Giornata finale del progetto “Carcere e scuole: educazione alla legalità” Ristretti Orizzonti, 17 maggio 2020 Il 3 giugno dalle 11 alle 13 ci sarà la Giornata finale del progetto: una Videoconferenza, in cui Gianrico Carofiglio*, magistrato e scrittore, terrà una lezione e dialogherà sulla necessità di “liberare le parole dal logorio di un utilizzo inconsapevole o, peggio ancora, dalla loro alterazione da parte dei ladri di parole: per fare questo è indispensabile operarne un’attenta manutenzione”. “Maggiore chiarezza e precisione delle parole significano più democrazia. Minore chiarezza e maggiore oscurità implicano meno democrazia. (…) Farsi capire è un dovere e capire è un diritto. Doveri e diritti richiedono impegno, fatica, tempo. (…) Scrivere vuol dire anche cancellare e riscrivere, rendere la propria comunicazione precisa ed essenziale, chiara e corretta”. Sarà data la precedenza alle classi che parteciperanno con i loro testi al concorso di scrittura. La Giornata si concluderà con la premiazione, da parte del Comune di Padova, dei testi più interessanti. Parteciperanno anche tutte le persone che hanno deciso di contribuire a “salvare” questo progetto (vittime, famigliari, detenuti, persone che hanno finito di scontare la pena, volontari, mediatori, operatori della Giustizia). *Gianrico Carofiglio, magistrato e scrittore, è autore tra l’altro dei romanzi con al centro l’avvocato Guerrieri, che è diventato l’avvocato più famoso del romanzo giudiziario italiano. È autore del saggio “La manutenzione delle Parole”, dove riflette sulle lingue del potere e della sopraffazione, e si dedica al recupero di cinque parole chiave del lessico civile: vergogna, giustizia, ribellione, bellezza, scelta. Scarcerazioni, il Viminale allerta le questure di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 17 maggio 2020 Circolare del Dipartimento di pubblica sicurezza dopo il decreto legge sul flusso dei detenuti fuoriusciti con l’emergenza Covid-19. “Misure di vigilanza e verifica dei flussi informativi relativi alle dimissioni dalle case circondariali”. Al di là del titolo burocratico, il Dipartimento di pubblica sicurezza mette in allerta i questori di tutta Italia:?occhio alle scarcerazioni, non c’è un attimo di tempo da perdere. I fuorisciti dalle carceri possono fare di tutto. Evadere, violare le regole di detenzione domiciliare, incontrare criminali di ogni genere. Le autorità provinciali tecniche di pubblica sicurezza, alias i questori, sono avvisate. L’allarme alle questure il 13 maggio - Il Viminale ha atteso il decreto approvato da governo sulle scarcerazioni. Poco prima, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede aveva sostituito il capo del Dap-dipartimento amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, con il procuratore di Reggio Calabria Dino Petralia. Una bufera dopo la circolare del Dap (dipartimento amministrazione penitenziaria) sui detenuti a rischio Covid-19. Con il bilancio di circa 500 carcerati alla fine usciti dagli istituti di pena e le dimissioni di Basentini. Varato dal governo il decreto legge per riparare alla circolare, il ministero dell’Interno, guidato da Luciana Lamorgese, lancia adesso l’allarme. Per la massima tutela della pubblica sicurezza. E la condivisione delle procedure e delle informazioni tra gli istituti di pena e le questure. “Impulso a ogni attività di monitoraggio” - La circolare firmata dal direttore centrale dell’Anticrimine (Dac) della Polizia di Stato, Francesco Messina, raccomanda ai questori di “dare ogni possibile impulso all’attività di monitoraggio già avviata - ricorda la nota del dipartimento Ps guidato da Franco Gabrielli - dai dipendenti uffici di analisi e investigazione”. La nota del Viminale indica le attività strategiche per contenere ogni rischio. Bisogna “sensibilizzare i dirigenti delle squadre mobili” affinché diano “alle Procure ogni elemento investigativo utile, sintomatico della possibile violazione delle prescrizioni imposte dall’Autorità giudiziaria che ha emesso il provvedimento di scarcerazione”. Ma le questure devono vigilare anche sugli scenari peggiori. Come “l’eventuale reinserimento in contesti criminali”. Alcuni casi sono stati già scoperti dalle forze di polizia. Aggiornamento continuo sui detenuti domiciliari - Il direttore della Dac raccomanda ai questori “di avvalersi della consueta attività di monitoraggio delle Divisioni Anticrimine sulle scarcerazioni dei soggetti che beneficiano di detenzione domiciliare o degli arresti domiciliari”. Messina ricorda come “gli articoli 43 3e 58 dell’Ordinamento Penitenziario” prevedono che le scarcerazioni vadano “comunicate dal Direttore dell’Istituto Penitenziario e dal Tribunale di sorveglianza al Questore”. Ogni questura deve sapere, ogni questore deve assicurarsi di aver saputo e di conseguenza aver disposto le azioni necessarie. Non è per niente un profilo secondario: “L’aggiornamento costante del dato situazionale” sollecitato dalla Dac garantisce “il flusso informativo con gli uffici territoriali deputati alla vigilanza” cioè Polizia di Stato e Arma dei Carabinieri. Per evitare dopo la scarcerazione fughe, deviazioni e contatti con la malavita. I tempi degli interventi - Ci si può chiedere perché la circolare del Viminale arrivi solo ora, visto che i primi provvedimenti di scarcerazione risalgono già a febbraio e la circolare del Dap è del marzo scorso. In realtà la questione è stata tutta interna al ministero della Giustizia: il dicastero dell’Interno non poteva entrare in un problema di amministrazione giudiziaria - un altro potere dello Stato - diventato esplosivo, finché non fosse stato risolto. Assurta la vicenda a livello politico fino alla decisione di governo con il decreto legge, è diventato così giusto e opportuno per il Viminale intervenire. Non a caso, nella circolare della Dac ai questori è allegato proprio il provvedimento d’urgenza dell’esecutivo guidato da Giuseppe Conte. “Al 41bis non c’è rischio contagio”. No dell’Antimafia a scarcerazione di Giuseppe Madonia di Davide Manlio Ruffolo lanotiziagiornale.it, 17 maggio 2020 Stai a vedere che i nuovi decreti del ministro della Giustizia funzionano davvero. Dopo il primo successo che ha permesso di riportare in cella il pericoloso boss palermitano Antonino Sacco, reggente del mandamento di Brancaccio che era finito ai domiciliari in tempi di pandemia, ora altri tre mafiosi saranno tutt’altro che felici delle nuove norme volute da Alfonso Bonafede. Si tratta del boss della commissione di Cosa nostra, Giuseppe Madonia detto “Piddu”, e due rampolli dell’organizzazione con parentele di spessore, il 40enne Francesco Guttadauro il cui zio materno è il superlatitante Matteo Messina Denaro, e il 30enne Leandro Greco il cui nonno era Michele Greco, detto il ‘Papa della Mafia’, a cui la Direzione distrettuale antimafia di Palermo ha espresso parere negativo per le richieste di scarcerazione presentate dai rispettivi avvocati. Del resto secondo i magistrati della Dda “considerato anche che Madonia, Guttadauro e Greco si trovano isolati al 41 bis” non ci sono gli estremi per una loro uscita tanto più che l’emergenza sanitaria è al momento sotto controllo. Ora, tenuto conto del parere dell’Antimafia, la palla passa ai tribunali di sorveglianza a cui compete l’ultima parola. Insomma sembra proprio che i decreti voluti dal ministro stiano dando i frutti sperati e abbiano messo a nudo una grave falla nell’ordinamento penitenziario sfruttata dai mafiosi in tempi di pandemia. A riprova di ciò c’è l’ulteriore episodio, accaduto sempre ieri, che dimostra come i timori da contagio dei boss non erano nulla più che stratagemmi per farla franca. Tra i nomi di chi è uscito dal carcere, c’è anche Carmine Alvaro detto “u bruzzise”, arrestato nel settembre del 2018 per associazione mafiosa e messo ai domiciliari il 21 aprile scorso. Un timore di contagi svanito appena ha messo piede fuori dal carcere tanto che il 22 aprile è stato trovato dai carabinieri in compagnia di 3 persone non autorizzate ad avere contatti con lui, una delle quali per sottrarsi al controllo, si era nascosto sotto un letto. Inoltre, incontrando quelle persone, il boss ha anche violato le disposizioni varate per contrastare la diffusione del contagio e che gli imponevano di non ricevere né fare visite. Fatti che si sono ripetuti nei giorni e che, anche grazie alle nuove norme, hanno permesso alla Dda reggina, guidata dal procuratore Giovanni Bombardieri, di disporre la custodia cautelare in carcere. Ma il lavoro per riportare in cella i boss ed evitare che altri ne escano è ancora lungo. Proprio in queste ore il nuovo Dap, costituito dagli ex pm Bernardo Petralia e Roberto Tartaglia, ha chiesto la revisione della posizione di Franco Bonura, mafioso palermitano uscito dal 41 bis per via delle patologie di cui soffre e perché ha una pena residua di appena otto mesi, e di Pasquale “Bin Laden” Zagaria che potrebbe tornare in cella il prossimo 22 maggio quando i magistrati riesamineranno il caso sulla base dei nuovi decreti. La Sparatora, la Mantide, Zi Carmelina: le donne dei clan tornate a casa di Federico Marconi e Giovanni Tizian L’Espresso, 17 maggio 2020 Sono le mogli, le sorelle, le figlie di dinastie criminali di cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta. Ma anche della mala romana. Che hanno ottenuto la scarcerazione per l’emergenza Covid. La mafia ha il volto anche delle donne. Sorelle, mogli, figlie, dei padrini che nelle parentesi di vuoto di potere prendono in mano il bastone del comando. Donne d’onore, che hanno scelto da che parte stare, che regole seguire. Eccole, dunque, le lady delle organizzazioni mafiose che al pari degli uomini affiliati hanno ottenuto la scarcerazione e i domiciliari nell’emergenza Covid19, che ha