Amnistia e indulto, via amara ma utile per la “fine della notte” di Paolo Borgna Avvenire, 20 maggio 2020 La spallata della pandemia impone di evitare il blocco del sistema. Difficile amare i provvedimenti di clemenza generale. Perché sia l’amnistia (che cancella i reati meno gravi) sia l’indulto (che opera uno sconto di pena per tutti gli altri reati) rasano il prato in modo indifferenziato: tagliando allo stesso modo il filo d’erba buono e l’erbaccia. Non distinguono il grano dal loglio. Livellando i diversi percorsi di recupero dei condannati, negano loro quel trattamento differenziato (affidato ai magistrati di sorveglianza) che è alla base del nostro ordinamento penitenziario. E lasciano spesso le parti offese dei reati cancellati con la pericolosa sensazione di subire un secondo torto. Eppure: oggi, che dopo l’infuriare più grave della tempesta da coronavirus, cominciamo a vedere la luce, gli operatori della giustizia (avvocati e magistrati) che ogni giorno vivono il processo nelle aule dei tribunali hanno il dovere di anticipare alla politica - nel rispetto della sua autonomia - che l’indomani dell’uscita dal tunnel, qualunque discorso serio e umano sulla giustizia penale dovrà cominciare pronunciando due parole: amnistia e indulto. È inutile intrecciare duelli tra coloro che auspicano amnistia e indulto per motivi umanitari (come “riparazione” al fatto che i detenuti sono spesso ospitati in carceri sovraffollate, in cui è difficile rendere effettiva la rieducazione del condannato promessa dall’art. 27 Costituzione) e coloro che, magari richiamandosi a Beccaria, ritengono “felice la nazione” in cui i provvedimenti di clemenza siano esclusi (senza però dimenticare che per l’illuminista lombardo la clemenza poteva essere esclusa come conseguenza della “dolcezza e immediatezza delle pene”). Ripeto: oggi, per invocare amnistia e indulto, non è necessario schierarsi per una di queste due opzioni. Qui basti ricordare che, fino al 1992, l’amnistia fu lo strumento per tenere in piedi un sistema in cui convivono obbligatorietà dell’azione penale, processo con tre gradi di giudizio normalmente percorsi senza filtri, tendenza alla “panpenalizzazione”, scarsità di personale amministrativo. Dalla Liberazione al 1990 furono 28 le amnistie che, periodicamente, intervenivano a ripulire gli armadi dei magistrati da pile di fascicoli per reati minori. E ogni amnistia era accompagnata da un indulto che, condonando qualche anno di pena ai condannati definitivi, alleggeriva carceri cronicamente sovraffollate che - fino alla riforma penitenziaria del 1975 - covavano il germe delle rivolte pronte a esplodere in estate. Poi, nel 1992, riformando l’articolo 79 della Costituzione, si previde che, per concedere l’amnistia e l’indulto, fosse necessaria la maggioranza dei due terzi del Parlamento. Con la conseguenza che, essendo tale maggioranza politicamente irraggiungibile, non vi son più state amnistie. Soltanto nel 2006 motivazioni assai diverse ma convergenti consentirono la concessione di un generoso indulto, inopinatamente non accompagnato da alcuna amnistia costringendo così i tribunali a lavorare a vuoto; cioè a celebrare, per reati minori, processi che, in caso di condanna, comminavano pene destinate a non essere mai eseguite. Il risultato della impraticabilità politica dell’amnistia è noto: procure della Repubblica inondate di fascicoli relativi a reati per cui i tribunali non erano in grado di celebrare i processi; prescrizioni frequentissime. Proprio per evitare che la prescrizione arrivasse magari in appello dopo anni di lavoro di magistrati e cancellieri, le procure della Repubblica sono state costrette a una “discrezionalità di fatto” nell’esercizio dell’azione penale, non ufficialmente prevista dalla Legge ma imposta da uno stato di necessità che la Legge creava. E dunque: “scelte di priorità” operate dai pubblici ministeri nella fase delle indagini preliminari; fascicoli relativi a fatti minori “postergati” (vale a dire, lasciati in un armadio in attesa di tempi migliori). Soltanto la riforma voluta dal ministro Orlando nel 2015 - che ha previsto la possibilità di archiviare un reato minore nel caso di “particolare tenuità” del fatto - ha ridato un po’ di ordine e di criteri legislativi alle scelte “prioritarie” dei pubblici ministeri. Ciononostante, i processi che i tribunali sono chiamati a celebrare sono sempre troppi. E - come “Avvenire” ha scritto più volte - soltanto una riforma organica dei codici potrà porre rimedio a questa cronica emergenza. Essendo consapevoli di una semplice verità: l’unico modo per rendere meno lenti i processi è dover celebrare meno processi. Ebbene: se questa è, da anni, l’emergenza quotidiana, dopo la spallata della pandemia la situazione sarà più grave. Per far fronte ai rischi di contagio, i decreti governativi di marzo hanno previsto che, nel periodo di chiusura i tribunali celebrassero solo processi urgenti con imputati detenuti. Tutti i processi con imputati a piede libero già fissati in queste settimane sono stati rinviati. Ciò significa che i processi che si sarebbero dovuti celebrare tra qualche mese (possiamo dire, da settembre in poi) dovranno “far posto” ai processi rinviati. Il risultato, inevitabile, ha una sola parola: ingolfamento del sistema. Rischio che tutti i processi, anche per fatti gravi, subiscano un ulteriore rallentamento, con conseguente pericolo di prescrizione. C’è bisogno di un nuovo inizio. Quando il motore si imballa bisogna resettarlo. A costo di provocare oggi qualche piccola ingiustizia che servirà però ad evitare, domani, più gravi e generali ingiustizie. Per questo i tribunali devono essere alleggeriti da un carico che rischierebbe di metterli in ginocchio. E ciò vale anche per quei detenuti già condannati a pena definitiva che, in questi mesi, stanno vivendo, tra le mura di un carcere, il timore di un contagio incontrollabile. Anche a loro lo Stato deve saper dire una parola di comprensione e umanità. Così è stato in tutti i passaggi cruciali della storia del nostro Paese, sempre accompagnati da provvedimenti di clemenza. È presto per parlarne in termini di provvedimenti legislativi. Non è presto per cominciare a pensarci. Oltre l’angoscia resta la paura da superare di Mauro Palma Avvenire, 20 maggio 2020 Quali misure per un dignitoso sistema di detenzione. La paura è diversa dall’angoscia: la prima individua un oggetto rispetto al quale misurare la propria reazione, la seconda non riesce più a individuarne alcuno e diviene totalmente avvolgente, fino a determinare un senso di ineluttabilità. Un nemico invisibile, diffuso, rischia di far evolvere una iniziale paura in angoscia. Questa è, forse, la sensazione vissuta da molti negli ultimi mesi, ma soprattutto da coloro che hanno sommato la nuova situazione a quella precedente che già di per sé determinava ansia e timore. È la sensazione che si è vissuta in carcere. Accresciuta quando le presenze esterne sono pressoché sparite e lo spazio interno è diventato vuoto e sordo ad altre voci. La pandemia ha investito intere comunità, mettendole a confronto con un nemico sconosciuto. Ma, non ha trovato tutti nella stessa posizione: non siamo tutti uguali, come qualche messaggio pubblicitario ha voluto far credere. C’è una parte della popolazione, da molti relegata in un angolo, che è particolarmente vulnerabile e lo è stata ancor più in questo periodo: le persone private della libertà. Tra esse, una particolare fisionomia dell’angoscia ha coinvolto le persone detenute negli istituti penitenziari, per adulti o per minori. Ma, se per i secondi si è realizzata - anche in virtù del loro ridotto numero - una modalità di comunicazione che è riuscita a moderare tale sensazione, nei primi essa è esplosa. L’angoscia per il contagio li ha colpiti in maniera potenziata dalla sensazione di essere sottoposti a una “doppia prigionia”: alla privazione della libertà si è aggiunta quella dell’ineluttabilità di un disastro qualora il contagio fosse entrato oltre le mura del carcere. Anche da qui lo svilupparsi di tensioni poi sfociate in violenze non appena si è avuta notizia di un caso di contagio e del contemporaneo decreto che chiudeva le porte. L’esito drammatico dei tredici morti è stato frettolosamente archiviato, quasi un “danno collaterale”: nessuno si è interessato a quelle vite, neppure ai loro nomi. Il carcere già versava in una situazione che avrebbe dovuto generare paura in chi ne aveva responsabilità e ne generava in chi vi era ospitato. A questa si è aggiunta l’informazione che dettava un insieme di regole di fatto opposte a quelle secondo cui si modulava la quotidianità detentiva. Sentire della necessità di mantenere una distanza di sicurezza tra le persone e di evitare i luoghi affollati e vedere il compagno di stanza a pochi centimetri, condividere i servizi igienici, preparare e consumare i pasti nelle celle, spesso in condizioni igieniche precarie; apprendere che il virus può diventare letale se colpisce persone con un sistema immunitario già indebolito e vedere attorno molti debilitati da un trascorso di vite difficili o con gravi patologie. Questi gli elementi che hanno inciso sulla già radicata paura e l’hanno fatta evolvere verso l’angoscia dell’ineluttabilità. Fortunatamente, a oggi, la diffusione interna del contagio è stata contenuta - poco più di 200 persone coinvolte tra i detenuti e altrettante tra il personale - e anche le restrizioni sono state gradualmente accettate, dopo l’introduzione di smartphone e altro. La luce della fine del tunnel sembra delinearsi, anche se si sa già che non sarà l’unica galleria che caratterizzerà il tragitto da compiere. Forse, si può tornare a essere soltanto “impauriti” e non più “angosciati”: a costruire modalità di vita personale, anche dentro le mura del carcere, che abituino a pensare che sono i nostri comportamenti a contribuire fortemente a superare la sfida. Da soli però non bastano. Occorre che quelle criticità di densità di affollamento, di promiscuità e di scarsa centralità assegnata alla prevenzione nella tutela della salute in carcere, vengano definitivamente risolte. Non solo perché costituiscono la cifra di un dignitoso sistema di detenzione, ma anche perché sono il vero strumento affinché alla pena non si aggiunga altra pena. Tra errata corrige (Dpcm 17 e 18 maggio) e rientro in carcere dei “boss”: si naviga a vista! di Carmelo Minnella Ristretti Orizzonti, 20 maggio 2020 Difficile districarsi nella selva normativa attuale, tra decreti legge e Dpcm, tra interpolazioni continue, integrazioni, sostituzioni in parte qua ed errata corrige. In materia penitenziaria sembra poi incanalarsi in direzione opposta a quella (ovvia) di garantire al detenuto a rischio covid-19 misure che possono garantirgli, anche provvisoriamente, la fuoriuscita dal circuito penitenziario, per garantire più in generale la salute pubblica. Invece si è passati dalle timide e insufficienti misure previste dal d.l. cura Italia n. 18/2020, convertito in legge 27/2020 (come unanimemente e trasversalmente riconosciuto) - concretizzatisi nella detenzione domiciliare in deroga (a quella già prevista dalla l. 199 del 2010) e nell’allungare il range temporale delle licenze per i semiliberi - alle norme che si sono preoccupate, con il d.l. 28/2020, di “aggravare” l’iter procedurale per giungere alla “eventuale” concessione della detenzione domiciliare umanitaria e i permessi premi ad alcuni detenuti ritenuti pericolosi (peraltro esponendosi a limpide discriminazioni, se irragionevoli c’è lo dirà la Consulta) e di quelle, descritte dal d.l. 29/2020, che prevedono un estenuante monitoraggio della permanenza delle condizioni di incompatibilità della detenzione domiciliare in surroga o del differimento della pena. La straordinarietà e urgenza della decretazione (per l’appunto) d’urgenza, così come puntualizzati dalla consolidata e più recente giurisprudenza costituzionale, sono stati capovolti negli ultimi 2 d.l., in spregio all’art. 77 Cost. (come segnalato nei primi commenti anche da esponenti della magistratura). Sta di fatto che, dopo il decreto del 12 maggio scorso dell’Ufficio di sorveglianza di Siena, ieri gli organi di stampa hanno divulgato la notizia che anche il Magistrato di sorveglianza di Milano ha revocato la detenzione domiciliare concessa provvisoriamente ad altro detenuto sottoposto al 41-bis il 20 aprile 2020. Come detto l’iter è stato stravolto dal legislatore d’urgenza che, nelle more della decisione del Tribunale di sorveglianza nel contraddittorio delle parti, ha introdotto nel d.l. 29/2020 una rivalutazione costante delle condizioni di accesso alla detenzione domiciliare. Non ho ancora letto il provvedimento del magistrato milanese (peraltro il sottoscritto ha sempre riconosciuto grande ‘coraggio’ a tutto il Tribunale di sorveglianza di Milano nel supplire alla contumacia del legislatore in questo delicato momento storico). Ho avuto però la fortuna di leggere le 20 pagine con le quali i difensori di Bonura avevano, tra gli altri, sollevato questione di legittimità costituzionale sotto vari profili degli artt. 1 e 2 d.l. 29/2020: siamo fi fronte ad un trattato di diritto penitenziario, aggiornato con gli addenda della storica sentenza della Corte costituzionale n. 32/2020, intervenuta, ironia della sorte, pochi giorni prima si scoperchiasse l’emergenza coronavirus (e che ancora, vista la sua portata ‘storica’ e i suoi dirompenti effetti nell’ordnamento penitenziario, non è stata metabolizzata). Pare innegabile infatti, a parte il mancato rispetto dell’art. 77 Cost., la violazione del divieto di retroattività della norma penale più sfavorevole (e tra il ‘dentro’ e il ‘fuori’ cambia il vestito, da processuale a sostanziale, delle norme penitenziarie); del diritto di difesa, in quanto la revoca della misura umanitaria viene emessa senza contraddittorio con il detenuto e i suoi legali (stravolgendo la deroga al contraddittorio dei provvedimenti provvisori, dettata proprio dall’esigenza di evitare “un grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello status detentionis”, quindi in chiara ottica di favor condannato e conseguente anticipazione cautelare della misura alternativa alla detenzione; e non l’esattamente il contrario di quanto stabilito dal d.l. 29); del giudice precostituito per legge (una volta che il magistrato di sorveglianza ha provvisoriamente concesso la detenzione in deroga è il Tribunale di sorveglianza il giudice naturale precostituito per legge a rimettere in discussione la decisione cautelare). Tutti profili che saranno portati all’attenzione della Corte costituzionale e di quella di Strasburgo. Ma a questo, nell’ottica del legislatore, ad eventuali pronunce di incostituzionalità e di “condanna” della Corte EDU, si penserà più avanti: ora bisogna far rientrare in carcere i “boss”, a tutti i costi, che devono marcire in carcere, anche se - come nel caso di Bonura - mancano ormai pochi mesi per finire di scontare la pena! Non importa, bisogna acquietare il pubblic panic (del consociato?): nessuno, neanche i boss possono giovarsi del covid-19 per uscire dal carcere. Peccato che, proprio nel caso Bonura, come hanno evidenziato limpidamente suoi legali, il rischio da contagio coronavirus nella decisione del magistrato milanese ha avuto al più una valenza meramente ‘rafforzativa’ dell’architrave della decisione che poggiava sul grave quadro clinico del detenuto. Dai decreti legge ai DPCM. Un’ultima considerazione - apparentemente di minore importanza - merita quanto accaduto nei due decreti del presidente del consiglio dei ministri del 17 e 18 maggio, che hanno ad oggetto i ‘nuovi ingressi’ e il rischio che questi, qualora positivi, possano diffondere il virus all’interno del carcere. Il DPCM del 17 maggio 2020 (pubblicato in pari data nella gazzetta ufficiale n. 126) prevede in questi casi che “I casi sintomatici dei nuovi ingressi sono posti in condizione di isolamento dagli altri detenuti, raccomandando di valutare la possibilità di misure alternative di detenzione domiciliare. I colloqui visivi si svolgono in modalità telefonica o video, anche in deroga alla durata attualmente prevista dalle disposizioni vigenti. In casi eccezionali può essere autorizzato il colloquio personale, a condizione che si garantisca in modo assoluto una distanza pari a due metri. Si raccomanda di limitare i permessi e la semilibertà o di modificare i relativi regimi in modo da evitare l’uscita e il rientro dalle carceri, valutando la possibilità di misure alternative di detenzione domiciliare”. Tale disposizione ricalca, mutandis mutandis, quella già prevista dall’art. 1 lettera y de DPCM 26 aprile 2020 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 108 del giorno successivo). Passano meno di 24 ore e un nuovo DPCM del 18 maggio 2020 (pubblicato lo stesso giorno nella Gazzetta Ufficiale n. 127) ad hoc, composto di un solo articolo, elimina la seconda parte del comma cc), troncando addirittura una parte di una frase in corso, e fermandosi a “I casi sintomatici dei nuovi ingressi sono posti in condizione di isolamento dagli altri detenuti”. Cosa manca ed è stato eliminato? Oltre alle norme sui colloqui (per i quali comunque la norma attuale a cui riferirsi è l’art. 4 d.l. 29/2020), viene tolta la “raccomandazione” di valutare l’accesso alla detenzione domiciliare per i nuovi ingressi sintomatici; di limitare i permessi e la semilibertà valutando in questi casi dove il detenuto ha già avviato un percorso rieducativo di ‘premiarlo’ con la misura alternativa alla detenzione, visto che il permesso premio e la semilibertà potrebbero essere veicolo di ingresso in carcere del virus. Ovviamente i magistrati di sorveglianza (ci si augura tutti) continueranno a valutare in tal senso i risultati positivi della rieducazione: l’emergenza sanitaria in atto (che non è finita, basta entrare in qualunque palazzo di giustizia per rendersene conto) non può mortificare la positiva adesione del condannato alle offerte trattamentali, al quale sarà eventualmente concessa una misura alternativa eventualmente “diversa”, eventualmente più ampia (in termini di spazi di libertà personale) ma comunque idonea a garantirgli una pena rieducativa (quindi flessibile), pena la violazione dell’art. 27 comma 3 Cost. Ancora una volta: l’emergenza sanitaria non può far arretrare i fondamentali diritti di salute del detenuto e la valorizzazione della strada verso la risocializzazione da questi compiuta. Pillole finali. Come autorevolmente sostenuto da più parti, il coronavirus poteva essere una formidabile occasione per ripensare al carcere e più al superamento della visione carcero-centrica. Invece la apparente ‘innocua’ eliminazione del suindicato periodo compiuta dall’ultimo DPCM - che non fa rivivere quanto previsto dal DPCM del 26 aprile in quanto l’art. 11 del DPCM 17 maggio espressamente prevede che “Le disposizioni del presente decreto si applicano dalla data del 18 maggio 2020 in sostituzione di quelle del DPCM 26 aprile 2020 e sono efficaci fino al 14 giugno 2020” - è sintomatico del panpenalismo che pervade le politiche (quali?) penitenziarie. Si continua, anche in quest’ambito, a navigare a vista! Il problema del lavoro nelle carceri italiane di Marco Fattorini linkiesta.it, 20 maggio 2020 Dare ai detenuti una formazione e delle competenze sarebbe una soluzione per abbattere la recidiva e far risparmiare soldi allo Stato, ma la politica non sembra interessata a cercare risposte. L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, ma non dietro le sbarre. Il lavoro in carcere rappresenta uno dei pilastri della rieducazione dei condannati, ma anche un investimento sulla sicurezza del Paese. Abbatte la recidiva, oggi altissima, dal 70 all’1 per cento e fa risparmiare un mucchio di soldi allo Stato: ogni punto di recidiva guadagnato corrisponde a 40 milioni di euro. Nei mesi della pandemia i penitenziari italiani sono tornati al centro delle cronache per le rivolte, le evasioni e le