Carcere, un aggiornamento sulla Fase due di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 19 maggio 2020 Come volontariato nell’ambito della Giustizia abbiamo cercato tempestivamente di avanzare le nostre proposte rispetto alla Fase due nelle carceri e abbiamo ritenuto utile, come primo passo, chiedere al Garante nazionale Mauro Palma di confrontarsi con le associazioni che la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia rappresenta, proprio in considerazione del fatto che l’ufficio del Garante fin dall’inizio della pandemia ha dato una informazione puntuale e dettagliata sulla situazione nelle carceri e nell’area penale esterna. Il 12 maggio si è svolta la prima videoconferenza in cui Mauro Palma, Daniela De Robert, Emilia Rossi, componenti del Collegio del Garante Nazionale, hanno incontrato la CNVG. È intervenuto anche Stefano Anastasia, coordinatore dei Garanti territoriali. Ecco i temi affrontati rispetto alla Fase 2, su cui chiediamo da subito di essere chiamati a un confronto e a una collaborazione costruttiva dalle direzioni dei diversi istituti penali. La necessaria ripresa dei colloqui con i famigliari L’ultimo Decreto che affronta la questione delle scarcerazioni dei boss mafiosi all’articolo 4 delega ai direttori, in accordo con l’autorità sanitaria regionale, il compito di riaprire gradualmente ai colloqui delle persone detenute con i loro famigliari nella misura di almeno un colloquio al mese con almeno un congiunto. Servono misure efficaci per permettere questa graduale ripresa: dal rafforzare il sistema delle prenotazioni telefoniche all’attrezzare meglio le aree verdi all’aumentare in modo consistente giorni e orari di colloquio, per poter ridurre i numeri e distanziare le persone (pensiamo con sgomento agli sgabelli in acciaio imbullonati al pavimento di Oristano…) al predisporre spazi di attesa più ampi (pensiamo alla stanzetta del carcere di Parma dove sono accatastate di solito decine di famigliari…). Con il Garante abbiamo sottolineato l’importanza che questo inizio di Fase 2 e questi primi passi nel ripristinare i colloqui famigliari siano monitorati e diventino occasione di ripensare il tempo e gli spazi tristi degli affetti. Il Volontariato ha sempre avuto una piattaforma articolata su questi temi ed è disponibile a dare senz’altro un contributo forte. Le tecnologie devono restare anche per i percorsi rieducativi/risocializzanti La cosa più drammatica che potrebbe succedere nella fase 2 è che le tecnologie, entrate finalmente in carcere, ne escano appena si tornerà a un po’ di normalità ripristinando i colloqui visivi. Al Garante daremo tutto il nostro appoggio, visto che ha già espresso la volontà di sostenere l’uso delle tecnologie quando si tornerà alla “normalità”, perché anche in condizioni “normali” i rapporti con le famiglie, le telefonate e i colloqui nel nostro Paese sono veramente una miseria. E ci sono persone detenute che non possono fare i colloqui visivi (lontananza, parenti anziani e malati…) e che solo grazie alle videochiamate hanno potuto dopo anni rivedere le loro case e i loro cari. Quella della videoconferenza è una modalità che potrebbe aprire grandi possibilità, soprattutto per ampliare gli spazi dello studio e dei percorsi rieducativi. Il Volontariato sta chiedendo ovunque l’utilizzo di piattaforme come Zoom e Meet, che cominciano a essere usate in qualche carcere (per esempio a Bergamo per la redazione, a Rebibbia e Modena per il teatro), facciamo in modo che diventi generalizzata questa pratica, e che sia monitorato l’impegno di ogni carcere a garantire l’uso delle tecnologie, eventualmente con risorse della Cassa Ammende. Le persone detenute non possono restare dei “senzatetto digitali”, se non vogliamo che il reinserimento diventi ogni giorno più difficile in una società, che le tecnologie le dovrà mettere sempre più al centro della sua vita. Riaprire al volontariato significa riportare in carcere la funzione costituzionale della pena Di massima importanza risulta riaprire l’accesso ai volontari e agli operatori della società civile, che attraverso il loro impegno realizzano progetti, che costituiscono importanti percorsi di crescita per le persone detenute. È urgente reintrodurre una “vita sociale” nelle carceri riportando al loro interno la società civile attraverso delle corrette procedure di accesso al carcere a tutela dei volontari stessi, degli operatori e dei detenuti, tra cui l’utilizzo dei dispositivi individuali di protezione (mascherina, guanti e gel). Ogni giorno entrano nelle carceri migliaia di agenti e di altri operatori penitenziari, di sanitari, operatori esterni delle cooperative, non c’è motivo perché ora non riprendano a entrare, con le dovute precauzioni, anche i volontari. Il reinserimento significa anche accesso ai permessi premio e poi alle misure alternative. I permessi oggi sono bloccati, non possono rimanerlo ancora a lungo, se non vogliamo svuotare di senso e di speranza le pene. Devono essere attuati, nel rispetto della sicurezza sanitaria. Quanto alle misure alternative, il Volontariato che accoglie e sostiene i percorsi di reinserimento e le cooperative che sono più attrezzate per offrire opportunità lavorative a soggetti svantaggiati devono mettere insieme le loro risorse e le loro competenze, già abbiamo collaborato con il Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità sulla questione cruciale dell’accoglienza per chi può accedere a misure come la detenzione domiciliare, vogliamo continuare a farlo perché, nella difficile fase dell’uscita dal carcere, non vengano vanificati percorsi di reinserimento complessi, che richiedono attenzione e accompagnamento. Il buco nero dell’informazione Luigi Ferrarella, giornalista di cronaca giudiziaria ed editorialista del Corriere, in un articolo dell’11 maggio parla, a proposito dell’informazione sui temi della giustizia ai tempi del coronavirus, di “amnesie selettive”, perché elidere dall’informazione pezzi di realtà è forse l’unico modo per poter serenamente continuare a spacciare, al posto della realtà, la fiction del carcere come “luogo più sicuro al mondo”. Il caso che ha creato più scandalo, quello di Francesco Bonura, un esponente di spicco della mafia, un uomo di 78 anni, con un tumore grave, cardiopatico, è anche il caso in cui l’”amnesia selettiva” è stata più vergognosa: la gran parte dei giornalisti ha taciuto sul fatto che il detenuto era sì al 41-bis, ma che gli mancano pochi mesi al fine pena. Il fallimento dello Stato è che una persona finisca di scontare la pena nel regime del 41-bis ed esca senza aver fatto nessun percorso, dovrebbero invece essere ritenute Istituzioni credibili quelle che sanno prendersi cura della salute di TUTTI, anche dei mafiosi. Al Garante abbiamo proposto di lavorare per creare momenti di formazione anche in remoto (e l’Ordine dei Giornalisti deve adeguarsi a questa nuova modalità) per i giornalisti, che poco conoscono la realtà dell’esecuzione penale e molti danni possono fare anche solo tacendo dati e cancellando pezzi di notizie significativi. Vogliamo contribuire con la nostra competenza a informare e sensibilizzare le persone “dentro” e la società “fuori”, bombardata da una informazione, spesso superficiale e imprecisa, e vogliamo valorizzare le esperienze di redazioni nate all’interno delle carceri, anche qui chiedendo che l’uso di Internet non sia più un tabù. Insieme, a fianco dei Garanti La videoconferenza con il Garante nazionale è stata seguita da 100 persone perché quello è il limite della piattaforma ZOOM, abbiamo dovuto respingere molti altri volontari interessati. È innegabile che la tragedia della pandemia ci ha messo comunque di fronte all’obbligo di darci strumenti nuovi per confrontarci, comunicare, fissare degli obiettivi comuni, quindi il Volontariato deve fare tesoro di esperienze come il confronto con il Garante Nazionale, a cui chiediamo di continuare sulla strada del dialogo con cadenza regolare con le nostre realtà, che sono presenti in modo capillare nelle carceri e possono contribuire al monitoraggio di questioni vitali come la cura degli affetti, la salute, l’uso delle tecnologie. Con i Garanti territoriali e il loro coordinatore Stefano Anastasia, abbiamo avviato una prima riflessione sulle prospettive della fase 2, nelle prossime settimane le Conferenze regionali Volontariato Giustizia si riuniranno con loro perché è adesso che c’è bisogno che la società civile torni a essere presente capillarmente nelle carceri e nell’area penale esterna: questa deve essere non un’occasione per pensare di “fare da soli” ma un’opportunità per lavorare fianco a fianco, ognuno valorizzando la sua specificità. Vogliamo tornare a portare nelle carceri le nostre idee, le nostre risorse, la nostra capacità innovativa. *Presidente Conferenza nazionale Volontariato e Giustizia Così nella notte spariscono le misure alternative al carcere dal Dpcm di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 maggio 2020 Misure alternative al carcere per ridurre la popolazione carceraria? Fino ieri sera sì. Era stato pubblicato addirittura in Gazzetta Ufficiale. Ma poi improvvisamente, poco prima di mezzanotte, il Governo ha deciso di modificare tutto e togliere quell’opzione. Infatti, nel nuovo Dpcm firmato il 17 luglio dedicato all’avvio della cosiddetta fase due ai tempi del Covid-19, c’è anche un comma dell’articolo sugli istituti penitenziari. C’era scritto nero su bianco che, tenuto conto delle indicazioni fornite dal Ministero della Salute fatte d’intesa con il coordinatore degli interventi per il superamento dell’emergenza coronavirus, il ministero della giustizia raccomanda di limitare i permessi e la semilibertà o di modificare i relativi regimi in modo da evitare l’uscita e il rientro dalle carceri, valutando “la possibilità della detenzione domiciliare”. Un suggerimento che ribadisce ciò che è stato indicato - fin dall’inizio dell’emergenza - nei passati Dpcm. Ciò sta a significare che per il mondo carcerario c’è una preoccupazione maggiore essendo un luogo chiuso, assembrato e dove la distanza minima è di difficile attuazione. A conferma di ciò, anche per i casi sintomatici dei nuovi ingressi, i quali devono essere posti in condizione di isolamento dagli altri detenuti, il Governo raccomanda “di valutare la possibilità di misure alternative di detenzione domiciliare”. Ma poi il colpo di scena. A tarda serata arriva la modifica al decreto del presidente del consiglio dei ministri. Una modifica che riguarda esclusivamente l’articolo 1, comma 1, lettera cc), ovvero quella relativa agli istituti penitenziari. Hanno cancellato tutto e sostituito con questo: “cc) tenuto conto delle indicazioni fornite dal Ministero della salute, d’intesa con il coordinatore degli interventi per il superamento dell’emergenza coronavirus, le articolazioni territoriali del Servizio sanitario nazionale assicurano al Ministero della giustizia idoneo supporto per il contenimento della diffusione del contagio del Covid-19, anche mediante adeguati presidi idonei a garantire, secondo i protocolli sanitari elaborati dalla Direzione generale della prevenzione sanitaria del Ministero della salute, i nuovi ingressi negli istituti penitenziari e negli istituti penali per minorenni. I casi sintomatici dei nuovi ingressi sono posti in condizione di isolamento dagli altri detenuti”. Hanno tolto tutto. Compreso il passaggio poco chiaro e che sembrava andare in senso contrario al decreto legge del 10 maggio il quale stabilisce una ripresa graduale dei colloqui visivi. Però secondo il nuovo Dpcm, i colloqui - salvo rare eccezioni - sospesi sino al 14 giugno prossimo. Infatti si leggeva che “i colloqui visivi si svolgono in modalità telefonica o video, anche in deroga alla durata attualmente prevista dalle disposizioni vigenti”, ma “in casi eccezionali può essere autorizzato il colloquio personale, a condizione che si garantisca in modo assoluto una distanza pari a due metri”. A fare un po’ di chiarezza è stato Gennarino de Fazio, leader della Uil-Pa Polizia Penitenziaria Nazionale: “Dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) confermano un disallineamento normativo e precisano che nella gerarchia delle fonti il decreto-legge prevale sul Dpcm e che pertanto da oggi (18 maggio, ndr) riprenderanno gradualmente, per come previsto, i colloqui visivi”. Il capo della Uil-Pa però si chiede come questo possa accadere “perché è palese - incalza De Fazio - che anche dopo tutto quello che è avvenuto nei penitenziari dal mese di marzo, con 13 morti, evasioni di massa, devastazioni, etc., la disarmonia normativa così come la continua emanazione di decreti-legge rappresentano l’ennesimo sintomo dell’assenza di una visione strategica e di una sostanziale approssimazione di fondo”. La Uil-Pa non vuole entrare nel merito degli scontri politici di queste ore, ma ribadisce che, al netto dello spessore e delle capacità individuali dei nuovi vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, “è indispensabile un cambio di passo della politica e una tangibile attenzione da parte del Ministro della Giustizia, che francamente non vediamo da tempo, che mettano le carceri al centro dell’agenda del Governo”. Ma ora il problema, almeno quello relativo ai colloqui, è stato risolto con un tratto di penna. Ma un tratto che ha cancellato anche il suggerimento delle misure alternative. Nel frattempo il Garante Nazionale delle persone private della libertà ha accolto con favore il decreto legge sulla ripesa graduale dei colloqui e ha spiegato che nell’audizione in Commissione giustizia del Senato, ha comunque sottolineato due aspetti. Il primo è che nel testo alcune formulazioni più sfumate circa “la possibilità di utilizzare tecnologie” vengano sostituite da affermazioni che diano certezza di tale utilizzo. Il secondo è che la progressiva riapertura dei colloqui non veda la riduzione del ricorso alle tecnologie stesse, che hanno mostrato di poter avere una ricaduta positiva sugli istituti. Bortolato: “Decreto Bonafede, aggravio per i giudici di Sorveglianza” di Mitia Chiarin La Nuova Venezia, 19 maggio 2020 “Il nuovo decreto del ministro Bonafede introduce l’obbligo di rivalutare l’invio agli arresti domiciliari dei detenuti usciti in questi mesi di emergenza per motivi di tutela della salute, quando l’emergenza Covid-19 faceva temere focolai preoccupanti nelle carceri italiane, alle prese con il problema del sovraffollamento. Ora si prevede l’obbligo di chiedere un parere alle Procure antimafia che esprimono sui casi un loro giudizio, non vincolante. Ogni 15 giorni occorre rivedere ogni caso. Il che significa un importante aggravio di lavoro per la Giustizia italiana, già in enorme difficoltà”. Lo spiega Marcello Bortolato, presidente del tribunale di sorveglianza di Firenze, ex giudice di sorveglianza di Padova. Da Mestre, dove vive, Bortolato spiega cosa sta succedendo nelle carceri italiane. Nessuno parla più delle rivolte di inizio marzo, che hanno interessato anche il carcere di Venezia dove in due giornate si è temuto il peggio: prima una giornata di “battitura” delle stoviglie poi la rivolta con sezioni e telecamere interne distrutte, principi d’incendio e fumo dalle ringhiere. Motivo della protesta le restrizioni imposte dall’emergenza coronavirus - con la sospensione delle visite da parte dei familiari e la richiesta di indulto, In molti, nelle carceri italiane come a Venezia, sono usciti proprio per motivi di tutela della salute pubblica, con l’invio ai domiciliari. Ma la vicenda ha avuto rilievo nazionale, con un polverone politico, per le polemiche che hanno investito il ministro Bonafede, riguardo le scarcerazioni di mafiosi. Bortolato spiega che il “polverone” ha riguardato circa 300 persone, e non sono tutti dei boss mafiosi. “Per motivi di salute sono uscite tre sole persone soggette al 41bis, il carcere duro per mafia. Uno ha 88 anni ed è malato. Uno ha 78 anni ed è vicino al fine pena. Il terzo è il più famoso, Zagaria, capo camorrista, che uscirà tra alcuni anni ed è gravemente malato”, precisa Bortolato. Tra gli altri detenuti usciti, posti tutti ai domiciliari, non ci sono terroristi; uno solo si trova in classe A1, la alta sicurezza detentiva dopo essere uscito dal 41bis. Gli altri sono la classica manovalanza criminale, poco meno di 200 persone al livello più basso della classificazione di sicurezza, la A3. Di questi la maggior parte ha già scontato le pene per mafia e ora in base della legge Alfano del 2010, visto che devono scontare meno di 18 mesi di pena per altri reati, possono ottenere di uscire dal carcere. Poi ci sono quelli usciti per motivi di salute, in differimento della pena. Il presidente del tribunale di sorveglianza di Firenze precisa: “Attenzione: Questi ultimi sono tutti provvedimenti temporanei, dettati da motivazioni sanitarie -avvisa -gli arresti domiciliari