tutti, operatori e volontari, liberi e detenuti. Colombo, Flick, Violante: superare il carcere di Valter Vecellio lindro.it, 21 maggio 2020 Diciamocelo con franchezza: stupisce che, dopo una vita trascorsa nelle aule di giustizia, due ex pubblici ministeri, magistrati cioè che accusano e cercano le prove che “incastrino” un imputato, e lo condannino, dicano che il carcere così com’è, va superato, va abolito; e che lo dica anche un giudice emerito della Corte Costituzionale: comincia la carriera convinto della necessità dell’ergastolo, poi si convince che va abolito; e che anche il carcere bisogna lasciarlo alle nostre spalle. I due magistrati sono Gherardo Colombo, il magistrato che indaga sulla P2 e i fondi neri dell’IRI, sul delitto Ambrosoli, su Mani Pulite milanese; e Luciano Violante, che indaga a Torino contro le Brigate Rosse, poi parlamentare del Partito Comunista, e responsabile per gli affari della Giustizia; il terzo, è Giovanni Maria Flick, tra i suoi mille incarichi, anche ministro della Giustizia nel governo di Romano Prodi. Dice Colombo: “L’idea di mandare in galera una persona mi tormentava, mettendomi davanti a interrogativi insolubili e angosciosi. Ho cominciato a pensare che il carcere non fosse più compatibile con il mio senso della giustizia, la mia concezione della dignità umana, la mia interpretazione della Costituzione. Più che pensare, in realtà sentivo: sentivo tutta l’ingiustizia della prigione. Era ormai intollerabile. Perciò, dopo anni passati a pensarci, ne ho tratto tutte le conseguenze”. Colombo racconta di aver chiesto l’ergastolo una sola volta nella mia vita: “Quando ho saputo che il giudice l’aveva rifiutato, ho tirato un sospiro di sollievo. Ero felice che non mi avesse ascoltato”. Ora dice: “Sono convinto che il carcere, così com’è, è in contrasto con la Costituzione. L’articolo 27 dice che ‘le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità’. Basta mettere piede in qualsiasi carcere, salvo rare e parziali eccezioni, per rendersi conto che le condizioni in cui vivono i detenuti lo contraddicono scandalosamente”. In estrema sintesi, Colombo ha maturato l’idea del “recupero della relazione con chi commette il reato. Senza la disponibilità a ri/accogliere nella collettività chi ha sbagliato, il tessuto sociale strappato dalla trasgressione della norma non si ricucirà mai. Questo significa il perdono: recuperare il rapporto. Non cancellare il male che è stato fatto. Riconoscendo il dolore della vittima e, per quanto possibile, riparandolo. Fermo restando, lo ripeto, che è necessario mettere chi può fare del male agli altri nelle condizioni di non farlo”. Luciano Violante, ora: “Non credo che oggi ci si possa emancipare dal carcere in maniera assoluta. Però sono convinto che possiamo e dobbiamo liberarci dal carcere in maniera relativa, rompendo il monopolio della pena carceraria. Limitando la galera al massimo, e solo ai casi in cui non è possibile fare altrimenti. Già oggi ci sono 53 mila persone che scontano la pena in prigione e 61 mila che la scontano fuori. Bisogna andare ancora più avanti, ancora più a fondo. Riformando l’intera concezione della pena, che è rimasta ferma al Settecento, quando nacquero le istituzioni totali”. Violante osserva che si è ancora fermi “a un’idea antica, secondo la quale chi rompe la fiducia della comunità merita di essere estromesso dalla società, spinto in un luogo ai margini, com’è il carcere”. Occorre al contrario virare su una “concezione moderna: la pena dovrebbe servire a ricostruire la relazione. Già nell’Antico testamento c’è un concetto che è stato sepolto sotto millenni di pratica dell’emarginazione del colpevole. La parola tsedakah viene tradotta con il termine giustizia, ma in realtà significa ‘ristabilire il rapporto’. Riconciliare chi ha infranto le regole della comunità con la comunità stessa”. Carcere come extrema ratio, e non come metodo ‘normale’ per risolvere quello che è percepito come un problema. Così dice Giovanni Maria Flick. Un modello “da superare, perché, in molti casi, non rispetta la dignità del detenuto. Non garantisce quei principi che pure sono scritti, nero su bianco, nell’articolo 27 della Costituzione”. Flick sostiene che il primo impegno è assicurare quelle che definisce “condizioni culturali: la società deve essere in grado di assumersi un rischio. Di accettare che potrebbe accadere che qualche detenuto che sconta la pena in casa torni a commettere reati. Ma si può fare in modo che ciò, tendenzialmente, non accada. O che si verifichi il meno possibile. Innanzitutto non abbandonando il condannato a sé stesso. Poi, perché un modello del genere possa essere messo in pratica, è necessario che la politica la smetta di utilizzare le carceri e il sistema penale come strumento di persuasione e di paura. C’era un tempo in cui la saggezza del nostro sistema consentiva di distinguere l’uomo dal fatto che ha commesso”. Queste riflessioni conducono a un paio di casi concreti. Il primo riguarda Raffaele Cutolo: indubitabilmente uno spietato e sanguinario delinquente. Sulla coscienza decine, forse centinaia di delitti: commessi o fatti commettere. Boss di quella Nuova Camorra Organizzata, organizzazione criminale caratterizzata da una struttura piramidale e paramilitare, basata sul culto di una sola personalità, Cutolo appunto. Lui e la Nuova Camorra Organizzata lungo tutti gli anni Ottanta sono stati protagonisti di una faida senza esclusione di colpi con la Nuova Famiglia e altri clan di camorra. Il sangue scorreva a fiumi, in quegli anni, a Napoli e in Campania. Cutolo è nato il 10 dicembre del 1941, a Ottaviano, vicino Napoli. Oltre due terzi della sua vita li ha trascorsi in carcere. Deve scontare quattro ergastoli, e dal 1995 è sottoposto al regime del 41bis. La sua organizzazione da tempo non esiste più. Molti dei suoi luogotenenti sono morti ammazzati; la sorella Rosetta che è sempre stata al suo fianco, ha 83 anni. Lui quasi 80. È malato, nel febbraio scorso è stato ricoverato in ospedale a Parma per crisi respiratorie. L’hanno poi dimesso ed è tornato in cella. L’avvocato che lo assiste ha chiesto gli arresti domiciliari, motivando la richiesta con il rischio che possa infettarsi di Coronavirus. Istanza respinta, perché secondo il giudice di sorveglianza può essere curato in cella, le sue patologie non sono ritenute esposte a ‘rischio aggiuntivo’, il 41bis gli permette di “fruire di stanza singola, dotata dei necessari presidi sanitari”. Cutolo più volte ha chiesto un’attenuazione del regime carcerario 41bis senza mai ottenere alcuno sconto sulla pena inflittagli. Lo si ritiene depositario di una quantità di verità indicibili, di segreti, relativi a una quantità di misteri degli ultimi quarant’anni. Comunque non sufficienti per evitargli la dura carcerazione a cui è sottoposto da decenni. Evidentemente sono segreti che non fanno più - se mai l’hanno fatta - tanta paura. Forse perché nel frattempo sono morti. Come s’è detto, Cutolo è sicuramente un delinquente colpevole di una quantità di orribili delitti. Ma il 41bis si giustifica con la pericolosità del soggetto che a tale regime viene sottoposto. Come si fa a sostenere che Cutolo, ottantenne, malato, la sua organizzazione distrutta e dispersa, possa ancora costituire un pericolo? Si obietta che attenuare il regime detentivo può costituire un segnale per gli altri boss di Cosa Nostra, ndrangheta o altro: lo Stato cede. In realtà dimostrerebbe di essere forte, autorevole. “Garantire la salute del detenuto, di qualunque detenuto, dall’ex boss al 41bis al detenuto ignoto, è fondamentale, è un atto che ha una efficacia antimafia immediatamente misurabile, perché un carcere che non è democratico, diventa immediatamente un carcere dove comandano le mafie…”. Questo scrive Roberto Saviano, in un commento pubblicato su ‘Repubblica’. Riflessione opportuna, più che fondata. Perché poi si apprende di una storia che non fa ‘notizia’. È la storia di un imprenditore che si chiama Carlo Carpi. È in carcere a Genova, condannato per calunnia, diffamazione e stalking nei confronti di un magistrato sempre di Genova. Non si entra nel merito, si dà per buona la condanna a un anno e dieci mesi di reclusione. Carpi è in carcere dal 1 luglio 2019. Ha dunque scontato quasi undici mesi, metà della pena. La madre di Carpi lancia un appello dettato dai rischi dell’emergenza sanitaria che “si manifesta in modo evidente all’interno delle carceri, dove non è possibile mantenere la distanza di un metro tra detenuti, prescritta dalla legge”. Il procuratore generale della Corte di Cassazione ha invitato tutti i colleghi delle Corti d’Appello a chiedere la scarcerazione per i detenuti che devono scontare meno di tre anni. A Carpi restano undici mesi e si chiede che li possa scontare agli arresti domiciliari. Il tribunale di sorveglianza ha rigettato la richiesta, perché ritiene che Carpi possa reiterare niente meno il reato di diffamazione. Reiterare il reato di diffamazione: come motivazione è piuttosto curiosa. Anche all’interno della cella, e non solo nel chiuso di casa sua, potrebbe diffamare nuovamente il magistrato. Cutolo vecchio, malato, che non è più in grado di far paura a nessuno, resta al 41bis; un detenuto che deve scontare ancora undici mesi per calunnia e diffamazione, non va ai domiciliari e resta in cella perché può riprendere a diffamare all’interno delle mura casalinghe. Carceri: censura e tanatopolitica per “l’umanità a perdere”? di Salvatore Palidda dirittiglobali.it, 21 maggio 2020 Da quando è cominciata la cosiddetta emergenza Covid-19 e ancor di più da quando s’è avuta la famosa rivolta in diverse carceri il silenzio sulla realtà carceraria sembra diventato legge che nessun media infrange. Un dato di fatto: da quando è cominciata la cosiddetta emergenza Covid-19 e ancor di più da quando s’è avuta la famosa rivolta in diverse carceri il silenzio sulla realtà carceraria sembra diventato legge che nessun media infrange, tranne brevi notizie che trapelano quasi per caso e senza rilanci né conferme e malgrado la tenacia dei militanti più resistenti della causa dei detenuti. Certo sarebbe più che mai prezioso che i Garanti regionali e quello nazionale garantissero almeno ogni due tre giorni l’informazione sulla situazione della diffusione del virus nelle carceri, i tamponi fatti e i risultati, le misure di prevenzione effettivamente adottate, ecc. E sarebbe anche prezioso che avvocati e volontari e democratici fra il personale del Dap riuscissero a comunicare regolarmente cosa succede. Siamo costretti a basarci sulle scarne e mozzate notizie trapelate. Ed ecco che ci troviamo davanti situazioni che suscitano tanta inquietudine: come prevedibile nelle carceri il virus circola eccome ma da quanto si capisce si fa ben poco per contrastarne la diffusione. Basti pensare che era stato promesso una sorta di screening a tappeto, cioè tamponi a guardie e detenuti ma pare che il tampone si faccia solo su base volontaria! A rigor di logica visto che l’amministrazione ha ritenuto che la minaccia di contagio potesse arrivare dai famigliari e s’è quindi decretato il blackout dei colloqui e persino dello scambio biancheria e altro, è evidente il principale veicolo di contagio rimasto sono le guardie visto anche che s’è bloccato l’ingresso in carcere di avvocati, volontari ecc. E allora cosa s’è fatto per testare tutto il personale del Dap? Domanda retorica visto che lo stesso vale per l’assenza di tale prevenzione a tappeto fra le forze di polizia e in certi casi persino fra gli operatori sanitari. Esempi: il 20 aprile si scopre che il rischio di contagio all’interno del carcere di Verona è ormai ingestibile, ma dopo non si sa più nulla; a inizio maggio si scopre che nel carcere di Marassi sono stati accertati 17 detenuti e 13 guardie positivi ma poi non s’è saputo più nulla! È stato scritto che il carcere è il luogo in cui il distanziamento fisico è di fatto impossibile e che immancabilmente comunica con l’esterno - innanzitutto attraverso i corpi delle guardie. Ma anziché trarre le ovvie conseguenze di questa banale constatazione cosa s’è scelto? La misura di ennesima punizione/afflizione dei detenuti, ossia la sospensione dei colloqui con i famigliari e persino dello scambio - controllato - di cose fra essi e i detenuti. E poi la gran polemica a proposito della misura sulla parzialissima scarcerazione di un’irrisoria percentuale di detenuti che peraltro non avrebbero più dovuto stare in prigione. Ma ecco che i signori giustizialisti si sono scatenati nel dire che si stavano scarcerando i boss mafiosi. A parte il fatto che in uno stato di diritto democratico anche i boss mafiosi e i terroristi hanno diritti e non sono condannati a morte senza alcun appello. Come ha mostrato Livio Pepino gli scarcerati sono stati tre e non centinaia. E comunque la gara a chi si accanisce di più con una penalità estrema ricorda solo il regime fascista. Ma questo sembra non vada a genio anche a tanti che si dicono democratici. Cosa resta allora da pretendere dai detenuti? Come auspicano alcuni che siano loro stessi a sanificarsi le celle! Che siano loro a cucirsi le mascherine e magari che siano loro a pagarsi il tampone? È questo che si vuole. Oppure che lo si dica esplicitamente che si vorrebbe una bella ecatombe nelle carceri così infine si smaltisce questa umanità a perdere! Non è forse questa la logica che c’è in fondo dietro alla gestione dei morti del Dozza? È la stessa logica della tanatopolitica che oggi spinge i dominanti a lasciar morire anziché lasciar vivere (la biopolitica) i migranti come buona parte dei popoli dei cosiddetti paesi terzi. Salvo a lasciar vivere ma solo per un po’ chi serve nella raccolta dei prodotti ortofrutticoli ma ripetiamolo solo come “usa-e-getta”. E chissà che a qualcuno non venga l’idea di usare i detenuti “bravi”, i “buon selvaggi” per squadre di lavoro coatto, ma anche loro come “usa-e-getta”. Stiamo esagerando? No, se non ci credete provate per un momento a immedesimarvi nel corpo di un detenuto, provate a scambiare lettere e comunicazioni con un detenuto. Pensate: perché non si dà ai detenuti la possibilità di disporre di un cellulare per ogni cella? Che cosa crediate che ne facciano se ne dispongono? Se le polizie vogliono saperlo hanno abbastanza mezzi per monitorarne le comunicazioni cosa che fanno regolarmente come ben sappiamo con le cosiddette intercettazioni che talvolta gli inquirenti trovano preziose. Allora che segreto di pulcinella stiamo coltivando? Spiace ma in Italia i democratici si stanno rivelando alquanto codardi. Avrebbero dovuto gridare e protestare con gran forza per difendere i diritti fondamentali dei detenuti, come degli immigrati, come dei “dannati della terra”. Invece si assiste a un silenzio che di fatto diventa complice e la complicità davanti a una deriva che va verso la tanatopolitica ricorda i momenti più bui della storia. Per fortuna anche fra i detenuti sopravvive la resistenza così come l’istinto anche inconsapevole di voler sopravvivere. Domani si decide sulla revoca dei domiciliari a Pasquale Zagaria di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 maggio 2020 Franco Cataldo ritornerà nel carcere di opera. Domani ci sarà la decisione del tribunale di sorveglianza di Sassari per il ritorno o meno in carcere di Pasquale Zagaria. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ha mandato una nota al tribunale di sorveglianza di Sassari indicando un posto nel reparto protetto del carcere di Viterbo. Ieri intanto, dopo Francesco Bonura, Antonino Sacco e Carmine Alvaro, è stata la volta di Franco Cataldo, prelevato dalla sua abitazione e condotto nel carcere Lorusso Pagliarelli a Palermo, per essere trasferito in quello di Opera, dove stava scontando la pena. Franco Cataldo, 85 anni, è stato condannato all’ergastolo per concorso nel sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo. Ricordiamo che la concessione della detenzione domiciliare a Pasquale Zagaria, era stata decisa il 24 aprile scorso dal giudice Riccardo De Vito, presidente di Magistratura Democratica. Quest’ultimo ha stabilito che Pasquale Zagaria, imprenditore legato al clan dei Casalesi, fratello del super-boss Michele Zagaria, malato di tumore e detenuto al 41bis, non era più nelle condizioni di essere sottoposto a chemioterapia. Sia perché l’ospedale sardo dove era sottoposto alle cure è stato trasformato in reparto Covid, sia per il fatto che non esiste un centro clinico adatto per curarlo. Parliamo della regione Sardegna dove c’è un alto contenuto di reclusi in regime di alta sorveglianza e 41bis. Un luogo dove più volte il Garante nazionale delle persone private della libertà ha sollevato il problema della compressione dei diritti. Non solo quello della salute, ma anche quello dell’affettività visto il luogo complicato da raggiungere dai parenti. In particolar modo il Garante si è concentrato nel carcere di Sassari, quello dove era recluso proprio Pasquale Zagaria. Recentemente il Garante ha reso pubblico l’ennesimo rapporto riguardante le criticità dei penitenziari nella regione sarda e ancora non c’è alcuna risposta da parte del Dap circa i problemi sollevati. Il rapporto si riferisce alla visita effettuata l’estate scorsa. E ancora una volta ha dovuto evidenziare la persistente mancanza di un “Servizio di assistenza integrato” (Sai) destinato alle persone detenute nei circuiti di “Alta sicurezza”, in tutto il territorio della Sardegna e, per altro verso, il problema della distanza dai familiari sono all’origine delle numerose richieste di trasferimento, anche temporaneo, provenienti dalla popolazione detenuta in regime AS1 e AS3 che ne lamenta la ricorrente reiezione. Mentre ci si straccia le vesti per la detenzione domiciliare per gravi motivi di salute concessa a chi si è macchiato di reati mafiosi, ci si dimentica che - al contrario - alcune sono morte proprio per il ritardo di tale concessione, nonostante l’intervento del Garante stesso. Proprio nel rapporto si cita il caso particolare, oggetto di reclamo inviato al Garante nazionale, che ha riguardato l’ergastolano ostativo Mario Trudu “per il trattamento della cui patologia - si legge nella relazione - è stato interessato il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria sin dal 10 maggio 2019 e che, dopo un reiterato e continuo scambio di richieste di delucidazioni e informazioni, non era ancora risolto alla data della visita del Presidente del Garante nazionale (8 novembre 2019)”. Si legge che la stessa disposizione del magistrato di sorveglianza di trattamento in detenzione domiciliare speciale per motivi sanitari giaceva inapplicata e si era in attesa di una nuova definizione che favorisse il ricovero. Il Garante nazionale aveva chiesto di essere informato sugli esiti della procedura avviata. Poi, come sappiamo, c’è stato un seguito. Dopo aver vinto la battaglia per curarsi fuori dal carcere, dove ha vissuto per 41 anni per scontare la pena all’ergastolo ostativo, Mario Trudu, 69 anni di Arzana, è morto a ottobre scorso all’ospedale di Oristano. Trudu aveva ottenuto poco prima il differimento pena per motivi di salute ma dopo il ricovero non era riuscito a tornare a casa. Da tempo immemore la difesa aveva chiesto i domiciliari, il Dap non aveva nemmeno trovato una soluzione adeguata e proprio per questo era intervenuto anche il Garante Nazionale. Ma nessuno si è indignato, nessuno ha chiesto le dimissioni dell’ex capo del Dap Basentini o del ministro Alfonso Bonafede. Evidentemente le indignazioni vengono veicolate solamente quando scatta la detenzione domiciliare proprio per garantire il diritto alla salute. Nel rapporto si legge che il Garante nazionale, rilevando che le peculiarità della collocazione delle persone detenute in alta sicurezza in istituti della Sardegna, rischia frequentemente di determinare la compressione di diritti fondamentali quali quello alla salute, al mantenimento delle relazioni affettive, all’accesso a piani trattamentali individualizzati, all’espressione della propria pratica religiosa, “raccomanda al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria la considerazione soggettiva delle persone assegnate a Istituti della Sardegna in funzione della collocazione più consona ai singoli percorsi riabilitativi e la valutazione delle richieste di trasferimento, anche temporaneo, in termini tali da non pregiudicare i diritti fondamentali della persona in favore di esigenze di sicurezza altrimenti perseguibili”. Ma è passato un anno e ancora nessuna risposta. Morte in carcere di Provenzano, Renzi dimentica la condanna della Cedu di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 maggio 2020 La rivendicazione della morte al 41bis del boss. Nell’ottobre 2018 è stata contestata la violazione dell’art. 3, dopo la proroga del carcere duro qualche mese prima che morisse. “Nel 2016, quando ero presidente del Consiglio, l’allora Guardasigilli, il bravo Andrea Orlando, mi disse: “Abbiamo un problema, sta morendo Bernardo Provenzano. Ci viene chiesto di farlo morire a casa”. Noi che siamo per la giustizia e per il buonismo abbiamo preso un impegno: garantire a Provenzano e Riina il massimo delle cure possibili perché noi eravamo, siamo e saremo lo Stato. Ma Bernardo Provenzano e Totò Riina sono morti in carcere perché quello era il loro posto e questo non è buonismo, questa è giustizia”, ha tuonato ieri Matteo Renzi, leader di Italia Viva, annunciando che non avrebbe votato la mozione di sfiducia nei confronti del Guardasigilli. Nel farlo ha rivendicato che è stato lui a decidere che Provenzano morisse al 41bis. Giustizia? No, in realtà è stata una ingiustizia secondo la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Infatti nell’ottobre del 2018 la Cedu ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3, ovvero per pena o trattamento inumano o degradante. La violazione è riferita al provvedimento di proroga del regime del 41bis emesso nei confronti di Bernardo Provenzano il 23 marzo 2016, qualche mese prima della sua morte, avvenuta il 13 luglio 2016. In particolare la Cedu, accogliendo solo parzialmente una delle doglianze formulate dal ricorrente, ha motivato la riconosciuta violazione del divieto di pene o trattamenti inumani o degradanti facendo riferimento alla insufficiente valutazione, nel provvedimento di proroga, del deterioramento delle funzioni cognitive del detenuto. Infatti, hanno rilevato i giudici di Strasburgo, “la gravità della situazione avrebbe richiesto non solo una più dettagliata e attenta motivazione delle ragioni in favore della proroga, ma anche la necessaria valorizzazione del progressivo deterioramento delle funzioni cognitive del ricorrente”. Nel decreto di proroga firmata dall’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando, invece, non vi è alcuna valutazione autonoma di tale situazione di salute, ma solo due riferimenti alle relazioni della Dna e della Dda di Palermo, che a loro volta si basavano su valutazioni non aggiornate della situazione cognitiva di Provenzano. La ragione della violazione dell’art. 3, dunque, risiedeva nel non aver dimostrato, nel provvedimento ministeriale, che il ricorrente, nonostante lo stato di deterioramento psichico, sarebbe stato in grado di comunicare con l’associazione, qualora fosse stato collocato in regime ordinario. Quindi non c’entra il buonismo, ma il rispetto dei diritti umani. Se finora il 41bis è passato al vaglio della Cedu e della Consulta è grazie a chi, con coraggio e senso di responsabilità, ha evitato condanne di questo tipo. Altre ingiustizie del genere, come quelle rivendicate da Renzi, e il 41bis rischia l’incostituzionalità. Non vendetta, ma giustizia: bene che i mafiosi tornino in carcere di Maurizio Patriciello Avvenire, 21 maggio 2020 Il popolo italiano non chiede vendetta per i mafiosi, ma chiede di essere tutelato e difeso dalla minaccia che rappresentano. Ho sentito dire da illustri parlamentari, che ai “pentiti” non credono, che le confessioni di questi ultimi sarebbero non solo inutili, ma devianti, dannose. E il pensiero è corso subito al magistrato Giovanni Falcone e Tommaso Buscetta, il mafioso “pentito” che gli permise di entrare nelle viscere della mafia. Le parole vanno pesate sempre, soprattutto in Parlamento. Sarebbe un pessimo affare se a causa del reo, l’ombra del sospetto dovesse cadere sull’innocente. Una pagina di storia recente. Giuseppe Di Matteo, un ragazzino di 13 anni, viene rapito a Palermo, su ordine Giovanni Brusca, braccio destro del capo di Cosa nostra, Salvatore Riina. È il 23 novembre del 1993. Il bambino viene tenuto prigioniero per più di due anni, in diversi covi che gli amici di Brusca mettono a disposizione. Alla fine verrà portato in un bunker nelle campagne di San Giusppe Jato. Il rapimento ha lo scopo di costringere Santo, il papà di Giuseppe, collaboratore di giustizia, ed ex amico di Brusca, a fare marcia indietro. Santo non cede. Pur conoscendo la ferocia di cui è capace Brusca, rimane fermo nella sua decisione. Undici gennaio 1996, Brusca decide di disfarsi del ragazzo. Affida l’incarico a suo fratello Enzo, e a due dei suoi scagnozzi più fidati, Vincenzo Chiodo e Giuseppe Monticciolo. Giuseppe viene strangolato senza pietà, il suo corpo verrà sciolto nell’acido. Si rimane senza parole. Basiti. Sbigottiti. Senza una fitta rete di complici pronti a obbedire, Brusca non avrebbe potuto arrivare a tanto. Ho conosciuto Santino Di Matteo. Sono stato nel sotterraneo di San Giuseppe Jato. Ho visto l’orrore di centinaia di studenti mentre, in fila, scendevano nel covo. So con certezza che gli italiani onesti altro non chiedono che vivere serenamente, senza doversi guardare continuamente le spalle e senza rinunciare alla propria dignità. Lo Stato è responsabile della nostra incolumità, della nostra serenità. Rimettere in libertà, per motivi di salute o per problemi inerenti allo stato delle carceri, i mafiosi ci mette inquietudine (mentre resta giusto e doveroso che siano adeguatamente curati). Pensiamo ai testimoni di giustizia, che hanno avuto il coraggio di denunciare i mafiosi e poi se li ritrovano in libertà. Occhi negli occhi, signori. Non giochiamo a moscacieca. Se dall’interno delle carceri costoro riescono a comunicare con l’esterno, addirittura a mantenere le redini del comando, possiamo solo immaginare di che cosa sarebbero capaci stando ai domiciliari. Queste cose le sanno tutti, non solo i magistrati e le forze dell’ordine. Abbiamo paura. Possiamo dirlo, apertamente, senza doverci vergognare? E siamo anche irritati, perché, alla fine, chi paga il prezzo più alto sono proprio le persone oneste che lo Stato ha l’obbligo di tutelare. Se, come ha detto il ministro Bonafede, ci “sono leggi in vigore da 50 anni e che nessuno ha mai cambiato”, in base alle quali i giudici si vedono costretti a scarcerare i detenuti, vuol dire che il problema è cronico. Oggi non si tratta di trovare il capro espiatorio. Non servirebbe a niente. Si tratta invece di fermarsi, guardarsi negli occhi, chiedere perdono agli italiani, ai familiari delle vittime innocenti, evitare di approfittare di questa crisi e - insieme - cominciare a pensare a leggi che non permettano più a mafiosi, terroristi, camorristi, di avere sconti o favori. Sono contento che il mafioso Franco Cataldo, dopo essere stato scarcerato, ritorni in carcere (ripeto: non per vendetta). Fu proprio lui, insieme a Gaspare Spatuzza, a tendere la trappola per sequestrare il piccolo Giuseppe. Gli italiani non capiranno perché uomini così, criminali di alto rango, che non danno segni di pentimento, debbano ritornare a casa. Occorre