La “Fase due”: test sierologici e le tecnologie da preservare di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 maggio 2020 Mentre la società libera si appresta a subire primi piccoli rallentamenti della restrizione, la “Fase due” per le carceri italiane appare sempre più problematica. A partire dal discorso dei contagi da Covid 19. C’è il sindacato Uil della polizia penitenziaria che ha sottolineato come i casi nelle carceri siano più che quadruplicati in 22 giorni. “Intanto che nel Paese la curva dei nuovi effetti da Covid-19 pare, fortunatamente, scemare con una certa costanza - denuncia Gennarino De Fazio, rappresentate nazionale della Uil-Pa - nelle carceri i contagi sembrano salire vertiginosamente. Mentre il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria continua a non rispondere a nostre richieste d’informazione, facendo sospettare che non abbia interesse alla trasparenza dei dati, dal bollettino di ieri del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale apprendiamo che sarebbero ben oltre 150 i detenuti attualmente positivi nei vari istituti penitenziari, senza sapere peraltro quanti di loro siano stati sottoposti a tampone; se si considera che erano 37 i positivi alla data del 6 aprile, la crescita sembra vertiginosa”. Proprio ieri il Dap ha aggiornato i dati: 144 i detenuti positivi e 204 gli agenti. L’attenzione, infatti, rimane alta. Le aziende sanitarie di alcune regioni hanno cominciato a fare il test sierologico a tutto il personale delle carceri. Ai penitenziari di Ferrara e Bologna li hanno già fatti. Il Dubbio ha notizia che il 4 maggio verranno effettuati i test sierologici al super carcere di Parma, dove un eventuale diffusione del contagio potrebbe diventare problematico visto le condizioni dei detenuti, molto vecchi e malati. Con riferimento alla nota regionale che prevede per le Aziende Sanitarie la definizione di un programma di avvio della sorveglianza tramite indagine sierologica che interessi in ordine di priorità gli operatori sanitari e socio-sanitari, si dettagliano le indicazioni relative all’Azienda sanitaria di Parma per quanto attiene ai test rapidi per operatori sanitari e agenti all’interno dell’istituto penitenziario. Dal momento del riscontro di positività al test rapido, si ordina che dovrà essere inibita l’attività lavorativa fino all’esito del tampone. In tale caso: se tampone negativo l’attività lavorativa può riprendere, se tampone positivo si seguono le norme già definite. Il “decreto aprile” firmato domenica dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, prorogando di fatto le disposizioni precedenti, per le carceri stabilisce soltanto che “i casi sintomatici dei nuovi ingressi sono posti in condizione di isolamento dagli altri detenuti, raccomandando di valutare la possibilità di misure alternative di detenzione domiciliare”. Quindi nulla di nuovo. Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia, esprime la preoccupazione circa una eventuale Fase due. Ovvero “che le tecnologie, entrate di prepotenza in carcere, anche per far fronte all’epidemia di rabbia che rischiava di diffondersi e inquinare le condizioni di vita già difficili - osserva la Favero - ne escano appena si tornerà a un po’ di normalità ripristinando i colloqui visivi”. La direttrice di Orizzonti non ci sta. “No, non si deve tornare indietro - spiega sempre la Favero - perché anche in condizioni “normali” i rapporti con le famiglie, le telefonate e i colloqui nel nostro Paese sono veramente una miseria. Abbiamo visto detenuti piangere dopo aver parlato in videochiamata con un genitore che non vedevano da anni, non è pensabile che questa boccata di umanità a costo zero possa finire”. Per questo si augura di essere coinvolti, come volontari, in un prossimo confronto tra il Garante nazione e quelli regionali. Il Pd ora molla il capo del Dap e chiede le sue dimissioni di David Allegranti Il Foglio, 1 maggio 2020 “Ora che la situazione nelle carceri è migliorata, si ragioni sul vertice del dipartimento”, dice Verini, responsabile Giustizia Pd. Il Pd molla Francesco Basentini, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e ne auspica le dimissioni: “All’inizio della crisi non abbiamo chiesto le dimissioni del vertice del Dap, come altri hanno fatto, per evitare di restare senza guida in un momento così complicato per le carceri”, premette al Foglio Walter Verini, responsabile Giustizia del Pd. “Adesso però, che il numero dei detenuti è sceso, anche se non è ancora sufficiente naturalmente, e la situazione è più sotto controllo, si può e si deve ragionare sul futuro del vertice del Dap, e ci aspettiamo che il ministro faccia conoscere le sue valutazioni. Specie dopo quanto accaduto in queste settimane”. Le sue dimissioni adesso non sono più una remota possibilità. Tanto più che due giorni fa è stato nominato anche un vicedirettore, ruolo da tempo vacante, “come il Pd aveva più volte sollecitato”, dice Verini. Come vice del Dap è stato scelto Roberto Tartaglia, pm antimafia, sulla cui nomina si è espresso positivamente anche Nino Di Matteo, consigliere del Csm che ha votato a favore del collocamento fuori ruolo per Tartaglia: “Ho diretta esperienza di un collega di grandissimo valore e professionalità e non comune coraggio, che ha dato testimonianza diretta del valore dell’autonomia e dell’indipendenza del magistrato da ogni condizionamento interno ed esterno alla magistratura”. Tartaglia, ha detto Di Matteo, “in 10 anni a Palermo ha acquisito una conoscenza molto approfondita delle organizzazioni criminali e sono fermamente convinto che oggi più che mai l’azione di contrasto giudiziario alla mafia e al terrorismo passa attraverso il controllo efficace e corretto delle carceri”. Una nomina che a molti sembra un commissariamento di Basentini anche se per il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, non lo è: “Tartaglia - ha detto il Guardasigilli in un’intervista al Fatto quotidiano - è un magistrato di grande valore, da sempre in linea contro le mafie”. Tuttavia, negli ultimi giorni la fiducia in Basentini è scesa parecchio in vari settori della maggioranza e voci piuttosto insistenti in qualificati ambienti di giustizia dicono che a breve potrebbe lasciare l’incarico. Il Pd nei giorni scorsi lo ha attaccato per la scarcerazione del boss mafioso Pasquale Zagaria - recluso con il 41bis e ora affidato ai domiciliari - malato di cancro, come si legge nell’ordinanza che lo ha scarcerato (e questo perché anche i mafiosi hanno dei diritti, è un principio garantista). All’inizio dell’emergenza sanitaria era stata Italia viva a chiedere le dimissioni di Basentini per la pessima gestione del sovraffollamento carcerario, quando dietro le sbarre c’erano oltre sessantamila persone. Adesso i detenuti sono scesi a 54 mila ma sono ancora troppi per la capienza delle carceri italiane, come ha ricordato anche il senatore del Pd Luigi Zanda nel suo intervento al Senato mercoledì scorso: “Le nostre carceri possono ricevere 47.000 detenuti, ma ne ospitano quasi 54.000. Non sto a ripetere gli allarmi sanitari molto seri e i rischi di contagio. Sono argomenti noti. Dico invece che nelle carceri sovraffollate la grande criminalità ha facile presa sui tantissimi detenuti per lievi reati, i quali, se non sono protetti da un ambiente carcerario umano, finiscono fatalmente con l’essere arruolati dal grande crimine. Chi accampa ragioni di sicurezza per opporsi a misure in grado di ridurre l’affollamento, deve sapere che la politica delle carceri affollate produce, fatalmente, conseguenze opposte. Nelle carceri sovraffollate si entra piccoli spacciatori e si esce manovalanza delle grandi mafie. Se non vogliamo che questo scenario si perpetui è necessario decidere. Il presidente del Consiglio può farlo, farlo veramente e farlo in fretta”. Per questo, dunque, servirebbe anche un nuovo capo del Dap. Maresca è pronto per il Dap di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 1 maggio 2020 Il magistrato anticamorra in pole per l’amministrazione penitenziaria. Salgono le quotazioni di Catello Maresca come prossimo numero uno del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. La poltrona di Francesco Basentini, finito nell’occhio del ciclone per la vicenda delle scarcerazioni di alcuni boss detenuti in regime di 41bis, pare essere sempre più in discussione alla luce delle recenti decisioni del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Il Guardasigilli ha infatti voluto imprimere questa settimana un’accelerazione nella riorganizzazione del Dap. La prima mossa è stata la nomina di Roberto Tartaglia, già pm del pool del processo Trattativa Stato-mafia a vice capo. Nomina ratificata dal Csm, con l’unica astensione del laico in quota Lega Stefano Cavanna, nell’ultimo plenum. Dal punto di vista normativo, è stato poi previsto l’obbligo di chiedere da parte dei magistrati di sorveglianza un parere alla Procura nazionale antimafia e delle singole Direzioni distrettuali Antimafia in caso di istanze di scarcerazioni presentate dai detenuti in regime di 41bis. Una modifica legislativa “d’immagine” in quanto i magistrati di sorveglianza hanno già dichiarato che non subiranno condizionamenti di alcun tipo. Il nome di Maresca, fino al mese scorso in forza alla Dda partenopea ed ora sostituto procuratore generale presso la Corte d’Appello di Napoli, è iniziato a circolare all’indomani di un post dal titolo “È finito tutto” con cui il magistrato napoletano puntava il dito sulla gestione dell’emergenza carceraria definendola “un fallimento totale”. Il post era diventato subito virale in rete, raggiungendo le migliaia di condivisioni. Per i mafiosi le scarcerazioni erano “un inatteso periodo di vacanza domiciliare” aveva scritto Maresca, accusando di essere stato lasciato “solo” e “bistrattato” dopo anni di lotta alla camorra. A rincuorare il pm napoletano, il “conforto della vicinanza e solidarietà della gente per bene”. Il duro intervento non era passato inosservato fra i dirigenti del M5s. Maresca, infatti, è da sempre uno dei magistrati, insieme a Nino Di Matteo e allo stesso Tartaglia, più stimati dai grillini. Lo scorso novembre, nel pieno della discussione sulla riforma della prescrizione, Maresca venne chiamato come esperto qualificato in audizione a Montecitorio proprio dai deputati 5Stelle. L’esito dell’audizione, però, non rispose ai desiderata pentastellati in quanto Maresca affermò che “un provvedimento sulla prescrizione introdotto così, senza corollari, è un azzardo, che causerà l’accumulo dei faldoni nelle Corti d’appello fino a creare la figura dell’eterno giudicabile”. Una affermazione tranchant che lasciò basiti i componenti della Commissione giustizia della Camera. I parlamentari del Movimento si sono trovati “a essere smentiti dal loro stesso testimone”, fece notare con ironia il capogruppo dem in commissione Giustizia Alfredo Bazoli. Maresca era stato comunque chiarissimo: “l’inviolabile principio della ragionevole durata del processo e l’istituto della prescrizione sono due elementi ontologicamente distinti”. Tale presa di posizione, però, non ha minato la fiducia dei grillini e del ministro della Giustizia nei suoi confronti. Gli estimatori gli hanno riconosciuto indipendenza ed onestà intellettuale. Se Bonafede dovesse allora decidere di azzerare il vertice del Dap puntando su Maresca, sarebbe la “rivincita” di quest’ultimo nei confronti del Csm che a gennaio gli aveva bocciato la domanda per andare alla Direzione nazionale antimafia alle dipendenze del procuratore Federico Cafiero de Raho. Pur avendo nel curriculum una carriera tutta improntata alla lotta alla criminalità organizzata, al suo posto il Csm aveva scelto i pm Roberto Maria Sparagna, Giuseppe Gatti e Domenico Gozzo. Una bocciatura che Maresca non aveva digerito, impugnandola davanti al giudice amministrativo. Ferma la risposta da Piazza Indipendenza: con la convinzione di aver fatto la scelta migliore, il Csm aveva deciso di dare mandato pieno all’avvocatura generale di resistere al ricorso di Maresca davanti al Tar. Colloqui legale-detenuto. Arrivano le nuove regole di Simona Musco Il Dubbio, 1 maggio 2020 Il Dap risponde presente al Consiglio nazionale forense. E con una nota, a firma del capo dipartimento Francesco Basentini, accoglie la richiesta dell’avvocatura di stabilire delle linee guida sull’organizzazione dei colloqui a distanza tra difensore e detenuto nel periodo di emergenza sanitaria, per mantenere salda la tutela del diritto alla difesa anche in un periodo come quello attuale, in cui l’emergenza ha reso più complicata l’amministrazione della giustizia. Una richiesta giunta al Dap attraverso una delibera datata 20 aprile scorso e recepita in toto dal Dap, che ha fatto proprie le richieste del Consiglio nazionale forense. Da questo momento in poi, dunque, il difensore potrà inviare all’Istituto penitenziario una richiesta di contatto tramite e-mail o Pec, con lo scopo di concordare giorno e ora del colloquio con il proprio assistito. E nel caso in cui il difensore ritenga opportuno svolgere il colloquio attraverso il proprio cellulare, sarà necessario che lo stesso sia reperibile sull’albo del Consiglio dell’ordine di appartenenza, “al fine di consentire la corretta identificazione del richiedente e la riferibilità al professionista della chiamata”. Per quanto riguarda, invece, l’invio di comunicazioni scritte al proprio assistito in stato di detenzione dal proprio indirizzo di posta elettronica certificata, “detta attività allo stato potrà avvenire - come già accade e ferme restando le disposizioni e le limitazioni adottate dalle Direzioni nei relativi ordini di servizio - solo nella misura in cui presso il singolo istituto sia attivo un