sono provvedimenti provvisori. Ora il decreto impone di rivedere i pareri ogni 15 giorni sentendo le Procure antimafia”, precisa Bortolato. Scarcerare queste persone era necessario? “Ridurre l’affollamento nelle carceri è necessario per motivi di prevenzione, per evitare un contagio vasto, che avrebbe potuto coinvolgere detenuti ma anche personale educativo e di sorveglianza. Gli scarcerati non sono liberi ma costretti ai domiciliari. Ora la situazione è più serena negli istituti di pena: non sono autorizzate le visite ma ci sono i colloqui via Skype che sono una modalità che funziona e che ha ridotto di molto le tensioni”. La tecnologia con le videochiamate ai parenti insomma ha smorzato le rivolte carcerarie in tutta la penisola, Venezia compresa. Il giudice prosegue: “Quasi 200 detenuti sono risultati positivi al Covid-19. Dato parziale perché non tutti sono stati ancora sottoposti a screening sierologici. Non si possono dimenticare i momenti drammatici delle rivolte in carcere, con tredici morti, guidate da gruppi di detenuti tra i più violenti”, precisa il presidente del tribunale di sorveglianza. Va anche detto che con l’emergenza sanitaria si è visto in Italia un crollo dei reati con un forte calo dei reati in flagranza. La popolazione carceraria, precisa Bortolato, è scesa da circa 60 mila a 54 mila in questi mesi di lockdown nazionale. “Ma nelle carceri ci sono sempre 5 mila in più rispetto alla capienza regolamentare delle carceri italiane”, ricorda il giudice. Il suo è un lavoro delicatissimo, spiega. Il futuro vedrà sempre meno carceri e più pene alternative che evitano una recidiva del reato che in cella oggi supera il 60 per cento? Bortolato di questo si dice convinto. “Si dovrà arrivare a carceri solo per i reati più gravi, omicidi, mafia, violenze su donne o minori. Io spero che il futuro veda ridurre il ricorso al carcere, ma il percorso è lungo e difficile”. Coronavirus: il carcere dopo l’epidemia di Andreana Esposito, Maria Lucia Pezone e Caterina Scialla eastwest.eu, 19 maggio 2020 Il coronavirus poteva essere un’occasione per ripensare le pene detentive e ricordare la tutela della dignità dei detenuti. La pandemia del Covid-19 avrebbe potuto costituire un’ottima occasione per riflettere sull’essenza della pena detentiva. Sulla sofferenza che la detenzione infligge al corpo del condannato. Sulla necessità del carcere e sull’opportunità di scoprire qualcosa meglio del carcere. Mentre il virus ha suscitato, nella grande maggioranza dei Paesi, risposte governative di tipo paternalistico per i cittadini liberi, dove il buon padre di famiglia sa che, per il bene del figliolo, è opportuno selezionare le informazioni ed è preferibile indicare ciò che è consentito e ciò che non lo è (“non sono permessi party” ha più volte ribadito il Presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, illustrando l’ultimo DPCM del 26 aprile), l’attenzione per i cittadini detenuti è stata diversa. E il riflesso vendicativo che trasfigura buona parte della pubblica opinione non è mutato. Non è la dignità umana a essere stata messa al centro del dibattito pubblico quanto esigenze di tipo securitario. Si è affrontata l’emergenza senza cogliere l’occasione di ripensare il carcere. Eppure, il richiamo forte alla dignità umana è stato presente in tutti gli interventi degli organi internazionali di tutela. Il Comitato prevenzione tortura e l’Inter-Agency Standig Commettee delle Nazioni Unite, il Consiglio d’Europa e l’Oms hanno ricordato agli Stati il dovere di rispettare i diritti umani anche nelle situazioni legate alla pandemia per il Covid-19, sollecitandoli, in particolare, a ridurre rapidamente la popolazione carceraria. Pur nelle fasi emergenziali più drammatiche, i principi guida per i legislatori e gli operatori del diritto sono quelli del rispetto della dignità umana, della solidarietà e della parità di trattamento. Sulla promiscuità carceraria è intervenuto l’Alto Commissario Onu per i diritti umani, Michelle Bachelette, raccomandando l’adozione di misure alternative alla detenzione così da ridurre il numero dei detenuti, per evitare una diffusione esplosiva del virus in ambienti chiusi e sovraffollati. Almeno 125 Paesi detengono più prigionieri di quelli per i quali sono stati progettati gli istituti penitenziari, di questi 20 hanno più del doppio del numero di detenuti consentiti, secondo il World Prison Brief, database dell’Institute for Crime & Justice Policy Research dell’Università di Londra. La social distancing, che il mondo fuori dal carcere è chiamato a osservare, è solo un’illusione per il mondo nel carcere, dove il recluso è costretto a condividere celle pensate per una sola persona. Difendersi dal rischio di infezioni è praticamente impossibile in prigione. In molti Paesi (tra cui Argentina, Brasile, Francia, Iran, Svizzera, Tailandia e Venezuela), al primo comparire dell’epidemia, i detenuti hanno protestato contro il sovraffollamento e le cattive condizioni igieniche e sanitarie che li espongono a maggior rischio di contrarre Covid-19. In Italia, i detenuti di S. Vittore, Poggioreale e S. Maria C.V. hanno reagito alle restrizioni imposte non accompagnate da informazioni chiare sulla situazione sanitaria. Negli istituti di Modena e Rieti, tra i primi a ospitare le sommosse, si sono registrati 12 decessi per abuso di sostanze sottratte dalle infermerie; da Foggia c’è stata una massiccia evasione di 72 detenuti mentre a Bologna l’amministrazione ha disposto di saldare i cancelli di accesso. Il bilancio economico è grave, 35 mln di danni alle strutture, centinaia di posti letto distrutti, 150mila euro di psicofarmaci rubati. La pericolosità della dimensione carceraria, connotata da fatiscenza delle strutture e da sovraffollamento, è stata sottolineata anche nell’ambito del Consiglio d’Europa. Sia il Presidente dell’Assemblea Parlamentare che il Comitato europeo prevenzione della tortura hanno ricordato come alcuni diritti - come quello alla vita o il divieto di tortura e schiavitù - non possono essere sospesi in nessuna circostanza. Il principio guida cui tutti gli Stati dovrebbero attenersi è quello di adottare ogni possibile misura per la protezione della salute e della sicurezza di tutte le persone private della libertà personale nel rispetto prioritario della dignità umana. Anche per il Cpt il ricorso a misure alternative alla detenzione (quali le alternative alla custodia cautelare, la commutazione della pena, la liberazione condizionale, la messa alla prova e la detenzione domiciliare) è prioritario rispetto ad altri interventi, soprattutto in situazioni di sovraffollamento. Infine, è rimarcata la necessità di uno screening preventivo dei detenuti e la compensazione di ogni restrizione ai contatti con il mondo esterno, inclusi i colloqui visivi, con un accesso maggiore a diverse forme di comunicazione (come il telefono o Voce tramite protocollo internet o VoIP). Prevenzione, cura, diminuzione dei numeri. Queste le indicazioni date agli Stati - Nel Regno Unito, il Governo ha previsto, a inizio aprile, alcune misure per il rilascio, temporaneo, mediate l’impiego del braccialetto elettronico, dei detenuti a basso rischio, che hanno già scontato almeno la metà della pena detentiva. Non sono, invece, interessati dal provvedimento i reclusi ad alto rischio, cioè chi è stato condannato per reati di violenza, violenza sessuale o che rappresenta un pericolo per i minori o per la sicurezza nazionale, né chi ha commesso reati legati al Covid-19. Non è rilasciato neanche chi presenta sintomi da coronavirus o chi non è in possesso di un alloggio o di supporto sanitario. Le misure sono, tuttavia, drammaticamente inefficaci: a beneficiarne dovrebbero essere circa 4000 detenuti, cioè il 5% della popolazione carceraria nel Regno Unito (a dicembre 2019 era di 83.000 persone distribuite in modo disomogeneo nei 117 istituti detentivi). “Sarebbe indispensabile avere un detenuto per cella e quindi rilasciarne almeno tra i 10.000 e i 15.000”, precisa Richard Garside, direttore del Centre for Crime and Justice Studies. Il programma per il rilascio anticipato è stato sospeso dopo che 6 persone sono state liberate per un errore ammnistrativo. In Francia, 83 detenuti e 204 agenti penitenziari sono risultati positivi al Covid-19. Invece, 433 detenuti e 465 agenti hanno manifestato sintomi riconducibili al virus ma non sono ancora stati sottoposti al test. Il Governo ha disposto la liberazione anticipata dei detenuti che erano a soli 2 mesi dalla fine della loro pena, dei detenuti con problemi di salute e di quelli in custodia cautelare. In Svizzera, le autorità bernesi hanno concesso gli arresti domiciliari a 27 detenuti, appartenenti a categorie a rischio, che si trovavano in un regime di carcere aperto o di semidetenzione e ha rinunciato all’ingresso in carcere nel caso di condanna a pena inferiore a 30 giorni. In Italia, complicato è tenere traccia dei numeri dell’emergenza, eppure carcere e coronavirus devono essere letti anche attraverso i loro numeri. Il bollettino del Garante nazionale del 28 aprile conta 53.345 detenuti a fronte di una capienza pari a 46.731 posti; la popolazione carceraria è diminuita di circa 8000 detenuti dal 1° marzo. Quasi 3000 persone stanno proseguendo l’esecuzione della pena ai domiciliari e di questi sono circa 700 i detenuti a cui è stato applicato il braccialetto elettronico. Il dato del sovraffollamento non è l’unico significativo. A questo deve essere aggiunto l’elemento dello spazio pro-capite che deve essere garantito a ciascun detenuto per non violare l’art.3 Cedu: tre metri quadri. È inevitabile che in caso di positività di un detenuto sia difficile isolare i contagiati ai sensi dell’art. 33 dell’ordinamento penitenziario. Nelle attuali condizioni delle carceri non è possibile assicurare un’adeguata prevenzione di contagi da coronavirus: distanza di sicurezza, igiene personale, sanificazione dell’ambiente. Sono tuttora carenti i dispositivi di protezione individuale. Intanto, i numeri del contagio sono in veloce ascesa, al momento si contano circa 150 detenuti contagiati, più di 200 positività tra agenti e operatori. La situazione è estremamente variabile nelle diverse Regioni, al 22 aprile viene denunciata la realtà del carcere di Verona dove i positivi sono 29 detenuti, 20 agenti, 2 medici e 1 infermiere. Focolai anche alle Vallette di Torino e a S. Maria C.V, a Brindisi il virus è entrato per mezzo di un nuovo arresto negativo alla tenda-triage ma poi aggravatosi. La maggior parte dei positivi è asintomatica. E la totale assenza di uno screening della popolazione carceraria porta a disistimare le reali dimensioni del fenomeno. Pur se appare diversamente, il carcere è una realtà movimentata: personale penitenziario, amministrativo e sanitario, cappellani, volontari, avvocati, magistrati, parenti, garanti. Le mura del carcere possono ritardare ma non impedire la diffusione del virus. Le risposte, giudiziarie e governative, per fronteggiare l’emergenza non sono state lineari e spesso poco efficaci per una reale riduzione della popolazione ristretta. Parte della magistratura ha dimostrato di gestire la pandemia in modo coerente con le raccomandazioni internazionali. Il primo intervento è stato del Procuratore generale presso la Corte di cassazione che ha invitato a interpretare gli strumenti normativi alla luce dell’emergenza sanitaria in un’ottica di valorizzazione della malattia da Covid-19 come presupposto interpretativo all’applicazione delle misure. Se la maggior parte della magistratura di sorveglianza ha negato la sospensione della detenzione, non sono mancati provvedimenti - illuminati - di accoglimento. La situazione emergenziale è stata fronteggiata attraverso gli strumenti ordinari dell’ordinamento penitenziario, ora per salvaguardare la tutela della salute collettiva, dando massima applicazione possibile a misure alternative alla detenzione, in presenza ovviamente dei presupposti di legge, così da alleviare la situazione di sovraffollamento e garantire all’interno degli istituti l’adozione delle misure necessarie per prevenire la diffusione del contagio; ora in un’ottica di tutela della salute individuale, garantendo l’immediata fuoriuscita dal carcere di detenuti più esposti alle conseguenze del virus per età e per le patologie accertate (tra cui quelle relative ad alcuni detenuti in 41 bis). Il Governo è intervenuto con il d.l. Cura Italia (convertito in legge il 24 aprile) con misure di chiusura del carcere all’esterno e di timida apertura per i detenuti disponendo la sospensione dei colloqui in persona prevedendo, ove possibile, la prosecuzione degli stessi tramite modalità telematica, autorizzando la sospensione della concessione di permessi premio e il regime di semilibertà, nulla prevedendo riguardo il regime di lavoro esterno che risulta di fatto sospeso. È stata prevista la detenzione domiciliare speciale rivolta a quanti devono scontare un residuo di pena tra 6 e 18 mesi, a patto che siano dotati di braccialetti elettronici, al momento non disponibili, rischiando di limitarne eccessivamente l’applicabilità. Sono state previste licenze straordinarie per i semiliberi. Tutte misure dalla scarsa capacità deflattiva. Poco aggiunge, sotto questo profilo, il Dpcm 26 aprile 2020, che, prescrivendo l’isolamento per i nuovi ingressi che siano sintomatici, pone raccomandazioni tese a valutare la possibilità di misure alternative di detenzione domiciliare per i nuovi ingressi sintomatici e riguardo ai permessi e semilibertà spinge per limitarne l’utilizzo in modo da evitare l’uscita e il rientro dalle carceri, preferendo misure alternative di detenzione domiciliare. Parole quali indulto e amnistia non sono state pronunciate, con la sola eccezione del Portogallo in cui è stato adottato un indulto, unitamente ad altre misure volte a ridurre il numero dei detenuti. La pandemia avrebbe potuto costituire un’occasione, per ripensare a nuovi mondi penitenziari, per inventarsi politiche veramente orientate alla rieducazione della pena e alla tutela della dignità dei detenuti. Il carcere ha bisogno di cura. Sempre. Governo, sfiducia a Bonafede? Renzi la evoca (ma non l’annuncia) di Maria Teresa Meli Corriere della Sera, 19 maggio 2020 Oggi al Senato il voto sulle mozioni di centrodestra e Bonino contro il Guardasigilli, Italia viva decisiva. Il leader ai suoi: ditemi che cosa ne pensate di lui. Martedì al Senato sarà il giorno della sfiducia ad Alfonso Bonafede. Anzi, delle sfiducie, perché oltre alla mozione presentata dal centrodestra c’è quella sottoscritta da Emma Bonino e firmata anche da alcuni esponenti di Forza Italia e da Matteo Richetti, che mesi fa ha lasciato il Pd per aderire ad Azione, il movimento di Carlo Calenda. Sulla carta i numeri, come sempre a Palazzo Madama, sono ballerini. La maggioranza ha 151 voti certi in difesa del ministro della Giustizia. E Vito Crimi lunedì ha ammonito le forze che sostengono l’esecutivo: “Chi pensa di strumentalizzare la sfiducia se ne assumerà le conseguenze”. Ma Pier Ferdinando Casini, che finora ha sempre votato a sostegno del governo, ha fatto sapere che deciderà come orientarsi dopo aver sentito il discorso di Bonafede. L’opposizione conta su 142 senatori. Poi ci sono tre incerti del gruppo misto e sei senatori a vita. In mezzo i 17 parlamentari di Italia viva che decideranno il da farsi solo dopo aver ascoltato il Guardasigilli. Il loro voto, dunque, potrebbe rivelarsi determinante. E Matteo Renzi, che parlerà nell’aula di Palazzo Madama per il suo gruppo, non ha ancora sciolto la riserva. Tutto è formalmente demandato a una riunione dei parlamentari di Iv, che si svolgerà dopo il discorso di Bonafede. Ma in realtà l’ex premier ha già preso una decisione, anche se lunedì ha lanciato un sondaggio online sulla sfiducia tra gli iscritti e i simpatizzanti e domenica sera ha fatto filtrare la notizia che Italia viva potrebbe votare la mozione di Bonino. È chiaro che se il partito di Renzi votasse la sfiducia, anche nel caso in cui il Guardasigilli dovesse farcela, si aprirebbe una crisi di governo. Ma l’ex premier in queste ore non sta vestendo i panni del rottamatore. Piuttosto, si è calato in una parte per lui insolita: “Sto facendo il pompiere, perché al gruppo per la maggior parte vorrebbero votare la mozione di Emma, tanto hanno capito che se anche si apre una crisi di governo non si va al voto, checché dica il Pd, ma io sto invitando tutti alla calma”. Il che non significa certo che Renzi abbia mutato opinione sul ministro della Giustizia: “Bonafede è indifendibile - ammette il leader di Italia viva nei colloqui che sta avendo in questi giorni con i suoi - ma dobbiamo renderci conto della situazione. In fondo chi se ne frega di lui, anche se ogni giorno me le strappa di mano, noi con tutti i problemi che ci sono ora in Italia non possiamo mandarlo sotto al Senato. Tanto non preoccupatevi che tra due tre mesi questo governo cade. Per altri motivi...”