portato quasi 400 affiliati delle mafie fuori dalle carceri, con l’obiettivo di salvaguardare la salute dei detenuti più esposti al contagio. Tutte donne dai cognomi pesanti. Storie criminali costellate di trame e intrighi, che riconducono tutte al potere sui territori trasformati in fortini inespugnabili. Ritornano a casa, nei loro quartieri, lì dove le avevano catturate e dove comandano. Ci sono le signore della camorra, su tutte Carmela Gionta, ma anche Marianna Abbagnara e Santa Mallardo. Ci sono le donne di Cosa nostra. E quelle della ‘ndrangheta. Alcune con problemi di salute molto gravi. Cosa nostra sotto al Vesuvio - Una richiesta del direttore, poi il ritorno a casa. Santa Mallardo, 65 anni, il 23 aprile ha lasciato il carcere di Vigevano, direzione Napoli. Un nome importante quello di Mallardo, nella criminalità campana: un clan che conta, tra i più ricchi e pericolosi sotto il Vesuvio. E che ha legami anche fuori dalla Campania: insieme al clan Nuvoletta e Gionta, i Mallardo sono stati tra gli alleati di Cosa Nostra di Totò Riina nel continente. ‘Zi Carmelina - A inizio aprile anche la sorella di un pezzo da novantadella camorra ha lasciato il carcere lombardo. È Carmela Gionta, sorella di don Valentino, fondatore e boss del clan Gionta di Torre Annunziata, in carcere dal 1989, a capo di un altro storico clan di Torre Annunziata. È madre poi di un altro pezzo grosso del clan, Aldo Agretti. Cinque anni fa era stata ferita da altre tre donne del gruppo che controllavano la cassa del clan: dicevano che “Zi’ Carmelina” metteva le mani sui soldi del clan, se li prendeva e non li restituiva. Donne e pistole - Torna a casa anche Marianna Abbagnara, 35 anni, esponente del clan D’Amico del rione Conacal, a Napoli. Clan di camorra in cui le donne hanno avuto un ruolo di primo piano. “Pure noi femmine ci mettiamo le pistole addosso e andiamo a sparare. Noi non ce lo creiamo il problema”, diceva al telefono la moglie del boss DeliahBuonocore, condannata lo scorso luglio a 16 anni e 8 mesi. Sono tredici invece quelli che dovrà scontare Abbagnara: collaborava direttamente con i vertici del clan, favoriva le comunicazioni tra gli affiliati, partecipava alla gestione della piazza di spaccio nel parco del rione. La sparatora - La chiamavano la “vecchiarella”, ma anche la “sparatora”. Era a capo del clan Lettieri, che si arricchiva con le estorsioni tra Caserta e Benevento. Un’organizzazione criminale in ascesa, anche grazie all’alleanza con il clan Pagnozzi, i cui affari arrivano fino al centro di Roma. Ha lasciato il carcere di Lecce Giovannina Sgambato, 68 anni, per motivi di salute. Condannata a sei anni in primo grado, ha fatto ricorso in appello. Che ora attenderà a casa: non nella sua San Felice, ma in un paesino poco lontano. La donna del ras - Quando è stata arrestata per la prima volta nel 2006, conviveva con il boss Salvatore Torino, ras del rione Sanità a Napoli. Era a capo degli “scissionisti”, nella faida che all’inizio degli anni duemila insanguinò il capoluogo partenopeo per decidere chi l’avrebbe fatta da padrone in città. Aveva passato gli ultimi anni a Lecce, Pasqualina Pastore, e ora torna a casa, nei Quartieri Spagnoli. L’ultimo guaio nel 2014: era in vacanza in Calabria con la figlia, quando i carabinieri le hanno trovato 40 grammi di cocaina e 400 euro, ritenuti il guadagno dello spaccio. La boss della coca - Era in affari con il clan dei Casalesi, Margherita Spada. È stata arrestata a metà ottobre del 2019 dalla Dda di Napoli, accusata di essere a capo di un’organizzazione che gestiva il business della droga sul litorale domizio, nel casertano. Insieme a lei il marito, Antonio Spinelli, e altre sei persone. Un giro d’affari da decine di migliaia di euro che gestivano in “tranquillità”, come hanno raccontato ai magistrati alcuni collaboratori di giustizia. Come facevano? Grazie alle tangenti che pagavano al clan dei Casalesi, egemone in quella zona: un minimo di 300 euro a settimana per poter avere il monopolio dello spaccio sul territorio. Era nel carcere di Messina, in attesa di finire davanti a un giudice, ma è potuta tornare a casa a inizio aprile grazie al via libera di Gip e Dap. Stessa sorte toccata pochi giorni dopo anche a Spinelli, il marito, in carcere a Siracusa. La padrona di Battipaglia - Insieme a Spada, nel carcere di Messina c’era anche un’altra “signora della droga”, Antonietta Di Marco. Fino all’arresto è stata la reggente del giro di spaccio a Battipaglia, in provincia di Salerno. Nel 2017 è stata condannata a sedici anni di reclusione, pena che stava scontando in Sicilia. Di Marco, 65 anni, chiamata “La padrona”, gestiva insieme ai figli una rete di trafficanti e di pusher: organizzava l’arrivo della droga da Scampia, per poi rivenderla in città. Lui all’ergastolo, lei capomafia - Secondo un pentito era alla guida del clan Lo Piccolo, al vertice di Cosa Nostra a Palermo, dopo che il marito e il figlio erano stati arrestati e condannati all’ergastolo. E stava scontando una pena di otto anni nel carcere di Messina, Rosalia Di Trapani, 72 anni, moglie di Salvatore e madre di Sandro, scarcerati anche loro. Andrà in una casa di riposo nel messinese. La mantide religiosa - Sta scontando una pena di 22 anni. Nel giugno del 1992, nel pieno delle stragi mafiose in Sicilia, aveva invitato a una “notte d’amore” in un casolare Agostino Reina, un mafioso condannato a morte dalla famiglia Emmanuello per aver organizzato alcuni attentati contro la cosca. In quel casolare però Reina non trovò lei, Maria Rosa Di Dio, allora poco più che trentenne, ma i suoi carnefici. Venne ucciso e il suo corpo, bruciato, fu reso irriconoscibile. Per tanti anni fu definito un caso di lupara bianca, ma nel 2010 il racconto di alcuni collaboratori di giustizia permise ai magistrati di ricostruire la dinamica dell’omicidio. Per la morte di Reina furono arrestati il boss Davide Emmanuello, il mandante, e Rocco Manfré. Ma anche lei, Maria Rosa Di Dio, che per il ruolo avuto nell’omicidio le è stato dato il soprannome di “mantide religiosa”. La compagna di latitanza - Esce dal carcere di Messina anche Rosa Zagari, 47 anni, storica compagna di Ernesto Fazzalari, boss di ‘Ndrangheta. Sono stati arrestati insieme nel giugno del 2016: lei curava la latitanza del suo uomo, considerato fino alla cattura il secondo latitante più pericoloso d’Italia dopo Matteo Messina Denaro. Durante la latitanza del boss, Zagari si incontrava con il suo braccio destro, Domenico Rettura, e consegnava i pizzini che dovevano garantire il proseguimento degli affari della cosca. Durante i primi mesi di carcere, a Reggio Calabria, una brutta caduta le aveva procurato la frattura di due vertebre. Da mesi attraverso i legali chiedeva il trasferimento e rivendicava il diritto a cure adeguate. Giovannina Casamonica - È sorella di Consiglio e di Luciano, il Casamonica che abbraccia sorridente l’allora sindaco di Roma Gianni Alemanno in foto, poi finito nell’inchiesta “Mondo di mezzo” per i suoi rapporti con Salvatore Buzzi, il sodale di Massimo Carminati. Anche Giovannina Casamonica, detta Bali, esce dal carcere: era agli arresti dal luglio del 2018, dopo che l’operazione Gramigna della Dda di Roma ha decimato il clan di sinti di Roma Sud. Giovannina è considerata dagli inquirenti una delle donne più attive nel clan, in grado di far proseguire gli affari quando i parenti finivano in carcere. E ora torna a Porta Furba, nel cuore del centro di comando del clan. L’Anm: “Illogico depotenziare il processo da remoto” Il Dubbio, 17 maggio 2020 L’audizione di Poniz e Ferramosca in Commissione Giustizia al Senato: “posizioni preconcette e ideologiche contro questo strumento”. “Incoerente”. L’aggettivo utilizzato dalla Giunta esecutiva centrale dell’Anm contro la scelta di ridurre l’utilizzo del processo da remoto, escludendo l’istruttoria dibattimentale e le discussioni, è chiaro. Ed è, oltre che un attacco alla norma, anche una critica alla strenua opposizione dell’avvocatura contro la smaterializzazione del processo, la cui posizione sarebbe “preconcetta e ideologica”. Ad affermarlo sono stati il presidente del sindacato delle toghe, Luca Poniz, e Bianca Ferramosca, componente della Giunta, durante l’audizione del 13 maggio davanti alla Commissione Giustizia del Senato. In quella sede i magistrati hanno infatti illustrato la posizione dell’Anm in relazione alle modifiche adottate a fine aprile, proprio a seguito delle proteste dell’avvocatura e della politica, che paventavano il rischio di una contrazione del diritto alla difesa, con uno sbilanciamento verso la magistratura. Per la magistratura il cambio di passo del governo non sarebbe dunque logico, dal momento che la Fase 2 viene intesa come periodo “emergenziale” e tale sarà, per gli operatori della Giustizia, almeno fino al 31 luglio. Rimangono validi, quindi, i presupposti alla base del primo decreto, quello che prevedeva modalità da remoto ben più estese rispetto a quella attuale. Ma il governo, afferma l’Anm, ha deciso “di cancellare quelle più significative”. E prima di chiudere l’audizione ha annunciato la trasmissione di un parere in relazione alle norme in materia di detenzione domiciliare, permessi e differimento della pena. Il processo penale - Nel corso della Fase 1 era stato previsto i vari protocolli siglati tra avvocatura e magistratura hanno riconosciuto “l’essenzialità dello strumento (peraltro raccomandato dal Csm) in relazione alle finalità di tutela delle persone coinvolte nel processo” e l’idoneità delle “piattaforme”. Scelte, afferma l’Anm, suggerite proprio dall’atteggiamento dell’avvocatura che reclamava una maggiore tutela della salute e della sicurezza all’interno dei palazzi di Giustizia. E così, affermano Poniz e Ferramosca, la modalità “da remoto” “appare