servizio di trasmissione/ ricezione mail sottoscritto dal detenuto e a sue spese”. Le linee guida suggerite dal Cnf sono state inviate anche al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, al quale la presidente facente funzioni Maria Masi, attraverso un’articolata lettera contenente le ultime delibere dell’organo massimo dell’avvocatura, ha chiesto “di riaprire in sicurezza i tribunali per la fase 2 dell’emergenza sanitaria”, rinnovando, allo stesso tempo, “la disponibilità a collaborare al fine di assicurare un’effettiva ripresa nelle modalità suggerite, salvaguardando i principi invocati”. Una lettera che affronta anche il delicato nodo delle carceri, per le quali Masi chiede al Guardasigilli anche di non dimenticare “la situazione ancora critica che si riscontra negli istituti penitenziari”, dove il cronico sovraffollamento “rappresenta un rilevante fattore di rischio per la salute degli agenti di polizia penitenziaria, degli operatori e soprattutto dei detenuti”, le cui condizioni, nello scontare la pena, sono rese “ancor più afflittive dall’assenza di visite e dalla sospensione delle attività trattamentali”. Il Cnf ha dunque ribadito l’urgenza di ridurre il sovraffollamento delle carceri e “rendere effettiva la tutela del diritto alla salute, costituzionalmente garantito, dei detenuti e di tutti coloro che operano all’interno degli istituti penitenziari”, ricordando come il coronavirus abbia già provocato la morte di un detenuto, “mentre aumentano ogni giorno i casi accertati di positività di detenuti ed agenti di polizia penitenziaria e che occorre, pertanto, porre in essere senza più indugi provvedimenti normativi atti a scongiurare l’ulteriore propagarsi della pandemia nelle carceri, come sottolineato anche dall’Unione delle Camere penali italiane”. “Stop alle scarcerazioni”. Pd e Cinquestelle uniti nella corsa alle manette di Piero Sansonetti Il Riformista, 1 maggio 2020 Il Pd si allinea perfettamente ai 5 Stelle sulle carceri. Ieri ha diffuso una nota congiunta dei suoi tre massimi esponenti, nel campo della giustizia, nella quale china la testa in modo plateale alla prepotenza degli alleati. Sia per quel che riguarda il decreto che delegittima i giudici di sorveglianza, ponendoli sotto la supervisione della Procura antimafia e dei Pm, sia per la nomina del nuovo vice del Dap, scelto da Bonafede e Morra (cioè dai due leader dei Cinque stelle in tema di giustizia), e allievo prediletto dell’ex Pm Di Matteo. Si chiama Francesco Tartaglia ed è un giovane magistrato che non ha nessuna esperienza di carceri e che nella sua carriera può vantare solo la partecipazione al processo sulla trattativa Stato-mafia, quello basato sulla teoria complottista (di Ingroia e Di Matteo) che già è stata smontata in almeno altri tre processi. Gli autori della nota congiunta del Pd - Verini, Mirabelli e Bazzoli - non reagiscono in nessun modo neanche alle dichiarazioni gravissime di Di Matteo (che ha accusato il tribunale di sorveglianza di Milano di essere sotto il ricatto della mafia) e accettano con tranquillità il nuovo corso, con tutto il potere ai Pm in nome della lotta alla mafia. È un passaggio molto impegnativo per il Pd, che negli ultimi anni aveva avuto qualche tentazione “garantista”. In questo frangente fa la scelta opposta: sacrifica ogni principio del diritto sul tavolo del compromesso coi 5 Stelle. I quali hanno partita vinta e dimostrano di avere carta bianca sul terreno della giustizia, così come l’hanno avuta qualche mese fa quando si era aperto il fronte della prescrizione. Sull’altro versante, diciamo sul versante della difesa della Costituzione, le forze schierate sono pochine. Ieri sono tornate in campo le Camere penali con una nota durissima di condanna per il decreto che blinda le porte delle carceri e delegittima la magistratura di sorveglianza. Per il resto è un gran silenzio. L’impressione è che Travaglio e Bonafede abbiano vinto la partita. Giovanni Maria Flick: “Al 41bis la salute è un optional, diritti banditi dal carcere” di Errico Novi Il Dubbio, 1 maggio 2020 Il presidente emerito della Consulta: “Sui domiciliari la Dna avrà un peso enorme” Intanto il Dap risponde al Cnf: ecco le nuove regole sui colloqui detenuto-difensore. “Mi ero illuso che la tragedia del Covid potesse almeno lasciar emergere il conflitto tra fine rieducativo della pena e detenzione inframuraria. Invece”, dice il presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick, “il decreto che impone ai giudici di sorveglianza di chiedere il parere della Dna prima di concedere i domiciliari per motivi di salute ai detenuti in regime di 41bis va in direzione opposta”. “Mi ero illuso. Avevo visto nella tragedia dell’epidemia un futuro spiraglio di luce almeno per i diritti dei detenuti. Ero convinto che l’impressione di condannati costretti a vivere in promiscuità persino in pieno allarme coronavirus avrebbe dimostrato quanto la detenzione inframuraria sia inadeguata al recupero del condannato. Invece dal decreto di Bonafede in arrivo in Gazzetta ufficiale riconosco addirittura un peggioramento del clima. E assisto alla scena desolante di una Corte costituzionale entrata nelle carceri dalla porta mentre era proprio la Costituzione a uscire, per la finestra, dal sistema penitenziario”. Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Consulta, considera le norme volute da Bonafede - che obbligheranno il giudice di sorveglianza ad attendere per 15 giorni il parere del procuratore nazionale antimafia prima di concedere i domiciliari ai detenuti in regime di 41bis gravemente malati - meno devastanti di quanto temuto: “Si era vociferato, nei giorni scorsi, di un parere della Dna qualificato come vincolante. Non è così. Eppure le nuove norme sui domiciliari segnalano il precipitare del clima. Vale a dire una parabola opposta al mio auspicio di vedere più umanità nell’esecuzione penale proprio in virtù del coronavirus. Con l’ingresso del procuratore nazionale Antimafia sulla scena, le decisioni sui domiciliari rischiano di lasciare in un angolo il diritto alla salute e imporre ancora una volta una visione carcerocentrica”. La tragedia del Covid avrebbe dovuto almeno scongiurare altri casi come quello di Provenzano. E invece entra in vigore un decreto che va in direzione opposta... Alla vigilia delle sentenze, della Cedu prima e della nostra Cote costituzionale poi, sulla compatibilità fra benefici e reati ostativi, avevamo assistito allo stesso fuoco di fila. Siamo sempre in quella scia, su un filo sottilissimo che vede compromesso ora non solo il fine rieducativo della pena ma anche l’articolo 32 della Costituzione: la salute come diritto dell’individuo da tutelare sopra ogni cosa. A sconcertare è che lo sbilanciamento non è opera solo dell’opinione pubblica mediatico- politica: a lasciare perplessi sono le valutazioni che provengono da alcuni magistrati. Da chi è preparato e ben conosce la Costituzione. Il decreto di Bonafede sui domiciliari per chi è al 41bis cancella i diritti dell’individuo? Nella sua forma è un provvedimento meno pesante del previsto. Va apprezzato il ridimensionamento delle ipotesi iniziali, secondo cui il parere del procuratore nazionale Antimafia avrebbe dovuto diventare vincolante per i giudici di sorveglianza. Ma intanto, proprio a questi ultimi sento di dover esprimere la mia solidarietà: comprendo la loro sensazione di essere commissariati, e implicitamente accusati di lassismo. Saranno meno liberi di decidere, vista la delegittimazione? Ripeto: il problema è il clima generale. Bonafede ha opportunamente ribadito che il legislatore non può intromettersi nell’autonoma valutazione del giudice. Ma l’aria attorno ai magistrati di sorveglianza si è fatta ancora più pesante. Confido che avranno la forza di restare autonomi, nonostante tutto. Certo non è molto convincente vedere attribuita, a un magistrato che impersona l’accusa, la competenza sui domiciliari per gravi motivi di salute. Come si è arrivati a una simile distorsione sul peso della Dna? Temo che abbia contribuito una consapevolezza non sufficientemente chiara delle diverse forme di detenzione domiciliare. Un conto è scontare la pena a casa come misura alternativa, dunque funzionale al trattamento del condannato, al recupero della sua personalità e identità. Di tutt’altra natura è l’istituto dei domiciliari come soluzione surrogatoria del differimento pena. Il punto è che tale seconda concezione dei domiciliari è stata contaminata da quella particolare accezione richiamata anche dal decreto 18, il “Cura Italia”: vale dire la misura alternativa della detenzione domiciliare concessa non solo in chiave trattamentale ma anche secondo una logica deflattiva. Una parte dell’opinione pubblica ha creduto che anche i detenuti al 41bis avessero ottenuto i domiciliari per via di uno svuota-carceri? Si è certamente generata confusione. Eppure, senza entrare nel merito degli specifici casi che hanno suscitato scalpore, i giudici di sorveglianza hanno concesso la detenzione domiciliare ad alcuni detenuti al 41bis come forma sostitutiva surrogatoria del differimento pena per gravi motivi di salute. Un istituto che bilancia da una parte la necessità di interrompere la detenzione inframuraria di fronte a condizioni incompatibili col carcere, e dall’altra le esigenze di sicurezza sociale. Negli ultimi casi, sull’incompatibilità con la permanenza in carcere hanno pesato anche i rischi di contrarre il coronavirus considerata l’età anagrafica. Ora è stata introdotta una modifica in apparenza non sconvolgente, ma che comporta di fatto un ulteriore pesante sacrificio per il diritto alla salute. Perché si tratta di un sacrificio pesante? Finora la valutazione del giudice di sorveglianza su casi simili era chiaramente regolata. La concessione dei domiciliari come rimedio sostitutivo del differimento pena è obbligatoria per i detenuti al 41bis malati terminali: venne introdotta in relazione ai casi di Aids. Se il recluso affetto da gravissime patologie non risponde più alle cure, va scarcerato. La concessione dei domiciliari diventa facoltativa se non c’è una fase terminale ma il detenuto al 41bis è comunque in condizioni molto gravi: in questo caso il giudice di sorveglianza non può adottare il provvedimento, oppure lo revoca, di fronte a un concreto pericolo di reiterazione del reato. Cosa cambia con il decreto Bonafede? Che il magistrato titolare della decisione, prima di concedere i domiciliari a un recluso al 41bis gravemente malato, è obbligato a chiedere il parere del procuratore nazionale Antimafia. Ed è evidente come tale circostanza faccia precipitare il piatto della bilancia tutto dalla parte delle esigenze di sicurezza sociale. È come se ci fosse una chiara scelta di considerare il diritto alla salute nettamente subordinato a tali esigenze. Anche in virtù di un ulteriore sottile scarto interpretativo. A cosa si riferisce? Al fatto che secondo alcuni magistrati la concessione dei domiciliari per gravi motivi di salute va considerata solo in relazione alle cure che il detenuto al 41bis potrebbe ricevere al di fuori della struttura penitenziaria: se in astratto non sarebbero più efficaci, secondo tale ottica non c’è motivo di portare il recluso fuori dalla galera. Secondo un’altra direzione giurisprudenziale, invece, innanzitutto secondo la Corte europea dei Diritti dell’uomo, chi è al 41bis in buono stato di salute sconta una pena meno afflittiva di chi, in quel regime detentivo, si trova da malato grave. La consapevolezza di essere in carcere aggrava la pena, dunque la sofferenza, di una persona che già sta male. Ecco, con l’ultima soluzione normativa trovata, con l’enorme peso attribuito di fatto al parere della Dna, avremo forse procuratori Antimafia che entreranno nel merito delle cartelle cliniche e suggeriranno al giudice di non concedere i domiciliari, perché in fondo quella patologia non sarebbe curata meglio fuori che dietro le sbarre. Non solo, perché la norma è abbastanza ambigua da non poter escludere che qualcuno possa ritenere obbligatorio il parere della Dna persino per i detenuti in stato terminale, per i quali i domiciliari sarebbero obbligatori. Ma è così che diventa tristemente rovesciato l’esempio del viaggio nelle carceri compiuto dalla Corte costituzionale. Il giudice delle leggi era entrato negli istituti di pena dalla porta, ma così è proprio la Costituzione che esce dalla finestra del nostro sistema penitenziario. “Uno Stato è forte quando rispetta i diritti. Anche quelli di un mafioso” di Valentina Stella Il Dubbio, 1 maggio 2020 Intervista a Franco Coppi, giurista e avvocato. In un periodo così delicato per l’amministrazione della giustizia, in cui i principi fondamentali dell’ordinamento vengono messi in discussione, l’analisi del professore e avvocato Franco Coppi è una utile bussola che ci aiuta ad orientarci nella giusta direzione. In questi giorni hanno suscitato molte polemiche le scarcerazioni di alcuni boss mafiosi per motivi di salute. Secondo alcuni magistrati lo Stato si è indebolito. Qual è il suo punto di vista? Se non sbaglio tutti questi personaggi vengono “scarcerati” per motivi di salute. Non è che ad un certo momento vengono mandati a spasso perché le carceri sono piene o lo Stato cede al ricatto di qualcuno. Sono persone le cui condizioni sono incompatibili con il regime carcerario. Il nostro ordinamento è pieno di disposizioni che stabiliscono che se una persona si trova in uno stato di salute tale da renderla incompatibile con la reclusione in carcere viene sospesa l’esecuzione della pena o si concedono i domiciliari. La regola è questa, anche se si tratta di un boss mafioso, e la forza dello Stato sta proprio nel rispettare le regole, piacciano o non piacciano. Sul