. Comunque Renzi non vuole vanificare le vittorie che Italia viva ho ottenuto in questa fase: “Diciamoci la verità, Conte nelle ultime ore ci ha dato dei segnali importanti. La cancellazione dell’Irap, che è da sempre una nostra battaglia, la vittoria di Teresa (Bellanova, ndr) sulla regolarizzazione dei migranti, il decreto per anticipare le riaperture, come chiedevo io”. Ma a Conte adesso l’ex premier chiede qualche passo in più: “Sono molto preoccupato per la crisi del lavoro e quindi occorre accelerare sul piano choc che sblocca i cantieri. E poi, se vogliamo restare in tema di giustizia, Bonafede nel suo discorso deve prendersi l’impegno di ridiscutere la prescrizione”. E da quello che filtra dalla maggioranza sia il Partito democratico che il premier stanno sollecitando il Guardasigilli in questo senso, perché in Aula dica qualcosa sull’argomento. Quanto al resto pare di capire che Renzi stia aspettando un segnale chiaro e pubblico da Conte (un nuovo incontro con Iv? Una dichiarazione?). Quello che è certo è che domenica da Italia viva filtrava la notizia di un imminente colloquio tra Maria Elena Boschi e il capo di gabinetto del premier. Ma poi lunedì le stesse fonti, nel pomeriggio, smentivano l’incontro. Il pasticciaccio di via Arenula fa tremare la maggioranza di Francesco Damato Il Dubbio, 19 maggio 2020 Complice addirittura la buonanima di Enzo Tortora, nel 32. mo anniversario della morte, si è terribilmente complicato il pasticciaccio di via Arenula. Di cui il guardasigilli grillino Alfonso Bonafede può essere visto, secondo i gusti o le opinioni, come vittima o colpevole e quindi, rispettivamente, da assolvere o da sfiduciare mercoledì prossimo nell’aula del Senato. Dove all’originaria mozione del centrodestra - una volta tanto, e a sorpresa, ricompattatosi ai vertici per la deroga decisa, sembra personalmente da Silvio Berlusconi in Provenza, alla contrarietà per principio alla sfiducia individuale- se n’è aggiunta una della radicale ed ultraeuropeista Emma Bonino. Che, firmata anche da alcuni forzisti evidentemente dissidenti rispetto all’adesione a quella dei leghisti e dei fratelli d’Italia, è stata intestata dalla stessa Bonino alla memoria appunto di Tortora, protagonista della vicenda più emblematica di una cattiva amministrazione della giustizia in Italia. Il popolare conduttore televisivo, accusato di camorra, riuscì ad essere alla fine assolto ma rimettendoci la salute, e la vita stessa. Sotto la spinta del suo dramma si svolse nel 1987 un referendum, stravinto dai promotori ma poi contraddetto in gran parte da un intervento legislativo, contro le norme protettive dei magistrati in ordine alla responsabilità civile per i loro errori. La mozione della Bonino è stata studiata apposta - lamentano e temono in modo speciale nel Pd- per tentare nella maggioranza i renziani, da sempre in polemica con Bonafede per non aver voluto condizionare ad una riforma concreta e operante del processo penale quella della prescrizione, che dal 1° gennaio scorso cessa con la sentenza di primo grado. Oltre o più ancora della mozione della senatrice Bonino e di quella del centrodestra, ad agitare le acque, volente o nolente, è stata tuttavia una intervista a Repubblica della presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati. Che ha lamentata la “opacità” dell’inedito scontro consumatosi, sia pure a distanza, tra un ministro della Giustizia e un consigliere superiore della magistratura. Quest’ultimo è il notissimo magistrato d’accusa del processo sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia della stagione stragista Nino Di Matteo. Il consigliere nel pieno delle polemiche sulle scarcerazioni di centinaia di detenuti di mafia e simili disposte durante l’emergenza virale dai magistrati competenti per ragioni di salute e rischio di contagio, che avevano investito - secondo me - a torto il guardasigilli, difesosi poi - sempre secondo me - a torto, pure lui, con un decreto legge dichiaratamente finalizzato a far recedere i magistrati dalle loro prime deliberazioni, ha contestato a Bonafede una vicenda di due anni fa. Risale infatti a giugno del 2018 un’offerta fatta dal guardasigilli ancora fresco di nomina a Nino Di Matteo, ancora in servizio come magistrato e molto popolare fra i grillini, la guida del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, salvo ripensarci dopo una notte a favore di un altro magistrato. Che è stato dimesso di recente proprio per le polemiche sulle scarcerazioni. Disgraziatamente per Bonafede, che si è sentito offeso dalle insinuazioni alle quali si è quanto meno prestata la sortita di Di Matteo nella lettura fattane dagli avversari politici o critici del guardasigilli, quel ripensamento di due anni fa coincise con le proteste levatesi nelle carceri fra i detenuti di mafia al solo arrivo delle voci che davano incombente lo stesso Di Maio, ben prima quindi che egli ricevesse l’offerta dal ministro. Probabilmente nell’avvertire la “opacità”, ripeto, di tutta la vicenda e nel sollecitare un pronunciamento del Consiglio Superiore della Magistratura in veste anche di ex esponente di quel consesso, la presidente del Senato ha voluto riferirsi alla posizione di Di Matteo. Che è stato del resto pubblicamente criticato per il suo scontro col ministro da autorevoli magistrati, fra i quali l’ex capo della Procura della Repubblica di Torino Armando Spataro, non certamente sospettabile di lassismo giudiziario o di indulgenza verso il governo di turno nell’espletamento delle proprie funzioni, quando e dove le svolgeva. Tuttavia, pur interpretabile in questo modo, cioè più a favore che contro il ministro della Giustizia, l’intervento della presidente del Senato ha obiettivamente contribuito ad aumentare l’esposizione politica del passaggio parlamentare che attende il guardasigilli. Il cui ruolo anche di capo della delegazione grillina al governo, dopo la sostanziale rimozione di Luigi Di Maio successiva alle sue dimissioni da capo politico del movimento, espone la maggioranza ad un supplemento di rischi se essa non dovesse reggere allo scontro con le opposizioni. O, se preferite, se i renziani dovessero davvero farsi tentare dalla mozione della senatrice Bonino, che creerebbe loro minori problemi, o imbarazzi, della mozione del centrodestra. Crimi avverte Renzi: “La sfiducia a Bonafede avrà delle conseguenze” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 19 maggio 2020 Il capo politico blinda il Ministro della Giustizia. “Le questioni che riguardano la maggioranza si discutono all’interno della maggioranza, quello è il contesto”. Il capo politico del Movimento 5 Stelle, Vito Crimi, ci mette la faccia per difendere il capo delegazione grillino a Palazzo Chigi: Alfonso Bonafede. I pentastellati si sentono sotto scacco degli alleati e provano a uscire allo scoperto per non avere sgradite sorprese mercoledì mattina, quando il Guardasigilli sarà oggetto in Senato di varie mozioni di sfiducia: una del centrodestra e una di +Europa. Italia viva continua a non sciogliere la riserva su come voterà in Aula e non è un caso che il leader M5S scriva una nota subito dopo aver letto l’enews di Matteo Renzi in cui si parla di “numeri ballerini” con una Iv che “potrebbe essere decisiva”. È a quel punto che il capo politico replica stizzito: “Se qualcuno intende strumentalizzare questa mozione di sfiducia delle opposizioni per ottenere altro, si assumerà la responsabilità delle conseguenze. Mi aspetto che la maggioranza voti compatta”. Più che un invito all’unità quello di Crimi si trasforma così in una “contro-minaccia” a quella renziana. In casa Cinquestelle l’irritazione è evidente, anche se tutti sembrano convinti che l’ex premier stia semplicemente bluffando per ottenere qualche poltrona in più e imporre qualche punto programmatico considerato irricevibile dai grillini, come la riforma della riforma Bonafede sulla prescrizione. Ancora più irritante, per alcuni esponenti M5S, la beffa con cui Renzi invita i suoi militanti a fornire suggerimenti sul comportamento da tenere in Aula: “Voi che idea vi siete fatti? Vi leggo con grande attenzione, come sempre”, scrive il leader di Iv, stimolando una sorta di “dibattito dal basso” e virtuale sul modello grillino per anni irriso. E in questo clima, l’azione politica del Guardasigilli, messa sotto la lente d’ingrandimento delle opposizioni, passa in secondo piano. Tutto si riduce a un tiro alla fune per vedere chi riuscirà a tirare giù l’altra squadra, con Bonafede a fare solo da sfondo. Ma alla fine, è convinzione diffusa, nessuno tirerà così tanto da far spezzare la corda. Non lo vogliono i renziani, non lo vogliono ovviamente i grillini e probabilmente non lo vogliono neanche le opposizioni che senza il paravento di Conte sarebbero costretto a metterci la faccia nella complicatissima gestione della “fase 3” dell’emergenza, quella della ripartenza con la retromarcia innestata. Ma anche se certi del “bluff” renziano, i grillini non possono permettersi il lusso di lasciare il “corpo” di Bonafede esposto agli attacchi incrociati. tanto che il presidente del Consiglio decide di rinviare di due giorni l’informativa alle Camere, prevista per oggi, per illustrare il nuovo decreto della presidenza del Consiglio sulla fase 2. Tutto spostato a giovedì, dopo il voto di fiducia al ministro. Una scelta che fa urlare allo scandalo le opposizioni. Ma grillini vogliono lanciare messaggi chiari agli alleati e tirano dritti per la loro strada. Il giormo prima era toccato addirittura al ministro degli Esteri ed ex leader 5S (con ambizioni di ritorno in sella) Luigi Di Maio prendere le difese del compagno di partito in diretta tv. “Ciò che posso dire è che per il ministro parlano le leggi che ha approvato”, ha spiegato, intervistato da Fabio Fazio. “Ha approvato una legge anti-corruzione che ha ricevuto complimenti delle Nazioni Unite e leggi che hanno inasprito i reati per lo scambio politico-mafioso”. Precisazioni apparentemente scontate e banali all’apparenza, ma che parlano parole chiare a un elettorato grillino sempre più confuso e disorientato. Il M5S deve infatti suturare una ferita aperta col proprio popolo, perché le frasi pronunciate dall’ex pm della “trattativa Nino Di Matteo” - e quel conseguente sospetto che Bonafede possa essere stato condizionato da pressioni mafiose per le sue nomine - fanno ancora male per chi ha fatto dell’onestà e della trasparenza un programma politico. Le dimissioni del capo del Dap Francesco Basentini, per la vicenda scarcerazioni, l’addio del capo di gabinetto di Via Arenula Fulvio Baldi, per le intercettazioni con Palamara, sono solo il corollario del dramma pentastellato. Ma i travagli interni non contano. Mercoledì i grillini si aspettano lealtà dagli alleati. Mozione di sfiducia a Bonafede. Della Vedova: “Votate con noi contro il populismo giudiziario” di Liana Milella La Repubblica, 19 maggio 2020 Il segretario di +Europa si rivolge a Renzi. Oggi l’ex ministro Boschi va a palazzo Chigi. Incerto il voto di Italia Viva contro il Guardasigilli. “Il nostro è un no alla politica fallimentare sulla giustizia di Bonafede. Pd e renziani ne traggano le conseguenze”. Il segretario di Più Europa Benedetto Della Vedova spiega a Repubblica.it perché il suo gruppo ha presentato la mozione di sfiducia contro il Guardasigilli di M5S Alfonso Bonafede che sarà discussa mercoledì al Senato con quella del centrodestra. Perché avete battezzato con il nome di Tortora la vostra mozione contro Bonafede? “Per una ricorrenza temporale, perché proprio oggi ricorre l’anniversario della morte di Enzo Tortora. Perché lui è stato ed è l’emblema della battaglia politica e di mobilitazione per una giustizia giusta che renda operative tutte le garanzie costituzionali. Trent’anni fa in ballo c’era la carcerazione preventiva e la responsabilità dei magistrati. Oggi la nostra mozione contesta l’approccio e la politica del ministro Bonafede al di là degli episodi più recenti. Un approccio e una politica disordinata e confusa, improntata al populismo giudiziario, ai processi mediatici più che a quelli condotti nel dibattimento, a un’idea panpenalista e manettara”. Una mozione di Più Europa, cioè dei radicali, anche con Forza Italia? Non è politicamente anomalo? “Più Europa ha anche un background radicale, ma non solo. Trovo importante che su una mozione di stampo garantista e liberale ci sia stata la convergenza anche del gruppo parlamentare al Senato di Forza Italia. Non credo ci sia da stupirsi. Abbiamo scritto la mozione, l’abbiamo inviata, abbiamo avuto un riscontro positivo su un testo limpido. Ma io ringrazio molto Forza Italia perché facciamo un’opposizione diversa, europeista e liberale rispetto a questo governo”. La vostra sfiducia è come quella di Lega e Fdl? Anche questo non è una coincidenza singolare? “Noi siamo da subito e da sempre all’opposizione di Bonafede nel Conte Uno e nel Conte Due. Abbiamo scelto questa posizione con convinzione anche per il Conte Due denunciando la continuità con il Conte Uno soprattutto sui temi della giustizia. Stesso ministro e stessa politica. Stessi decreti sicurezza. Sulla prescrizione siamo scesi in piazza a gennaio, e da allora non è cambiato nulla. Pd e Italia viva hanno accettato che prevalesse la logica populista di Bonafede. Adesso non c’è più la prescrizione e non si vede non solo l’ombra del processo breve, ma neppure di un disegno di legge. E comunque l’abolizione della prescrizione in Italia è uno scempio giuridico”. Quindi il voto con la destra non vi imbarazza? “Il nostro obiettivo è la sfiducia a Bonafede. Siamo stati e siamo all’opposizione. Non c’è nessun imbarazzo. Abbiamo presentato le nostre buone ragioni per la sfiducia a Bonafede. Semmai l’imbarazzo dovranno averlo i senatori del Pd e di Iv, se decideranno di confermare la fiducia al ministro del populismo giudiziario, che non si occupa di carceri, che ha una concezione meramente afflittiva della pena, che ha voluto abolire la prescrizione senza dare altri rimedi, che ha pensato di sospendere i processi in dibattimento sostituendoli con quelli a distanza (poi con una parziale correzione), che non ha nessuna idea di riformare il Csm per sminare la logica correntizia. Se poi a Pd e Iv questo ministro e questa politica della giustizia va bene, anche se il Bonafede del Conte Due è peggiore di quello del Conte Uno, allora l’imbarazzo è tutto loro”. Dica la verità, state dando una mano a Renzi con i numeri per rafforzare la sua polemica contro il governo.... “Guardi, la nostra polemica è con il governo a 360 gradi sull’economia, su Alitalia, sul Mes, sulla gestione della crisi, sulla riapertura a cui stiamo andando del tutto impreparati, senza test, senza tracciamenti, senza App. Non abbiamo problemi a riconoscere le eccezioni in questo quadro desolante, come la regolarizzazione dei migranti”. Ma Renzi allora? “Lui deve scegliere se stare in questo governo, e quindi pensare che questo sia il governo migliore sulla giustizia e più in generale per portare l’Italia fuori dalla palude. Se lo pensano fanno un grosso errore di prospettiva. Sia perché questo non è il governo adatto per affrontare la peggiore crisi mai vista che è davanti a noi e non alle spalle. Sia perché, in termini politici, scegliere l’alleanza che diventa strutturale, come lo è per il Pd, con i populisti significa rinunciare alla costruzione di un’area europeista, liberale e riformatrice arrendendosi all’idea che in Italia o si sta con i populisti oppure con i nazionalisti”. Se cade Bonafede cade tutto il governo però... “Questo è un problema che riguarda M5S. Noi siamo all’opposizione, quindi prima se ne va questo governo e ne arrivare uno migliore, e meglio è. Ma questa mozione per noi rappresenta la sfiducia al singolo ministro e alla sua politica. E non c’è ragione perché debba cadere tutto il governo. A meno che non sia interna ai partiti della maggioranza e al M5S, che come nella Fattoria degli animali hanno fatto la rivoluzione contro la casta e sono diventati molto peggio della casta”. Insomma, cosa vi ha spinto a presentarla? Una forma di presenzialismo al Senato? “È un gesto di coerenza rispetto a quello che abbiamo sempre detto su questo governo e sulla politica della giustizia. E, me lo faccia aggiungere, l’impronta garantista di Più Europa, un partito che ha poco più di due anni, è chiarissima, ma soprattutto la biografia e le lotte sulla giustizia di Emma Bonino sono sotto gli occhi tutti ed è evidente che non c’è alcuna strumentalizzazione, ma la prosecuzione di un impegno decennale per una giustizia giusta”. Ma nel merito cosa rimproverate a Bonafede? Le scarcerazioni dei mafiosi? Però voi radicali siete stati sempre molto garantiresti con i malati.... “A Bonafede io rimprovero lo