Carcere, un aggiornamento sulla Fase 2 di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 18 maggio 2020 Come Volontariato nell’ambito della Giustizia abbiamo cercato tempestivamente di avanzare le nostre proposte rispetto alla Fase 2 nelle carceri, e abbiamo ritenuto utile, come primo passo, chiedere al Garante Nazionale di confrontarsi con le associazioni che la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia rappresenta, proprio in considerazione del fatto che l’Ufficio del Garante fin dall’inizio della pandemia ha dato una informazione puntuale e dettagliata sulla situazione nelle carceri e nell’area penale esterna. Il 12 maggio si è svolta la prima videoconferenza, in cui Mauro Palma, Daniela De Robert, Emilia Rossi, componenti del Collegio del Garante Nazionale, hanno incontrato la CNVG. È intervenuto anche Stefano Anastasia, coordinatore dei Garanti territoriali. Ecco i temi affrontati rispetto alla Fase 2, su cui chiediamo da subito di essere chiamati a un confronto e a una collaborazione costruttiva dalle direzioni dei diversi istituti penali. La necessaria ripresa dei colloqui con i famigliari L’ultimo Decreto che affronta la questione delle scarcerazioni dei boss mafiosi all’articolo 4 delega ai direttori, in accordo con l’autorità sanitaria regionale, il compito di riaprire gradualmente ai colloqui delle persone detenute con i loro famigliari nella misura di almeno un colloquio al mese con almeno un congiunto. Servono misure efficaci per permettere questa graduale ripresa: dal rafforzare il sistema delle prenotazioni telefoniche all’attrezzare meglio le aree verdi all’aumentare in modo consistente giorni e orari di colloquio, per poter ridurre i numeri e distanziare le persone (pensiamo con sgomento agli sgabelli in acciaio imbullonati al pavimento di Oristano…) al predisporre spazi di attesa più ampi (pensiamo alla stanzetta del carcere di Parma dove sono accatastate di solito decine di famigliari…). Con il Garante abbiamo sottolineato l’importanza che questo inizio di Fase 2 e questi primi passi nel ripristinare i colloqui famigliari siano monitorati e diventino occasione di ripensare il tempo e gli spazi tristi degli affetti. Il Volontariato ha sempre avuto una piattaforma articolata su questi temi ed è disponibile a dare senz’altro un contributo forte. Le tecnologie sono “entrate” per il virus, ora devono restare, per gli affetti ma anche per i percorsi rieducativi/risocializzanti La cosa più drammatica che potrebbe succedere nella fase 2 è che le tecnologie, entrate finalmente in carcere, ne escano appena si tornerà a un po’ di normalità ripristinando i colloqui visivi. Al Garante daremo tutto il nostro appoggio, visto che ha già espresso la volontà di sostenere l’uso delle tecnologie quando si tornerà alla “normalità”, perché anche in condizioni “normali” i rapporti con le famiglie, le telefonate e i colloqui nel nostro Paese sono veramente una miseria. E ci sono persone detenute che non possono fare i colloqui visivi (lontananza, parenti anziani e malati...) e che solo grazie alle videochiamate hanno potuto dopo anni rivedere le loro case e i loro cari. Quella della videoconferenza è una modalità che potrebbe aprire grandi possibilità, soprattutto per ampliare gli spazi dello studio e dei percorsi rieducativi. Il Volontariato sta chiedendo ovunque l’utilizzo di piattaforme come Zoom e Meet, che cominciano a essere usate in qualche carcere (per esempio a Bergamo per la redazione, a Rebibbia e Modena per il teatro), facciamo in modo che diventi generalizzata questa pratica, e che sia monitorato l’impegno di ogni carcere a garantire l’uso delle tecnologie, eventualmente con risorse della Cassa Ammende. Le persone detenute non possono restare dei “senzatetto digitali”, se non vogliamo che il reinserimento diventi ogni giorno più difficile in una società, che le tecnologie le dovrà mettere sempre più al centro della sua vita. Riaprire al Volontariato significa riportare in carcere la funzione costituzionale della pena Di massima importanza risulta riaprire l’accesso ai volontari e agli operatori della società civile, che attraverso il loro impegno realizzano progetti, che costituiscono importanti percorsi di crescita per le persone detenute. È urgente reintrodurre una “vita sociale” nelle carceri riportando al loro interno la società civile attraverso delle corrette procedure di accesso al carcere a tutela dei volontari stessi, degli operatori e dei detenuti, tra cui l’utilizzo dei dispositivi individuali di protezione (mascherina, guanti e gel). Ogni giorno entrano nelle carceri migliaia di agenti e di altri operatori penitenziari, di sanitari, operatori esterni delle cooperative, non c’è motivo perché ora non riprendano a entrare, con le dovute precauzioni, anche i volontari. Il reinserimento significa anche accesso ai permessi premio e poi alle misure alternative. I permessi oggi sono bloccati, non possono rimanerlo ancora a lungo, se non vogliamo svuotare di senso e di speranza le pene. Devono essere attuati, nel rispetto della sicurezza sanitaria. Quanto alle misure alternative, il Volontariato che accoglie e sostiene i percorsi di reinserimento e le cooperative che sono più attrezzate per offrire opportunità lavorative a soggetti svantaggiati devono mettere insieme le loro risorse e le loro competenze, già abbiamo collaborato con il Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità sulla questione cruciale dell’accoglienza per chi può accedere a misure come la detenzione domiciliare, vogliamo continuare a farlo perché, nella difficile fase dell’uscita dal carcere, non vengano vanificati percorsi di reinserimento complessi, che richiedono attenzione e accompagnamento. Il buco nero dell’informazione Luigi Ferrarella, giornalista di cronaca giudiziaria ed editorialista del Corriere, in un articolo dell’11.5.2020 parla, a proposito dell’informazione sui temi della giustizia ai tempi del coronavirus, di “amnesie selettive”, perché elidere dall’informazione pezzi di realtà è forse l’unico modo per poter serenamente continuare a spacciare, al posto della realtà, la fiction del carcere come “luogo più sicuro al mondo”. Il caso che ha creato più scandalo, quello di Francesco Bonura, un esponente di spicco della mafia, un uomo di 78 anni, con un tumore grave, cardiopatico, è anche il caso in cui l’”amnesia selettiva” è stata più vergognosa: la gran parte dei giornalisti ha taciuto sul fatto che il detenuto era sì al 41-bis, ma che gli mancano pochi mesi al fine pena. Il fallimento dello Stato è che una persona finisca di scontare la pena nel regime del 41-bis ed esca senza aver fatto nessun percorso, dovrebbero invece essere ritenute Istituzioni credibili quelle che sanno prendersi cura della salute di TUTTI, anche dei mafiosi. Al Garante abbiamo proposto di lavorare per creare momenti di formazione, anche in remoto (e l’Ordine dei Giornalisti deve adeguarsi a questa nuova modalità), per i giornalisti, che poco conoscono la realtà dell’esecuzione penale e molti danni possono fare anche solo tacendo dati e cancellando pezzi di notizie significativi. Vogliamo contribuire con la nostra competenza a informare e sensibilizzare le persone “dentro” e la società “fuori”, bombardata da una informazione, spesso superficiale e imprecisa, e vogliamo valorizzare le esperienze di redazioni nate all’interno delle carceri, anche qui chiedendo che l’uso di Internet non sia più un tabù. Insieme, a fianco dei Garanti La videoconferenza con il Garante Nazionale è stata seguita da 100 persone perché quello è il limite della piattaforma ZOOM, abbiamo dovuto respingere molti altri volontari interessati. È innegabile che la tragedia della pandemia ci ha messo comunque di fronte all’obbligo di darci strumenti nuovi per confrontarci, comunicare, fissare degli obiettivi comuni, quindi il Volontariato deve fare tesoro di esperienze come il confronto con il Garante Nazionale, a cui chiediamo di continuare sulla strada del dialogo con cadenza regolare con le nostre realtà, che sono presenti in modo capillare nelle carceri e possono contribuire al monitoraggio di questioni vitali come la cura degli affetti, la salute, l’uso delle tecnologie. Con i Garanti territoriali, e il loro coordinatore Stefano Anastasia, abbiamo avviato una prima riflessione sulle prospettive della fase 2, nelle prossime settimane le Conferenze regionali Volontariato Giustizia si riuniranno con loro perché è adesso che c’è bisogno che la società civile torni a essere presente capillarmente nelle carceri e nell’area penale esterna: questa deve essere non un’occasione per pensare di “fare da soli” ma un’opportunità per lavorare fianco a fianco, ognuno valorizzando la sua specificità. Vogliamo tornare a portare nelle carceri le nostre idee, le nostre risorse, la nostra capacità innovativa. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia D.P.C.M. 17 maggio 2020. Le regole per le carceri vigenti fino al 14 giugno prossimo Gazzetta Ufficiale, 18 maggio 2020 Disposizioni attuative del Decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, recante misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid-19, e del Decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, recante ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid-19. Articolo 1, comma, 1, lettera cc) Tenuto conto delle indicazioni fornite dal Ministero della salute, d’intesa con il coordinatore degli interventi per il superamento dell’emergenza coronavirus, le articolazioni territoriali del Servizio sanitario nazionale assicurano al Ministero della giustizia idoneo supporto per il contenimento della diffusione del contagio del Covid-19, anche mediante adeguati presidi idonei a garantire, secondo i protocolli sanitari elaborati dalla Direzione generale della prevenzione sanitaria del Ministero della salute, i nuovi ingressi negli istituti penitenziari e negli istituti penali per minorenni. I casi sintomatici dei nuovi ingressi sono posti in condizione di isolamento dagli altri detenuti, raccomandando di valutare la possibilità di misure alternative di detenzione domiciliare. I colloqui visivi si svolgono in modalità telefonica o video, anche in deroga alla durata attualmente prevista dalle disposizioni vigenti. In casi eccezionali può essere autorizzato il colloquio personale, a condizione che si garantisca in modo assoluto una distanza pari a due metri. Si raccomanda di limitare i permessi e la semilibertà o di modificare i relativi regimi in modo da evitare l’uscita e il rientro dalle carceri, valutando la possibilità di misure alternative di detenzione domiciliare. Riapre tutto. Ma non le carceri di Daniele De Luca estremeconseguenze.it, 18 maggio 2020 Un colloquio consentito, forse, da qui a fine giugno e volontariato ancora tenuto fuori. Sono 110 i detenuti positivi al Covid-19 e 204 il numero delle persone che lavorano negli istituti penitenziari tra i casi accertati come positivi. Tra questi 28 sono del personale sanitario, sei di quello amministrativo e 170 operatori della Polizia penitenziaria. Sono gli ultimi dati forniti dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Due gli agenti di polizia penitenziaria morti per il virus. Ma ricordiamo bene tutti quanto accaduto tra il 7 e 11 marzo in una trentina di carceri italiane. Rivolte, sommosse, incendi, evasioni con un pesantissimo bilancio di 12 morti. Modena, Caltanissetta, Enna, Foggia, Larino, Pescara, Avellino, Bologna, Rieti, Palermo Pagliarelli, Genova, Campobasso, Trapani, Siracusa, Caserta, Aversa. Ma anche San Vittore e Opera (dove i familiari hanno denunciato percosse e violenze, una situazione poco chiara raccontata da Internazionale. ‘Molla’ scatenante il blocco dei colloqui coi familiari, la paura del contagio, l’assenza pressoché totale di dispositivi sanitari. Poi le polemiche per le ‘scarcerazioni’ facili, i dubbi su una possibile ‘regia’ mafiosa delle rivolte, polemiche, dimissioni ai vertici dell’Amministrazione Penitenziaria. La popolazione carceraria, abbondantemente oltre i limiti consentiti, è scesa a circa 53mila. Ma con grandi differenze tra regioni. Per rispettare le normative europee e internazionali però l’Italia dovrebbe scarcerare altri 6-7mila detenuti. Al 31 marzo i detenuti presenti in carcere erano 57.846, 3.384 in meno rispetto alla fine di febbraio. La capacità massima delle carceri italiane è di 47.231 posti. Si tratta di un calo delle presenze complessivo del -5,5% della popolazione detenuta in Italia ma come si può immaginare il calo è distribuito in modo molto disomogeneo nel territorio nazionale. In Emilia-Romagna nello stesso periodo la popolazione detenuta è calata del 16,3%, in Lombardia del 7,2%, valori fortunatamente superiori alla media, trattandosi di due regione tra le più colpite dalla attuale emergenza Coronavirus. Purtroppo si registra invece un calo inferiore alla media nazionale in Veneto, del 3,8%, e addirittura del solo 1% in Piemonte, regioni anche queste pesantemente colpite. E nello stesso periodo la popolazione detenuta nelle Marche ed in Calabria è addirittura cresciuta. Il calo registrato delle sole donne detenute, del 7,6%, è in media superiore a quello del totale della popolazione ed in Emilia-Romagna le donne sono calate addirittura del 25%. Se si guarda ai soli detenuti stranieri la loro diminuzione, del 4,7%, è di poco inferiore a quella del complesso dei detenuti, indice che per loro il ricorso al carcere continua comunque ad essere maggiore che per gli italiani nonostante, come è noto, in media commettono reati meno gravi. Sorprende il calo limitato dei detenuti in semilibertà, che sono passati da 1.097 a 884 nel periodo considerato nonostante l’art. 124 del decreto Cura Italia paresse dover quasi azzerare la loro presenza negli istituti, per evitare il loro reingresso quotidiano in carcere. Ancora più sorprendente il fatto che, se si guarda ai soli detenuti in custodia cautelare, il loro calo è in proporzione addirittura maggiore di quello dei detenuti con una condanna definitiva: -7,6% gli uni, -4,5% gli altri. E questo nonostante tra le misure introdotte dal Governo non fosse previsto nulla per le persone in custodia cautelare. Da oggi i colloqui ‘in presenza’ ripartono. Le Direzioni di ogni carcere potranno decidere quante volte permettere gli incontri con familiari e parenti. Potranno limitare sino a uno il numero dei colloqui mensili consentiti e sempre sino ad uno il numero delle persone ammesse al colloquio. Il Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) ritiene opportuno fornire, sia pure in modo orientativo, l’indicazione di due colloqui mensili ed una persona a colloquio. Resta salva la possibilità per il detenuto di chiedere di fruire di tutti i colloqui in ‘ modalità a distanza’ tramite gli strumenti telematici come skype. Conseguentemente, d’intesa con l’Autorità sanitaria, si provvederà a munire i locali colloqui con ‘ mezzi divisori” adottati in relazione alle caratteristiche della singola sala. Quindi, nel migliore dei casi, un colloquio per detenuto da qui a fine giugno. Tenendo conto che nessuno ha potuto incontrare un proprio familiari dal 7 marzo scorso. Oggi riparte l’Itala, sostenuta dal decreto-rilancio che prevede tante misure per accompagnare la fase 2, ma i volontari restano ancora fuori dalle carceri. Per i detenuti, quindi, non è ancora una ‘riapertura’. Perché decine di programmi per lavoro, istruzione, formazione resteranno ancora bloccati. Ma non solo. Sono scomparse negli ultimi due mesi, e nessuno sa quando ripartiranno, tutte le attività educative e istruttive, dalle lezioni di lingua a quelle di teatro alle altre iniziative di cui si fanno carico i volontari. A Bollate, carcere da oltre 1.200 detenuti, “al cibo per chi faceva il ramadan che gli istituti non riuscivano a recuperare, ci hanno pensato i volontari”. A una diminuzione degli ingressi, dovuta al minor numero di reati commessi durante il lockdown, si è aggiunto un maggiore ricorso alle misure alternative al carcere nelle sentenze emesse dai giudici negli ultimi due mesi. In Lombardia il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), il Tribunale di sorveglianza, il mondo del volontariato e la curia stavano studiando con la Regione un piano per accompagnare e facilitare le uscite dei detenuti dalle carceri regionali e l’accompagnamento sul territorio in modo controllato. “Tutto è però saltato perché la Regione ha rifiutato 900 mila euro della Cassa delle ammende che può finanziare programmi di reinserimento per i detenuti”, spiega Guido Chiaretti di Sesta Opera San Fedele Onlus. Riaprire al volontariato in carcere significa riportare in carcere la funzione costituzionale della pena, quell’articolo 27 della Costituzione (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”) che continua a essere sospeso, anche se oggi l’Italia ‘riparte’. Il mondo del volontariato non è immobile, lavora anche da fuori - Se le tecnologie, entrate finalmente in carcere anche per far fronte alla rabbia dei detenuti, non devono uscire quando - e se - si tornerà alla normalità, Favero è preoccupata che il ripensamento dei modelli organizzativi delle carceri avvenga escludendo le decine di associazioni educative e di volontariato che operano, o meglio operavano, quotidianamente negli istituti italiani. Oltre alle visite, “di fatto quasi sospese in presenza fino a fine giugno”, dalle lunghe e monotone giornate dei detenuti, sono scomparse negli ultimi due mesi anche le attività educative e istruttive, dalle lezioni di lingua a quelle di teatro alle altre iniziative di cui si fanno carico i volontari. “Se in certe occasioni sono state ripristinate in videoconferenza, come a Rebibbia dove il teatro con i detenuti lo stanno facendo online, o come a Bergamo, dove sono le attività redazionali interne al carcere che sono andate in rete e vanno avanti lì, in molti casi non è stato possibile”. I detenuti del laboratorio di falegnameria del carcere di Busto Arsizio in Lombardia hanno continuato da soli, producendo dei crocifissi in legno con incastonato un cuore a metà, “perché l’altra metà si trova fuori”, racconta il cappellano Don David Maria Riboldi. Inoltre vanno riprese le attività con i ragazzi delle scuole progetti come “A scuola di libertà”, tesi a fare prevenzione tra le giovani generazioni ma anche a spiegare loro che non si crea sicurezza facendo “marcire in galera” chi commette reati, ma accompagnandolo in un percorso di assunzione. Un miracolo chiamato Rems di Giovanni Tizian L’Espresso, 18 maggio 2020 Pochi contagi e zero decessi: le Residenze che hanno sostituito gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari hanno funzionato, ecco perché. Chiamateli “pazzi criminali” se volete. Ma sappiate che in questo tempo sospeso tra restrizioni, paure, fragilità collettiva, hanno aiutato a superare l’angoscia e lo smarrimento di chi li assiste. Degli operatori, per esempio, abituati a una vita normale e che nelle Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, sfidano i pregiudizi per curare uomini e donne che hanno commesso reati gravissimi armati della propria follia. La malattia, le limitazioni, cittadini che si scoprono fragili e si rintanano per uscirne più forte di prima. Esperienza nuova per noi, ma non per chi è obbligato a vivere così ogni giorno della propria vita. Di questa categoria fanno parte i pazienti che un tempo la società avrebbe scaricato nelle discariche chiamate Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari. Gli Opg sono stati banditi. Una riforma, la legge 81 del 2014, li ha cancellati per sempre sei anni fa. “Una rivoluzione gentile”, la definisce Franco Corleone, tra gli ispiratori della nuova legge e strenuo combattente dei diritti degli ultimi. Di impatto come fu la più celebre legge Basaglia. Ecco, dunque, che il parere è unanime: le comunità che hanno ereditato e cancellato la disumanità degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari hanno retto alla catastrofe Covid. E non solo in termini di contenimento del contagio. Ma anche perché nelle Rems il lockdown ha prodotto risultati terapeutici inattesi. In una struttura siciliana, per esempio, una madre che ha ucciso i suoi due figli ha deciso di fare i conti col proprio passato durante la fase I e aprirsi con l’equipe di specialisti che la seguono nella residenza. “Nel buco nero degli Opg, l’unico orizzonte possibile era quello della segregazione, talvolta del vero e proprio orrore”, dice Alessandro Capriccioli, presidente del gruppo Radicali in consiglio regionale del Lazio. Le parole di Capriccioli sottendono un’altra riflessione: se ci fossero stati ancora gli Opg di certo la pandemia avrebbe provocato una strage nelle carceri trasformate in discariche della follia. “Sarebbe stato certamente così”, ci conferma Raffaele Barone, esperto di comunità terapeutiche, direttore del dipartimento Salute mentale di Caltagirone oltreché supervisore delle Rems della cittadina in provincia di Catania. La rivoluzione gentile ha prodotto un cambio radicale di paradigma nel trattamento degli autori dei reati non imputabili per “incapacità di intendere e di volere”: a differenza degli Opg in cui le persone scontavano ergastoli bianchi, nelle Rems i pazienti seguono un percorso terapeutico con l’obiettivo di un reinserimento nella società. La ricerca delle parole giuste è la premessa di ogni vero cambiamento. “Le parole sono importanti”, diceva Michele in Palombella Rossa. E da detenuti a pazienti, la mutazione lessicale è rivoluzionaria. “Aver trasformato gli “internati” in “pazienti” è l’ultimo effetto nella maturazione della rivoluzione basagliana degli anni 70”, dice Capriccioli. Le Rems attive sul territorio nazionale sono 31, con 635 posti disponibili, di cui 582 occupati. l’unica fotografia sull’impatto della pandemia sulle residenze al momento disponibile è un’indagine in fase conclusiva che L’Espresso ha potuto leggere in anteprima. Avviata ad aprile dall’Osservatorio sul superamento degli Opg e sulle Rems e dal coordinamento Rems-Dsm, che hanno inviato un questionario a tutte le residenze. A coordinare il lavoro Pietro Pellegrini, direttore del dipartimento salute mentale e dipendenze patologiche della Asl di Parma nonché membro del coordinamento Rems-Dsm e Stefano Cecconi dell’osservatorio sul superamento degli Opg. Alle domande del gruppo di ricerca hanno risposto in 26 Rems, che rappresentano un totale di 443 posti, oltre il 69 per cento del totale. “Al momento della rilevazione le 26 Rems ospitavano 393 pazienti. Nel periodo considerato sono state effettuate 10 ammissioni e 19 dimissioni”. Mentre negli Opg i reclusi erano reietti, il sistema Rems riabilita, cura e dimette i pazienti che hanno terminato un percorso chiaro e definito. Un trend che né il virus né il lockdown hanno invertito. “Se proiettata a livello annuo porta le dimissioni a 158 pari al 35,6 per cento della dotazione complessiva di posti”, scrivono i ricercatori. Ma tornano al contenimento del Covid-19. I dati raccolti evidenziano come solo nelle 26 Rems sono soltanto due i casi di ospiti positivi al coronavirus: entrambi nella medesima struttura. Nessun decesso. Cosa che non è avvenuta nelle case di riposo a capitale privato (ma remunerate dalle convenzioni) dove c’è stata una strage di anziani. Eppure anche nelle Rems si sono verificati casi positivi di operatori e infermieri. Quattordici in tutto in 5 Rsa. Il fatto è che a differenza delle Rsa il virus è stato bloccato all’esterno. Nelle Rems il paziente torna a essere umano e la sua follia una patologia che si può curare. Nonostante le restrizioni che hanno riguardato pure le Rems, non sono state segnalate situazioni critiche. Anzi, secondo la ricerca letta da l’Espresso, i Tso (i trattamenti sanitari obbligatori) sono in calo, zero le contenzioni, zero i suicidi. Invariate le aggressioni, gli atti di autolesionismo e di protesta rispetto al periodo pre Covid. Secondo gli esperti “il clima relazionale interno in certi casi è anche migliorato”, o meglio, “il lockdown ha ridotto il divario con la comunità nella quale tutte le persone sono state invitate a restare a casa e per tutte è stata limitata la libertà di circolazione”. Conferma il quadro Carmelo Florio, direttore del dipartimento Salute Mentale di Caltagirone: “La sorprese è che l’utenza accetta e comprende il momento. La Rems di Caltagirone è una struttura ampia, con spazi che consentono distanziamento”. La residenza calatina è diretta da Salvo Aprile, che all’Espresso spiega: “I pazienti hanno reagito bene. Certo, hanno sentito la mancanza delle uscite con gli operatori. Ma abbiamo potenziato altre iniziative: hanno usato i social network per raccontare come vivono la solitudine. Il gruppo cucina è stato incentivato. Tutte le attività esterne, sportive e ricreative in giardino hanno lenito il fatto di non potere più andare al bar o a prendersi la pizza. Nessuna protesta, nessuno scatto d’ira. I pazienti hanno scritto anche dei messaggi alle radio locali per spiegare ai cittadini come osservare al meglio le limitazioni”, sorride Aprile, che aggiunge: “Anche a noi hanno dato suggerimenti su come sopportare la clausura”. In questa Rems dall’inizio del lockdown ogni venerdì alle cinque del pomeriggio operatori e pazienti si ritrovavano nel giardino per cantare l’inno nazionale. “Ma dopo aver visto nei telegiornali le bare di Bergamo, sono loro che ci hanno chiesto di sospendere per riflettere su quelle morti”. Sono pazienti che hanno convesso reati anche gravissimi, omicidi, stragi. “Io dimentico il reato che ha commesso, per noi esiste solo la persona che va aiutata”, dice il direttore della struttura. La sfida in questa fase di lockdown è cambiare, non chiudere. I mezzi di comunicazione ci hanno permesso di mantenere intatto il nostro metodo. Democrazia vuol dire responsabilità, gli utenti si sono presi anche un po’ cura delle nostre preoccupazioni. È stata un’opportunità”, spiega Raffaele Barone, tra gli autori della ricerca sulle Rems al tempo del virus. A Volterra c’è un’altra residenza che ha fatto scuola in questi anni. Anche qui il sistema ha retto, con risultati superiori alle aspettative. “Temevo fosse per loro più difficile”, racconta la psichiatra Claudia Montanelli, “soprattutto quando il nostro direttore si è ammalato ed è stato ricoverato per Covid. Invece abbiamo affrontato tutto con il massimo rigore. Abbiamo interrotto uscite e inserimenti lavorativi. I pazienti hanno risposto in maniera positiva. Come se le limitazioni del lockdown li avesse finalmente resi uguali agli altri fuori dalla Rems”, conclude Montanelli. La ricerca del team guidato da Pellegrini e Cecconi non è solo un’istantanea sull’attualità. “Il questionario ha indicato alcune linee per il lavoro futuro, dal miglioramento della diagnostica specifica per il covid-19 fino a Linee Guida e Protocolli, all’utilizzo delle nuove tecnologie sia nella riabilitazione che nei rapporti con Dipartimenti di Salute Mentale e Magistratura”. Istituzione, quest’ultima, che spesso guarda alla follia con lo sguardo rivolto al passato, considerando le Rems un contenitore dove far convivere vissuti troppo diversi. “Il fatto che non siano aumentati gli ingressi e siano cresciute le uscite testimonia il fatto che il sistema regge”, è l’analisi di Franco Corleone, che aggiunge: “Fatta l’ottima riforma, però, ci siamo trovati di fronte a un aumento della richiesta di misure fondate sull’incapacità di intendere e volere. Ecco, quindi, che è arrivato il momento di riprendere il cammino della rivoluzione gentile: andare al nodo, al rapporto tra malattia mentale e reato”. I nodi, appunto, che ostacolano il compimento della riforma: la compresenza nelle Rems di pazienti non imputabili perché incapaci di intendere e di volere e di quelli che invece durante la detenzione in carcere sì ammalano. I secondi vengono da percorsi più strutturati e rappresentano per gli altri pazienti un elemento a volte di disturbo nel loro percorso di recupero. Corleone insieme alla Società della Ragione sta preparando un seminario sulla non imputabilità. La fine cioè del doppio binario, che garantisce a chi ha commesso un delitto a causa della sua malattia mentale di non essere imputabile e di finire in terapia nelle Rems. “Il giudizio deciso con una perizia sull’intendere volere e la pericolosità sociale (il binomio che provoca la misura di sicurezza) risale al codice Rocco di 90 anni fa. Si tratta ora di andare avanti e affidare la responsabilità dell’atto a chi lo ha commesso, a detta di molti psichiatri, è terapeutico. Intendiamoci, la riforma che ha abolito gli Opg ha funzionato bene. Ma dopo alcuni anni è giusto fare un bilancio e capire come procedere. Se si dovesse procedere con le Rems, bisogna risolvere il nodo delle misure definitive. Altrimenti non resta che guardare ancora avanti e rivedere il doppio binario: esaltare, cioè, la responsabilità con un fine terapeutico”. “Andare oltre il carcere è questione di dignità” di Federica Olivo huffingtonpost.it, 18 maggio 2020 Intervista a Giovanni Maria Flick. Il presidente emerito della Consulta all’HuffPost: “Recludere solo i soggetti pericolosi, per gli altri si pensi a diverse forme di detenzione. E ci sarebbe da fare un importante lavoro di depenalizzazione”. “Il carcere è considerato una realtà impermeabile a qualsiasi forma di cambiamento. È visto come strumento di reazione alla paura del diverso. Non è utilizzato come extrema ratio, ma come metodo normale per