l’unica tesa a garantire il più possibile la celebrazione dei processi”. E nella sua formulazione originaria, estesa alla maggior parte delle attività istruttorie, “appariva come coerente con l’emergenza in atto, così come la correlata “delocalizzazione” della camera di consiglio e relative deliberazioni”. Modalità adottate anche dalla Corte costituzionale, “nel pieno rispetto del contraddittorio”. E tale argomentazione viene usata dall’Anm per rinforzare il concetto: se anche un organo così “sensibile ai princìpi fondamentali e connotato da particolare solennità nel rito” ha deciso di adottare tale sistema, ciò non fa che sancire “la piena compatibilità di misure emergenziali con ogni segmento della giurisdizione”. L’audizione è anche un’occasione per respingere al mittente le accuse di voler alterare la fisionomia del processo penale e dei suoi princìpi fondamentali: la posizione della magistratura sarebbe infatti stata quella di “reclamare strumenti tesi a garantire la funzionalità della giurisdizione, altrimenti seriamente compromessa in molte parti del territorio dello Stato”. Da qui l’accusa all’avvocatura di aver assunto una posizione “ideologica” e poco coerente con i principi richiamati: “le modalità già introdotte dal legislatore con il già citato dl 18/2020 sono state depotenziate per aver da ultimo il legislatore consentito un ricorso al “processo da remoto” solo se “le parti vi acconsentono”, per tale via affidando alle difese, con forme peraltro processualmente non definite, l’uso di uno strumento processuale di cui proprio le rappresentanze dell’avvocatura hanno contestato la compatibilità con i princìpi fondamentali che presidiano la giurisdizione penale; peraltro, è apparso incomprensibile come valori indisponibili per il legislatore lo diventino per le parti individualmente interessate al processo”. Il processo civile - Sul versante civile l’Anm ha chiesto l’abrogazione della disposizione che obbliga il giudice civile a tenere l’udienza da remoto ma in ufficio. Una scelta “contraddittoria” rispetto alla ratio delle norme sul distanziamento sociale, dal momento che l’articolo 87 del dl 18/2020 (il Cura Italia) “limita la presenza del personale negli uffici per assicurare esclusivamente le attività che si ritengono indifferibili e che richiedono necessariamente la presenza sul luogo di lavoro, anche in ragione della gestione dell’emergenza”. Ma i magistrati denunciano anche la disparità di trattamento riservata al giudice civile rispetto a quello amministrativo, contabile, tributario e penale, “incongruenza ancor più smaccata in ragione della condivisione informatica di tutti i documenti delle cause assicurata dal sistema del processo civile telematico in uso da anni”. Perché è stato silurato Fulvio Baldi, braccio destro di Bonafede di Paolo Comi Il Riformista, 17 maggio 2020 Non c’è due senza tre a via Arenula. Dopo le dimissioni del capo dell’Ispettorato Andrea Nocera, indagato per corruzione, quelle del capo del Dap Francesco Basentini, travolto per la (non) gestione delle carceri durante emergenza Covid-19, ecco il turno di quelle del capo di gabinetto Fulvio Baldi. La pubblicazione questa settimana sul Fatto Quotidiano dei suoi colloqui con Luca Palamara, contenuti nel fascicolo della Procura di Perugia che lo scorso anno terremotò il Csm, è stata fatale all’ormai ex uomo di fiducia di Alfonso Bonafede. “Fulvietto”, come lo chiama Palamara, più che un capo di gabinetto di un ministro, leggendo le trascrizioni delle conversazioni, sembra il capo dell’ufficio di collocamento magistrati. Palamara, già ras indiscusso di Unicost, la stessa corrente di Baldi, nell’estate del 2018 ha un problema: piazzare “fuori ruolo” due magistrate. Si tratta di Katia Marino, sostituto procuratore a Modena, e Francesca Russo, giudice del Tribunale di Roma. Baldi è pronto ad esaudire i desiderata di Palamara ma ha finito i posti al gabinetto del Ministero. Si rivolge al collega Mauro Vitiello, capo del Legislativo, ufficio dove i posti ci sono ancora. Vitiello, però, è di Magistratura democratica, la corrente di sinistra, e si mette di traverso. Palamara non si perde d’animo e cerca una sponda con Nicola Clivio, suo collega al Csm in quota Md, ma senza successo. L’exit strategy, per non fare brutta figura, pare essere il Dag, il Dipartimento degli Affari di Giustizia (all’interno del quale c’è la direzione che Bonafede voleva dare in quelle settimane a Nino Di Matteo, ndr), presidiato da Maria Casola, altra esponente di punta di Unicost. Palamara è dubbioso sulla soluzione proposta da Baldi e quindi chiede: “Se la prende lei o no?”. Baldi replica: “Eh beh ma la Casola è nostra ragazzi, gliela indichiamo noi che cazzo, e allora che cazzo piazziamo a fare i nostri?”. Passando i giorni senza che situazione si sblocchi, ecco spuntare dal cilindro di Baldi l’Ufficio contenzioso del Ministero degli esteri. A differenza degli incarichi a via Arenula questo posto non ha indennità economiche aggiuntive. E poi c’è il problema della lingua inglese che il giudice Russo non conosce. L’esplosione del caso Palamara qualche mese più tardi interrompe l’attività dell’ufficio di “collocamento” e le due magistrate restano al loro posto. Sul fronte del Csm, invece, altre intercettazioni riportate dal quotidiano La Verità, molto attivo in questa fase insieme al Fatto (nel silenzio, invece, del Corriere, Repubblica e Messaggero, i giornali che lo scorso anno pubblicarono le intercettazioni che costrinsero alle dimissioni cinque consiglieri, cambiando gli equilibri al Csm e stoppando la corsa di Marcello Viola alla Procura di Roma), hanno svelato ieri il ruolo di Md, la corrente del molto attivo presidente dell’Anm Luca Poniz, nella spartizione degli incarichi. Attività che si pensava fosse esclusivo appannaggio del duo Palamara-Cosimo Ferri. Dai colloqui con Massimiliano Fracassi, nella scorsa consiliatura capo delegazione delle toghe di sinistra a Palazzo dei Marescialli, si discute della nomina del vice segretario generale del Csm. Nella scelta sembra si sia intromesso Stefano Erbani, esponente di Md distaccato al Quirinale. “L’uomo è pericoloso, fidati”, dice allora Fracassi a Palamara. L’incarico andrà poi a Gabriele Fiorentino, componente del comitato esecutivo di Md. Palamara, comunque, ha un rapporto di ferro con David Ermini (Pd) da lui imposto alla vicepresidenza del Csm. I due si sentono spessissimo. Il giorno dell’elezione Palamara gli scrive due messaggi: “Godo!!!” e “Insieme a te!!!”. Ermini ha in grande considerazione Palamara al punto che, bypassando gli Uffici relazioni esterne del Csm, gli chiede la cortesia di scrivere gli interventi che deve pronunciare ai convegni. In attesa della probabile pubblicazione di ulteriori intercettazioni, alcuni aspetti non tornano. Il primo è come mai il livello di fiducia dei cittadini italiani nella magistratura sia ancora attestato su un elevato 36%. Il secondo riguarda i laici del Csm, stimati professori universitari e avvocati, che continuano ad entrare a Palazzo dei Marescialli senza provare alcun disagio. Non c’è pace per il ministro Bonafede di Pietro De Leo Il Tempo, 17 maggio 2020 Si dimette il capo di gabinetto del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. M5S nell’occhio del ciclone per i boss scarcerati. Si chiude un’altra settimana difficile, per il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, e se ne aprirà, lunedì, un’altra all’insegna della passione, nel senso di patimento. Ieri mattina è piovuta sul confronto politico, già non proprio sereno per via dello scontro sul decreto Rilancio, la notizia delle dimissioni del capo di gabinetto di Via Arenula, Fulvio Baldi. “Motivi personali”, riportano le agenzie. Iniziativa assunta dopo un colloquio proprio con il ministro. Tuttavia, pare che gran peso sulla scelta l’abbia avuto un pezzo del Fatto Quotidiano dell’altroieri, dove sono presenti delle intercettazioni tra Baldi e il pm Luca Palamara, quest’ultimo al centro dell’inchiesta di Perugia per presunta corruzione. Baldi non è indagato, ma tema dello scambio tra i due par di intendere ci siano degli accordi per piazzare delle figure amiche nello staff di via Arenula. A Baldi, già sostituto procuratore generale della Cassazione, da ieri è subentrato il capo dell’ufficio legislativo, Mauro Vitiello. Tuttavia, perdere il capo di gabinetto (la figura che, di fatto, condivide con il ministro la “sala macchine” della struttura) rappresenta di norma un duro colpo. Figuriamoci in una fase in cui il ministro in questione attraversa una vera e propria bufera politica. Ieri aumentata di intensità dalla valanga di strali arrivati dall’opposizione. Dalla Lega, l’ex sottosegretario proprio alla Giustizia Jacopo Morrone, parlando alla trasmissione “Gli inascoltabili” di Nsl Radio Tv affonda: “il ministero della giustizia si sta sgretolando ed è sotto gli occhi di tutti. Ci sono le dimissioni di tutti gli uomini più vicini al ministro, ma il ministro mantiene la sua poltrona”. E infatti proprio su queste due direttrici si concentrano gli attacchi dell’opposizione: da un lato il chiarimento e dall’altro le dimissioni. Così in Fratelli d’Italia, dove Fabio Rampelli osserva che Bonafede “dovrebbe chiarire quali altre pressioni ha subìto dall’ex pm Palamara, già capo di Anm, per la creazione degli uffici di staff e quali altre liste ha ricevuto in questi anni” e poi chiede “il giusto epilogo di una conduzione fallimentare del dicastero di via Arenula”. Sulla stessa linea, Andrea Delmastro punta il dito contro le “ombre imbarazzanti” attorno al ministero e intima a Bonafede: “si dimetta”. Da Forza Italia, se Gasparri ironizza “ci deve essere un equivoco nelle comunicazioni. Bonafede te ne devi andare tu”, Gianfranco Rotondi prende le difese di Baldi: “un