scarcerazioni dei boss. Sono seguite le dimissioni del capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (Dap) Francesco Basentini e le polemiche nei confronti del ministro Alfonso Bonafede, lambito dalla sfiducia parlamentare. Ma nelle patrie galere la situazione non cambia. Se possibile, si complica. Al tempo del Covid, non solo gli istituti penitenziari hanno sospeso le visite coi parenti e i volontari non entrano più, ma anche la maggior parte delle attività lavorative dei detenuti si sono fermate. Il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, Marcello Bortolato, racconta a Linkiesta: “Il lavoro in carcere è un’assicurazione sul futuro. Ma oggi è visto come una concessione o un favore che si fa al detenuto. I politici non capiscono che quando la pena finisce e restituiamo alla società un detenuto a cui non abbiamo dato possibilità e a cui non abbiamo insegnato un mestiere, molto probabilmente tornerà a delinquere”. Solo il 4 per cento dei reclusi fa un lavoro vero, con formazione, contratto e stipendio. “Non c’è niente di più responsabilizzante. Se vedo che con le mie mani produco qualcosa, quando esco potrò camminare con le mie gambe”. I numeri, però, sono impietosi. Al 31 dicembre 2019, prima della pandemia, su 60.769 detenuti lavoravano in 18.070, cioè il 29,7 per cento. Una percentuale che inganna. Di questi infatti, solo 2.381, cioè il 4 per cento del totale, sono assunti da imprese e cooperative. Gli altri 15.689 svolgono attività alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria: addetti alle pulizie, alla lavanderia e alla cucina, cuochi e manutentori. Mestieri senza formazione e difficilmente spendibili fuori dalle mura del penitenziario, svolti per poche ore al giorno, pochissimi giorni l’anno. Con stipendi bassi, un terzo in meno rispetto al contratto nazionale di riferimento, a cui poi bisogna togliere le spese di mantenimento. Poco più di un sussidio. “È un modo per tenere calmi i detenuti, che con quei soldi possono comprarsi il cibo o le sigarette”, spiega a Linkiesta il Garante nazionale dei diritti dei detenuti Mauro Palma. Il lavoro vero, quello con formazione, stipendio e orari può migliorare le condizioni delle galere, ma non sembra interessare alla politica. Soprattutto in tempi in cui parole come giustizialismo, manette e spazza-corrotti prevalgono nel dibattito. “Quella di oggi - riflette Palma - è una politica centrata sull’emotività, in cui la risposta seccamente punitiva viene fatta passare come quella più soddisfacente. Può esserlo rispetto all’adrenalina immediata, ma a lungo andare è la più disastrosa. Oggi ci sono persone in carcere per pene brevi e ripetute: gente che entra ed esce. Lo Stato dovrebbe investire perché le persone non tornino in prigione. Spesso il lavoro rappresenta anche la possibilità di mandare soldi alle famiglie e riduce il rischio di esposizione alla criminalità”. Sul tema c’è un silenzio assordante. Nicola Boscoletto è il presidente della cooperativa Giotto, che insieme ad altre due realtà fa lavorare 170 detenuti nel carcere di Padova. E non ha dubbi: “Per la politica non è un argomento che paga. Chi fa consenso coi carcerati urla, chi avrebbe motivi per fare qualcosa di buono sta zitto per evitare di perdere voti e prendere insulti. Ma oggi dal carcere le persone escono peggiori di come vi sono arrivate. Questo è un fallimento e non si può far finta di niente. È come un albergo al contrario: in hotel, per far tornare i clienti, li devi trattare bene. In prigione, per farli tornare, devi trattarli male”. Il carcere Due Palazzi è una delle strutture più all’avanguardia per il lavoro. Qui sono impegnati 170 detenuti che rispondono al telefono per i call-center delle Asl, per le società di luce e gas, per le Camere di Commercio. Producono tacchi per l’alta moda e assemblano valigie per Roncato. In questo periodo di pandemia alcuni di loro hanno riconvertito l’attività creando mascherine in tessuto, lavabili e certificate. Poi c’è il fiore all’occhiello: la pasticceria Giotto, un laboratorio premiato dal Gambero Rosso che sforna panettoni e colombe artigianali, ma anche biscotti e torte venduti nei negozi gourmet di tutta Italia. “Non parliamo di assistenzialismo, ma di attività che stanno sul mercato”, spiega Nicola Boscoletto. “Prima si fa formazione con un tirocinio pagato, poi le persone vengono assunte con il contratto collettivo. Se vanno reinserite nella società, devono essere allenate per farlo. E quando al detenuto offri il bene, lui in qualche modo lo coglie”. Per aziende e cooperative sociali che decidono di varcare le soglie dei penitenziari, lo Stato ha previsto incentivi fiscali e previdenziali. Eppure la vita degli imprenditori dietro le sbarre procede tra mille ostacoli. “È come camminare in un campo su cui ci sono contemporaneamente mine e sabbie mobili”, racconta Boscoletto. “Tutto è assorbito dalla burocrazia. Le imprese, alla stregua dei detenuti, devono fare una “domandina” all’amministrazione penitenziaria per ogni cosa che fanno, e questo ci uccide”. L’organizzazione carceraria è rigida per definizione. I controlli sono necessari. Ma in questo contesto impostare il lavoro è sempre più difficile. “Basti pensare che la giornata carceraria finisce alle 15.30”, racconta il garante Mauro Palma. “Dopo quell’ora non si possono fare attività, un imprenditore che investe non può stare a questo tipo di logica”. Le realtà di eccellenza si affermano nonostante le difficoltà: nel carcere di Lecce si producono le borse, a Siracusa i dolci, a Torino c’è la “Banda Biscotti”, alla Giudecca di Venezia la sartoria ha cucito gli abiti per il Teatro La Fenice, a Bollate c’è addirittura un ristorante gestito dai detenuti. Nell’isola-penitenziario di Gorgona la cantina Frescobaldi ha impiantato vitigni con cui i detenuti producono vini pregiati venduti anche a New York. Troppo spesso, però, queste attività sono affidate all’iniziativa di direttori illuminati e imprese volenterose. Manca una regia nazionale, non si vedono sponde istituzionali. Boscoletto racconta: “Da quando si è insediato l’attuale ministro della Giustizia, noi come coordinamento delle aziende che lavorano in carcere, un’ottantina di realtà, abbiamo mandato diverse mail e richieste di convocazione a Bonafede, ma non abbiamo mai ricevuto risposta. Lo Stato dovrebbe togliere gli ostacoli, non metterli”. Il Ministero della Giustizia ha puntato sul lavoro gratuito di pubblica utilità. In base ad accordi con i Comuni, diversi detenuti sono stati spediti a tappare le buche delle strade o a fare manutenzione del verde pubblico. A Roma come in altre città. Ma il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze Marcello Bortolato non ha dubbi: “È fumo negli occhi nei confronti di un’opinione pubblica che si sente rassicurata dal vedere detenuti che puliscono la città gratis. Non si può imporre un lavoro che dovrebbe essere volontario. E soprattutto questo non è lavoro, non ha una valenza educativa per chi la fa”. Il garante dei detenuti Mauro Palma aggiunge: “Manca la retribuzione, è una modalità che ci fa tornare quasi all’epoca dei lavori forzati”. Comunque non come ai livelli dell’Ungheria, dove il premier Orban aveva impiegato i detenuti per costruire i muri anti-migranti alle frontiere. Come funziona il lavoro dietro le sbarre nel resto d’Europa? In Francia, dove pure la situazione non è rosea, le carceri riescono comunque a far lavorare quasi il 50 per cento dei detenuti. In Germania la legge penitenziaria prevede l’obbligatorietà del lavoro e attualmente i penitenziari tedeschi danno un’occupazione al 65 per cento dei reclusi. Qui c’è più spazio per le imprese, comprese diverse case automobilistiche. Ma spesso ci sono anche casi di organizzazione “fordista” del lavoro e sfruttamento di manodopera a bassissimo costo. In Olanda, per i detenuti che lavorano, l’Amministrazione penitenziaria calcola uno stipendio virtuale da cui trattiene le spese di giustizia e mantenimento, per poi dare al detenuto la differenza. Chi accetta questo programma poi ottiene sconti di pena e permessi. Gli esperimenti più interessanti, però, arrivano da Danimarca e Spagna, dove in alcuni istituti si è attuato un modello responsabilizzante per i reclusi che, attraverso il lavoro, sono chiamati a organizzarsi la settimana anche per quanto riguarda il sostentamento economico. In Italia la situazione resta immobile, o forse no. “Io vedo una regressione, anche perché la questione carceraria non vuole essere affrontata una volta per tutte”, spiega Bortolato. “È difficile far capire all’opinione pubblica che il lavoro ai detenuti, insieme allo studio e alla cultura, è un investimento sulla sicurezza”. Il tema però non è all’ordine del giorno. Spesso non sono sufficienti neppure decreti e circolari. “La legge non basta, servono le persone che la applichino e bisogna dare una speranza a chi è dentro”, riflette Boscoletto, che a Padova ha visto diversi ‘miracoli’ dietro le sbarre. Detenuti che lavoravano e che, una volta usciti, hanno trovato un’occupazione o creato imprese. Chi aveva imparato a fare il pasticcere, fuori ha aperto una pasticceria. Chi si è formato nei call-center, ha continuato in quel ramo. “Ma la cosa più bella, nella fatica di percorsi lunghi, è vedere le facce felici di persone che cambiano”. La disastrosa gestione del regime di massima sicurezza nelle carceri italiane di Lirio Abbate L’Espresso, 20 maggio 2020 Cellulari ai detenuti. Scarcerazioni per motivi di salute. Pochi agenti specializzati. Così il 41bis non regge più. E per questo il terremoto ai vertici del Dap era prevedibile. Un narcotrafficante detenuto a Rebibbia nella sezione “alta sicurezza” in “grave stato di malattia” è andato agli arresti ospedalieri su ordine dei giudici del Tribunale del riesame di Napoli, perché per otto mesi il Dap, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, non ha indicato ai magistrati una propria struttura in cui trasferire il detenuto per poterlo curare, evitando la scarcerazione. E così, alla fine, i magistrati hanno consentito il ricovero in un ospedale pubblico. Nell’ordinanza che motiva la decisione si fa riferimento a “pacifici ritardi”, “obiettive omissioni nell’eseguire gli accertamenti diagnostici necessari”. Per queste ragioni al tribunale “tenuto conto dell’accertata, in concreto, inadeguatezza delle strutture penitenziarie a trattare correttamente, e in maniera tale da rispettare la dignità del detenuto e a tutelare il suo bene vita” non è rimasto altro, dopo otto mesi in attesa di una riposta che non è mai arrivata dal Dap, di accogliere l’istanza del difensore, facendo ricoverare il narcotrafficante. Di fatto scarcerandolo. Tutto questo accadeva lo scorso agosto, e a capo del Dap c’era Francesco Basentini, nominato dal Guardasigilli Alfonso Bonafede a giugno del 2018 responsabile di questo dipartimento del ministero della Giustizia, che gestisce circa sessantamila detenuti, ma soprattutto amministra un bilancio di due miliardi e 600 milioni di euro e un corpo di polizia, quella penitenziaria. Si tratta, per usare lo stesso termine scritto dai giudici, di ritardi, “per ragioni rimaste ignote”, e per questo il tribunale ha segnalato il caso al Dap per “eventuali profili di rilievo disciplinare”. Non è l’unico caso in cui il Dap è rimasto in silenzio, provocando la scarcerazione di pericolosi “ammalati” che invece avrebbero potuto essere curati in strutture penitenziarie. Lo abbiamo visto più di recente con il caso del camorrista Pasquale Zagaria, quando il 23 aprile scorso i giudici del tribunale di sorveglianza di Sassari hanno deciso il differimento di pena per il camorrista al 41bis. Zagaria poteva essere curato in strutture sanitarie carcerarie e quindi i magistrati avevano scritto al Dap “se era possibile individuare altra struttura penitenziaria sul territorio nazionale ove effettuare il follow-up diagnostico e terapeutico, ma, come detto, non è pervenuta alcuna risposta, neppure interlocutoria”. A questo punto i giudici del tribunale di Sorveglianza di Sassari hanno ordinato il differimento della pena del boss. E così Zagaria ha salutato il 41bis. Si è imbarcato da solo sull’aereo, senza scorta a Cagliari, come disposto dal Dap. È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso sulla gestione delle carceri da parte di Basentini, il quale, dopo aver letto l’ordinanza dei giudici che ha messo nero su bianco le mancanze del Dipartimento, ha risposto che il tribunale “è stato costantemente informato delle attività degli uffici dell’Amministrazione penitenziaria per trovare al detenuto Pasquale Zagaria una collocazione compatibile col suo stato di salute”, spiegando che “tutti i passaggi che si stavano compiendo sono stati oggetto di comunicazione al tribunale di sorveglianza, con almeno tre messaggi di posta elettronica, l’ultimo dei quali risalente al 23 aprile”. Uno scaricabarile di responsabilità da cui emergono gravi lacune del sistema penitenziario. Il regime differenziato del 41bis abbandonato a sé stesso per mancanza di linee programmatiche del capo Dap, e i telefonini nascosti in moltissime celle dei reparti ad alta sicurezza, ha portato a un allentamento del carcere “impermeabile”. Punti critici e mancanze che vengono sottolineati non solo dai giudici, ma anche dai capi distrettuali antimafia riuniti dal procuratore nazionale Federico Cafiero de Raho alla vigilia dello scorso Natale, che hanno elencato le “gravi criticità” del sistema penitenziario a Francesco Basentini, presente all’incontro. Ad aprire il confronto è stato il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, il quale ha fatto presente che il regime di 41bis in realtà non è mai stato applicato così come previsto dall’ordinamento penitenziario, perché a suo parere, è stato svuotato di contenuto “dalle circolari di coloro che si sono succeduti al vertice del Dap”. Per Gratteri una delle ragioni dell’inefficacia del sistema dipende anche dal vuoto di organico del Gom, il reparto di eccellenza della polizia penitenziaria che si occupa solo dei boss al 41bis. Mancano almeno 200 agenti e si fatica ogni giorno a controllare i 750 boss. C’è voluta questa riunione per far inserire a Basentini nelle sue linee programmatiche di febbraio 2020 un riferimento al 41bis e all’alta sicurezza. Alla riunione di dicembre con i procuratori il capo Dap aveva affrontato la questione dei boss al 41bis “in prossimità del fine pena”. Riteneva “incoerente prorogare il regime differenziato (41bis) nei confronti dei detenuti che di lì a poco saranno totalmente liberi”. Proposta bocciata. “Non vi è alcuna ragione per non prorogare fino all’ultimo giorno il regime differenziato”, ha subito replicato Francesco Lo Voi, procuratore di Palermo. Il quale ha poi denunciato “la questione più grave, rappresentata dai cellulari diffusi ormai in tutte le carceri”, e condiviso, inoltre, “l’esigenza di rafforzare il Gom sia nell’aspetto numerico che nella preparazione per assicurare un più incisivo controllo dei condannati al 41bis”. Sull’automaticità delle proroghe anche nei casi di prossimità di scarcerazione Gratteri ha tenuto a ribadire che “i capimafia sono sempre pericolosi e sono pericolosi fino a quando non muoiono”. Il capo della procura di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, precisa che “l’intero sistema del 41bis dovrebbe essere riorganizzato intervenendo subito su alcune criticità che possono essere rapidamente risolte e programmando ulteriori interventi necessari a garantire la funzionalità del sistema. In altri termini, bisogna investire sul contrasto alla criminalità organizzata e dunque sul 41bis”. Per Bombardieri il controllo dei colloqui in carcere dovrebbe essere riservato solo ad agenti specializzati ed a proposito dell’indebolimento del Gom ha detto: “un tempo rappresentava un’aspirazione per molti agenti della polizia penitenziaria, ora non sembra più così, probabilmente andrebbe rafforzato”. Alle parole di Basentini fa seguito anche il procuratore di Messina, Maurizio De Lucia, il quale non crede che si possa mettere in discussione l’importanza del 41bis, “il problema è rendere effettivo il regime differenziato, in altri termini il problema è la concreta applicazione del 41bis che deve essere garantita”. Perché dunque in questi anni non lo è stato? Ritornando ai telefonini cellulari diffusi nelle sezioni dei detenuti di “alta sicurezza”, e in un caso anche al 41bis, De Lucia ritiene “gravissima la diffusione dei cellulari nel carcere” e afferma che bisogna necessariamente trovare una soluzione al problema. Il fenomeno in alcuni casi è ancor più grave: “Pur sapendo della presenza di telefoni questi non vengono trovati all’esito di perquisizioni. Anche questo va risolto”. Il capo dei pm messinesi fa riferimento al fatto che nelle intercettazioni sono emerse conversazioni fra chi sta in carcere e chi fuori, ma i controlli effettuati in cella non hanno portato a ritrovare i telefoni. Un punto importante lo tocca il procuratore di Napoli Giovanni Melillo, il quale sottolinea che “il vero problema è rappresentato dal controllo mafioso che permea gran parte degli aspetti della vita penitenziaria, ove si praticano costanti esercizi di supremazia criminale”. Sui boss che ottengono la scarcerazione per motivi di salute, il procuratore aggiunto di Catania, Giuseppe Puleio, descrive le scene di giubilo registrate in città degli affiliati al clan Santapaola, quando hanno appreso del ricovero del loro capomafia, tanto da festeggiare l’evento. Cafiero de Raho ha ricordato di aver partecipato circa dieci anni fa ad una riunione simile in cui si segnalava da parte del Dap il numero eccessivo dei detenuti al 41bis, sollecitandone la riduzione e venivano rappresentate “le difficoltà a rendere efficace il sistema a causa del numero inadeguato delle carceri idonee ad accogliere questi detenuti”. A distanza di anni, secondo il procuratore nazionale, “le criticità sono le stesse”. “Anzi sembrano peggiorate. Infatti, pur limitando questo regime ai vertici delle organizzazioni mafiose, il numero dei detenuti al 41bis è elevato perché è elevato il numero delle associazioni mafiose, camorristiche, ‘ndranghetistiche che operano sul territorio”, spiega de Raho, il quale suggerisce a Basentini che la soluzione del problema “non può certo essere la riduzione dei detenuti al 41bis ma la previsione di altre carceri. Non è il sistema che va messo in discussione, è l’applicazione del sistema che non funziona e su questo bisogna intervenire. È evidente l’esigenza di nuove risorse materiali ed umane per garantire l’efficacia del regime carcerario”. Ma le criticità sono rimaste irrisolte. Nelle scorse settimane Basentini ha lasciato la guida del Dap. La sua poltrona aveva cominciato a traballare subito dopo la rivolta nelle carceri, scoppiata dopo lo stop dei colloqui dei detenuti con i familiari per l’emergenza Covid-19, e che ha visto 13 morti tra i reclusi, un’evasione di una settantina dal penitenziario di Foggia e danni alle strutture di mezza Italia per 20 milioni di euro. Poi un nuovo forte scossone è arrivato dalla vicenda delle scarcerazioni dei mafiosi, sia in regime di 41bis, sia di “alta sicurezza”, che hanno lasciato il carcere per motivi di salute, disposte dai magistrati di sorveglianza, dopo una circolare del Dap che invitava i direttori delle carceri a segnalare ai giudici i detenuti con gravi patologie e gli over settantenni. Così, dopo essere diventato bersaglio di accuse da diverse parti, soprattutto per il caso dei domiciliari concessi a Zagaria, il ministro Bonafede ha accolto le sue dimissioni. Al suo posto si è insediato Dino Petralia, magistrato di lunga esperienza nel contrasto alla criminalità organizzata in Sicilia e nelle indagini sui patrimoni mafiosi. Il nuovo capo eredita una situazione delle carceri frastagliata che deve essere ben ricomposta. Una gestione da risanare. Tutto avviene all’indomani dell’emorragia di scarcerazioni di criminali il cui ritorno sul territorio ha