risolvere quello che è percepito come un problema”. In piena emergenza Covid, Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale, pensava che sarebbe iniziata una riflessione seria sui penitenziari. Su un modello che, spiega ad HuffPost, “è da superare”, perché, in molti casi, non rispetta la dignità del detenuto. Non garantisce quei principi che pure sono scritti, nero su bianco, nell’articolo 27 della Costituzione. Così non è stato. Ha prevalso, anche questa volta, l’agire solo sulla base dell’emergenza, senza progetti di lungo periodo. Il seguire, a suon di decreti, le preoccupazioni dell’opinione pubblica. Più o meno motivate che fossero. E così, quando sarà passata l’emergenza, probabilmente di istituti di pena - e di diritti dei detenuti - non si parlerà più per altro tempo. Uno scenario preoccupante perché, spiega l’ex Guardasigilli ad HuffPost, “la politica e la società vogliono dimenticare il carcere e le persone che sono ristrette al suo interno. È una sorta di rivisitazione del concetto, troppo spesso ripetuto, del chiudere dentro e buttare la chiave. Questo credo sia un dramma”. Professore, spesso si tende a considerare il carcere come un qualcosa di esterno alla società, come se i detenuti stessi fossero un corpo estraneo alla comunità. Eppure la Costituzione dice ben altro. Perché accade ciò? Perché il carcere viene considerato come un mondo a parte, impermeabile a qualsiasi forma di cambiamento. Come strumento di reazione alla paura del diverso. Non è utilizzato come extrema ratio, per casi particolarmente gravi, ma come metodo normale per risolvere quello che è percepito come un problema. Si continua, insomma, a perseguire la strada del “carcere a ogni costo” e ci si dimentica dei diritti e della dignità del detenuto, oltre che della funzione educativa della pena. Seguendo questa filosofia, si continuano a usare espressioni come “gettare la chiave” o “quella persona deve morire in carcere”. Ma, vede, c’è un principio che spesso viene dimenticato: è quello della pari dignità sociale. Questo non esclude nessuno, neanche i detenuti; neanche fra questi i condannati per i reati più gravi. Una dignità che, spesso, viene negata nei fatti. È possibile un carcere diverso? Qualche tempo fa, nella legislatura precedente era stata istituita una commissione ministeriale per arrivare a una riforma che assicurasse a chi ha commesso un reato i “residui di libertà” (così chiamati dalla Corte costituzionale) compatibili con la privazione della libertà personale: ad esempio il diritto all’affettività, all’istruzione, ad un minimo di privacy. Che garantisse, insomma, pur nelle restrizioni, qualche barlume di libertà che fosse - sembra un paradosso ma non lo è - compatibile con la restrizione generale della libertà stessa. Poi sono arrivate le elezioni e quelle carte saranno, al più, studiate da qualche appassionato nelle biblioteche. Resta la realtà: carceri sovraffollate, interventi solo emergenziali, reclusione vista come forma più efficace di pena, condannato isolato dal mondo perché considerato diverso. Un modello che, forse, non è particolarmente compatibile con uno stato di diritto. Come si può andare oltre? Vede, io credo che non possiamo più esimerci dal ragionare su un tema di fondo. Ritengo che il carcere per come lo conosciamo oggi sia un modello da superare. Non in tutti i casi, beninteso, ma bisognerebbe lasciarsi alle spalle quell’idea secondo la quale la reclusione in un istituto penitenziario sia la norma. In carcere dovrebbe andare solo chi è aggressivo e violento. E gli altri condannati? Per loro sarebbe opportuno pensare a pene diverse, ma non per questo meno efficaci. Qualche esempio? Intanto colpire più significativamente i patrimoni di chi si è arricchito commettendo un reato, secondo il modello sperimentato con successo per la criminalità organizzata. Ma poi penso a dei seri lavori socialmente utili; al divieto di esercitare le professioni con cui si sia commesso il reato; alla detenzione domiciliare. Consento al condannato di stare a casa, certamente poi dispongo dei controlli. Questo sarebbe un modo per non compromettere la dignità della persona. Professore, è possibile arrivare a un modello del genere in una società che, salvo sparute eccezioni, tende a vedere la pena come una vendetta e il detenuto come una monade che non fa più parte della società? Ci dobbiamo arrivare. Ci possiamo arrivare. Certo, sono necessarie alcune condizioni. Quali? Prima di tutto condizioni culturali. Intanto la società deve essere in grado di assumersi un rischio. Di accettare che potrebbe accadere che qualche detenuto che sconta la pena in casa torni a commettere reati. Ma si può fare in modo che ciò, tendenzialmente, non accada. O che si verifichi il meno possibile. Come? Innanzitutto non abbandonando il condannato a sé stesso. Poi, perché un modello del genere possa essere messo in pratica, sarebbe necessario che la politica la smettesse di utilizzare le carceri e il sistema penale come strumento di persuasione e di paura. Peraltro, mi sento di aggiungere, che c’era un tempo in cui la saggezza del nostro sistema consentiva di distinguere l’uomo dal fatto che ha commesso. Ci spieghi... Nel momento della cognizione si giudicava il fatto, non l’uomo. Dopo, nella fase dell’esecuzione, si andava a valutare il trattamento che il condannato, avrebbe dovuto avere. E lì si prendeva in considerazione l’uomo. Adesso mi pare che stiamo capovolgendo le cose. Non trova ci sia una tendenza a dimenticare la funzione rieducativa della pena? A considerare il carcere non come luogo che può offrire una rinascita ma come posto dove, semplicemente, scontare una condanna? Più che funzione di rieducazione io parlerei, aggiungendo un altro step, di responsabilizzazione. Oggi non sempre si riesce ad arrivare a ciò. Vede, la cultura giuridica ha attraversato tre fasi. La prima era quella della vendetta, che si limitava a un rapporto Stato-colpevole, la seconda quella del rapporto a tre: Stato, condannato, società che puntava alla rieducazione. C’è poi l’ultimo stadio, la giustizia riparativa. Quando, cioè, si arriva a cercare di ricostruire un rapporto fra il condannato e la vittima o la famiglia di quest’ultima attraverso la responsabilizzazione e la consapevolezza del primo. A volte accade. Molte altre volte no. Forse perché i condannati non sono messi in condizione di farlo? Esatto. Spesso a chi sta scontando una pena non vengono dati gli strumenti per intraprendere questa strada. Con tutte le conseguenze del caso. Io credo che, al netto delle presunte o effettive strumentalizzazioni, le rivolte sui tetti dei penitenziari come a marzo scorso, siano una conseguenza delle condizioni in cui vivono i detenuti quando si levano loro i pilastri essenziali di sopravvivenza: la speranza e la fiducia. E non è un bel segnale. Negli ultimi tempi la Corte costituzionale ha mostrato di avere molta attenzione nei confronti delle carceri. Non mi riferisco solo ad alcune decisioni - come quella sull’ergastolo ostativo - ma anche ad alcuni eventi, come il “Viaggio nelle carceri”... Certo, la Consulta sta mostrando grande attenzione. Ma mi permetta di dire una cosa: mentre i giudici costituzionali entravano dalla porta, nei penitenziari la Costituzione usciva dalla finestra. Cosa intende? Che l’articolo 27 della Costituzione negli istituti di pena troppe volte non è rispettato. Voglio leggerne una parte del testo: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ecco, laddove il trattamento diventa inumano non è più una pena. Può diventare un reato. Il suo riferimento alle rivolte nelle carceri ci riporta all’attualità, alla querelle relativa alle scarcerazioni dei detenuti del circuito di alta sicurezza. Non tutti boss, come si era inizialmente affermato. Il governo ha risposto, se così si può dire, con due decreti. Cosa pensa di questo modo di agire? Diciamo che è stata l’applicazione del principio secondo il quale per ogni problema, o fenomeno percepito come tale, si fa una legge. Abbiamo avuto una processione di decreti - legge di cui non c’era bisogno. Ricordo che il magistrato di sorveglianza ha il potere, e il dovere, di rivedere le misure che firma. Certo, ora con il secondo provvedimento di Bonafede dovrà farlo con delle cadenze prestabilite. Ma la sostanza non cambia. Ricordo poi, senza entrare nel merito del singolo caso, che i provvedimenti di cui si è tanto discusso erano, come sempre, impugnabili. Questa cosa forse sfugge al governo e al ministero? La sensazione è che il Guardasigilli sia andato dietro al sentiment dell’opinione pubblica, come se volesse ‘correre ai ripari’ dopo le scarcerazioni dovute solo in parte all’emergenza Covid e soprattutto alle condizioni di gravi infermità dei beneficiari... Vede, io credo che ci siamo costruiti una sorta di abito mentale per cui siamo portati a pensare, sbagliando, che una persona condannata per un reato di mafia sia un soggetto con meno diritti, irrecuperabile. Non a caso è stata fatta dell’ironia - per me fuori luogo - sul fatto che al 41 bis si sarebbe più al riparo dal contagio che in un supermercato. Vorrei ricordare che il diritto alla salute vale per tutti. E che questo non può essere superato dal diritto alla sicurezza della comunità, che può invece essere garantito in altro modo. Le scarcerazioni, o meglio, i differimenti della pena, sono stati concessi a persone malate o anziane. Al di là di eventuali ritardi del Dap e di possibili errori del magistrato che ha deciso, perché c’è stato tutto questo accanimento contro i domiciliari ai detenuti di alta sicurezza? In primo luogo perché stando alle cifre riportate dai media, si è agito sulla base di dati numerici inesatti, per usare un eufemismo. Poi perché sarebbe stato meglio da parte del Dap fornire ai giudici di sorveglianza una lista aggiornata dei presidi interni ed esterni al carcere, disponibili per la cura, piuttosto che una lista delle comorbilità associate al virus, a partire dall’età. Inoltre ci si dimentica che la salute va tutelata sempre. È un diritto per tutti, prevale in ogni circostanza. Se così non fosse, tanto varrebbe rimettere in funzione la pena di morte. Ricordo, poi, che nei casi di cui si è tanto discusso sono state applicate due norme del codice penale delle quali il legislatore si era dimenticato quando ha disposto il divieto delle misure alternative per che non collabora. Una dispone il differimento obbligatorio della pena in caso di gravi problemi di salute, l’altra il differimento facoltativo. In altri termini, se rischia la vita, il detenuto potrebbe uscire dal carcere anche senza essere costretto alla detenzione domiciliare. Il fatto che il giudice abbia disposto che debba rimanere in una casa, garantisce che questo sia controllato dalle forze dell’ordine. La questione, comunque, al di là di tutte le polemiche strumentali degli ultimi giorni è molto semplice. Il giudice fa una valutazione: tenendo conto delle patologie del detenuto, del contesto e dell’età, stabilisce se per caso fuori da un penitenziario, soprattutto in un momento di pandemia, possa essere curato meglio. A quel punto, se non sono disponibili strutture ospedaliere riservate ai detenuti - come è successo in alcuni dei casi di cui parliamo - si decide per la detenzione domiciliare. Niente di strano, semplicemente si seguono la Costituzione e la Cedu. E, lo voglio ribadire a chi l’ha dimenticato, se una decisione di un giudice è ritenuta non corretta, può essere impugnata. Prima faceva riferimento al sovraffollamento nelle carceri, che negli ultimi mesi è stato in parte - temporaneamente - risolto con una serie di interventi. Emergenza a parte, non trova sia dovuto anche al fatto che in galera ci vanno troppe persone, perché ci sono troppi reati? In Italia ci sarebbe da fare un lavoro di depenalizzazione importante. Ma qui, invece che valutare di ridurre i reati, li aumentiamo. Esiste un allarme sociale, giustificato o meno che sia? Noi creiamo un altro reato. Continuiamo, insomma, a utilizzare il codice penale in maniera preventiva, con la costante minaccia della detenzione. Non è un buon modo di operare. Decreto Bonafede, Bortolato: “Giudici sfiduciati dalla politica” di Chiara Paolella stamptoscana.it, 18 maggio 2020 Marcello Bortolato, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, commenta gli ultimi cambiamenti che il sistema penale sta subendo in seguito alla circolare del Dap del 21 marzo e il decreto legge n. 29 uscito sulla gazzetta il 10 Maggio, che inserisce misure urgenti per quanto riguarda la detenzione domiciliare anche per i reati giudicati più gravi, dalla criminalità organizzata al traffico di stupefacenti. Al contrario della polarizzazione del dibattitto pubblico, che si è concentrato molto sul rischio della liberazione dei boss di stampo mafioso, il presidente non condivide questa tesi ma allo stesso tempo intravede una superficialità e inutilità del decreto Bonafede. L’emergenza sanitaria da Covid-19 ha investito fin da subito anche il sistema penitenziario. Il 7 marzo sono avvenute rivolte violente all’interno delle carceri e 12 persone hanno perso la vita. Per ridurre l’impatto dell’emergenza sanitaria l’esecutivo attraverso il decreto Cura Italia ha deciso misure minori di detenzione per i condannati con condanne non superiori ai 18 mesi. Le rivolte sono cessate. Il sovraffollamento delle carceri, che non si conciliava con il rispetto delle misure sanitarie contro la pandemia, è stato alleggerito, sei mila reclusi sono stati scarcerati. Il Dap, dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il 21 marzo ha emesso una circolare che ha permesso la detenzione domiciliare per i detenuti che hanno contratto malattie che li espongono maggiormente al rischio di contrarre il contagio. Il 10 Maggio sulla Gazzetta Ufficiale viene pubblicata la norma che la magistratura dovrà adottare in caso di richiesta di detenzione domiciliare per i reati più gravi. Tale decreto non modifica le norme precedenti in materia di condannati che hanno ottenuto la detenzione domiciliare, ma impone ai magistrati un riesame delle scarcerazioni, bilanciando lo sconto della pena con l’emergenza sanitaria e il diritto di salute del detenuto. Quali saranno i cambiamenti più sostanziali che il vostro ufficio dovrà fronteggiare a seguito del decreto Buonafede? Noi come magistratura abbiamo sempre gestito provvedimenti di questo tipo, che riguardano anche detenuti pericolosi. Ovviamente per uffici come i nostri che sono già sovraccaricati e in mancanza di personale si tratta di ulteriori adempimenti che aggravano ancora di più il nostro lavoro. Aumenterà l’attività sotto il profilo dell’istruttoria, per valutare dopo 15 giorni, la prima volta e 30 giorni le volte successive, i