pensare a soluzioni alternative. Chiarezza, coerenza, bontà, sete di giustizia, desiderio di normalità ci accompagnano. E mentre ci prepariamo a commemorare la strage di Capaci, vogliamo ricordare lo stillicidio del sacrificio disumano cui fu sottoposto un bambino di 13 anni, tenuto prigioniero per 779 giorni, strangolato e sciolto nell’acido. L’Italia che non dimentica rende omaggio al piccolo Giuseppe Di Matteo. Le accuse di Bonino, i malumori di Fi. Poi Italia Viva salva Bonafede di Carmelo Lopapa e Liana Milella La Repubblica, 21 maggio 2020 Respinte al Senato le mozioni di Lega e +Europa contro il ministro della Giustizia. I vertici 5S fanno quadrato ma gli ex Paragone e Giarrusso lo attaccano. Il premier in aula, il pd Marcucci: ora discontinuità. Sulle carceri allusioni alla trattativa Stato-mafia. Lascia Palazzo Madama col sorriso di chi l’ha scampata. Ancora una volta. “Mi manca il rapporto con gli studenti, coni giovani dell’Università”, scherza coi cronisti il premier Giuseppe Conte. Ma è l’ironico bluff di chi non ha alcuna intenzione di mollare la presa e tornare a Firenze. In quei minuti, le votazioni che avrebbero portato da lì a poco alla bocciatura delle due mozioni di sfiducia contro il Guardasigilli Alfonso Bonafede - quella del centrodestra e quella che porta la prima firma di Emma Bonino - sono ancora in corso. L’esito però lo ha già scritto nel suo intervento Matteo Renzi. “Voteremo contro, ma lei sia ministro della Giustizia e non del giustizialismo”, è la conclusione. Al fianco di Bonafede, al banco del governo, c’è il premier e tutto lo stato maggiore del M5S, a conferma della della portata del rischio: Di Maio, D’Incà, Crimi, Fraccaro. Espressioni contratte, che si scioglieranno solo all’esito del voto. Quando il responsabile della Farnesina rompe ogni prescrizione sanitaria e stringe felice la mano di Bonafede. È fatta. Le due mozioni, nate in seguito al caso Di Matteo, alla rivolta delle carceri e alle scarcerazioni dei boss, sono respinte. Quella del centrodestra incassa 160 no, 131 sì e un astenuto. Quella promossa da Emma Bonino e da una parte di Forza Italia (Renato Schifani in testa), bocciata con 158 no, 124 sì e 19 astenuti. Ma il risultato non spegne il vulcano attivo grillino, tornato anzi in ebollizione. Chi è già con un piede fuori sputa veleno e minaccia di passare alla Lega portandosi dietro l’ala destra del Movimento. Mario Giarrusso vota per la sfiducia e si distingue per un “vaffa” urlato alla presidenza del Senato, stigmatizzato dalla Casellati, con lui che precisa: “Era rivolto a Faraone” capogruppo di Italia Viva. Gianluigi Paragone è durissimo col “ministro, che deve spiegare: ha tradito Di Matteo, era il nostro faro”. Sono già fuori, i due. E a un passo dalla Lega, stando alle voci di Palazzo. Applauditi, in effetti, da quei banchi. Il capogruppo dem Andrea Marcucci “grazia” il ministro ma invoca a nome del partito, adesso, “un cambio di passo” sulla giustizia. La sensazione è che sia ripreso il circo Barnum di sempre. Solo le mascherine dei senatori a dare una parvenza di connessione con la storia che scorre là fuori. Si torna a scontrarsi sulla giustizia come a inizio anno sulla prescrizione. Come nulla fosse successo. Le urla, i buuh. Pier Ferdinando Casini che interviene per dire quanto sia surreale discutere di due mozioni di sfiducia al ministro che siano l’una l’opposto dell’altra, la prima che lamenta i boss fuori dal carcere, l’altra i troppi carcerati. C’è la voce tremante di Emma Bonino a far calare il silenzio: “Chiediamo le sue dimissioni perché non vogliamo un ministro del sospetto, la giustizia non può essere un mezzo di lotta politica o di moralizzazione civile”. Scoppia soprattutto un caso tra i berlusconiani. Assenti al voto delle mozioni Lonardo, Perosino, Sciascia e Stabile. Presenti non votanti Quagliariello, Romani, Berrutti, Cangini. Un segnale. “Perché siamo stanchi di ritrovarci appiattiti sulle posizioni della Lega, trascinati a destra dal duo Bernini-Gasparri: sulla mozione come sulla manifestazione del 2 giugno, alla quale la metà di noi non andrà”, afferma un ex ministro forzista estraneo agli otto. Anche lì, le voci di nuovi esodi, dopo quello di Francesco Scoma approdato a Iv e di Antonio Germanà, si moltiplicano. Salvini si limita a sparare a pallettoni fuori dall’aula: “Vi ringraziano i 500 boss scarcerati e i 500 mila clandestini sanati”. Dentro, fa parlare Giulia Bongiorno: “Ministro, cosa intende fare dopo la dichiarazione del pentito Mutolo secondo il quale la scelta di non destinare Di Matteo al Dap è stata la ripercussione della trattativa Stato-mafia?” Il ministro, nell’arringa difensiva, taglia netto: “Non ci furono condizionamenti” perché l’idea era di farne il suo Falcone al ministero. Nomina sulla quale irrompe anche Renzi, mandando “espressioni di saluto e stima per Napolitano”. Dando così eco al tam tam che ricondurrebbe il veto a Di Matteo alle intercettazioni (poi distrutte) che, nel processo Stato-mafia, registrarono anche la voce dell’ex presidente della Repubblica. Allusioni, veleni, tutto è tornato come prima. Renzi salva Bonafede. E ora tutta la maggioranza chiede un cambio di passo di Rocco Vazzana Il Dubbio, 21 maggio 2020 Alla fine prevale il pragmatismo politico. Le parole guerriere della vigilia si son trasformate in più miti dichiarazioni di pace e Alfonso Bonafede rimane al proprio posto. “Ho sempre rigettato l’idea di una giustizia divisa tra giustizialismo e garantismo”, commenta lo scampato pericolo il ministro. “La stella polare è la Costituzione. Importante che maggioranza abbia trovato sintesi”. Le due mozioni di sfiducia, una presentata dal centrodestra e una da +Europa vengono respinte dall’Aula del Senato: la prima con 160 contrari e 131 favorevoli, la seconda con 158 no e 124 sì. Matteo Renzi cede alla ragion di Sato e pur marcando le differenze tra la sua visione garantista e quella manettara grillina, sceglie la via della prudenza. “Il presidente del Consiglio ha detto che in caso di sfiducia al ministro Bonafede avrebbe tratto conclusioni politiche”, spiega a Palazzo Madama l’ex premier. “In questi casi il presidente del Consiglio si rispetta e si ascolta: presidente, lei si assume la responsabilità e noi la seguiamo”, dice Renzi, senza però rinunciare alla polemica: “Se votassimo con il metodo usato da lei nella sua esperienza parlamentare nei confronti dei membri del governo lei oggi dovrebbe andare a casa: Alfano, Guidi, Boschi, Lupi, Lotti, De Vincenti. Ma noi non siamo come voi”, sottolinea il leader di Italia Viva, deludendo probabilmente una parte dell’opposizione che contava sui voti renziani per la spallata definitiva al governo. Renzi opta per una ritirata strategica nella speranza di poter condizionare d’ora in avanti le scelte del governo, in materia di giustizia ed economia, in maniera molto più efficace. “Bonafede amministri la giustizia, non il giustizialismo e ci avrà al suo fianco”, conclude l’ex premier, mettendo di fatto nel mirino uno dei provvedimenti chiave dell’era pentastellata: la riforma della prescrizione. Il ministro della Giustizia e il capo del governo Conte sanno perfettamente che da domani si aprirà un confronto aspro in maggioranza per rimettere mano a una riforma, passata in epoca giallo-verde, che secondo tutti gli alleati lede il principio costituzionale della ragionevole durata del processo. In questa crociata, infatti, Renzi non sarà solo. Anche il Pd, che fin dal primo momento ha assicurato lealtà al ministro della Giustizia, in Aula perde l’occasione di chiede al Guardasigilli un atto di discontinuità rispetto al passato. “Lei è stato ministro anche nel precedente governo, ha votato con la Lega lo spazza-corrotti, ha abolito la prescrizione dopo il primo grado, ha buttato il lavoro fatto dal ministro precedente sulle carceri e sul processo”, mette in chiaro il senatore dem Franco Mirabelli, “Ora è ministro di un governo diverso, la discontinuità con quello precedente deve essere maggiore di quanto è stata finora”. Su questo il Pd non solo “è disponibile”, ma è anche “esigente”. Insomma, la fiducia ha un prezzo. E il ministro prova ripagarlo, annunciando l’istituzione di una “Commissione ministeriale di approfondimento e monitoraggio dei tempi che permetta di valutare l’efficacia della riforma del nuovo processo penale e civile. La garanzia e la tutela della difesa sono due valori imprescindibili”. Bonafede prova a rispondere, punto per punto, a ogni accusa mossa dalle opposizioni come dagli alleati. A cominciare dalle voci, messe in circolazione da Nino Di Matteo, secondo cui il ministro della Giustizia gli avrebbe negato la guida del Dap su pressioni mafiose. Non ci fu alcun condizionamento nella nomina di Francesco Basentini, ripete per l’ennesima volta l’esponente grillino. “Non sono più disposto a tollerare alcuna allusione o ridicola illazione”. Quanto a Di Matteo, a cui Bonafede aveva offerto la direzione degli Affari penali di via Arenula al posto del Dap, il ministro è convinto che avrebbe potuto dare un segnale forte alla mafia, che “non va a guardare gli organigrammi, ma avrebbe visto Di Matteo lavorare al fianco del ministro della Giustizia”. È falsa, per Bonafede, anche “l’immagine di un governo che avrebbe spalancato le porte delle carceri addirittura per i detenuti più pericolosi. I giudici che hanno scarcerato i detenuti in questi ultimi mesi lo hanno fatto in base a leggi in vigore da 50 anni e che nessuno aveva mai cambiato”. Il ministro supera la prova del fuoco e chi ne chiedeva la rimozione accetta la sconfitta. Soprattutto Emma Bonino, autrice di una mozione di sfiducia garantista che aveva indotto in tentazione i renziani. “Chiediamo le sue dimissioni non perché lei è sospettato ma perché non vogliamo un ministro della giustizia che sia il rappresentante della cultura del sospetto”, dice Bonino, intervenendo in Aula. “Pensiamo che la giustizia sia una istituzione di garanzia dei diritti dei cittadini, imputati e condannati compresi, non un mezzo di lotta politica, di rivoluzione sociale o di moralizzazione civile”, insiste la leader di +Europa. Di tenore completamente diverso, la mozione bocciata del centrodestra, che puntava l’indice contro le scarcerazioni dei detenuti in fase di emergenza Covid. “Mercato di poltrone fra Pd, Renzi e 5 Stelle”, commenta su Twitter Matteo Salvini. “Ringraziano i 500 mafiosi e delinquenti usciti dal carcere e i 500.000 clandestini che aspettano la sanatoria, non ringraziano gli Italiani. Insieme a voi li fermeremo”. Ma anche per oggi dovrà aspettare la prossima occasione. Bonafede piega Renzi, la discontinuità è lui di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 21 maggio 2020 Bocciate le mozioni di sfiducia, Iv vota contro “perché Conte ha minacciato la crisi” e incassa toni più soft e promesse sugli incarichi. “La commissione per monitorare gli effetti della prescrizione e le riforme per accelerare i processi erano già previste - dice il sottosegretario Pd Giorgis - ora bisogna farle”. Il cielo grigio di Roma minaccia un temporale che non arriva, nell’aula del senato la crisi a cui nessuno aveva creduto dura un paio di minuti. Il tempo che impiega Renzi per spiegare che, anche condividendole, non voterà le mozioni di sfiducia al ministro Bonafede presentate dalle opposizioni. Perché “il presidente Conte ha detto chiaramente che lui ne avrebbe tratto le conseguenze politiche. E quando parla il presidente del Consiglio si rispetta istituzionalmente e si ascolta politicamente”. Fosse così, sarebbe la prima volta che Renzi ascolta sul serio Conte. Ammesso che Conte abbia mai annunciato “chiaramente” le sue dimissioni in caso di sfiducia a Bonafede. In pubblico non lo ha mai fatto. Può averlo fatto in privato martedì ricevendo Maria Elena Boschi, nell’incontro dedicato a trattare su piani diversi dalla giustizia come si vedrà più avanti. Del resto, che il governo sarebbe andato in crisi se una parte della maggioranza avesse sfiduciato il ministro era talmente ovvio che Renzi non può averlo scoperto ieri. Di certo lo sapeva anche quando la mozione di sfiducia voleva presentarla lui. Al termine delle lunghe procedure di voto imposte dalle regole di sicurezza sanitaria - i senatori entrano in aula un po’ alla volta - sono bocciate sia la mozione del centrodestra che quella con prima firmataria Emma Bonino. A sorpresa risulta più pericolosa per il governo la prima, nella quale i 17 senatori di Italia viva si dimostrano decisivi. Numeri più bassi per la mozione “garantista”, ma Renzi si impegna a spiegare che “se avessimo votato a favore di questa mozione, i senatori di Fratelli d’Italia ci avrebbero seguito dunque siamo stati decisivi anche in questo secondo caso”. Che il governo stia in piedi grazie a Italia viva serve al senatore di Rignano per rivendicare le contropartite. Che non riguardano la giustizia, lo dice chiaramente: “Abbiamo molto apprezzato la decisione sull’Irap, l’appoggio alla ministra Bellanova, l’accelerazione sulle riaperture”. Poi ci sono le promesse a Iv per la girandola delle presidenze delle commissioni parlamentari. Sulla giustizia bisogna accontentarsi delle sfumature nel discorso di Bonafede, accompagnato in aula dal presidente del Consiglio e dai capi delegazione Franceschini, Speranza, Bellanova e da Di Maio a sottolineare la solennità del passaggio. Il ministro riconosce adesso il suo dovere di fare “sintesi” tra “le differenze culturali e politiche” di “un governo di coalizione”, cosa che fin qui non ha fatto. Anche se difende tutto il suo operato “in questi due anni”, il primo dei quali trascorso sotto braccio a Salvini. Concede, il ministro, l’urgenza della riforma del processo penale (il testo del disegno di legge delega è alla camera) “per avere tempi certi”. E che “la ragionevole