segnato un vantaggio per le mafie. Fermo restando che va sempre tutelata la salute di tutti, occorre ricordare che anche solo un gesto, un piccolo movimento, nel linguaggio usato dai boss conta molto. Sfiducia a Bonafede, Renzi lo tiene sulle spine. Pd e 5 Stelle: si rischia la crisi di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 20 maggio 2020 Si votano al Senato le mozioni del centrodestra e di Bonino. Conte vede a Palazzo Chigi la capogruppo di Italia viva Boschi. Bellanova: “Noi non siamo giustizialisti”. Il primo vero intralcio politico alla sopravvivenza del governo Conte II arriva nell’Aula del Senato oggi alle 9.30, quando, in diretta tv, si discuteranno due mozioni di sfiducia contro il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, una presentata dal centrodestra (Lega, FdI e Forza Italia) e l’altra da Emma Bonino di +Europa, appoggiata da Azione e da FI. Il Guardasigilli dei 5 Stelle era stato accusato nei giorni scorsi dal magistrato Nino Di Matteo. L’attesa è soprattutto per il comportamento dei renziani, che continuano a ostentare un’indecisione - reale o tattica - sul sostegno o meno alla mozione Bonino e che sono determinanti, con i loro 17 senatori. Per Renzi, se cadesse il governo, non si andrebbe al voto. Pd e M5S la pensano diversamente. Per provare a sventare il rischio, ieri il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha ricevuto a Palazzo Chigi la capogruppo di Italia viva alla Camera, Maria Elena Boschi. Oggetto dell’incontro, l’atteggiamento del gruppo sulla sfiducia e, come probabile moneta di scambio per un via libera a Bonafede, un pacchetto di proposte politiche di Italia viva al governo. A partire dal “piano choc” da 120 miliardi per l’edilizia. Il ministro viene accusato per avere nominato alla direzione del Dap Francesco Basentini, al posto del magistrato Di Matteo, secondo il quale la nomina avvenne dopo le proteste dei boss. Dal Pd mettono in chiaro la portata della sfida. Lo fa prima il capogruppo alla Camera Graziano Delrio: “Se passa la sfiducia sì che sarebbe una vera crisi”. In scia il ministro Francesco Boccia: “La sfiducia a un ministro è una sfiducia a tutto il governo”. I renziani restano in una posizione attendista. Il ministro Teresa Bellanova chiede un cambiamento: “È evidente che il giustizialismo non è la nostra cultura. Ascolteremo il ministro e valuteremo”. Andrea Marcucci avverte Bonafede: “C’è un problema di metodo che il M5S deve modificare”. Michele Anzaldi, intanto, bombarda la Rai: “Tg1 e Tg2 ci oscurano”. Vito Crimi, M5S, non crede in “sorprese” e attacca: “È curioso che veniamo accusati di essere manettari e di aver scarcerato i mafiosi”. Per il presidente della Camera, Roberto Fico, Bonafede “ha agito con trasparenza” e “in caso di crisi ci saranno elezioni”. E il sindaco di Milano Giuseppe Sala dà un “consiglio” al governo: “Non voglio apparire irrispettoso, ma non è che la compagine ministeriale non possa essere rivista. Non lo chiamerei un rimpasto, ma chiedo a Conte se non ha bisogno di avere i migliori al suo fianco”. Bonafede non può cadere, malgrado tutto di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 20 maggio 2020 Giustizia. Oggi in senato il voto sulla sfiducia. Renzi tratta su altro, vuole firmare i prossimi decreti famiglia e cantieri. Il Pd: diciamo no alle mozioni ma lo facciamo per il governo non per il guardasigilli, ora deve cambiare e ricordarsi della coalizione. Le richieste dei dem su Csm e riforma del processo penale. Non cadrà, ma danni alla maggioranza che lo sostiene ne ha causati parecchi. Soprattutto, il ministro Bonafede, il solo con Conte ad aver mantenuto l’incarico nel passaggio dall’alleanza con la Lega a quella con il Pd (c’è anche Costa all’ambiente, ma non si nota), costringe i partiti a complicate contorsioni per giustificare il voto contrario alle mozioni di sfiducia individuali che lo riguardano e che si votano stamattina al senato. Renzi è riuscito in qualche modo a tenere il governo sulla corda. Una mozione di sfiducia al ministro della giustizia l’aveva annunciata lui stesso. E ne aveva chiesto le dimissioni. Ma non farà cadere il governo adesso e per questo, votando le mozioni delle opposizioni. Anche se ha convocato un’ultima drammatica riunione dei suoi diciassette e potenzialmente decisivi senatori per stamattina. Il Pd la riunione l’ha fatta ieri sera. Quando ancora non aveva ricevuto risposte precise dal ministro al quale era stata recapitata una richiesta sola: un segnale di cambiamento. Non è naturalmente mai stata in discussione l’eventualità di un voto suicida contro il governo da parte dei senatori dem, per quanto teso sia stato in questi mesi il rapporto tra il partito di Zingaretti e il guardasigilli. Si è cercato casomai di raccogliere qualcosa da questa scomoda circostanza, condizionando almeno un po’ la linea di populismo penale del ministro. Difficilmente il tentativo avrà successo. Per quanto ammaccato dai recenti colpi subiti proprio sul fianco giustizialista, il Bonafede che prenderà la parola stamattina nell’aula del senato non potrà che confermare se stesso. “Domani voteremo soprattutto per salvare il Governo”, dichiara il capogruppo dei senatori democratici alla fine della riunione in cui ha dovuto ascoltare diverse critiche al ministro. E aggiunge: “il Guardasigilli ora deve ricordarsi di essere ministro in un governo di coalizione nella stesura delle riforme del processo penale e civile”. Il piano lo ha esposto qualche giorno fa il vicesegretario Pd Orlando in un’intervista a questo giornale: bisogna accelerare le riforme che erano state messe da parte per non scontrarsi con la magistratura associata (il Csm) e incidere con più forza nelle vecchie regole che agevolano le logiche correntizie. Nel caso in cui il ministro non desse seguito a queste richieste, si è detto nella recente riunione dei parlamentari Pd che seguono la materia, i gruppi potrebbero andare avanti e depositare le loro proposte di legge senza gli alleati. Sapendo di poter contare sui voti di parte dell’opposizione. Manovre tattiche che è difficile prendano corpo, oltretutto il parlamento è bloccato dalla valanga di decreti anti Covid-19 e riesce appena a immaginare di dedicarsi ad altro. Tutto quello che è successo before Covid, quando la maggioranza giallo-rossa sulla giustizia rischiò la crisi prima di trovare un faticoso accordo a tre, senza Italia viva - è come dimenticato. Il disegno di legge delega di riforma del processo penale, ad esempio, c’è ed è agli atti della camera, consultabile anche dal capogruppo Pd che ne invoca la stesura. O dalla senatrice Bonino che nella sua acclamatissima mozione attacca Bonafede perché “dopo più di un anno di annunci non ha ancora proposto per la calendarizzazione in parlamento il disegno di legge di riforma del processo penale”. Questa mozione, che si affianca a quella di tutto il centrodestra, per le firme necessarie alla presentazione è soprattutto una mozione di Forza Italia. Il suo grado di minaccia per la tenuta di governo va valutato da questo particolare, il partito di Berlusconi essendo in coda alla lista di quelli interessati alla crisi. Ma certo il testo per le posizioni di Italia viva è “perfetto” (insiste sul giustizialismo del ministro e attacca per la linea sulle carceri), per questo la via per non votarlo (magari uscendo dall’aula) è più tortuosa per i renziani. Passa questa via da altri tavoli e per altre trattative. Con la giustizia hanno poco a che fare. La capogruppo dei deputati Iv Maria Elena Boschi ieri sarebbe stata (non ci sono conferme ufficiali) due volte a palazzo Chigi per negoziare le richieste dei renziani che puntano a intestarsi i prossimi provvedimenti per la famiglia e per la riapertura dei cantieri. Da escludere che la mediazione passi per un posto di sottosegretario di Bonafede che è insieme poco e troppo, visto che porterebbe a condividere la responsabilità della linea politica sulla giustizia. Possibile che al suo ministro, lo stesso che gli ha fatto da apripista nel mondo 5 Stelle, Conte abbia chiesto di dare un segnale proprio sul tema sul quale è stato meno disponibile nei mesi scorsi. Dopo la chiusura dei tribunali imposta dall’epidemia, in fondo, il ragionamento sulla prescrizione deve essere ripreso. Le due mozioni di sfiducia al ministro Bonafede di Marvin Ceccato agi.it, 20 maggio 2020 Due le chiame per votare le distinte proposte presentate, da una parte dalla Lega, e dall’altra da +Europa e da Azione di Carlo Calenda, sottoscritta da più di 30 senatori di Forza Italia. Due mozioni di sfiducia nei confronti del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. è questa la partita che si giocherà domani al Senato, con Italia viva a fare la parte del leone, visto che, con 17 eletti, può diventare l’ago della bilancia, nella decisione che dividerà sostenitori e detrattori del Guardasigilli. Agli atti parlamentari ancora non c’è nulla, saranno, infatti, le comunicazioni della presidenza di palazzo Madama, a formalizzare oggi in Aula la decisione assunta dalla capigruppo di calendarizzare la discussione. Due le chiame per votare le distinte proposte presentate, da una parte dalla Lega, e dall’altra da +Europa e da Azione di Carlo Calenda, sottoscritta da più di 30 senatori di Forza Italia. Questi i testi delle due mozioni. Mozione Bonino Bonafede ha manomesso i principi del giusto processo: Il Guardasigilli “si è reso promotore e responsabile di una costante manomissione dell’imparzialità della giustizia, dei diritti dei cittadini e dei principi del giusto processo; la sua azione contro i fondamentali princìpi della civiltà giuridica ha trovato molteplici manifestazioni: dalla violazione del principio di ragionevole durata del processo, allo svilimento delle impugnazioni; dalla negazione costante del fine rieducativo della pena, alla abrogazione di fatto della presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva, fino all’incapacità di individuare soluzioni di tutela e valorizzazione della magistratura onoraria il cui ruolo è preziosissimo per il sistema giustizia; Bonafede non ha rispettato impegni riforma: “il Ministro si è rivelato altresì inadempiente sugli impegni di riforma assunti: su tutti, dopo più di un anno di annunci, non ha ancora proposto per la calendarizzazione in Parlamento il disegno di legge di riforma del processo penale, che avrebbe dovuto precedere - anche a detta del Guardasigilli stesso - la mai troppo criticata, per metodo e sostanza, soppressione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio; Intercettazioni e processo inquisitorio: “la riforma sulle intercettazioni presentata per decreto da questo governo, anziché porre un invalicabile argine alla diffusione dei dialoghi al di fuori del contesto processuale, è stata finalizzata a ampliare l’utilizzo di mezzi di ricerca della prova altamente invasivi, quali il captatore informatico, consentendone l’utilizzo indiscriminato oltre i confini del procedimento per cui vengono autorizzati, con ciò comprimendo in modo violento principi costituzionali rilevantissimi; è responsabilità del Ministro aver predisposto una ragnatela di norme per favorire il processo inquisitorio e la gogna mediatica rispetto al processo celebrato nel contraddittorio delle parti e nelle aule di tribunali e l’aver introdotto il processo penale da remoto - ridimensionato solo dopo avere scatenato critiche durissime - in spregio ai principi di concentrazione, oralità e immediatezza che caratterizzano il processo accusatorio”; CSM: “a cio’ si aggiunga che, mentre il Ministro Bonafede, incapace di vigilare sulla trasparenza delle nomine, annunciava - ma non presentava - una riforma del sistema elettorale del Csm per sottrarlo allo strapotere delle correnti il suo stesso ministero è divenuto oggetto di scontri e polemiche legate all’influenza delle correnti della magistratura associata nelle nomine di magistrati fuori ruolo, che hanno portato alle dimissioni del suo capo di Gabinetto” Carceri, degrado e vulnus carta: “le polemiche sulle scarcerazioni dei detenuti più vulnerabili all’infezione del Covid-19 impongono di aprire una discussione vera, non viziata da tanta dimostrata incapacità gestionale, sullo stato delle carceri, sulle condizioni di detenzione e sull’impossibilità di garantire, all’interno degli istituti di pena, gli stessi standard di igiene e sicurezza previsti e imposti nelle altre strutture pubbliche, la responsabilità del Ministro della Giustizia e del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria è di avere gestito questo delicatissimo problema con la sufficienza e la negligenza derivante da un’idea puramente afflittiva della pena e con un assoluto difetto di progettualità, evidente anche nei settori dell’edilizia carceraria e giudiziaria; le misure adottate a seguito della pandemia non hanno potuto rimediare a una situazione di degrado consolidata; da ultimo, dopo le polemiche seguite alla scarcerazione di alcuni imputati e condannati per reati di criminalità organizzata e mafiosa, la reazione dell’esecutivo è stata confusa e contraddittoria, fino a giungere all’adozione, con decreto legge, di un provvedimento che ha imposto la revisione, con effetto retroattivo, delle decisioni precedentemente adottate dei giudici di sorveglianza, con un vulnus esplicito e dichiarato al principio della divisione dei poteri”. Sfiducia: ecco perché, “visto l’articolo 94 della Costituzione”, che recita: “il governo deve avere la fiducia delle due Camere” e il regolamento del Senato della Repubblica, si impegna Bonafede “a rassegnare immediatamente le proprie dimissioni”. Mozione Lega Il caso Di Matteo e le scarcerazioni dei boss: La “nomina” a capo del Dipartimento Affari penitenziari del magistrato Francesco Basentini, “che non poteva vantare specifiche competenze ordinamentali in materia penitenziaria e antimafia”, e che si è dimesso dopo le polemiche sulle scarcerazioni dei boss causa Covid-19 “è stata una scelta del ministro Bonafede, di cui il Guardasigilli deve assumersi tutte le responsabilità”, si legge nel testo che ricorda la mancata nomina di Nino Di Mattteo, così come riferita dai media. “I primi di marzo sono scoppiate violentissime e apparentemente coordinate rivolte negli istituti penitenziari italiani”, secondo le ricostruzioni di chi ha indagato le rivolte erano “finalizzate ad alimentare la discussione su indulti, amnistie e provvedimenti che avrebbero potuto alleggerire il carcere anche per gli uomini della criminalità organizzata; il ministro Bonafede, viceversa, inizia ad avanzare ipotesi di interventi normativi volti incredibilmente ad accogliere le richieste dei rivoltosi” Carceri e contagio Covid-19, nesso falso: Bonafede ha iniziato “soprattutto ad accettare il principio, indimostrato e scientificamente falso, del nesso di causalità fra detenzione in carcere e contagio”. In seguito “al clamore sollevato dalla scarcerazione di numerosi boss mafiosi dal 41bis, il Dipartimento ha negato, in un comunicato, di aver diramato la circolare con l’obiettivo di scarcerare anche i detenuti più pericolosi, ma di aver chiesto solo un monitoraggio; tale giustificazione è smentita dal testo stesso della circolare che, nei fatti, scaricava sulla magistratura di sorveglianza la responsabilità, imponendo in sostanza la scarcerazione di condannati, tra cui anche quelli incarcerati per mafia; anche questa situazione appare tuttora degna di urgenti approfondimenti, a fronte del fatto che il ministro non ha reso alcuna spiegazione plausibile, né si è assunto alcuna responsabilità, pur tentando goffamente di trovare una via d’uscita, senza riuscirvi”. Nessun piano contro rivolte carceri e no tutela agenti: “da parte del vertice del Dap, a fronte dell’emergenza sanitaria nazionale, non è stata messa a punto alcuna strategia per evitare prevedibili e già noti disordini e rivolte negli istituti penitenziari, che hanno coinvolto seimila detenuti (di cui quattordici deceduti per overdose), una quarantina di agenti feriti, oltre trenta milioni di euro di danni alle strutture carcerarie con interi reparti devastati, oltre ad un’allarmante evasione di massa (settantadue evasi);non sono state predisposte, all’interno degli Istituti, adeguate misure di prevenzione sanitaria e anti-contagio Covid-19 a tutela di detenuti, operatori e visitatori; non sono stati dotati di presidi sanitari adeguati, donne, uomini e operatori degli Istituti penitenziari mettendoli tutti a grave rischio della loro salute; l’inadeguatezza della gestione di questi eventi fa parte di un quadro generale di carenze e insufficienze del sistema che non potevano essere sconosciute al Ministro” Prescrizione e intercettazioni: durante il governo Conte due “il ministro Bonafede si è contraddistinto per una molteplice serie di provvedimenti ispirati dalla teoria che chiunque è colpevole per il solo fatto di essere indagato; tra questi provvedimenti, si segnala quello del blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado che ha dilatato i tempi del processo rendendo i cittadini ostaggi a vita della giustizia, e soprattutto ha oggettivamente creato i presupposti per l’ulteriore dilatazione della durata dei processi, per i quali l’Italia ha già un triste primato inaccettabile per chi aspira a un giudizio in tempi ragionevoli”. Su questo fronte “durante la fase del primo governo Conte, la Lega, allora in maggioranza, aveva ottenuto il differimento al completamento di una riforma complessiva della giustizia, promessa dal ministro Bonafede ma mai attuata”, tale “impegno assunto dallo stesso ministro del M5S è stato tradito”. Tra i provvedimenti “fortemente sostenuti dal ministro Bonafede, come quello sugli ‘ascolti’ “ci si è avvalsi ancora una volta della decretazione d’urgenza per modificare il codice penale, in una materia che invece obbligherebbe il legislatore a una riflessione ponderata e frutto di una sinergia con i tecnici del diritto, che solo un disegno di iniziativa parlamentare può assicurare, considerato anche che il citato decreto introduce l’utilizzo del trojan nelle intercettazioni ambientali per delitti assai più ampi di quelli connessi alla criminalità organizzata”. La nemesi di Bonafede di David Allegranti Il Foglio, 20 maggio 2020 “Il ministro paga lo scontro tra populisti giudiziari, ma la mozione di sfiducia è da respingere”, dice Verini. “Il tentativo di sfiduciare il ministro Alfonso Bonafede nasce da uno scontro che ha rappresentato una sorta di nemesi tra populisti giudiziari, che in questi anni hanno praticato una gara all’ultima purezza. Ciò non toglie che sia sbagliato, anche nel merito, e che sia in corso un attacco al governo che va respinto”. Walter Verini, responsabile Giustizia del Pd, spiega al Foglio perché “un eventuale successo delle mozioni di sfiducia contro Bonafede, che è anche il capo della delegazione del M5s, sarebbe un colpo al governo, segnandone la crisi”. C’è anche un problema Italia viva per il governo, sottolinea Verini, “anche se non credo che il partito di Renzi arrivi al punto di provocare le dimissioni del ministro della Giustizia, pur con tutte le divaricazioni che ci sono state in questi mesi. Il paese di tutto ha bisogno meno che di una crisi al buio. Sarebbe semplicemente irresponsabile”. Anche perché, dice Verini, “le mozioni sono sbagliate anche nel merito. Di Matteo ha alluso di fatto a una sorta di ‘cedimento’ di Bonafede nei confronti dei boss mafiosi. E lo ha fatto, lui che è anche membro del Csm, in un dibattito televisivo due anni dopo i presunti fatti. Se avesse ravvisato qualche indulgenza di Bonafede nei confronti dei boss mafiosi avrebbe dovuto esercitare l’azione penale”. Quella di Di Matteo, dice Verini, è “un’allusione spazzata via dai fatti. Bonafede, nel momento in cui si è accorto delle gravi falle del sistema, ha cambiato il capo Dap Basentini mettendoci Tartaglia e Petralia, due magistrati antimafia, dando un segnale forte. In più, nel decreto ‘Cura Italia’ la parte che riguardava il sovraffollamento