stato delle carceri. Non è che prima fossero meglio, ma in due anni lui non ha fatto nulla di positivo, perché la logica del populismo giudiziario è ‘marcite in galera’. Quindi col Covid ci si è trovati del tutto impreparati. Poi c’è un tema di separazione dei poteri, per cui è la magistratura che decide le scarcerazioni e non il potere politico. Ma lui ha gestito in modo confuso e contraddittorio anche la fase del Covid”. E su Di Matteo? State con il pm del processo Trattativa? “Su Di Matteo, in questa vicenda, per quel che mi riguarda, non stiamo con nessuno. È una pessima prova sia del ministro che di un membro del Csm, e ha dato luogo a uno scontro istituzionale che finisce solo per andare a danno dei detenuti e dello stato delle carceri di cui si discute non in termini di civiltà, ma solo di strumentalizzazione. Per noi mercoledì c’è in discussione il ministro e la sua politica sulla giustizia. Con o senza Bonafede continueremo a fare opposizione”. Incapace, dunque resta di Salvatore Merlo Il Foglio, 19 maggio 2020 Bonafede come Alfano. Il ministro che non molla la poltrona perché sa che il governo è troppo debole per cacciarlo. È il ministro che non molla la poltrona perché sa che il governo è troppo debole per cacciarlo. E infatti ogni minuto che passa senza che Alfonso Bonafede dia le dimissioni, in attesa della mozione di sfiducia di domani, consegna lui e il Movimento cinque stelle all’eternità di foresta della politica italiana, all’eterno ritorno dell’uguale. Perché proprio il metodo Bonafede che i grillini stanno sperimentando in questi giorni è quello antico del ministro esautorato ma salvato, dell’impresentabile ma blindato anche alle mozioni di sfiducia, il ministro inetto di cui tutti ridono, compresi gli amici e gli alleati, il ministro che tutti considerano inadeguato e che pure non si può toccare perché, come ben dice Pier Ferdinando Casini, “non si può mica aprire una crisi di governo”. Ed ecco dunque che riemerge un cliché della politica di sempre, nuova e vecchissima storia, la stessa di Scajola e di Alfano, in tempi diversissimi, la stessa degli ormai preistorici ministri della Prima Repubblica. Abbastanza, insomma, da ritenere che l’equivoco grillino sia definitivamente entrato nel solito gioco italiano di paraventi e di furbacchioni: i Cinque stelle, con il loro esercito di ex emarginati fattisi parlamentari e ministri, quella classe dirigente reclutata da Grillo e Casaleggio con i metodi bizzarri e sempliciotti che abbiamo imparato a conoscere, hanno un pacchetto azionario che può mandare all’aria tutto il progetto politico del governo rossogiallo. Così domani l’opposizione cercherà di incunearsi come può in questa vicenda, ma senza troppo crederci. La Lega pensa di ritirare la propria mozione di sfiducia e di convergere su quella firmata da Emma Bonino che già ospita tre senatori leghisti, mentre Giorgia Meloni invece inarca le sopracciglia perché non ci crede affatto che Matteo Renzi alla fine sarà conseguente con la minaccia di votare contro Bonafede, in quanto ci sono - appunto - storie e paradigmi che in politica sono destinati a ripetersi nel tempo. E quello dell’inadeguato-salvato è precisamente un topos letterario, un luogo comune della cronaca politica italiana. Compresa la contorta difesa dell’impunito, tutta costruita sull’imbarazzo, sul balbettio e sulla contraddizione. Basta infatti ascoltare i (mal)umori del Pd per capire. “Sostituire Bonafede? Ma magari. Ottima idea”, si faceva sfuggire, già mesi fa, Alfredo Bazoli, il capogruppo del Pd in commissione Giustizia. Mentre il vicepresidente della commissione, Franco Vazio, sempre del Pd, gli rispondeva così: “Ma no, dobbiamo tenercelo. Chissà chi verrebbe dopo. Guarda che al peggio non c’è mai fine”. E insomma lo attacco ma lo difendo, non mi piace ma lo tengo lì, è un incompetente ma non gli voto la sfiducia. Bonafede poteva dimettersi, certo, e qualcuno ci aveva anche provato a suggerirglielo, come Graziano Delrio. Le dimissioni, date prima che ti ci costringano, infatti nobilitano e sono eleganza. Ma per questo sono anche un’attività ben poco praticata. Figurarsi dai Cinque stelle. Figurarsi da Bonafede, che esercita la sua attività di ministro della Giustizia con lo stesso spirito di quello che ha vinto incredibilmente la lotteria e quindi custodisce il fortunato biglietto in un doppio fondo cucito nelle mutande. Quando gli ricapita? Eppure Emma Bonino gli ha costruito una mozione di sfiducia abbastanza affilata da potergli anche scucire quei mutandoni di latta. Bonafede è il ministro che, sospeso tra ignoranza e fanatismo, ha concentrato “la sua azione contro i fondamentali princìpi della civiltà giuridica”: dalla violazione del principio di ragionevole durata del processo allo svilimento delle impugnazioni, dalla negazione del fine rieducativo della pena all’abrogazione di fatto della presunzione di non colpevolezza, dalla rivolta delle carceri alla riforma inquisitoria delle intercettazioni. Ed è inoltre il ministro che annunciava - ma non presentava - una riforma del sistema elettorale del Csm per sottrarlo allo strapotere delle correnti proprio mentre il suo stesso ministero diventava oggetto di scontri e polemiche legate all’influenza delle correnti della magistratura associata nelle nomine di magistrati fuori ruolo, una storia che appena pochi giorni fa ha portato alle dimissioni del suo capo di gabinetto. Ma in Italia, si sa, si dimettono soltanto gli innocenti o i capri espiatori (non solo il capo di gabinetto ma anche quello del Dap) e invece resistono, con le unghie e con i denti, i colpevoli e soprattutto i furbacchioni, che sono una sottomarca degli intelligenti. Bonafede è per la giustizia come il generale Cadorna che, dopo Caporetto, scaricò la responsabilità del suo tragico comando sui soldati (morti): “La viltà dei nostri reparti ha permesso al nemico”. E come ben si vede è tutto già successo, e i grillini semplicemente si adattano, reiterano, imitano e ci ricordano ogni giorno come tutte le rivoluzioni italiane finiscano allo stesso modo: a tavola. Quer pasticciaccio brutto de Via Arenula di Alfredo Ferrante linkiesta.it, 19 maggio 2020 La maretta ai piani alti del Ministero della Giustizia non ha solo implicazioni di natura politica ma deve spingere a valutare le ricadute in termini di funzionamento della macchina dello Stato. C’è decisamente maretta ai piani alti di Via Arenula a Roma, nelle stanze che contano al Ministero della Giustizia: le vicende che, da ultimo, hanno interessato alcune nomine nel ministero meritano un’analisi dal punto di vista istituzionale e di funzionamento della macchina. La scintilla nasce, come noto, dalla scarcerazione e messa ai domiciliari lo scorso mese di aprile di alcuni detenuti sino a quel momento in regime di carcere duro (cosiddetto 41bis) da parte dei giudici incaricati di valutarne lo stato di salute. La scarcerazione, è stato sostenuto, seguiva la mancata risposta da parte del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) del ministero circa l’individuazione di strutture alternative e sorvegliate cui destinare i detenuti per mafia in 41-bis. Si capirà se tale esito sia stato conforme alla legge o se fosse stato opportuno, invece, disporre un trasferimento in una struttura sanitaria sorvegliata. Sta di fatto che, anche a seguito delle vivaci polemiche sollevate dalla trasmissione “Non è l’arena” su La7, il 2 maggio il capo del Dap Francesco Basentini - al quale erano state già rivolte accuse per la cattiva gestione delle rivolte carcerarie di qualche settimane prima - si dimette, sostituito da Dino Petralia. Nel corso della successiva puntata del 3 maggio di “Non è l’arena”, nel pieno della bufera mediatica, un nuovo scoop: telefona in trasmissione Nino di Matteo, notissimo magistrato oggi componente del Consiglio Superiore della Magistratura, che racconta - riferendo, in maniera assai poco ortodossa, interlocuzioni riservate - che nel 2018 gli era stato proposto dall’allora neo Ministro Alfonso Bonafede di dirigere il Dap. Sostiene, inoltre, Di Matteo che alcune informative avevano dato notizia dell’inquietudine di capimafia rispetto alla sua possibile nomina e che il Ministro aveva pochi giorni dopo cambiato idea, offrendogli il posto che fu di Falcone presso il Dipartimento degli Affari Penali. Interviene in trasmissione, pochi minuti dopo, lo stesso Ministro della Giustizia che si dice esterrefatto di quanto dichiarato e nega che la sua scelta possa essere stata condizionata da quelle informative, cosa che ripeterà in Parlamento l’11 maggio. Insomma, un vero e proprio cortocircuito fra poteri dello Stato che, aldilà delle polemiche di natura politica, che qui non interessano, impongono qualche riflessione. Non sono infatti mancate, anche in questo caso, le polemiche avverso la burocrazia, cui addossare il possibile disguido che ha impedito di dare velocemente risposta ai quesiti dei giudici di sorveglianza, rendendo più difficile il lavoro dei magistrati e facilitando quanto accaduto: i soliti burocrati, insomma. Posto che i fatti saranno acclarati in dettaglio da chi di dovere, forse sorprenderà qualcuno sapere che l’ex capo del Dap era, in realtà, un magistrato. Così come l’attuale capo del Dap. E così come la stragrande maggioranza di coloro i quali, posti fuori ruolo per la durata del loro incarico, ricoprono posizioni dirigenziali all’interno del Ministero della Giustizia, occupandosi della gestione amministrativa degli uffici e delle strutture assegnate. È lecita, allora, una domanda: perché affidare strutture amministrative ad un magistrato? L’esempio del Dap è calzante: su quella struttura grava l’impegno di gestire l’enorme complessità - amministrativa, contabile, di personale - delle carceri Italiane, un gravame da far tremare i polsi e che poco ha a che fare, è del tutto evidente, con la funzione giurisdizionale. Tale funzione è, invece, riservata dalla Costituzione ai giudici, soggetti solo alla legge. Ed è un bene che sia così: nessun economista, sociologo o amministratore pubblico si sognerebbe di amministrare giustizia in un tribunale o di esercitare le funzioni di pubblico ministero. Una bizzarria che la nostra Carta e la legge non consentono. E allora perché vale il contrario? Sia chiaro: qui nessuno intende attaccare i giudici. Il loro lavoro è prezioso ed indispensabile per il corretto svolgersi della dinamica sociale, ed è notorio che in molti sono costretti a compiere il loro dovere in regime di protezione, a causa delle minacce ricevute e del pericolo di vita i cui incorrono per svolgere la loro attività. I nomi di Falcone e Borsellino, fra i tanti, troppi magistrati caduti, ne sono testimoni. Qui si pone un tema più generale che attiene al corretto funzionamento delle istituzioni, per il quale dovrebbe sempre valere il semplice principio per cui a ciascuno spetti di svolgere il lavoro per cui sia competente, quello per il quale ha studiato e si è formato. Senza sollevare in alcun modo casi personali, è ragionevole immaginare che, dal punto di vista delle professionalità possedute, un dirigente amministrativo possa ottenere risultati dignitosi nel gestire strutture che, per essere governate, abbisognano senza meno di rudimenti in materia di diritto amministrativo, contabilità di Stato, management pubblico e, perché no, capacità relazionali e di squadra. A meno, naturalmente, di ritenere che le normali regole di specializzazione professionale non si applichino, quasi per innata disposizione, ai magistrati. Non casualmente Sabino Cassese ha recentemente parlato di “magistratizzazione” del Ministero della Giustizia, aggiungendo che “i magistrati sono scelti per giudicare ma vengono assegnati a compiti amministrativi per cui non sono idonei perché non addestrati, né specializzati a questa funzione”. Se si aggiunge, en passant, l’aspetto tutt’altro che banale della singolare commistione fra potere esecutivo e giudiziario, appare chiaro che ci si trova di fronte ad una anomalia assoluta che dovrebbe preoccupare politica e pubbliche opinioni, sia per l’inusuale assegnazione a funzioni amministrative, sia per la contestuale scopertura di posizioni giudicanti nel sistema giudiziario. Il fenomeno delle carriere parallele per i magistrati destinati a funzioni extragiudiziarie appare, infatti, alla luce delle scoperture di organico e della notoria lunghezza dei tempi dei processi, un tema che dovrebbe entrare nell’agenda di ogni Governo, quale che sia la maggioranza che lo sostiene. In questo quadro, non può allora non provocare sconcerto leggere le intercettazioni delle conversazioni fra Luca Palamara, ex pm sotto inchiesta a Perugia per corruzione, e Fulvio Baldi, capo di Gabinetto del Ministro Bonafede, recentemente dimessosi (anche Baldi, naturalmente, è un giudice): dalla lettura degli scambi, che non hanno naturalmente alcuna rilevanza penale, pare emergere quello che ha tutto l’aspetto di un vero e proprio mercato delle vacche delle nomine, in base al quale si dispone di posizioni da dirigente e dirigente generale nel Ministero della Giustizia, da “assegnare” sulla base dell’appartenenza correntizia in spregio al principio per cui nelle pubbliche amministrazioni il conferimento degli incarichi dirigenziali avviene sulla base di interpelli aperti e competitivi, a seguito dei quali affidare la posizione alla persona più adatta. Sperabilmente. Una patologia che non deve riferirsi alla fisiologia, evidentemente: la quale, nondimeno, rappresenta una vera e propria invasione di campo che riemerge periodicamente in tutta la sua attualità e che, seppur limitata nei numeri rispetto all’insieme dei giudici in servizio oggi in Italia, deve destare l’attenzione di chiunque abbia a cuore il corretto funzionamento della macchina dello Stato. Poniz: “La giustizia non si governa inseguendo la popolarità” di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 19 maggio 2020 Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati risponde alle proposte del vice segretario Pd Orlando dicendo sì alla riforma del Csm ma no a far valutare le toghe anche dagli avvocati: è un problema di autonomia non di autoreferenzialità Luca Poniz, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, domenica in un’intervista al manifesto il vice segretario del Pd Andrea Orlando ha accusato la magistratura associata di non essere stata capace di una riflessione seria sul caso Palamara e i fatti messi in luce dall’inchiesta di Perugia... Deve essersi distratto, mi meravigliano molto questi rilievi. L’onorevole Orlando non si è accorto che l’Anm ha chiesto subito le dimissioni dei magistrati del Csm coinvolti, dimissioni arrivate; che abbiamo sviluppato le nostre riflessioni in una lunga serie di incontri che hanno portato tra le altre cose all’auto riforma del nostro codice etico. Orlando deve essersi perso anche il nostro congresso, e le tante riflessioni dedicate ai molti temi oggi riemersi, che è stato in buona parte dedicato a questo. Eppure l’abbiamo fatto a Genova e lui è ligure. Dunque è d’accordo ad anticipare la riforma del Csm? Non solo sono d’accordo, ma è una riforma che l’Anm chiede da tempo, da ben prima dall’emersione un anno fa delle vicende su cui indaga Perugia. Ok anche a una nuova legge elettorale per i togati che limiti il potere delle correnti? Vorrei conoscere con precisione la proposta. L’obiettivo è condivisibile, ma non si può raggiungere solo con i meccanismi. Non c’è un sistema elettorale che risolve la patologia delle correnti che è innanzitutto culturale. E gli accordi tra correnti sugli incarichi, le cosiddette “nomine a pacchetto”? Sono un problema serissimo, messo in luce anche dalle recenti vicende. Le intercettazioni restituiscono relazioni improprie di gruppi di magistrati, credo più di quanti non si pensi, interessati a fare carriera e disposti a tutto per farlo. Aggiungo che va fatta una riflessione anche sui magistrati fuori ruolo che pongono due tipi di difficoltà. Prima perché vengono selezionati sulla base di un rapporto fiduciario con il mondo politico e dopo per il loro rientro nell’organico e in incarichi molto ambiti, che talvolta le relazioni consentono di ottenere più facilmente. Magistratura indipendente, la corrente di destra che non partecipa al governo dell’Anm, vi accusa di non dire più niente sull’inchiesta di Perugia da quando sono uscite intercettazioni sulle toghe di sinistra... Respingo la critica. Non abbiamo poteri disciplinari, ma già da 15 giorni ho chiesto al procuratore di Perugia l’intera serie degli atti dell’inchiesta per mettere al lavoro i nostri probiviri. Dobbiamo valutare tutti i fatti, non solo i frammenti e gli scampoli che vengono pubblicati. Aggiungo che la richiesta degli atti l’avevamo fatta già molti mesi fa ma tutti, dalla procura al ministro al Csm, ce li avevano negati. Processo penale. L’Anm è favorevole a una robusta