durata del processo è un diritto” così come “il diritto alla difesa”. Accoglie, almeno nelle intenzioni, la spinta che arriva dal Pd perché si stringa anche sulla riforma del Csm: non solo un nuovo sistema di voto ma anche nuove regole per la disciplinare e le valutazioni professionali dei magistrati. E sulla prescrizione “sarà importante istituire una commissione ministeriale di approfondimento e monitoraggio dei tempi”. Renzi la sbandiera come un suo successo e già si intesta la presenza a quel tavolo del presidente dell’Unione camere penali Caiazza (assai critico con il ministro), ma l’avvocato in virtù del suo ruolo ci sarebbe stato comunque. Il Pd sostiene infatti che nessuna di questa promesse è una novità “A febbraio, durante i confronti sulla riforma del processo penale, avevamo condiviso la necessità di introdurre istituti giuridici in grado di scongiurare il rischio di una durata illimitata del processo”, spiega il sottosegretario alla giustizia Andrea Giorgis. E aggiunge che “avevamo anche previsto l’istituzione di una commissione ministeriale per monitorare gli effetti dell’interruzione della prescrizione dopo il primo grado. Una riforma, approvata dai 5 Stelle con la Lega, che non abbiamo mai considerato un punto di arrivo. Abbiamo sempre detto che il sistema così non è in equilibrio”. Così la senatrice dem Rossomando nella dichiarazione di voto spinge sulla richiesta di “discontinuità”. Ma deve anche accontentarsi, per esempio quando dichiara di “apprezzare il suo richiamo, ministro, alla normativa degli anni Settanta sull’ordinamento penitenziario”. In realtà Bonafede aveva fatto il contrario, dando alla storica riforma del 1975 la colpa delle scarcerazioni dei boss mafiosi. Sul carcere la ricetta del ministro non sembra cambiata: per combattere il sovraffollamento assicura che costruirà nuove prigioni “per 5mila posti”. Sulle manette non è certo Renzi a sfidarlo, che anzi conclude la sua professione di garantismo attaccandosi al petto la medaglia del vendicatore: quando guidava lui “Provenzano e Riina sono morti in carcere, quello era il loro posto”. Guardasigilli? No, lei è il ministro del sospetto e delle manette di Emma Bonino* Il Riformista, 21 maggio 2020 Abbiamo intitolato la mozione a Enzo Tortora per contrapporre con chiarezza la nostra idea di giustizia alla sua: per lei contano solo le manette. A quanti mi diranno che non si può sfiduciare il Ministro Bonafede per non mettere a rischio il Governo, mi limito a ricordare che oggi si discute di altro e cioè di quale politica per la giustizia serva all’Italia E mia profonda convinzione che se la continuità del Governo dovesse significare la continuità della politica della giustizia, signor ministro Bonafede, che lei ha praticato, l’Italia non ne avrebbe nessun giovamento, neanche nei dati della ripresa che vogliamo affrontare. Non può essere l’unica risposta, cari colleghi, il fatto che non si può far cadere il Governo. lo sto ponendo una questione di mele e voi mi rispondete arance. Ma vi sembra una risposta? Ora, è bene, secondo me, che ciascuno affronti il dibattito senza arroganza, senza reticenza e ci proverò. La ragione della nostra posizione è rappresentata dalla distanza letteralmente siderale tra quello che noi pensiamo della giustizia e ciò che lei ha dimostrato di pensare. A questo pensiero condiviso da molti colleghi provo a dare voce. Noi pensiamo che la giustizia sia un’istituzione di garanzia dei diritti dei cittadini, imputati e condannati compresi, non un mezzo di lotta politica, di rivoluzione sociale, né tantomeno di moralizzazione civile. Non crediamo che la logica dell’emergenza e dell’eccezione ai principi dello stato di diritto possa meritare il nome di giustizia. Non ci rassegniamo all’idea che la giustizia sia semplicemente la pretesa punitiva dello Stato e che qualunque mezzo possa essere giustificato al servizio solo di questo fine. L’ipocrisia e la malafede di chi confonde la richiesta di garanzie per tutti con la pretesa di impunità dei colpevoli, facendoli coincidere con tutti i sospettati, e considera il sospetto l’anticamera della verità, non ci appartengono. Ora, signor Ministro, il sospettato è diventato lei e a diffondere il sospetto è stato un magistrato cui lei aveva proposto incarichi pare importanti in via Arenula, in uno scontro che è tutto interno al partito a cui lei appartiene e di cui dall’esterno possiamo cogliere allusioni e messaggi in codice tutt’altro che trasparenti. C’è oggi chi le dice delle cose, ritorcendo contro di lei le sue stesse parole. Quattro anni fa lei disse che, se c’è un sospetto, anche chi è pulito deve dimettersi. Se lo ricorda? No? Peccato. Come tutti i propagatori della cultura del sospetto, non immaginava un giorno di diventarne vittima Chiediamo le sue dimissioni per la ragione esattamente opposta: non perché lei è sospettato, ma perché non vogliamo un Ministro della giustizia che sia il rappresentante della cultura del sospetto. Due giorni fa è stato il trentaduesimo anniversario della morte di Enzo Tortora. Egli è stato compagno di lotta straordinario in quella battaglia per la giustizia giusta, che non era un auspicio, ma un programma di riforme concrete per rendere il potere giudiziario coerente con i principi del diritto e la salvaguardia della libertà dei cittadini. Ma non c’è una sola di quelle riforme che lei non abbia avversato, contraddetto e ribaltato secondo i canoni del più estremistico populismo penale. Ho scelto, d’accordo con alcuni firmatari, di intitolare la mozione a Enzo Tortora, ma non per ragioni simboliche - tantomeno retoriche - quanto per contrapporre con chiarezza e precisione un’idea della giustizia a un’altra. Non starò a ripetere i punti della mozione che altri colleghi illustreranno meglio di me, ma posso citare la prescrizione, il fine processo mai, il diritto alla difesa, il processo penale, le intercettazioni ampliate a dismisura e le pene detentive. Se dovessi esprimere il punto in cui la nostra idea di giustizia e la sua più divergono è esattamente nell’idea che la giustizia coincida con le manette, la pena con la galera e la forza del diritto con quella che Leonardo Sciascia chiamava la terribilità. E non voglio tacere sulle condizioni terribili delle carceri. Ci sono state, riprese anche qui, infinite polemiche sulla scarcerazione dirotti - a quanto pare - i boss detenuti. Signor collega, le comunico, come lei ben sa, che i boss al 41bis scarcerati sono 3, di cui 2 malati e ultraottantenni. Dico questo per essere chiari. Le dico anche che nella lista dei 300 - 400 detenuti scarcerati, oltre 120 non hanno mai avuto neanche il primo grado di processo e altri 200 non hanno mai avuto condanne definitive E se voi siete contenti che un giornalista spari in prima serata l’elenco (nome e cognome, senza neanche la data di nascita), a me questo fa paura, perché tanti possono essere i casi di omonimia e tante persone possono finire in questo macello giudiziario. Ieri nelle carceri italiane c’erano ancora 21.000 detenuti in attesa di giudizio, il 40 per cento del totale. Vi sembra possibile? Lei così non governa le carceri, ma paga semplicemente una tangente ideologica al populismo penale, anzi al populismo penitenziario. E lei sa che, tra gli altri che rimangono, più di 17.000 hanno meno di due anni da scontare e 8.000 solo un anno; quindi tra un anno saranno comunque fuori. Io non so, signor Ministro, cosa succederà; lo scopriremo presto. Sappiamo però che della malattia della giustizia italiana lei è solo un sintomo e non un rimedio; quindi non sarà lei a liberarcene. Al contrario, se rimarrà in via Arenula, contribuirà a renderla cronica, diffondendo come sentimenti prevalenti non la fiducia, ma la paura della giustizia. In conclusione dov’è finita la riforma penale? Mi dica anche dov’è finita la promessa riforma del Consiglio superiore della magistratura, così tanto in prima pagina, e non per buone ragioni, in questi giorni. Basta tutto questo, per me, per dire che voglio ima giustizia che non faccia paura ai cittadini, ma restituisca loro la fiducia nel giusto processo e nella corretta amministrazione. *Stralcio dell’intervento tenuto da Emma Bonino ieri a Palazzo Madama per illustrare la propria mozione di sfiducia al ministro della Giustizia Bonafede È legittimo il carcere per i giornalisti? A giugno decide la Corte Costituzionale di Lino Zaccaria ladiscussione.com, 21 maggio 2020 La questione è antica ed ha evidenti riflessi sull’assetto democratico del nostro Paese: i giornalisti condannati per diffamazione devono andare in carcere? La minaccia della reclusione contrasta con il principio della libertà dell’informazione, sancito dall’articolo 21 della Costituzione? Il quesito non è di poco conto, perché è chiaro che un giornalista che sa di correre il pericolo di poter finire in gattabuia diventa meno libero e più condizionato. Ed è un quesito talmente pregnante che è finito dinanzi al giudizio della Consulta. Che il 9 giugno prossimo deciderà appunto se è o no legittimo il carcere per i giornalisti condannati in via definitiva per diffamazione aggravata a mezzo stampa. La presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia, accogliendo a tempo di record un’istanza presentata dall’avvocato Giuseppe Vitiello di Napoli per conto dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti, ha fissato l’udienza pubblica con ripresa tv (i precedenti appuntamenti del 21 e 22 aprile erano stati rinviati per l’emergenza da Coronavirus-Covid 19) in cui sarà per la prima volta esaminata a palazzo della Consulta una questione di fondamentale importanza per la libertà di stampa nel nostro Paese, sollevata un anno fa sia dal tribunale di Salerno, sia dal tribunale di Bari - sezione di Modugno. Il problema si trascina da molto più di una ventina di anni e ha diviso la magistratura e il Parlamento. In tutti questi anni sono stati versati fiumi d’inchiostro. Tutti i disegni di legge sinora presentati alla Camera e al Senato non sono mai giunti a conclusione e si sono insabbiati prima della fine di ogni legislatura. E anche quelli attualmente all’esame di palazzo Madama fanno un passo avanti e due indietro. Insomma negli ultimi 40 anni tutte le promesse di riforma della diffamazione da parte dei politici si sono rivelate da marinaio senza mai concludere nulla. Intanto il 5 maggio scorso su segnalazione dell’AEJ - Association of European Journalist, che era stata sollecitata dall’Associazione Ossigeno per l’informazione, è stato pubblicato l’alert sulla Piattaforma del Consiglio d’Europa per la protezione del giornalismo e la sicurezza dei giornalisti con cui si chiede formalmente al Governo italiano di chiarire la sua posizione sulla legittimità del carcere in caso di condanna penale definitiva di un giornalista per diffamazione aggravata a mezzo stampa. La Presidenza del Consiglio, infatti, si è formalmente costituita davanti alla Corte Costituzionale e per di più con l’insolita assistenza di due avvocati dello Stato (fatto abbastanza raro che avviene soprattutto per le grandi occasioni), chiedendo che vengano respinte tutte le eccezioni sollevate un anno fa dai tribunali di Salerno e di Bari che ritenevano illegittima la detenzione per il reato di diffamazione, prevista sia dall’art. 595 del codice penale, sia dalla legge sulla stampa (la n. 47 del 1948), figlia del codice Rocco, perché incompatibile con la libertà di espressione dei giornalisti garantita dagli articoli 3, 21, 25, 27 e 117 della Costituzione in relazione all’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il premier Conte non avrà quindi più alibi e dovrà rispondere anche all’Europa se il Governo italiano è o no favorevole al mantenimento del carcere per i giornalisti condannati in via definitiva per diffamazione aggravata a mezzo stampa. Non ci potranno essere più equivoci tra la posizione del Presidente del Consiglio e quello dell’Avvocatura generale dello Stato che lo difende e lo rappresenta in giudizio. Ma con ogni probabilità senza attendere l’Europa questi dubbi saranno già sciolti il 9 giugno quando si svolgerà la seduta pubblica della Corte Costituzionale (chi non potrà parteciparvi potrà comunque rivederne su internet il filmato nei giorni successivi, utilissimo anche per delle tesi di laurea). Vi sarà, tuttavia, una novità in quanto la Presidente Cartabia ha deciso che si discuta in udienza pubblica anche l’articolata ordinanza del tribunale di Bari sezione di Modugno per la quale era stata in precedenza fissata la camera di consiglio del 22 aprile scorso. Subito dopo la relazione sulle due ordinanze dei tribunali di Salerno e di Bari sezione di Modugno da parte del giudice relatore professor Francesco Viganò si affronteranno, da un lato, i due legali dell’Avvocatura Generale dello Stato avvocati Salvatore Faraci e Maurizio Greco e, dall’altro, l’avvocato di fiducia del Sugc (Sindacato unitario dei giornalisti della Campania) Francesco Paolo Chioccarelli che assiste i due giornalisti imputati a Salerno e l’avvocato Giuseppe Vitiello che difende il presidente del Cnog Carlo Verna nell’interesse dell’intera categoria. Al centro della discussione sarà soprattutto la valutazione da parte della Corte Costituzionale degli effetti in Italia di numerose sentenze della Cedu - Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, immediatamente applicabili nel nostro Paese, che hanno ripetutamente affermato che tranne casi assolutamente circoscritti, i giudici italiani, in caso di condanna di un giornalista per diffamazione a mezzo stampa, non dovrebbero più infliggere il carcere, ma eventualmente solo multe, in quanto la reclusione in cella appare ormai incompatibile con il diritto di cronaca e rappresenta un limite sostanziale alla libertà di informazione e quindi al sistema democratico italiano. Tra