escludeva dal ricorso ai domiciliari i detenuti per gravi reati come associazione mafiosa, terrorismo, violenza di genere e contro i minori. Nel decreto del 30 aprile, si stabilisce che i magistrati di sorveglianza per decidere sulle richieste dei domiciliari per motivi di salute devono consultare i procuratori antimafia”. Un terzo decreto “stabilisce di verificare periodicamente se le ragioni di salute legate all’emergenza che hanno portato alla scarcerazione sono ancora valide e se la pandemia è diversamente aggressiva. Come si vede, non c’è stato alcun cedimento del ministro e del governo sul terreno dell’antimafia. Per queste ragioni di merito, ma anche per ragioni politiche, le mozioni di sfiducia vanno respinte”. Detto questo, però, “una volta superato l’attacco politico al governo e superata la fase pandemica, bisogna che il ministro e la maggioranza passino a una fase due se non tre della giustizia. Dobbiamo eliminare gli avvelenamenti più che ventennali della giustizia italiana”. E come? “Noi siamo contro gli ‘opposti estremismi’ di giustizialismo e garantismo”. In che senso? “Siamo contro il populismo giustizialista e contro il garantismo a corrente alternata. E l’uso politico di questi. Siamo per una giustizia giusta e per garanzie e diritti per tutti. Tempi certi e pene certe. Se da un lato dobbiamo essere implacabili contro le mafie e la corruzione dall’altro dobbiamo ribadire che un avviso di garanzia è una garanzia per l’indagato, non è una sentenza di terzo grado, e non possiamo cedere al populismo mediatico-giustizialista”. Per questo, dice Verini, “abbiamo proposto una sessione parlamentare dedicata alla giustizia. Sei mesi in cui il Parlamento per due volte alla settimana si dedica a questi temi, per fare alcune riforme essenziali. Anzitutto, una riforma del Csm, che contribuisca anche con meccanismi nuovi di nomina a colpire il correntismo deteriore della magistratura. E Dio sa quanto ce n’è bisogno per contribuire a restituire piena credibilità alla magistratura”. Secondo, “serve una riforma del processo penale, per avere processi rapidi e arrivare in 5-6 anni al terzo grado di giudizio. Così la questione prescrizione esce di scena. Rispettando il diritto del cittadino e il dovere dello stato di avere un esito in un tempo di durata ragionevole. Una persona non può stare imputata a vita. Alcuni reati possono essere depenalizzati, colpendo con sanzioni pecuniarie, che fanno molto male, più di pene mai comminate”. Terzo, dice Verini, serve “una riforma dell’ordinamento penitenziario. Non arriverò ad affermare, come ha detto con suggestiva analisi Gherardo Colombo, che il carcere è da abolire. Ma che sia l’extrema ratio e che servano pene alternative sì. È una questione sollevata da varie personalità come Luciano Violante, Giovanni Maria Flick, Giuseppe Pignatone. Non siamo per gli svuota-carceri, come ci direbbero i nostri sovranisti alle vongole, ma per applicare davvero l’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Quei pm intoccabili di Giuseppe Sottile Il Foglio, 20 maggio 2020 Davigo, Di Matteo, la partita al Csm. I giornali si dimenticano di raccontare l’altra battaglia per i pieni poteri. Sono tutti lì, intrepidi e sanguigni, a farsi la guerra, ad armare gli eserciti, a piazzare i propri uomini nelle posizioni strategiche, a fare e disfare alleanze, a sputtanare i rivali, a conquistare peso e potere non solo negli uffici dove si amministra la giustizia ma anche nei palazzi dove si governa la politica. Stanno lì a definire gli organigrammi, a calibrare promozioni e avanzamenti di carriera, a contrattare gli incarichi più prestigiosi e gli stipendi più remunerativi. Sono i colleghi di Luca Palamara, il pubblico ministero che fu leader dell’Associazione nazionale dei magistrati, e che ora si ritrova nel fondo di un burrone sepolto dal fango che gli ha sparato addosso la procura di Perugia. Muore Sansone con tutti i filistei. A Palamara è toccata la stessa sorte. Stretto all’angolo da un’accusa di corruzione, l’ex presidente di Unicost, la corrente più moderata e più potente dell’Anm, ha trascinato con sé, nel vortice dello scandalo e della gogna, quasi tutti i nomi di quelli che hanno avuto a che fare con lui, che lo fiancheggiavano e lo supportavano, che si vedevano con lui al ristorante o nella hall dell’hotel, che si sentivano al telefono e decidevano insieme la spartizione di tutto ciò che le commissioni e il plenum del Consiglio superiore della magistratura avrebbero formalmente deliberato nei giorni successivi. Palamara e gli altri leader delle correnti - da Magistratura Indipendente a Magistratura Democratica - erano i triunviri di un governo invisibile che, con la banalissima scusa di garantire l’indipendenza e l’autonomia di chi deve disporre della libertà altrui, in realtà amministravano in proprio la giustizia in Italia: designavano procuratori e presidenti di tribunale, giudici di Cassazione e presidenti di corti di appello. E chi poteva mai contrastarli? Loro erano il potere. Erano il sistema. Erano intoccabili. Ma la caduta di Palamara ha rovesciato il tavolo e tutti gli equilibri che erano stati costruiti attorno a quel tavolo da Mani pulite in poi. In pratica, negli ultimi trent’anni. La devastazione ha colpito soprattutto Unità per la Costituzione, meglio conosciuta come Unicost, una corrente nella quale per anni si sono riconosciuti giudici e magistrati di idee conservatrici ma non troppo, progressiste quanto basta, senza alcuna vocazione al chiasso e all’estremismo. La classica corrente di centro, se proprio vogliamo darle una collocazione; con Magistratura Indipendente alla sua destra e Magistratura Democratica a sinistra. Ora Unicost si sta spappolando. Venuta meno la presa di Palamara, il correntone di centro sta per subire lo stesso sfaldamento toccato a Magistratura Democratica dopo la stagione sfolgorante del collateralismo con il Pci, quando il dominio delle cosiddette “toghe rosse” sembrava dettar legge in ogni palazzo di giustizia, in ogni ufficio del pubblico ministero, in ogni aula di tribunale, in ogni sezione della Corte di cassazione. E naturalmente dentro al Csm e nei sotterranei della politica: ricordate Luciano Violante, presidente della Commissione parlamentare antimafia, che faceva da spalla a quel Gian Carlo Caselli, procuratore di Palermo, che nel frattempo metteva sotto inchiesta Giulio Andreotti, per sette volte presidente del Consiglio? E ricordate Violante che interrogava, a San Macuto, Tommaso Buscetta, il pentito dei due mondi, per convincerlo a saltare l’ostacolo e ad aiutare gli zelanti inquisitori di Palermo più che mai intenzionati a riscrivere la storia d’Italia? Tempi andati, tempi lontani. Quando il partito di Violante abbandona i furori giustizialisti, Magistratura Democratica si affloscia e alla sua sinistra nasce Area, composta essenzialmente dai più puri scesi puntualmente in campo per epurare quelli che, a loro avviso, avevano ceduto al fascino del potere e avevano dunque perduto smalto e immacolatezza. Dove finiranno invece i reduci di Unicost, terremotati dal ciclone che ha affondato l’ex presidente dell’Associazione magistrati? In quali mani andrà il potere che apparteneva prima a Palamara e agli uomini del suo maleodorante circolo di influenza? Le guerre che si combattono in questi giorni, anche a mezzo stampa, hanno una posta in gioco molto elevata. Intanto il controllo di Palazzo dei Marescialli, sede del Csm. Ma non solo. Le ostilità più aggressive non vengono da Magistratura Indipendente. Cosimo Ferri, capo della corrente per parecchi anni e per due volte sottosegretario al ministero della Giustizia, non si espone più di tanto e se ne sta guardingo in attesa che passi la tempesta: il suo nome è stato già sfregiato dalle intercettazioni disposte dalla procura di Perugia. Intercettazioni devastanti, come si evince dalle ultime letture. Nel telefonino di Palamara, come si ricorderà, era stato nascosto il micidiale trojan, un apparecchietto che cattura non solo la conversazione fatta al telefono ma anche tutto ciò che la persona indagata dice o ascolta quando il suo smartphone è chiuso. Grazie a questo strumento di spionaggio - autorizzato, manco a dirlo, da Alfonso Bonafede, ministro manettaro voluto da Luigi Di Maio - la procura di Perugia intercettava ogni movimento di Palamara: seguiva i suoi incontri, registrava parole e opere, monitorava amori e rapporti umani, trascriveva nefandezze deontologiche ma anche insignificanti confidenze. Guai, comunque, a ritrovarsi in quei brogliacci. Ne hanno pagato le conseguenze Ferri e Luca Lotti, che fu un principe del potere nel governo guidato da Matteo Renzi. Ma ci hanno rimesso le penne anche e soprattutto cinque consiglieri del Csm che, avendo traccheggiato con Palamara nella giostra delle nomine, sono stati costretti alle dimissioni. Lasciando di fatto campo libero a Piercamillo Davigo e al suo esercito di puri e duri, raggruppati in una corrente di nuovo conio e battezzata con l’impegnativo nome di Autonomia e Indipendenza. Una corrente, va da sé, legata allo spirito del tempo e in particolar modo al giustizialismo di marca grillina. Non a caso, quando ci sono da sostituire i consiglieri del Csm travolti dallo scandalo Palamara, la corrente di Davigo si accaparra tre posti, uno dei quali tocca a Nino Di Matteo, il pubblico ministero dell’inchiesta sulla fantomatica trattativa fra lo Stato e i boss di Cosa nostra, il più coraggioso fra tutti i magistrati coraggiosi, il più scortato, il più osannato; quello che Beppe Grillo in persona aveva indicato come futuro ministro della Giustizia e che Bonafede voleva in un primo tempo alla guida del Dipartimento delle carceri - quarantamila uomini a disposizione e un bilancio di quasi tre miliardi - ma poi se ne pentì. Domanda: anche la corrente dei puri e duri è scesa in campo per conquistare il potere sfuggito di mano a Palamara e alla sua Unicost? Certo. Ma nella guerra di tutti contro tutti, Autonomia e Indipendenza ha un programma ben preciso: affermare la priorità assoluta e insindacabile dei pubblici ministeri. Al vertice siedono tre pm, tre stelle del firmamento giudiziario: Davigo, con il suo giustizialismo portato all’estremo, ora è magistrato di Cassazione ma la sua gloria nacque negli anni di Mani pulite, quando era pubblico ministero a Milano; Sebastiano Ardita è il procuratore aggiunto di Catania e Di Matteo è il pm che, negli anni del processo sulla Trattativa ha cucito sulla propria pelle l’immagine del magistrato che non accetta né mezze misure né mezze verità, che scava nelle caverne del potere, che smaschera le trame occulte, che vìola la sacralità di un palazzo come il Quirinale, che interroga Giorgio Napolitano, che incrimina per falsa testimonianza l’ex ministro Nicola Mancino. Un magistrato dell’antipolitica, verrebbe da dire. E che alla fine, pur di mantenere il suo piedistallo nel piazzale degli eroi, non esita a prendere di petto, in una trasmissione televisiva, il ministro Bonafede. Sì, proprio il ministro grillino che voleva nominarlo al Dap e dopo un giorno se ne pentì. Un attacco pesante, pesantissimo. Congegnato per spiazzare oltre al Guardasigilli anche Francesco Basentini, il capo delle carceri scelto da Bonafede nel giorno della giravolta. Un attacco declinato sul filo di un sospetto inquietante: quello di avere scarcerato, per un sottinteso ricatto della mafia, boss e picciotti che, secondo il credo dei puri e duri, avrebbero dovuto invece marcire in carcere fino all’ultimo respiro. C’era però un terzo destinatario nell’intervento che Di Matteo ha fatto nella trasmissione di Massimo Giletti per inchiodare Bonafede e Basentini. Era la magistratura di sorveglianza, quella che decide sulle istanze dei detenuti in piena libertà e nel rigoroso rispetto della legge. E che, ovviamente, non sempre è d’accordo con le tesi dell’accusa. Il giudice terzo, si sa, spesso finisce per stare sullo stomaco all’antimafia eroica e chiodata. Diciamolo: a molti pm, soprattutto a quelli che vogliono salvarci dal male, piacciono i pieni poteri. Autonomia e Indipendenza sembra essere la corrente fatta apposta per loro. Non confondete i giudici con la giustizia di Iuri Maria Prado Libero, 20 maggio 2020 Nelle guerre di mafia i capibastone si scannano per la supremazia nelle piazze dello spaccio. Una guerra meno cruenta ma sistematicamente non diversa si combatte nei meandri del potere giudiziario tra le fazioni che reclamano esclusiva nell’opposizione simbolica à crimine organizzato. Inutile dire che quest’altra guerra è combattuta sotto le insegne retoriche della lotta à malaffare, della riaffermazione dell’Italia pulita su quella marcia, del trionfo dell’onestà sulla corruzione. Ma sono gonfaloni agitati nella dissimulazione di un interesse diverso, e cioè quello personale del magistrato che vuole il suo nome sul palcoscenico che accredita carriere e arrampicate gerarchiche. Che sono cose perfettamente legittime in qualunque professione, ma non devono essere confuse con acquisizioni di interesse generale e dovrebbero semmai trattarsi come si fa nel caso di ogni bega corporativa: affari loro, per capirsi. E invece, siccome à momento non c’è un politico da arrestare o un’azienda da sequestrare, te li trovi a far zuffa in tivù e sui giornali mentre i maneggi nel Consiglio superiore della magistratura e il caso del pm scornato perché gli è andata male la nomina a capo carceriere diventano vicende di rilievo nazionale nel Paese che conta trentacinquemila morti e fa il bilancio di un’economia a pezzi. Un protagonismo irrefrenabile fa credere alle star della magistratura da intrattenimento di potersi consentire ormai qualunque invadenza, e non si accorgono di quanto sia miserevole lo spettacolo delle ripicche, delle vendette, dei messaggi obliqui, dei calci negli stinchi che si scambiano pubblicamente in faccia a un uditorio doppiamente insultato da quella rissa ammantata di false buone ragioni. La realtà è che le esigenze di giustizia non coincidono né con le ambizioni di carriera di questo o quel maschio alfa del populismo giudiziario italiano né con gli avvicendamenti di potere nei sindacati della magistratura, cose che semmai attentano alla buona amministrazione quando, come succede qui da noi, si elevano ad affare predominante dell’agenda pubblica. Csm, Ermini: “Attaccano me per colpire il Consiglio. Scelto dalle correnti ma imparziale” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 20 maggio 2020 Il vicepresidente Ermini: le mie frasi intercettate nel caso Palamara? Strumentalizzati colloqui irrilevanti. E sono stato di ostacolo al gruppo che mi ha eletto. Il “caso Palamara” torna ad agitare il Consiglio superiore della magistratura dopo il terremoto di un anno fa, perché nelle intercettazioni dell’ex pm indagato per corruzione compaiono altri consiglieri tuttora in carica, compreso il vicepresidente David Ermini. Che risponde partendo da una premessa: “Con la conclusione dell’inchiesta della Procura di Perugia viene alla luce tutto il materiale raccolto dagli inquirenti, ma questo non deve distogliere l’attenzione dai fatti contestati, che rimangono molto gravi. Il resto non è stato valutato rilevante sotto il profilo penale, ora toccherà alla Procura generale della Cassazione e al ministero della Giustizia stabilire se ci sono aspetti di rilevanza disciplinare”. Ma un anno fa il Csm è stato ribaltato con cinque consiglieri costretti alle dimissioni… “Il Consiglio non è stato ribaltato. Si è rinnovato in base alla legge con due subentri e tre nuovi eletti in seguito alle dimissioni di alcuni consiglieri. Nei confronti dei quali è stata avviata l’azione disciplinare perché erano emersi indizi di un’indebita ingerenza nell’attività del Csm, che evidentemente non poteva essere tollerata”. Una etero-direzione che riguardò anche la sua elezione a vicepresidente: non la imbarazza? “Io sono stato eletto sulla base di un accordo politico tra le correnti. Sempre le elezioni del vicepresidente sono state il frutto di un accordo fra le varie componenti del Csm. Non si tratta di incarichi di magistrati”. Un accordo sancito nella cena a casa di Giuseppe Fanfani con Palamara, Cosimo Ferri e Luca Lotti? “Fu una cena con due capicorrente riconosciuti e un esponente del Pd, lì mi dissero che l’accordo era chiuso. C’erano state in quel periodo anche altre ipotesi, poi quando s’è fatto il mio nome io cercai il consenso di Area (il cartello della sinistra giudiziaria, ndr) e mi rammaricai del loro mancato appoggio. Parlai anche con Davigo. Ma voglio chiarire che l’elezione del vicepresidente è l’unico legittimo momento di incontro tra politica e magistratura; il vero atto politico del Csm, che si realizza anche con votazioni laceranti, come tante altre volte è accaduto in passato. Poi però, fatta la scelta, il vice-presidente non può più tenere conto della maggioranza che lo ha eletto, perché diventa il garante di tutti. Ed è ciò che ho fatto, diventando un ostacolo proprio per quel gruppo”. In che senso? “Nel senso che io mi sono sottratto alle richieste e desideri di chi voleva etero-dirigere il Consiglio. E ho dimostrato fin dall’inizio di ricoprire il mio ruolo in autonomia al servizio dell’istituzione consiliare. Lo testimoniano le successive intercettazioni dove dicono: “Abbiamo fatto una c...ta a mettercelo”. Perché lei si sfilò? “Perché l’accordo politico per l’elezione del vicepresidente non si può trasferire sulla scelta di un procuratore o di altri incarichi direttivi; lì si tratta di nomine che vanno fatte sulla base di professionalità e merito, non altro”. La sensazione è che quelle scelte continuino a essere fatte con accordi tra correnti, sebbene le maggioranze siano cambiate. “A volte questa sensazione può derivare dal voto compatto dei gruppi, ma intendo rimarcare alcune nomine di grande rilievo, a partire da quella del nuovo procuratore generale della Cassazione. Al Congresso dell’Associazione magistrati dissi che bisogna tutelare i magistrati e le loro professionalità indipendentemente dalle correnti, che le domande si fanno e poi non deve esserci bisogno di coltivarle con telefonate e raccomandazioni”. Sembra il libro dei sogni. Dopo lo scandalo di un anno fa, per nominare il procuratore di Roma avete impiegato nove mesi, e quello di Perugia ancora non c’è. “Ci sono stati ritardi dovuti a vari fattori, abbiamo fatto rispettare il criterio dell’ordine cronologico nella trattazione delle procedure ma bisogna ancora sveltire le procedure sui pareri, l’emergenza coronavirus e il lavoro da remoto hanno aggiunto ulteriori complicazioni. Poi serve la riforma elettorale del Csm, ma anche regole più adatte per le nomine e per questo voglio lavorare a un aggiornamento della circolare”. Tornando al “caso Palamara”, in che cosa vede il tentativo di screditarla? “Nella strumentalizzazione di alcuni dialoghi del tutto irrilevanti, come quelli relativi alla scelta del mio consigliere giuridico, o nella risibile vicenda di un discorso che mi sarei fatto scrivere da Palamara. È semplicemente falso e sono già pronte le querele. Mi pare evidente che si tratti di una manovra, di cui non conosco gli ispiratori, che mira a confondere fatti rilevanti e gravi con le chiacchiere e i pettegolezzi solo per colpire me perché mi sono sottratto ai condizionamenti”. A quale scopo? “Si vuole screditare me per delegittimare l’istituzione, ed è un tentativo tuttora in atto. Hanno capito che per far cadere questo Csm devono far cadere me, ma io non mi presto a questo gioco al massacro. Anche la magistratura, però, dovrebbe aiutarsi”. Come? “Smettendola di pensare solo al consenso interno a un corpo elettorale di 9.000 persone, cercando invece di apparire credibile a 60 milioni di italiani. Mio padre era un avvocato che quando vedeva passare un magistrato si levava il cappello, in segno di rispetto; ecco, vorrei che si tornasse a quel clima”. Ieri è stato arrestato il procuratore di Taranto e indagato quello di Trani... “Ovviamente, presiedendo