fronte politico quasi tutti sono contro queste concessioni di misure alternative a carcere. Matteo Renzi ha detto: “Io sono un garantista convinto. Ma essere garantisti non significa scarcerare i super-boss”... Se il boss si trova in una situazione di salute tale per cui non risulta più curabile in carcere, trattenerlo lì dentro significa trasformare la pena in un trattamento disumano che l’articolo 27 della Costituzione vuole sia bandito dal nostro sistema. Si può essere garantisti con il “ma” davanti? O si è garantista o non lo si è: non esiste il garantista a metà soprattutto rispetto a delle situazioni che sono puntualmente previste dall’ordinamento e che devono portare a certe determinate soluzioni. Queste affermazioni vanno ad alimentare quel populismo penale per cui i mafiosi sono dei sanguinari (non sapendo ad esempio che Pasquale Zagaria non si è mai macchiato di reati di sangue) che non hanno più diritti e per cui dobbiamo buttare la chiave. Come rispondere? Espressioni come “buttare la chiave” o “deve marcire in carcere” non dovrebbero far parte del vocabolario di uno Stato forte che amministra la giustizia con equilibrio. Il vecchio Beccaria avvertiva e ammoniva che mai una persona può essere trasformata in cosa. I diritti fondamentali sono riconosciuti dall’ordinamento penitenziario a tutti i detenuti, anche ai responsabili di reati di mafia. In questo a mio avviso c’è la dimostrazione della forza dello Stato. In questi giorni si discute molto anche del processo da remoto. Il decreto legge presentato due giorni fa ha scongiurato il peggio. Secondo lei, come originariamente concepito, avrebbe offerto un buon servizio ai cittadini e alla macchina della giustizia? Ritengo di no. In passato è stato compiuto uno sforzo per dare al Paese un processo tutto fondato sull’oralità, sull’immediatezza del contatto tra le parti e sulla cross examination, mentre il processo da remoto, così come concepito inizialmente, contraddiceva tutte queste caratteristiche che il processo penale dovrebbe avere. Aggiungo che mi sarebbe parso di difficile praticabilità un processo di quel genere quando ci si trova di fronte ad un procedimento con una pluralità di imputati, con decine di testimoni. Non dobbiamo dimenticare che in ogni grosso tribunale - pensiamo a Roma o Milano - si celebrano decine di processi al giorno. Si figuri l’organizzazione che sarebbe necessaria per mettere in atto qualcosa del genere. Per come era immaginato, il processo da remoto non avrebbe permesso la pubblicità dell’udienza e la presenza della stampa. Su questo punto cosa pensa? La pubblicità dell’udienza è un fatto che viene spesso sottovalutato. Ma rappresenta il controllo della collettività su come si amministra la giustizia, è partecipazione ad essa, quindi è un dato che non può essere sottovalutato. In questo momento che ministro della Giustizia vorrebbe? Mi piacerebbe avere un ministro della Giustizia capace di valutare i risultati conseguiti con il cosiddetto nuovo codice di procedura penale e che sappia prendere atto anche dei suoi fallimenti disastrosi, per poi avere il coraggio di riesaminare la situazione, eventualmente rivalutando qualche cosa del passato. Non è detto che tutto quello che è passato sia cattiva merce. A cosa si riferisce? Questa idea della prova che si deve formare nel contraddittorio delle parti, per cui tutto quello che è stato raccolto in fase istruttoria non deve essere messo a disposizione del giudice prima del dibattimento perché si teme che l’organo giudicante possa formarsi un pregiudizio, ha fatto sì che processi che con il vecchio codice si potevano concludere in due/tre udienze, oggi vengono trattati in venti/ trenta udienze, con distacchi temporali incredibili tra l’una e l’altra. Ciò arreca uno svantaggio enorme, ad esempio, al principio dell’oralità e della formazione del giudizio aderente agli atti processuali. Ecco, questo sarebbe proprio il momento in cui ci si dovrebbe mettere attorno a un tavolo per esaminare freddamente e lucidamente qual è lo stato dell’arte. La strana dottrina di chi crede che i mafiosi abbiano diritti costituzionali soltanto se si pentono di Iuri Maria Prado linkiesta.it, 1 maggio 2020 Secondo Gian Carlo Caselli, i boss “negano” i principi dell’articolo 3 della Costituzione, quindi “se vogliono accedere ai benefici che la Carta prevede, devono dimostrare di essere davvero rientrati nella Costituzione”. Dei benefici condizionati, insomma. Ma la nostra legge non dice questo. Scrive il dottor Gian Carlo Caselli su HuffPost che “il mafioso è la negazione assoluta del fondamentale articolo 3 della Costituzione e di ogni suo principio”. L’articolo 3, perdonerà il dottor Caselli se riassumiamo, prevede che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge e che la Repubblica è impegnata a rimuovere gli ostacoli economici e sociali che ne limitano la libertà e l’uguaglianza. Poiché, spiega il dottor Caselli, il mafioso “nega” questi principi, “se vuole accedere ai benefici che la Carta prevede, deve dimostrare di essere davvero rientrato nella Costituzione”. Curiosa interpretazione. Secondo la quale, in pratica, l’imputato di delitti di mafia che sia sottratto al carcere duro è un ostacolo frapposto all’uguaglianza dei cittadini: e compito della Repubblica è dunque di rimuovere l’ostacolo mandandolo al carcere duro e lasciandocelo. Il 41bis come strumento di uguaglianza sociale. Il corollario di questa teoria - lo abbiamo visto - è che se il detenuto vuole fruire dei “benefici” costituzionali, allora deve “rientrare” nella Costituzione. Come? Pentendosi. Si apprende così che le tutele costituzionali non rappresentano diritti uguali per tutti ma benefici in favore di alcuni, e che obbligo del condannato non è di non violare la legge ma di impegnarsi in una specie di trasfigurazione morale. Quest’idea sbagliata, secondo cui il cittadino - qualunque cittadino - non ha il dovere di rispettare l’ordinamento ma quello diverso di riconoscerne la bontà, così come il condannato non ha il dovere di sopportare la pena ma quello di ammettere che essa è giusta e meritata, è purtroppo tipica di certo approccio moraleggiante e inquisitorio alle questioni di giustizia. E non appare meglio che una formula stereotipata l’avvertenza, che pure il dottor Caselli ha cura di anteporre alle sue considerazioni, secondo cui “lo Stato deve tutelare la salute di tutti i detenuti, mafiosi compresi”. Perché guarda caso l’urgenza di difendere l’intangibilità del carcere duro insorge quando è palese che quel dovere di tutela della salute di tutti, “mafiosi compresi”, non è assolto: e quando è chiaro che la sacrosanta pretesa che sia assolto è contrastata appunto con la denuncia che per quel tramite si voglia attentare alla sacralità antimafia del regime speciale. Ma semmai c’è un altro rischio. Che sia quel regime, col manto lugubre della sua irrevocabilità, a farsi strumento di quest’ingiustizia più grave: la negazione dei diritti uguali per tutti degradati a benefici da riconoscersi a chi si inchina alla maestà dell’inquisitore. La figura del carcerato che ottiene favori facendosi amico il secondino appartiene alla stessa cultura. Se sarà il pm a decidere quanti creperanno in carcere? di Tiziana Maiolo Il Riformista, 1 maggio 2020 Inchiodati a una foto di quindici o venti o trent’anni fa. La foto che scattò all’imputato il pubblico ministero. E che lo rende sospettabile per sempre. Oltre che detenuto per sempre. Come vuole Travaglio, per il quale “certezza della pena” equivale a certezza del carcere. Questo è il senso del decreto legge approvato dal governo due sere fa per condizionare l’autonomia dei giudici di sorveglianza al parere (pur se non vincolante, ma sicuramente invadente e ritardante) innanzi tutto di quel Pubblico ministero che in aula, anni e anni prima, chiese e poi ottenne la condanna. Che cosa vuol dire, concretamente, il fatto che il giudice e il tribunale di sorveglianza prima di decidere per un permesso o detenzione domiciliare nei riguardi di un condannato per mafia o terrorismo debbono consultare il pubblico ministero del processo che lo ha giudicato? Qui non si parla del tribunale o del presidente, cioè di organi giurisdizionali, ma di una parte processuale, quella dell’accusa che dovrebbe equivalere alla difesa. E siamo alle solite, quando al ministro della giustizia che ha ispirato il decreto mancano i fondamentali. Nell’aula dove si celebra il processo c’è l’imputato, non il “mafioso”. L’imputato che al termine del dibattimento può essere assolto o condannato, e lo stesso accade in tre gradi di giudizio. Che a volte sono anche più di tre. Saranno dunque consultati tutti i rappresentanti dell’accusa di ogni processo o non sarà invece sentito solo il primo, cioè il pm che per primo ha indagato, quello che ha conosciuto una persona per come era molti anni prima del momento in cui avrà diritto ad avere per esempio un permesso? Tanto per fare un esempio, avrebbe dovuto essere il pm Catello Maresca a sussurrare nell’orecchio dei giudici di sorveglianza di Sassari un parere sulla detenzione domiciliare di Pasquale Zagaria? Stiamo parlando del magistrato che ha aggredito in una trasmissione televisiva il capo del Dap Francesco Basentini per i ritardi del suo ufficio e che considera i domiciliari concessi al detenuto la certezza che si stia “ricostituendo uno dei clan più pericolosi del Paese”, cioè il gruppo camorristico dei Casalesi. Su questo giornale Angela Stella ha ripetutamente raccontato la storia di Pasquale Zagaria, considerato la mente economica del gruppo camorristico che faceva capo a suo fratello, ma che non si era mai macchiato di fatti di sangue, si era costituito spontaneamente nel 2007 e aveva ammesso le sue responsabilità. Gravemente malato di tumore è ora detenuto al domicilio per i prossimi cinque mesi e si potrà curare. Ma se i giudici di sorveglianza avessero dovuto consultare il dottor Catella, magari lo avrebbero condannato a morte. Non ci sarebbero stati i ritardi del Dap, ma l’immediato pollice verso contro il “camorrista”. Senza bisogno di leggere le carte, le diagnosi dei medici. Diverso sarebbe stato se invece il decreto Buonafede avesse stabilito di sentire un organo giudicante, come per esempio la Corte d’appello di Napoli che nel 2015 aveva tolto a Zagaria la misura di prevenzione della sorveglianza speciale e che aveva escluso, quanto meno a partire dal 2001, la sua “appartenenza all’associazione camorristica”. Ma il pubblico ministero Maresca, che non può ignorare il cursus del detenuto, visto che non solo lo aveva inquisito una quindicina di anni fa, ma ancora oggi ne parla in numerose interviste, lo vuole inchiodare alla sua prima foto. Tutto quello che è successo dopo non rileva. Tutto quello che scrive nell’ordinanza che ha disposto la detenzione domiciliare il dottor Riccardo De Vito, che purtroppo per il nostro ordinamento è collega di Catello Maresca, cioè lui che è un giudice ha fatto lo stesso concorso di un pubblico accusatore, è carta straccia. Per l’uno Pasquale Zagaria è un anziano detenuto gravemente malato e da tempo non più legato al suo passato, per l’altro è solo un camorrista. Punto. Questo è il senso di un decreto legge sollecitato a gran voce da un’associazione di stampo forcaiolo che va dai soliti travaglisti fino a al Pd e a Renzi e ai partiti dell’opposizione, nel silenzio dell’ufficialità di Forza Italia. Che si prepara come al solito, immaginiamo, alla consueta e un po’ ipocrita “libertà di coscienza” in sede di conversione. Forse non è chiaro a tutti che stiamo assistendo all’ennesimo rafforzamento del ruolo del pubblico ministero, persino di quello del passato. Se a questo aggiungiamo, per detenuti al 41bis, anche la necessità di consultare il Procuratore nazionale antimafia che deve attestare la pericolosità del detenuto e l’attualità del suo collegamento con la criminalità organizzata, vediamo con chiarezza l’oggettivo svuotamento del ruolo dei giudici e tribunali di sorveglianza. È come se all’improvviso stessero entrando nelle carceri degli squadroni della morte con i lanciafiamme e ne stesse uscendo il Diritto. Alla faccia della Costituzione, che considera fondamentale il diritto alla salute e indica come rieducativa la funzione della pena. “Mio padre è morto solo. diceva: qui non mi curano” di Valentina Marsella Il Riformista, 1 maggio 2020 Mio padre è morto da solo, senza potersi difendere e senza il nostro abbraccio”. A parlare, in una accorata lettera, è Domenico Ribecco, figlio di Antonio, morto a 58 anni di Covid-19 mentre era detenuto nel carcere di Voghera. Come una macabra premonizione, un nome impresso nella sorte, l’operazione “infectio” della Dda di Catanzaro del dicembre scorso lo aveva fatto finire in manette insieme ad altre 22 persone, accusate a vario titolo di essere i volti del mosaico delle infiltrazioni criminali della ‘ndrangheta in Umbria. Di “infectio” viene arrestato, di “infectio” muore a tre mesi di distanza. Antonio Ribecco è originario di Cutro ma vive da oltre 25 anni a Perugia, dove fa l’imbianchino. Il 12 dicembre, racconta il figlio 28enne, “finisce in isolamento nel carcere di Capanne per 9 giorni, poi viene trasferito a Voghera. Lo abbiamo rivisto il 3 gennaio. Ci ha detto che aveva chiesto di essere trasferito di nuovo in Umbria, per essere più vicino a noi e a mia sorella non vedente. Ma così non è stato”. L’ultima volta che Domenico ha visto suo padre vivo è stato il 15 febbraio. Due settimane dopo, Antonio ha la febbre ma nessuno immagina che si tratti di Coronavirus. “Anche se il virus continua ad aggredirlo - racconta Domenico - ci dice di stare meglio per tranquillizzarci anche se nessuno lo ha ancora visitato. Tanto che una guardia penitenziaria fa