tutte si ricordano in particolare le sentenze della Cedu favorevoli a Maurizio Belpietro del 24 settembre 2013 e ad Alessandro Sallusti del 7 marzo 2019 che hanno fissato dei principi giuridici di grande rilievo ai quali ha già più volte aderito anche la Cassazione con numerose decisioni. Senza pudore di Michele Passione* Ristretti Orizzonti, 21 maggio 2020 Senza vergogna, tra improvvide citazioni di Beccaria, Montesquieu, Nenni e Giovanni Falcone, si è chiusa in Senato la farsa delle mozioni di sfiducia al Ministro per caso. Ovviamente, in un Paese che conservi un minimo di decenza e consapevolezza del merito delle questioni e dell’operato delle Istituzioni, un atto che chiede all’Aula la verifica sull’operato di un Ministro meriterebbe che su questo si concentrassero le opinioni e i voti. In Italia invece non è così. Ieri in Senato (che qualcuno voleva abolire) si è consumata un’altra pagina vergognosa. La mozione presentata dal centro destra (compatto), sostanzialmente concentrato sul contestare al Ministro dell’ingiustizia le troppe scarcerazioni (centinaia di boss! naturalmente numeri a caso) in questi tempi di pandemia (come se le avesse disposte lui) e (perfino) di aver ceduto alle pressioni di Cosa Nostra sulla mancata nomina al Capo del Dap del Dott. Di Matteo, è stata respinta. Tra i favorevoli, non è mancato chi (Dal Mas, Forza Italia) ha deplorato l’utilizzo di frasi come “buttare la chiave e marcire in galera”, dimentico del fatto che queste sono copyright di un signore che indossava molte felpe dei carabinieri, suo alleato (?) di coalizione, col quale l’attuale Ministro ha condiviso l’ignominia dell’accoglienza in divisa di Cesare Battisti, e tante altre amenità, ma che non merita anche quest’aberratio ictus del forzista con la memoria corta. Basterebbe (e avanzerebbe) la realtà dei fatti. Azioni ed omissioni. Poi c’è Giulia Bongiorno, che uno si chiede come fa. Contesta al Ministro di aver impedito la difesa delle donne e la vanificazione del codice rosso, ma lei i Tribunali li vorrebbe chiudere - di questi tempi - anche perché frequentati da avvocati di ottant’anni, che sono esposti al rischio. Che diamine. Cose così; nel frattempo, ex adverso, l’ex Presidente del Senato, che ora siede in Commissione Anti Mafia, annuncia che loro stanno lavorando alla modifica della disciplina di risulta dalla storica sentenza costituzionale n. 253/2019, sulle preclusioni relative ai permessi premio per i condannati per delitti di cui all’art.4 bis, comma 1, o.p. (accontentiamoci; qualcuno voleva “impugnare la sentenza” della Corte). Altri (la senatrice Rossomando, che di mestiere fa l’Avvocato) contesta il fallimento della riforma dell’ordinamento penitenziario, contro la quale il suo partito (il PD) votò contro, dimentico degli impegni assunti, per viltà e per calcolo (ovviamente finito male). Impossibile riassumerli tutti; tutto scivola via, tra mistificazioni bipartisan di chi invera la realtà. Poi arriva lui, che tutti attendono. Matteo, uno dei due, quello che oggi vale niente numericamente, ma che ogni tanto si veste da Napoleone per vedere l’effetto che fa. La prende larga, “noi siamo diversi”; tra Nenni e Khomeini alla fine però s’accoda (che tutto tornerà utile), ricordando che insomma, quando c’erano loro, Provenzano e Riina sono morti in carcere, che quello era il loro posto. Una miseria; tutti che hanno paura della realtà, e la realtà oggi è questo virus maledetto e un’Italia in mutande, un profluvio di Dpcm e decretazioni di urgenza, ordini del giorno che impegnano al cambiamento di quello che va in Gazzetta Ufficiale e poi (per fortuna) in parte scolora due giorni dopo. La realtà è una ipnosi collettiva del Paese, e il calcolo cinico di chi occupa banchi di un Parlamento che non conta più niente, senza sapere che fare se non galleggiare, attendendo l’autunno e l’assalto ai forni. Una destra becera e forcaiola, un Governo che ancora mantiene in vita gli osceni decreti salviniani (esilarante rivedere le promesse di Zingaretti, di abrogarli/modificarli), che nulla ha cambiato in materia di Giustizia, appaltandone la gestione a un Movimento che ignora totalmente la grammatica giuridica. E qualcuno pensa ancora che valga la pena ragionare con questi, che oggi propongono una Commissione sugli effetti della modifica della disciplina della prescrizione. Una follia. Però c’è una donna, magra e indomita, che qui vogliamo ringraziare; Emma Bonino. La sua mozione, col sostegno di altri, è stata respinta, ma parlava di cose diverse, e guardava all’osso delle cose. “Temo che del merito delle questioni che noi proponiamo non si farà parola”, ha detto, ed è andata così. “Le mele e le arance”, come pronosticato. Lei però le cose le ha dette; ha parlato della continuità del Governo e della continuità della politica della Giustizia, un’endiadi non rassicurante per le sorti del Paese. Ha parlato della Giustizia come lotta politica, come pratica emergenziale, come pretesa punitiva, come logica del sospetto, come manette e galera. Ha ricordato le riforme mancate, quelle necessarie, e quelle varate, uno sconcio nazionale. Lo ha fatto ricordando due persone che ci mancano, e l’(in)giustizia l’hanno raccontata e vissuta; Enzo Tortora e Leonardo Sciascia. Quei nomi in quel momento son stati come una bestemmia in chiesa, uno squillo a un funerale (anche se oggi si applaude anche lì). E noi restiamo qui, e ci chiediamo cosa ancora debba capitare, per scartare di lato, per risalire la china, perché chi crede alle sirene vada a casa, perché il Diritto torni ad essere uno strumento buono per regolare i rapporti sociali, non per regolare i conti. Che non tornano più. *Avvocato Piccola posta di Adriano Sofri Il Foglio, 21 maggio 2020 Il New Yorker di ieri aveva un articolo di Sarah Stillman che si chiedeva: “Will the coronavirus make us rethink mass incarceration?”. Cioè, se la pandemia ci farà ripensare alla carcerazione di massa. Le opinioni che mettono in discussione il modo di concepire le pene si vanno moltiplicando, senza produrre la minima conseguenza pratica, anzi andando insieme a una spensierata o incattivita ottusità carcerista. La vita pubblica è piena di questi paradossi. Per esempio, uno dei luoghi comuni da tempo consolidati dell’antipolitica è quello: “Io non voto per un partito, io voto per la persona”. A furia di scegliere le persone e non i partiti (le idee, non ne parliamo proprio) abbiamo una congerie di istituzioni elettive dalla composizione umana inguardabile. Dei tre attori di Mani Pulite, uno, Di Pietro, scherzava, uno, Colombo, argomenta radicalmente sulla superfluità e nocività del carcere, un terzo, già calunniato come sottile, è il magistrato più votato d’Italia, se non sbaglio. Lo guardo, quando mi capita, senza animosità, come in certe osterie si aspettava che il vecchio cacciatore ricominciasse il suo racconto: “Dai, raccontaci quella dell’orso!”. Davigo non delude. Martedì ha detto che in Italia si scontano le pene più brevi rispetto al resto d’Europa. Non è vero, ma è passata liscia. Quando gli hanno fatto la domanda più scontata e superflua: “Ma c’è un sovraffollamento nelle prigioni italiane?”, ha risposto: “Il tasso di carcerazione italiano è mediamente più basso che nel resto d’Europa”. Risposta degna del signor Veneranda (Manzoni, Carlo). Il tasso di carcerazione (il numero di detenuti su 100.000 abitanti) non c’entra niente con l’affollamento, com’è evidente: ma la risposta, pronta, rilegata, di Davigo non ha sollevato obiezioni. “Davigo, déi, contighe quela de l’orso!”. Campania. Ciambriello: “Ripartono i colloqui tra i detenuti e i loro parenti quasimezzogiorno.org, 21 maggio 2020 Il Garante dei detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello, nel corso del suo “Filo diretto” su Facebook ha comunicato la ripresa dei colloqui tra i detenuti ed i loro parenti, secondo il rispetto delle norme di tutela sanitaria nell’emergenza coronavirus in Campania. Ciambriello ha illustrato le modalità organizzative, tempi e numero di persone autorizzate ammesse ai colloqui, rispettando la piena sicurezza per i detenuti ed i familiari. In particolare, i detenuti della Campania avranno la possibilità di effettuare un colloquio entro fine maggio e due colloqui a giugno ed in queste occasioni, contestualmente, si consegneranno i pacchi. Ciambriello rende noto che le misure sono state decise di concerto con il Provveditore Regionale Amministrazione Penitenziaria, i direttori delle carceri, le autorità sanitarie, i medici competenti. Le misure prevedono che possa entrare una persona o, al massimo, due, sempre tenendo presente le specifiche caratteristiche dei singoli istituti penitenziari. In casi eccezionali (Poggioreale, Pozzuoli, Sant’Angelo dei Lombardi è possibile anche che un familiare possa entrare portando con sé un figlio fino a dodici anni o un minore. “Queste modalità organizzative - conclude Ciambriello - sono state attuate per consentire i colloqui per la sicurezza del detenuto e del familiare. Chi non effettua i colloqui potrà continuare ad usufruire delle videochiamate, modalità adottata sino ad ora”. Salerno. I pm indagano sulle richieste dei detenuti rivoltosi durante la crisi coronavirus di Dario Del Porto La Repubblica, 21 maggio 2020 Che cosa è successo esattamente dopo le rivolte esplose nelle carceri di tutto il Paese e nelle settimane che hanno portato al ritorno a casa in piena emergenza coronavirus di 376 detenuti di mafia? Non se lo sta chiedendo solo la politica, che da giorni vede sotto tiro il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, ma anche i magistrati. La Procura di Salerno diretta da Giuseppe Borrelli sta indagando sul documento consegnato la sera del 7 marzo dai detenuti che avevano messo a soqquadro il carcere di Fuorni. Ma si muove anche la Procura nazionale antimafia e antiterrorismo, che ha avviato su impulso del procuratore Federico Cafiero de Raho un’attività di monitoraggio sul percorso normativo e giudiziario che ha reso possibile la concessione degli arresti domiciliari a esponenti di tutte le più pericolose organizzazioni criminali. Torniamo al 7 marzo, dunque. Sono le ore nelle quali l’allarme Covid-19 sta salendo pericolosamente anche in Italia. Nel carcere di Fuorni, 200 detenuti cominciano a protestare in maniera sempre più violenta e salgono sui tetti brandendo mazze di ferro ricavate dai ferri delle brande. Quella che scoppia nell’istituto campano è la scintilla di un incendio destinato a propagarsi il giorno successivo nel resto d’Italia. I reclusi si arrendono solo dopo ore di mediazione e consegnano un manoscritto che contiene otto richieste per porre fine ai tumulti. Nel documento reclamano tamponi per tutta la popolazione dell’istituto e la possibilità di contattare in videochiamata le famiglie per ovviare alla sospensione dei colloqui disposta per contenere il dilagare del virus. E poi, al punto 7, chiedono di “sollecitare í tribunali a concedere pene alternative in modo” da consentire “ad ogni ristretto di questo istituto di scontare la pena ai domiciliari per contrastare, prevenire o meglio curare l’emergenza coronavirus che sta invadendo il nostro sistema”. Due settimane più tardi, una circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria invita gli istituti a comunicare “con solerzia” all’autorità giudiziaria i nomi dei detenuti affetti da patologie a rischio in caso di contagio da coronavirus. Di lì a poco, si mette in moto la macchina delle istanze presentate ai magistrati di sorveglianza e delle scarcerazioni, o meglio delle concessioni di arresti o detenzioni domiciliari che porteranno di fatto alle dimissioni del capo del Dap, Francesco Basentini. La Procura di Salerno sta indagando sulla rivolta e, in queste ore, sta leggendo con grande attenzione anche il manoscritto dei detenuti. All’attenzione della Procura nazionale c’è invece la circolare del Dap del 21 marzo. “Stiamo svolgendo un’attività di monitoraggio nell’ambito dell’azione di coordinamento e impulso che la Dna effettua come sempre in piena collaborazione e condivisione con le Procure distrettuali competenti”, spiega il procuratore nazionale Cafiero de Raho. Dopo il terremoto provocato dal ritorno a casa di malavitosi del calibro del boss dei Casalesi Pasquale Zagaria, molte cose sono già cambiate. È diventato obbligatorio chiedere il parere dei pool anticamorra prima di provvedere su queste istanze, la direzione delle carceri sta lavorando per individuare istituti dove assistere in maniera adeguata i reclusi con patologie che potrebbero aggravarsi fatalmente se dovessero contrarre il Covid. Ma quei 376 boss tornati a casa restano una ferita profonda, che lascia insoluti ancora troppi interrogativi. Lecce. Pannelli in plexiglass dentro al carcere: ripartono i colloqui con i detenuti lecceprima.it, 21 maggio 2020 Riapre, passo dopo passo, il Paese. E anche i detenuti dalla settimana prossima potranno incontrare i loro famigliari. Nella Casa circondariale di Lecce è tutto pronto per ripartire: i colloqui si terranno a Borgo San Nicola dal 25 maggio al 4 luglio, fatte salve eventuali modifiche legate all’andamento dell’emergenza sanitaria. La direzione dell’istituto penitenziario ha dato seguito alla nota del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del 14 maggio, fissando alcuni paletti per garantire gli incontri in condizioni di sicurezza. I colloqui saranno quindi organizzati in presenza, con videochiamate via skype e colloqui telefonici, e saranno così articolati: due in presenza al mese, uno ogni 15 giorni; due telefonate a settimana o tre nel caso dei detenuti che non fanno colloqui in presenza; quattro incontri su skype al mese della durata di 30 minuti. Le salette del carcere sono state attrezzate di pannelli in plexiglass trasparente per favorire gli