io la sezione disciplinare, nulla posso dire sulla vicenda, ma l’urgenza della “questione morale” impone una riflessione. In questa consiliatura ci sono state già diverse sentenze di rimozione, e saremo sempre intransigenti di fronte a provati comportamenti lesivi dell’onorabilità della magistratura”. Intanto avete un’altra grana, con il contrasto tra il consigliere Nino Di Matteo e il ministro della Giustizia. Come pensa di risolverla? “Non è un argomento di nostra competenza, sarebbe un’invasione di campo. Anche perché riguarda una vicenda di due anni fa, che risale a quando Di Matteo non faceva parte del Csm e attiene al rapporto personale tra un magistrato e il ministro, nel cui merito non abbiamo titolo per intervenire”. Per ridurre l’arretrato penale 500 ausiliari di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2020 Un intervento da 40 milioni di euro per ingaggiare 500 giudici ausiliari con il compito di attaccare, in 4 anni, un arretrato di oltre 260.000 processi penali pendenti in Corte d’appello. E assunzioni a termine, per 24 mesi al massimo, di 1.000 unità di personale amministrativo da utilizzare per tagliare i tempi di durata dei giudizi e per favorire il decollo del processo penale digitale. La bozza del decreto rilancio, tuttora in attesa di pubblicazione in “Gazzetta”, interviene anche sul fronte della giustizia e prova a mettere in campo risorse per affrontare alcuni degli endemici punti critici dell’amministrazione giudiziaria. Mutuandolo dall’intervento del 2013, dedicato però al solo civile, la bozza di decreto affida a un organico di complessivi 850 giudici ausiliari (agli originari 350 se ne aggiungeranno ora 500) il compito di intervenire sull’appello. Potranno esservi inseriti magistrati ordinari, contabili e amministrativi e avvocati dello Stato in pensione; i professori universitari in materie giuridiche di prima e seconda fascia anche a tempo definito o in pensione; i ricercatori universitari in materie giuridiche; gli avvocati e i notai, anche in pensione. Il decreto interviene anche sulle modalità di svolgimento degli esami in corso per l’accesso alle principali professioni giuridiche. Per la correzione delle prove scritte del concorso da magistrato ordinario, si stabilisce che fino al 31 luglio, lo svolgimento delle correzioni effettuato dalla Commissione potrà essere svolto con la presenza fisica, all’interno degli uffici del ministero della Giustizia, dei presidenti delle sottocommissioni e dei segretari e con la partecipazione degli altri componenti attraverso un collegamento da remoto. Inoltre, fino al 30 settembre 2020, il Presidente della commissione esaminatrice può autorizzare lo svolgimento delle prove orali del concorso per magistrato ordinario mediante collegamento da remoto con garanzia di pubblicità della seduta. Le novità riguardano anche il concorso per esame a 300 posti per notaio bandito nel 2018, e l’esame di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato del 2019. Per quanto riguarda il concorso notarile, la correzione degli elaborati potrà avvenire, attraverso modalità da remoto che saranno autorizzate dal presidente della commissione notarile, mentre per la prova di abilitazione alla professione forense, l’autorizzazione verrà data dal presidente della commissione centrale per l’abilitazione forense su richiesta motivata dei presidenti delle sottocommissioni nominati in ciascun distretto di Corte d’appello. Per entrambe le procedure devono essere rispettate le norme anti-contagio e garantite trasparenza, collegialità, correttezza e riservatezza delle sedute e la par condicio dei candidati. Per lo svolgimento da remoto delle prove orali, previste disposizioni per disciplinare l’accesso del pubblico, sempre con strumentazioni da remoto, all’aula di esame. Coronavirus, revocati i domiciliari a Bonura, torna in carcere di Liana Milella La Repubblica, 20 maggio 2020 Era a Palermo dal 22 aprile ma la misura è stata revocata dal magistrato di sorveglianza di Milano perché il Dap ha trovato una soluzione ospedaliera in carcere. Anche per Francesco Bonura si riaprono le porte del carcere. Il noto mafioso, libero dal 22 aprile, dovrà tornare in prigione perché il tribunale di sorveglianza di Milano gli ha revocato i domiciliari concessi per ragioni di salute a seguito del decreto legge Antimafia del 9 maggio del guardasigilli Bonafede. Il vice capo del Dap Roberto Tartaglia ha proposto due soluzioni alternative per ospitare Bonura. Il magistrato le ha ritenute entrambe valide. E ha firmato il rientro. Tra tre giorni, il 22 maggio, saranno i giudici di sorveglianza di Sassari a decidere invece su Pasquale Zagaria. Nelle due pagine firmate stamattina dal magistrato di sorveglianza di Milano Gloria Gambitta si motiva il ritorno in carcere di Bonura per due ragioni. La prima è la disponibilità, data dal Dap, al ricovero del detenuto negli ospedali di Roma, il Sandro Pertini, e di Viterbo, il Belcolle, che hanno reparti attrezzati per chi arriva dalle carceri ed è in una situazione di alta sicurezza. La seconda è il via libera del presidente della giunta della Regione Lazio in merito al rischio Covid. Il giudice spiega che Bonura, detenuto nel carcere di Opera, aveva ottenuto i domiciliari ad aprile non solo per le sue condizioni di salute, ma anche per la grave emergenza sanitaria in Lombardia. Adesso invece non solo la situazione è migliorata, ma lo stesso Bonura ha svolto degli accertamenti sanitari a Palermo che escludono una sua recidiva oncologica. Da qui la revisione del provvedimento, che è frutto del decreto legge approvato con grande urgenza il 9 maggio a seguito dell’allarme sulle 498 scarcerazioni di altrettanto detenuti di criminalità organizzata. Un decreto che obbliga le toghe di sorveglianza a rivedere entro 15 giorni le misure dei domiciliari già concessi e poi successivamente con una cadenza mensile. Per l’Inail il Covid può essere un infortunio ma non dà responsabilità al datore di lavoro di Cesare Damiano* Il Dubbio, 20 maggio 2020 Il riconoscimento da parte dell’Istituto non prevede automatismi, la legge pensata per gli operatori sanitari e per chi è più a rischio. La equiparazione della infezione da Covid-19 ad infortunio sul lavoro ha dato corso ad un intenso dibattito mediatico e istituzionale sul pericolo di un automatismo nel riconoscimento delle prestazioni Inail e, ancor di più, di un ampliamento delle responsabilità penali del datore di lavoro. Tanto più nella complessa “Fase 2”, considerata anche la paventata difficoltà di rendere operative le “linee- guida” (meglio dire raccomandazioni o ipotesi) suggerite dall’Inail e dall’Istituto Superiore di Sanità nei diversi settori di riferimento e fatte proprie dal Comitato Tecnico Scientifico. È però necessario fare chiarezza su questi temi, sgombrando il campo da equivoci in modo tale che, sia le imprese che i lavoratori, possano affrontare la ripresa in modo più sereno. In primo luogo, la equiparazione della infezione da Covid-19 ad infortunio sul lavoro non è stata introdotta dall’Inail, bensì da una norma di legge: l’art. 42 del D. L. n. 18, del 17 marzo 2020, il cosiddetto Cura Italia. Questa previsione non ha inserito nel nostro ordinamento una nuova forma di reato, ma ha investito l’Inail del compito esclusivo di valutare, nell’esercizio delle sue funzioni, le istanze dei lavoratori o delle loro famiglie, al fine del riconoscimento dell’infortunio da Covid-19, provvedendo ad erogare le necessarie prestazioni in sede amministrativa. In merito alle categorie di lavoratori interessati, con la circolare n. 13 del 3 aprile 2020, l’Inail ha chiarito che la estensione riguarda gli operatori sanitari esposti a un elevato rischio di contagio, aggravato fino a diventare specifico, per i quali vi sia una presunzione semplice di origine professionale. Di analoga presunzione si avvalgono poi coloro che svolgono altre attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico e con l’utenza. Diversamente, per tutte le altre categorie generalmente destinatarie della tutela Inail, il lavoratore resta tenuto a dimostrare - con elementi anamnestici e clinici - la certa correlazione tra il proprio lavoro e l’infezione. Non esiste, dunque, alcun automatismo nel riconoscimento dell’infortunio da Covid-19 da parte dell’Inail poiché l’Istituto deve comunque valutare le circostanze e le modalità dell’attività lavorativa, da cui sia possibile trarre elementi gravi per giungere ad una diagnosi di alta probabilità, se non di certezza, dell’origine lavorativa della infezione. Del resto, l’attribuzione di tale compito all’Inail pare del tutto coerente con la funzione di tutela dei valori costituzionali che lo stesso Istituto già svolge nel complesso delle sue attività, attribuendo, se vogliamo, all’Istituto stesso anche una funzione di “calmiere” del contenzioso giudiziario, in risposta ad una importante esigenza di tutela. Inoltre, quanto alle raccomandazioni dell’Inail e dell’Istituto Superiore di Sanità che, come abbiamo già detto sono state assunte dal Comitato Tecnico scientifico per quanto riguarda i settori interessati alla riapertura delle attività, esse devono essere viste dalle imprese come “ipotesi” (come è scritto nei documenti) sulle misure da adottare per il contenimento del virus. Sono dunque le autorità politiche e le parti sociali a dover operare la sintesi tra i vari interessi in gioco per fare in modo che le attività produttive ripartano nel rispetto della salute dei lavoratori e della popolazione tutta. Quanto alla responsabilità del datore di lavoro, poi, la introduzione di questa normativa non ha determinato alcuna modifica delle norme penali vigenti. Infatti, il riconoscimento come infortunio sul lavoro dell’evento del contagio per motivi professionali non costituisce presupposto per l’accertamento della responsabilità civile o penale in capo al datore di lavoro; come pure, non si possono confondere i presupposti per l’erogazione di un indennizzo INAIL con quelli per la responsabilità penale e civile, che devono essere rigorosamente accertati con criteri diversi da quelli previsti per il riconoscimento del diritto alle prestazioni assicurative. La norma, pertanto, non ha né ampliato l’ambito della responsabilità penale del datore di lavoro, né introdotto alcuna forma di responsabilità oggettiva per lo stesso. Infatti, la responsabilità penale del datore di lavoro, in questi casi, resta comunque subordinata agli esiti di un processo con il quale si accertino, oltre ogni dubbio, complesse circostanze, tra le quali spicca la dimostrazione che il datore di lavoro non abbia fatto tutto quanto necessario in termini di misure prevenzionistiche per evitare il verificarsi dell’evento lesivo; che vi sia una correlazione diretta tra questa omissione di cautele e il verificarsi dell’infezione e che, in ogni caso, il comportamento del datore di lavoro sia dovuto, quanto meno, a sua colpa. Questo insieme di valutazioni conferma il fatto che non sia necessaria l’introduzione del cosiddetto “scudo penale”, cioè di una norma che escluda la responsabilità del datore di lavoro per infortunio da Covid-19 nel caso in cui lo stesso riesca a fornire la prova di aver adottato tutte le misure necessarie a prevenire il verificarsi dell’evento lesivo. Infatti, una tale previsione corrisponderebbe a quanto già previsto dal nostro ordinamento. Ad ogni modo, al fine di superare questa situazione, non è da escludersi la possibile introduzione di intervento a puro titolo di chiarimento che confermi, in modo ancor più inequivocabile ed a beneficio di tutti, quanto già sancito dal nostro ordinamento. *Già ministro del Lavoro Reato di resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, va provato che l’offesa è stata sentita da altri di Domenico Carola Il Riformista, 20 maggio 2020 Cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 6 maggio 2020 n. 13688. I giudici della sesta sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza n. 13688 del 6 maggio 2020 hanno ritenuto che il reato di resistenza a pubblico ufficiale è tipicizzato dal legislatore soltanto sotto il profilo teleologico, come volontà diretta a impedire la libertà d’azione del pubblico ufficiale. La vicenda - Un imputato denunciava la nullità assoluta della notificazione del decreto di citazione diretta a giudizio, lamentando di non aver mai ricevuto la notifica del decreto di citazione e aver avuto conoscenza dell’esistenza del procedimento penale a suo carico solo a seguito della citazione a comparire in qualità di testimone del padre. L’imputato aveva fornito correttamente le proprie generalità e la propria residenza, ma i verbalizzanti commettevano un errore nel compilare l’intestazione del verbale di identificazione perché era stato riportato un indirizzo di residenza diverso: veniva confuso l’interno con il numero civico. L’ufficiale giudiziario, limitandosi a leggere l’intestazione del verbale, ripeteva l’errore e perciò dichiarava di non avere rinvenuto alcuno all’indicato domicilio, provvedendo quindi all’invio della raccomandata. Lo stesso errore ovviamente si ripeteva con l’invio della raccomandata in cui veniva anche trascritto erroneamente il cognome dell’imputato. Così la consegna non si perfezionava per irreperibilità del destinatario e la notifica veniva eseguita ex art. 161, comma 4, cod. proc. pen. (mediante consegna al difensore). All’imputato poi veniva applicato il reato di oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale per aver pronunciato la frase: “mio padre è della Guardia di Finanza, voi non mi potete sequestrare... Ora lo faccio venire e vi faccio vedere”. La decisione - Gli Ermellini annullano senza rinvio la sentenza per la parte che riguarda la resistenza e l’oltraggio e rideterminano la pena nella misura di mesi quattro di reclusione, rigettando nel resto il ricorso. Hanno ritenuto che il reato di resistenza a pubblico ufficiale è tipicizzato dal legislatore soltanto sotto il profilo teleologico, come volontà diretta a impedire la libertà d’azione del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, pertanto la minaccia o la violenza possono consistere in qualunque mezzo di coazione fisica o psichica diretto a raggiungere lo scopo di impedire, turbare, ostacolare l’atto di ufficio o di servizio. Il Collegio ha evidenziato che per la configurabilità del reato di oltraggio a pubblico ufficiale è sufficiente che le espressioni offensive rivolte al pubblico ufficiale possano essere udite dai presenti, poiché già questa potenzialità costituisce un aggravio psicologico che può compromettere la sua prestazione, disturbandolo mentre compie un atto del suo ufficio, facendogli avvertire condizioni avverse, per lui e per la pubblica amministrazione di cui fa parte, e ulteriori rispetto a quelle ordinarie, è pur sempre necessaria la presenza di almeno due persone, come chiaramente indica la norma citata. Nel caso in esame, invece, nella sentenza di primo grado c’è scritto che le offese sono state pronunciate alla presenza di persone che si trovavano alla finestra, ma non precisa su quali basi si potesse ritenere che queste fossero in grado di percepire le espressioni oltraggiose. Quindi la sentenza viene annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste e la pena decurtata. Immobile non sequestrabile in sostituzione del denaro di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2020 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 19 maggio 2020 n. 15308. Non è possibile sostituire le somme di denaro depositate sul conto di una società sequestrate per il reato di omesso versamento Iva, con analoga misura cautelare su un immobile di proprietà dell’impresa, anche se c’è il consenso della società. Si verificherebbe infatti un’illegittima trasformazione da sequestro diretto del profitto del reato (le somme sui conti), a sequestro per equivalente su immobile, consentito, per un reato tributario, solo nei confronti del reo e non della società. È questo il principio espresso dalla Cassazione con la sentenza 15308. A seguito della contestazione del delitto di omesso versamento Iva ad una srl, era disposto il sequestro diretto del profitto del reato, finalizzato alla futura confisca, di somme depositate sui conti correnti societari. La srl, successivamente, richiedeva il trasferimento della misura cautelare su un immobile di sua proprietà. Il tribunale del riesame accoglieva la richiesta. Contro la decisione ricorreva per Cassazione il Pm che lamentava il trasferimento del vincolo posto in relazione al profitto diretto del reato (il denaro sul conto societario) su un bene immobile costituente invece profitto per equivalente. La difesa eccepiva la legittimità della sostituzione stante il consenso dell’interessato che la richiedeva espressamente. In ogni caso, il valore dell’immobile era quasi doppio rispetto all’importo del sequestro. La Cassazione accoglie il ricorso del Pm. I giudici ricordano che le somme oggetto di sequestro preventivo, finalizzato alla confisca, che costituiscono il profitto del reato oppure un valore equivalente, non possono esser sostituite con beni mobili o immobili di identico valore. Tale operazione comporta una permuta di un bene di immediata escussione con un diritto di proprietà non immediatamente convertibile in un valore corrispondente al profitto del reato. Questa sostituzione non è ammissibile neanche qualora vi sia il consenso del soggetto interessato perché si tratta di un bene (nella specie immobile) che pacificamente non costituisce profitto neanche indiretto dell’illecito. Si tratterebbe di un vincolo preordinato ad una confisca per equivalente del profitto che la legge non prevede in capo alla società che si sia avvantaggiata del reato. Detta confisca infatti può interessare solo l’autore dell’illecito (il rappresentante legale) e solo nel caso in cui non sia possibile eseguire analoga misura sul profitto dell’illecito in via diretta. Ne conseguirebbe, nonostante l’espresso consenso dell’interessato, che, in caso di condanna, non potrebbe mai eseguirsi la confisca di quel bene perché non consentita dalla legge. Il provvedimento cautelare si rivelerebbe pertanto privo di effetti In ordine al valore circa doppio dell’immobile rispetto alle somme vincolate, la sentenza evidenzia che proprio per tali ragioni la società non dovrebbe incontrare alcuna difficoltà ad ottenere un prestito per importo equivalente a quello sequestrato, dando in garanzia l’immobile stesso senza ricorrere così ad interpretazioni in materia di confisca contra legem. Padova. Suicida agente della Polizia penitenziaria di Serena De Salvador Il Gazzettino, 20 maggio 2020 Ha sconvolto il mondo della Polizia penitenziaria il suicidio di Antonio Millarte. Un gesto inaspettato, che nessuno avrebbe mai immaginato. Cinquant’anni compiuti il 25 marzo, era nato a Taranto e arrivato a Padova nel 1994 entrando nel corpo della casa di reclusione. Una carriera in cui si era distinto per la sua perizia, educazione e puntualità tanto da diventare uno degli uomini di fiducia della direzione. Ieri lo aspettavano alle 11.30 per prendere servizio in portineria, dove gestiva ingressi e uscite. Invece è arrivato presto, per una visita negli uffici. Chi lo ha incrociato giura di non aver notato nulla di insolito. Prima delle 10 è uscito dal penitenziario, è salito sul suo Nissan Qashqai ed è tornato verso Curtarolo, dove viveva con la moglie. Ha imboccato via Garibaldi e parcheggiato nella zona industriale. I suoi ultimi momenti li ha vissuti da solo, chiuso nel suo impenetrabile dramma. Lo hanno trovato i colleghi, riverso sul sedile di guida, l’arma d’ordinanza accanto. Un ritardo e un silenzio troppo sospetti per un uomo che in 26 anni non aveva tardato una volta. Hanno telefonato alla moglie, allertato i carabinieri e cominciato a cercarlo. Inutile anche solo provare a rianimarlo. L’assistente capo coordinatore Antonio Millarte se n’era andato esplodendo verso sé stesso un colpo fatale. “Era un