magistrato integerrimo e a suo carico non esiste alcun procedimento giudiziario”. Ed invita Bonafede a respingere le dimissioni. Dunque, l’ennesimo mattone che viene via, dopo le dimissioni da capo del Dap di Basentini, il frontale in diretta tv con il componente del Csm Nino Di Matteo. E i retroscena che ricondurrebbero all’ambiente universitario fiorentino (di cui facevano parte sia Bonafede che Conte) l’origine della scelta di Basentini a capo dell’amministrazione penitenziaria, al posto di Di Matteo. Dinamiche, queste, che oramai da settimane avvolgono il ministro. Il quale anche questa settimana dovrà affrontare un altro percorso ad ostacoli. Mercoledì in Senato si voterà la mozione di sfiducia che verrà sostenuta dal centrodestra unito (anche Forza Italia, e ieri Antonio Tajani ha spiegato il motivo: “Non si tratta di un giudizio, negativo, soltanto sull’operato del ministro ma riguarda una gestione non all’altezza dell’intero settore Giustizia su cui il governo ha fallito su tutta la linea”). Giovedì, invece, il Guardasigilli riferirà in commissione antimafia. All’ordine del giorno, scarcerazioni e avvicendamento al Dap. Orlando (Pd): fare subito la riforma del Csm di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 17 maggio 2020 No alla sfiducia a Bonafede, ma il Pd chiede una svolta. “Se la nuova legge elettorale per l’organo di autogoverno piace poco alle correnti non è detto che sia un male”, dice il vice segretario dem. E aggiunge: “Ci aspettiamo discontinuità nella guida del Dap. Ora il ministro tiri fuori dal cassetto l’ordinamento giudiziario”. Andrea Orlando, vice segretario Pd ed ex ministro della giustizia, mercoledì in senato si vota la mozione di sfiducia al ministro Bonafede. Il suo partito non gli risparmia critiche ma voterà contro la mozione. Con qualche imbarazzo? Nessun imbarazzo, la mozione va respinta con convinzione perché è strumentale ed è basata su argomenti infondati: le allusioni a oscure ragioni per la scelta del capo del Dap e il nesso inesistente tra provvedimenti del governo e scarcerazione dei boss mafiosi. Al fondo però c’è l’attacco di Di Matteo a Bonafede e la parabola di un giustizialismo che il Pd dichiara di avversare.... Sotto il profilo culturale questa vicenda dimostra che quando si cavalca la tigre prima o poi la tigre ti azzanna. Quando ero ministro il Dap fece una circolare per omogeneizzare il trattamento del 41 bis in tutti gli istituti, nessun lassismo, secondo le indicazioni della Cedu. Bastò questo per far dire al M5S che si era riaperta la trattativa con una mafia. Ho subito sulla pelle quel metodo, non è il mio e lo combatterò sempre. Ma le difficoltà di Bonafede aumentano, ha dovuto lasciare anche il suo capo di gabinetto coinvolto nelle intercettazioni del caso Palamara... Appunto, non voglio usare contro i 5 Stelle il metodo che i 5 Stelle hanno usato contro gli altri. Le differenze tra voi sono politiche non giudiziarie. Per quanto ancora riuscirete a metterle da parte? Non le nascondiamo, le affrontiamo. Un conto è respingere le teorie del complotto, un conto è discutere come è stato condotto il Dap negli ultimi mesi, in continuità con il governo gialloverde. Speriamo che la nuova guida porti a risultati diversi. Va ripresa la riforma dell’ordinamento penitenziario che Bonafede ha messo in un cassetto all’inizio della legislatura. Con quella riforma avremmo avuto gli strumenti per gestire la situazione di difficoltà provocata dalla pandemia senza scaricare le responsabilità sulla magistratura di sorveglianza. E senza determinare rischi per la sicurezza. Sarebbe stata possibile una gestione intelligente dell’esecuzione della pena con più strumenti oltre al carcere. Peccato sia stata la maggioranza di centrosinistra a non avere il coraggio di approvare quella riforma... È vero, sarebbe intellettualmente disonesto dare tutta la colpa alla destra. È una storia lunga, sul finire della precedente legislatura ci sono state molte frenate all’interno del centrosinistra e non tutti quelli che oggi si presentano come garantisti lo erano allora. Anche Forza Italia diede il suo contributo a stopparla, a proposito di garantisti a corrente alternata. Salvini e i 5 Stelle hanno dato il colpo finale. L’emergenza Covid ha interrotto il confronto sulla giustizia, il processo penale attende di essere riformato. Si può ripartire? Sì, ma non dal punto di partenza quando si agitavano le bandiere invece di confrontarsi nel merito. Dobbiamo riprendere il discorso sull’efficienza del processo penale che è un bene scarso e va utilizzato solo per le forme di illecito non contrastabili in altro modo. Sta proponendo una depenalizzazione? Sto proponendo di spingere sui riti alternativi, di rafforzare le misure amministrative e tutto ciò che evita di intasare i tribunali. Un anno fa 5 Stelle e Lega hanno fatto il contrario, escludendo i reati punibili con l’ergastolo dai riti alternativi. Si può tornare indietro? Quello è stato solo l’ennesimo cedimento al populismo penale. La ratio del sistema accusatorio è produrre una convenienza a chiudere prima del processo. Sono anche per discutere di depenalizzazioni mirate, ma in modo serio. Ricordo che quando introdussi una depenalizzazione di tutti i reati puniti solo con pene pecuniarie parlarono di “svuota carceri”. Per quei reati non si andava nemmeno in carcere. Ripartirebbe dalla legge delega sulla quale il governo aveva trovato una faticosa intesa a febbraio? C’è soprattutto un tema che merita attenzione. Da quel disegno di legge delega era rimasta fuori la riforma del Csm. Mi domando se, alla luce delle pratiche che sono emerse nel Consiglio e attorno al Consiglio, non sia invece il caso di cominciare da lì. Era stato trovato un buon punto di partenza, prevedeva una nuova legge elettorale della componente togata e la riforma del disciplinare. Secondo me si devono legare di più le valutazioni di professionalità a criteri oggettivi, alle performance degli uffici giudiziari. La nuova legge elettorale per la componente togata del Csm piaceva poco alla magistratura... Se piace poco ai rappresentanti delle correnti non è detto che sia un male. La magistratura associata nei primi giorni del caso Palamara ha reagito con forza, ma poi non è stata capace di una seria riflessione sulle prassi che portano a questi fenomeni. Sicuro che basti una riforma elettorale del Csm? Anche l’ultima era stata fatta per diminuire il peso delle correnti... C’è anche il tema del disciplinare e il disegno di legge lo affronta. Poi bisogna cambiare le regole che consentono di lasciare le sedi vacanti in attesa che si raggiunga un numero sufficiente di incarichi da assegnare con la logica del pacchetto. Sono prassi che vanno impedite non criticate moralisticamente. Per questo è importante che ci sia un’apertura anche ad altri mondi, che si rompa l’autoreferenzialità della magistratura. Gli avvocati devono entrare con maggior peso nei consigli giudiziari, anche nelle valutazioni. Gli uffici devono confrontarsi, essere anche un po’ valutati sul territorio, dovrebbero esserci forme di consultazione sulla qualità dell’azione giudiziaria. Per questa via si arriva in un attimo al procuratore eletto... Assolutamente no, non si tratta di questo, ma della necessaria interlocuzione con la società e le altre istituzioni su come si organizzano gli uffici in maniera trasparente e pubblica. Del resto non tutti gli uffici sono efficienti allo stesso modo. Ci sarà un motivo? Bruti Liberati: “Cari magistrati, è ora di finirla con i deliri di onnipotenza” di Errico Novi Il Dubbio, 17 maggio 2020 L’ex procuratore capo di Milano: “Si volti pagina, come chiede il presidente Mattarella: i magistrati devono ritrovare la fiducia dei cittadini”. Con Edmondo Bruti Liberati l’espressione “leadership” può declinarsi a pieno anche rispetto alla magistratura. Non solo perché si tratta di una figura che ha guidato l’ufficio inquirente chiave del Paese, la Procura di Milano: Bruti Liberati è stato anche leader in senso stretto di Magistratura democratica, gruppo storico e decisivo dell’associazionismo giudiziario. Ora assiste ai tormenti delle toghe, che non risparmiano gli uffici di via Arenula. E usa un’espressione: amarezza. “È amaro”, dice, “vedere un magistrato in preda a un delirio di onnipotenza e altri, non tutti, che non hanno la prontezza di rigettare il suo approccio”. Le notizie sull’indagine di Perugia possono radicare nell’opinione pubblica un’immagine desolante della magistratura? Le notizie emerse mostrano un preoccupante decadimento di costume, di cui è indice anche un linguaggio non commendevole, che coinvolge alcuni magistrati in posizioni di rilievo. È amaro vedere un magistrato in preda a un delirio di onnipotenza e altri, non tutti, che non hanno la prontezza di rigettare il suo approccio. Ma non si tratta di fatti di rilievo penale... No e, pare, neppure di rilevo disciplinare: riguardano alcuni singoli magistrati, ma non voglio minimizzare perché viene coinvolto il Csm. Le vicende che oggi vengono alla luce sono degli anni scorsi e arrivano fino ai primi mesi del 2019 toccando il Csm attualmente in carica. Ricordiamo il severo monito rivolto dal presidente Mattarella nella seduta straordinaria del Csm del 21 giugno dello scorso anno: “Oggi si volta pagina nella vita del Csm, la prima di un percorso di cui non ci si può nascondere difficoltà e fatica di impegno. Dimostrando la capacità di reagire con fermezza contro ogni forma di degenerazione. Occorre far comprendere che la Magistratura italiana - e il suo organo di governo autonomo, previsto dalla Costituzione - hanno al proprio interno gli anticorpi necessari e sono in grado di assicurare, nelle proprie scelte, rigore e piena linearità”. Quel monito si è tradotto in un effettivo cambio di passo? A