provvedimenti di scarcerazione dovuti alla pandemia Covid, poi ci saranno comunque valutazioni teoriche dei magistrati sul caso concreto. Si parla molto del rischio di liberazione di boss mafiosi legati alla criminalità organizzata. Qual è il suo parere a riguardo? A riguardo penso che ci sia stata parecchia confusione. Di questi scarcerati molto più della metà sono imputati per mafia e quindi non sono stati condannati, ma sono in attesa della sentenza definitiva. Solo 3 fanno parte del 41 bis. Gli altri provvedimenti riguardano detenuti dell’alta sicurezza, ma non di certo boss mafiosi, infatti fanno parte della terza categoria dell’alta sicurezza quella detta della manovalanza e talvolta hanno espiato reati associativi e adesso stanno espiando reati comuni. La responsabilità dei magistrati aumenterà in seguito al decreto? La responsabilità dei magistrati rimarrà sempre la stessa, abbiamo sempre gestito detenuti pericolosi. Adesso dobbiamo bilanciare la sicurezza sociale con il diritto alla salute, è una valutazione sul bilanciamento tra il diritto del condannato di essere curato adeguatamente e dall’altro le esigenze della sicurezza in caso di scarcerazione. Di certo ci stiamo sentendo il fiato sul collo poiché il decreto è quasi un atto di sfiducia nei nostri confronti, poiché dopo un provvedimento dobbiamo subito rivalutare ogni singolo caso dopo 15 giorni e poi ogni mese. Non è rassicurante però lo facciamo, il nostro unico vincolo è la legge e la rispettiamo. Di conseguenza secondo lei perché è stato approvato? Assolutamente no, è superfluo perché i provvedimenti per il differimento della pena per motivi di salute esistevano già e sono sempre provvisori o a termine, dove il giudice fissa la fine della detenzione di pena domiciliare. Questa volta è come se il legislatore non si fidasse del giudizio del giudice e pone un termine molto ravvicinato per rivedere lo stato del condannato. La motivazione a parere mio era per dare una risposta immediata per motivare le scarcerazioni e rispondere alle polemiche sorte, sproporzionate alla realtà dei fatti. Rimane il fatto che lo giudico un provvedimento irrazionale. I renziani valutano la mozione di Bonino contro Bonafede di Tommaso Ciriaco e Liana Milella La Repubblica, 18 maggio 2020 Il ministro della Giustizia ancora nel mirino. Ma il Pd lo difende. Si gioca sulla testa del Guardasigilli Alfonso Bonafede il destino del governo. Il Pd lo difende, ma Renzi lo attacca e alza il prezzo. E prova a strappare il massimo da Giuseppe Conte, puntando dritto al cuore dell’esecutivo e minacciando di votare la mozione di sfiducia contro il ministro presentata ieri da +Europa di Emma Bonino e Benedetto Della Vedova. Battezzata “mozione Tortora” (di cui il 18 maggio ricorre l’anniversario della morte), è tutta giocata sulla giustizia garantista al contrario di quella promossa da Lega e Fdl che accusa Bonafede per le scarcerazioni dei mafiosi e il caso Di Matteo. Assieme al capogruppo Davide Faraone, Matteo Renzi decide di convocare per mercoledì un’assemblea dei suoi senatori. Il gruppo ascolterà l’intervento del ministro, poi entrerà in conclave e deciderà se sfiduciarlo, provocando di fatto una crisi di governo. Le chat renziane sono terreno di confronto in queste ore. E in privato alcuni senatori sostengono che è impossibile non appoggiare la mozione che contesta tutta la gestione della politica sulla giustizia del ministro. “Come facciamo a votare contro?”. Anche perché il testo non è firmato dai sovranisti, ma da Bonino, Matteo Richetti e pure da Enrico Costa di Forza Italia, il “cantiere” che Renzi vorrebbe riunire. L’ala dura propone di tenere il punto per spingere Bonafede a dimettersi, o almeno a cambiare ministero. Maria Elena Boschi invece elenca le “vittorie” renziane di questi giorni: dal superamento dei Dpcm alle battaglie di Bellanova e Bonetti. “Non è il governo migliore, ma siamo più contenti di prima”. L’ala governista dentro Iv ricorda che colpire il Guardasigilli, l’uomo forse più vicino al premier, “significa aprire una crisi di governo”. Renzi vuole rendere pubblico questo fermento. E detta la linea: “Difficile non votare la sfiducia, ma dipende da quello che dirà il ministro e da quello che ci dirà Conte nelle prossime ore”. Molto si capirà già oggi quando Boschi sarà ricevuta a Palazzo Chigi da “ambasciatori” di Conte per tirare le somme del dialogo avviato la scorsa settimana. I renziani vogliono un impegno formale sullo “sblocca cantieri”, ma anche qualche segnale per modificare la norma sulla prescrizione. In casa dem invece c’è tutt’altra musica. Perché il Pd vede nella mozione di sfiducia delle destre “solo una chiara manovra per far cadere il governo”. Strumentalizzata da Renzi per i suoi obiettivi. Sabato, quando Bonafede era già alle prese con il suo discorso, ecco una lunga riunione aperta dal responsabile Giustizia Walter Verini e chiusa dal vice segretario Andrea Orlando. Trenta tra deputati e senatori che si occupano di giustizia. Una lettura dei fatti che porta il Pd a fare quadrato su Bonafede. I dem bollano come “strumentale” la querelle sulla prescrizione cara ai renziani - “è storia passata” dice Verini - e chiedono una riforma del processo penale che lo faccia durare poco. Ma lasciando Bonafede lì dov’è adesso. Sfiducia a Bonafede, Renzi ora è tentato. Conte: “Sta alzando la posta” di Carlo Bertini e Ilario Lombardo La Stampa, 18 maggio 2020 Emma Bonino deposita in Senato una mozione contro il ministro. “Come votiamo sulla mozione di sfiducia a Bonafede? Vediamo intanto se Conte ci telefona, se pensa che mercoledì sarà un giorno qualunque non andrà lontano”. Il braccio destro di Matteo Renzi, il vicepresidente della Camera Ettore Rosato, avverte il premier che dopodomani si giocano le sorti del suo governo, perché Italia Viva è tentata (o almeno lo vuole far credere) di votare una mozione di sfiducia “garantista” piazzata come una bomba ad orologeria in Senato da Emma Bonino. Con le firme dei suoi compagni di partito di +Europa e quelle ancora più significative di Forza Italia e di Matteo Richetti, già sodale di Renzi e oggi in Azione con Carlo Calenda. E con argomenti che fanno da richiamo per i renziani. “Nella mozione intitolata Enzo Tortora si parla di giusto processo e della manipolazione dell’imparzialità della giustizia e naturalmente di prescrizione”, spiega Benedetto Della Vedova, appellandosi ai garantisti di Italia Viva e del Pd che non possono votare la mozione di Salvini. “La mozione Enzo Tortota (conduttore tv ingiustamente condannato e poi scagionato, ndr) sembra scritta su misura per noi - commenta Renzi coni suoi - e la maggioranza dei senatori la vuole votare. Mercoledì riunisco il gruppo dopo che parla Bonafede e decidiamo”. A via Arenula sono in grande ambascia, il Guardasigilli rischia, anche perché i numeri contro di lui sono schiaccianti. Senza i renziani, la maggioranza di Pd, M5S, Leu e senatori del Misto somma 151 voti. Con quelli di Italia Viva, di Bonino, Martelli e Richetti, insieme a Lega, Fdi e Forza Italia, il fronte delle opposizioni salirebbe a 159 voti. A fare da ago della bilancia potrebbero finire per essere i 6 senatori a vita. Quindi il premier deve correre ai ripari. Oggi la capogruppo alla Camera Maria Elena Boschi vedrà il capo di gabinetto di Conte, Alessandro Goracci, per chiudere l’accordo già imbastito sull’agenda che i renziani vogliono imporre al governo, da loro considerato troppo a trazione grillina. “Noi - chiarisce Rosato - abbiamo 17 senatori e il Pd 34, siamo uno a due, ma nel governo la proporzione è di uno a nove. Non vogliamo poltrone, ma pretendiamo discontinuità, basta politiche giustizialiste. Secondo punto: lo sblocca cantieri. Terzo: le politiche sulla famiglia, sì al Family act. Conte deve regolarsi bene, altrimenti farà da solo”. “Se Renzi dovesse votare la mozione è ovvio che sarebbe automaticamente la fine del governo”. Da giorni il Guardasigilli Bonafede è molto preoccupato. I colleghi ministri lo hanno notato durante i vertici, osservandolo distratto, come se la testa lo portasse altrove. E lo confermano gli amici nel M5S che pur amichevolmente non possono non rimarcare gli errori a loro avviso fatti sul fronte della scarcerazione dei mafiosi, causa Covid. Bonafede non si è mai illuso del fatto che Renzi volesse deporre le armi, anche negli ultimi giorni nei quali Conte ha fatto diverse concessioni nella direzione dell’ex rottamatore, nel tentativo di placarlo. Per il leader di Italia Viva è una “questione politica” che riprende il filo interrotto prima del contagio, a febbraio, quando lo scontro sulla prescrizione aveva portato il governo sull’orlo del baratro. Appena letta la mozione Bonino, il ministro della Giustizia ha capito: “E’ stata scritta apposta per essere votata da Renzi”. Una “trappola perfetta”, così la definiscono nel M5S. Cucita addosso allo spirito anti-giustizialista di cui si fa vanto l’ex premier, il quale agli occhi dei grillini, ma anche di Palazzo Chigi, sta usando la questione Bonafede “per alzare la posta”. Ci sono ancora nomine importanti da fare, possibili ritocchi al governo, sui cui equilibri Iv vuole far valere i numeri della rappresentanza in Senato. Renzi porterà al capo del governo, tramite Boschi, le sue richieste. Una su tutte: terapia choc sui cantieri per la ripartenza. Una posizione che troverebbe Conte già ben disposto, pronto ragionarci su in vista del decreto Semplificazioni, che il premier vuole chiudere in fretta. Seminfermità, stop nel caso di recidiva di Ilaria Livigni Italia Oggi, 18 maggio 2020 La Consulta ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 69, comma 4 del codice penale. Vizio di mente? Non è attenuante nel caso di recidiva. In caso di recidiva reiterata, il vizio parziale di mente viene meno come attenuante. Lo ha stabilito la Corte costituzionale con sentenza n. 73/2020 del 7 aprile scorso. La Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69 quarto comma c.p., nella parte in cui stabilisce il divieto di prevalenza della circostanza attenuante della seminfermità mentale di cui all’art. 89 c.p. sulla recidiva reiterata ex art. 99 quarto comma c.p., per contrasto con gli artt. 3 (uguaglianza formale e sostanziale) e 27 (rieducazione del condannato) della Costituzione. Si tratta di una decisione di grande importanza che torna su un tema molto caro alla giurisprudenza costituzionale, ossia il rapporto tra gli automatismi sanzionatori e il principio di proporzionalità della pena, in ossequio a quella fondamentale funzione rieducativa per cui la stessa è prevista nel sistema delineato dalla Costituzione. Per comprendere meglio i termini della questione, è opportuno precisare che la disciplina del concorso di circostanze di cui all’ 69 c.p. è stata riscritta, dopo vari mutamenti, dalla riforma del 2005 (art. 3, legge n. 251 del 2005 nota anche come “legge ex Cirielli”) che ha posto una serie di deroghe al giudizio di comparazione tra le circostanze, statuendo, ai fini che in questa sede rilevano, un assoluto divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata ex art. 99 quarto comma c.p., imbrigliando conseguentemente la valutazione discrezionale del giudice entro stretti limiti. Molte, dal 2005 ad oggi, sono state le sentenze della Consulta volte a far cadere le preclusioni reintrodotte dalla “legge ex Cirielli” sino a giungere alla recentissima sentenza sui rapporti tra la recidiva reiterata e la diminuente della seminfermità mentale prevista dall’art. 89 c.p. La Corte costituzionale ha accolto le censure sollevate dall’ordinanza di rimessione in merito alla violazione degli artt. 3 e 27, terzo comma Cost. Il combinato disposto di tali norme, infatti, sancisce che la pena sia proporzionata, in quanto adeguatamente rispondente sia al concreto disvalore oggettivo del fatto di reato, sia al disvalore soggettivo espresso dal fatto stesso. È indubbio, peraltro, che il disvalore soggettivo sia condizionato non solo dalla volontà criminosa, ovvero il grado del dolo o della colpa, ma anche dall’eventuale sussistenza di elementi che sono suscettibili di intaccare l’iter motivazionale del soggetto agente, rendendolo più o meno rimproverabile. Tra questi fattori, evidenzia la Corte costituzionale, un ruolo preponderante è assunto proprio da quelle patologie o da quei disturbi significativi della personalità che, sulla base delle attuali cognizioni medico- forensi, sono in grado di diminuire, senza eliderla del tutto, la capacità di intendere e di volere dell’autore del reato. A un minor grado di rimproverabilità soggettiva deve corrispondere, stante il principio di proporzionalità, una pena inferiore a quella che sarebbe irrogabile dinanzi a un fatto di pari disvalore oggettivo: la circostanza attenuante contemplata dall’art. 89 c.p. esprime proprio quest’esigenza, consentendo di modulare il trattamento sanzionatorio qualora vi siano elementi che concretamente incidono sulle capacità cognitive del soggetto agente rendendolo meno rimproverabile. E allora evidente come l’art. 69 quarto comma c.p., precludendo in via assoluta al giudice di ritenere prevalente siffatta attenuante nel caso di recidiva reiterata, entra in insanabile frizione con le esigenze costituzionali di proporzionalità della pena, impedendo di comminare una pena effettivamente modulata sulla personalità del reo. D’altro canto, la disposizione contrasta anche con il principio di eguaglianza, dal momento che parifica, dal punto di vista sanzionatorio, fatti che presentano un differente disvalore, in virtù del diverso grado di rimproverabilità. Infatti il divieto di subvalenza della recidiva reiterata non consente al giudice di irrogare, nei riguardi del soggetto seminfermo di mente, una pena inferiore a quella che dovrebbe essere comminata in relazione a un reato di pari disvalore oggettivo ma commesso da un soggetto capace di intendere e di volere e pertanto pienamente in grado di autodeterminarsi e di ottemperare al monito espresso dall’ordinamento con la recidiva, astenendosi dal ricadere nel reato. Motivazione “rafforzata” in caso di riforma in peius della sentenza assolutoria di primo grado Il Sole 24 Ore, 18 maggio 2020 Impugnazioni - Appello - Riforma sentenza di assoluzione - Rinnovazione dell’istruzione - Necessità - Motivazione rafforzata. La riforma in appello del giudizio assolutorio di primo grado impone al giudice del gravame l’elaborazione di una motivazione “rafforzata” nel senso che la diversa valutazione delle prove ritenute decisive impone la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale al fine di assicurare che il giudizio di colpevolezza sia conforme al parametro dell’“al di là di ogni ragionevole dubbio” e agli indirizzi espressi dalla Corte Edu in tema di interpretazione dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 11 maggio 2020 n. 14229. Sentenza - Requisiti - Motivazione - In genere - Assoluzione in primo grado - Riforma in grado di appello - Impugnazione della parte civile per le sole statuizioni civili - Obbligo di motivazione con forza persuasiva idonea a fugare ogni ragionevole dubbio - Necessità - Sussistenza. In tema di motivazione della sentenza d’appello, per la riforma di una pronuncia assolutoria non basta, in mancanza di elementi sopravvenuti, una mera diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito in primo grado, caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella del primo giudice, ma occorre, invece, una forza persuasiva superiore, tale da far venir meno ogni ragionevole dubbio, anche in caso di impugnazione proposta dalla parte civile per le sole statuizioni civili. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 1 dicembre 2017 n. 54300. Impugnazioni - Appello - Dibattimento - Rinnovazione dell’istruzione - “Reformatio in peius” di una sentenza di assoluzione - Principi della Corte EDU - Presupposti di operatività - Chiamanti in reità o correità - Individuazione. Il giudice di appello che intenda riformare in “peius” la pronuncia assolutoria di primo grado ha l’obbligo - in conformità all’art. 6 CEDU, come interpretato dalla Corte EDU nel caso Dan c/Moldavia - di disporre la rinnovazione dell’esame dei chiamanti in reità o in correità quando la diversa valutazione delle dichiarazioni attenga alla credibilità del propalante e/o al profilo dell’attendibilità intrinseca e non anche nel caso in cui a essere rivalutata sia l’attendibilità estrinseca, cioè la ravvisabilità nel compendio probatorio di riscontri individualizzanti ovvero la loro idoneità a fungere da elemento esterno di conferma. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 2 dicembre 2015 n. 47722. Impugnazioni - Appello - Dibattimento - Rinnovazione dell’istruzione - “Reformatio in peius” di una sentenza di assoluzione - Principi della Corte EDU - Presupposti di operatività - Individuazione. Il giudice di appello che intenda riformare in “peius” la pronuncia assolutoria di primo grado ha l’obbligo - in conformità all’art. 6 CEDU, come interpretato dalla Corte EDU nel caso Dan c/Moldavia - di disporre la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per assumere direttamente la deposizione del teste ritenuto inattendibile in primo grado, le cui dichiarazioni siano decisive per l’affermazione della responsabilità dell’imputato. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 17 giugno 2015 n. 25475. Impugnazioni - Appello - Dibattimento - Rinnovazione dell’istruzione - In genere - “Reformatio in peius” di sentenza assolutoria - Rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale - Condizioni. Il giudice di appello che intenda riformare “in peius” la pronuncia assolutoria di primo grado ha l’obbligo - in conformità all’art. 6 CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sent. Dan c/ Moldavia) - di disporre la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per escutere le prove orali di cui valuti diversamente l’attendibilità rispetto a quanto ritenuto in primo grado, sempre che si tratti di prova avente carattere di decisività. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 13 febbraio 2015 n. 6403. Scrivere “Forza Vesuvio” o “Forza Etna” su Facebook non è reato di Marina Crisafi Il Sole 24 Ore, 18 maggio 2020 Cassazione - Sezione I penale - Sentenza 21 febbraio 2020 n. 6933. Scrivere “Forza Vesuvio” o “Forza Etna” su Facebook non vale una condanna. Parola di Cassazione, che con la sentenza n. 6933/2020 ha confermato l’assoluzione per una consigliera provinciale leghista di Monza. Per gli Ermellini non si può parlare di razzismo. La vicenda - La vicenda nasceva da un post pubblicato anni prima dalla consigliera che nel 2017 veniva condannata dal tribunale di Monza a 20 giorni di reclusione per il reato ex art. 1 dl 122/1993 convertito dalla legge 205/1993 oltre che al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita, quantificati nella misura simbolica di 1 euro. La donna veniva successivamente assolta in appello perché il fatto non sussiste. I fatti in contestazione riguardano l’attività di propaganda fondata sulla superiorità razziale ed etnica degli italiani settentrionali rispetto a quelli meridionali, posta in essere dall’imputata tramite Facebook, dove la stessa commentando un’immagine satellitare dell’Italia priva delle regioni centro-meridionali, comprese il Lazio e l’Abruzzo, accompagnata dalla dicitura “il satellite vede bene, difendiamo i confini”, scriveva “Forza Etna, Forza Vesuvio, Forza Marsili”. Per il tribunale, il post possedeva senza dubbio connotazioni discriminatorie e propagandistiche idonee a concretizzare la fattispecie di reato contestata, aggravate dalla diffusione virale della comunicazione in rete. La Corte d’appello di Milano, invece, di diverso avviso, riteneva che la condotta della consigliera fosse sprovvista di tali connotazioni, atteso che il contenuto del commento postato non possedeva caratteristiche tali da offendere il bene giuridico protetto dalla norma. E su tale assunto assolveva, appunto, l’imputata. La parte civile ricorreva al Palazzaccio chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata. La decisione - Per gli Ermellini, però, il ricorso è infondato. È pacifico, scrivono nella sentenza, che il commento della politica, sotto il profilo ideologico, rimanda a disvalori di discriminazione razziale e di intolleranza, tuttavia il post non può essere valutato per la sua “astratta valenza discriminatoria” ma va contestualizzato e inserito nel contesto “palesemente paradossale in cui venivano pronunciate le parole incriminate”. Per cui, la S.C. condivide pienamente la decisione della Corte d’Appello, ritenendo compiuto “un vaglio ineccepibile” dai giudici di merito, posta la cornice dalla natura “manifestamente paradossale” in cui è avvenuta la comunicazione telematica. Né può rilevare in senso sfavorevole all’imputata la carica politica dalla stessa rivestita. Il contesto e i toni e utilizzati dall’imputata per manifestare il suo pensiero “del tutto contrastanti con le elementari regole del buon senso, ancorché spregevoli moralmente” in definitiva escludono qualsiasi connotazione discriminatoria e propagandistica idonee a ledere il bene giuridico tutelato. Genova. Un detenuto positivo al coronavirus nel carcere di Marassi di Augusto Boschi Il Secolo XIX, 18 maggio 2020 Positivo al primo tampone e in attesa del risultato del secondo. È in isolamento sanitario, così come i suoi due compagni di cella, il primo detenuto del carcere di Marassi positivo al Covid-19. L’uomo fino a poco tempo fa lavorava nella lavanderia del carcere. “Abbiamo un detenuto nella II sezione che, dopo la positività al test sierologico, è risultato positivo anche al primo tampone e ora si attende il risultato del secondo. Si trova in isolamento sanitario, così come i due compagni di cella in attesa di iniziare l’iter di verifica sull’infezione”, ha spiegato Fabio Pagani, segretario regionale della Uil Penitenziaria. All’inizio di maggio 17 detenuti della casa circondariale genovese e 13 operatori in servizio nelle carceri liguri erano risultati positivi ai test sierologici e per loro erano stati previsti i tamponi di controllo, risultati tutti negativi. Le procedure si erano attivate nel timore di un contagio più ampio. “Lo temevamo - prosegue Pagani - anche perché i test non erano obbligatori e non abbiamo testato tutti i detenuti. I detenuti positivi al sierologico e da sottoporre a tampone, che erano in isolamento, si trovavano nella VI sezione. Mancano ancora da testare, sempre in base alla volontarietà, la terza, la quarta e la quinta sezione per un totale di circa 120 detenuti - continua Pagani - Fino a quando parliamo di 1 o 2 detenuti positivi, un piccolo spazio per l’isolamento lo possiamo trovare, ma se si dovesse diffondere a 10 o 11, Marassi spazi non ne ha, come nessun carcere in Italia e addirittura una nuova struttura con più contagiati. Al momento possiamo dirci fortunati”. In totale Marassi ospita 700 detenuti, circa un terzo in più rispetto alla capienza prevista. All’interno lavorano 250 agenti di polizia penitenziaria. “Di questi - sottolinea il segretario della Uil Penitenziaria - sono risultati positivi ai sierologici circa 11 poliziotti. Dal primo tampone in 8 sono risultati negativi, manca l’esito solo di 1 o 2 agenti”. Una situazione che, secondo Pagani, “andava scannerizzata prima possibile. La differenza è che ai detenuti hanno fatto i tamponi in modo rapidissimo, in 2 o 4 giorni. I poliziotti sono invece in isolamento da 16 -17 giorni, in abitazione o in caserma. Non ci è stata data una spiegazione del perché ci siano questi 2 tamponi previsti, anche per chi al primo risulta negativo, non è chiaro se ci assimilano alle strutture sanitarie”. Ravenna. Agente positivo al coronavirus, carcere sorvegliato speciale di Andrea Colombari Il Resto del Carlino, 18 maggio 2020 Tutti i detenuti negativi ai tamponi, compreso quello inizialmente positivo. Uno degli agenti di custodia risulta però contagiato. Tutti i detenuti sono risultati negativi ai tamponi prelevati venerdì da due squadre dell’Ausl intervenute apposta in carcere. La buona notizia, è stata loro comunicata ieri mattina direttamente dalla direzione della struttura ed è stata accolta con una immaginabile collettiva soddisfazione. È risultato negativo anche il secondo tampone effettuato sul detenuto di origine straniera la cui positività rilevata nell’imminenza di un trasferimento, aveva fatto scattare l’allarme. Appare dunque definitivamente scongiurata l’eventualità di un focolaio all’interno della casa circondariale cittadina, anche se per Port’Aurea dalle analisi è emersa un’altra potenziale criticità: uno degli agenti è risultato positivo al Covid-19. Pure in questo caso, si sta cercando di capire come l’uomo possa essere venuto in contatto con il coronavirus A inizio aprile aveva manifestato un episodio febbrile di fronte al quale la scelta era stata quella di un congruo periodo di riposo a casa (una ventina di giorni). Il ritorno al lavoro, era inoltre avvenuto solo dopo la acclarata negatività al test. L’uomo, come peraltro tutti i suoi colleghi direttrice compresa, è risultato negativo anche ai test sierologici effettuati a fine aprile. Al momento è asintomatico e si trova a casa in attesa di essere sottoposto ad altri controlli. Sulmona (Aq). Test sierologici e sorveglianza attiva nel carcere di Andrea D’Aurelio ondatv.tv, 18 maggio 2020 Per alcuni comuni, tra i quali Prezza, era arrivata la formale diffida da parte della Regione Abruzzo, la stessa che ieri ha autorizzato la somministrazione dei test nei penitenziari della regione. Anche nel carcere di Sulmona scatteranno i test sierologici e sarà potenziata la sorveglianza attiva di operatori e detenuti, come richiesto nelle scorse settimane dal Direttore della struttura, Sergio Romice, e dai sindacati. Una buona notizia per il carcere peligno dove si sono registrati tre casi di positività tra gli agenti. Cambia però la linea della Regione che nelle scorse settimane aveva diffidato i sindaci a bloccare la somministrazione dei test perché inutili. “Lo avevamo chiesto la settimana scorsa appoggiando la richiesta avanzata dal direttore del supercarcere di Sulmona e lo abbiamo rilanciato proprio in una lettera che vedeva, tra i destinatari, molti degli attori che hanno contribuito all’elaborazione dei punti oggetto dell’ordinanza a firma di Marsilio - precisano i sindacalisti Mauro Nardella e Francesco Tedeschi di Uil e Cisl. Diciamo quindi grazie al Presidente della Regione, al Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria, al garante dei detenuti e a tutti coloro i quali hanno permesso una più sicura e ordinata gestione dell’emergenza Covid negli istituti di pena Aquilani oltre che regionali”. “Ora - concludono - ci aspettiamo la pronta implementazione delle dinamiche previste, la messa in sicurezza degli istituti di pena e la protezione degli stessi da possibili focolai infettivi”. Potenza. Tamponi per il Covid-19 a detenuti e dipendenti del carcere di Chiara Di Miele ondanews.it, 18 maggio 2020 Sono stati sottoposti a tampone nasofaringeo i detenuti e i dipendenti (tra personale di Polizia penitenziaria e personale civile) della Casa Circondariale “Antonio Santoro” di Potenza. “Siamo contenti della reciproca collaborazione con l’Azienda Sanitaria di Potenza - ha affermato il Direttore della Casa Circondariale di Potenza, Maria Rosaria Petraccone - Un’attività importante svolta con grande spirito di cooperazione da tutto il personale medico, infermieristico e dirigenziale dell’Asp che ha assicurato una puntuale azione di prevenzione, anche sui nuovi arrivi, in un ambiente delicato e di facile contagio”. “La mappatura delle carceri rientra tra le attività di screening delle strutture a più alto rischio di contagio per tipologia di utenti e per motivi strutturali - ha affermato il Direttore generale dell’Asp, Lorenzo Bochicchio. Quella svolta all’interno del carcere potentino, con l’importante collaborazione del personale dell’istituto, si aggiunge all’azione capillare dell’Asp sul territorio. A breve completeremo lo screening di tutti gli istituti penitenziari presenti nella provincia di Potenza. Ad oggi grazie anche all’attività delle Unità Speciali Covid-19, che stanno dando prova di grande efficienza, abbiamo quasi completato la mappatura delle strutture, all’incirca una novantina, che ospitano situazioni di fragilità, all’interno delle quali la presenza di casi positivi asintomatici può diventare un pericoloso vettore di diffusione del virus (case di riposo, Residenze Sanitarie Assistenziali, case di riabilitazione psichiatrica, reparti di riabilitazione e lungodegenza, case alloggio)”. D’accordo con l’Assessorato regionale alla Salute, con la contestuale somministrazione di tamponi naso-faringei e di test sierologici, è stato inoltre condotto un importante studio epidemiologico, il primo in Italia di questa tipologia, sulle popolazioni di Moliterno e di Tricarico, che sarà esteso a tutte le ex zone rosse della Basilicata. E’ stato avviato lo screening delle Forze dell’Ordine e dei molti cittadini rientranti in Basilicata da altre regioni, nonché è stato sottoposto a test diagnostico il personale dell’Azienda. Tutto unitamente all’ordinaria sottoposizione a tampone dei cittadini sintomatici, paucisintomatici o sospetti di infezione. “I risultati sin qui ottenuti, davvero significativi in termini di tempestività e numerosità dei test diagnostici effettuati, dicono della