incontri, della durata di un’ora e con un solo familiare. I colloqui con gli avvocati continueranno a svolgersi su richiesta, online, tutte le mattine, sabato incluso, e il mercoledì pomeriggio. “Sappiamo tutti quanto le relazioni affettive con la famiglia rappresentino per le persone ristrette un aspetto fondamentale della loro vita - ha dichiarato la garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Maria Mancarella - e quanto esse siano un bene umano particolarmente importante, capace di proteggere le persone detenute dai danni derivanti dalla carcerazione e sostenerle nella difficile situazione in cui si trovano, quanto insomma il sostegno della rete familiare rappresenti il caposaldo da cui ripartire una volta espiata la pena”. Secondo Mancarella è quindi importante “che il carcere si avvii verso la ripresa dei colloqui faccia a faccia con i familiari”, se pur con le limitazioni imposte dalle regole previste per la sicurezza sanitaria. Unico neo del provvedimento del 14 maggio è quello di non prevedere la presenza di volontari all’interno del carcere: “L’assenza dei volontari, che dura ormai da più di due mesi, annulla la partecipazione alle tante esperienze formative e ricreative, attive nel penitenziario di Lecce come in tutta Italia, e il rapporto con i volontari, primo e a volte unico autentico ponte tra il carcere e il mondo esterno”, ha aggiunto la garante. Mancarella ha annunciato che, in attesa di poter riprendere i colloqui nella casa circondariale, continuerà a comunicare con i detenuti tramite posta, con gli avvocati e i familiari attraverso la posta elettronica e su appuntamento via skype. Civitavecchia (Rm). Nuovi ausiliari medici nel carcere terzobinario.it, 21 maggio 2020 Dal giorno 30 marzo presso la medicina penitenziaria Casa Circondariale, è stato assegnato un nuovo ausiliario per un totale di 20 ore settimanali. Successivamente La protezione Civile ha istituito una Unità socio sanitaria nazionale per il contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica Covid 19 presso gli Istituti Penitenziari. Gli O.S.S. sono stati assegnati a ciascun Istituto Penitenziario del Lazio su indicazione del Ministero Grazia e Giustizia. Sono stati assegnati nr. 8 OSS (4 per ogni sede penitenziaria) dal 4 maggio fino al 31 luglio per il contenimento e contrasto dell’emergenza Covid. Degli 8 Oss reclutati hanno aderito 5 persone. Da questa mattina 20 maggio 2020 presso i due Istituti penitenziari afferenti alla Asl Roma 4, hanno preso servizio n. 5 OSS degli 8 assegnati a seguito della Ordinanza della Protezione Civile n. 665 del 22/04/2020. Il Dapss (Dipartimento delle professioni Sanitarie e Sociali) in collaborazione con la Direzione del Distretto 1 e il Direttore degli Istituiti Penitenziari, ha individuato specifiche attività di supporto per ottimizzare la presenza dei volontari che si sono dimostrati da subito entusiasti di sostenere e collaborare con la nostra Asl per il benessere della popolazione detenuta. Il setting della medicina Penitenziaria è particolarmente complesso poiché è necessario individuare i diversi approcci alla salute, decodificarli ed offrire contestualmente una chiara chiave di lettura per l’assistenza al detenuto. L’orientamento è sicuramente quello di porre maggiore attenzione per i bisogni espressi dai detenuti rispetto a quelli della popolazione libera, visto che il detenuto, privato della libertà, si trova in una oggettiva posizione di svantaggio rispetto al cittadino comune. l’OSS sotto la guida dell’infermiere, garantisce l’attuazione della pianificazione individualizzata dei bisogni. altro aspetto da considerare è rivolto al fatto che la popolazione detenuta è multietnica e multiculturale, di conseguenza spesso è difficile condividere con qualcuno di altra cultura/etnia la nostra concezione di salute/malattia. In questo scenario la presenza dell’OSS facilita il percorso assistenziale soprattutto in questa fase II dell’emergenza, coadiuvando tutte le attività infermieristiche e finalizzate al raggiungimento del benessere psico-fisico della Persona in detenzione. Il difficile bilanciamento tra diritti e libertà. L’intelligenza delle regole batte la tecnologia di Daniela Piana Il Dubbio, 21 maggio 2020 In tempi di Covid-19 parlare di anticorpi è particolarmente benvenuto. Il corpo ha i propri e le democrazie, anche. A cosa servono gli anticorpi di una democrazia? A proteggersi dagli attacchi: ma quali? Quelli che sono fisiologici nella vita delle istituzioni e quelli che sono patologici, ovvero che sono il frutto di una malaugurata combinazione di fattori. È fisiologico che le democrazie si trovino a scegliere, in fondo sono state consolidate per questo, per scegliere nel modo che, meglio di altri, permette di rispettare i diritti fondamentali. Ma quando la lista dei diritti aumenta, come auspicabilmente accade nel progredire della storia, la scelta diventa complicata. Così accade che si debba combinare sicurezza pubblica con libertà di espressione e di associazione, che si debba combinare salute pubblica con libertà di movimento e libertà economica. E talvolta accade anche che in una scelta “critica” - nel senso etimologico del termine, che segna una cesura fra un prima e un dopo - si comprima le seconde - le libertà - per tutelare le prime, le sicurezze e la salute. Le scelte critiche fanno parte anche di quella cultura istituzionale di alta visione che vive nelle corti supreme, in molti paesi del mondo anche nonostante le derive autoritarie della politica rappresentativa ed elettiva. Il bilanciamento di beni soggettivi e di principi che ispirano la giustizia costituzionale è però, in fondo, il punto più alto di una cultura, quella dello Stato di diritto, che il cittadino si aspetta vibri nei palazzi di giustizia quando a fronte di un contenzioso si tratta di scegliere ma senza cedere sulle libertà fondamentali nemmeno - anzi soprattutto non - della parte soccombente. Poi ci sono le situazioni patologiche. Non si tratta di situazioni che nascono da malattie, ne abbiamo viste ad ogni istante in questi giorni: lockdown, autocertificazioni, chiusura dei parchi, delle biblioteche, dei musei, degli esercizi commerciali e delle attività produttive, allontanamento dalla rete dei cari più prossimi, la lista potrebbe continuare e ne abbiamo tutti esperienza. La patologia sta nella modalità con cui si gestiscono i passaggi dallo stato di emergenza allo stato di normalità, qualsiasi cosa esso significhi sul piano della modalità di interagire nella società, di certo sappiamo come non deve essere sul piano della modalità di agire da parte dello Stato. Se infatti l’intelligenza adattiva delle istituzioni si erge a baluardo delle società in fasi di emergenza e si prende per cosi dire la responsabilità - immensa - di mettere le mani su quelle cose delicatissime la cui conquista ha comportato moltissime vite e sacrifici per secoli, le libertà individuali, la stessa intelligenza istituzionale è chiamata a riprendere la scena e farsi carico di questo una volta che si esca dallo Stato di emergenza. Dove sta questa intelligenza? Più nelle istituzioni che nelle singole individualità. È per questo che abbiamo inventato - siano ringraziati i costituenti - la costituzione ed è per questo che abbiamo creato le regole, quelle che sono prime rispetto alle persone, che a quelle regole devono rendere conto non solo dopo avere agito, ma soprattutto prima di avere ancorché deciso. Cosa significa tutto questo? Che è oggi vitale che siano riconosciuti i loci dei nostri anticorpi democratici: incardinati nelle modalità di prendere decisioni bilanciate e trasparenti e aventi una eco necessaria quanto vitale nelle intelligenze sociali e civiche, quelle che hanno nutrito una cittadinanza attiva vera in questi mesi. Quelle intelligenze vanno nutrite di informazioni, create e diffuse in modo sano, non patologico, sano in senso di rispondenti alla razionalità della scienza, delle scienze naturali, delle scienze matematiche, a che sia impossibile che una cittadina o un cittadino siano deboli dinnanzi ad informazioni fake. Quelle intelligenze vanno nutrite della consapevolezza di cosa, sul fronte delle libertà processuali, non va ceduto: che sia digitale, non digitale, in presenza o in modalità mista o in qualsiasi altra modalità che la tecnologia vorrà e saprà inventare, resta un punto forte, un punto del pensiero non debole: intelligenza tecnologica è strumento, la intelligenza delle nostre regole è la architettura. Ben poco avremo progredito come società se per vertigine della responsabilità e dell’urgenza avessimo abdicato alla vibrante richiamo di quella intelligenza che è costruire un significato con l’esercizio delle nostre libertà. Insomma, usciamo dal lockdown: facciamo di questa uscita anche un momento di riflessione, informata, su quanto siano di fatto diffusi i diapason che permettono a ogni cittadino e cittadina di sapere quando è il momento di comprimere le libertà per un obiettivo collettivo, senza perdere il senso di quelle libertà che vive e canta nei flash mob, nei gesti di chi riavvia i negozi e le attività produttive, di chi sale sui mezzi di trasporto, rispettosa e rispettosa delle misure di protezione individuale e va ad esercitare la propria attività e il proprio talento. Insomma, come già Calamandrei, gli anticorpi del corpo costituente vivono nelle azioni che inverano in ogni istante la costituzione, le sue libertà. Coronavirus: troll, meme e bot, sfida agli umani di Arturo Di Corinto Il Manifesto, 21 maggio 2020 I siti pro-Bolsonaro diffondono narrative antiscientifiche, ma anche l’Italia è un focolaio di teorie complottiste contro il Covid-19. La propaganda computazionale è alla base delle fake news. I post di Facebook sul Covid-19 pubblicati dal sito web pro-Bolsonaro Jornal da Cidade Online sono i più letti in Brasile. I post politicizzano la crisi sanitaria con articoli che attaccano i sostenitori delle misure di distanziamento sociale, come l’ex ministro della sanità Luiz Henrique Mandetta. Attaccare coloro che vanno contro Bolsonaro è una strategia tipica dell’architettura di disinformazione a favore del presidente brasiliano, che continua a minimizzare la pandemia e vuole riaprire tutto per ragioni economiche. Una strategia denunciata da Aos Fatos, associazione di giornalisti e fact checker, che ha mostrato come per sostenere le tesi del presidente dell’ultra destra vengono usati personaggi fittizi come autori. La sua strategia di monetizzazione è collegata al sito web Verdade Sufocada, che è gestito dalla vedova di Carlos Ustra, torturatore sotto la dittatura militare che governò il Brasile fino al 1985. Il Digital Forensic Laboratory del Consiglio Atlantico lo ha confermato in uno studio recente. Anche in Italia è successo qualcosa di simile quando la parlamentare Sara Cunial ha tenuto un discorso alla Camera dei deputati pieno di teorie sulla cospirazione Covid-19 amplificando le narrative di disinformazione di comunità online che le hanno offerto supporto sui social media. Al centro delle accuse c’era Bill Gates, e un presunto piano di spopolare il mondo con vaccini che rendono sterili. La differenza con Bolsonaro è che il supporto è venuto prevalentemente da Youtube, dove i video della Cunial hanno ricevuto milioni di visualizzazioni. Le “fake news” sono un problema cibernetico e psicologico. Le notizie false, prodotte con l’intento di modificare sentimenti e opinioni, sono una minaccia per la democrazia. La disinformazione che fa perno sulle bufale è da sempre un’arma in mano agli Stati per mettere in crisi gli avversari e disseminare paura, informazione e dubbio. Una tecnica che, con l’aumentare dell’importanza dell’opinione pubblica che si esprime nei social, è sfruttata per delegittimare istituzioni e inquinare il dibattito scientifico. Sappiamo che gli esseri umani non sanno distinguere tra notizie vere e notizie false, che spesso non vogliono farlo e che, al contrario di quanto accade con ii virus, invece di difendersi ne aiutano la propagazione per ottenere un vantaggio individuale. Ma le “fake news” sono soprattutto un problema cibernetico per tre motivi. Il primo è che le “fake news” proliferano sui canali social dove incontriamo amici e parenti di cui ci fidiamo e quelli che abbiamo selezionato come appartenenti alla nostra cerchia, il famoso “effetto bolla”. Il secondo motivo è la loro riproducibilità a costo zero che le rende virali. Il terzo è il tipo di tecnologia usate per diffonderle: troll, meme e “fake video”. I troll automatizzati (bot) sono quelli che disturbano le conversazioni che abbiamo sui social. Ripetono alcuni messaggi in maniera ossessiva per dare l’idea di un largo consenso rispetto a notizie complottiste non verificabili e screditare tesi avversarie. I meme, immagini e slogan ad effetto, sono spesso la loro arma principale. Le persone sono catturate da questa forma immediata di pseudo-informazione se coerente con la loro visione del mondo innescando i “bias” (vizi, ndr) cognitivi noti come il pregiudizio di conferma, le casse di risonanza e l’effetto “bandwagon” (letteralmente, salire sul carro del vincitore, ndr). Infine i “deep fake” sono strumenti basati su algoritmi di intelligenza artificiale per produrre video e audio falsi in grado di mettere in bocca agli altri cose che nella realtà non hanno mai detto. Sono questi gli strumenti della propaganda computazionale. Il caso Silvia Romano e l’odio degli italiani: per favore un po’ di serietà di Walter Siti Il Riformista, 21 maggio 2020 L’odio è una passione paziente: può scatenarsi all’improvviso come un colpo di fulmine, per un incontro o un avvenimento, ma poi si sedimenta e mette radici, si cristallizza e costruisce intorno a quel primo granello una corazza pietrosa e inscalfibile. La persona (o categoria) odiata