me pare che una risposta vi sia stata: sia pure dopo qualche titubanza, tutti i consiglieri in qualche modo coinvolti hanno rassegnato le dimissioni, taluni dall’incarico al Csm, altri dalla magistratura. E viviamo in un Paese in cui le dimissioni, a prescindere da un’indagine penale, sono un evento tutt’altro che frequente. Ma nel Paese la magistratura è stata a lungo considerata un baluardo di credibilità e autorevolezza, nel vuoto di classi dirigenti sempre più pallide: crede che quel baluardo regga ancora, agli occhi dell’opinione pubblica? La giustizia si regge sulla credibilità della magistratura, i magistrati sono espressione di un Paese che vede una crisi delle classi dirigenti e una pericolosa svalutazione delle competenze. Le riforme degli studi universitari e post universitari, con le migliori intenzioni, hanno prodotto effetti pessimi. Si è creato un lungo periodo di parcheggio, di pochissima utilità sotto il profilo della formazione, che induce i migliori a trovare altri sbocchi professionali, seleziona per censo coloro che hanno alle spalle una famiglia in grado di mantenerli agli studi fino a trent’anni, stempera nella attesa gli entusiasmi. Quadro desolante: come si fa a cambiarlo? È urgente consentire ai giovani laureati, dopo il quinquennio di studi di giurisprudenza, di affrontare subito il concorso per l’accesso in magistratura. Per i vincitori si deve prevedere un più lungo e organizzato periodo di tirocinio presso la Scuola Superiore della Magistratura. La nostra Scuola, arrivata buona ultima in Europa, ha acquisito efficacia e autorevolezza, grazie anche alla guida dei tre presidenti che si sono succeduti, non a caso tutti ex presidenti della Corte costituzionale. Occorre investire sulla Scuola, sia per il tirocinio iniziale che per l’aggiornamento professionale, e tra i corsi dovrà essere potenziato lo spazio dedicato alla deontologia. Ma è possibile che la magistratura, avvilita anche da alcune vicende poco commendevoli, rinunci a esercitare un ruolo culturale nel dibattito pubblico e finisca per ritirarsi in una sorta di minimalismo sindacalistico? Questo rischio esiste. L’Anm deve occuparsi anche di temi strettamente sindacali, ma la sua lunga storia ha evidenziato la capacità di superare una visione grettamente corporativa e contribuire alle riforme del sistema giustizia. La magistratura deve conquistarsi la fiducia dei cittadini, che non vuol dire assenso acritico e neppure adeguamento al volere della piazza. Si citano spesso sondaggi di opinione sulla percentuale di fiducia nella magistratura che si attesterebbe intorno al 45 per cento. Ebbene, un sondaggio francese del settembre 2019, di Ifop per L’Express, indica la percentuale del 53 per cento per la fiducia nella giustizia, in quadro complessivo in cui tutte le istituzioni hanno un grado di fiducia di circa dieci punti superiori rispetto alla situazione italiana. I molteplici fattori di crisi delle nostre società si ripercuotono ovunque anche sul sistema di giustizia. Le campagne sulle “scarcerazioni dei boss” e i provvedimenti assunti a riguardo dal governo possono indebolire l’indipendenza dei magistrati di sorveglianza? Vi è stata una clamorosa disinformazione: basti pensare che i 3 casi che hanno riguardato detenuti delle categorie pericolose sono divenuti più di 300… Il ministro della Giustizia e il Governo si sono sottratti alla responsabilità di affrontare la situazione di grave sovraffollamento nella emergenza Covid-19 e il problema è stato rovesciato sulle spalle della magistratura e di quella di sorveglianza in particolare. Ogni provvedimento può essere discusso, ma è inaccettabile l’allarmismo sui numeri manipolati e la campagna di aggressione verso chi si è assunto responsabilità, a fronte di una politica latitante. Ma per tornare alle vicende delle ultime ore, crede che favoriranno la rivincita di chi chiede il sorteggio per eleggere il Csm? Il sistema elettorale in vigore, che si proponeva di scardinare il sistema delle correnti, ha ottenuto l’effetto opposto. Il sorteggio è il sistema proposto nel 1972 dall’onorevole Almirante, ma con modifica costituzionale. I tentativi di costruirne oggi declinazioni variamente mitigate ne evidenziano il limite insuperabile. La elettività dei componenti, posta in Costituzione, mira a far vivere il Csm ai magistrati come organo di cui portano la responsabilità. Si fonda anche sulla esigenza di valorizzare l’attitudine per una funzione, che richiede, oltre a tutte le qualità del buon magistrato, anche una ulteriore: la capacità di misurarsi con la organizzazione di un sistema complesso come quello della giustizia. Non è dunque il sorteggio, la soluzione... Le clamorose vicende che hanno investito alcuni componenti del Csm indicano che le peggiori derive sono conseguenza di ambigui occulti rapporti tra “notabili”, sensibili al demone dell’esercizio del potere e delle pratiche di accordi occulti, che si muovono del tutto trasversalmente rispetto a quello che dovrebbe essere l’aperto e trasparente confronto. Le “correnti” della magistratura devono mostrarsi all’altezza del monito del presidente Mattarella: “Voltare pagina”. Il sistema elettorale deve mirare a ridurre il peso degli apparati allargando le possibilità di scelta degli elettori che continuino a fare riferimento ad una o altra corrente. Qualunque riforma deve misurarsi con principi fondamentali: la libertà di opinione e di associazione e il contributo che i corpi intermedi apportano alla vita di un ordinamento democratico, in tutte le sue articolazioni. De Magistris: “Dover appartenere a corrente per fare carriera è vergogna” adnkronos.com, 17 maggio 2020 È un quadro “inquietante” quello emerso dalle intercettazioni di conversazioni tra Fulvio Baldi e Luca Palamara, secondo il sindaco di Napoli Luigi de Magistris. All’Adnkronos spiega che “è uno spaccato di una magistratura che ormai conosciamo, dove conta il tema dell’appartenenza alle correnti, anche nel linguaggio. Quei ‘nostri’ è quello che alcuni di noi hanno sempre sostenuto, cioè che quando si parla di indipendenza della magistratura non si tratta solo di indipendenza dai poteri esterni, politica, lobby, finanza e affari, ma anche di indipendenza interna, al fatto che devi appartenere a una corrente per fare carriera, per salvarti dal procedimento disciplinare, per diventare procuratore. Quanto fiume melmoso giudiziario deve ancora passare per smetterla con questa vergogna?”. De Magistris cita la frase pronunciata “dall’allora presidente dell’Anm Luca Palamara, quando i magistrati di Salerno che indagavano sulle questioni di Catanzaro furono fermati dal Csm dopo che avevano accertato la totale correttezza del mio operato e che ero vittima di interferenze illecite di un sistema criminale. Palamara disse ‘il sistema ha dimostrato di avere gli anticorpi’. Una frase, a rileggerla oggi, inquietante. Eravamo considerati un virus di fronte a un sistema, ma eravamo un virus benefico di fronte al contagio criminale. Il magistrato libero e indipendente è quello che paga un prezzo altissimo”. Facendo riferimento a una frase di Baldi, “che li piazziamo a fare i nostri?”, intercettata nel corso di una conversazione risalente al 2018, de Magistris spiega: “È un linguaggio che appartiene ad altri, a quelli che i magistrati dovrebbero contrastare, non può dirlo un magistrato. È questo il virus che corrode l’indipendenza della magistratura, quel ‘i nostri’ significa che se appartiene a qualche congrega che poi si collega ai politici allora diventi capo di gabinetto, presidente del Tribunale, procuratore della Repubblica, ti salvi dai procedimenti disciplinari. È un sistema e alla politica conviene”. Secondo de Magistris “l’unico modo per scardinarlo è affidarti a persone totalmente autonome e indipendenti, ma non lo faranno mai. Io sono stato espulso dalla Calabria, mi hanno catapultato via per incompatibilità ambientale e quasi quasi, col senno di poi, avevano ragione. Ero incompatibile con un sistema criminale e corrotto che loro hanno difeso”. L’ex pm sostiene che “si tratta di una questione criminale gigantesca che continua e che a me fa impressione. Ne ho viste di tutti i colori ma continuo a non abituarmi. Che fiducia si può avere così? Conosco centinaia di magistrati integerrimi, vengo da una famiglia di magistrati da quattro generazioni e questo mi fa rabbia. La magistratura ha perso credibilità e non fa nulla per rimediare” sottolinea. Il sindaco di Napoli ha parlato anche dell’emergenza coronavirus e della fase 2. “Il decreto Ripresa non c’è ancora e questa è un’altra cosa surreale, ma se diamo per buono quello che gira sulle chat dei sindaci, sui mezzi di comunicazione, agenzie e telegiornali, allora per i Comuni c’è pochissimo. Abbiamo chiesto il minimo e neanche quello ci è arrivato”. “C’è un po’ di elemosina, qualcosina che compensa la tassa di soggiorno, un po’ di occupazione di suolo pubblico, ma pochissima roba. Con l’elemosina si può sopravvivere qualche giorno, ma non si ricostruisce un Paese”, afferma. De Magistris ricorda che i sindaci “hanno rappresentato al Governo quanto in meno abbiamo incassato dal 21 febbraio a oggi con le tariffe che vanno dalle strisce blu alla tassa di soggiorno, all’occupazione di suolo pubblico, al trasporto pubblico, ai trasferimenti erariali. Avevamo chiesto 6-7 miliardi, sembrerebbe che non ne arrivano più di 3. Già questo basta per dire che non siamo in condizione di garantire i servizi che erano in affanno già a febbraio, perché molte città, tra cui Napoli, sono in pre-dissesto e hanno un debito storico pesantissimo. Il presidente del Consiglio aveva detto che i sindaci sono le sentinelle sul territorio, ma se un generale non ascolta l’allarme delle sentinelle, e quindi dei soldati in prima linea, e li abbandona