professionalità e dell’impegno del personale di questa Azienda, al quale va il ringraziamento di tutti noi” conclude Bochicchio. Perugia. Il progetto che aiuta i detenuti a reinserirsi nella società grazie ai fondi europei linkiesta.it, 18 maggio 2020 La percentuale di carcerati che, scontata la pena, torna a delinquere è alta. Per questo grazie ai finanziamenti dell’Unione il progetto Intra supporta coloro che hanno scontato una pena nel carcere di Capanne (Perugia) attraverso formazione e tirocini per trovare lavoro. Vi siete mai chiesti quanto costa ai contribuenti il mantenimento del sistema carcerario? I detenuti rappresentano un costo per lo Stato e la percentuale di carcerati che, scontata la pena, torna a delinquere (la cosiddetta recidiva) è piuttosto alta. La materia è tornata d’interesse pubblico con lo scoppio delle rivolte nelle carceri italiane in seguito all’emergenza Covid-19. Nella puntata di oggi vi racconteremo un progetto che ha consentito agli ex detenuti di reinserirsi pienamente nel mondo del lavoro grazie al Fondo Sociale Europeo (Fse). Il progetto si chiama “Intra” ed è nato per favorire il miglioramento della condizione sociale e lavorativa dei soggetti detenuti nel Nuovo Complesso penitenziario di Capanne (Perugia), facilitando il loro accesso al mercato del lavoro attraverso l’orientamento, formazione, tirocinio e counseling. Il risultato? Gli ex detenuti sono stati formati e avendo un’occupazione non tornano a delinquere abbattendo così i costi sociali ed economici. Ci ha raccontato il progetto il Dott.Luca Verdolini, coordinatore di Area Giustizia di Frontiera Lavoro Soc. Coop. Crotone. Riprendono i colloqui presso l’ufficio del Garante dei detenuti ildispaccio.it, 18 maggio 2020 A seguito dell’introduzione del decreto legge n. 233 del 16.05.2020, inerente la ripresa controllata delle attività, da lunedì 18 maggio riprenderanno i colloqui presso l’Ufficio del Garante comunale dei detenuti Federico Ferraro, per familiari o congiunti che intendessero sottoporre problematiche relative alla detenzione presso la Casa Circondariale di Crotone; per l’incontro occorre presentare richiesta tramite mail all’indirizzo garantedetenutikr@comune.crotone.it In questi mesi hanno avuto prosecuzione le attività dell’Ufficio del Garante comunale per il monitoraggio dell’emergenza Covid-19, in seguito alle segnalazioni o comunicazioni da parte di familiari; si sono regolarmente svolti i colloqui tra il Garante comunale e la popolazione carceraria, tramite collegamento skype e whatsapp, servizi potenziati da disposizioni regolamentari per far fronte all’emergenza pandemica del Coronavirus. Il Garante ha effettuato anche diverse visite presso la locale casa circondariale sia per consegnare la dotazione di mascherine per i detenuti, che per attività ispettiva a seguito del tentativo di suicidio ad inizio maggio. Favignana (Tp). Riapre laboratorio di sartoria del carcere, i detenuti produrranno mascherine di Ornella Fulco trapanisi.it, 18 maggio 2020 Riapre, per la produzione di mascherine protettive anti coronavirus, il laboratorio di sartoria della Casa di Reclusione di Favignana. Ne dà notizia il Sappe, il maggiore sindacato della Polizia Penitenziaria, che aveva avanzato una richiesta in tal senso al direttore del carcere, Nunziante Rosania, lo scorso 4 aprile. Il laboratorio, già dotato delle attrezzature necessarie, potrà quindi riprendere a funzionare e saranno i detenuti della Casa di Reclusione a realizzare i dispositivi di protezione sotto la guida di due esperti (volontari) che faranno loro da maestri. “Il direttore ci ha anche comunicato che è stato avviato - prosegue il delegato regionale del Sappe Eugenio D’Aguanno - l’iter per individuare una ditta esterna specializzata per effettuare la manutenzione iniziale necessaria alle macchine da cucire del laboratorio”. La segreteria provinciale del Sappe ringrazia il direttore Rosania anche a nome del segretario generale Donato Capece e del segretario regionale Calogero Navarra “per la tempestività nel mettere in atto tutte le iniziative necessarie per l’apertura del laboratorio di sartoria”. Messina. Progetto per le detenute: “Vorrei una voce #conilTeatro ai tempi del Covid-19” modulazionitemporali.it, 18 maggio 2020 “Vorrei una Voce #conilteatro ai tempi del Covid-19”, nell’ambito del Progetto “Il Teatro per Sognare” confluito nel Progetto “Teatrali, storie d’Integrazione e Libertà” realizzato in collaborazione e con il sostegno della Caritas diocesana di Messina Lipari Santa Lucia del Mela con la guida dell’Arcivescovo Mons. Giovanni Accolla e del Direttore della Caritas Padre Nino Basile, è fortemente voluto dalla Direttrice della Casa Circondariale di Gazzi, Angela Sciavicco, dal Comandante della Polizia Penitenziaria, Antonella Machì e dal Presidente del Tribunale di Sorveglianza, Nicola Mazzamuto. Il direttore artistico del teatro Piccolo Shakespeare, all’interno dell’Istituto penitenziario, Daniela Ursino insieme al regista e attore Tindaro Granata che dirige il laboratorio teatrale femminile e l’aiuto regia Antonio Previti e tutta la squadra del Progetto, hanno pensato che oggi più che mai, sarebbe stato importantissimo che l’attività di laboratorio, potesse continuare e quindi riprendere in una nuova forma, seppur con i tanti limiti connaturati allo strumento a distanza. Il teatro, genera effetti positivi, ha effetti sui comportamenti del gruppo, genera Bellezza, è una cura per l’animo umano, costituisce uno spazio di libertà, un modo per elaborare i pensieri, per comunicare, per dare sfogo alle emozioni e in questo momento particolarmente delicato, potrà essere, per i detenuti, uno strumento importante per affrontare l’emergenza e riuscire ad elaborare più facilmente la distanza dai propri cari dando consistenza e un valore a quel “tempo senza tempo” vissuto all’interno delle mura del Carcere. La scheda del progetto, di Daniela Ursino, Presidente D’aRteventi “Vorrei una voce” parte da un’idea del regista Tindaro Granata di mettere in connessione Voci d’eccezione, che si racconteranno, dando Voce alle loro emozioni, alla loro storia di una scelta di vita che ha incontrato l’Arte, si racconteranno alla “Libera Compagnia del Teatro per Sognare” al femminile, si alterneranno così in dei momenti di confronto, gli attori, in ordine di incontro, Giulio Scarpati, le attrici Emanuela Mandracchia, Pamela Villoresi, oggi anche Direttore artistico del Teatro Biondo di Palermo, Elisabetta Pozzi, Mariangela Granelli, la cantante jazz Simona Trentacoste ed a chiudere l’attrice e produttrice Mariagrazia Cucinotta che ha portato anche la bellezza della sua Sicilia nel mondo. È un Progetto sperimentale che vuole essere un momento di incontro, un modo di proseguire l’attività e stare uniti anche se a distanza, in attesa e desiderosi di poter riprendere le lezioni di laboratorio in modo normale, sperando di poter mettere in scena lo spettacolo, “E allora sono tornata”, dedicato alla grande Mina e che era previsto il 26 marzo. Il progetto vuole dare Voce attraverso il Teatro, ai detenuti per dare loro un momento di distrazione per affrontare con più forza questo periodo che li vede fragili e ancor più lontani dai loro affetti; “Vorrei una Voce” sarà un ponte con l’esterno, un trait d’union tra i detenuti e gli artisti, un progetto che vuole cercare, attraverso il Teatro, di accorciare le distanze, “stando tutti a distanza staremo comunque Vicini!”. Così la squadra di “E allora sono tornata” riprende con “Vorrei una Voce” che, oggi, si unisce anche alla Voce degli Artisti che in questo momento non possono essere in Teatro e allora… il Piccolo Shakespeare, diventa - con l’hashtag #conilTeatro anche un luogo Simbolo di Cultura - fucina di Bellezza, dove virtualmente si incontrano tanti nomi noti del teatro e dello spettacolo italiano. Insieme a questi momenti di incontro con gli ospiti d’eccezione, il regista Tindaro Granata dirigerà le detenute-attrici, per tracciare una prosecuzione del cammino di formazione che era in atto per la preparazione di “E allora sono tornata” di cui è stato pubblicato il trailer in occasione degli 80 anni della Tigre di Cremona. Gli incontri vedranno anche la partecipazione della squadra del progetto, l’attore Pippo Venuto, la giornalista Elisabetta Reale che segue la narrazione dell’attività, la coreografa Giorgia Di Giovanni, la costumista Francesca Cannavò, il truccatore Jo’ Rizzo, l’hair stylist Carmelo D’Arrigo e Maria Di Pietro, tutti in attesa di poter riprendere le prove dello spettacolo. Vorrei una voce sarà… vorrei un tempo di crescita, vorrei un tempo di solidarietà, vorrei un tempo di ascolto, “Vorrei una voce” sarà dedicato a quelle parole che non potranno essere pronunciate ora, a quelle parole che rimangono sospese in attesa del ritorno, tanto atteso, a una normalità, a un potere fare il vero Teatro, dal vivo. Anche i giornali dei senzatetto sono pronti alla ripartenza di Carmine Fotia L’Espresso, 18 maggio 2020 Vagabondi, ex carcerati, rom. Che avevano trovato dignità e un reddito con un’iniziativa editoriale. Durante la quarantena sono ripiombati nella disperazione. Ora vogliono ricominciare a raccontare la vita di strada. E Papa Francesco tifa per loro. Pensate alla quarantena che abbiamo fatto nelle nostre comode e confortevoli case, impegnati nello smart working - provvisti di wi-fi-banda larga, computer, televisione, impianto stereo, tablet, smartphone, libri - nutriti di buon cibo e buon vino, con il profumo caldo e rassicurante del pane appena sfornato. E poi pensate alla situazione oggi di chi guarda alla nostra condizione come a un passato felice, cancellato da un presente di stenti e tribolazioni. Per ognuna di queste persone le cose che hanno reso per noi la quarantena vivibile è un sogno proibito, una vetta da scalare: “La vita di milioni di persone, nel nostro mondo già alle prese con tante sfide difficili da affrontare e oppresse dalla pandemia, è cambiata ed è messa a dura prova. Le persone più fragili, gli invisibili, le persone senza dimora rischiano di pagare il conto più pesante”, ha scritto Papa Francesco in una lettera inviata al giornale di strada milanese Scarp de’ Tenis. “Mi chiedi se si può dire che siamo il suo giornale del cuore? Penso di sì, perché è lì, nel suo cuore, che stanno gli emarginati, gli esclusi, i senza fissa dimora, gli ultimi degli ultimi, mai così fragili come in questa terribile pandemia”, mi racconta il direttore Stefano Lampertico, 52 anni, economista, per dieci anni sindaco di Gorgonzola, nell’hinterland milanese. Il Papa si è rivolto al suo giornale, Scarp de’ tenis, per parlare anche agli altri 100 sparsi per il mondo che danno lavoro e reddito a 20.500 senza tetto. Racconta Lampertico: “Scarp de’ tenis (www.scarpdetenis.it) nasce a Milano nel 1994. L’ideatore è Piero Grecchi, un pubblicitario che importa nel capoluogo lombardo il modello degli street magazine anglosassoni. Sceglie, come nome della testata, il titolo di una celebre canzone di Enzo Jannacci, “El purtava i scarp de’ tennis”. Alla fine del 1995 il progetto passa a Caritas Ambrosiana. A Milano ci sono circa 2.500 senza fissa dimora, il nostro giornale è uno strumento di reddito per alcuni di loro. Non si compra in edicola, ma solo per strada. In un anno vendiamo 220 mila copie, circa 20 mila a numero. I nostri venditori sono ex-carcerati, rom, persone che dormivano in autobus e che prima della pandemia in questo modo guadagnavano 600-700 euro al mese, con un contratto da venditori porta a porta che consente loro di accedere a una serie di diritti, come la richiesta di una casa popolare. Con la pandemia abbiano dovuto sospendere la vendita per strada e abbiamo diffuso due numeri in digitale e per abbonamento, ma presto torneremo in strada e davanti alle chiese”. Mi racconta Fedele, sessant’anni, originario di Trapani ma a Milano dall’età di sette: “Sono un elettrotecnico ma ho sempre fatto il fotografo, ho lavorato per la pubblicità, negli anni ‘80 ho fatto le copertine degli album di artisti come Jovanotti. Per trent’anni sono stato a un certo livello, insomma. Poi una catastrofe personale della quale, scusami, non ho voglia di parlare, mi ha travolto e mi ha tenuto per molto tempo lontano dal lavoro. Ogni tanto faccio qualche servizio per piccoli eventi, ma è la vendita del giornale che mi aiutava e non solo a livello economico. La gente ci guardava con simpatia, si fermava a parlare dopo la messa. Non sono solo i soldi che mancano, oggi, è questo rapporto umano, che ti faceva sentire il tuo come un lavoro”. Il giornale è scritto molto bene, impaginato con sobrietà ed eleganza, ricco di storie che altrove non leggi. Attorno alla sua redazione si muove anche una parte del mondo intellettuale e artistico milanese, cito per tutti Giacomo Poretti, il celebre comico di Aldo, Giovanni e Giacomo, e molti giornalisti collaborano gratuitamente: “Da Jannacci in poi le scarpe da tennis ci hanno sempre fatto simpatia”, dice uno dei migliori giornalisti milanesi, Piero Colaprico, caporedattore di Repubblica, collaboratore di SdT e creatore, tra l’altro, insieme all’anarchico Pietro Valpreda del fantastico personaggio del maresciallo Pietro Binda, una specie di Montalbano meneghino, protagonista di una serie di romanzi polizieschi. “I venditori che ti porgono il giornale davanti alle chiese o sotto i portici sono un panorama consueto. Io ho cominciato comprandolo mentre andavo al lavoro e poi mi sono fatto coinvolgere. E mi sono accorto, dalle reazioni che ricevo per i pezzi che pubblico lì, che c’è una gran parte di persone a Milano che vuole fare del bene. Ecco, SdT è una specie di ponte tra gli invisibili e la società ufficiale. Il mio Binda? È un po’ triste in questo periodo. Sta a casa e legge libri sulla storia della Roma antica. Esce solo per andare all’edicola ed è molto triste perché non vede più i barbun con il loro bel giornale. Nel frattempo lavora al caso del misterioso omicidio di una Pr”. Scorrere le pagine dei giornali di strada, raccontare chi li vende è anche un modo per guardare la pandemia dal punto di vista di queste “vite agre”. Nell’ultimo numero SdT le ha raccontate da tutto il mondo, facendo della rete dei giornali di strada una preziosissima fonte di storie di dolore e coraggio. In Corea del Sud e Giappone, i venditori di “The Big Issue” hanno visto calare drasticamente il numero delle copie vendute. Yoshitomi, venditore di Osaka, dice di vedere molte meno persone in giro rispetto al solito, mentre Yamada si chiede se sia meglio indossare una mascherina oppure no. “Alcuni clienti si sentono protetti, se la usiamo. Altri si agitano perché ci credono infetti”. Aggiunge da Londra Lucy Abraham, dell’organizzazione Glass Door: “Quando si è