una lettera di richiamo al medico. Tutti fatti raccontati da mio padre, prima al telefono e poi in una lettera che dice di averci spedito che però non ci è mai arrivata”. La situazione precipita: Ribecco viene ricoverato il 21 marzo in terapia intensiva al San Paolo di Milano e poi al San Carlo. Il 9 aprile la notizia della sua morte. Dall’aggressione del Covid-19 al decesso c’è un tempo sospeso di venti giorni, fatto di silenzi e angoscia. “Solo dopo ripetute telefonate riusciamo a sapere cosa sta accadendo - prosegue il figlio del 58enne - anche se non abbiamo mai capito se mio padre abbia ricevuto le cure adeguate. Vogliamo sapere solo la verità sulla sua morte”. Intanto, i legali del detenuto calabrese, Gaetano Figoli del foro di Roma e Giuseppe Alfì del foro di Perugia, hanno sporto una denuncia alla Procura di Pavia perché accerti le condotte tenute dal personale del carcere lombardo e verifichi se vi siano stati comportamenti colposi e omissivi. Quello che è certo è che la furia distruttrice del Covid in carcere fa ancora più paura e che la scelta di fare i tamponi è stata fatta solo in alcuni penitenziari. “Per fronteggiare l’emergenza Coronavirus non c’è stata una procedura comune negli istituti di pena, o comunque un piano sanitario per effettuare i tamponi - fa notare l’avvocato Gianpaolo Catanzariti, responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali italiane - ma solo iniziative singole”. Finora i morti accertati di Covid-19 in carcere sono stati due, entrambi sottoposti a misura cautelare ed entrambi accusati di reati ostativi: Ribecco e un 76enne siciliano che era detenuto alla “Dozza” di Bologna. Due storie che “portano a fare delle riflessioni - aggiunge Catanzariti; la prima: il Coronavirus non fa distinzione tra soggetti in espiazione pena e quelli in misura cautelare. La sua furia distruttrice non fa nemmeno differenze tra reati ostativi e reati comuni. Un terzo della popolazione carceraria è in attesa di giudizio. Ma la riflessione più importante è che la privazione della libertà, giusta o sbagliata che sia, impone un dovere di tutela specifica in chi l’ha disposta. Se lo Stato non protegge il diritto alla salute di chi è in sua custodia, il passo verso la tortura ed i trattamenti inumani è davvero breve”. E il carcere è una “Istituzione totale”, fa notare il professor Francisco Mele, psicanalista e criminologo, “perché l’individuo dorme, lavora, mangia, vive in un unico spazio. Tutti noi nasciamo, viviamo e moriamo nelle Istituzioni, che ci forniscono una identità. Il Coronavirus ha messo in discussione tutto il sistema che riguarda la disciplina attraverso la quale una persona entra e vive nelle Istituzioni. In quella Istituzione totale e anonima che è il carcere, il limbo dell’attesa di giudizio si è trasformato in morte”. Una morte, conclude Mele, “di fronte alla quale tutti siamo soli, ancor di più quando non c’è una mano o un volto di conforto. Anche in carcere”. Chi ha distrutto la sanità penitenziaria? di Luigi Trapazzo Il Dubbio, 1 maggio 2020 Caro Direttore, sono un magistrato ordinario in pensione. Sono attento lettore de Il Dubbio anche in ragione della mia storia professionale. Ho fatto il giudice fino al luglio del 2000, quando, ad appena 60 anni, decisi di lasciare l’Ordine giudiziario per andare a cercare altrove lo spazio in cui meglio esercitare le mie pulsioni nel sociale. Ma sono rimasto sull’arena, fino al 2019, sotto la veste di avvocato cassazionista, dedito, tuttavia, più che alla libera attività forense (esercitata rare volte e sempre pro bono) a quella di tipo manageriale, in posizione di vertice in alcune rilevanti strutture pubbliche tra le quali l’allora Azienda Ospedaliera San Camillo Forlanini di Roma, l’Enav SpA, e da ultimo, fino all’agosto del 2018, a titolo assolutamente gratuito, l’Ater Roma. Soltanto dopo lunga esitazione, ho infine deciso di portare all’attenzione pubblica, attraverso il Suo giornale, le molteplici falle che a mio avviso stanno per determinare l’esplosione del Corona virus nelle carceri italiane ed in tutte le altre strutture, pubbliche e private, nelle quali per ragioni istituzionali, sono obbligatoriamente riunite miriadi di persone. Mi riferisco, quindi, anche a tutti gli altri luoghi (ospedali, luoghi di cura, ospizi, conventi, seminari, RSA, accademie militari, convitti, caserme) la cui specificità non consente a quanti vi si trovano (costretti dai loro rispettivi ruoli, di amministrati e di amministratori, di sorvegliati e sorveglianti, a vivere gomito a gomito, in assoluta promiscuità) di potersene andare a casa, per esercitare da remoto il proprio ruolo. Sul fenomeno del sovraffollamento carcerario - in superamento delle violente proteste inizialmente espresse dai detenuti di alcuni istituti carcerari (e represse con modalità che hanno comportato la morte di diversi rivoltosi) e ad onta delle puntuali posizioni espresse al riguardo dal Cnf, da buona parte della magistratura di sorveglianza, ed anche dall’emerito Presidente emerito della Corte Costituzionale Professor Flick, già Ministro della Giustizia in anni per più versi bui - la voce più alta ed imperiosa finora udita appare soltanto quella di Papa Francesco. Ma finora, a parte l’incessante riproposizione, da più parti, della richiesta di ridurre il fenomeno del sovraffollamento carcerario attraverso la sostanziale liberazione di un gran numero dei reclusi, nessuno ha finora indicato quella che a mio avviso parrebbe la via maestra. Cioè lo smistamento di gran parte della popolazione carceraria nei numerosi spazi, sparsi in ogni parte d’Italia, isole e isolette comprese, dei quali l’amministrazione penitenziaria parrebbe essersi nel tempo spogliata e che oggi dovrebbe/potrebbe invece recuperare con un’azione rapida e incisiva. Allo scopo, appunto, di smistare in essi, senza celle a più letti, con ampia possibilità di movimento, tutte le persone che a vario titolo sono costrette a vivere l’una accanto alle altre, in obbligatoria contiguità. Accompagnato, tale esodo, da una profonda rivisitazione dell’intero sistema penitenziario, tra le cui pecche vi è anche quella di essersi privata di un proprio dedicato sistema di assistenza sanitaria in favore dei detenuti e degli internati. Siffatta missione, invece di essere potenziata ed estesa anche a favore della polizia penitenziaria, tuttora incomprensibilmente priva di propri medici competenti, venne stupidamente devoluta al Ssn e quindi alle aziende sanitarie locali nel cui ambito insiste ciascun Istituto, con inevitabili conseguenze negative. Non vi è più, ormai, una sanità penitenziaria interna, eguale in ogni Istituto carcerario, ma tante diverse sanità, affidate alla sensibilità, spesso carente, dei direttori generali delle tante aziende sanitarie locali nelle quali è suddivisa l’Italia, quasi tutti più attenti a curare buoni rapporti con il potere politico regionale da cui ciascuno di essi trae la propria legittimazione ad agire che a darsi da fare per rendere sempre più efficiente ed efficace l’azione complessiva delle loro aziende anche a vantaggio della popolazione carceraria. Non ho la veste per chiedere le dimissioni di chicchessia. E tuttavia mi sia consentito nutrire rilevanti perplessità sulle effettive capacità manageriali degli attuali vertici politici e amministrativi del sistema carcerario. Non conosco né il Ministro della Giustizia né il Capo del Dap. Conosco invece, personalmente, soltanto l’attuale direttore generale dei detenuti e del trattamento, chiamato a questo incarico soltanto da poco, già giudice di sorveglianza oltre che ex componente del Csm. Ma ho il timore, nonostante la sua assoluta bravura, che l’attuale contesto interno (e quello dell’intero governo) non saprà fornirgli il necessario sostegno. Ho lavorato nell’universo della Giustizia svolgendovi molteplici e non irrilevanti funzioni. Immediatamente giudiziarie quelle di Pubblico Ministero, di Giudice di sorveglianza, di Giudice d’appello penale. Di alta dirigenza amministrativa - negli anni di piombo e fino alla restaurazione del sistema del bastone e della carota attraverso la legge Gozzini, al quale mi opposi, nel 1983, con le mie volontarie dimissioni dall’incarico fino ad allora svolto e con il mio successivo rientro, poco dopo, in funzioni giudiziarie come Presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano - come Direttore del Servizio sociale penitenziario e dell’assistenza ai detenuti, in breve della struttura centrale deputata al trattamento dei detenuti, dovunque ristretti. Venni così ad assicurare a tutta la popolazione carceraria (a fondamento del processo di rieducazione e nel contempo come strumento di maggiore ordine e sicurezza, volto a mettere al bando la violenza del manganello ed il prepotere dei capi bastone) la tutela dei loro fondamentali diritti allo studio, al lavoro, alla salute. Naturalmente accompagnato, tale processo, dall’avvio di un’estesa opera di formazione della polizia penitenziaria, purtroppo ancora insufficiente, come da tempo inutilmente rileva questa benemerita quanto misconosciuta categoria di operatori penitenziari in divisa. Credo da sempre nella rieducazione, a condizione che tutto il sistema vi creda, a partire proprio dal Personale della Polizia penitenziaria. Appare necessaria, insisto, una profonda rivisitazione del sistema sanitario in generale, ma anche della stessa organizzazione penitenziaria, volta a consentire che il personale del già Corpo degli Agenti di Custodia venga finalmente educato ad esercitare, con assoluta pienezza, il nuovo ruolo che ad essi spetta, di primi attori del processo di rieducazione dei detenuti e non più, come ancora oggi accade, di meri secondini. L’Amministrazione Penitenziaria ha saputo assicurare, nonostante quei tempi oscuri e sia pure con molteplici défaillances, il trattamento della popolazione carceraria, dando ampio riconoscimento al diritto allo studio, al lavoro, all’assistenza sanitaria, sia intramurale che extra murale, all’epoca organizzata in ben cinque Centri Clinici penitenziari super attrezzati, molto noto quello di Pisa. Che fine hanno fatto questi Centri? Chi ne ha tratto non consentito vantaggio? Qualcuno risponda! Grazie per l’attenzione. Il paradosso del carcere e del virus latitante di Adolfo Ferraro* Ristretti Orizzonti, 1 maggio 2020 Se è veritiera la comunicazione del Dap ripresa dal Garante Mauro Palma il 26 aprile 2020 che i detenuti che risultano al momento positivi al Coronavirus sono 138 su tutto il territorio nazionale (0,2% della popolazione detenuta), 13 dei quali ricoverati in ospedale, e sono 230 invece i soggetti positivi al tampone fra le quasi 38mila unità di Polizia Penitenziaria (di cui sedici ricoverati e tutti dispensati dal servizio) significa che l’infezione da coronavirus in carcere non ci è entrata o, in proporzione alla sua diffusione all’esterno, ha mantenuto un inatteso ridotto standard di crescita e di presenza controllato e controllabile. Ovviamente non può che essere una buona notizia. Che le carceri fossero una polveriera lo sapevano già tutti, anche prima della pandemia. E il virus improvviso, così come nella comunità esterna, ha spinto verso soluzioni indirizzate a limitare il danno, vista la assoluta comune mancanza di conoscenza della dinamica di crescita e di contagio dell’infezione. Nel carcere ovviamente il distacco sociale, uno dei metodi per limitare il danno, è stato solo quello con i parenti all’esterno, essendo impraticabile in una struttura che di per sé non rispetta le distanze minime anche senza il sovraffollamento. In questo senso le preoccupazioni dei detenuti e dei loro familiari sono più che comprensibili anche se meno accettabili sono stati i disordini nelle carceri del mese scorso, che hanno dato una idea di un disegno fondamentalmente eversivo e di una prova di forza di cui non c’era assolutamente bisogno, finalizzato ad esasperare gli animi e produrre reazioni sempre più violente. Assolutamente non giustificabili da qualunque parte provengano, come i presunti pestaggi dei giorni scorsi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. E certamente un momento di emergenza produce reazioni di emergenza per cui è evidente che, per limitare il danno, sfoltire la popolazione carceraria è stata ed è un obiettivo e una richiesta praticabile. Sempre secondo i dati forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, le presenze sono passate da 61.230 del 29 febbraio ai 53.658 del 26 aprile. Un calo di oltre ottomila detenuti, che sono usciti dagli istituti di pena nel giro di un mese, da quando è scoppiata la crisi sanitaria. Ed altri nei giorni successivi hanno usufruito di benefici che hanno parzialmente snellito la popolazione carceraria, che comunque rimane ancora numerosa e potenzialmente contagiabile. Una osservazione però dovrebbero farci riflettere: i ridotti numeri dei detenuti positivi sono anche di molto inferiori in rapporto e proporzione al numero complessivo dei contagi della popolazione libera. Significa evidentemente che l’infezione nel carcere si è propagata con modalità diverse e più controllate di quelle avvenute nel mondo libero. Il paradosso, finora attuale, è che a due mesi dall’inizio della pandemia il tanto temuto contagio nelle carceri, ritenute (e comunque ancora da ritenere) potenzialmente esplosive, non si è venuto a verificare, grazie a Dio, forse proprio per l’isolamento che la detenzione impone, e non solo per la riduzione della popolazione detenuta. Queste considerazioni non hanno naturalmente interrotto le richieste finalizzate allo sfoltimento ulteriore degli istituti di pena. La sensazione che le richieste dell’esecuzione e delle modalità dello sfollamento produce è però quella, magari errata nella