uomo buono e un agente esemplare. Un amico, una persona di cuore che si era guadagnata il rispetto e la fiducia della direzione e dei colleghi - lo ricorda il corpo della penitenziaria - Severo ma giusto, con i suoi quasi due metri d’altezza era un gigante senza paura ma sempre corretto. Un esempio”. “Le più sentite condoglianze vanno alla famiglia e alla moglie aggiunge il sindacato Sinappe - Siamo vicini a tutti gli agenti che piangono questa grave perdita”. Non avrebbe lasciato biglietti per spiegare il gesto. Pare avesse espresso il desiderio di tornare a Taranto ma nessuno aveva compreso uno stato di disperazione tale da arrivare al gesto estremo. Lo conferma il sindacato Sappe che sottolinea le condizioni difficili in cui gli agenti della penitenziaria si sono trovati a operare, specie nell’ultimo periodo, anche se pare che Antonio non avesse problemi a livello lavorativo. “Sembra non avere fine il mal di vivere di questi agenti spiega il segretario Donato Capece. Se il lavoro possa aver inciso sarà da chiarire, ma è il secondo suicidio nelle fila della penitenziaria da inizio anno, 11 furono nel 2019: il Ministero e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non possono continuare a tergiversare su questa drammatica realtà”. Treviso. Il carcere minorile apre le porte alla didattica a distanza per i reclusi Il Gazzettino, 20 maggio 2020 Il carcere minorile, l’Ipm di Treviso, insieme agli istituti penitenziari per minori di Massa e Milano, sono i primi in Italia ad aprire le porte alla didattica a distanza per i minori reclusi regolarmente iscritti ai percorsi di scuola media e di scuola superiore. Solo tre gli istituti penali per minorenni, dei 17 esistenti nel nostro paese, che hanno scelto di percorrere la strada delle lezioni a distanza, attivata nel rispetto delle disposizioni di salute pubblica e della sicurezza. Oltre che costruita come un abito su misura. Il tutto è possibile grazie alla messa a punto di una piattaforma realizzata per il percorso scolastico a distanza attivata secondo le disposizioni fornite dal ministero della giustizia. E sono una decina nell’anno scolastico in corso gli studenti minori dell’Ipm di Treviso regolarmente iscritti alla scuola media, al biennio delle superiori o al triennio conclusivo. Impegnati ormai da due settimane con la ripresa delle lezioni per la prima volta da remoto. Un progetto di realizzazione del diritto allo studio, che a livello nazionale vede tra i protagonisti anche l’Ipm trevigiano, capace di fare scuola di inclusione nel panorama nazionale, reso possibile a Treviso grazie alla forte sinergia tra gli insegnanti e la preside del Cpia Alberto Manzi, Michela Busatto, con la direzione e gli educatori dell’Ipm di Treviso: “Per noi è una normalità il fatto di dedicarci ai ragazzi dell’Ipm trovando strategie e soluzioni nel rispetto del diritto allo studio spiega la dirigente Michela Busatto Avendo incentivato la didattica a distanza per tutti i nostri studenti adulti e minori parimenti ci siamo impegnati a creare possibilità di didattica a distanza anche per gli studenti dell’Ipm per non lasciarli soli”. Un ritorno a scuola che vale doppio. Le lezioni da remoto per gli studenti dell’Ipm si svolgono all’interno di aule dedicate. Nel rispetto delle indicazioni da seguire per il contenimento dell’emergenza sanitaria gli studenti vengono affiancati dagli agenti educatori. Rispettando la distanza di sicurezza con al massimo uno o due studenti per aula. E l’obbligo dell’uso dei dispositivi di protezione. Attraverso la piattaforma dedicata infine i docenti possono svolgere le video-lezioni a distanza per ciascuna materia: “Anche la scuola in carcere è in continuo aggiornamento come la didattica a distanza in tutti gli istituti scolastici - spiega la professoressa Maria Concetta Bonetti, docente del Cpia e coordinatrice dei percorsi scolastici all’interno del carcere minorile - Oltre alla didattica il valore più importante per i nostri ragazzi è quello umano. E per noi docenti la possibilità di poter continuare a essere vicini al loro percorso scolastico. Per i nostri studenti la scuola ha un valore aggiunto per il futuro. Non solo perché li fa sentire meno soli. Ma perché il percorso educativo e scolastico rappresenta la finestra sul mondo. La strada che permette il ritorno e l’inserimento nella società”. Brindisi. L’Italia riparte ma i detenuti restano isolati, neppure un prete per parlare di Bruno Mitrugno* brindisioggi.it, 20 maggio 2020 Lunedì 18 maggio è ripartita l’Italia sostenuta dal Decreto-rilancio che prevede le diverse misure per accompagnare la Fase 2 post Covid, ma per gli istituti di pena restano le ferree prescrizioni che riguardano il non ingresso in carcere dei volontari. Riprenderanno solo, sia pure con nuove modalità anti-contatto, gli incontri con i familiari, un solo colloquio con i parenti (con la discrezionalità del direttore dell’Istituto) da oggi, 19 maggio, al 30 giugno. Riaprire (negozi- bar- ristoranti,) è il verbo più utilizzato in questi giorni, ma nelle nostre carceri occorre riaprire al volontariato per riportare in carcere la funzione costituzionale della pena art. 27: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. I volontari e gli operatori della società civile attraverso il loro impegno, negli istituti di pena realizzano progetti, tracciano percorsi di crescita per le persone detenute. C’è bisogno di restituire umanità all’interno delle carceri, ci sono persone private in questo periodo anche della vicinanza del cappellano, un cuore che ascolta i pesi altrui, “neanche un prete per chiacchierare” cantava Celentano. In ogni caso bisogna mantenere le misure tecnologiche adottate in questo periodo con le videochiamate, anzi rafforzarle. Ci sono persone detenute che sono rinate perché hanno rivisto in videochiamata le madri sofferenti impossibilitate a recarsi in carcere per i colloqui e i luoghi di casa dopo anni e anni di lontananza, è fondamentale preservare sempre il legame con gli affetti dei detenuti. In alcuni istituti di pena sono state autorizzate le attività scolastiche in videoconferenza che stanno cominciando faticosamente a funzionare, è una modalità questa che potrebbe aprire grandi possibilità, soprattutto per ampliare gli spazi dello studio e dei percorsi rieducativi. Percorsi rieducativi che in questo periodo a Brindisi sono andati all’incontrario, detenuti del nostro carcere che con i loro risparmi hanno comprato viveri nello spaccio interno all’istituto per donarli alla Caritas, un segno di grande umanità e provocatore di sorde coscienze. Poveri che aiutano altri poveri, la vita nel carcere e il mondo fuori, la sicurezza e l’umanità, la giustizia e la speranza. *Garante dei diritti dei detenuti della Provincia di Brindisi Lecce. Sono già 42 i detenuti ospitati nel nuovo padiglione da 200 posti giornaledipuglia.com, 20 maggio 2020 Sono 42 i detenuti presenti nel nuovo padiglione della Casa circondariale di Lecce. Il nuovo blocco detentivo da 200 posti è uno dei quattro (insieme a quelli di Parma, Trani e Taranto) che saranno operativi entro giugno ed in grado di ospitare complessivamente 800 detenuti, come annunciato dal Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede nell’informativa alla Camera dei Deputati del 12 maggio scorso. Il nuovo padiglione è stato aperto a metà marzo per fronteggiare l’emergenza sanitaria ed ospitare i detenuti risultati positivi al coronavirus o in isolamento precauzionale. Nelle settimane successive, sono stati qui trasferiti via via altri detenuti. La palazzina è costituita da quattro piani detentivi, ciascuno da 50 posti: al piano terra sono collocati gli uffici, il primo piano accoglie la zona Covid-19, il secondo ospita i detenuti collaboratori, i cosiddetti dichiaranti sono al terzo piano e al quarto i detenuti semiliberi. Si tratta in ogni caso di tutti detenuti appartenenti al circuito di media sicurezza, compresa la sezione a trattamento avanzato con percorsi dedicati. Le aule e gli spazi per le attività trattamentali troveranno collocazione in un ulteriore blocco che sorgerà in un’area limitrofa e che sarà totalmente dedicato a questa finalità, ad uso esclusivo del nuovo padiglione. La sua realizzazione è già stata finanziata da Cassa delle Ammende. È stata conclusa infine la gara per i lavori degli impianti necessari alla cucina e a giorni seguirà la consegna anticipata dei lavori fino al completamento degli ambienti con le attrezzature ordinate tramite gara. Nel frattempo il vitto sarà assicurato dalle cucine degli altri padiglioni, in grado di garantire fino a 80 pasti al giorno. Voghera (Pv). Anche agenti e detenuti donano beni di prima necessità al Banco Alimentare vogheranews.it, 20 maggio 2020 Anche la Casa Circondariale di Voghera si è messa a disposizione dell’associazione “Banco Alimentare Onlus” per la raccolta di generi alimentari destinati alle strutture caritative locali. “La Fondazione, che da 31 anni opera sul territorio nazionale attraverso una rete di 21 banchi regionali, nella persona del Direttore della sede territoriale di Alessandria Sig. Maurizio Barbieri, ha risposto con sollecitudine alla proposta - spiegano la direttrice della Casa Circondariale di Voghera Stefania Mussio e lo staff. Gli educatori hanno provveduto a definire gli aspetti organizzativi: individuando all’interno del bar del personale un punto di raccolta dei generi devoluti da tutti gli operatori e, in due date prestabilite, si è realizzata la colletta nelle diverse sezioni detentive”. “Le persone detenute - prosegue la direttrice - hanno apprezzato e colto con fervore lo spirito dell’iniziativa e concretamente contribuito ad un’azione di aiuto alle famiglie in difficoltà, destinando volontariamente parte della loro spesa settimanale alla raccolta”. Le offerte, considerate complessivamente, sono “state generose”, fa sapere il carcere, ed hanno richiesto al responsabile del banco Barbieri ben 3 ritiri (“sono state raccolte e donate circa cinquanta scatoloni di alimenti: un significativo gesto di solidarietà e di vicinanza nei confronti dei più deboli”). “Si ringrazia il Sig. Maurizio Barbieri del Banco Alimentare di Alessandria per essersi rivolto anche a noi per dedicare attenzione a chi, in questo particolare momento, ne ha urgentemente bisogno, dando l’opportunità di esprimere concretamente la solidarietà verso chi nella sofferenza è più debole e solo. Un grazie particolare agli operatori della polizia penitenziaria che insieme agli educatori hanno coordinato la raccolta guidata dal comandante del reparto Michela Morello e dal direttore Stefania Mussio”, conclude la casa circondariale. Cagliari. Coronavirus, dai detenuti di Is Arenas una donazione all’Ospedale SS. Trinità di Antonio Tore comuni24ore.it, 20 maggio 2020 Un grande gesto di solidarietà da parte dei detenuti di Is Arenas che hanno voluto dare il proprio contributo come segno di solidarietà e vicinanza agli operatori sanitari. Hanno voluto mostrare la loro vicinanza agli operatori sanitari che in queste ultime settimane hanno lavorato in prima linea contro il coronavirus e a tutte le persone che hanno sofferto a causa della malattia: i detenuti di Is Arenas, casa di reclusione di Arbus, hanno messo in piedi una raccolta fondi e hanno raggiunto la cifra di 576 euro destinati all’ospedale cagliaritano Santissima Trinità. Il gesto è stato reso noto dagli operatori dell’area educativa, che hanno voluto sottolineare come l’iniziativa sia stata sostenuta da quasi tutta la popolazione carceraria, circa settanta persone. La raccolta è stata anche accompagnata da una lettera scritta a mano: “Abbiamo deciso di fare questa donazione in aiuto della popolazione colpita e per sostenere medici e infermieri: ci sentiamo in dovere di farlo perché in questo momento loro sono in prima linea. Per la prima volta nella mia vita non ho festeggiato il mio compleanno, non mi sentivo di farlo a sostegno della popolazione che soffre. Oggi in tutto il mondo si sta combattendo un unico nemico e non si deve guardare colore né razza, dobbiamo combatterlo ed essere uniti. E se staremo così ce la faremo e andrà tutto bene”. I soldi marci che divorano l’Italia onesta di Roberto Saviano La Repubblica, 20 maggio 2020 L’usura è il solo reato cresciuto durante la pandemia, richieste di aiuto di aziende e commercianti aumentate del 100 per cento. In attesa che l’Europa si muova, in attesa che le istituzioni diano garanzie alle banche, in attesa che la cassa integrazione finalmente parta, in attesa che arrivino i soldi sul conto, in attesa che si riapra, in attesa… e ancora in attesa… esiste chi sta fornendo soldi alle imprese, alle famiglie, ai commercianti: gli usurai. Che i soldi siano tutto è tutto ciò che sappiamo dei soldi: ho manipolato il celebre verso di Emily Dickinson sostituendo la parola amore con soldi. Ma non è vero - mi aspetto come risposta - i soldi non sono tutto! Certo, direi persino, ovvio che non siano tutto, ma lo stesso vale per l’amore, non è vero che l’amore è tutto. Beh - mi si controbatterebbe - ma l’amore nel verso di Emily è considerato nella sua capacità di dare senso a tutto, quindi è poeticamente tutto. A questa obiezione vorrei ricordare che in genere chi declama che il denaro non è motivo né di felicità né di serenità si trova proprio tra coloro che il denaro lo possiedono al punto da comprendere che effettivamente non sia condizione unica sufficiente per esser felici. Chi non ha denaro sa, invece, che tutto parte dall’averlo. I diritti e la sicurezza sociale sono le liberatorie strategie politiche che tolgono la centralità al denaro, perché se devi comprarti la salute, la scuola, se devi comprarti il rispetto, la tolleranza, se la reputazione, il carisma e persino la sensualità sono acquistabili, ecco che il denaro diventa tutto, più di tutto, misura di tutto. Ma torniamo all’usura. La crisi pandemica e l’incapacità politica a gestirla stanno esponendo l’intero sistema economico a una crisi di cui ancora non riusciamo nemmeno a comprendere i confini. L’assenza di soldi non crea solo povertà, disagio e fallimento negli individui, l’azienda che muore, il quartiere che si trasforma, la città che peggiora. La dinamica vera della crisi di liquidità ha un principio molto più universale che in genere viene trascurato, ossia il fatto che l’assenza di soldi non fa sparire il denaro ma porta alla vittoria dei soldi marci. E questo non è più un problema dell’individuo, della singola azienda che chiude, del quartiere che peggiora, ma di tutti. È un problema di tutti, anche dei più indifferenti, di chi crede di poter ignorare il disagio contando sui soldi della propria speculazione e beneficiando del fatto che, se gli altri negozi chiudono, tanto meglio sarà per il proprio. Insomma, per intenderci: la vittoria del denaro sporco su quello pulito distrugge l’economia intera. Questo è il tempo dei soldi marci, abbiamo già le prime prove. Il dato ufficiale del Viminale parla di un +9,6 per cento di reati di usura solo nei primi tre mesi dell’anno: a marzo, rispetto al 2019, è questo l’unico reato in aumento. Il dato di Napoli è il più preoccupante: a marzo su marzo è quintuplicato. All’usura ci si rivolge quando ogni altro spazio è chiuso (le banche, i prestiti degli amici, dei parenti), quando i propri beni venduti sul mercato non renderebbero quanto serve. E ci si rivolge allo strozzino perché l’usura, a differenza delle banche, non rifiuta mai di elargire soldi. Li concede subito, non ci mette tempo come le banche; ne concede tanti quanti ne vengono richiesti, non come le banche. E mentre le banche danno soldi solo a chi ha già soldi, la garanzia che chiede l’usura non è il denaro e nemmeno la proprietà: è la vita stessa. Gli usurai sanno che, quando chiedi soldi, li riporterai perché altrimenti avrai le gambe rotte, i cani sgozzati, le figlie minacciate di stupro, il corpo ustionato; la vendetta del debito non ripagato sarà così feroce che i soldi li troverai a qualunque costo. L’usura è storicamente divisibile in due macro-territori: quella familiare e quella d’impresa. L’usura familiare è quella cui si rivolge il padre di famiglia per comprare l’auto, per far sposare la figlia, quella che spesso copre il vizio del gioco, la voglia di ristrutturare casa. Poi c’è l’usura d’impresa, sostitutiva di fidi bancari che non arrivano, per pagare i fornitori, per provare ad allargare il proprio giro d’affari, o più spesso per pagare i dipendenti in tempo di crisi. Il Covid ha fatto coincidere i due mondi. Alla Consulta nazionale antiusura le richieste di aiuto sono raddoppiate. Alle richieste però non corrispondono le denunce, il terrore è ancora molto. Solo nel 2019, il Fondo nazionale antiracket ha liquidato circa 18 milioni a vittime di usura, mentre i dati dicono che solo nei due mesi di lockdown sono già stati usati cinque milioni per difendere le vittime di usura: 1,9 milioni solo a Napoli. Laddove il lavoro è meno garantito, l’unico modo di avere soldi per andare avanti è l’usura. E all’usura, che ha un giro d’affari di 30 miliardi all’anno (cifra considerata valida da tutte le associazioni che studiano e contrastano il fenomeno), si arriva senza dover essere prossimi ad ambienti criminali. Negli ultimi studi di Sos Impresa si evidenzia come spesso siano proprio i commercialisti a mettere in contatto il cliente in crisi e l’usuraio. Tutti siamo, in linea di massima, esposti all’usura: non solo il vizioso, il quasi criminale, o il giocatore d’azzardo. Storicamente non era una pratica mafiosa, le organizzazioni criminali in linea di principio la rifiutavano (come la prostituzione) perché era considerata una pratica disonorevole. Ma in realtà dietro alla scusa dell’onore c’era la logica del consenso: nulla è più odioso di un cravattaro, ed essere percepiti come strozzini non garantiva né il consenso né il rispetto fondamentali per il potere di un boss. Molti capi storici, come il capo della Nuova famiglia, il nolano Carmine Alfieri, come il suo rivale Raffaele Cutolo, ma anche Saro Riccobono, il boss di Cosa Nostra di Mondello, avevano sull’usura una politica ostile. Imponevano di azzerare gli interessi in occasioni particolari o ciclicamente obbligavano gli usurai (da cui prendevano percentuali) a non fare violenza alle donne dei creditori. Insomma: camorra, ‘ndrangheta e Cosa nostra l’usura la tenevano sotto controllo, ci guadagnavano indirettamente, ma la mal sopportavano. Da qualche anno, invece, le mafie hanno deciso di usare direttamente la pratica usuraria. Quella individuale è stata delegata ai gruppi più deboli, mentre l’usura d’azienda è diventata una strategia sempre più centrale per i loro affari. Usano il prestito alle imprese per divorarle da dentro con i debiti. In queste settimane in Italia l’invasione delle cavallette è l’usura mafiosa: offrono soldi subito e in cambio non chiedono apparentemente nulla. Abbiano notizia che in diversi quartieri stiano iniziando a pagare a interessi bassissimi o addirittura senza interesse. Se chiedi 20 mila euro devi ridarne 20 mila, invece di 40 mila dopo venti giorni o 80 mila dopo un mese e mezzo (questo, solitamente, il tasso d’interesse). Ma perché questa politica? Perché ora non chiedono nulla, ma passata la fase critica chiederanno di comprare le case dei debitori ai prezzi che loro stessi fisseranno. Imporranno voti, si intesteranno beni, insomma stanno comprando la vita stessa di chi è in difficoltà. Tutti i clan in questo momento sono impegnati nell’elargire soldi, nell’usare i debiti per prendersi tutto. Perché i soldi non siano l’orrido orizzonte delle nostre vite dobbiamo averli, perché l’usura mafiosa non si impossessi dell’intero Paese bisogna intervenire subito. I soldi devono arrivare subito alle persone e alle aziende direttamente sui loro conti: tamponare quest’emorragia non è impossibile. Ma non c’è più tempo, ogni ora che passa la pagheremo con gli interessi… agli usurai. Migranti. Cpr: calate le presenze, sono 204 di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 