per strada, la vita è già abbastanza difficile. Questa è una sfida in più delle tante che le persone senza dimora affrontano ogni giorno”, Ed ecco le parole di don Roberto Trussardi, direttore della Caritas di Bergamo: “Faccio fatica, facciamo fatica a dire che andrà tutto bene. Ma alziamo lo sguardo a Dio. Molti pregano o sono tornati a pregare. E molti esprimono una responsabilità, una solidarietà, una forza encomiabili, con ritmi di lavoro incredibili per fronteggiare l’emergenza. Siamo gente un po’ chiusa, un po’ rozza noi bergamaschi, ma composta, tenace. Siamo ancora aperti. E penso anche ai “nostri” senza dimora: rispettosissimi, discretissimi, collaborativi, nonostante la “reclusione” forzata. Sempre pronti a ringraziare, attenti a stare alle regole, loro che vengono da vite oltre le regole”. Ascoltiamo ancora Lampertico: “Come sopravvivono con i divieti i nostri venditori? Sono abituati alle difficoltà. Vivono con quel che hanno. Noi abbiano fatto due numeri digitali e distribuito il ricavato tra i venditori, poi c’è l’aiuto della Caritas e qualcuno di loro ha il reddito di cittadinanza. Hanno dovuto abituarsi a non stare per strada la notte, vanno nei dormitori, qualcuno abita nelle case popolari o in quelle della fondazione San Carlo. Per gli ultimi della fila non è stato previsto nulla, come sempre. Per questo è ancora più grave che non possano lavorare, perché loro non chiedono carità ma, quando ti porgono il giornale, sentono di star svolgendo un lavoro. Ora il guaio è che la condizione di lockdown aumenta la solitudine di queste persone già così piene di schegge e ferite: perdita del lavoro, crisi familiare, galera, droga, gioco, ognuno di loro ha un percorso che l’ha condotto sulla strada. Per molti di loro, soprattutto i più anziani, non c’è alcuna speranza di tornare nel mondo del lavoro che li ha espulsi. Non c’era prima della pandemia, figuriamoci ora. Per loro il giornale è sì un lavoro che ti dà un reddito, sia pure piccolo, ma è anche il riscatto di sé stessi”. “Ero un muratore piastrellista finito in un brutto giro. Ho dormito per due anni sulle panchine per me vendere il giornale non è mai stato come chiedere l’elemosina, è stato più che un lavoro, una rinascita, un modo per non lasciarmi andare. Tutto questo mi manca terribilmente”, racconta Enzo, un altro venditore. Lampertico va molto fiero dell’intervista concessa in esclusiva al suo giornale da Papa Francesco, in occasione della visita a Milano nel marzo di tre anni fa: “Mettersi nelle scarpe degli altri”, diceva papa Francesco, “significa servizio, umiltà, magnanimità. Si può vedere un senzatetto e guardarlo come una persona, oppure come fosse un cane”. Ricorda Stefano: “Quando ci ha ricevuto, papa Francesco per prima cosa ha voluto ascoltare la storia difficile di uno dei venditori che era con noi. Ci ha fatto tante domande sulla vita di strada e poi mi ha colpito l’autorevolezza e insieme l’umanità che promanavano dalle sue parole. Sono parole che fanno venire i brividi oggi, al tempo del Virus, quando non possiamo toccarci e possiamo guardarci solo da lontano. Sapevamo che Francesco, forse per la sua esperienza in Argentina, è amico dei giornali di strada, ma questa lettera in questo periodo così tragico, in cui non sappiamo se ripartiremo e neppure se sopravvivremo, ci ha dato speranza”. Le “divisioni mediatiche” del Papa (supervisionate da Paolo Ruffini), perfettamente integrate nella comunicazione globale, hanno prodotto immagini che sono diventate icone. Come la benedizione in una piazza San Pietro buia, deserta e sferzata dalla pioggia, la dolente via Crucis scandita dai pensieri del mondo delle carceri. Una fortissima potenza simbolica con tagli di luce “alla Storaro” che hanno illuminato la figura del Pontefice e, alle sue spalle, il “Crocifisso dei Miracoli” a cui si attribuisce la sconfitta della peste che nel ‘500 mise in ginocchio la Capitale. E c’è un significato simbolico forte anche in questa lettera ai giornali di strada: l’invito a posare lo sguardo dove solitamente non guardiamo mai, ad ascoltare il silenzio delle nostre città colpite da un male mortale che non ne intacca i lineamenti ma ne divora l’anima. Non ne usciremo con le grottesche giravolte dei piccoli politici italiani, narcisisti e innamorati delle loro vuote parole. Può forse aiutarci posare lo sguardo in basso, per apprendere la resilienza da chi sa vivere con poco o nulla; il coraggio da chi, come medici e infermieri, rischia la propria vita per salvare quella degli altri; la forza da uomini e donne che volontariamente assistono gli ultimi. Non “abbassiamo” lo sguardo sui corridoi del potere, “alziamolo” sulla strada. Ravanusa e l’uso deviato del Tso, trattamento sanitario obbligatorio, il ricovero a forza di Francesca de Carolis remocontro.it, 18 maggio 2020 “La pandemia non esiste, uscite di casa…” e viene fermato, atterrato, sedato. Non solo a Ravanusa. Il T.S.O. usato come strumento d’ordine pubblico e non strumento di garanzia, come invece è stato concepito. L’arretramento della cultura psichiatrica e tanta povertà, di mezzi e culturale, da cui nasce l’assurda violenza contro una persona inerme. Armata di nulla, se non dei suoi pensieri “disturbanti”… Alla fine mi sono fatta coraggio e l’ho ascoltata… la registrazione della brevissima telefonata fra Dario Musso, il giovane arrestato e sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio a Ravanusa, paese dell’agrigentino, e il fratello. In un pugno di secondi, che colgono un momento di intensissima sofferenza, appena si percepisce, proveniente da chissà quali lontananze, la voce impastata, la fatica, l’afasia, quasi… “non posso muovere le mani, le braccia… come sta la mamma…”. Non ti preoccupare, abbiamo scritto al tribunale, ti tireremo fuori di lì… Hanno fatto il giro del web, come si dice, le immagini dell’arresto di Dario, fermato perché girava in auto per le strade del paese, e con un megafono incitava i cittadini a uscire in strada… che “la pandemia non esiste”. Arrivano i carabinieri, i medici. Dario è messo a terra, bloccato e… “mammamia, lo stanno sedando, lo stanno sedando” la voce spaventata di chi ha visto e ripreso dal balcone quel che accadeva giù in strada. Dario viene sottoposto a Trattamento Sanitario Obbligatorio. E così è finito legato a un letto di contenzione un attivista, un “disturbatore della quiete pubblica”, già noto per qualche atto di intemperanza… Le polemiche sull’episodio si intrecciano con tutto quel che si può cucire intorno alla realtà e alle tensioni di un piccolo paese… e intanto, dopo sette giorni, Dario viene dimesso. Ma c’è una domanda che ritorna e che su tutto preme: cosa può mai giustificare il supplizio di tanta gratuita violenza? E per cercare un confronto ho chiamato Peppe Dell’Acqua, ché, allievo di Basaglia, fra le varie cose già direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste, parlare con lui è sempre come sfogliare le pagine del diario di quasi mezzo secolo di storia della psichiatria, dove trovare risposte… “I modi… come non pensare che sono gli stessi della vicenda, finita, quella, tragicamente, di Francesco Mastrogiovanni”. Ricordate? “Una sera d’estate ad Acciaroli… anche lui era noto per le sue idee, anarchiche quelle del maestro… qualche ricovero in diagnosi e cura per disturbi dell’umore…”. Mi ha poi ricordato, Peppe, di Giuseppe Casu, fruttivendolo, sardo di Quartu, qualche passato ricovero… che protesta contro l’ordinanza del sindaco che intende collocare altrove il mercatino rionale, non sposterà il suo banco, lo devono portare via con la forza, minaccia… va in escandescenze… Mastrogiovanni e Casu, entrambi morti dopo atroci giorni di contenzione e massicce dosi di psicofarmaci. E poi ricordate Andrea Soldi? Fermato mentre era seduto sulla panchina dove di solito sedeva in una piazza di Torino, soffocato mentre i vigili, il medico e gli infermieri eseguivano un’ordinanza di TSO… E’ vero, le dinamiche sono sempre le stesse, e purtroppo di episodi simili è piena la cronaca degli ultimi tempi, molti rimasti acquattati nelle pieghe delle pagine locali (mentre leggo che in questo momento, di ansia per tutti ma che più colpisce chi ha già fragilità, chi vive dolori, solitudini, i TSO sono in aumento, e di tutti bisognerebbe andare a vedere i perché e i percome). Ma cosa può giustificare il supplizio di tanta violenza? Non certo la norma, né lo spirito del TSO, la risposta è netta. “…perché il TSO non è un mandato di cattura”. TSO non è mandato di cattura - E allora ripetiamola la lezione, che troppi hanno dimenticato. “Il TSO è uno strumento di garanzia. Il TSO dice che una persona ha bisogno di cura e, se non è consapevole e rifiuta le cure, lo Stato se ne fa carico. L’obbligatorietà è a curare non a ‘contenere’. Il TSO, come la cura psichiatrica, non possono essere intesi come sospensione del diritto e legittimazione della prepotenza delle istituzioni, delle psichiatrie, degli psichiatri. Perché l’altro esiste…C’è una fase, fondamentale, prevista dal TSO, che è quella della ‘negoziazione’ con la persona alla quale il medico è tenuto…, Le persone… avrebbero bisogno innanzitutto di essere ascoltate, accolte nei loro pensieri, nelle loro paure…”. Ma non è certo quello che è accaduto a Dario Musso, che con quel suo megafono ha semplicemente messo in scena, col suo pensiero, “qualcosa che viene dalle paure e dalle solitudini del suo mondo interno…”. Né a Francesco Mastrogiovanni, né a Giuseppe Casu o ad Andrea Soldi… né a tanti altri di cui neppure conosciamo i nomi. E allora come è possibile? La risposta è in motivi che scivolano come grani di un rosario… La risposta è “nell’arretramento della cultura psichiatrica, nella cattiva pratica delle psichiatrie dominanti, dove di nuovo scompare la persona e rimane un ‘oggetto’… la risposta è nel sistema per la salute mentale ridotto al lumicino… Ed entra in gioco un meccanismo fatto di disorganizzazione, pochissime persone che lavorano, protocolli d’intervento giocati sulla miseria di risorse e delle culture… Cura mentale addio - Mentre si sta distruggendo una generazione di operatori che vorrebbero fare ma che non possono che fare quello che chiedono loro le politiche e le direzioni regionali e aziendali distanti anni luce dalla quotidianità delle persone che vivono a volte drammaticamente l’esperienza del disturbo mentale, quello che insegnano le accademie psichiatriche ostili e incapaci di riconoscersi nella relazione con l’altro e con gli infermieri, i riabilitatori, i cooperatori sociali, gli psicologi, e gli psichiatri e gli assistenti sociali, e le associazioni dei cittadini…”. Leggo che la spesa sanitaria per la cura mentale è tra le più basse in Europa, e mi sembra un buon indicatore di tanta disattenzione che si traduce in spregio per la persona. Così, in un sistema sempre più sgangherato, il TSO viene spesso inteso dai sindaci e dagli psichiatri come “un’inutile complicazione dell’antico ricovero coatto”. Esattamente il contrario di quello che prevede la norma, e il TSO, che è provvedimento sanitario, diventa un provvedimento di ordine pubblico. Ripercorrerne le cronache è come fare un viaggio nella periferia dei diritti… Da tanta povertà, di mezzi e di culture, nasce l’assurda violenza contro persone inermi. Armate di nulla, se non dei propri pensieri disturbanti… La verità è che “davanti a episodi come quello di Ravanusa sembra che scopriamo un mondo, ma questo mondo, sta lì”. Già, presente per molti nel tormento di tutti i giorni. “Non posso muovere le mani, le braccia…” Ravanusa non è l’eccezione - Purtroppo quello che accade a Ravanusa non è l’eccezione. Purtroppo, ci ricorda Peppe, le persone legate sono tante. In otto su dieci dei servizi ospedalieri di diagnosi e cura, dal Niguarda di Milano, agli ospedali romani, dalla valle d’Aosta a Reggio Calabria e a tutta la Sicilia. C’è una campagna in corso, per l’abolizione della contenzione, E tu slegalo subito (se volete date un’occhiata http://www.slegalosubito.com/). Perché la contenzione non è un atto sanitario, non è terapeutica (lo ha sancito anche la Cassazione a proposito del caso Mastrogiovanni). Non dovremmo mai dimenticarlo… come non dovremmo mai dimenticare che anche la violenza dei luoghi di contenzione (tutti), molto parla di noi, della società che siamo… Metà italiano, ha 47 anni il più giovane alfiere dei diritti umani di Gabriella Colarusso La Repubblica, 18 maggio 2020 A 47 anni Robert Spano è il presidente più giovane nella storia della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Nato a Reykjavik, in Islanda, di padre napoletano, con doppia cittadinanza italiana e islandese, da oggi guiderà il tribunale che tutela i diritti fondamentali di oltre 820 milioni di persone nei 47 Paesi che fanno parte del Consiglio d’Europa. Un presidio di libertà, nella sede di Strasburgo a cui l’architetto Richard Rogers nel 1994 volle dare la forma di una bilancia, con le vetrate che la proiettano verso l’esterno: equilibrio e trasparenza. Spano ci arriva dopo una carriera che l’ex presidente della Cedu, Guido Raimondi, decano dei giuristi partenopei che ha lavorato con lui per 6 anni, ha definito “brillante” parlando con Giustizia Insieme. Magistrato, professore universitario e preside della Facoltà di giurisprudenza dell’Università dell’Islanda quando aveva poco più di trent’anni - prima di diventare giudice della stessa Corte nel 2013 - il neoeletto presidente parla cinque lingue e si è occupato di inchieste delicate come quella sugli abusi sessuali interni alla chiesa cattolica islandese. “Non sono qui per farti guadagnare soldi. Ma voglio insegnarti che un avvocato è una parte molto importante della democrazia”, dice di solito ai suoi studenti il primo giorno di lezione, come ha raccontato tre anni fa in un’intervista alla Scuola di legge di Bergen. Consapevole di aver sacrificato gran parte della sua vita personale a favore della sua vita professionale, riconosce che non avrebbe raggiunto questo traguardo senza la moglie, con la quale ha avuto quattro figli. I giornali islandesi raccontano le sue passioni: musica e canto, è ancora membro del coro maschile Fostbraedur. La sua storia ha attirato l’attenzione di studenti di giurisprudenza (si è dottorato a Oxford) e media. In un’intervista pubblicata sul canale YouTube del Consiglio d’Europa, si è schierato nettamente in difesa del diritto dei giornalisti di proteggere l’identità delle fonti. “Se alle fonti non venisse garantito l’anonimato, le informazioni non verrebbero alla luce e questo danneggerebbe il ruolo della stampa nella sua importante funzione pubblica che è di interesse generale”. La Corte europea dei diritti dell’uomo nacque nel 1959, sei anni dopo l’entrata in vigore