depenalizzazione? E a incentivare i riti alternativi? Diciamo di sì, ma serve di più. Occorre riscrivere il codice penale del 1930 nella direzione di un diritto penale minimo, togliersi di dosso l’idea che la società possa essere governata dal codice penale. Il rito accusatorio regge solo se si arriva a processo in poche e necessarie circostanze. Il rito abbreviato non è un abominio ma un patto tra ordinamento e imputato. È stato un grave errore del governo 5 Stelle-Lega escluderlo proprio dove funzionava di più, per i reati con la pena più alta. Allora ci fu spiegato che la decisione serviva a mandare un messaggio. Ma la giustizia non si governa inseguendo la popolarità del momento. Il Pd propone che gli avvocati entrino con più peso nelle valutazioni di professionalità dei magistrati. Lo accettereste? Gli avvocati partecipano già alle sedute dei consigli giudiziari. Nella mia esperienza lo fanno in un modo piuttosto timido. Anche quando possono interloquire con le scelte e i progetti organizzativi delle procure non sembrano essere particolarmente interessati. Su una cosa la magistratura è invece molto ferma: attenzione alle valutazioni di professionalità nelle quali pesino di più gli avvocati. Affidare alle controparti processuali i meccanismi di controllo pone dei problemi molto importanti, di cui bisogna avere piena consapevolezza: problemi che hanno a che fare con l’autonomia e l’indipendenza del magistrato non con la presunta autoreferenzialità. Domani si vota la sfiducia al ministro della giustizia… La interrompo, su questo non posso e non voglio dire niente. Può dirmi che ne pensa di tutta la vicenda delle scarcerazioni... Guardi, la magistratura di sorveglianza svolge una funzione essenziale, le sue decisioni non devono essere lette strumentalmente in funzione della lotta a questo o a quel fenomeno criminale. Il magistrato deve decidere sulla base di parametri che non hanno niente a che vedere con la mera esigenza securitaria. Nel nostro ordinamento non ci sono zone d’ombra dove, magari per le caratteristiche di un imputato o di detenuto, ci si dimentica dell’art. 27 della Costituzione. I magistrati scoprono la gogna mediatica di Paolo Corni Il Riformista, 19 maggio 2020 Travolti dalla pubblicazione di colloqui privati con Luca Palamara, i giudici gridano alla violenza dell’essere intercettati e sputtanati. Nella mitologia greca era la nemesi. Dante la definiva la legge del contrappasso. Nei tempi moderni è il boomerang. È quanto sta accadendo in queste ore alle “toghe rosse” di Magistratura democratica, travolte dalla pubblicazione dei colloqui di alcuni autorevoli magistrati progressisti con l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. I colloqui, contenuti nel fascicolo di Perugia aperto a carico di Palamara per il reato di corruzione, non hanno nulla di penalmente rilevante. Rischiano, però, di mettere in grande imbarazzo i magistrati di sinistra che lo scorso anno, sulla base di altre intercettazioni contenute nel medesimo fascicolo e dove i protagonisti erano i colleghi della corrente di destra di Magistratura indipendente, evocarono lo spettro della P2 di Licio Gelli. “È in atto un attacco concentrico di una parte della stampa e di una parte della magistratura” scrive in una nota il Coordinamento di Area, il raggruppamento di cui fa parte Md. “Si riportano - prosegue - stralci di atti giudiziari che rappresentano segmenti di fatti che vengono poi completati e chiosati ad arte, al fine di accreditare un malcostume diffuso a tutti i livelli della magistratura: una notte oscura nella quale tutti gatti sono grigi”. “Manovrando il linguaggio con sapienza, si riescono a costruire infinite “verità” e oggi si cerca di confondere quella vicenda, pericolosa per le istituzioni, con atteggiamenti e comportamenti dei nostri odierni rappresentanti, che nulla hanno a che vedere con il corretto esercizio della loro attività istituzionale”, continua la nota di Area. “Non siamo disposti a tollerare operazioni mediatiche preordinate a confondere le responsabilità per giungere ad una generale assoluzione che lasci tutto come sempre è stato” conclude la nota. Sul fronte dell’Anm, invece, la giunta esecutiva ha fatto sapere di aver chiesto tutti gli atti del fascicolo “Palamara” alla Procura di Perugia al fine di verificare l’eventuale sussistenza di violazioni di natura “etica” e/o “deontologica” da parte degli iscritti coinvolti nei colloqui riportata. Il caso più rilevante riguarda quello del giudice Angelo Renna di Unicost, attuale componente della giunta Anm, che lo scorso anno definì la vicenda Palamara una “Caporetto per la magistratura”. “Non mi muovo senza che tu mi dica cosa fare, sei certo molto più bravo di me”, scriveva Renna, che voleva diventare aggiunto a Milano, a Palamara. “Grazie, quasi mi vergogno ma mi emoziono” la successiva risposta di Renna all’interessamento di Palamara. Esclusi i profili penali, l’attenzione delle toghe si concentra ora sulle violazioni deontologiche e disciplinari. Massimo Vaccari, giudice del Tribunale di Verona, ricorda a tal proposito che Giuseppe Cascini è componente della sezione disciplinare che l’anno scorso condannò un magistrato che, fra l’altro, aveva richiesto (come parrebbe abbia fatto l’ex aggiunto di Roma) per alcuni componenti della sua famiglia dei “biglietti gratuiti per assistere alle partite di una squadra di calcio”. Nella motivazione del provvedimento la disciplinare aveva evidenziato come “anche a causa della rilevanza mediatica del procedimento, gli episodi contestati sono divenuti di comune dominio ed hanno pertanto determinato un grave e oggettivo `vulnus’ della credibilità professionale del magistrato, dinanzi all’opinione pubblica ed agli ambienti forensi, non compatibile con l’esercizio delle funzioni”. Il codice deontologico delle toghe, approvato dall’Anm su proposta di una Commissione di cui avevano fatto parte Palamara e Cascini, prevede che il magistrato corretto “non si serve del suo ruolo istituzionale o associativo per ottenere benefici o privilegi per sé o per altri”. Tornando al 2019, vale la pena ricordare che il togato di Mi Paolo Criscuoli, poi dimessosi per aver partecipato pur senza intervenire alla nota cena con i deputati Ferri e Lotti, fu “invitato”, circostanza mai smentita, a non entrare in Plenum per non mettere in imbarazzo i colleghi. Giustizia, la ripresa è un rompicapo: dossier OCF sulla situazione nei tribunali italiani Il Dubbio, 19 maggio 2020 Roma, Milano, Napoli, Bari, Taranto, Palermo: tribunale che vai, linee guida che trovi. L’Organismo Congressuale Forense già a suo tempo ha denunciato la grave mancanza di coordinamento degli uffici giudiziari italiani, ciascuno impegnato a dettare linee guida proprie per superare la fase emergenziale. “Il risultato è un caos generale che, in molti casi, lascia la ripresa dell’attività solo sulla carta - commenta Giovanni Malinconico, Coordinatore dell’OCF - una ripresa finta che coincide con la crisi dei colleghi, che invece chiedono di tornare a poter difendere i diritti dei cittadini nelle sedi naturali ad esse destinate: i Tribunali della Repubblica”. Roma: nella Capitale, dove un video girato dal Presidente dell’Ordine Galletti mostra il peso materiale delle varie misure organizzative, ben otto chili di carte delle varie linee guida, nell’Ufficio del Giudice di Pace vengono trattate 4 cause al giorno anziché le usuali 40. Il 10% del passato. In Corte d’appello civile vengono disposti rinvii ad un anno. Idem per il penale. Milano: per quanto riguarda il Giudice di Pace civile, vengono rinviate in autunno le cause iscritte a ruolo nei primi di marzo (per le quali c’è la disponibilità dei fascicoli); rinviate a data da fissare le altre per le quali non c’è la disponibilità del fascicolo. In Tribunale invece, sempre per il settore civile, si trattano i procedimenti in cui non debbano essere presenti parti diverse da giudice e avvocati, ma ogni giudice si regola in modo diverso sulle modalità. Tutto il resto viene rinviato. Nel settore penale, per il Giudice di Pace non si tratta in dibattimento; per il Tribunale, si trattano udienze di discussione da remoto solo con il consenso del difensore. Con i detenuti in carcere, le udienze si svolgono da remoto, con il detenuto tradotto in questura; il difensore può decidere se stare in questura o nello studio. In caso di arresti domiciliari invece, le cause non si possono trattare perché il detenuto dovrebbe presenziare nello studio dell’avvocato e sedergli accanto per essere visibile a schermo. Palermo: Nel capoluogo e in tutta la Regione, solo per restare nell’ambito del diritto di famiglia, le separazioni avvengono solo per via consensuale; ad Agrigento invece solo le giudiziali, in altri capoluoghi le udienze sono sospese e rinviate. Nel penale, sono escluse udienze che prevedano l’assunzione delle prove testimoniali, visto che il teste non si può ascoltare da remoto. Bari: nel capoluogo pugliese si prevede in appello la trattazione scritta per le udienze che non prevedono la presenza di soggetti diversi dai difensori. In minima parte in presenza per le indifferibili e urgenti per cui non è possibile la trattazione scritta. Nel Tribunale civile sono celebrate le udienze con trattazione scritta e solo se indifferibili e urgenti in persona. Poche udienze in videoconferenza. Trattazione scritta senza comparizione anche per le separazioni. Nel penale i processi con imputati detenuti si celebrano in aula con imputati collegati da remoto, quelli con imputati liberi si celebrano in aula (massimo 4 imputati). Davanti al Giudice di Pace si celebrano in aula massimo tre udienze di discussione e massimo due udienze di remissione di querela e accettazione. Una situazione caotica che genera incomprensioni fra i protagonisti della giurisdizione, magistrati e avvocati. Si è sostenuto ad esempio da parte dell’Anm Bari che l’Organismo Congressuale Forense avrebbe manifestato una apertura nel riconoscere l’utilità del processo da remoto anche al processo penale. L’Organismo politico dell’Avvocatura ha affermato più volte di non avere una pregiudiziale avversione nei confronti degli strumenti telematici, allo stesso tempo evidenziando che la celebrazione delle udienze da remoto non è compatibile con i principi di oralità e immediatezza del processo penale. Taranto: si è giunti all’assurdo di un giudice di pace che con ordinanza disapplica le ordinanze del Presidente del Tribunale, dandone comunicazione alla Procura; e del Presidente del Tribunale che a sua volta diffida il giudice di pace di cui sopra, dandone comunicazione anche lui alla Procura. Napoli: la maggior parte delle cause sia civili che penali stanno subendo ulteriori rinvii. Le penali, tranne le urgenti, sono quasi tutte rinviate e non vengono comunicati i rinvii. Per le cause civili che non sono rinviate, i giudici chiedono la trattazione scritta con onere della parte di depositare telematicamente atti già depositati in precedenza in modo cartaceo. Tutto fermo dal Giudice di Pace. Pena attenuata per il seminfermo di mente anche se è pluri-recidivo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 maggio 2020 La Consulta ha deciso su una questione sollevata dal tribunale di Reggio Calabria. Non è costituzionale il divieto di applicare una diminuzione di pena al condannato pluri-recidivo che risulti affetto da una seminfermità mentale. Parliamo di una recente sentenza della Corte costituzionale che ha come redattore il giudice Francesco Viganò. La Corte ha esaminato una questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Reggio Calabria nel corso di un processo penale contro due imputati pluri-recidivi, accusati di furto aggravato. La perizia psichiatrica disposta dal giudice aveva evidenziato gravi disturbi della personalità, che diminuivano in maniera significativa la loro capacità di intendere e di volere, pur senza escluderla totalmente. Nelle ipotesi di vizio parziale di mente, il Codice penale prevede normalmente la diminuzione della pena fino a un terzo. Con la legge ex Cirielli del 2005, però, al giudice è stato vietato di applicare questa norma nei confronti dell’imputato che, pur se affetto da un vizio parziale di mente, sia recidivo reiterato, ossia abbia già alle spalle almeno due condanne per delitti non colposi. La Corte ha ritenuto che questo divieto contrasti con il principio costituzionale secondo cui la pena deve essere proporzionata alla gravità oggettiva e soggettiva del reato, e dunque anche al grado di rimproverabilità del suo autore. Tutto ha avuto inizio quando il Tribunale ordinario di Reggio Calabria, con ordinanza del 29 gennaio 2019, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 27, primo e terzo comma, e 32 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante del vizio parziale di mente di cui all’art. 89 del codice penale sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma del codice penale Il giudice rimettente ha premesso di essere chiamato a giudicare, in sede di giudizio abbreviato, della responsabilità penale di V. M. e V. V., imputati del reato di furto pluriaggravato commesso in concorso tra loro. Entrambi gli imputati hanno infatti plurimi precedenti per reati contro il patrimonio (rapina, furto tentato e consumato, ricettazione, danneggiamento), alcuni dei quali intervenuti anche in epoca relativamente recente e, in ogni caso, nel quinquennio precedente alla commissione del fatto per il quale si procede. Nei confronti di entrambi, in più occasioni, è già stata riconosciuta la recidiva (reiterata), ed applicato il relativo aumento di pena. Dalla perizia psichiatrica disposta dal giudice è emersa per entrambi gli imputati un’infermità mentale tale da far scemare grandemente la capacità di intendere e di volere senza, tuttavia, escluderla, essendo state riscontrate “alterazioni psicopatologiche che soddisfano i criteri diagnostici per il Disturbo della Personalità”, nonché le “stimmate psicologiche di un Disturbo da Abuso di Sostanze (oppiacei), oggidì in parziale remissione”. Dal momento che la violazione della legge penale è meno rimproverabile se proviene da una persona con capacità di discernimento e autocontrollo fortemente ridotte a causa di patologie o disturbi della personalità, sono costituzionalmente illegittime norme che, come quella esaminata, impediscano al giudice di diminuire la pena in maniera proporzionata alla minore responsabilità soggettiva del reo. Tutto ciò, ha sottolineato la Corte, non comporta il sacrificio delle giuste esigenze di tutela della società nei confronti di chi ha già più volte violato la legge penale. Il giudice, infatti, ha la possibilità di disporre l’applicazione di una misura di sicurezza (come la libertà vigilata) nei confronti del condannato una volta che questi abbia scontato la pena, così da contenere la sua pericolosità e, al tempo stesso, fornirgli un aiuto per la cura delle sue patologie, oltre che per aiutarlo a reinserirsi. Scarcerazione per malattia, perito e test prima della decisione non dopo di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 19 maggio 2020 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 18 maggio 2020 n. 15252. Il giudice che non ritiene, allo stato degli atti, di accogliere la richiesta di sostituzione della misura di custodia in carcere per ragioni di salute, ma dispone tuttavia accertamenti sanitari, deve nominare un perito e adottare la sua decisione solo dopo aver avuto i risultati delle verifiche mediche. La Corte di cassazione, con la sentenza 15252, accoglie il ricorso contro il no alla richiesta di revoca o di sostituzione della custodia in carcere nei confronti di un indagato per reati di mafia. Alla base della richiesta più episodi allergici con shock anafilattici di cui aveva sofferto l’indagato, tanto da essere trasferito prima in una struttura attrezzata per le prove allergiche, senza tuttavia farle, poi in un terzo carcere che disponeva di un centro clinico. Ma prima che arrivassero i risultati dei test non ancora effettuati il giudice aveva stabilito che la condizione era compatibile con la detenzione, una scelta ad avviso del tribunale in linea con l’indicazione del perito d’ufficio che aveva tuttavia lasciato aperta la strada di una rivalutazione nel caso fosse stata documenta una grave patologia. La Suprema corte ricorda che l’obbligo di nominare un perito non c’è per qualunque malattia ma solo quando venga evidenziata e circostanziata una patologia “particolarmente grave”, non curabile in carcere neppure nelle strutture particolarmente attrezzate. E dimostrarla in modo esauriente non spetta al detenuto, il quale deve solo fornire elementi utili in tal senso. Esattamente quanto avvenuto nel caso esaminato, in cui il giudice aveva disposto ben due trasferimenti riconoscendo implicitamente l’astratta possibilità che ci fosse una patologia