è come se si stesse preparando a perdere la guerra. Se il Paese non sarà in grado di garantire da qui a breve servizi adeguati, si aggiungerà sofferenza alla sofferenza degli imprenditori, dei lavoratori, dei cittadini e tutto diventerà più complicato”. Nei confronti del Mezzogiorno, prosegue de Magistris, è in atto “una discriminazione nella discriminazione. Non hanno per nulla considerato la questione degli enti in piano di riequilibrio o in pre-dissesto. A pagare il prezzo più alto è il Sud e sono le città del Sud, da Napoli a Reggio Calabria, da Messina a Palermo. Sembra anche qui - conclude - che sotto sotto, ancora una volta, nell’abbandono ci sia anche quell’aspetto malefico di essere ancora più punitivi nei confronti del Mezzogiorno d’Italia, che ha dato tra l’altro prova di grande responsabilità nella pandemia”. “Con questo tipo di manovra, se non sarà corretta in Parlamento, se non ci saranno manovre aggiuntive e se non ci saranno altre risorse, il rischio che ci sia l’interruzione di alcuni servizi essenziali è una certezza”, ha dichiarato ancora de Magistris, rimarcando come quella relativa ai servizi garantiti dai Comuni “sia una preoccupazione che accomuna tutti i sindaci” e citando “le dichiarazioni anche di sindaci di città più ricche finanziariamente e anche dal punto di vista della comunità cittadina”, in particolare il sindaco di Firenze Nardella che ha ipotizzato uno stop all’illuminazione pubblica. “Non abbiamo la certezza di quando potrà accadere - spiega de Magistris - ma è evidente che, se le risorse non entrano, delle due l’una: o fai pagare altre risorse alla comunità, ed è impensabile e noi metteremo in campo tutte le azioni possibili perché non arrivi mai quel giorno, o i servizi non potranno mai migliorare e il rischio che ci siano interruzioni lo considero una certezza. Non è allarmismo, non è un urlare per ottenere, è un quadro assolutamente reale e abbiamo il dovere di dirlo ai cittadini e anche ai lavoratori, perché è un tema che attiene ai servizi essenziali e al rischio default del Paese. Il quadro è molto serio ed esprimo profonda delusione per questa manovra, dopo 3 mesi bastava poco per dare un segnale ai sindaci e per dire che il Governo c’è e ci mette nelle condizioni di non franare”, conclude. “Non mi pare che il pericolo del contagio criminale venga colto come priorità”, ha detto ancora de Magistris spiegando di essere stato “attento al dibattito istituzionale, politico e mediatico, e non mi è parso di avvertire negli atti e nelle parole da parte di esponenti del Governo, ma anche delle Regioni, il pericolo concreto, a mio avviso la certezza, che sia in atto un contagio criminale. La lentezza con cui si è proceduto contrastano con la straordinaria rapidità, con l’efficacia, l’assenza di burocrazia, la grande liquidità e la conoscenza del territorio che hanno le associazioni criminali da Palermo a Milano, da Reggio Calabria a Torino, passando per Napoli, Roma, Firenze e Bologna. Non è un tema meridionale”. De Magistris ricorda che “le mafie vivono di consenso, e in questo momento fiutano che possono riacquistare un consenso perso: andando dal cittadino bisognoso con le modalità dell’usura, andando dal commerciante e dall’imprenditore che dopodomani proverà ad alzare la saracinesca e troverà che ha una pesantezza economica che non aveva mai avuto. Le mafie si presentano come il volto buono ma in realtà diabolico di chi ha risorse”. Il timore è “l’acquisizione del consenso anche attraverso la riproposizione sui territori desertificati, attraverso piazze di spaccio, controllo del territorio, stese, estorsioni, di fronte a un Paese che arretra in cultura. La desertificazione del territorio diventa terra conquista”. Il timore espresso dal sindaco di Napoli è rivolto a “tutte quelle persone che in questi anni, con la rinascita culturale, turistica ed economica della città, avevamo portato attraverso quella linea di confine verso la legalità, e ora stanno lì con il rischio della mano tesa del crimine che può riportarli dove c’è il guadagno facile dello spaccio e di altre attività criminali”. Tra Stato e mafie, conclude de Magistris, “è una maratona, ma i primi 100 metri sono importanti perché danno subito contezza a chi vede e ascolta di dove si vuole andare. Se gli altri iniziano a correre e tu no, rischi di dover inseguire”. Il nuovo capo del Dap coinvolto nello scandalo delle chat di Palamara di Luca Fazzo Il Giornale, 17 maggio 2020 Petralia nei messaggi del magistrato indagato Lo contattò per fare il procuratore a Torino. Per mesi, magistrati illustri o sconosciuti di tutta Italia hanno incrociato le dita, sperando che Luca Palamara - collega potente e riverito fino al clamoroso tonfo per via giudiziaria - avesse avuto il buon senso di cancellare ogni tanto le sue chat. Perché sapevano che se si fosse risaliti non solo agli ultimi mesi, quelli della primavera 2019, ma anche più indietro, non si sarebbe salvato nessuno. Ma Palamara i messaggi non li cancellava. E adesso ce n’è davvero per tutti. Tutti coloro che in due anni hanno bussato alla porta del leader della corrente di Unicost per chiedere, proporre, trattare, sanno che il loro nome prima o poi salterà fuori dalla cornucopia dell’indagine della Procura perugina su Palamara e la sua cricca. Così nel tritacarne finisce anche un magistrato che alla ribalta pubblica ci era arrivato nei giorni scorsi per la prima volta: Dino Petralia, il procuratore generale di Reggio Calabria, chiamato dal ministro Alfonso Bonafede per mettere un po’ di ordine nel caos delle carceri italiane. L’arrivo di Petralia al Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, era stato salutato come una garanzia di esperienza e serietà. Ma ora si scopre che negli scorsi anni anche Petralia aveva chiesto l’aiuto di Palamara per conquistare un posto cui ambiva assai: la Procura di Torino, lasciata libera dal suo capo Armando Spataro nel dicembre 2018. Per il posto di Spataro fanno domanda in quattordici, tra cui lo stesso Palamara. Petralia, per anzianità e curriculum, sembra di gran lunga il più titolato. Ma prima ancora che la commissione incarichi direttivi del Csm decida le proposte per il plenum, Petralia intuisce che la sparizione tra correnti rischia di tagliarlo fuori. Prima si sfoga telefonando a una collega, il giudice reggino Tommasina Cotroneo, che si precipita a chiamare Palamara: il quale le dice di rassicurare Petralia, “cercheremo di fare tutto il possibile che tutto vada bene”. Ma sono promesse fatte d’aria. Petralia inizia persino a ricevere messaggi di “condoglianze” di colleghi che danno per scontata la sua bocciatura, e a quel punto chatta direttamente con Palamara. I messaggi si infittiscono fino all’ultimo sfogo, il 20 maggio 2019, quando Petralia si lamenta che nonostante i suoi “titoli oggettivi che nessun altro possiede” verrà scavalcato “per logiche antiche che pure questo Csm sosteneva di avere abbandonato”. Nove giorni dopo, però, scoppia il finimondo, con l’inchiesta per corruzione a carico di Palamara che esce allo scoperto e investe l’intero Csm. Petralia ci pensa un po’, e il 17 giugno comunica al Csm la sua decisione di revocare la domanda per la Procura di Torino. La mossa appare all’epoca come una giusta dissociazione dal mercato delle nomine scoperchiato dall’inchiesta di Perugia, ma ora, inevitabilmente, va letta anche in un’altra luce: Petralia sapeva che frugando nel telefono di Palamara gli inquirenti avrebbero trovato anche i suoi messaggi, visto che risalivano a pochi giorni prima. Come salteranno fuori le pressioni che lo stesso Petralia aveva fatto l’anno precedente per aiutare un suo amico, Vito Saladino, a diventare presidente di sezione del tribunale di Marsala. Petralia chiede l’intervento di Palamara, che in quel momento è ancora membro del Csm. E il 4 luglio 2018, nell’ultima seduta prima del suo rinnovo, il Csm nomina Saladino. Scene di ordinario sottobosco, si dirà, cui neanche magistrati rispettabili sapevano sottrarsi. Vero. Ma intanto le intercettazioni tra Palamara e Petralia creano una nuova, consistente rogna per il ministro Bonafede, che puntava sul magistrato siciliano come “uomo forte” sul fronte carcerario: e invece d’ora in poi, ad ogni scontro, Petralia si vedrà rinfacciare quelle chat. Il Dap, insomma, si ritrova un capo depotenziato, se non delegittimato: proprio nel momento meno adatto. L’ingiustizia nei calendari (sospesi) dei concorsi di magistratura e da avvocato di Anna Fornasieri Corriere della Sera, 17 maggio 2020 In una lettera al ministro della Giustizia, una studentessa che da mesi si prepara ai due concorsi segnala come i calendari, “sospesi” a causa del coronavirus, rischino di portare a sovrapposizioni ingestibili. Destinate a vanificare il sacrificio (di tempo ed economico) sostenuto da candidati e famiglie Egregio Ministro Bonafede, mi chiamo Anna, ho 27 anni e da circa un anno e mezzo sto studiando per la preparazione del concorso di magistratura. Le scrivo col desiderio di raccontarle la scoperta della fecondità di questo tempo così strano e di esprimerle le esigenze che dallo stesso stanno emergendo. Come saprà questo percorso è lungo e accidentato, capace di temprare la resistenza e la fermezza delle persone che vi si accingono. Il mio desiderio innato di scoprire cosa sia la giustizia, maturato e cresciuto tramite lo studio della letteratura greca e latina del liceo classico, mi ha portato sulla strada su cui ora mi trovo. Mi sono laureata all’Università Cattolica di Milano nell’aprile 2018 e qualche giorno dopo ho cominciato il tirocinio di 18 mesi presso la Corte di Appello di Milano, affiancando un giudice di una statura umana e professionale eccezionale. In quei 18 mesi, potendo osservare da vicino il mestiere del giudice, ho scoperto