diventa un punto di riferimento costante della nostra esistenza, una risorsa psicologica per i nostri momenti difficili; immaginare quella persona (o quella categoria) come responsabile del male del mondo porta con sé una specie di sollievo. Il tempo si ferma, le circostanze storiche variabili scivolano via e resta, fisso, il piacere di immaginare la vendetta, la nuda violenza esercitata da noi personalmente, o da nostri emissari, sul corpo di chi si odia. Riversare su di lui (o lei, o loro) tutte le colpe ci esime dal riflettere sulle nostre personali e civili responsabilità. Colui (o ciò) che odiamo ci definisce come persone: semplifica, radicalizza e ci preserva dall’angoscia del dubbio. In questo l’odio assomiglia all’amore, e non è da tutti odiare di cuore come non è da tutti innamorarsi perdutamente. L’odio insomma è una cosa seria, che spetta a chi lo prova tenere a freno e alla società limitare, senza speranza di poterlo uccidere una volta per sempre. Se contrastato e indicato come peccato imperdonabile, l’odio si nasconde, si traveste, attende tempi a lui più favorevoli. Questa pandemia, che ha chiuso in casa mezza popolazione mondiale, sembra proprio un tempo favorevole; la dice lunga il fatto che in questo periodo, secondo dati attendibili, siano aumentate del 30% le chiamate ai centri antiviolenza familiare. I coniugi, per i quali le ore di separazione lavorativa erano un ammortizzatore dei conflitti, si sono ritrovati muso a muso a fare i conti con la realtà del loro rapporto; i maschi privati di bar e partite hanno sfogato le loro repressioni su donne e bambini; i ragazzini, senza cortili o strade per giocare con gli amici, si sono mostrati più impegnativi del solito. Il malumore ha fatto emergere l’odio latente, nei non pochi casi in cui incubava da anni sotto la cenere del quieto vivere. Lo stesso è accaduto per gli odii sociali più antichi e stratificati, in primis il razzismo e l’odio religioso. Molti hanno sperato che l’epidemia esplodesse in Africa, ma per ora si scontrano con l’evidenza delle statistiche; così han dovuto ripiegare, prendendosela con gli africani che dagli italici ghetti vengono prelevati la mattina per andare a raccogliere frutta e pomodori. È bastata una ragazza ingenua, che per leggere il Corano ha aspettato di essere prigioniera, a far scrivere sui social parole orrende contro di lei e contro l’Islam “religione inferiore”. Sono casi di odio genuino, covato a lungo come ossessione; ma proprio per questo facilmente identificabile. Più insidioso e pervasivo è l’odio che si traveste, non possedendo né il coraggio né la dignità del proprio nome; meno pericoloso nel fondo, ma più dannoso per la convivenza civile nel breve e medio periodo. L’antipatia strisciante per i cugini francesi, duplicata da rivalità calcistiche; il ricordo bellico dei tedeschi rastrellatori, misto a invidia per la loro organizzazione e i loro soldi. L’insofferenza delle regioni meridionali, più libere dal contagio, per una Lombardia che appesantisce e rallenta; quella uguale e contraria dei settentrionali per un Sud che tanto può fare quello che vuole, non sono loro a incrementare in modo decisivo il Pil. Il fastidio dei giovani per i vecchi troppo prudenti, e dei vecchi per i giovani che non indossano le mascherine. La voglia serpeggiante di delazione, il rancore che si traveste da giustizia; la preoccupazione di pararsi il culo per quando arriveranno i magistrati. I media amplificano e spettacolarizzano: la sindrome dei “polli di Renzo” di manzoniana memoria (che essendo legati per le zampe si ingegnano di beccarsi l’uno con l’altro) diventa platealmente odio di scena nei battibecchi dei talk politici, le cui livide bordate si distinguono a stento da quelle, in odore di audience, dei reality trash. Sui social si lapidano due influencer fidanzati perché lui ha raggiunto lei pur abitando in una Regione diversa; si dà credito ai più inverosimili complotti, ci si dichiara sicuri che la pandemia sia un inganno ordito dai “poteri forti”; perfino gli odiatori dell’odio alzano i toni, perché sono certi che l’odio riguarda soltanto gli altri e mai loro, anime belle. Onda confusa di rinfacci reciproci, in un Paese sull’orlo d’una crisi di nervi. L’odio rischia di diventare una scorciatoia per cavarsi d’impaccio in una situazione che non sembra avere vie d’uscita. L’Italia i soldi pubblici non ce li ha, c’è poco da fare; ha molta ricchezza privata, come si è sbandierato per anni, ma nessuno adesso osa ricordarlo. La forza politica maggioritaria in Parlamento non è più la prima forza politica del Paese, ma oggi una crisi di governo è impensabile e le elezioni sarebbero ostacolate anche da motivi sanitari. L’odio senza conseguenze è quello più facile: sgrugnarsi e insultarsi sapendo che tutto resterà uguale, almeno per un po’. Più che odio, mugugno: insoddisfazione generalizzata, guardare il proprio vicino con sospetto; il bar che non ce la fa a tirare avanti denuncia l’altro bar che si è venduto ai cinesi; l’azienda sotto inchiesta per irregolarità nell’importazione di mascherine dice perché non guardate a chi ha fatto anche peggio di me. L’estrema destra si proclama delusa dalla scarsa reattività di Salvini e Meloni, e accusa siete casta pure voi, cane non mangia cane, come i ladri di Pisa che litigavano di giorno e di notte andavano a rubare insieme. Un urlìo confuso di risentimenti incrociati non è la premessa migliore per affrontare i tempi duri che verranno. La buona volontà dei singoli, e anche dei governanti, non manca, il buonsenso cerca di stare a galla evitando gli scogli più perigliosi. Ma l’amore per gli altri, quello vero che ha il fulgore della carità, potrebbe dispiegarsi con più energia se l’odio gli si opponesse senza maschere. Migranti, criteri più ampi per la regolarizzazione di Carlo Lania Il Manifesto, 21 maggio 2020 Almeno 220mila domande di regolarizzazione e 94 milioni di euro in più di incasso per lo Stato, frutto dei contributi che verranno versati per l’emersione dei migranti oggi impiegati in nero in settori come l’agricoltura e il lavoro domestico. Sono alcuni dei dati relativi alla regolarizzazione contenuti nella relazione tecnica del decreto Rilancio. Ma il numero di quanti potranno accedere alla sanatoria, seppure limitatamente ai settori indicati dal provvedimento, potrebbe aumentare. Il testo del decreto, da ieri in Gazzetta ufficiale, presenta infatti alcune novità rispetto a quello approvato il 13 maggio scorso. In alternativa a uno dei due requisiti richiesti al comma 1 per poter accedere alla regolarizzazione (essere stati sottoposti a rilevi foto-dattiloscopici prima dell’8 marzo 2020 e aver soggiornato in Italia prima della stessa data) se ne è aggiunto un terzo che prevede il possesso da parte dello straniero di una documentazione proveniente da organismi pubblici che dimostri l’ingresso nel nostro paese sempre prima del 20 marzo scorso: dal visto sul passaporto a un certificato rilasciato dal pronto soccorso di un ospedale, all’iscrizione a una scuola o all’università. Altra novità riguarda poi il contributo forfettario previsto per poter accedere alla regolarizzazione, che diventa più caro per i datori di lavoro (da 400 a 500 euro per ogni lavoratore che si vuole mettere in regola) e un po’ più economico per i lavoratori (da 160 a 130 euro). Come si vede si tratta di piccole novità, sufficienti però in teoria ad allargare la platea di quanti potrebbero essere interessati a regolarizzare la propria posizione. Del resto era stata la stessa Inps, in un documento inviato nelle scorse settimane alla commissione Lavoro del Senato in occasione di un’audizione relativa all’emergenza Covid, a giudicare troppo “restrittivi” i criteri poi inseriti nel decreto. Questo, sottolineava l’Istituto, “induce a pensare che diversi irregolari presenti sul territorio non siano in grado di presentare domanda”. Senza fondamento, invece, la possibilità che la sanatoria porterebbe un aumento dei flussi irregolari, e questo proprio perché limitata ad alcuni settori. La smentita arriva dalla Fondazione Ismu di Milano che calcola in 562 mila i migranti irregolari presenti in Italia. “Oggi come in passato - spiega la Fondazione - per lo più gli immigrati irregolarmente soggiornanti hanno già un lavoro e quindi per ottenere un permesso faranno riferimento al rapporto di lavoro in corso e non a un possibile nuovo impiego come stagionali in agricoltura”. Quello appena varato è quindi un provvedimento che va bene per braccianti, colf e badanti, ma che esclude settori importanti come l’edilizia dove è impiegato un gran numero di lavoratori stranieri. Migranti. Intercettati, riportati in Libia e detenuti in condizioni inaccettabili di Riccardo Cristiano articolo21.org, 21 maggio 2020 Il rapporto del Centro Astalli. La presentazione del rapporto annuale del Centro Astalli, la sezione italiana del Servizio dei Gesuiti ai rifugiati, ha fatto il punto sulla situazione dell’immigrazione e dell’integrazione nel nostro Paese al di là del piccolo compromesso sulla sanatoria per qualche mese relativa a braccianti, badanti e colf, accolta con contenuta soddisfazione almeno per la discontinuità rispetto a un passato che infatti ancora rimane. E quindi ribadire i propri valori non può essere fatto senza fare i conti con una realtà che non è quel che potrebbe apparire. Il passato è nel presente e non prenderne atto non sarebbe da realisti, ma da idealisti. E i migranti hanno bisogno di realtà. Sebbene la speranza di un’Italia che sceglie l’integrazione e non orientata alla disintegrazione deve sapere che anche i “diritti stagionali” nell’oggi sono qualcosa di non scontato sebbene insoddisfacente. Venendo al rapporto, i punti di maggiore rilievo sono quattro: innanzitutto, vi si afferma, gli effetti dei decreti sicurezza si cominciano a percepire. Questo ci fa ricordare che sono tuttora in vigore. Nel rapporto si legge: “L’abolizione della protezione umanitaria, il complicarsi delle procedure per l’ottenimento di una residenza e dei diritti che ne derivano, e più in generale il moltiplicarsi di oneri burocratici a tutti i livelli, escludono un numero crescente di migranti forzati dai circuiti dell’accoglienza e dai servizi territoriali. La richiesta di servizi di bassa soglia (mensa, docce, vestiario, ambulatorio) è alta in tutti i territori. Oltre 3.000 utenti hanno usufruito della mensa di Roma: tra loro ben il 35% è titolare di protezione internazionale. Sono persone che, uscite dall’accoglienza assistita, sono state costrette a rivolgersi nuovamente alla mensa in mancanza di alternative”. Il secondo punto è la grave preoccupazione del Centro Astalli per i migranti che non arrivano: “nel 2019 migliaia di migranti hanno vissuto confinati in una sorta di limbo. Dimenticati nelle carceri libiche, nei campi delle isole greche o persino sulle navi che li hanno soccorsi, lasciati in balìa delle onde per giorni mentre l’Italia e gli altri Stati dell’Unione europea ingaggiavano un vergognoso braccio di ferro su chi dovesse accogliere poche decine di persone. Solo 11.471 migranti sono approdati in Italia (facendo registrare un calo di oltre il 50% rispetto al 2018 e del 90% in relazione al 2017). Abbiamo più volte denunciato, anche con le organizzazioni del Tavolo Nazionale Asilo, che la diminuzione degli arrivi è soprattutto legata all’incremento delle operazioni della Guardia costiera libica: nell’ultimo anno 8.406 persone intercettate nel Mediterraneo sono state riportate in Libia e lì detenute in condizioni che le Nazioni Unite definiscono inaccettabili”. Il terzo punto è quello della denuncia: i percorsi di accoglienza perdono di efficacia. Leggiamo ancora alcune righe del rapporto del Centro Astalli: “molte delle persone che abbiamo incontrato hanno avuto difficoltà di ottenere o rinnovare il permesso di soggiorno. Vite instabili si scontrano con i cambiamenti delle normative e delle prassi dei singoli uffici, rendendo ogni questione burocratica un potenziale labirinto senza uscita. Nel 2019 è aumentato il numero di accessi al centro d’ascolto di Roma (+29%), soprattutto da parte di persone che, con l’abolizione della protezione umanitaria, si sono trovate all’improvviso nella condizione di poter perdere il permesso di soggiorno. Rispetto all’anno scorso gli utenti che si sono rivolti al servizio sprovvisti di documenti validi sono notevolmente aumentati (+79%). Agli effetti dei decreti sicurezza si sono aggiunte le complicazioni dovute alle disposizioni della Questura, che non riconosce più come residenza valida l’indirizzo fittizio né per i richiedenti asilo né per i titolari di protezione umanitaria, che si ritrovano così sprovvisti di un requisito fondamentale per convertire il permesso di soggiorno in motivi di lavoro. Circa i due terzi delle persone che si sono rivolte all’ambulatorio nel 2019 non risulta iscritta al Servizio Sanitario Nazionale: nella maggior parte dei casi si tratta di migranti che vivono in Italia da tempo, ma che per difficoltà relative alla residenza o al titolo di soggiorno non sono riuscite ad accedere, o hanno perso l’accesso, all’assistenza sanitaria pubblica. Anche la trasformazione radicale che ha riguardato il sistema di accoglienza in Italia, ha inferto un duro colpo a quell’accoglienza diffusa che ha caratterizzato negli ultimi anni l’impegno di molte realtà a servizio dei migranti forzati. Il cambiamento principale ha riguardato la possibilità di accesso al sistema stesso: sono esclusi infatti dall’accoglienza Siproimi (es Sprar) i richiedenti asilo e i titolari di permesso per motivi umanitari. La riduzione dei servizi sociali nei centri accoglienza straordinaria (Cas), ha reso più difficoltosa l’emersione e la cura tempestiva delle vulnerabilità. Non a caso nei centri gestiti dal Centro Astalli