grave. Malgrado questo si è deciso per la compatibilità con il regime carcerario. Una decisione che il giudice avrebbe dovuto adottare dopo aver avuto i risultati degli accertamenti che lui stesso aveva richiesto. La norma di riferimento (articolo 275, comma 4-bis del Codice di procedura penale) dispone, infatti, che se il giudice ritiene di non accogliere la domanda sulla base degli atti “dispone con immediatezza, e comunque non oltre i termini previsti dal comma 3, chi accertamenti medici del caso, nominando un perito”. Una previsione che va intesa nel senso che l’accertamento del perito va disposto prima e non dopo la decisione sull’istanza. Questo sia nel rispetto dei criteri di sequenza logica sia del dato letterale, secondo il quale l’accertamento “peritale” va disposto immediatamente, entro i termini indicati per la decisione sulla domanda: e dunque chiaramente prima di questa. Un milione per i detenuti, ma la Lombardia dice no di Tiziana Maiolo Il Riformista, 19 maggio 2020 I 900mila euro erano destinati all’housing sociale per i carcerati, ma l’assessora della Regione, Piani, li ha rifiutati. La protesta del garante, Lio. Un’occasione perduta. Forse per i detenuti. Ma sicuramente per la Regione Lombardia, che ha fatto una figuraccia, respingendo al mittente un contributo di 900.000 euro destinati all’housing sociale per i carcerati. Il fondo era stato stanziato dalla Cassa delle Ammende, un istituto con finalità sociali creato da Mussolini e rilanciato nel 2017 anche con la nuova presidenza di Gherardo Colombo. L’ex pubblico ministero milanese da tempo manifesta una particolare sensibilità nei confronti dei diritti dei detenuti e del carcere, di cui di recente ha auspicato si possa arrivare all’abolizione, in una società in cui non sia più necessario e si pensi a modalità diverse di espiazione della pena. L’erogazione del fondo di 900.000 euro aveva come finalità il reperimento di locali per detenuti in uscita dal carcere, sia per coloro che avessero terminato di scontare la pena, sia per detenzione domiciliare negli ultimi mesi. Un’iniziativa significativa sia per i detenuti che per l’intera società. Non c’è bisogno di consultare le statistiche infatti per sapere che il modo migliore per evitare le recidive dei reati è quello di riuscire a garantire al detenuto la possibilità di una casa, come punto di partenza per poter trovare un lavoro. In modo da far coincidere l’uscita dal carcere con l’uscita dalla vecchia vita. La Regione Lombardia avrebbe potuto gestire i fondi facendo un pubblico avviso in modo da assegnare poi la gestione pratica dell’aiuto ai carcerati alle tante associazioni e cooperative del terzo settore che abbondano nella terra di Verri e Beccaria. Invece l’assessora leghista alla famiglia Silvia Piani ha risposto picche alla Cassa delle Ammende rimandando l’assegno al mittente. Prima di tutto perché ritiene “non condivisibile la scelta di prediligere interventi di deflazionamento della popolazione detenuta, come l’adozione di misure di detenzione domiciliare, anche in funzione delle esigenze di tutela delle persone offese dal reato”. Secondariamente perché l’assessora ritiene che i fondi andrebbero meglio utilizzati “per tutelare la salute degli agenti di polizia penitenziaria, come riconoscimento del lavoro che svolgono”. Un vero sgarbo istituzionale nei confronti dell’Ente che aveva deciso di erogare la somma con precise finalità indirizzate al reinserimento dei detenuti, anche perché non pare opportuno dare suggerimenti alla generosità e ipotizzare destinazioni alternative dei fondi offerti. Ma anche un danno d’immagine per la stessa Regione Lombardia e il suo Presidente Attilio Fontana, un avvocato che ha sempre mantenuto l’immagine di garantista e che ha ben altri problemi in questo momento, con la gestione della “fase2” per l’uscita dal contagio di Covid-19 in un territorio ancora in situazione problematica. Non è un caso se proprio dall’interno della stessa Regione si sia levata la prima voce critica. E che voce. “Sono amareggiato e ho chiesto un incontro urgente al presidente Fontana”, dice al Riformista Carlo Lio, Difensore regionale dei diritti e Garante dei detenuti. Lio ha un’altra storia, viene dal mondo socialista (è stato sindaco di Cinisello Balsamo, cintura operaia di Milano) e in seguito ha contribuito alla costruzione della cultura del garantismo di Forza Italia. Anche in questi giorni ha continuato a entrare nelle carceri e a svolgere, pur con mille cautele, incontri con i detenuti. “Esprimerò al Presidente il mio dissenso e il mio disappunto per una decisione che ci impedisce di utilizzare quei fondi per iniziative di sostegno al mondo carcerario di cui oggi più che mai c’è un gran bisogno”, dice con fermezza. Si fa vivo, dalle colonne milanesi del Corriere, anche don Gino Rigoldi, da sempre cappellano dell’Istituto minorile Beccaria e uno dei sacerdoti più attivi (poche parole e molti fatti) nel mondo carcerario. “Aiutare un fratello o una sorella che ha sbagliato è comandato dal Vangelo”, ricorda, precisando che certi consigli del tipo attenti perché un detenuto reinserito giova a noi tutti, per un cristiano sono inutili. E chissà (ma questa è una malizia della redattrice) se pensava a Matteo Salvini e al suo rosario, mentre vergava queste parole. “La scelta della Regione Lombardia di rifiutare il finanziamento di quasi un milione di euro - commenta con rammarico L’Osservatorio carcere territorio Milano - offerto da Cassa Ammende, è grave e incomprensibile, anche alla luce della stessa Legge regionale che regola gli interventi in ambito penale. Quei soldi sarebbero serviti per garantire un alloggio provvisorio e un accompagnamento socio-educativo a persone ormai vicine al termine della pena. Persone escluse dall’accesso alle misure alternative solo ed esclusivamente perché sono povere e non possiedono una casa propria”. Per fortuna comunque c’è anche la buona notizia. La saggezza del dottor Colombo e del consiglio di amministrazione di Cassa delle Ammende ha suggerito una toppa che per una volta è meglio del buco creato dall’assessora lombarda, e ha deciso di dirottare i 900.000 euro al Provveditorato regionale delle carceri, che saprà come ben gestirli. Per l’housing sociale dei detenuti. Ma con quali tempi? Qualche mese passerà, prima che si faccia la dichiarazione d’intenti per il terzo settore, si teme. Doppia figuraccia per la Regione Lombardia. Torino. La Cedu chiede chiarimenti sulle condizioni di detenzione alle Vallette ansa.it, 19 maggio 2020 L’Italia deve dare spiegazioni alla Cedu-Corte europea per i diritti dell’uomo in merito alla condizione dei detenuti nel carcere torinese delle Vallette nel corso dell’emergenza Coronavirus. La pronuncia arriva nell’ambito di una azione legale relativa a un detenuto in età avanzata e affetto da varie patologie considerate dall’Oms a più alto rischio di mortalità se fossero associate a una infezione da Covid-19. A rivolgersi alla Corte è stato l’avvocato Benedetta Perego, che aveva già attivato una iniziativa analoga nelle scorse settimane, con il sostegno dell’associazione Strali. Il ricorso è stato dichiarato ammissibile. “Questa volta - informa un comunicato - l’attenzione della Corte si è estesa su tutte le persone recluse e tutti coloro che lavorano all’interno dell’istituto”. Napoli. La casa è abitabile, il carcere no di Giuseppe Ferraro Il Mattino, 19 maggio 2020 In questi giorni di quarantena ho pensato sempre al carcere. Non è mancato chi ha detto di sentirsi agli “arresti domiciliari”. Già non manca mai il richiamo carcerario nella letteratura filosofica. Platone parla del corpo come carcere e Socrate tutti lo ricordano non solo per quel “sapere di non sapere” ma perché in carcere a bere la cicuta della condanna a morte. Eppure in questi giorni mi sono guardato bene dal richiamare la metafora e la condizione carceraria. L’ultima volta che sono stato a Poggioreale è stato la settimana prima delle disposizioni di quarantena. Ci siamo salutati per la prima volta a distanza. Per me che rispondo sempre “ci tocchiamo” a chi mi chiede che cosa faccio nel tenere incontri di filosofia in carcere è stato come sbattere sul muro, gli sguardi erano diversi. Sì, “ci tocchiamo”, diciamo cose che ci toccano, che perciò sentiamo, ci diciamo la verità, parliamo della verità. Non potrebbe essere diverso per chi tiene alla filosofia. A scuola da bambino t’insegnano che le cose concrete sono quelle che si toccano e quelle astratte non si toccano. Da adulto capisci presto l’altra distinzione, le cose certe sono quelle che si toccano, quelle vere sono quelle che ti toccano. E quel giorno non è stato così. Abbiamo osservato la distanza. Un detenuto ha bisogno di quella stretta di mano, di quel saluto che viene da fuori, perché la libertà è su quella soglia del fuori e dentro te stesso, è incontrare, camminare. Le persone detenute più di ogni altra cosa tengono alle scarpe, i giovani, al minorile, ci tengono ancora di più ad avere scarpe nuove chiusi in una cella. Stando ai domiciliari di quarantena ho capito che non potevo paragonarmi a un detenuto, perché la casa è abitabile, il carcere no. La casa per essere tale deve avere l’abitabilità, che è la condizione del proprio abitarsi, di ripensare sé stessi, alle proprie abitudini, al passato, a quel che si è stati e diventati. In te redi in interiore homine habitat veritas, ripete Agostino. La verità di sé stessi si abita. Nel carcere manca l’abitabilità, uno che ci sta dentro, in una stanza con chi non conosce, con la tv sempre accesa, con un solo servizio e tutto il resto che non voglio ripetere, non può certo ripensare se stesso e cambiare. Il carcere produce carcerati. E in questi giorni che non ci sono stati nemmeno i volontari e tutti i servizi esterni è stato davvero difficile, ma si sono anche intraviste cose che fin qui non si sono considerate. Il carcere deve avere l’abitabilità perché è quella che ti fa desiderare la dignità come diritto della libertà. E la dignità te la devi conquistare prima del diritto che devi reclamare. Allora è la pena stessa che deve essere un diritto, quella per ognuno di ripensare alla propria vita a quel che si è e che non si è diventato e ritornare ad esserlo cambiando legami e relazioni. La pena deve valere la pena, ripeto ogni volta. Mi guardano straniti, poi però seguono con attenzione. La pena deve valere la pena altrimenti resta una punizione che da colpevole ti fa sentire vittima e non arrivi alla responsabilità di te stesso per i tuoi affetti e la tua città. Il grado di democrazia di un paese si misura dallo stato delle sue carceri e delle sue scuole, quando le carceri saranno scuole e quando le scuole non saranno carceri quel grado avrà raggiunto il suo punto più alto. In carcere non ci sono specchi. Non ci si vede, non ci si riflette. Si è visti senza che ci si possa vedere. Si è guardati senza potersi riguardare. Non ne vale la pena, il carcere è solo punizione. E va bene così per chi non vuole capire, ma per chi capisce è una violenza che ha perduto la sua ragione e resta perciò cieca e cinica, buona a far politica della certezza della pena senza chiedersi della certezza della politica e della funzione educativa dello Stato. Ricordo sempre Raffaele Cantone che alla bambina che gli chiedeva come si sentiva a punire, rispose che lo Stato non punisce, perché educa. Eravamo all’università dove ci ritrovammo con i bambini di Carpi e Torre del Greco. Ricordo tutta l’attenzione di Cantone, la sua gentilezza, e nella sua voce il compito della giustizia. Il carcere sta cambiando, da tempo, lentamente, sta cambiando e questi giorni hanno portato a un’accelerazione importante, con la tecnologia, con i colloqui a distanza, ma anche con questo che il dato più semplice da capire, l’abitabilità. C’è bisogno di scelte coraggiose perché giuste. A Poggioreale come altrove si sta facendo tantissimo, inutile negarlo. Le difficoltà superano gli sforzi. È come in mare aperto dove tutti sono naufraghi, detenuti a quanti ci lavorano, si aspetta sempre chi da terra venga in soccorso e ti liberi dalla confusa agitazione, cominciando a capire. All’inizio dell’epidemia ci sono state le rivolte, sono morti poco meno di venti detenuti. Protestavano perché non avrebbero sopportato di non poter vedere i familiari. Poi il timore delle direzioni che potessero diventare dei focolai incontrollabili di contagio e fra le linee delle misure di “alleggerimento” alternative si sono inserite le concessioni pericolose. Fra i malati terminali che vengono dal 41 bis si sono mischiati quelli immaginari e allora tutto è refluito nella polemica e ai proclami della certezza della pena sostenuta da politici incerti, con l’”indietro tutta” del bailamme fra buonisti e cattivisti. Mischiati ai detenuti del disagio sociale ci stanno i fine pena mai, cioè a termine pena 31 dicembre del 9999, che sarà anche giusta per chi non bastano 400 anni, ma che decade di giustizia per chi bastano anche dieci anni e ancora meno per cambiare strada, vita e relazioni. In tutti questi anni ho capito che le situazioni spiegano le cose e le giustificano anche, ma sono poi le relazioni che cambiano cose, situazioni e persone. Nello stesso palazzo puoi trovare chi diventa magistrato e chi detenuto. Verona. Dopo l’isolamento la Fase 2 inizia anche nel carcere di Montorio di Annalisa Mancini verona-in.it, 19 maggio 2020 A differenza di altri istituti di detenzione, Verona non ha vissuto rivolte dovute al blocco dei colloqui con i familiari. La Garante Margherita Forestan parla di “buon senso di familiari e detenuti”. Il coronavirus entra nella Casa Circondariale di Montorio già a marzo 2020. Quasi due mesi dopo, a fine aprile, i detenuti positivi al coronavirus sono 29, una ventina le guardie contagiate e un agente finito in rianimazione per crisi respiratoria. Anche i due medici e l’infermiere dell’istituto si ammalano. Al 5 maggio i detenuti in quarantena presso un’area isolata del carcere sono una quindicina, come ci racconta la Garante per i Detenuti presso il Comune di Verona Margherita Forestan: tutti erano asintomatici, la metà ora è rientrata in cella. Anche per i poliziotti la situazione è nettamente migliorata e al 15 maggio uno solo rimane positivo, dopo che tutti gli agenti penitenziari sono stati sottoposti al tampone. La situazione della Casa Circondariale di Montorio è simile a quella di tutte le carceri italiane: istituti sovraffollati con protocolli tutti uguali. Nonostante il 26 aprile Verona venga citata insieme a Torino tra i due maggiori focolai nel rapporto del Garante Nazionale per i Detenuti, all’associazione Antigone non sono pervenute segnalazioni di anomalie da parte dei famigliari dei detenuti, che hanno continuato a dialogare attraverso video-chiamate telefoniche o via Skype. L’associazione Antigone, realtà nazionale che si propone di monitorare la condizione dei detenuti delle carceri italiane, descrive il carcere di Montorio come “la prigione italiana più esposta al Covid 19” ma Alessio Scandurra, coordinatore nazionale dell’Osservatorio di Antigone, non può fornire altri dettagli: “A causa dell’emergenza sanitaria, non siamo più riusciti ad entrare nel carcere di Montorio, perciò è difficile capire che cosa stia succedendo. Sappiamo solo che i detenuti e le loro famiglie sono molto in ansia”. A differenza di altri istituti di detenzione, Verona non ha vissuto rivolte dovute all’inevitabile blocco dei colloqui con i familiari. La Garante Margherita Forestan parla di “buon senso di familiari e detenuti”, che avrebbero compreso le motivazioni e il rischio. Si tratta di famiglie italiane e straniere con cui, spiega la Garante, ci sarebbe stata sempre una grande apertura e disponibilità d’orario per visite e colloqui: “Un buon rapporto costruito nel tempo, grazie al lavoro della Direzione e del personale di agenzia penitenziaria di Verona”. Non solo ai familiari è stato impossibile entrare. Da inizio marzo si è fermata anche l’attività delle associazioni che all’interno dell’istituto di Montorio contribuiscono alla formazione e rieducazione dei detenuti. La scuola in presenza è stata sospesa completamente ma alcuni insegnanti hanno fornito materiale cartaceo agli studenti detenuti (in media 160 ogni anno). Inoltre per la scuola media e i corsi di italiano, d’accordo con il canale tv Telepace, tutti i detenuti stranieri hanno potuto proseguire i corsi di lingua italiana. Anche il lavoro è stato sospeso ad esclusione di due laboratori: quello per la creazione di mascherine medicali e quello di insacchettamento di patate e cipolle. Ad oggi le persone detenute a Montorio, per lo più uomini, sono 400, ma nell’ultimo anno si è arrivati anche a 530: la diminuzione, ci spiega la Garante Forestan, è dovuto sia alla diminuzione degli ingressi sia al deferimento della pena a causa di malattia o alla concessione degli