di volerlo davvero fare. È stata infatti l’occasione per scoprire che la risposta a cosa sia la giustizia non può essere rinvenuta in un’ideologia preconcetta, ma deve passare dal realismo del bilanciamento dei fattori in gioco in una determinata vicenda, scoprendo così, che la giustizia è l’ideale a cui ogni contraddizione umana tende continuamente. E ora, mentre le scrivo, guardando fuori dalla finestra in questa giornata soleggiata, mi trovo in casa a fare i conti ogni giorno con questa domanda: il desiderio che ho di fare questo mestiere, il gusto che ho provato in quei mesi di tirocinio, valgono la fatica di questa attesa che, ora più che mai, sembra infinita? Mi sembra importante farle sapere che la risposta a questa domanda, che inevitabilmente risuona ogni giorno quando ci si alza la mattina presto per continuare questa battaglia e persistere nelle lunghe ore di studio passate in solitudine, è sì. Questa è la risposta anche di alcuni amici e colleghi impegnati sullo stesso percorso, con i quali in questi giorni silenziosi mi continuo a confrontare. Rispondo che sì, vale la pena permanere su questa strada, ma bisogna capire il perché. Se io ogni giorno non sperimentassi, quando apro quei libri infiniti di penale, civile e amministrativo, un gusto nello studiare, un entusiasmo per come la ragione viene invitata ad aprirsi e a conoscere il mondo e l’uomo, mi sarei già fermata di fronte all’assoluta incertezza che ci avvolge. L’adesione che non si stanca mai a questo tipo di percorso, infatti, o è sostenuta da una passione vera alla conoscenza, oppure si interrompe. Ma questa scoperta, questa dedizione continua allo studio di cui le mie giornate sono fatte da ormai molto tempo, ha dentro qualcosa che ancora non ho detto: il desiderio di scoprire il mio posto nel mondo, l’esigenza di capire come anche io posso contribuire alla costruzione del bene comune che tutti cerchiamo. Dunque, io le chiedo e chiedo ai politici che stanno guidando il Paese in questo tempo così duro: vi interessa coltivare questa aspirazione di noi giovani? Perché non si può pensare che la crescita e, ad oggi, direi la rinascita di un Paese, non passi attraverso la scommessa su questo desiderio che ci muove. Certamente dentro questa affermazione che faccio vi è piena coscienza della situazione emergenziale in cui ci troviamo, in cui le uniche risposte da dare sembrano essere quelle legate alla salute ed alla sicurezza. Ma nessuno in questa fase 2 tanto proclamata, si è soffermato nemmeno per un istante a riflettere sulla condizione di chi, come noi, lavora e studia da due anni senza prendere nemmeno uno stipendio, mantenuto dalla propria famiglia, spesso in difficoltà economica, perseguendo però con fedeltà l’ideale di servire la società impastandosi nella ricerca della giustizia. Non è forse la persona il primo luogo per la costruzione di un Paese? Ecco, dunque, io credo che ora dobbiate guardare anche a chi, questa società, la sostiene con questo sacrificio operoso. Ma ecco la cruna dell’ago: per ciò che concerne lo scritto di magistratura 2020 abbiamo aspettato notizie dal Ministero. La data inizialmente prevista per la fissazione del calendario delle prove era il 27 marzo, è stata poi rimandata al successivo 24 aprile. Il 24 aprile la risposta è stata: “daremo la risposta il 24 luglio”, non una parola di meno non una di più. Aspettare fino al 24 di luglio per sapere, (ma visti i rimandi senza spiegazione, si dubita), quando sarà questo concorso, significa essere nell’impossibilità di capire come spendere il proprio tempo. In questa opacità e mancanza di trasparenza circa lo svolgimento del concorso, le uniche voci su cui fare affidamento sono quelle di alcune piattaforme social, secondo le quali il concorso di magistratura dovrebbe svolgersi a fine novembre 2020. Come migliaia di altri ragazzi, e come di prassi, ho fatto lo scritto di avvocato a Milano a dicembre 2019 ma anche su questo fronte non si sa nulla di certo, perché ufficialmente non ci è stato detto nulla. Tutto tace. L’unica notizia, arrivata solo qualche giorno fa, è paradossale: riprenderanno le correzioni in via telematica e gli orali cominceranno a partire da ottobre. Beh, era ora... ma mi permetta di dire che la annunciata soluzione di effettuare le correzioni degli scritti dell’esame di avvocato tramite gli strumenti che la tecnologia ci offre, non ci era sembrata così fantascientifica e non immaginavamo che richiedesse un iter così lungo per formularla (da fine febbraio a metà maggio). Ed ecco il cuore del problema: la collisione tra gli orali di Avvocato e lo scritto di Magistratura. In questa prospettiva, io, come tanti altri che hanno messo il loro impegno in entrambe le strade, mi troverei a dover sostenere il concorso di magistratura a fine novembre e a metà dicembre - sulla base della lettera alfabetica estratta - l’orale di avvocato che, tra le materie comuni al concorso, ne ha solo una su sei. Qualora, infatti, si decidesse di fissare il diario delle prove del concorso di magistratura entro la fine dell’anno corrente e l’inizio degli orali di avvocato realmente ad ottobre, come lei certamente capirà, numerosi giovani si troverebbero a dover affrontare una mole di studio definibile solo come folle. Con l’aggravante che la possibilità di capire come barcamenarsi tra questi due esami ci verrà rivelato a sorpresa solo il 24 di luglio. Ora, lei capirà che con questo scenario - che potrebbe definirsi solo mostruoso - si ridicolizza il sacrificio economico, di tempo e fatica che questo tipo di percorsi ha comportato fino ad ora. Ma soprattutto, le chiedo, le sembra giusto? Non è uno sterile lamento per una situazione che, come detto in precedenza, ci ha trovato tutti impreparati. Ma ciò che voglio dirle, Ministro, è che non si può pensare a una riorganizzazione dei concorsi e della formazione giuridica senza che voi sappiate chi c’è dietro a quei numeri che ogni anno si presentano da tutta Italia per affrontare quelle prove e senza ascoltarne le esigenze. In sintesi chiedo, io insieme a migliaia di giovani, di renderci partecipi delle possibilità che sono al vaglio del Ministero circa lo svolgimento del concorso di magistratura, perché la realtà vista solo da un lato è astratta, e di prendere in considerazione una soluzione per evitare la sovrapposizione del periodo di preparazione dell’orale di avvocato e del concorso di magistratura. Spero e confido nel fatto che lei, Ministro della Giustizia, la abbia veramente a cuore, perché la giustizia prima che nelle aule di tribunale si gioca nel rapporto con un bisogno espresso. Sardegna. Emergenza virus, scarcerato il 3,6% dei detenuti L’Unione Sarda, 17 maggio 2020 Settantasette persone hanno lasciato le case circondariali. Poco meno della metà sono stranieri. “Solo il 3,6% dei detenuti ha lasciato il carcere, nel mese di aprile, durante la pandemia del coronavirus in Sardegna. Un numero irrisorio rispetto ai presenti con pene brevi e alle persone con patologie e disturbi psichici e/o in doppia diagnosi. Pochi se si pensa che nella nostra isola si trovano anche tre colonie penali. Ancora una volta, anche davanti a un grave rischio di diffusione di un virus pericoloso, il sistema detentivo nell’isola si conferma particolarmente rigido e, gravando pesantemente sugli operatori penitenziari, sembra voler sempre considerare la pena come una vendetta sociale”. Lo sostiene in una dichiarazione Maria Grazia Caligaris (Socialismo Diritti Riforme), con riferimento ai dati diffusi dal Ministero della Giustizia, relativi al mese di aprile. “I cittadini privati della libertà - viene fatto osservare - sono risultati al 30 aprile 2.125 erano 2.202 il 31 marzo. In un mese, dunque, si sono ridotti di 77 unità, di cui 33 stranieri (42,8%) e 2 donne. Sono anche diminuiti i posti regolamentari da 2.710 a 2.679 per effetto di lavori di adeguamento a Isili e a Bancali. Il maggior numero di persone che hanno varcato la soglia delle strutture penitenziarie era detenuto a Uta. Non si conoscono le ragioni che hanno permesso loro di uscire dall’Istituto. Presumibilmente si tratta di 20 ristretti, su 571, che hanno trovato ospitalità in comunità terapeutiche e/o ai domiciliari”, ha detto ancora. “Dopo Cagliari, è stata la Casa Circondariale di Sassari a vedere ridotta la presenza di detenuti dentro le celle. Diciassette di loro, su 433, hanno così lasciato l’Istituto. Nell’elenco, Pasquale Zagaria, l’unico nominativo di cui si abbia avuto notizia a cui è stata concessa una pena alternativa per motivi di salute. Seguono nell’ordine decrescente Nuoro (11), Arbus e Oristano (7), Onanì-Mamone (6), Isili (5), Alghero (4), Tempio (1). L’unico Istituto dove si è registrato un aumento di presenze è stato il San Daniele di Lanusei cresciuto di una unità. Mentre un altro detenuto ha lasciato la semilibertà”. “Un quadro insomma - conclude Caligaris - che non appare confortante anche perché in questi mesi hanno dovuto affrontare le pesanti difficoltà gli operatori, agenti e funzionari giuridico-pedagogici, i Sanitari e i Direttori degli Istituti. I detenuti d’altra parte hanno dovuto subire quasi un totale isolamento, con le limitazioni imposte per sicurezza ai colloqui con i familiari avendo garantite solo le telefonate e le videochiamate, senza la possibilità di ricevere pacchi e preoccupati per quanto avveniva dentro e fori dalle strutture penitenziarie. Senza dimenticare chi, in precarie condizioni di salute, a causa del covid19, ha dovuto rinunciare alle visite di controllo. L’auspicio è che al più presto sia possibile garantire piena agibilità a tutte le strutture anche con una presenza più forte e significativa del volontariato”. Campania. Ciambriello: “Sulle carceri troppe polemiche e parole senza senso” La Città di Salerno, 17 