sua sostanza, di volere sfruttare un momento di emergenza per ottenere benefici che in altri momenti non si sarebbero potuti ottenere. E questo amplificando le pur concrete esigenze di salute e prevenzione e alzando i toni del pericolo, producendo infine una tensione che si alimenta da sola. I risultati sono quelli della sospensione della detenzione (almeno in carcere) di molti detenuti comuni, ma anche di soggetti vicini alle attività criminali, organizzate o meno, come Francesco Bonura o Pasquale Zagaria, e altri ancora, con tutte le polemiche, poco chiare in verità, tra il Dap, i Magistrati di sorveglianza, la Direzione Antimafia e altri ancora. Questo rischia di spostare tutto il senso del garantismo verso l’aspetto manipolatorio dell’emergenza, che non propone strade definitive e stabili, come quella di una seria riflessione sulle pene e sul loro significato, che dovrebbe essere un lavoro costante sul carcere e i suoi ospiti. Ma piuttosto un “libera tutti” poco accettabile dalla opinione pubblica e che non consentirà che delle variazioni temporanee, senza un preciso progetto di organizzazione giudiziaria e di prevenzione futura. *Psichiatra, Operatore penitenziario volontario Campania. Carceri, sovraffollamento record e boom di atti di autolesionismo di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 1 maggio 2020 C’è da aspettarselo: anche davanti a numeri tanto allarmanti, i manettari di turno faranno spallucce e magari si abbandoneranno a refrain del tipo “buttate la chiave”, “requisite i conventi” o “ripristiniamo la pena di morte”. Eppure, in un Paese civile, la relazione annuale stilata dal garante campano dei detenuti imporrebbe una riflessione seria su quell’inferno in cui, tra celle strapiene e atti di autolesionismo crescenti, si sono trasformate le carceri. I dati sul sovraffollamento parlano chiaro: nel 2018 la popolazione carceraria campana superava la capienza regolamentare del 14 per cento, mentre nel 2019 si è arrivati al 17. Certo, nelle ultime settimane la pandemia ha ridotto il numero degli ingressi negli istituti di pena, ma la situazione resta angosciante. “Il problema non è stato arginato, ma tende ad aumentare - sottolinea il garante Samuele Ciambriello - e se la situazione appare meno grave nei penitenziari dell’Avellinese e del Beneventano, a Poggioreale e Pozzuoli si registra un sovraffollamento da record”. Non bisogna dimenticare, inoltre, che il 22 per cento delle celle non dispone di docce e al 37 manca il bidet. Diversi penitenziari sono privi di spazi per gli incontri con i minori e per il lavoro artigianale, attività ridotte negli ultimi tempi per evitare assembramenti capaci di agevolare la diffusione del Coronavirus. E il personale? Anche quello è carente: il rapporto tra detenuti e agenti di polizia penitenziaria si attesta al 51 per cento, quello tra detenuti ed educatori supera di poco l’1,25. E allora non deve meravigliare il fatto che gli atti di autolesionismo siano aumentati del 32 per cento nel 2019, mentre gli scioperi della fame o della sete hanno fatto un balzo in avanti del addirittura del 55 rispetto all’anno precedente. Se si osserva che il 21 per cento delle visite specialistiche non può essere effettuato a causa di difficoltà del nucleo traduzioni, si comprende come la vita in carcere sia ancora lontana da quel senso di umanità sancito dall’articolo 27 della Costituzione. “Il carcere, questo grande rimosso sociale, resta l’unica vera cartina di tornasole della nostra civiltà - conclude Samuele Ciambriello - Ecco la prospettiva che ci deve guidare: non abbandonare le persone che vivono una condizione di emarginazione e di reclusione. E continuare a credere che in quel luogo distanziato dalla società civile che è il carcere ci sia la possibilità di migliorare e di emanciparsi”. Calabria. “Nessun caso positivo nelle carceri, senso di responsabilità di agenti e detenuti” giornaledicalabria.it, 1 maggio 2020 Sulla falsariga di quanto riportato dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma, in un comunicato datato 26 aprile - in cui viene smentita la notizia secondo cui in alcune carceri si registrerebbe uno stato di allarme per la positività al Coronavirus di centinaia di persone detenute - il Garante regionale, Agostino Siviglia, fornisce ulteriori rassicurazioni al riguardo. Contattato telefonicamente dal Csv di Catanzaro, esprime viva soddisfazione per il senso di responsabilità dimostrato dai detenuti e dagli agenti penitenziari calabresi, che ha portato a non registrare alcun caso di positività al Covid 19 nelle carceri della nostra regione. “Nessuna rivolta, nessuna criticità di rilievo ha accompagnato la sospensione di tutte le attività all’interno delle carceri, all’indomani delle restrizioni imposte dall’emergenza sanitaria - ha chiarito il Garante - Non è stato facile per i detenuti accettare ulteriori limitazioni, soprattutto non godere più delle visite dei parenti, ma essi hanno compreso la gravità della situazione e si sono riadattati alle nuove disposizioni, così come hanno fatto gli agenti, gli educatori, i cappellani, i medici e gli infermieri, e tutti coloro che operano nelle carceri”. I dati della realtà carceraria ricalcano, quindi, la diffusione geografica del virus, essendo i casi di positività (138 i detenuti, 13 dei quali ricoverati in ospedale, e 230 gli agenti penitenziari) concentrati nelle regioni in cui è maggiormente estesa la pandemia, ovvero la Lombardia, il Piemonte e il Veneto. Sono, invece, dieci le regioni in cui non si registra alcun caso di positività (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Lazio, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna, Sicilia), oltre alla Provincia autonoma di Bolzano. Ma lo stesso Garante nazionale, nel comunicato diffuso qualche giorno addietro, fa riferimento all’opportunità di non abbassare il livello di guardia per tutelare chi vive in carcere, chi vi lavora, e la comunità esterna a cui le persone detenute torneranno una volta scontata la loro pena. E nell’attività di monitoraggio costante delle condizioni di tutela della salute in carcere e di rispetto dei diritti di tutti, il Garante continuerà ad avvalersi della collaborazione dell’Amministrazione penitenziaria, della rete del Garanti territoriali e delle realtà del Terzo Settore: “Tutte le attività laboratoriali e sportive portate avanti con gli operatori di enti e associazioni di volontariato sono state, ovviamente, sospese - chiarisce Siviglia - Rimangono in piedi, invece, le ore di didattica online per quanti devono conseguire il diploma o superare un esame universitario. Possono disporre, infatti, di tablet e smartphone per lo studio, ed anche i colloqui con i parenti si svolgono ormai via Skype”. Torino. Detenuto ricorre alla Cedu: da un mese è positivo al Covid-19 di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 maggio 2020 Gli avvocati Pina Di Credico e Roberto Ghini, grazie alla loro richiesta di adozione di misura provvisoria urgente alla Corte europea dei Diritti dell’uomo per quanto riguarda il caso del loro assistito (mancata concessione della detenzione domiciliare), hanno aperto il varco a una valanga di altre procedure urgenti. Ora è il caso di un detenuto presso il carcere di Torino, risultato positivo al Covid- 19 ma che continua a rimanere in carcere. A darne notizia è L’associazione StraLi che ha supportato l’avvocato Benedetta Perego del Foro di Torino nella presentazione di un ricorso d’urgenza alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo relativamente alle condizioni di salute di un detenuto del carcere di Torino risultato positivo al Covid-19 e affetto da pregresse patologie. La Corte ha chiesto subito delucidazioni al governo italiano, anche chiedendo chiarimenti circa le condizioni dei detenuti reclusi nel carcere “Le Vallette” di Torino. L’accesso alla Corte è motivato dal fatto che un soggetto detenuto presso il carcere di Torino, risultato positivo al Covid- 19, continua ad essere trattenuto, nonostante la direzione sanitaria dell’istituto abbia rilevato, già in data 8 aprile 2020, l’incompatibilità della malattia con la prosecuzione della detenzione. I giudici di Strasburgo, preso atto del contenuto del ricorso che evidenziava tale circostanza nonché, in generale, il proliferare del contagio all’interno del carcere di Torino e la connessa impossibilità di garantire assistenza sanitaria continua a tutti i detenuti, ha dunque sollecitato il governo italiano a riferire in merito alle condizioni attuali del ricorrente e alle misure predisposte dalla direzione del carcere per evitare il rischio di complicazioni della malattia. L’associazione StraLi, in coerenza con la propria attività, auspica che la proposizione del ricorso ed il conseguente intervento della Corte possano chiarire come è stato gestito il rischio sanitario derivante dalla diffusione del Covid-19 all’interno del carcere di Torino e, in secondo luogo, contribuire alla piena tutela della salute delle persone oggi detenute negli istituti di pena italiani. Nel frattempo è giunta una buona notizia per il caso sollevato dagli avvocati Pina Di Credico, referente dell’Osservatorio della Camera Penale di Reggio Emilia, e Roberto Ghini, membro della Camera Penale di Modena e iscritto al Partito Radicale. Come già riportato da Il Dubbio, sappiamo che dopo un duro braccio di ferro tra gli avvocati e il governo, repliche e controrepliche, dove non sono mancate le risposte incongruenti da parte dello Stato italiano che ha dovuto poi giustificare parlando di errori dovuti dalle interpretazioni letterarie, alla fine la Cedu ha deciso di non intervenire. La buona notizia è che la mancata concessione della detenzione domiciliare si è risolta favorevolmente: il Tribunale di Sorveglianza di Verona, dopo aver fissato udienza con tempi assolutamente da record, tre giorni fa ha ordinato che il detenuto venisse posto in detenzione domiciliare. Ma gli avvocati non sono comunque soddisfatti per l’esito avuto con al Cedu. Per questo con molta probabilità, proseguiranno nel giudizio davanti alla Corte europea al fine di ottenere il riconoscimento del fatto che per il loro assistito vi è stata comunque violazione dell’art. 3 (costringere inutilmente una persona, in un contesto di pericolo di contagio, a rimanere in carcere quando non assolutamente necessario costituisce, per gli avvocati Di Credico e Ghini, un trattamento inumano e degradante) e se vi è stato - nelle repliche del governo - un atteggiamento sanzionabile. La battaglia per i diritti umani, quindi, non finisce qui. Lecce. Sovraffollamento in carcere: due avvocati leccesi presentano una class action lecceprima.it, 1 maggio 2020 L’azione legale, sostenuta da “Nessuno tocchi Caino”, diretta al premier, al ministro della Giustizia e al sindaco di Lecce. Due avvocati leccesi presentano un class action, un’azione legale collettiva, contro il sovraffollamento carcerario nel tempo dell’epidemia Covid-19. Preoccupati per l’alto rischio di contagi fra i corridoi e le celle dell’istituto penitenziario di Lecce, Giuseppe Napoli e Giuseppe Talò, con il patrocinio della Ong “Nessuno tocchi Caino”, hanno promosso l’iter legale per ottenere il rispetto delle misure igienico sanitarie nel carcere di Borgo San Nicola. L’iniziativa è stata diretta al presidente del Consiglio dei ministri, al ministro della Giustizia e al sindaco di Lecce, è determinata proprio dalla constatazione di come la pandemia, nel contesto del sovraffollamento carcerario, possa costituire una grave minaccia. Gli spazi detentivi delle strutture carcerarie non consentirebbero, secondo i due avvocati del Foro di Lecce, di garantire l’applicazione delle norme di sicurezza igienico-sanitarie imposte dal Governo per l’intero territorio. “Il carcere leccese, secondo le ultime stime, a fronte di una capienza regolamentare di 660 detenuti ne accoglie mille e 120. Si tratta di un tentativo di dialogo volto all’affermazione dei principi di legalità e di tutela dei diritti umani che in carcere sono a maggior rischio stante la pandemia in atto. L’endemica situazione di sovraffollamento è un rischio concreto per la salute dei detenuti e degli operatori penitenziari e comprime i principi di uguaglianza dei diritti e di non discriminazione sanciti dalla Costituzione e dai trattati internazionali”, scrivono in una nota i due legali. Napoli. Processo, 450 penalisti contro le udienze on-line di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 1 maggio 2020 Quattrocentocinquanta professionisti, la stragrande maggioranza dei penalisti napoletani: firmano un documento contro il processo da remoto. Si tratta di un documento che punta a ribadire che il “dibattimento” (vale a dire il confronto in aula sulle prove), non può essere portato all’esterno di un’aula di giustizia, non può essere ridotto in una finestra digitale tramite una connessione internet. Con lo stesso testo, i penalisti puntano a ricordare i ritardi accumulati in questi anni a proposito dell’informatizzazione dei processi, vale a dire di tutte quelle attività che passano per le cancellerie, che rappresentano la prima ragione di lunghe code per gli ascensori, ma anche - in alcuni giorni - l’unico motivo della presenza fisica degli avvocati in Tribunale. Un documento sostenuto da firme di peso dell’avvocatura napoletana (ma non ci sono i nomi che compongono la giunta della camera penale guidata da Ermanno Carnevale), che si candida a rappresentare una piattaforma di confronto, nella cosiddetta fase due, in vista della riapertura del Tribunale a partire dall’undici maggio. Nato su input dell’avvocato Edoardo Cardillo (grazie alla chat che unisce gli iscritti al club Napoli Tribunale), si è arricchito del contributo di