arresti domiciliari per buona condotta. La Fase 2 è cominciata anche per il carcere e lentamente anche i colloqui con i familiari e le attività dei volontari riprenderanno con le dovute cautele. Belluno. Detenuti a fine pena, la Fondazione Esodo partecipa al bando di inclusione Corriere delle Alpi, 19 maggio 2020 La Fondazione Esodo ha presentato una manifestazione di interesse per partecipare al bando del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità dal titolo “Inclusione sociale per persone senza fissa dimora in misura alternativa”, che a livello nazionale mette a disposizione 20 euro al giorno per una durata massima di 6 mesi per consentire l’accoglienza di persone detenute cui resta da scontare una pena inferiore ai 18 mesi. Il progetto prevede di ospitare 6 persone in provincia di Belluno (32 in tutto il Veneto), che saranno in caso di approvazione accolte dal Ceis di Belluno e dalle cooperative Dumia e Società Nuova, le quali dovranno però rispondere ai requisiti di affidamento agli arresti domiciliari senza però disporre di un domicilio effettivo e/o idoneo, necessitando pertanto l’accoglienza in strutture alternative. Verranno messi in campo percorsi integrati ai quali collaboreranno tutti gli enti della rete Carcere bellunese. La durata prevista dell’accoglienza è di 3 mesi e l’iniziativa si inserisce nelle disposizioni messe in campo per rispondere all’attuale emergenza sanitaria e si rivolge a detenuti idonei alla misura alternativa. La rete Carcere bellunese si è costituita 10 anni fa in occasione della presentazione del primo progetto “Esodo” di diretta emanazione della Fondazione Cariverona che, in collaborazione con le Caritas diocesane di Verona, Vicenza e Belluno, con il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria (Prap), gli istituti carcerari e gli uffici per l’esecuzione penale esterna (Uiepe) delle tre province, ha coinvolto vari enti del terzo settore per la realizzazione di attività di integrazione socio-lavorativa a favore di detenuti e persone in misura alternativa. Ad oggi la rete coinvolge oltre al carcere e al Comune di Belluno la Caritas diocesana di Belluno-Feltre, il Ceis, le coop Dumia, Società Nuova, Integra, Mani Intrecciate e Sviluppo e Lavoro, Metalogos, il Serd e ora anche l’associazione di volontariato Jabar. Nel 2016 le tre diocesi hanno dato vita alla Fondazione Esodo, che promuove la cultura della legalità e la sensibilizzazione alle tematiche dell’integrazione delle persone detenute e in esecuzione penale esterna. Dal 2011 le tre diocesi collaborano alle iniziative proprie del progetto Esodo, centrato sulla creazione di percorsi di inclusione sociale e lavorativa di persone detenute, ex detenute ed in esecuzione penale esterna. Genova. “Mio figlio a rischio in quella cella” di Dino Frambati Avvenire, 19 maggio 2020 Sta scontando la pena per aver diffamato un giudice. Il Procuratore generale della Corte di Cassazione ha invitato i colleghi delle Corti di appello a chiedere la scarcerazione per tutti i detenuti che devono scontare meno di tre anni, quindi non mi spiego perché Carlo sia ancora in carcere”. Preoccupata per il rischio di contagio da Covid in cella, una madre chiede demenza per il figlio. Carlo Carpi, imprenditore ed ex candidato sindaco di Sanremo, è detenuto a Marassi dal 1° luglio 2019: sta scontando la pena di un anno e 10 mesi per calunnia, diffamazione e stalking nei confronti di un magistrato genovese. La mamma, Maria Gabriella Tassara, non entra nel merito della vicenda giudiziaria, delicata e complessa, ma si limita a lanciare un appello umanitario dettato dai rischi dell’emergenza sanitaria, che “si manifesta in modo evidente all’interno delle carceri, dove non è possibile mantenere la distanza di un metro tra detenuti prescritta dalla legge”. Per questo chiede che vengano concessi al figlio gli arresti domiciliari. Finora il Tribunale di sorveglianza ha detto no, perché ritiene che Carpi possa reiterare il reato di diffamazione. Non è bastato proporre il divieto di comunicare con terze persone: i giudici ritengono che la prescrizione possa essere facilmente elusa. Ma di fronte a questa obiezione la signora Tassara, assistita dall’avvocato Marco Mensi, sottolinea la volontà “collaborativa” del figlio, che si è costituito dopo la condanna e “pur non condividendola, ha sempre rispettato la sentenza della Corte d’appello di Torino”. La donna definisce quelli commessi dal figlio “reati di opinione”, cui si è aggiunta una “forma di stallcing determinata da pochi incontri avvenuti a Genova in zone di pubblico passaggio”. Condotte che a suo giudizio non sono tali da impedire la sua scarcerazione in coincidenza con la pandemia. E aggiunge di essere “molto perplessa nel vedere scarcerati e trasferiti ai domiciliari altri detenuti” che si sono macchiati di delitti molto gravi. Ci sarebbe anche un altro aspetto da chiarire. Il Tribunale di sorveglianza, rileva la madre di Carpi, “continua a attribuire rilevanza alla diagnosi di disturbo bipolare della personalità del detenuto fatta dallo psicologo del ministero della Giustizia, quando invece l’équipe psichiatrica che presta servizio nel penitenziario ha in seguito escluso ogni disturbo di natura psichiatrica, ritenendo che Carlo sia completamente sano e rifiutando la sua presa in carico proposta dalla direzione del carcere”. Per la liberazione di Carpi, un anno fa, era stata lanciata una petizione popolare. Ora si è levata anche la voce di una mamma in ansia. Bergamo. Il carcere sarà dedicato a don Fausto Resmini, “Uomo sempre pronto al dialogo” di Antonella Barone gnewsonline.it, 19 maggio 2020 Don Resmini, scomparso a 67 anni il 23 marzo scorso a causa del Covid-19, è stato per oltre trent’anni cappellano della casa circondariale di Bergamo ed è ricordato come un sacerdote in prima linea su tutti i fronti di lotta alla marginalità sociale e alla tossicodipendenza. Aveva fondato la comunità per minori don Milani di Sorisole, e il suo camper Esodo era una presenza costante alla stazione ferroviaria di Bergamo dove offriva pasti caldi ai poveri e alla senza fissa dimora. “Non riusciamo a parlarne al passato, era un punto di riferimento per tutti” afferma Teresa Mazzotta, direttrice dell’istituto penitenziario e promotrice, insieme a due parlamentari bergamaschi, Maurizio Martina ed Elena Carnevali, della richiesta al Ministro della Giustizia di intitolare al religioso la casa circondariale. Proposta accolta con entusiasmo dal ministro Alfonso Bonafede che nella nota di risposta scrive: “Don Fausto Resmini era più che un semplice cappellano, era un punto di riferimento per l’intera comunità di Bergamo e per chi ha avuto la fortuna di incontrarlo sulla propria strada. Una guida morale, un padre spirituale, un uomo sempre pronto all’ascolto e al dialogo”. Il vuoto lasciato dal sacerdote, amato da tutta la comunità carceraria, ha trovato espressione in una lettera scritta, subito dopo la sua morte, dal personale di Polizia Penitenziaria in servizio nel carcere bergamasco e che il Guardasigilli ha voluto riportare nella nota in cui accoglie la proposta: “Caro Don Fausto, per gli anni che hai dedicato a questo istituto penitenziario, per noi sei sempre stato un punto di riferimento: nel quotidiano, nell’emergenza, nei momenti di lutto e di buio, nei momenti di festa e di gioia”. “Non appena la situazione sanitaria lo permetterà - conclude il Guardasigilli - voglio visitare Bergamo e l’istituto che sarà intitolato a don Fausto, per esprimere vicinanza agli agenti e a tutti gli operatori. Mi piace pensare che questo, seppur semplice atto, sia un modo per far continuare a vivere l’esempio di don Fausto”. Ravenna. Coronavirus, “nessun focolaio in carcere” e le visite ripartono di Federico Spadoni Corriere della Romagna, 19 maggio 2020 Da oggi, dopo tre giorni di stop ai colloqui con gli avvocati per emergenza sanitaria, il carcere riapre a legali e familiari dei detenuti. Un passaggio graduale verso la normalità, che tiene conto di tre fattori di non poco conto. Il primo. Il detenuto risultato positivo al coronavirus la settimana scorsa in seguito all’accertamento fatto prima di procedere al suo trasferimento al penitenziario di Modena, è attualmente in isolamento preventivo, nonostante su di lui il secondo esame abbia dato esito negativo. Ora dovrà essere sottoposto a un ulteriore tampone per capire se effettivamente non è portatore del virus. In secondo luogo, l’agente della polizia penitenziaria che - stando ai test effettuati a tappeto - sarebbe stato contagiato (non è chiaro in quale circostanza) è a casa dal lavoro, seguito dall’azienda sanitaria. Infine, ultimo aspetto, proprio ieri il carcere è stato sottoposto a totale sanificazione. Sulla base di questi elementi la direttrice di “Port’Aurea”, Carmela De Lorenzo, puntualizza quello che per l’azienda sanitaria dovrebbe essere ormai una certezza: “All’interno della casa circondariale non c’è alcun focolaio”. Non sono stati giorni facili. E solo l’esito dei prossimi esami sul detenuto in isolamento potrà chiarire meglio la ragione di quella positività mutata da un giorno all’altro. “Abbiamo fatto tutto ciò che era da fare - rassicura la direttrice. Tutti ci siamo sottoposti ai tamponi, il personale amministrativo, le guardie. Nessuno è risultato contagiato. Una persona positiva su oltre 160 significa che molto probabilmente si tratta di un fattore esterno, altrimenti avremmo trovato più di una positività”. E sul detenuto che ora attende ulteriori accertamenti: “È qui dal 14 febbraio e non ha mai manifestato alcun sintomo”. Ieri, ad ogni modo, tutti gli ambienti sono stati igienizzati: “Abbiamo sospeso per un ulteriore giorno gli accessi alla casa circondariale e spostato temporaneamente i detenuti nel cortile di passeggio per consentire una doppia sanificazione, sia a mano che a macchina. Ma da domani (oggi, ndr) si riapre”. Non sarà proprio un ritorno alla normalità. “Potranno ricominciare le visite dei parenti e i colloqui con gli avvocati - prosegue De Lorenzo - ma seguendo le disposizioni di sicurezza, guanti e mascherina obbligatori per tutti, ingressi contingentati e incontri nella sala colloqui, con il plexiglas divisorio”. Rimarranno disponibili per i carcerati le tecnologie di comunicazione fornite durante le settimane del lockdown, che sono servite ad alleggerire la sensazione dell’isolamento, quando anche ai familiari è stato vietato l’accesso alla struttura. “I detenuti - assicura la responsabile - potevano telefonare e fare videochiamate. Insomma, non è stato leso o limitato alcun diritto”. Lodi. Da magazziniere del carcere a “re” della pizza: storia di chi si è rimesso in gioco Il Cittadino, 19 maggio 2020 Conosce da vicino la vita segnata da regole e limitazioni della libertà. Perché quando ha deciso di mettersi in proprio e di creare dal nulla la pizzeria con asporto, veniva da dieci anni di lavoro come magazziniere nel carcere di Lodi. Con un’esperienza e professionalità da cuoco e la voglia di mettersi in gioco, ha deciso che doveva tentare di fare di più per garantire alla sua famiglia un futuro diverso, che con il lavoro part-time non poteva garantire. Lathach Hassen è tra gli imprenditori del settore ristorazione che stanno vivendo la tanto attesa fase due. La sua pizzeria Smeraldo, in viale Italia, è uno dei punti di approdo della geografia del commercio del quartiere di San Bernardo. “Negli ultimi mesi abbiamo provato a dare il nostro contributo - ha spiegato ieri mattina, all’aperto, sul marciapiede davanti all’attività, con mascherina e guanti - e abbiamo portato le pizze, come gesto di solidarietà, a medici e infermieri dell’ospedale Maggiore. Abbiamo ricevuto tanto affetto e apprezzamento in cambio, anche sui social, è stato bello. Lo abbiamo fatto perché volevamo renderci utili e fare qualcosa”. E non è stato un caso isolato: in più occasioni, dal forno di viale Italia 88, sono partite decine di pizze per i sanitari impegnati tutto il giorno nella lotta contro il Covid. “Nell’ultimo periodo abbiamo tenuto aperto il venerdì, il sabato e la domenica - spiega Hassen, che ha ideato la ricetta del cous cous lodigiano - da oggi siamo aperti anche la mattina e vediamo come va. La speranza è di tornare alla normalità quanto prima”. Milano. Tracce di libertà: la casetta rossa e la pergola di Andrea Di Franco ilgiornaledellarchitettura.com, 19 maggio 2020 L’esito di due esperienze di progetto e autocostruzione condotte dal Politecnico di Milano nel carcere di Bollate. Nell’area all’aperto della zona colloqui della Seconda casa di reclusione di Milano a Bollate, dopo un processo di progettazione e realizzazione durato due anni, è stata inaugurata nell’ottobre 2018 la “Casetta rossa”, padiglione dedicato al tema dell’affettività e declinato all’uso del gioco dei bambini e dell’incontro con i genitori. La “Casetta rossa” è stata ideata nell’ambito del primo anno di laboratorio didattico (2017-18) del corso di Composizione architettonica e urbana del Politecnico di Milano, svolto parzialmente all’interno del carcere, insieme al gruppo di studenti, detenuti e agenti che hanno approfondito il tema dell’affettività e che hanno voluto segnalare, con quell’oggetto simbolico, le attuali carenze delle strutture. Si tratta di una costruzione interamente in legno, assemblata con una tecnica simile a quella del balloon frame. All’interno è piantato un Prunus padus, che emerge dal pavimento soprelevato in legno e fuoriesce in copertura attraverso un varco; un’apertura resa necessaria anche dalle esigenze di controllo della polizia penitenziaria. Nella stessa area, tra il 2018 e il 2019 è stata realizzata la “Pergola”, risultato della modificazione di una struttura esistente degradata e immaginata come spazio centrale d’incontro e dialogo per i detenuti. Questa seconda realizzazione ha coinvolto, insieme ai detenuti, una ditta di costruzioni in legno di Aosta (Chenevier), sia per la fornitura del materiale che per l’affiancamento nella posa in opera, svolta quasi totalmente in auto-costruzione. Si tratta del ripristino di una preesistente struttura in tubolare di ferro ammalorata, che diviene sostegno per una nuova copertura frangisole in tavole di cedro di 20 x 400 cm, inclinate di 45°. Le due realizzazioni si collocano nell’ambito della ricerca finanziata principalmente con i fondi di base del Dipartimento di Architettura e studi urbani del Politecnico, insieme al sostegno di alcuni soggetti privati (Associazione Civicum-Milano, Italia Nostra Nord Milano - Centro di forestazione urbana, Cooperativa Rimaflow, Trezzano sul Naviglio), sia in termini di risorse economiche che di lavoro diretto sul campo. I risultati della ricerca si compongono di una riflessione teorica e di linee guida alla modificazione degli spazi. Il metodo sperimentato è stato quello della cosiddetta “ricerca - azione”: il percorso ha affiancato allo studio accademico il lavoro di progettazione partecipata sul campo, coinvolgendo detenuti, agenti di polizia, operatori interni alle strutture del carcere di Bollate e di Opera, ricercatori, docenti e studenti della Scuola di Architettura, urbanistica ed ingegneria delle costruzioni del Politecnico. Il ruolo fondamentale che lo spazio assume nella definizione dell’esperienza di vita dei detenuti trova evidente sostanza nelle parole del Garante nazionale, Mauro Palma: “Lo spazio condiziona concretamente la pena nel suo svolgersi ben di più di molte acute elaborazioni teoriche”. Un’affermazione assunta come presupposto disciplinare imprescindibile oltre che come orientamento metodologico. Il ruolo dei progettisti e degli “abitanti” si è intersecato sulla base di specifiche responsabilità. Qui in carcere, forse più che altrove, il senso della partecipazione è stato quello di restituire la progettualità a chi l’ha perduta o non l’hai mai conosciuta. Tale sforzo, che il lavoro di ricerca sostiene con il coinvolgimento di tutti gli attori in fase di progetto e realizzazione e l’intensa attività di pubblicazione dei risultati, è funzionale ad allargare la visione politica di un carcere “aperto”: cioè legato alle forze e alle progettualità delle reti del terzo settore, integrato con le risorse del patrimonio immobiliare comunale e regionale, orientato a sostenere l’idea di una legislazione che potenzi sempre più il ricorso a modalità alternative alla reclusione in carcere. Ragusa. Mascherine solidali, all’opera anche i detenuti del carcere Giornale di Sicilia, 19 maggio 2020 Si chiama “Chiamata alle Arti” il progetto che vede in campo centinaia di nonne e mamme di Ragusa pronte a cucire a casa propria migliaia di mascherine da dare in dono alla comunità. Insieme a loro anche i detenuti del carcere di Ragusa che ultimano il lavoro fatto da queste donne, grazie alla macchina da cucire donata da un commerciante del posto. E così si “cuciono” le sinergie per diventare