della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in un’Europa ancora ferita dalla seconda Guerra mondiale e divisa tra la Nato e il patto di Varsavia. La Dichiarazione dei diritti universali dell’uomo nel 1948 aveva segnato i principi fondamentali per la tutela dei diritti umani, ma la Convenzione e poi la nascita della Corte furono il primo tentativo di dotarsi di uno strumento sovranazionale per garantire ai cittadini la giusta difesa contro gli abusi, anche degli Stati. Negli ultimi anni Strasburgo è stata al centro di pressioni contrapposte: alcuni Stati come la Russia e la Gran Bretagna l’hanno accusata di interferire con la sovranità nazionale, e nel 2015 Mosca ha subordinato l’applicazione delle sentenze di Strasburgo alla decisione della Corte Costituzionale nazionale. Ma è stata criticata anche dalle organizzazioni umanitarie per alcune decisioni prese sul tema dell’immigrazione, per esempio quando a febbraio ha dato ragione alla Spagna sul respingimento in Marocco di due cittadini, un maligno e un ivoriano, che avevano oltrepassato il confine di Melilla. Spano si troverà di fronte anche il problema dei tempi della giustizia di Strasburgo e del sovraccarico di ricorsi. Quando è stato eletto, il 20 aprile, ha spiegato che la Corte riceve in media ogni anno 45mila ricorsi, ma riesce a processarne tra il 5 e il 10%. “I Paesi da cui riceviamo il maggior numero di richieste sono Turchia, Russia, Ucraina, Romania e Ungheria. Spesso riguardano la lunghezza delle procedure locali e le condizioni di detenzione considerate degradanti”. Le donne e la sharia. Non dimentichiamo di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 18 maggio 2020 La melma degli insulti vomitati contro Silvia Romano, le dichiarazioni oscene contro una ragazza che ha trascorso l’inferno della prigionia e per la cui liberazione dovremmo gioire tutti, questo orribile linciaggio non ci deve impedire di denunciare nei Paesi retti dalla sharia islamica il luogo del mondo dove viene attuata la più feroce oppressione nei confronti delle donne. Un’oppressione sistematica attuata, e questa è l’aspetto che ci dovrebbe vergognare, nella più totale indifferenza del mondo che pure si dice difensore dei diritti fondamentali degli esseri umani. Questi diritti elementari sono prepotentemente calpestati in tutto l’universo islamico che non conosce alcuna distinzione tra legge dello Stato e precetto religioso. Siamo indifferenti alla pratica comune della lapidazione delle adultere, alle frustate inflitte alle donne che osano uscire da sole senza il controllo del guardiano maschio, agli anni di carcere di Asia Bibi in Pakistan accusata di blasfemia, allo stupro delle bambine costrette a sposarsi con uomini anziani e repellenti, alla “polizia religiosa” che picchia per strade le donne che non rispettano i divieti a vestirsi in modo libero. Facciamo finta di non accorgerci dei 38 anni di prigione e delle 138 frustate che deve subire in Iran l’avvocata dei diritti umani Nasrin Sotoudeh, colpevole di aver difeso le eroiche ragazze che si sono platealmente liberate del velo dell’oppressione, da indossare obbligatoriamente in tutti i Paesi governati dall’islamismo. Non ci scandalizziamo per il divieto imposto alle donne di entrare in uno stadio in Arabia Saudita. Facciamo finta di non sapere che esiste la figura minacciosa del tutore maschio (mahram) che deve dare il permesso alle donne persino per sostenere un intervento chirurgico. Non vogliamo vedere che la parola della donna in un procedimento giudiziario vale istituzionalmente meno di quella di un uomo. Che in Nigeria le ragazze non possono andare a scuola. Che le donne yazide sono state stuprate in massa se non si convertivano. Pensiamo oramai che sia normale che le donne afghane siano seppellite dentro un burqa. E che uno scrittore islamico algerino, Kamel Daoud, viva blindato e non possa più scrivere sui giornali per aver detto che “il mondo musulmano ha una relazione malata con le donne”. Minacciato di morte. E noi facciamo finta di niente. Stati Uniti. Rischio di pandemia nei Centri di detenzione per migranti di Riccardo Noury Corriere della Sera, 18 maggio 2020 Ventuno organizzazioni per i diritti umani degli Usa hanno chiesto il rilascio dei circa 40.000 migranti e richiedenti asilo attualmente detenuti in oltre 200 centri di detenzione federali. Questo provvedimento diventa ancora più urgente dopo la prima morte per coronavirus avvenuta in un centro della California e la conferma che in altri centri detenuti e personale sono risultati positivi al Covid-19. Secondo gli esperti, nell’attuale situazione di sovraffollamento, bastano cinque casi positivi perché il contagio riguardi dal 72 al 100 per cento dei detenuti e del personale interno. Dall’inizio della pandemia negli Usa, i centri di detenzione per migranti continuano a non essere dotati di sufficienti prodotti per la sanificazione, la distanza fisica non è rispettata e la prassi di trasferire i detenuti da un centro all’altro aumenta i rischi di contagio. Brasile. Coronavirus, caos politico. Saltano i ministri, boom di contagi di Rocco Cotroneo Corriere della Sera, 18 maggio 2020 Da maggio il Brasile è tra i Paesi più colpiti nel mondo, ma il presidente insiste: il lockdown è inutile. La sanità collassa, a Rio e San Paolo ospedali da campo. In Brasile crescono i contagi, i morti e soprattutto il caos politico. Nessun Paese al mondo si è potuto permettere una grave crisi istituzionale nel mezzo della pandemia. Ci ha pensato il Brasile, sull’illusione del suo presidente Jair Bolsonaro di uscirne indenni o quasi, perché si trattava di una “piccola influenza”, la quale qui avrebbe provocato ben pochi danni, essendo i brasiliani forti e sani, “abituati a nuotare anche nelle fogne”. Ma ora il conto è arrivato. Con un punto critico nella famosa curva, ancora in forma esponenziale, il Brasile conta le vittime a 800-900 al giorno (l’ultimo totale è di quasi 16.000) mentre il numero dei contagiati è salito a 233.000, quarto Paese nella classifica mondiale, dietro Usa, Russia e Gran Bretagna. Poiché però in nessun luogo al mondo si fanno così pochi tamponi, è assai probabile che la situazione oggi in Brasile sia la peggiore possibile. Il secondo ministro della Salute a perdere il posto in un mese è un oncologo di 63 anni, Nelson Teich, che al momento dell’insediamento aveva giurato “sintonia totale” con le idee di Bolsonaro. Promettendo per esempio di far uscire le città brasiliane e i suoi abitanti dall’isolamento, che a detta del presidente provocava fame, miseria e morte in modo ben peggiore del Covid-19. Teich ha gettato la spugna sull’altra ossessione di Bolsonaro, la clorochina. Alla vigilia della rottura, il presidente aveva chiesto al ministero della Salute di cambiare i protocolli, e permettere che negli ospedali pubblici la clorochina si potesse somministrare anche ai malati di Covid in stato iniziale. Contro il 99 per cento della comunità scientifica, la quale considera eccessivi i rischi collaterali. Davanti all’ultima pretesa di Bolsonaro, Teich si è rifiutato di dare il via libera alla clorochina e si è dimesso. Come il suo predecessore Luiz Henrique Mandetta. Peggio ancora, il ministero è stato infarcito di militari, al posto dei tecnici che sono stati liquidati. Ora si attende il successore di Nelson Teich. Fosse anche lui un ex generale del tutto incompetente in materia non ci sarebbe niente da stupirsi. L’altro punto di contrasto tra Bolsonaro e gran parte della classe politica è sulle chiusure. Il presidente sostiene sin dall’inizio che l’isolamento sociale è inutile e controproducente, ma i governatori e i sindaci vanno avanti per la propria strada. È opinione diffusa nella comunità scientifica che le grandi aree metropolitane in Brasile avrebbero bisogno di un lockdown vero e proprio, e non le quarantene quasi volontarie alle quali la gente si è sottoposta fino a questo momento. I risultati dell’isolamento parziale sono sotto gli occhi di tutti. In quasi nessuna città si riesce a superare la soglia del 50 per cento della gente in casa, mentre secondo gli studi sarebbe necessario almeno il 70 per cento per riuscire a far scendere il tasso di contagio, quel famoso R0 che in Brasile resta pericolosamente superiore a 2. Nel frattempo il sistema ospedaliero delle città più colpite è prossimo al collasso. A Rio e San Paolo è corsa contro il tempo per allestire gli ospedali da campo, con forti ritardi nelle consegne dei ventilatori necessari per le terapie intensive. Le code di chi aspetta un letto nel sistema pubblico si allungano, e la situazione è anche peggiore in città come Fortaleza e Manaus, dove i tassi di contagio sono ancora più elevati. Al braccio di ferro con i governatori degli Stati, Bolsonaro aggiunge quello con il Congresso e il potere giudiziario, entrambi accusati di remare contro il governo federale e opporsi ai desideri di “normalità” del presidente. Il quale non esita, tutte le domeniche, a farsi vedere insieme ai suoi fan più estremisti, quelli che chiedono l’intervento militare e la chiusura del Parlamento. E intanto l’epidemia avanza, incurante delle diatribe politiche. “Vada a bordo!”, nell’originale italiano è il titolo dell’editoriale di ieri del giornale Estado de São Paulo. Rivolto a Bolsonaro, e memore del famoso richiamo al capitano sciagurato della Costa Concordia che divenne slogan nel mondo intero. Arabia Saudita. Ancora in carcere le attiviste per i diritti umani di Riccardo Noury Il Fatto Quotidiano, 18 maggio 2020 Venerdì 15 maggio è stato il secondo anniversario dell’ennesimo giro di vite nei confronti dell’attivismo per i diritti umani in Arabia Saudita. Quel giorno del 2018 vennero arrestate contemporaneamente le principali protagoniste delle campagne per porre fine al divieto di guida per le donne e al sistema del “maschio di casa”, ossia del tutore sovrintendente alle principali decisioni riguardanti le donne. Su un totale di 13 attiviste sotto processo per presunte violazioni della legge sui reati informatici, cinque hanno iniziato il terzo anno di carcere: Loujain al-Hathloul, Samar Badawi, Nassima al-Sada, Nouf Abdulaziz and Maya’a al-Zahrani. Nei primi tre mesi di prigionia sono rimaste in isolamento completo, senza contatti con le famiglie e con gli avvocati. Anche in seguito sono state sottoposte a tortura e violenza sessuale. Amnesty International è tornata a chiedere, con un appello al re Salman bin Abdulaziz, il loro rilascio e proscioglimento da ogni accusa. Egitto. Arrestata Lina Attalah la direttrice dell’unico sito indipendente di Marta Serafini Corriere della Sera, 18 maggio 2020 La giornalista a capo di Mada Masr stava intervistando la madre del blogger incarcerato Alaa Abd El Fattah. Era stata già fermata a novembre. Ordinato il rilascio su cauzione. Arrestata di nuovo. La cofondatrice e direttrice di Mada Masr, testata online egiziana indipendente considerata da molti osservatori come l’ultima testata libera del Paese, è stata fermata fuori dal complesso carcerario di Tora al Cairo, dove stava intervistando Laila Soueif, la madre dell’attivista e blogger Alaa Abd El Fattah. Abdel Fattah sta scontando una pena di cinque anni per aver violato il divieto di protesta egiziano, sviluppatore di software e attivista per la democrazia, noto per aver fondato, insieme alla moglie Manal, il blog Manalaa. Poche ore dopo l’arresto di Attalah, il procuratore ne ha ordinato la scarcerazione dietro pagamento di una cauzione come annunciato via Twitter dalla redazione di Mada Masr. Secondo quanto riferisce Mada Masr, la direttrice è già comparsa davanti a un giudice ed è stata trasferita nel carcere di Tora. Lina Attalah - che ha seguito anche l’omicidio di Giulio Regeni - era già stata fermata per alcune ore a novembre insieme ad altri giornalisti ed era stata prelevata durante una retata in redazione. Successivamente il sito aveva lavorato con più cautela ma negli ultimi mesi ha ripreso a condurre inchieste delicate e ad alimentare polemiche contro il presidente Abdel Fattah Al-Sisi pubblicando notizie in genere trascurate dagli altri media egiziani. La notizia è poi stata rilanciata anche dal portavoce di Amnesty Italia Riccardo Noury. La stessa associazione internazionale aveva definito in passato “aberranti” le condizioni in cui sono tenuti i prigionieri a Tora, alla periferia sud-est del Cairo e al cui interno si trova anche la prigione di massima sicurezza detta Al Aqrab (lo scorpione): celle fatiscenti, condizioni igieniche pessime e ora anche il coronavirus, che ha messo fine a visite e contatti per i detenuti. Nelle quattro prigioni del complesso di Tora sono passati tra gli altri anche gli ex presidenti Hosni Mubarak e Mohamed Morsi e decine di attivisti. Tra i più noti c’è appunto Alaa Abd El-Fattah, icona della rivoluzione di Piazza Tahrir del 2011 e da ultimo critico del presidente al-Sisi. L’attivista è entrato in sciopero della fame a metà aprile, dopo una vicenda giudiziaria in corso da sei anni, proprio per puntare un riflettore sulle condizioni in cui lo tengono in prigione. E sempre nel carcere di Tora era morto il primo maggio il fotografo e regista 24enne Shady Habash. Era stato incarcerato per un video di una canzone che irrideva al Sisi e da più di due anni aspettava un processo. Abdel Fattah ha scontato una pena detentiva di cinque anni per aver violato il divieto di protesta egiziano. A settembre, non molto tempo dopo la sua liberazione, è stato nuovamente arrestato in seguito a una diffusa repressione che ha fatto seguito alle proteste contro il presidente Abdel Fattah el-Sissi. Ha iniziato lo sciopero della fame più di un mese fa e la sua famiglia teme per la sua vita anche a causa della pandemia di coronavirus. La madre Soueif è stata anche lei arrestata per qualche giorno a marzo insieme ad altri tre dopo che hanno organizzato una protesta per chiedere il rilascio di prigionieri dopo la diffusione del virus. Mada Masr è una delle centinaia di siti Web bloccati dal governo egiziano negli ultimi anni ma continua a pubblicare all’estero grazie a Vpn e siti mirror. Ha prodotto pezzi investigativi che esaminano alcune delle istituzioni governative egiziane, tra cui agenzie di intelligence, militari e presidenziali. L’arresto della giornalista segue di appena qualche giorno quello di un video-blogger 28enne con quasi 240 mila iscritti su Youtube, Hany Mustafa, messo in carcere con l’accusa di diffamazione e “istigazione alla depravazione”. Noto come “zio Hany” e attivo anche su Facebook e su Instagram, Mustafa era diventato popolare trattando apertamente e senza fronzoli di argomenti come sesso, politica e società. L’Egitto occupa il 166esimo posto su 180 nella classifica di Reporter senza Frontiere sulla libertà di stampa.