centinaia di professionisti che ora si danno appuntamento per il 5 maggio alle ore 11,10 sulla piattaforma zoom. Non ci sarà il flash mob all’esterno del varco Porzio - si legge - per non disattendere le regole anti Covid, ma il confronto contro il processo “da remoto” avverrà proprio grazie agli strumenti della tecnologia digitale “da remoto”. Spiegano gli organizzatori dell’iniziativa: “Vorrà dire che il no “te lo dico da remoto” e il flash mob si terrà in forma digitale”. Dieci minuti prima, alle 11.00 in punto, toccherà all’avvocato Raffaele Esposito leggere un documento, il cui testo sarà affisso in una sorta di bacheca con tanto dei nomi dei firmatari. Spiega l’avvocato Cardillo: “Il documento è indirizzato al Consiglio dell’ordine degli avvocati, in linea con la delibera dello scorso 27 aprile; verrà consegnato anche alla camera penale, in una logica pienamente inclusiva. Non abbiamo interesse a fare da opposizione o alternanza alla Camera penale, ma puntiamo ad aggregare spunti utili per riportare in aula il presidio dell’avvocatura, ovviamente nella tutela della salute di tutti”. Ma torniamo ai motivi del no. Secondo il testo, bisogna sventare un tentativo di approfittare dell’emergenza sanitaria per superare il confronto in aula, per annullare il controllo assicurato dagli avvocati, per ridurre a mera finzione burocratica il ruolo dei difensori. Ed è proprio in questo loop, che gli avvocati criticano i ritardi registrati a Napoli sulla informatizzazione del processo, anche per quanto riguarda la mancanza della trasmissione di posta elettronica che, in modo tempestivo, segnali il rinvio di una udienza. Ma leggiamo il testo firmato dai 450 avvocati: “Occorre sgomberare il campo da qualunque possibile equivoco: gli avvocati, tutti, sono assolutamente favorevoli all’adozione di qualsiasi strumento informatico che possa rendere più sicuro, agevole ed efficiente il funzionamento della macchina giudiziaria. A maggior ragione in questo periodo di emergenza. Pensiamo alla digitalizzazione completa dei fascicoli, con la possibilità di consultazione e di ritiro di copia mediante accesso da remoto con firma digitale, alla facoltà di depositare istanze, liste testi, memorie ed impugnazioni via pec, alla comunicazione degli esiti. Si tratta di innovazioni che abbiamo da tempo sollecitato e che ad oggi consentirebbero di limitare in maniera assolutamente drastica gli accessi nelle cancellerie, che nella norma costituiscono la ragione principale della nostra presenza fisica all’interno del palazzo di giustizia”. Ancora oggi - si legge - non sono arrivate notifiche sulle date di rinvio di tante udienze rinviate durante il lockdown. Niente romanticismo, né nostalgie del passato. In questo senso, si chiede uno screening ai capi degli uffici sulle udienze da sostenere giorno per giorno, sugli orari da rispettare, sulle date dei rinvii, su varchi e aule in cui dare vita alla cosiddetta fase due. Cosenza. I detenuti alle associazioni: “Grazie a quanti si ricordano che esistiamo” corrieredellacalabria.it, 1 maggio 2020 L’iniziativa di una serie di associazioni di fornire generi alimentari e altri beni alla casa circondariale “Sergio Cosmai” è stata accolta con commozione dai reclusi che hanno ringraziato con una lettera. “Solidarietà inaspettata che guarda ad una parte di popolazione spesso dimenticata” Ci sono gesti che, a maggior ragione in momento come questo, possono assumere un significato molto più profondo e importante. Gesti come quello, ad esempio, delle associazioni “La terra di Piero”, “Prendocasa Cosenza”, “Fem.In.”, “Anni Ottanta”, “Cosenza Vecchia”, “Cooperativa Soccorso Speranza” che hanno guardato al carcere fornendo generi alimentari e prodotti sanitari necessari in questo periodo di pandemia. La drammatica situazione delle carceri italiane, tra sovraffollamento e mancanza di strutture e personale rende ancor più importante qualsiasi iniziativa proiettata al miglioramento delle condizioni delle persone private dalla libertà personale. Con l’inizio dell’emergenza sono stati vietati i colloqui in carcere e il solo contatto col mondo esterno è permesso tramite dispositivi elettronici. Alle proteste nelle carceri di tutta Italia, a Cosenza era seguita una “battitura” da parte dei detenuti che chiedevano rispetto e considerazione per la loro condizione. Il garante regionale, Agostino Siviglia, all’indomani dello sciopero della fame dei detenuti di Crotone (per il sovraffollamento carcerario e la mancanza di Dpi all’interno degli istituti), aveva sottolineato che “un contagio nelle carceri potrebbe diventare un moltiplicatore di drammatica gestione” e che per questo sia le Istituzioni che la società civile hanno il dovere non dimenticare questo mondo che spesso appare parallelo e distante. E mentre a Crotone la protesta era stata “sedata” dall’iniziativa di otto donne locali che avevano donato ai detenuti delle mascherine fatte a mano, in questo caso è stata l’iniziativa spontanea delle associazioni a suscitare il ringraziamento da parte dei detenuti della casa circondariale “Sergio Cosmai” di Cosenza, positivamente travolti da questa “inaspettata” solidarietà: “Con immensa gioia sentiamo il dovere morale ed infinito senso di gratitudine nell’estendere i nostri più cari e sentiti ringraziamenti alle associazioni sopra menzionate per il loro pensiero”. Scrivono in una lettera dicendosi “allietati nell’aver ricevuto un sostegno di tipo alimentare, prodotti vari indispensabili e beni di prima necessità”. Un gesto che guarda “ad una parte di popolazione molto spesso dimenticata ed alienata” ma che ha necessità “di essere tenuta presente in un particolare drammatico momento che ci vede intenti a fronteggiare un’epidemia che ha dilaniato una parte della popolazione mettendo tutti a dura prova”. “Il miglior attestato di stima e affetto ricevuto in questi giorni. Grazie per aver compreso e apprezzato il nostro gesto” è stato il commento dell’associazione “La terra di Piero” che ha postato la lettera dei detenuti sui propri profili social. E a questo coro si sono aggiunti anche i commenti delle altre associazioni, come Fem.In. che sempre dai propri profili social ha sottolineato: “La parola intersezionalità per noi significa esattamente questo: solidarizzare e lottare insieme a tutte le persone che si trovano ai margini della società, oppresse, sfruttate e abbandonate a sé stesse”. Busto Arsizio. I detenuti regalano i tablet ai “reclusi da Covid” varesenews.it, 1 maggio 2020 Una storia di cuore e solidarietà che arriva da chi vive ogni giorno la privazione della libertà. “Hanno mostrato a tutti ciò di cui sono capaci”. “Don, vogliamo mostrare a tutti quello di cui siamo capaci”. E così è stato: loro, che si giornate da reclusi ne sanno qualcosa per via della condanna che stanno espiando in carcere, con un grande gesto di solidarietà daranno una mano a chi recluso è fra le quattro mura di un ospedale, colpito dal Covid-19. Momenti drammatici che portano i malati a una condizione di forte privazione in cui anche fare una video chiamata a un parente può rappresentare un appiglio a cui attaccarsi per combattere. Allora in poche settimane grazie alla motivazione del cappellano del carcere di Busto Arsizio don David Maria Riboldi, e alla grande apertura del direttore della casa circondariale di Busto Arsizio Orazio Sorrentini e del comandante della polizia penitenziaria Rossella Panaro è stato fatto “il miracolo”: con una media di 5 euro a testa i quasi 400 detenuti hanno operato una maxi colletta di 2.177 euro servizi per l’acquisto di 56 tablet a favore dei “reclusi da Covid”. I tablet, di marca Lenovo e Ipad Apple, sono corredati da cover antisettiche per essere usati nei reparti a rischio contagio. Oggi, 30 aprile, sono stati consegnati nelle mani dell’ingegner Poggialini, dell’ufficio tecnico dell’Ospedale: ha assicurato la messa in funzione dei tablet, per permettere agli ammalati di Covid di evadere dall’isolamento affettivo, che la ‘reclusione forzata’ al letto di ospedale ha generato. I tablet saranno suddivisi fra i vari reparti e anche in altre strutture del territorio (vedi ospedale di Tradate). Il comandante ha sottolineato come il gesto abbia un valore ancora più grande, se commisurato alle violenze di cui i ristretti di diversi istituti penitenziari in Italia si sono resi protagonisti, poco più di un mese fa. Le persone detenute e Busto Arsizio non solo si sono mostrate recalcitranti alle rivendicazioni, che portarono a evasioni di massa e morti, ma hanno deciso di distinguersi in positivo, svettando per generosità. “Un gesto molto bello e disinteressato fatto da chi si è immedesimato con coloro che pure non possono incontrare nessuno, nemmeno gli affetti più cari”, ha commentato il direttore della casa circondariale Orazio Sorrentino. Carico di soddisfazione per operato dei “suoi ragazzi” anche il cappellano del carcere don David Maria Riboldi. “Li ho visiti coi miei occhi credere in un obiettivo da perseguire. E l’hanno raggiunto donando molto di più di quando raccolto in altre carceri con una popolazione carceraria ben più numerosa. “Don, noi sappiamo cosa vuol dire non poter sentire la famiglia, cosa vuol dire non poter vedere i propri cari”. Queste le parole dei detenuti, che si sono trasformate in un rimboccarsi le maniche. Fatti, non parole”. La raccolta delle persone detenute si è allora unita a una colletta esterna, per generare la liquidità necessaria all’acquisto della mole imponente di tablet e cover. Tramite per l’acquisto e la consegna è stata la Cooperativa sociale La Valle di Ezechiele fondata dal cappellano per il reinserimento lavorativo dei detenuti, con sede presso la Casa Circondariale. Gorgona (Li). Dai detenuti la solidarietà per le famiglie in difficoltà livornotoday.it, 1 maggio 2020 Ancora un gesto di solidarietà in tempo di coronavirus. Dopo la donazione degli ospiti del carcere di Livorno all’ospedale cittadino, questa volta a dare un segnale importante sono stati i detenuti della Casa di Reclusione di Gorgona che hanno acquistato beni alimentari prodotti sull’isola, per un valore di circa 1.000 euro, regalandoli alla Comunità di Sant’Egidio per sostenere le famiglie in difficoltà. Si tratta di cibo, per lo più frutta e verdura, coltivato dalle stesse persone detenute, dal momento che nell’isola di fronte a Livorno è consentito loro di eseguire la pena in un contesto dignitoso: possono lavorare ed essere stipendiati per la produzione di prodotti agricoli, caseari e vinicoli e frequentare corsi di formazione e professionalizzanti. “Un gesto molto significativo” lo ha definito il responsabile della sezione livornese della comunità di Sant’Egidio Sabatino Caso, “importante perché arriva da persone private della propria libertà che hanno avuto la sensibilità di pensare a chi, in questo momento, sta peggio”. “In questo momento prepariamo pacchi alimentari per circa 150 famiglie livornesi - prosegue Sabatino Caso -, di cui quasi sessanta si sono aggiunte a quelle che già seguivamo in seguito all’emergenza coronavirus. Si tratta principalmente di persone che hanno perso il lavoro”. Un aumento significativo a cui corrisponde anche un incremento di volontari e persone che in diversi modi si mettono a disposizione della comunità. “Ci tengo a ringraziare le tantissime persone che, fin dalle prime ore di questa emergenza sanitaria, si sono date da fare per aiutare chi si è trovato in difficoltà - conclude Caso - chi raccogliendo generi alimentari che noi provvediamo a distribuire, chi unendosi alle squadre di volontari che si occupano della distribuzione”. Questi, infine, il riferimento per contribuire alla raccolta: IBAN: IT 67 X 02008 13908 000401212402 (causale: emergenza coronavirus). Evitare il rancore di Dario Di Vico Corriere della Sera, 1 maggio 2020 La domanda che dobbiamo porci in un Primo Maggio senza piazze è la seguente: la caduta del Pil fornirà benzina per una rivolta sociale? L’ultimo in ordine di tempo è stato Luigi Brugnaro, il sindaco di Venezia, che ci ha avvisato sui rischi che la crisi verticale del turismo in Laguna inneschi “una bomba sociale”. Prima di lui il presidente della Camera di commercio di Crotone Aldo Pugliese ci ha ammonito sullo stesso registro: lo scoppio di una rivolta sociale. Idem Gino Scotto, capo della Federazione autonoma piccole imprese della Sicilia, seguito a ruota dal finanziere Ernesto Preatoni. Questa però è solo una rassegna degli ultimi giorni, allargando lo spettro temporale si possono trovare molte altre dichiarazioni dello stesso tenore anche da parte di politici e opinion maker di maggior vaglia. Volendo catalogarle, seppur sommariamente, si possono individuare due tendenze: alla prima appartiene chi è sinceramente preoccupato della disoccupazione di massa e ricorre all’iperbole della “bomba” solo per bucare l’attenzione dei media; alla seconda chi evoca l’Armageddon sociale con metodo levantino e con lo scopo di tirarsi fuori dal cerchio della responsabilità. “Penso che non riuscirò a fermarli”. Ma per uscire dalle angustie della cronaca, e nel contempo evitare di sfornare oroscopi socio-economici, sarà utile partire da ciò che conosciamo. La Grande Crisi iniziata nel 2008 che pure ha distrutto quasi 10 punti di Pil e ha decimato le piccole imprese italiane (e relativa occupazione) non ha generato rivolte sociali. Il tasso di conflittualità sindacale di quegli anni è rimasto più basso che in passato e non abbiamo avuto autunni o altre stagioni bollenti. Neppure si può dire che la protesta ribelle abbia frequentato altri circuiti: il fenomeno dei Forconi è durato lo spazio di un giro nei talk show. La verità è che il rancore non ha preso la via delle barricate, la mediazione dell’odio è passata prima dai