maggio 2020 Il Garante: diminuite le strutture per chi era in quarantena. Non solo carcere ma, come è sempre stato ribadito, sono varie le aree che, di fatto, rientrano nella categoria delle persone private della libertà. Altri luoghi chiusi dove rimane sempre alta l’attenzione sul pericolo di contagio da Covid 19. Tra queste aree rientrano i Centri di permanenza e rimpatrio (Cpr) e c’è il Garante nazionale delle persone private della libertà che le monitora. Rispetto alla penultima rilevazione riportata nell’ultimo Bollettino del Garante, il numero delle persone complessivamente presenti all’interno dei sette Centri di permanenza per il rimpatrio attualmente operativi è ulteriormente calato: ora sono 204. Il Garante nazionale ha comunicato che le riduzioni si sono verificate un po’ ovunque a eccezione del Cpr di Brindisi che ha mantenuto inalterato il numero dei presenti e di quello di Gradisca d’Isonzo in cui la popolazione ristretta è aumentata di tre unità. È diminuito anche il numero delle strutture temporaneamente adibite a ospitare le persone migranti sottoposte a misure di quarantena (oltre agli hotspot di Lampedusa e Pozzallo risultano oggi a tal fine impiegate ulteriori strutture situate nei comuni di Pozzallo, Pietraperzia, Agrigento, Ragusa, Isnello e Siracusa). Il Garante nazionale ha mantenuto una attenzione specifica anche rispetto ai Centri di accoglienza che, pur non essendo formalmente privativi della libertà, potrebbero essere interessati da casi di contagio e pertanto in via transitoria essere trasformati in luoghi di isolamento fiduciario e quarantena. In questo contesto, ha acquisito da parte del Prefetto di Roma approfondite informazioni in relazione alla situazione di alcuni Centri interessati da misure di quarantena e afferenti al circuito cittadino di accoglienza della Capitale. La completezza dell’informazione resa al Garante testimonia della positiva interlocuzione tra le due istituzioni. Nel mese di aprile alcune strutture sono state oggetto di alcune tensioni con le persone residenti nel quartiere, a seguito dell’irresponsabile violazione delle indicazioni delle Autorità sanitarie da parte di alcuni ospiti. A tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, all’esterno di una delle strutture è stato istituito un presidio di Polizia e, oltre ai lavori di ripristino, è stato rialzato il muro di recinzione preesistente. Il Garante nazionale ha sottolineato che è pienamente consapevole dell’estrema complessità delle situazioni che le Autorità in prima linea si sono trovate imprevedibilmente ad affrontare in questo periodo, durante il quale la salute individuale e collettiva, nonché la tenuta del sistema sanitario sono state messe così duramente alla prova. Ha tuttavia il compito di ricordare che la violazione delle prescrizioni sanitarie di quarantena può dar luogo esclusivamente a sanzioni, di carattere amministrativo o penale a seconda dei casi, ma non implica in alcun modo l’applicazione di possibili rimedi coercitivi da parte delle Forze dell’ordine nel corso della loro attuazione. Ciò poiché tali misure devono essere sempre accompagnate dalle garanzie dell’articolo 13 della Costituzione, più volte ribadite dalla Corte costituzionale anche per quelle situazioni in cui vi sia una qualsiasi “evenienza di assoggettamento fisico all’altrui potere che è indice sicuro dell’attinenza della misura alla sfera della libertà personale” (sentenza Corte costituzionale n. 105/ 2001). “Del resto - scrive il Garante -, la presenza di dispositivi di vigilanza, con compiti di verifica di ingressi/ uscite da una struttura e l’implicito potere di far ripristinare immediatamente la misura restrittiva nel caso di tentate violazioni, pone problemi di conformità anche con l’articolo 5 della Convenzione europea dei diritti umani”. Nel frattempo, a proposito dei Cpr, è notizia di qualche giorno fa che il Tar Piemonte ha accolto l’istanza cautelare presentata con il ricorso dell’Asgi (Associazione studi giuridici immigrazione) contro il rifiuto di accesso al Centro di permanenza per il rimpatrio del Prefetto di Torino, sulla base del parere negativo del ministero dell’Interno. Il Tribunale amministrativo regionale ha ritenuto sommariamente fondato il ricorso, in particolare sotto il profilo della carenza di motivazione del provvedimento di diniego all’accesso al Cpr. Per l’Asgi è un passo avanti verso l’effettiva accessibilità di questi centri. Migranti. Malta respinge i barconi e li dirotta verso Libia e Italia. Ecco le prove di Nello Scavo Avvenire, 20 maggio 2020 Immagini, video e testimonianze mostrano un pattugliatore maltese indirizzare un gommone in avaria con 101 persone verso la Sicilia. E spunta un rifornimento di carburante e un nuovo motore. Minacciati di essere riportati in Libia, li vediamo inseguiti da una motovedetta. Molti si gettano in acqua per non tornare nei campi di prigionia. Poi, equipaggiato di un nuovo motore fornito dagli stessi militari, il gommone riprende la rotta e si allontana. Niente di nuovo, se non fosse che a dirottare i migranti verso Pozzallo siano state le Forze armate maltesi. Stavolta ci sono i filmati, le foto, le testimonianze concordanti dei superstiti, le verifiche incrociate sulle scarse dotazioni alla partenza, dalla costa libica, e quelle rinvenute all’arrivo, nel porto di Pozzallo. E a peggiorare la posizione de La Valletta c’è un’aggravante. Dalle immagini si vede l’isola, segno che il barcone si trovava in acque territoriali, e dunque i profughi erano già ufficialmente a Malta e da lì in alcun modo potevano essere cacciati. Addirittura spinti segretamente verso un altro Paese dell’Ue. L’inchiesta giornalistica che viene pubblicata oggi in contemporanea da “Avvenire” e “The Guardian” si basa su materiali ottenuti da varie fonti. Costituiscono un atto d’accusa senza precedenti. Le immagini (in queste pagine) e il filmato sul nostro sito quasi non necessitano di essere chiariti. Ma è dai dettagli apparentemente meno vistosi che sono nate le domande a cui le autorità, la politica e i tribunali dovranno dare una risposta anche in sede europea. Un miracolo, sembrava. Dopo quattro giorni di odissea e 500 chilometri percorsi galleggiando sopra a una profondità media di 1.500 metri, 101 migranti partiti dalla Libia arrivano, sani e salvi, a Pozzallo. Erano salpati nelle stesse ore di altri tre barconi. Uno finirà per essere protagonista della “Strage di Pasquetta” e della flotta per i respingimenti ad opera di pescherecci fantasma rivelata da “Avvenire” e su cui a Malta sono indagati il premier Robert Abela e i vertici delle Forze armate. “È senza dubbio la nuova strategia dei trafficanti, che molto probabilmente hanno trasferito molte persone disperate da una nave madre a una nave più piccola”, aveva commentato il sindaco di Pozzallo, Roberto Ammatuna, davanti al gommone con 101 persone. Mai gli era capitato di assistere a uno sbarco da uno di quei canotti, che aveva resistito per oltre 100 ore in mare. Non sapeva, il primo cittadino, che stavolta i facilitatori non erano stati i trafficanti libici. La Guardia Costiera italiana ha confermato di non esserne al corrente: “La risposta è negativa”. I superstiti rintracciati in Sicilia dopo il periodo di quarantena hanno fornito versioni concordanti. “Quando siamo partiti dalla Libia - ha raccontato un giovane sudanese - abbiamo visto grandi navi commerciali. Ma non si sono mai avvicinate a noi”. Il terzo giorno, con il mare fortunatamente calmo e le prime luci dell’alba “abbiamo visto Malta. Tutti erano felici e urlavano”. Durante l’avvicinamento “siamo stati affiancati da una nave che sembrava turca. Aveva una bandiera rossa con una luna e una stella”. Con il megafono qualcuno dell’equipaggio “ci ha detto che eravamo a Malta. Poi sono scesi e si sono avvicinati con una piccola barca e ci hanno detto ancora che eravamo nelle acque di Malta: “Continuate per una distanza di 30 minuti e andate a consegnarvi”. Gli abbiamo chiesto: è possibile che ci porti a bordo e ci accompagni? Ha detto “no, non posso”. Le immagini consegnate dai profughi ad Alarm Phone e ai giornalisti non lasciano dubbi. In lontananza si vede la costa maltese. Segno che il gommone si trovava a non più di 6 miglia dalla terra ferma, comunque una distanza inferiore alle 12 miglia, il limite delle acque territoriali. I migranti, dunque, erano già ufficialmente a Malta e in alcun modo potevano essere allontanati. Il motore con cui i trafficanti libici avevano messo in mare il barcone aveva retto bene la fatica dei primi 400 chilometri e almeno 6 tonnellate di carico. L’analisi delle immagini ha permesso di individuare il produttore e il modello. Si tratta di un fuoribordo cinese “Parsun Power” da 60 hp, acquistato dai trafficanti libici perché facilmente reperibile a costi più che dimezzati rispetto ai marchi più noti. Curiosamente, però, a Pozzallo il gommone grigio arriva spinto da un più piccolo Yahama da 40 hp. Le testimonianze dei migranti e i video dei telefonini mostrano come a bordo non vi fosse nient’altro che alcune taniche per rifornire il “Parsun” e nessun motore di riserva. Del resto nella storia dei flussi migratori dalla Libia mai gli scafisti hanno fornito due motori. Nei giorni successivi allo sbarco in Sicilia, alcuni migranti hanno contattato Alarm Phone, per denunciare cos’era accaduto. E questo i militari maltesi non potevano metterlo in conto. “Quando la nave militare si è avvicinata e ci ha minacciato con le armi, dicendo che dovevamo tornare in Libia, molti si sono buttati in acqua perché nessuno voleva tornare indietro. Vedevamo la costa e prima una barca bianca ci aveva lanciato i giubbotti di salvataggio”. La tensione sale. Come si vede nel video, la motovedetta maltese riaccende i motori mentre in acqua urlano, annaspano, molti non sanno neanche nuotare. C’è chi viene assalito dal panico nonostante sia tenuto a galla dal giubbetto. Nelle immagini non si vede alcun tentativo di salvataggio, ma solo la determinazione a fermare la fuga a nuoto verso la terra ferma. C’è chi il mare non lo aveva mai visto prima di quei giorni. “Non sapevo che l’acqua fosse così salata”, ci ha detto uno dei ragazzi tornati poi a bordo. Il rombo del pattugliatore maltese spaventa molti. Il timoniere spinge il mezzo militare tra le persone in acqua, per costringerle a tornare indietro. Virate repentine e veloci alzano il mare, con i migranti che sembrano tante piccole boe arancioni spazzate via dalle ondate. “Il fine settimana di Pasqua è stato violento e mortale nel Mar Mediterraneo. Poco dopo che Italia e Malta hanno dichiarato i loro porti “non sicuri” a causa del Covid - osserva un portavoce di Alarm Phone, l’organizzazione che raccoglie le chiamate di soccorso - le barche dei migranti sono rimaste alla deriva nell’area di ricerca e salvataggio (Sar) europee, mentre venivano sorvegliate dalle autorità europee in volo. Diverse persone in difficoltà sono state lasciate morire di fame o annegare mentre sono state sorvegliate da Malta e Frontex”. Nei giorni dal 10 al 13 aprile quattro imbarcazioni avevano contattato Alarm Phone. Un gruppo di 47 persone era rimasto alla deriva nella zona Sar Maltese e il 13 aprile è stato soccorso dai soccorritori spagnoli della Aita Mari. Lo stesso giorno una seconda barca con 77 a bordo è arrivata autonomamente a Portopalo di Capopassero. La terza, con 63 migranti, è stata rinviata illegalmente in Libia tra il 14 e il 15 aprile: a Tripoli sono arrivati 51 superstiti e 5 cadaveri, mentre altri sette risultano dispersi. Il quarto gommone, decisamente più sovraccarico degli altri, è quello arrivato autonomamente a Pozzallo dopo la misteriosa sosta davanti alle coste di Malta. Tutti e quattro i natanti erano stati avvistati dagli aerei di Frontex, l’agenzia europea per i confini. Rispondendo ad “Avvenire”, una portavoce della “polizia di frontiera” comunitaria aveva precisato che “nel corso dei voli di pattuglia durante il fine settimana (tra il 9 e l’12 aprile, ndr) gli aerei di Frontex hanno individuato diverse imbarcazioni in pericolo. In linea con le convenzioni internazionali, abbiamo avvisato tutti i competenti centri nazionali di coordinamento per il salvataggio marittimo (Mrcc) nell’area”, dunque le strutture di Roma, La Valletta e, non si sa per vie dirette o attraverso l’Italia, anche la cosiddetta guardia costiera libica. “In base al diritto internazionale - ribadiva la nota dal quartier generale di Varsavia - gli Stati e non Frontex, sono le uniche entità responsabili del coordinamento delle operazioni di ricerca e salvataggio”. Pochi giorni prima, il ministro delle Infrastrutture Paola De Micheli aveva assicurato proprio ad Avvenire che nel Mediterraneo non c’è nulla che sfugga alle autorità. Perciò è difficile credere che nessuno, oltre Malta, sia consapevole dei respingimenti illegali verso la Libia e dei dirottamenti verso l’Italia. Il giornalista di Radio Radicale, Sergio Scandura, che svolge anche un’attività di monitoraggio tracciando i velivoli di sorveglianza europei, era riuscito a seguire i movimenti di “Eagle 1”, uno dei voli Ue che poi Frontex ha fatto rimuovere dalle piattaforme per la tracciatura del traffico aereo. Nella comparazione e sovrapposizione elaborata da “Mediterraneo Cronaca”, il sito di Lampedusa diretto da Mauro Seminara, il tracciato del velivolo e le posizioni gps diffuse da Alarm Phone coincidono con millimetrica precisione. Ed è qui, quando “Eagle 1” si allontana, che era entrata in scena la motovedetta maltese P02. Mentre gli sventurati riguadagnano a fatica i tubolari del gommone per mettersi in salvo, finalmente i guardacoste de La Valletta si avvicinano per tendere delle funi tra il barcone e la motovedetta consentendo a chi era rimasto in acqua di aggrapparsi e tornare sul gommone. Uno dei superstiti ha raccontato quello che un militare maltese aveva urlato: “Malta è colpita da una grave malattia. Forse lo sapete: si chiama Coronavirus. I nostri porti sono chiusi e voi non potete entrare”. Davanti all’insistenza del gruppo di profughi, la motovedetta si sarebbe fatta consegnare il telefono satellitare Thuraya fornito dai trafficanti e un apparecchio gps. “Ce lo hanno restituito dopo avere riprogrammato la rotta su 0.0.”. In altre parole direzione Nord. E a Nord c’è solo l’Italia. Al momento di rimettere in moto, il motore “Parsun” di fabbricazione cinese non ne ha voluto sapere. Era stato danneggiato, probabilmente in modo involontario, dalle corde lanciate dal pattugliatore. Per un istante i migranti pensano a un colpo di fortuna: sperano in una resa dei militari e nell’imminente trasbordo verso La Valletta. Accade però quello che le cronache non hanno mai potuto documentare. Sul barcone viene montato un meno potente ma più efficiente “Yamaha 40 hp”. “Ci hanno consegnato il nuovo motore, bottigliette d’acqua e almeno 60 litri di carburante”. Abbastanza per non restare a secco. Quando oramai è buio i 101 vengono scortati fino al confine delle acque territoriali. Prima di venire abbandonati, un militare più giovane, li aveva rassicurati: “Sono stato mandato dal governo, sto salvando la vita delle persone nel Mar Mediterraneo, non vogliamo uccidervi e non vogliamo farvi del male, non vi stiamo minacciando, ma se ci seguite verso l’Italia vi salveremo la vita”. Dopo i fucili spianati, le manovre azzardate, la minaccia di un ritorno in Libia, ai migranti quelle parole sono sembrate una consolazione. “Abbiamo fatto come dicevano. Ci avevano dato anche una bussola in una scatola di legno: “seguite sempre 0.0. e sarete in Italia” ci ripetevano”. Il mattino dopo entrano nel porto di Pozzallo. È la Domenica di Pasqua. Il giorno dopo, sempre da Malta, respingeranno un altro barcone: 12 morti. E ancora tante domande a cui non solo La Valletta deve rispondere. Digiuno e morte in Turchia. Mobilitiamoci ora di Franco Corleone Il Manifesto, 20 maggio 2020 Davvero grazie a Roberto Vecchioni che su la Repubblica di domenica 10 maggio ha scritto un pezzo straziante sulla morte di un musicista del Grup Yorum dopo uno sciopero della fame di 323 giorni per protestare contro il divieto di tenere concerti, di suonare, di cantare che durava da cinque anni. La libertà fa paura alle dittature e la Turchia di Erdogan vive sulla costruzione di complotti e di nemici perfetti. Ibrahim Gokcek, il bassista del gruppo musicale accusato di essere contiguo a movimenti di opposizione ha lasciato un messaggio tremendo di accusa: “Ci avevano lasciato solo i nostri corpi per combattere”. Prima di lui erano morti Helin Bolek e Mustafa Kocak, dopo mesi di digiuno. Sono sconvolto, come è possibile che io, persona mediamente informata, non sapessi nulla di questa tragedia incombente? Ha ragione Vecchioni, il nostro Occidente è vile, indifferente e ora si culla nello spot demenziale del “tutto andrà bene”. Ma ha torto a scrivere che “nessuno, ma proprio nessuno ne ha parlato”. Il manifesto lo ha fatto due volte. Preziosi dunque gli articoli sul manifesto di Chiara Cruciati, che lui a quanto pare non ha letto. Non sa, o finge di non sapere, che questo non è un caso isolato, poiché la Turchia negli ultimi anni è diventato un grande carcere, dove si può finire senza aver commesso alcun reato. Basta la generica accusa di “terrorismo”, che lì (ma è lo stesso in tanti altri paesi) viene appioppata a migliaia di insegnanti, giornalisti, sindaci, parlamentari di opposizione. E chi non finisce in prigione viene estromesso dagli impieghi pubblici. Dopo il tentato golpe del 2016 sono stati licenziati anche 4.279 magistrati, 3.000 di loro arrestati. È così che, come riferisce nell’ultimo numero il magazine internazionale Global Rights, che da anni denuncia e informa anche sui diritti umani nel regno di Erdogan, secondo i dati dello stesso governo, a gennaio vi erano ben 298.000 persone nelle 355 prigioni del paese, che però dispongono di soli 218.000 posti. Vi sono almeno 1.334 prigionieri malati di cui 457 in gravi condizioni. Vi si trovano persino 780 bambini, in prigione con le loro madri (globalrights.info). Del resto, basterebbe avere un po’ di memoria per sapere delle condizioni delle carceri e dei diritti in quel paese, dove troppo spesso lo sciopero della fame sino alle estreme conseguenze è l’unica possibilità di protestare. Come avvenne, ad esempio, nel 2001, con decine di reclusi morti a seguito di un lungo digiuno e altre decine uccisi dall’assalto dei militari alle prigioni in lotta. Ne scrisse il compianto Sandro Margara, per un troppo breve periodo a capo delle nostre carceri dopo essersi recato in Turchia con una delegazione di osservatori internazionali su Fuoriluogo nel gennaio 2001. La sua testimonianza si può leggere nella Antologia dei suoi scritti La giustizia e il senso di umanità (carcere, opg, droghe e magistratura di sorveglianza) che ho curato nel 2015, edito da Fondazione Michelucci Press. Ora dunque sappiamo. Si può morire anche di indifferenza. La prima cosa da dire, forte, è che la prima manifestazione che si organizzerà a Roma con uomini e donne in carne e ossa, dovrà essere davanti alla Ambasciata della Turchia con il fazzoletto giallo del Grup Yorum al collo. Un silenzio agghiacciante dovrà far crollare i muri dell’intolleranza e della violenza. E solo allora come chiedeva Ibrahim potremo cantare “Bella ciao”. Per prepararci a quell’appuntamento potremmo iniziare una catena umana, di 323 persone di cuore, tante quanti sono stati i giorni del digiuno mortale, per uno sciopero della fame collettivo. Ma da subito bisogna continuare a denunciare quel che succede. Proprio oggi si terrà un’udienza contro Sultan Gokçek, moglie di Ibrahim, e Bergun Varan entrambe di Grup Yorum, accusate di propaganda di organizzazione illegale. Occorre dare corpo alla speranza di giustizia e libertà. Una democrazia non può vivere a lungo senza diritti, senza sorrisi, senza amore, senza fraternità. Covid o non Covid. Malta. L’isola dei sovranisti di Luca Gambardella Il Foglio, 20 