in convenzione con il Siproimi, rispetto all’anno precedente, il numero degli ospiti vulnerabili è salito in proporzione dal 30 al 40%. Le realtà della rete territoriale del Centro Astalli nel 2019 hanno accolto complessivamente 835 persone, secondo un modello di intervento che mette al centro la promozione della persona e che costruisce integrazione dal primo giorno. Un sistema di accoglienza pubblico che si frammenta e rimanda le opportunità di inclusione a una “seconda fase” accessibile a pochi è lesiva di percorsi di accoglienza e integrazione. Diventa più difficile motivare persone che hanno a disposizione tempi di accoglienza più brevi e hanno fretta di trovare un’occupazione qualsiasi a investire tempo nell’apprendimento dell’italiano e nella formazione. Ciò va a scapito della qualità del loro futuro in Italia.” Il quarto punto è che, nonostante tutto, si continua a lavorare. E questa è la vera notizia che deve contare: “La presentazione del rapporto annuale del Centro Astalli, la sezione italiana del Servizio dei Gesuiti ai rifugiati, poteva finire con lo slegarsi, disconnessa da quel che viviamo da settimane e mesi e che oggettivamente è la nostra emergenza. Poteva allora ridursi ad una valutazione dei recenti provvedimenti governativi in favore di braccianti, colf e badanti, i cosiddetti “diritti stagionali” trattandosi di provvedimenti che coprono un arco breve di tempo. Ma il presidente del Centro Astalli, padre Camillo Ripamonti, presentando i suoi ospiti che lo hanno accompagnato in questa presentazione virtuale, sul canale YouTube del Centro Astalli, ha trovato le poche parole necessarie a riconnettere questo tempo di pandemia e la questione migratoria. Infatti padre Ripamonti ha detto che tante vittime di questa pandemia sono morte come i migranti che non ce l’hanno fatta; sono morti da soli. Questa solitudine nella morte degli uni e degli altri ha reso comprensibile e chiaro il nesso culturale tra questi fenomeni gravissimi e che vanno governati nella consapevolezza che Papa Francesco ha indicato più volte e che padre Ripamonti ha ricordato più volte, e cioè che siamo tutti nella stessa barca. La crisi innescata in Africa dalla fine delle rimesse dei migranti, che costituiscono più del 15% del PIL continentale, dimostra la non separabilità di effetti e cause.” La Cina è diventata il più grande carcere al mondo per scrittori e poeti di Giulio Meotti Il Foglio, 21 maggio 2020 “Ogni lettura è un atto di resistenza”, recita il vacuo adagio che si porta in certe coterie letterarie occidentali. Ci sono tre paesi dove scrivere è davvero un atto di resistenza che non si porta ma ti porta in carcere. Secondo una nuova sezione del Pen americano, è record di scrittori in carcere. Sono 238 per l’esattezza, concentrati in tre paesi: Cina, Arabia Saudita e Turchia. Al quarto posto c’è la Repubblica islamica dell’Iran. Questi stessi paesi sono anche tra i più prolifici carcerieri di giornalisti al mondo, secondo il censimento del Committee to Protect Journalists. Il Pen analizza la sorte di questi poeti, studiosi, intellettuali e traduttori. Alcuni sono casi noti, come il turco Ahmet Altan e il saudita Raif Badawi, condannato al carcere e alle frustate sei anni fa. “L’elevato numero di scrittori e intellettuali detenuti o incarcerati in Cina riflette una repressione in corso sotto il presidente Xi Jinping”, si legge. Un totale di 73 scrittori e intellettuali sono stati incarcerati in Cina. Sono 34 i letterati, 23 gli studiosi e 17 i poeti. Ci sono il libraio di Hong Kong Gui Minhai, i poeti Xu Lin e Wang Yi, l’editore Yao Wentian, gli scrittori Lü Gengsong e Lu Jianhua. C’è chi è imprigionato per avere raccontato la Cina della Rivoluzione culturale, quando Pechino tentò di fare tabula rasa di ogni tradizione premaoista. Lhamjab Borjigin è uno scrittore e studioso di etnia mongola che ha trascorso anni a raccogliere storie di sopravvissuti alla violenza della Rivoluzione culturale. È perseguitato per il libro “La rivoluzione culturale cinese”, che descrive la tortura e altre brutalità inflitte dal Partito comunista cinese. Lhamjab è stato posto agli arresti domiciliari e le autorità hanno confiscato copie del libro. Kunchok Tsephel Gopey Tsang, scrittore, poeta e studioso tibetano, è stato condannato a quindici anni di carcere, dove le visite della sua famiglia sono limitate e sono costretti a parlare in cinese. Di fatto gli è stato impedito di comunicare. Jo Lobsang Jamyang, anche lui letterato tibetano, è stato tenuto in isolamento per oltre un anno, un periodo durante il quale ha subìto torture. È un buco nero dentro al quale sono finiti anche i critici del regime cinese durante la pandemia. La polizia di Pechino ha arrestato il professor Chen Zhaozhi per avere scritto: “La polmonite di Wuhan non è un virus cinese ma un virus del Partito comunista cinese”. Il Pen parla del caso del professor Xu Zhangrun, agli arresti dopo avere pubblicato un saggio contro la repressione sotto il presidente Xi. “L’epidemia di coronavirus ha rivelato il nucleo marcio della governance cinese”, ha scritto il professor Zhangrun. Ha aggiunto che il sistema cinese “valorizza il mediocre, il delatore e il timido” e che il disordine causato dai funzionari di Wuhan che hanno coperto i primi segni del virus “ha infettato ogni provincia e la putrefazione arriva fino a Pechino”. Gli account social del professore sono stati disattivati, il suo nome è stato cancellato da Sina Weibo, una piattaforma di blog cinese, e ora solo articoli di siti web ufficiali vengono visualizzati sul più grande motore di ricerca del paese, Baidu. Cina, Arabia Saudita e Turchia, dicevamo. I paesi con i quali l’occidente sembra avere stretto un rapporto economico e geopolitico che ha portato anche a una fortissima sudditanza ideologica. Per parafrasare Leon Trotsky: puoi non essere interessato alla Cina, ma la Cina è interessata a te. Per questo dovremmo interessarci alla sorte di questi scrittori. Singapore. Condanna a morte via Zoom per rispettare il distanziamento sociale di Alessio Lana Corriere della Sera, 21 maggio 2020 Il 37enne Punithan Genasan ha ricevuto la sentenza dallo schermo di un computer, è colpevole di aver partecipato a un traffico di eroina nella città stato asiatica. È la notizia peggiore che un umano possa ricevere e a Singapore la pena di morte è arrivata via Zoom. Per mantenere il distanziamento sociale, le autorità della città stato hanno scelto la videoconferenza per comunicare a Punithan Genasan la dura sentenza. Malese, 37 anni, l’uomo aveva avuto un ruolo centrale in un traffico di eroina scoperto nel 2011. La piccola città stato asiatica ha una politica di tolleranza zero contro ogni sostanza stupefacente e così, attraverso un computer connesso in Rete, Genasan è venuto a conoscenza del suo destino. Distanziamento sociale - Singapore ha adottato dure misure contro il Covid-19, il controllo di popolazione e immigrazione è totale, e il distanziamento sociale ha riguardato anche un caso così delicato. “Per la sicurezza di tutti i soggetti coinvolti nel procedimento, l’udienza contro Punithan Genasan è stata condotta mediante videoconferenza”, ha detto un portavoce della corte suprema a Reuters sottolineando le restrizioni in atto per minimizzare la diffusione del virus. Il suo è il primo caso di condanna a morte via Zoom. La rabbia degli attivisti - “L’adozione di Singapore della pena di morte è intrinsecamente crudele e disumana e l’uso di tecnologie remote come Zoom per condannare a morte un uomo lo è ancora di più”, ha dichiarato Phil Robertson, vicedirettore della divisione Asia di Human Rights Watch. Non è l’unico attivista per i diritti umani ad essersi scagliato contro una prassi così disumanizzante ma l’avvocato di Genasan, Peter Fernando, non ha trovato nulla da eccepire nel procedimento: la videochiamata, sostiene, era stata usata solo per comunicare il verdetto del giudice. Ora sta pensando di ricorrere in appello. Sudan. Vincono le donne: il governo ha bandito la mutilazione genitale di Antonella Napoli Il Dubbio, 21 maggio 2020 Una svolta storica, che rappresenta per milioni di bambine e di donne in Sudan la fine di un incubo: la mutilazione genitale femminile sarà un crimine, punibile con tre anni di carcere. Il consiglio dei ministri del governo sudanese, presieduto dall’economista Abdalla Hamdok, ha approvato il testo di legge proposto dal ministro della Giustizia che fermerà la pratica dell’infibulazione nel Paese, sancendone l’illegalità. Una decisione coraggiosa, che segna la discontinuità dell’attuale esecutivo rispetto al regime di Omar Hassan al Bashir. Finché era controllato dal dittatore deposto nell’aprile dello scorso anno, il Parlamento si era rifiutato di dare seguito alle proposte di legge presentate dalle poche parlamentari presenti nell’assemblea sudanese che chiedevano di dichiarare reato le mutilazioni genitali. Oggi tutto è cambiato. La nuova legge punisce tanto la pratica clandestina quanto gli ‘ interventi’ effettuati in strutture mediche. Si attende solo la ratifica congiunta da parte del Consiglio dei ministri e del Consiglio sovrano. “Stiamo cambiando il Sudan, questo articolo del codice penale contribuirà a sconfiggere una delle pratiche sociali più pericolose per la popolazione femminile, l’infibulazione costituisce una chiara violazione dei diritti delle donne”. Non ha dubbi la ministra degli Esteri Asmaa Mohamed Abdalla, la prima donna a ricoprire un incarico così importante nel paese africano. Era stato proprio il suo ministero, attraverso una nota diffusa il 1° maggio ad annunciare la decisione dell’esecutivo di mettere al bando la pratica secolare a cui veniva sottoposto l’87% delle bambine sudanesi. “Un passo avanti per porre fine a un’usanza radicata socialmente con disposizioni che garantiranno protezione e rispetto per le donne, miglioreranno i loro diritti a livello generale e in particolare i loro diritti sociali e sanitari” il convincimento della voce diplomatica del Sudan. La nuova legge, approvata all’unanimità nell’ultimo consiglio dei ministri, punisce tanto la pratica clandestina quanto gli ‘ interventi’ effettuati in strutture mediche. “La legge che criminalizza le mutilazioni genitali femminili è una grande vittoria per le donne sudanesi. Fino ad oggi non c’era scampo per le bambine che già dai sette anni, nove su dieci, venivano sottoposte all’infibulazione” afferma Zeinab Badr El- Din, attivista e leader del movimento femminile delle rivolte che in Sudan hanno portato lo scorso anno alla caduta del regime di Omar Hassan al-Bashir. “Queste nuove norme confermano che abbiamo fatto passi avanti in Sudan - sottolinea Badr El- Din, tra le voci più autorevoli in tema di diritti nel paese - ma la legge da sola non basta, sono necessarie campagne di sensibilizzazione affinché il messaggio arrivi in modo chiaro alla comunità. Le mutilazioni genitali non sono solo una violazione dei diritti, ma una pratica dannosa che determina gravi conseguenze per la salute fisica e mentale delle bambine che la subiscono”. Finora tante madri e giovani sudanesi sono state costrette a sottomettersi a norme sociali e tradizionali che imponevano questa meschina usanza. Con la nuova legge, le donne acquisiranno coraggio perché finalmente si punirà chi continuerà a praticarla non solo con il carcere ma anche con multe esose e il sequestro delle strutture dove gli interventi venissero effettuati. Per decenni il governo islamista di Bashir si è rifiutato di rendere illegale l’infibulazione. Oggi, con tante figure femminili ai vertici governativi e istituzionali del Sudan, la svolta storica è compiuta. Per valutare l’impatto e l’efficacia della legge bisognerà attendere le reazioni della società civile ma una discussione sul tema è aperta da anni. Una parte del Paese era da tempo pronta a dichiarare illegale l’infibulazione ma una larga fetta della popolazione ha continuato a tramandare l’arcaico rito di passaggio che ha imposto sofferenze a milioni di bambine. “Quando mia figlia compì 10 anni, in famiglia alcuni parenti misero alla gogna mia moglie e il sottoscritto che aveva accolto la sua richiesta di non sottoporre la nostra bambina alla pratica dell’infibulazione” racconta Omer Abdullah, attivista e giornalista che si è sottratto con la cultura e la conoscenza alla sudditanza psicologica del suo paese di origine. “Sono stato umiliato, definito “uomo senza valore” per aver scelto di non sottoporre alla mutilazione genitale mia figlia. Oggi è per me non solo un giorno di rivalsa, è un giorno felice perché racconto la gioia di un paese, o almeno di quella parte che non si è piegata a usanze arcaiche e disumane”. Un plauso al coraggio del governo del Sudan, è stato rivolto sia dalle Nazioni Unite che dall’Unione Europea. Le norme annunciate dal governo sono un primo passo, spetterà a tutte le donne, all’intera comunità, far sì che la pratica dell’infibulazione sia solo un brutto ricordo. Lo sa bene Amane Ibrahim, attivista per la parità di genere, che a otto anni ha subito lei stessa l’orrore dell’intima mutilazione. Oggi quarantenne e madre di quattro figli, di cui tre femmine, ricorda tutto di quei momenti: le canzoni e il richiamo tipico sudanese delle donne del suo quartiere a Khartoum, l’abito bianco che indossava, la piccola stanza dove una conoscente e il volto dell’anziana, molto autorevole nella comunità, che effettuava l’intervento. “Avevo paura, imploravo mia madre di portarmi via. Mi avvinghiai a lei ma mi spinse giù e mi costrinse ad aprire le gambe. Poi ricordo solo un dolore atroce. Gridai con quanto fiato avevo in gola e svenni” racconta Amane che diventata mamma ha assunto con sé stessa un impegno: le sue figlie non avrebbero subito la stessa sorte. Quella promessa, oggi, è una realtà per tutte le Amane del Sudan.