social network con la nascita della figura dell’hater e, successivamente, ha avuto come veicolo il Movimento 5 Stelle. Determinando un terremoto politico all’insegna della caccia all’élite e del disprezzo della mediazione politica tradizionale. Rievocare questo precedente ci serve ad evitare semplificazioni: il malessere sociale può prendere diverse strade e molto dipende dai soggetti o dalle occasioni che incontra sul suo cammino. Storicamente in Italia è stato il Pci a produrre la migliore “seconda lavorazione” delle fratture sociali sia per la lunghezza del ciclo sia per la ricca plusvalenza politica che ha saputo estrarne. Ma possiamo anche ricordare l’attitudine del sindacalismo metalmeccanico degli anni 70 e concludere che in fondo il populismo grillino non ha fatto altro che espugnare, nel nuovo secolo, la fortezza delle sinistre conquistando il diritto di sventolare la bandiera dei diseguali. E allora, senza voler sottovalutare la profondità della crisi sociale che ci troveremo davanti nel post-pandemia, la domanda che dobbiamo porci in un Primo Maggio senza piazze è la seguente: la caduta del Pil che già in questo primo trimestre ha segnato -4,7% fornirà benzina per una rivolta sociale? Un indizio per rispondere ce lo fornisce un dato di Prometeia, sottolineato dal professor Enrico Giovannini, secondo il quale nell’intero 2020 il Pil cadrà fino a -6,5% (stima prudenziale) mentre il reddito delle famiglie scenderà dello 0,8%. Aggiungiamo che per ora non si vedono all’opera soggetti capaci di offrire al malcontento un format di successo. I sindacati e l’associazionismo dei Piccoli avrebbero bisogno di una rifondazione in corsa per candidarsi a cotanto compito e oggi non pare credibile. Le Sardine hanno proposto di recente di attivare il Var della pandemia, un’idea che ci racconta di più dell’astinenza da Serie A dei suoi leader che della loro capacità progettuale. I leghisti continuano a cavalcare un ronzino come l’Italexit ma soprattutto non hanno più da giocare la carta di contrapporre la condizione dei penultimi a quella dei migranti. I Cinque Stelle, poi, si sono insediati al potere: controllano il Lavoro, l’Industria, l’Inps e i navigator e soprattutto hanno sostituito l’odio con il sussidio. E proprio in questa parola “sussidio” sta la chiave del confronto con il 2008. Allora la comunicazione che arrivava dall’alto seguiva la metrica dei sacrifici, oggi la narrazione è all’insegna del “nessuno verrà lasciato indietro”. Non si sta promettendo austerità ma protezione. Al punto che il governo, che pure dispone del Reddito di cittadinanza, ha intenzione di costruire un nuovo veicolo di welfare, il reddito di emergenza, che ne dovrebbe essere il fratello minore ma di cui prima si è scelto il nome e poi verrà individuata la platea dei beneficiari. È dunque la trappola del sussidio, del bonus ritagliato per ogni segmento sociale, la mediazione che la politica offre al disagio. Reddito e debito invece di Pil. La seconda strada verrà dagli aggiustamenti dell’economia dei servizi. Già mi era capitato di sottolineare come il terziario italiano negli ultimi anni si fosse incamminato pericolosamente lungo la strada del low cost, come avesse scelto il massimo ribasso contro la creazione di valore. È probabile - e qualche segno lo si trova negli accorgimenti escogitati sotto lockdown - che questi settori vengano spinti a scendere più di qualche gradino e inabissarsi creando un popolo di Senza Ricevuta non solo nell’ambito delle attività artigianali ma anche dei servizi professionali di prima e seconda generazione. Così come va messa in conto, come mi segnala Giuseppe De Rita, l’eventualità che gli spazi che sono stati conquistati dalla piccola imprenditoria straniera, e che hanno la loro dimostrazione plastica nei mille minimarket presenti nelle città turistiche, possano contrarsi ed essere occupati da operatori italiani. È lungo queste traiettorie “adattive” che nei prossimi trimestri è facile che vada a riposizionarsi il sistema Italia ed è fin banale sottolineare i rischi che la trappola del sussidio e il revival del sommerso rappresentano per le ambizioni di un grande Paese. Ma è con questa agenda che bisogna confrontarsi ed evitare di chiamare alla rivolta sociale appena si accendono le telecamere. Quelli che abbiamo lasciato indietro nell’emergenza Coronavirus di Lorenzo Guadagnucci altreconomia.it, 1 maggio 2020 Papa Francesco, nel pieno della pandemia, ha detto che nelle azioni e nelle prese di posizione di molti governanti non è stato difficile scorgere una deriva ideologica simile a quella del nazismo. Parole forti, fortissime, per definire quella sorta di darwinismo sociale che ha spinto numerosi uomini di potere (politico ed economico) a teorizzare la necessità di “sacrificare” una parte dei cittadini - i più anziani e più fragili - per consentire alla società nel suo insieme di pagare, nell’emergenza sanitaria, un prezzo minore in termini economici e di continuità del modello sociale esistente. È una posizione, questa, con una sua logica razionale e precise ricadute sociali. È stata respinta, a dire il vero, dalla maggior parte dei Paesi ma non rifiutata del tutto: si è più spesso arrivati a una mediazione fra l’obiettivo di tutelare le vite e garantire a tutti le migliori cure e l’esigenza di proteggere il sistema economico e i suoi equilibri consolidati. Papa Francesco, con la franchezza dell’uomo di fede, ha indicato il lato oscuro di tale bilanciamento. È una valutazione che si può estendere ad altre scelte compiute durante la pandemia: la disinvolta “chiusura” dei porti alle imbarcazioni con naufraghi a bordo, l’abbandono di fatto dei campi profughi, la disattenzione per le conseguenze del virus nelle comunità più fragili, per esempio nei campi rom e nelle carceri. Sono tutte fattispecie - il darwinismo sociale, l’esclusione dallo sguardo di fette di umanità - che mettono a nudo l’architrave ideologico della società presente, mai così chiaro come in questa crisi pandemica globale. Il succo è che le forme di tutela e protezione - l’insieme dei diritti fondamentali - non sono disponibili per tutti e sono soggette a valutazioni variabili nel tempo. Lo stesso concetto di umanità, quindi l’ambito di applicazione della dottrina dei diritti umani, non è predefinito come potrebbe sembrare al di qua del confine che separa la specie umana dagli altri animali. La linea di separazione è in realtà variabile e tende a relegare nella cerchia dei non umani o sub-umani o meno-che-umani, insomma fra i non meritevoli di tutela, gruppi sociali ben definiti. Non è una novità. I genocidi del passato, pensiamo alla shoah ma anche alla guerra civile in Ruanda, per non citare che due esempi, si sono avvalsi della metafora animale per agevolare lo sterminio di massa: è più facile eliminare un ratto o uno scarafaggio -come venivano definiti dalla propaganda gli ebrei sotto il nazismo e il popolo tutsi nel “Paese delle mille colline” - che un essere umano. L’inattesa ma prevedibile (e prevista da alcuni inascoltati esperti) crisi pandemica ha minato certezze diffuse. È entrato in crisi anche l’antropocentrismo, cioè il presupposto logico delle grandi ideologie del nostro tempo. L’aggressione agli ecosistemi, la distruzione degli habitat di vita animale selvatica, l’espansione degli allevamenti industriali sono la causa diretta dello “spillover”, il salto di specie compiuto dai vari virus all’origine delle ultime pandemie. Perciò l’ecologia radicale, la prassi animalista, il pensiero antispecista, finora considerati poco degni d’attenzione, appaiono improvvisamente calzanti e profetici in un mondo che non riconosce più sé stesso. L’umanità è obbligata a pensarsi come parte di un sistema vitale complesso, rinunciando alla sua pretesa di dominio incontrollato. Abbiamo l’occasione, o forse l’obbligo, di ripensare tutto. Turchia. Mustafa e Helin, morti per la fame nelle prigioni del regime di Ezio Menzione Il Dubbio, 1 maggio 2020 I due musicisti arrestati per “terrorismo”. Mustafà Kogiak era un chitarrista di 28 anni del gruppo Grup Yorum, popolarissimo in Turchia, che fin dal 1985 si caratterizza per la militanza antifascista e contro ogni forma di autoritarismo. Inviso ad Erdogan fin da quando era primo ministro, il gruppo è stato a perseguitato, dal 2018 i loro concerti vietati e sono andati in carcere 30 componenti del, di cui 6 tuttora detenuti. Mustafà era in una prigione vicino a Smirne dal 2017 con l’accusa di terrorismo e attentato alla costituzione che lo aveva portato ad una sentenza di ergastolo, confermata dalla Suprema Corte, nonostante che durante il processo davanti ad essa il principale teste di accusa, il solito pentito più o meno anonimo, avesse ritrattato completamente le accuse contro di lui. Mustafà era stato torturato, come tutti i prigionieri politici, soprattutto prima della detenzione: braccia ammanettate dietro la schiena, come in un quadro seicentesco del Magnasco; con un cappuccio di carta in testa e sopra un barattolo di latta, veniva percosso regolarmente per un quarto d’ora ogni mezz’ora. Sotto queste torture a Mustafà era stata estorta una confessione. Da 297 giorni era in sciopero della fame per chiedere un processo equo e perché il suo gruppo potesse tornare a tenere concerti. Da 40 giorni aveva cessato anche di prendere gli integratori, abbracciando così la protesta cosiddetta “death fast”, “fino alla morte, velocemente”: così velocemente che si è spento il 23 aprile, nonostante negli ultimi giorni gli fosse stata praticata una specie di tortura, chiamata alimentazione forzata con 73 contenitori di soluzione. Lui la rifiutava, staccandosi gli aghi con le mani e con i denti, e loro lo hanno legato testa, braccia e gambe, senza farlo più accedere al bagno. All’ultimo aveva perso la sensibilità e l’intero sistema nervoso non rispondeva più. Pesava 29 chili. Con lui era in sciopero anche una cantante del Grup Yorum, Helin Bolek, morta il 9 di aprile: era stata rimessa in libertà a dicembre, ma aveva continuato la protesta. Il regime di Erdogan, che ha emanato un provvedimento di indulto riguardante 90.000 detenuti (su 286.000) per fronteggiare il Covid 19, ha escluso gli oppositori politici, giornalisti, avvocati, magistrati, blogger ecc. Mustafà era difeso da una coppia di avvocati, appartenenti a un’associazione radicale, e finiti in carcere: Dedim Baydar Uysal e Aytac Uysal, suo marito, detenuto in Anatolia dal 2017, in sciopero della fame nel gennaio scorso. Hanno seguito la protesta altri 8 colleghi dell’associazione CHD. Dopo quasi cento giorni di protesta, però, sette di loro hanno interrotto lo sciopero per via dell’incombere del coronavirus. Una di questi, però, Ebru Timtik (una fantastica collega, lasciatemelo dire, per averla conosciuta personalmente in un colloquio nel supercarcere di Silivri!), detenuta con vari pretesti da sei anni e già condannata a 15 anni nel marzo scorso (si aspetta la Cassazione), ha iniziato il 5 aprile, assieme ad Aytac, la drammatica “death fast”. Ebru ed Aytac sono in fin di vita ed è tragico pensare che in pochi giorni arriverà la notizia della loro morte. I due colleghi sono la punta tragica di una situazione drammatica in cui in tre anni 1500 avvocati sono stati indagati, 605 arrestati e 345 condannati per una pena totale di 2158 anni. Di fronte al venir meno del diritto alla difesa e alla stessa vita, è giusto domandarsi perché mai il governo italiano non faccia nulla, magari attraverso la sua rappresentanza diplomatica in Turchia, per far cessare simili abusi. Libia. “Siamo in guerra contro gli Emirati”, il Consiglio di Stato invoca lo status bellico di Francesco Semprini La Stampa, 1 maggio 2020 Tripoli rifiuta cessate il fuoco di Haftar. Da Parigi prevale il silenzio sul sorvolo “illegale” dei caccia francesi. “La Libia è in guerra contro gli Emirati”. È l’affermazione provocatori (ma non più di tanto) di Khaled al-Mishri, presidente dell’Alto consiglio di stato di Tripoli, organo legislativo della Libia. Al-Mishri chiede al numero uno del Consiglio presidenziale, Fayez al-Serraj di dichiarare “lo status bellico tra la Libia e gli Emirati per il ruolo svolto da questi ultimi nell’alimentare le tensioni nel Paese e sostenere il signore della guerra Khalifa Haftar”. La monarchia del Golfo è notoriamente tra gli sponsor principali del generale, quello che più di tutti sostiene la necessità di proseguire il conflitto sino alla conquista di Tripoli. A differenza di altri, come l’Egitto e la Russia, che hanno ormai virato verso l’opzione di una exit strategy negoziale per porre fine alle ostilità che si trascinano da oltre un anno (secondo i dati Unsmil sono 64 i morti solo nel primo trimestre del 2020, in rialzo rispetto agli ultimi tre mesi dell’anno passato). Intanto Il Governo di Accordo nazionale guidato da Serraj respinge l’offerta di tregua formulata ieri dal portavoce di Haftar, Ahmed Al Mismari, dopo che l’uomo forte della Cirenaica qualche giorno fa aveva proclamato un colpo di Stato contro le autorità civili che erano rimaste in piedi nell’Est del Paese. “Continuiamo la nostra difesa legittima”, si afferma in una nota ufficiale. “Le violazioni continue ci spingono a non aver più fiducia nelle tregue dichiarate” dall’aggressore abituato al tradimento”. I fatti, prosegue il Gna, “confermano che non abbiamo un partner per la pace, ma abbiamo di fronte a noi una persona assetata di sangue e ossessionata”. Ieri sera il generale aveva annunciato una tregua, la “cessazione delle operazioni militari” in Libia durante il Ramadan, iniziato una settimana fa. Il suo portavoce militare ha annunciato “una pausa in tutte le operazioni militari, ma si risponderà immediatamente e in modo duro ad ogni violazione da parte