maggio 2020 Migranti respinti, odio sociale, provocazioni contro l’Ue, attacchi alla Germania e al Vaticano. Malta voleva recuperare la fiducia europea ma ancora non ce l’ha fatta. Lo scorso 13 gennaio, mentre Robert Abela baciava il crocefisso e firmava il suo giuramento da primo ministro di Malta come richiesto dal cerimoniale dell’insediamento, a pochi passi da lui tra gli invitati in sala c’era anche il sorridente Neville Gafà, uno degli uomini più discussi di tutta l’isola. Per anni Gafà aveva prestato servizio come funzionario del governo guidato dal predecessore di Abela, Joseph Muscat, che era stato costretto a dimettersi nel dicembre 2019 per il presunto coinvolgimento di alcuni suoi ministri nell’omicidio della giornalista Daphne Caruana Galizia. La donna era stata uccisa due anni prima, mentre indagava su alcuni membri dell’esecutivo finiti nello scandalo dei Panama Papers. Tra questi c’era anche il capo di gabinetto del governo, Keith Schembri, e all’epoca Gafà, che lavorava già per l’esecutivo, era un suo stretto confidente. Il giorno prima che l’auto di Caruana Galizia saltasse in aria, Gafà l’aveva stalkerata sui social, pubblicando una foto che le aveva scattato di nascosto mentre era seduta sulla panchina di un parco con il marito. “Che romantici, mancano solo i biscottini”, aveva scritto con tragico sarcasmo. L’omicidio di Caruana Galizia, che ancora oggi resta senza esecutori materiali, e il sospetto coinvolgimento di uomini dello stato avevano infangato la reputazione internazionale di Malta: un paese membro dell’Unione europea che aveva calpestato la libertà di informazione. Il 1° dicembre 2019, Muscat annunciò le sue dimissioni dopo che migliaia di persone, ciascuna con una candela, erano scese per le strade della Valletta chiedendo giustizia per la giornalista uccisa. Per la piccola isola il giuramento di Abela doveva essere l’anno zero, il riscatto: Malta era in grado di rispettare le leggi basilari di uno stato di diritto. Ma fin da subito le cose sono andate diversamente e a suonare il primo campanello di allarme, il giorno stesso della vittoria di Abela alle elezioni, fu proprio il nostro Gafà, che tanto si era speso per la vittoria del giovane laburista, nonché suo ex avvocato: “Continuità”, c’era scritto in un suo post su Facebook. “Alla fine però, quando si è insediato, Abela ha detto che non voleva Gafà tra i funzionari del suo governo”, racconta al Foglio Emanuel Delia che è un giornalista e blogger maltese che in questi anni ha portato avanti il lavoro di inchiesta di Caruana Galizia. Dice che il funzionario tuttofare del governo Muscat avrebbe rappresentato un legame pericoloso con il passato. Un danno per l’immagine che Abela, almeno ufficialmente, non voleva correre. Ma quale era il passato di Gafà? Fino al 2013, quando viene chiamato da Muscat nello staff del suo governo, era un semplice addetto alle vendite di un negozio di ottica. L’anno dopo finisce coinvolto in un giro di racket per la compravendita di visti venduti a decine di libici per farli arrivare a Malta. Si apre un procedimento contro di lui e allora Gafà, nel novembre 2018, vola a Tripoli e secondo l’accusa di un processo ancora in corso avrebbe corrotto i testimoni libici perché restassero in silenzio. Durante quel viaggio non è solo: assieme a lui ci sono anche il premier Muscat e un membro della sua scorta, Kenneth Camillieri, tutti con passaporto diplomatico. Gafà compare in foto con l’allora ministro dell’Interno di Tripoli, Fathia Pasha, e incontra capi delle milizie libiche. È di fede musulmana e dimostra di avere agganci notevoli con l’entourage del governo di unità nazionale. Durante la sua testimonianza resa al processo per l’omicidio di Caruana Galizia, il tuttofare di Muscat si difende: dichiara che a Tripoli ha avuto solo riunioni informali per risolvere la crisi dei migranti e nega il suo coinvolgimento nel giro di racket e corruzione. Ma quando i fatti vengono resi pubblici con tanto di intercettazioni ambientali riportate dalla stampa maltese, il danno di immagine per il Partito laburista è enorme. Nel frattempo arriva anche lo scandalo per l’omicidio di Caruana Galizia e per il governo Muscat il tempo a disposizione ormai è finito. Non per Gafà. Il nuovo corso inaugurato da Abela finisce per peggiorare la gestione degli sbarchi. Lo scorso 9 aprile, Malta aveva chiuso i porti ai migranti a causa dell’epidemia di coronavirus. Dopo circa tre settimane, il comandante di una imbarcazione privata, un membro della Guardia costiera libica e Gafà rivelano al New York Times che il governo di Malta ha escogitato un sistema di respingimenti dei migranti affinché nessuno sbarchi sull’isola. Si tratta di una piccola flotta di tre imbarcazioni private che, su ordine diretto delle Forze armate maltesi, intercettano i naufraghi in mare e li riportano a Tripoli. È una pratica illegale - la Libia non è un porto sicuro secondo le Nazioni Unite - che Malta ha sperimentato lo scorso 13 aprile, a Pasquetta. Come ricostruito dalla piattaforma AlarmPhone, che raccoglie le richieste di aiuto dei migranti nel Mediterraneo, le tre imbarcazioni salpate dalla Valletta - la Dar Al Salam 1, la Salve Regina e la Tremar - spengono il transponder per non farsi rintracciare e recuperano i migranti nella zona di salvataggio maltese (la cosiddetta area sar, acronimo di search and rescue) dopo averli lasciati alla deriva per cinque giorni senza che Malta né l’Italia, né l’Ue intervenissero. Alla fine dell’operazione di recupero muoiono cinque migranti, sette sono dispersi, gli altri 51 sono riportati a Tripoli dalla flotta fantasma e rinchiusi nel centro di detenzione di Tarik al Sikka. “Le barche erano maltesi, i comandanti maltesi, il loro porto abituale era maltese”, dice Delia. Ma se aveva lasciato lo staff del governo a gennaio, cosa c’entrava Gafà con questo respingimento? Lo spiega lui stesso al New York Times. La notte dell’intervento era stato richiamato direttamente dal capo di gabinetto del primo ministro Abela affinché sfruttasse i suoi contatti a Tripoli e coordinasse in prima persona l’operazione di recupero dei migranti. Per capire che tipo di contatti Gafà avesse in Libia occorre fare un passo indietro di appena un paio di mesi. A febbraio 2020, quando il tuttofare è già fuori dal governo, Gafà rilascia un’intervista a Malta Today e racconta di essere stato l’architetto di un sistema di respingimenti che funzionava sin dal 2018 grazie ai legami che aveva coltivato con il governo di Tripoli, alle milizie che lo sostengono e alla Guardia costiera libica. “Ricevevo notizie sulle barche che partivano dalla Libia e davo le loro coordinate alle Forze armate maltesi che le intercettavano e le consegnavano direttamente ai libici”, dice Gafà. Di questo sistema illegale, afferma il funzionario maltese, era a conoscenza anche l’allora primo ministro Muscat che spesso emanava ordini diretti. Ma secondo Federico Sola, capo della sede di Tripoli dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, l’agenzia dell’Onu che monitora i flussi di migranti, la vicenda di Pasquetta è un caso ancora più grave dei soliti respingimenti compiuti in acque libiche: “In questo caso i migranti sono stati intercettati direttamente nelle zone di intervento maltesi e poi riportati indietro, in Libia. Una simile esternalizzazione dei salvataggi con navi private agli ordini del governo, tanto palese poi, è assolutamente nuova”, spiega al Foglio il funzionario dell’Onu. “È la dimostrazione che ad alcuni stati europei non interessa se i migranti partano o no dalla Libia: interessa invece se i migranti arrivino o no sulle loro coste”. Le notizie sui respingimenti vengono rese pubbliche quasi da subito e per il premier Abela è uno scandalo che lo coinvolge in prima persona. Finisce sotto indagine dopo una denuncia dell’ong Republika, antagonista del Partito laburista e a capo delle proteste contro Muscat per il caso Caruana Galizia. Il premier è costretto a rivolgersi alla nazione con messaggi televisivi in cui difende la chiusura dei porti ai migranti per il coronavirus e in cui ribadisce la latitanza dell’Ue. Intanto Gafà continua a parlare ai giornali, scaricando sul premier ogni responsabilità per la gestione caotica degli sbarchi: “Quando c’ero io al governo viaggiavo spesso in Libia e la situazione era sotto controllo. Ho salvato Malta dall’invasione dei migranti. Ora c’è il caos”, dice a Malta Today. “Il sistema dei respingimenti durava da anni e i governi hanno sempre sperato che tutto restasse nascosto. Con la strage di Pasquetta però si è scoperto tutto”, dice al Foglio Delia. Ma attorno alla gestione degli sbarchi c’è un contesto sociale che, con l’arrivo di Abela al governo, si è polarizzato sempre di più, incentivando un risentimento più accentuato nei confronti dei migranti. “Purtroppo non si sta esagerando quando si parla di xenofobia e razzismo qui”, ci spiega l’arcivescovo di Malta, Charles Scicluna. “Il motivo è l’esasperazione. Qui sull’isola ci sono sempre più poveri e disoccupati e questa esasperazione porta alla mancanza di solidarietà”, dice. Anche il coronavirus ha avuto i suoi effetti. “Il turismo è fermo, e per la nostra economia è molto importante”. Poi c’è l’Europa che ha le sue responsabilità: “Sulla gestione dei migranti Malta non può essere lasciata da sola. Non bastano interventi sporadici, servono misure strutturate”. Secondo Delia, il governo specula su questo odio generalizzato: “Talvolta vicino ai centri di accoglienza si è arrivati anche a episodi di violenza, ma basta dare un’occhiata ai social per vedere come stanno cambiando i toni”. A Malta il dibattito politico è costretto tra due sole alternative politiche: laburisti da una parte e nazionalisti dall’altra. “Le campagne elettorali sono fatte per ottenere il 50 per cento più uno dei voti e ogni mezzo è ammesso”. La carta dei migranti, dice il blogger, è una di questi. “Gli esecutivi laburisti si sono rivelati dei veri movimenti populisti. Qui non c’è la sinistra come si intende altrove, non c’è ideologia. Anche per questo il partito è stato affascinato dai metodi di Matteo Salvini quando era ministro in Italia. A Malta piaceva molto la sua gestione dei migranti, il fatto di lasciare le navi delle ong al largo. E così si è arrivati a dire: ‘Se lo ha fatto lui, possiamo farlo anche noi’”. Ma il polso fermo del governo e il silenzio dell’Europa davanti alle difficoltà dell’isola non possono diventare un alibi, secondo l’arcivescovo Scicluna: “Serve accoglienza, bisogna rispettare il principio della legalità e adempiere agli obblighi internazionali”, dice al Foglio. Ma dopo l’ennesimo appello rivolto da Papa Francesco per accogliere e salvare vite in mare, il governo di Malta ha risposto con una lettera inviata direttamente al Vaticano: “Accogliete voi una famiglia di migranti”, c’era scritto. “Una richiesta di aiuto, ma la chiesa sta già facendo la sua parte”, ci dice Scicluna. “Una provocazione, ovviamente”, affermano invece altre fonti che preferiscono restare anonime. Sin dal giorno dell’insediamento, Abela ha fatto della criminalizzazione delle ong uno dei suoi punti fermi, sulla scia dei sovranisti italiani. Il suo predecessore Muscat e l’ex ministro dell’Interno, Michael Farrugia, avevano sempre avuto toni dialoganti con Bruxelles, fino ad arrivare nel settembre 2019 all’accordo sui migranti della Valletta, siglato con Italia, Francia e Germania. Un primo, timido passo verso un sistema di ripartizione dei migranti a cui, nei piani iniziali, avrebbero dovuto aderire altri stati membri. Oggi quello spirito di cooperazione sembra già tramontato. Il governo di Abela, che lamenta l’assenza di solidarietà tra gli stati membri, adotta una strategia molto salviniana: battere i pugni sul tavolo, chiudere a ogni forma di dialogo e insistere sul tasto dell’antieuropeismo, che è un sentimento sempre più diffuso nell’isola. “Non possiamo gestire tutto da soli”, ha ripetuto il ministro degli Esteri Evarist Bartolo in un video pubblicato su Facebook in cui invocava un nuovo sistema di ripartizione dei migranti. “Condividiamo la stessa frustrazione dell’Italia. Siamo uno stato che vuole la pace, non causiamo guerre, non vendiamo armi. Di certo non siamo stati noi a dare vita a questa confusione”, ha aggiunto. Ma i toni pacati di Bartolo non sono condivisi da tutti. Lo scorso 10 maggio, l’ambasciatore maltese in Finlandia, Michael Zammit Tabona, si è dimesso dopo che aveva paragonato la cancelliera tedesca Angela Merkel ad Adolf Hitler. “Settantacinque anni fa abbiamo fermato Hitler. Ora chi fermerà Angela Merkel?”, ha scritto su Facebook. Bartolo si è scusato con Berlino, ma per il Partito laburista si è trattato di un’altra figuraccia, dato che Tabona fu nominato ambasciatore nel 2014 direttamente da Muscat. Ciliegina sulla torta, l’ormai ex diplomatico è anche l’armatore di Captain Cook, la compagnia di battelli turistici affittati dal governo per mettere in quarantena i migranti lontano dalla costa. Un metodo usato anche dall’Italia, ma che a Malta ha suscitato grande indignazione, perché è visto come un’aberrazione, peraltro con costi esagerati. A testimoniare che il tanto atteso riscatto di Malta sulla scena internazionale con il nuovo premier Abela sia stato solamente un’illusione ci sono anche le scelte di politica estera prese nelle ultime settimane. I toni antieuropei del governo sono sfociati in voltafaccia politici che hanno innervosito anche le altre capitali dell’Unione. Lo scorso 31 marzo l’Ue ha lanciato Irini, una missione aeronavale comandata dall’Italia che deve sorvegliare l’embargo delle armi in Libia e ostacolare il traffico di esseri umani. Il governo maltese aveva offerto una squadra d’assalto, uomini che avrebbero dovuto abbordare le navi sospettate di compiere traffici illeciti. Ma proprio il giorno successivo all’annuncio dell’intesa tra gli stati membri sulle forze da impiegare, dopo oltre un mese di trattative, La Valletta ha detto di averci ripensato e ha ritirato la sua disponibilità. “Non c’è stata alcuna comunicazione formale né a Bruxelles né al comando di Roma”, dicono al Foglio fonti vicine alla missione. Si è trattato insomma di un semplice mal di pancia, che però ha innervosito sia Josep Borrell, Alto rappresentante per la Politica estera dell’Ue, sia Angela Merkel ed Emmanuel Macron, che hanno chiesto chiarimenti al premier Abela. C’è chi ha interpretato il passo indietro di Malta come uno sgarbo all’Ue e un favore alla Turchia, la prima a essere penalizzata dalla missione europea dati i suoi traffici di armi via mare con Tripoli. Per altri invece si tratta solamente di provocazioni con cui Malta prova a dimostrare a Bruxelles che l’ora delle politiche estemporanee è finita: “Irini non è Sophia (la missione gemella che l’ha preceduta, ndr) e ha compiti ancora minori - dice al Foglio una fonte maltese che preferisce restare anonima - Con l’Ue devi fare così, devi ricattare, altrimenti non capiscono”. Sudafrica. Bande criminali in campo per aiutare i nuovi poveri creati dal coronavirus di Francesco Malgaroli La Repubblica, 20 maggio 2020 Le gang più potenti di Città del Capo depongono le armi per portare pane, farina e verdure a chi vive in condizioni di miseria. Nel timore di un picco dei contagi per agosto, ci si prepara ad allestire un ospedale da campo a Soccer City, lo stadio che ospitò la finale dei Mondiali 2010. In Sudafrica ci si attrezza per allestire nei campi di calcio ospedali da campo per combattere il coronavirus. L’esercito, secondo il giornale Sunday Independent, ha cominciato a ragionarci. L’eventualità di una “piena” è prevista per agosto, quando nel Paese sarà inverno. Bisogna farsi trovare preparati. “Soccer City”, così è chiamato da tutti, lo stadio più grande dell’Africa, quasi 100 mila spettatori, è tra Soweto e Johannesburg. Qui Nelson Mandela ha salutato neri e bianchi per la prima volta dopo la liberazione nel 1990 e qualche mese prima sono stati accolti i primi leader dell’African National Congress usciti dal carcere. Qui fu ospitata la finale dei mondiali di calcio del 2010; si pianse la morte di Mandela e più tardi quella Winnie Mandela. “Ora ci si attrezza per il peggio”, ha detto più volte il presidente della Repubblica Cyril Ramaphosa. Anche ad allestire un ospedale in uno stadio. Il compito più gravoso è alleviare la fame per chi non ha niente, o per chi ha perso tutto: quasi il 50% dei cittadini vivono in povertà secondo le statistiche ufficiali del governo. Le file per il pane che si snodano per chilometri tra le baracche di Centurias, tra Johannesburg e Pretoria, rendono visibile quello che succede in questi giorni: le persone aspettano il loro turno senza fiatare, due code mute, un infinito colpo al cuore. Da qualche parte ci pensano i gangster. Una delle bande più potenti di Manenberg, Città del Capo, gli Americans, ha posato le armi e l’hanno fatto anche gli Hard Living, per portare insieme pane, farina, verdure a chi vive sotto la soglia di povertà. “Non c’è problema - ha constatato uno degli Hard Living - facciamo di tutto per chi non ha più niente. Le industrie sono chiuse? La gente ha fame? Noi cerchiamo di aiutare”. Prima i gangster si sparavano per droga, estorsioni, omicidi, ora da bravi violenti sono diventati buoni. L’idea è venuta ad Andie Steele-Smith, australiano, un prete che tutti chiamano “il pastore dei criminali”. Facile: “Appena i gangster hanno pensato come alleviare le sofferenze di chi è chiuso in casa, sono intervenuto io e li ho messi d’accordo”. A Città del Capo qualcosa del genere, senza bande di mezzo, l’hanno inventato due chef. Chiuso un famoso ristorante, il Jans & Co, Liezl Odendaal si è riorganizzato, facendo da mangiare per uno dei quartieri più poveri di Khayelisha, un ghetto alle porte della città. Con il suo socio e l’aiuto di altri collaboratori, grazie a una struttura donata per l’occasione e adattata a cucina, si pensa ai bambini: “È il minimo che possiamo fare, dei sandwiches, muffins e verdura”. C’è chi cerca di tornare agli incroci, nonostante il lockdown, per elemosinare qualcosa ai semafori: un compito non facile, visto che poliziotti e militari sono pronti anche a picchiare chi non sta a casa. La prima settimana di lockdown, 54 giorni fa, le botte erano all’ordine del giorno, per fortuna poi si sono diradate. “Non ho di che far mangiare la famiglia, ma anche al semaforo non si batte chiodo”, mormora il mendicante, guardando le strade vuote di East London. Dal Limpopo, la regione al confine con lo Zimbabwe, invece dicono che hanno individuato la pozione per bloccare il contagio, come l’ha trovata anche il leader del Madagascar. L’Organizzazione mondiale della sanità ha bollato la trovata come una bevanda che non fa niente, ma in mancanza di altro, anche questa si può vendere, esercito permettendo. I dati dicono che al momento sono 15.000 i casi di coronavirus, 260 i morti, e l’ultimo dato dice ci sono state 1600 persone contagiate in un solo giorno. È il paese africano dove è attecchito più a fondo. Magnati come Patrice Motsepe, Nicky Oppenheimer e Johann Rupert, hanno donato 1 miliardo di rand (mezzo miliardo di euro) per combattere in ogni forma il Covid 19. Per almeno quaranta giorni Ramaphosa è stato un presidente autorevole e serio, ora dentro il governo, e fuori, stanno prendendo piede i fautori dell’allentamento delle misure restrittive. Intanto a Soccer City, e in altri tre località, tra cui lo stadio di Durban, l’esercito va avanti, il costo previsto per l’allestimento degli ospedali da campo è più o meno di 50 milioni di rand, 27 milioni di euro. Le vie del Signore sono infinite, come quelle dei gangster diventati buoni. Ma se in Sudafrica non si mette mano alle spaventose discriminazioni tra i pochissimi ricchi e i tantissimi poveri con una rivoluzione - che comporti il calo della disoccupazione; case, acqua, luce, elettricità per tutti; scolarità di massa per le bambine i bambini - passato il coronavirus neanche il Signore potrà fare molto.