un unico pezzo di “stoffa” che avvolge la collettività intera, in un rapporto che riesce anche a coinvolgere da vicino il carcere. “Questi momenti di vera bellezza ci hanno riempito di gioia e soddisfazione dando ulteriore senso al progetto già carico di scambi sorprendenti, di inaspettate e positive vibrazioni, di genuinità d’animo e di nonne e mamme che si mettono a disposizione per donare mascherine anche al carcere, ricevendo dal carcere la piena disponibilità a realizzarne a loro volta altre da donare alla collettività - evidenza Fabio Ferrito, presidente dell’associazione Ci Ridiamo Sù - La direttrice dell’istituto e gli agenti penitenziari, i vari collaboratori e gli ospiti della struttura ci hanno fin da subito dimostrato come in un istituto di riabilitazione si possa davvero respirare un’aria di comunità attenta ai bisogni di tutti. E quando si mette entusiasmo e cuore tutto accade con semplicità. Uno scambio meravigliosamente umano”. Il comandante responsabile dell’Area Sicurezza della Penitenziaria, dirigente aggiunto Chiara Morales, sottolinea l’importanza dell’interazione con l’esterno: “I detenuti hanno accolto con grande entusiasmo l’idea di confezionare mascherine da donare a chi ha bisogno, c’è stata da subito una naturale intesa tra detenuti, operatori penitenziari ed i ragazzi di Ci Ridiamo Sù, i vari promotori, i volontari. Ci hanno coinvolti, con la loro travolgente voglia di fare, in questo splendido progetto, che diventa un vero e proprio ponte tra il mondo “dentro il carcere” e il mondo “fuori dal carcere”. Brasile. L’allarme della Chiesa sulle carceri: “Situazione disumana” L’Osservatore Romano, 19 maggio 2020 “I dati sull’avanzare del Covid-19 nelle carceri sono allarmanti. Auspichiamo che vengano prese, al più presto possibile, misure volte a limitare il contagio e i decessi”: è quanto chiedono, in un messaggio diffuso in questi giorni, i vescovi brasiliani seriamente preoccupati per le condizioni spesso disumane delle carceri, per la difficile situazione dei detenuti, delle loro famiglie e degli operatori penitenziari, a causa dell’aggravarsi nel Paese della pandemia. Il Brasile, infatti, secondo gli ultimi dati forniti dalla John Hopkins University, è il Paese sudamericano con il più alto numero di persone contagiate, oltre duecento quarantunomila, e con sedicimila centoventidue decessi. Sin dall’inizio della pandemia, la Commissione pastorale per l’azione sociale della Conferenza episcopale ha richiamato l’attenzione sulla possibilità che il coronavirus trovasse terreno fertile all’interno del sistema carcerario, a causa delle già precarie condizioni igienico-sanitarie, del sovraffollamento, della mancanza di prodotti di pulizia e della precarietà dell’assistenza medica. Analoga situazione - avverte una nota - si registra all’interno delle carceri femminili, dove “oltre alla precarietà e alla violenza comune nei penitenziari maschili”, si moltiplicano le violazioni dei diritti: “La carenza di assistenza sanitaria per le donne incinte e quelle che allattano, la brusca separazione dai figli, l’assenza di biancheria adatta, le restrizioni imposte alle visite dei familiari che suscitano nelle detenute un vero e proprio senso di abbandono”. In Brasile, viene osservato, “la reclusione femminile, in proporzione, ha una percentuale maggiore di quella maschile: secondo il ministero della giustizia, tra il 2000 e il 2016 la popolazione carceraria femminile è cresciuta del 69% per cento”, rendendo “sempre più precarie le condizioni di sopravvivenza delle detenute”. Per questa ragione, la pastorale carceraria brasiliana ha lanciato un questionario on line anonimo rivolto ad agenti penitenziari, coordinatori e operatori pastorali, familiari di detenuti sulla condizione delle donne nelle carceri. Il mese scorso circa trentamila detenuti sono stati scarcerati per evitare il rischio di contagio massiccio da coronavirus nelle prigioni, tutte sovraffollate, dopo una serie di denunce ed evasioni. Attualmente, più di settecentomila persone sono rinchiuse nelle carceri. Il ministro della giustizia ha raccomandato l’isolamento interno dei detenuti contagiati e la sospensione delle uscite per quelli in regime di semi-libertà, per evitare che possano ammalarsi all’esterno. Secondo la piattaforma di monitoraggio per casi confermati e sospetti del Dipartimento penitenziario nazionale, sono stati registrati, fino al 5 maggio scorso, nel sistema penale brasiliano, 535 casi accertati, 316 sospetti e 22 decessi, alla luce di 2.158 tamponi tra la popolazione carceraria. Da qui, la richiesta dei vescovi alle autorità affinché facciano proprie le proposte che la pastorale carceraria ha presentato nella sua lettera aperta e, in particolare, che siano prese misure concrete, come l’isolamento di persone arrestate, per prevenire un’epidemia di Covid-19 nelle carceri brasiliane, che venga garantita dignità alle persone, ponendo fine alle condizioni disumane che generano tanta sofferenza e malattie, che siano adottate serie misure clinico-epidemiologiche preventive. I vescovi brasiliani sono consapevoli del fatto che la pandemia sta peggiorando una situazione già di per sé drammatica, aggravata anche dalla chiusura di oltre 100 carceri all’interno del Paese. Non solo, i presuli elencano una serie di criticità che ruotano attorno al sistema penitenziario brasiliano: il 60 per cento dei detenuti è in attesa di processo per reati di proprietà; difficoltà nel relazionarsi con i familiari; impossibilità a ricevere le visite dei familiari e di sottoporsi a controlli medici; maltrattamenti. Infine, i presuli sottolineano che nella società brasiliana “circa l’80 per cento delle persone infette presenta sintomi lievi come l’influenza, tuttavia nelle carceri la situazione è piuttosto diversa, a causa del basso livello di immunità, derivante dalle condizioni di vita degradanti dei detenuti”. Egitto. Arrestata e poi rilasciata la giornalista Lina Attalah di Pino Dragoni Il Manifesto, 19 maggio 2020 La giornalista e fondatrice di Mada Masr, Lina Attalah, arrestata e rilasciata domenica per aver intervistato la madre dell’attivista Abdel Fattah in sciopero della fame, interrotto ieri. Arrestata e poi rilasciata su cauzione dopo quasi 12 ore e un clamore internazionale che forse le autorità egiziane non si aspettavano: si chiude così, con una buona notizia, la giornata di domenica per Lina Attalah, 37enne direttrice del portale di informazione. È quasi mezzanotte quando la giornalista, sguardo stanco e mascherina calata sotto il naso a nascondere un sorriso, lascia la stazione di polizia di Maadi e torna “sull’asfalto”, come dicono gli egiziani, a piede libero, ma incriminata per aver “filmato una struttura militare senza autorizzazione”. La notizia aveva fatto in poche ore il giro del mondo, rimbalzata prima sui social e poi sui siti dei maggiori quotidiani globali. Mada Masr è infatti non soltanto uno dei pochissimi media indipendenti egiziani ancora in vita, ma rappresenta anche un modello di giornalismo di qualità che ne ha fatto una delle fonti essenziali di informazione sul paese nordafricano. Malgrado il suo sito sia ormai da anni bloccato in Egitto e nonostante gli attacchi ripetuti (l’ultimo a novembre 2019, un raid negli uffici della redazione e l’arresto per alcune ore di diversi redattori), continua a produrre inchieste e approfondimenti fondamentali. Lina Attalah ha contribuito a fondarlo e ne è una delle forze trainanti. Domenica, quando è stata arrestata, la giornalista stava semplicemente facendo il suo lavoro. Era andata davanti al carcere di Tora per intervistare Laila Soueif, l’attivista e professoressa universitaria che da settimane quasi ogni giorno presidiava l’ingresso del carcere nel tentativo di far entrare pochi beni essenziali per suo figlio Alaa Abdel Fattah, in sciopero della fame dal 12 aprile. Disinfettante, salviette, vitamine, una soluzione reidratante, qualche medicina e una lettera: questo il contenuto del pacco che le autorità carcerarie per oltre un mese si sono rifiutate di far arrivare ad Alaa, tra i volti più noti della rivolta egiziana del 2011. Poi ieri la notizia: con un biglietto scritto di suo pugno recapitato alla madre Alaa ha annunciato l’interruzione dello sciopero. Detenuto nel carcere di massima sicurezza di Tora 2 dal settembre 2019, l’attivista 38enne contestava l’assurda interruzione di ogni contatto con l’esterno, motivata dall’epidemia di Covid-19, e il prolungamento della sua detenzione senza una vera udienza di convalida. Venuto a sapere che la custodia era stata rinnovata da un giudice, rientrando così almeno formalmente all’interno della legalità, Alaa avrebbe dunque deciso di riprendere gradualmente l’assunzione di cibo. “Soprattutto perché - aggiunge nella sua nota - non voglio che passiate l’Eid [festa islamica di fine Ramadan] preoccupandovi per me”. “L’ingiustizia continua e la lotta anche - ha scritto Ahdaf Soueif, nota scrittrice e zia di Alaa - Ma possiamo riprendere fiato”. Ci sono voluti 36 giorni di sciopero della fame, l’arresto di una giornalista tra le più importanti in Egitto, innumerevoli denunce e giorni all’addiaccio sul marciapiede di fronte al carcere, ma forse alla fine queste poche persone, con la loro tenacia e grazie al vasto sostegno che hanno ricevuto, una piccolissima vittoria al regime sono riuscite a strapparla. Egitto. Carceri piene e armi italiane di Cristin Cappelletti open.online, 19 maggio 2020 Al-Sisi approfitta del Coronavirus per imporre un altro giro di vite. “Non possiamo riportare indietro Giulio Regeni, ma possiamo far emergere la verità”, ha dichiarato Di Maio. Ma su questa verità pesa quasi un miliardo di esportazioni: un business a cui l’Italia non sembra disposta a rinunciare. Sono passati più di 100 giorni dall’incarcerazione di Patrick Zaki, lo studente dell’università di Bologna prelevato all’aeroporto del Cairo lo scorso 10 febbraio e rinchiuso in una delle prigioni della capitale egiziana. Cento giorni in cui gli appelli delle organizzazioni internazionali sono caduti nel vuoto. Nell’Egitto di al-Sisi è quasi impossibile ricevere una risposta. Il 17 maggio un altro attacco alla libertà di informazione è arrivato con l’arresto, e poi scarcerazione su cauzione, di Lina Attalah, direttrice del giornale indipendente Mada Masr. L’accusa? Aver condotto inchieste delicate e aver criticato il governo per la gestione dell’emergenza Coronavirus. In tutto il mondo, dal Brasile all’Ungheria, il diffondersi della pandemia ha offerto un’occasione ai governi autoritari per consolidare il loro controllo sulle strutture politiche e amministrative statali. Lo sa bene il presidente egiziano al-Sisi che il 6 maggio ha approvato una serie di emendamenti che conferiscono a lui e alle agenzie di sicurezza dello Stato pieni poteri aggiuntivi come la sospensione delle lezioni nelle scuole e nelle università e la messa in quarantena di chi torna dall’estero. Queste modifiche includono anche poteri allargati per vietare incontri pubblici e privati, proteste, celebrazioni e altre forme di riunione. Il governo ha definito le misure necessarie per combattere il vuoto legale portato dalla pandemia. Tuttavia, solo cinque dei 18 emendamenti sono chiaramente correlati alla salute pubblica e i nuovi poteri possono essere utilizzati ogni volta che viene dichiarato uno stato di emergenza, ha chiarito Human Rights Watch. La legge garantisce alle forze armate il potere giudiziario su tutti i governatori, consegnando di fatto all’esercito le chiavi di un controllo sempre più stretto e severo sulla vita privata e pubblica dei cittadini. Ora l’apparato militare ha il diritto di arrestare e indagare i cittadini, poteri prima limitati alle forze di sicurezza e ai pubblici ministeri. La crociata del “Faraone” contro giornalisti e attivisti Arresti, imprigionamenti, sparizioni forzate sono stati inflitti a un numero sempre più crescente di dissidenti politici negli ultimi mesi. Il 15 maggio le forze di sicurezza hanno fatto irruzione nella casa di Haisam Hasan Mahgoub, giornalista di punta ad Al-Masry Al-Youm. Mahgoub è accusato di terrorismo, come confermato dall’avvocato Karim Abdelrady, che ha denunciato una “campagna brutale” contro i giornalisti nel Paese. Come Patrick Zaki, il giornalista è stato accusato di sostenere gruppi terroristici nel Paese e di diffondere notizie che minacciano la sicurezza nazionale. Il 14 maggio anche il fotografo Moataz Abdel Wahab è stato arrestato con le stesse accuse. Mentre il 2 maggio scorso lo youtuber e regista di video satirici Shady Habash è morto nella stessa prigione di Patrick Zaki. Era stato arrestato nel 2018 dopo aver girato un video di Ramy Essam, uno dei simboli della rivoluzione di Pazza Tahrir. Il caso della morte di Giulio Regeni, poi, è ancora aperto: a poco più di quattro anni dall’assassinio, la procura di Roma chiede - ormai da mesi - che il Cairo proceda ad indagare i cinque agenti del Nsa che nel nostro paese sono indagati per omicidio, sulla base degli elementi raccolti in Egitto. Sono state inviate già tre rogatorie e l’ultimo incontro tra le due procure è di gennaio scorso. Ma non ci sono passi avanti. Il business italiano nella vendita di armi - Il sistema di sorveglianza ulteriormente rafforzato grazie alla pandemia, si tiene in piedi anche con l’espansione dell’apparato militare grazie all’import di materiale proveniente dai Paesi europei. Ed è proprio l’Italia ad aver approfittato della stretta del presidente Morsi, a partire dal colpo di Stato del 2013, sulle libertà individuali. Secondo la relazione governativa annuale sull’export di armamenti presentata al parlamento pochi giorni fa, e ottenuta da Rete Disarmo, è l’Egitto il primo recipiente tra i Paesi non europei e fuori dalla Nato dell’export italiano di armi. Con il regime di al-Sisi, nel solo 2019, l’Italia ha chiuso affari per un valore di 871,7 milioni di euro in armamenti: dagli elicotteri ai carri armati. Ma l’Egitto non è il solo Paese autoritario a cui l’Italia ha fornito armi. Subito dietro c’è il Turkmenistan, la Nazione del dittatore Gurbanguly Berdimuhamedow con cui il governo italiano nel 2019 ha firmato contratti per un valore di 446,1 milioni. “Su Regeni, non possiamo riportare indietro Giulio ma possiamo far emergere la verità”, ha dichiarato il 17 maggio il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ospite della trasmissione Che tempo che fa. Ma su questa verità pesa quasi un miliardo di esportazioni e armamenti e un business che per l’Italia, anche di fronte all’uccisione di un suo connazionale, sembra irrinunciabile. Afghanistan, la sorpresa dell’unità di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 19 maggio 2020 Si chiamerà “governo di unità nazionale” la formula di compromesso per cercare di far fronte al caos. Un esempio di pragmatismo politico che perpetua difficoltà gigantesche, ma almeno per il momento impedisce che la situazione degeneri ulteriormente. In Afghanistan si chiama “Governo di unità nazionale” la formula di compromesso per cercare di far fronte al caos. Un esempio di pragmatismo politico che perpetua difficoltà gigantesche, ma almeno per il momento impedisce che la situazione degeneri ulteriormente. Lo scorso 9 marzo, sia Ashraf Ghani che Abdullah Abdullah in due paradossali, separate ma parallele, cerimonie d’investitura a Kabul si erano entrambi auto-proclamati presidenti, lasciando il Paese diviso e nella totale incertezza sul futuro. La mossa seguiva mesi di polemiche furibonde dopo le elezioni di settembre, quando il presidente Ghani veniva accusato di brogli dal suo contendente diretto e partner come capo dell’esecutivo del governo dimissionario Abdullah. I due avevano già trovato una formula compromissoria di convivenza in seguito alle contestate elezioni del 2014. Promettevano di non perpetuarla. Eppure, proprio l’urgenza generata platealmente dal coronavirus rimarca quanto la politica non possa latitare, specie nei momenti di grave crisi. Occorre scegliere, trovare soluzioni. E in Afghanistan i problemi non mancano. Vanno decise subito le strategie da adottare di fronte all’accordo tra l’amministrazione americana e i Talebani, che da fine febbraio stabilisce il ritiro graduale delle truppe Usa assieme agli alleati Nato. Kabul è chiamata a negoziare con i Talebani, uno scenario destinato a rimettere radicalmente in discussione gli equilibri post-conflitto 2001. Però la violenza non scema, come dimostra anche l’attentato martedì scorso nel reparto maternità dell’ospedale di Kabul, che ha provocato la morte di 24 tra neonati, madri e infermiere. Oltre il 55% dei 36,6 milioni di afghani vive sotto la soglia di povertà di un dollaro al giorno. E il virus miete vittime senza controllo. Adesso Ghani resterà presidente e Abdullah dirigerà l’Alto Consiglio per la Riconciliazione Nazionale per il dialogo con i Talebani.