delle milizie terroristiche”. Annuncio che segue l’autoproclamazione a “capo di tutta la Libia”, di tre giorni fa contestualmente alle conclusioni degli accordi di Skirat del 2015, sulla base dei quali era nato il “governo di accordo nazionale” di Tripoli. Il “generale ferito” dalla controffensiva governativa in Tripolitania culminata con l’attuale assedio del feudo di Tarhuna, dinanzi al rischio di vedersi messo ai margini da un’azione negoziale proveniente dalle sue stesse roccaforti, ha gioca d’anticipo con un piano in due mosse: autogolpe e tregua “sacra”. “Qualsiasi cessate il fuoco, il monitoraggio delle violazioni e il raggiungimento di una vera e propria tregua richiede sponsorizzazioni internazionali, garanzie e meccanismi attraverso i quali attivare il lavoro del comitato 5 + 5 supervisionato dalla missione di sostegno in Libia - prosegue la nota - E in questo momento, affermiamo con fermezza il diritto garantire la nostra difesa, a colpire i focolai della minaccia ovunque esistano e a stroncare i gruppi fuorilegge che minacciano la vita dei libici in tutto il Paese”. La determinazione a proseguire la campagna contro Haftar è confermata dal nuovo attacco a sorpresa dei governativi ad Ain Zara, uno dei fronti più caldi a ridosso di Tripoli. L’obiettivo è, come a Tarhuna, logorare gli uomini di Haftar per “finirli” quando i tempi saranno maturi. La negazione di Skhirat è stata condannata da Italia, Onu, Stati Uniti, ma anche dalla Russia Paese tradizionalmente vicino al generale. Ma non dalla Francia che rimane così arroccata sull’ambiguità dicotomica che ne ha sempre contraddistinto l’operato sul dossier libico. Ovvero, sotto il cappello dell’Unione Europa appoggiando il Gna, ma giocando in solitario una partita tutta a favore dell’uomo forte della Cirenaica al quale ha garantito copertura diplomatica, appoggio logistico e di intelligence e agevolato forniture militari. Ancor più perché sull’Eliseo gravano sospetti in merito al sorvolo a bassa quota di caccia francesi, assistiti da un aereo cisterna per il rifornimento in quota, su territori libici interessati da scontri tra forze governative e quelle del generale, senza permesso né avviso alle autorità del Governo di accordo nazionale guidato da Fayez al Serraj. Il ministro degli Interni Fathi Bashaga, ha espresso profonda preoccupazione chiedendo a Parigi immediate spiegazioni. Ma dalla capitale francese tutto tace, un silenzio dicono a Tripoli, che è più eloquente di qualsiasi parola. Perù. Rivolte nelle carceri a causa del Coronavirus di Alberto Galvi notiziegeopolitiche.net, 1 maggio 2020 Lo scorso lunedì nel carcere peruviano di Miguel Castro Castro de San Juan de Lurigancho, a Lima, si è verificata una violenta rivolta di detenuti, in cui sono stati bruciati materassi e sono stati appesi cartelli con i quali i carcerati chiedono la libertà, per paura di contrarre il Covid-19. Questa prigione ospita 5.500 detenuti, sebbene la sua capacità sia di soli 1.140. La rivolta ha provocato 9 morti tra i detenuti e 67 feriti tra guardie, polizia e altri prigionieri. Il giorno precedente in quel carcere si è registrata la morte di 2 reclusi per Covid-19. Dopo 3 ore dall’inizio della rivolta più di 200 poliziotti sono riusciti a riprendere il controllo all’interno e all’esterno del penitenziario. Nel carcere di San Pedro di Lurigancho, il più capiente del paese, alla fine della protesta i detenuti hanno firmato un accordo con la direzione riguardante le cure mediche e sono tornati nelle loro celle. I detenuti hanno protestato a torso nudo e con i manifesti sul soffitto. Il carcere di Lurigancho nel suo insieme ospita più di 10.000 detenuti anche se la sua capacità è di solo 2.500. Sempre lo scorso lunedì un’altra rivolta è scoppiata nel carcere della città di Huancayo, anch’essa repressa dalle autorità, dopo la morte di 2 prigionieri per Covid-19. I detenuti di questa prigione hanno iniziato la protesta per chiedere di poter essere sottoposti ai tamponi dopo i morti dei giorni scorsi. La prigione di Huancayo ospita 2.100 detenuti ma con una capacita di soli 680 posti. Nella prigione della città di Chiclayo, 2 prigionieri sono morti, provocando un’altra rivolta causata dalla paura del virus. La prima protesta in un carcere peruviano a causa della diffusione del Covid-19 si è verificata il 22 marzo. In totale si sono registrati finora almeno 21 prigionieri uccisi dalla malattia e circa 650 infettati. Secondo l’Inpe (Instituto Nacional Penitenciario) nelle carceri peruviane ci sono 97.500 detenuti divisi tra 68 istituti, con una sovrappopolazione di 50.000 unità rispetto alla loro capienza effettiva. Inoltre 169 guardie carcerarie sono risultate positive al virus e 7 sono morte. All’inizio di questa settimana, il presidente Martin Vizcarra ha prolungato la quarantena fino al 10 maggio, ma non è stato presentato alcun piano per i detenuti. Il Perù ha confermato di essere il paese dell’America Latina con il maggiore numero di casi di questa pandemia dopo il Brasile. Il governo peruviano ha intanto annunciato la scorsa settimana che concederà l’indulto a 3.000 detenuti per rallentare la diffusione da Covid-19 nelle carceri del paese. Con la quarantena in vigore da metà marzo, le prigioni sembravano un luogo sicuro per tenersi isolati dalla pandemia, soprattutto dopo che le visite dei parenti erano state sospese; i focolai si sono invece accesi a causa dei contagi di alcuni funzionari delle carceri, che hanno di fatto introdotto il virus all’interno degli istituti. Il governo di Lima punta adesso al contenimento della pandemia attraverso la quarantena e l’utilizzo dell’esercito per evitare gli assembramenti di persone nelle strade e gli spostamenti non necessari da un luogo all’altro del paese. El Salvador. Human Rights Watch: trattamento detenuti “inumano” agenzianova.com, 1 maggio 2020 L’organizzazione non governativa Human Rights Watch (Hrw) ha definito “inumano” il trattamento dei detenuti da parte del governo di El Salvador. La denuncia arriva dopo le immagini diffuse sui social nel fine settimana dalla stessa presidenza di El Salvador, in cui si vedono centinaia di detenuti seminudi ammassati per terra, dopo che il presidente Nayib Bukele ha decretato lo stato di massima allerta e un lockdown in risposta a un’escalation nel numero di omicidi registrati nel paese. Secondo le autorità i detenuti avrebbero ordinato ai loro compagni in libertà di aumentare il numero di delitti approfittando dell’emergenza sanitaria in corso. “Data la pandemia di Covid-19, le prigioni in El Salvador, come altrove, sono un potenziale epicentro per un focolaio, e il blocco dell’amministrazione Bukele ha aggravato un rischio già alto”, ha dichiarato José Miguel Vivanco, direttore Americhe di Hrw”. “Ironicamente, il discorso del presidente Bukele sul pugno di ferro per contrastare gli omicidi sta mettendo più vite a rischio di un potenziale contagio - all’interno e all’esterno dei centri di detenzione”. Lo scorso 25 aprile Bukele ha ordinato al direttore delle carceri del paese di dichiarare “la massima emergenza” in ogni struttura carceraria in cui sono detenuti membri di gang. Le autorità hanno quindi effettuato un “lockdown” dei detenuti, bloccandoli in cella per 24 ore e isolando per un tempo indefinito i leader delle gang. Per evitare la comunicazione tra membri della stessa banda, le autorità hanno trasferito membri di diverse bande in celle condivise e il 27 aprile Bukele ha ordinato di sigillare tutte le celle, in modo da “non consentire ai detenuti di guardare fuori”. Bukele ha inoltre autorizzato l’uso della forza letale contro le gang. “L’uso della forza letale è autorizzato per la difesa personale o per la difesa della vita dei salvadoregni”, ha scritto Bukele sul suo account Twitter. Il governo “si occuperà della difesa legale di coloro che sono ingiustamente accusati per aver difeso la vita di persone oneste”. Le bande, ha aggiunto, “stanno sfruttando il fatto che quasi tutta la forza pubblica è impegnata nel controllo della pandemia” del nuovo coronavirus. Anche la Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh) ha espresso preoccupazione per la “massima allerta” disposta dal presidente di El Salvador, Nayib Bukele, nelle carceri del paese. La misura, denuncia la Cidh sul suo account Twitter ufficiale, “mette a rischio i diritti delle persone private della libertà”. La commissione chiede al governo salvadoregno di “adottare misure che garantiscano la vita e l’integrità dei detenuti”, in particolare alla luce dei rischi rappresentanti dalla pandemia del nuovo coronavirus. Sierra Leone. Coronavirus: rissa in un carcere della capitale, 7 morti di Chiara Gentili sicurezzainternazionale.luiss.it, 1 maggio 2020 Una rissa è scoppiata in Sierra Leone, nella prigione centrale della capitale, Freetown, dopo che le autorità hanno confermato la presenza di un caso di coronavirus nella struttura. Due guardie carcerarie e 5 detenuti sono rimasti uccisi nei disordini. Il ministro dell’Informazione, Mohamed Rahman Swaray, ha riferito ai giornalisti che l’incidente è avvenuto nella prigione di Pademba Road, quando alcuni detenuti hanno iniziato a dare fuoco ad alcuni edifici in segno di protesta. La polizia e le forze di sicurezza, intervenute per impedire la fuga, hanno immediatamente circondato l’area e sono riuscite a ripristinare l’ordine. “Ci sono vittime ma si tratta di numeri iniziali. Quando la polvere si depositerà saremo in grado di fornire un bilancio più completo”, ha dichiarato Swaray ai giornalisti. Cecil Cole Showers, portavoce della prigione di Pademba Road, ha precisato che decine sono i detenuti e le guardie ferite, alcuni in gravi condizioni. Un residente, che abita nelle vicinanze della prigione, ha riferito all’agenzia di stampa Agence France Presse che diversi spari sono stati uditi durante l’incidente. Le forze di sicurezza sono ora schierate intorno alla struttura e ai residenti della zona è stato ordinato di rimanere a casa. Lunedì 27 aprile, il Ministero della Giustizia aveva dichiarato che un detenuto, arrivato di recente a Pademba Road, era risultato positivo al coronavirus. Pertanto, le autorità avevano disposto la chiusura, per motivi di disinfezione, di alcuni reparti della prigione e il paziente era stato trasferito fuori dalla struttura per i trattamenti necessari. Alcuni detenuti erano stati spostati e messi sotto sorveglianza per monitorare le loro condizioni di salute. La Sierra Leone ha registrato, al momento, 104 casi di coronavirus e 4 morti. Si teme che il Paese non sia attrezzato a gestire un eventuale focolaio di contagi, a causa del suo fragile sistema sanitario. In più, anche la situazione nelle carceri rischia di diventare critica, a causa del sovraffollamento e delle precarie condizioni igieniche. La prigione di Pademba Road, progettata per contenere 324 detenuti ne ospita attualmente ospita più di 1.000. La struttura è già stata colpita in passato, negli anni 2000, da una serie di rivolte scoppiate per via delle intollerabili condizioni di detenzione. Il numero di prigionieri è poi ulteriormente aumentato negli ultimi giorni in seguito al trasferimento, causa coronavirus, di alcuni detenuti provenienti da un centro di reinserimento. Diverse organizzazioni non governative locali hanno sollecitato il governo a rilasciare i prigionieri accusati di crimini minori per alleviare la densità della popolazione carceraria in questo momento di grave emergenza sanitaria e ridurre il rischio di infezione. Nella dichiarazione di lunedì 27 aprile, il governo ha affermato di voler sospendere per un mese i tribunali penali per arginare la contaminazione carceraria. Il 24 marzo, il presidente della Sierra Leone, Julius Maada Bio, ha altresì dichiarato uno stato di emergenza di 12 mesi per cercare di prevenire la diffusione dell’epidemia di coronavirus e ha ordinato lo schieramento dell’esercito negli aeroporti e nei valichi di frontiera internazionali al fine di garantire la piena attuazione delle misure annunciate. L’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha affermato il mese scorso che tutti i Paesi dovrebbero prendere in considerazione la possibilità di rilasciare i detenuti anziani e i criminali a basso rischio. Alcuni Stati, tra cui Iran, Afghanistan, Indonesia, Canada, Germania e, nel continente africano, anche Marocco, Tunisia e Sudan, hanno già liberato migliaia di prigionieri per ridurre il rischio di un grave focolaio nelle carceri. Misure simili sono state prese in Gran Bretagna, Polonia e Italia, con le autorità incaricate che monitorano da vicino quelli che vengono rilasciati per assicurarsi che non aumentino le attività criminali o i disordini sociali in un momento di disagio nazionale. Ma mentre tali misure sono possibili nei Paesi più sviluppati, la sfida diventa più seria in altre parti del mondo. “Il Covid-19 ha iniziato a colpire le carceri, le prigioni e i centri di detenzione per gli immigrati, nonché case di cura e ospedali psichiatrici, e rischia di scatenarsi tra le popolazioni più vulnerabili”, ha affermato Bachelet. “Le autorità dovrebbero esaminare i modi per liberare coloro che sono particolarmente vulnerabili al virus, tra cui i detenuti più anziani e quelli che sono malati, nonché i trasgressori di basso profilo”, ha aggiunto la commissaria, sottolineando che le strutture di detenzione di molti Paesi sono gravemente sovraffollate, il che rende i prigionieri e il personale delle carceri particolarmente vulnerabili all’infezione. “Le persone sono spesso trattenute in condizioni estremamente antigieniche e i servizi sanitari sono inadeguati o addirittura inesistenti. Il distanziamento fisico e l’autoisolamento in tali condizioni sono praticamente impossibili”, ha osservato.