maggio 2020 Il Garante dei detenuti in Campania, Ciambriello: da marzo 920 le liberazioni. In Campania sono stati 920 i detenuti che hanno beneficiato degli arresti o della detenzione domiciliare, sia per effetto del decreto “Cura Italia” sia per la normativa ordinaria regolamentata dalla legge 199/2010. A dirlo è il garante campano per i detenuti, Samuele Ciambriello che annuncia anche la consegna di elettrodomestici agli istituti penitenziari di Bellizzi Irpino e Fuorni. “Sulle carceri troppe polemiche e parole senza senso - dice Ciambriello. In queste settimane di emergenza Covid-19, l’Ufficio del Garante campano dei detenuti ha intensificato i colloqui telefonici con gli stessi, i protocolli di intesa con le Asl e le iniziative sanitarie per ogni Istituto, sia per la quarantena fiduciaria per chi arriva da fuori, sia per gli spazi di isolamento sanitario per casi sospetti o eventualmente positivi”. E poi si passa alle statistiche. “Ad oggi - aggiunge il Garante - in Campania sono presenti 6.401 detenuti, di cui 298 donne. Da marzo ad oggi, sono state 920 le persone ad aver ottenuto gli arresti domiciliari o la detenzione domiciliare”. L’ufficio del garante si è adoperato per fornire attrezzature di utilità ai detenuti. “Dopo aver consegnato in tanti istituti 25 lavatrici, in data odierna sono pervenuti, sia nel carcere di Bellizzi Irpino che Fuorni otto pozzetti, 30 phon e quattro fornetti”, spiega Ciambriello. L’intervento sullo stato delle carceri e sulle condizioni dei detenuti non può non finire sulla polemica che ha infiammato i dibattiti sulla giustizia nei salotti televisivi, sull’uscita dalle carceri di detenuti accusati di camorra e sottoposti al regime del cosiddetto “carcere duro”. “Le decisioni dei magistrati di sorveglianza e magistrati di merito devono essere accettate. Non credo che i circa 200 Magistrati coinvolti in tutt’Italia, sia negli arresti domiciliari che in detenzione domiciliare per detenuti malati, siano tutti eversori delle leggi italiane. Credo che anche loro siano servitori dello Stato al pari di tanti altri magistrati vocianti da diversi pulpiti”. In origine, la discussione era incentrata sulla disponibilità dei “braccialetti elettronici”: sistema di controllo a distanza dei detenuti in regime di detenzione domiciliare. Con il decreto “Cura Italia” sono diventati obbligatori per quanti beneficiano dell’uscita dal carcere condizionata alle condizioni di salute e al rischio concreto di contagio dal Covid-19. La dotazione di apparecchi annunciata da fonti ministeriali non si è rivelata fondata. I ritardi hanno provocato difficoltà nell’esecuzione delle misure adottate dai giudizi dei tribunali di Sorveglianza. E c’è stato chi, tra i detenuti in attesa, si è lasciato andare a gesti estremi, non compiuti, per i rimbalzi di responsabilità sul rilascio dell’agognato apparecchio. Napoli. Colloqui attraverso i vetri divisori con i parenti: protesta a Secondigliano di Luigi Nicolosi stylo24.it, 17 maggio 2020 Detenuti in agitazione dopo la recente decisione del ministro della Giustizia: ma gli incontri con i vetri divisori non convincono la popolazione carceraria. Fase 2 subito ad alta tensione per la popolazione carceraria. A non convincere sono soprattutto le modalità con cui, a parte da lunedì 18 maggio, saranno progressivamente ripristinati i colloqui visivi tra i detenuti e i familiari. Nel pieno dalla pandemia si è fatto ampio ricorso, sotto la supervisione degli agenti penitenziari, all’uso di cellulari e videochiamate skype per mantenere i contatti, ma da qui a breve la situazione dovrebbe rientrare nella piena normalità. Nelle more, però, saranno adottati dei dispositivi di sicurezza e distanziamento sociale che stanno già suscitando più di qualche malumore. Le conseguenze non si sono fatte attendere e stamattina nella casa di reclusione di Secondigliano i detenuti di alcuni reparti hanno organizzato la classica battitura. La protesta è andata avanti per circa 15 minuti e si è svolta pacificamente e senza alcun tipo di disordine. I motivi della manifestazione spontanea non sono al momento ancora del tutto noti, ma stando ad alcune accreditate indiscrezioni raccolte da “Stylo24” i detenuti di Secondigliano avrebbero maldigerito le recenti disposizioni del Guardasigilli in materia di colloqui visivi. Nei prossimi giorni, infatti, saranno predisposti dei vetri divisori affinché gli incontri tra i detenuti e i parenti avvengano nel rispetto del distanziamento sociale, evitando così contatti fisici e soprattutto eventuali contagi da Coronavirus. Una restrizione temporanea, ma che subito innescato dei malumori. La battitura è così partita nella tarda mattinata di oggi ed è andata avanti per circa quindici minuti. La protesta si è comunque conclusa senza ulteriori tensioni o scontri all’interno del carcere. Ravenna. Detenuto positivo al Covid, tamponi di massa in carcere Il Resto del Carlino, 17 maggio 2020 Le prime avvisaglie all’esterno, si sono manifestate quando venerdì agli avvocati giunti per incontrare i loro clienti, è stato spiegato che non era possibile entrare in carcere. A impedirlo, ragioni sanitarie legate al fatto che un detenuto di origine straniera, fosse appena stato trovato positivo al Covid-19, con i rischi che ne conseguono. La scoperta è stata fatta nell’imminenza di un trasferimento in altra struttura: i protocolli emergenziali messi a punto per contrastare la diffusione del coronavirus nelle carceri italiane, prevedono infatti che solo di fronte alla negatività si possa trasferire il detenuto. E così ora il diretto interessato, dopo il tampone di giovedì i cui risultati sono arrivati il giorno dopo, si trova sempre a Port’Aurea ma in isolamento, in attesa di ulteriori riscontri diagnostici. La situazione ha comportato l’immediato esame per tutti all’interno della casa circondariale, a partire da detenuti (al momento sono 73) e agenti di polizia penitenziaria (70, direttrice compresa: tutti negativi già ai test di fine aprile). Per proseguire con tutti gli operatori che a vario titolo si trovino a lavorare là dentro (vedi medici, infermieri, oss, psichiatri e psicologi). Uno screening con tamponi (quasi 200) eseguito da due squadre dell’Ausl i cui primi risultati escluderebbero l’esistenza di un focolaio nelle celle ravennati. Contestualmente è stata fatta la sanificazione della cella dove si trovava il detenuto positivo. L’uomo è asintomatico; inoltre dall’esame della sua cartella clinica, non è emerso nemmeno nessun sintomo influenzale nel recente passato. In ogni modo, la direzione ha segnalato subito tutti i contatti avuti dal detenuto sin dal primo momento, compresi i compagni di cella e l’avvocato. Resta ancora da chiarire come sia possibile la sua positività visto che l’uomo si trova a Port’Aurea da qualche mese ormai. Tra le ipotesi, c’è quella legata a un possibile paio di accessi in ospedale. In ogni modo, l’eventuale contagio non può essere venuto da altri detenuti dato che coloro che entrano per la prima volta in cella - vedi alcuni dei recenti arresti scattati nell’ambito dell’indagine antidroga Robbed Cheese - vengono sistemati separatamente per il tempo di quarantena individuato per il Covid-19 (cioè 14 giorni). Improbabile anche la pista avvocati visto che a chi entra in carcere, non solo viene misurata la temperatura, ma vengono richiesti presidi sanitari come le mascherine. Durante i colloqui con i loro assistiti, i legali sono inoltre protetti da uno schermo in plexiglass (lo stesso vale per psicologo e psichiatra). E per quanto riguarda i detenuti, la mascherina viene richiesta oltre che durante i colloqui con i difensori, anche negli uffici matricola e nel corso di eventuali controlli degli agenti. Questi ultimi, si muovono pure con i guanti e sanificano sempre dopo i colloqui. Ovvero compiono il massimo sforzo possibile in situazione di emergenza. Sforzo che è destinato ad aumentare in ragione del fatto che i colloqui tra detenuti e familiari, passeranno presto dalla videoconferenza alla presenza, per un massimo di una volta a maggio e di due a giugno. Velletri (Rm). 600 Tamponi Covid-19 ai detenuti per il ritorno delle visite castellinotizie.it, 17 maggio 2020 Nel sovraffollato carcere di Velletri a partire da martedì 19 maggio saranno ripristinati dopo oltre 2 mesi i colloqui coi detenuti, costretti a farne a meno dopo l’avvio delle misure di contenimento contro il Coronavirus. A causa del distanziamento sanitario il numero dei colloqui prenotabili mensilmente dipenderà dal numero di richieste e dalla disponibilità dei posti nelle sale. “Il totale dei colloqui tra Skype ed “in presenza” - fanno sapere dalla Direzione della Casa Circondariale veliterna - non potrà superare il tetto massimo previsto. È obbligatorio entrare con la mascherina e sottoporsi al triage con l’acquisizione della dichiarazione e la rilevazione corporea che non deve superare i 37.5°. Proprio per far fronte all’imminenza della riapertura dei colloqui, sono stati disposti i tamponi per tutti i detenuti. Sin da oggi, sabato 16 maggio, e nelle giornate di domenica e lunedì 18 maggio, si procederà, pertanto al ritiro giornaliero di 200 tamponi, per un totale di 600. Resta da capire, però, cosa dovesse accadere qualora qualcuno risultasse positivo, tanto più che i referti ritirati nella giornata di lunedì difficilmente potranno essere disponibili già all’indomani. Tornando alle visite nel Carcere dislocato in via Campoleone 97, la prenotazione è obbligatoria, dalle ore 10 alle 12.30, al numero 334.1523951. Il Carcere di massima sicurezza di Velletri è stato aperto nel 1991 e si compone di 2 padiglioni di 4 piani, di cui uno costruito successivamente ed aperto nel 2012, più un reparto semilibertà. Nel vecchio padiglione le stanze ospitano un massimo di 2 detenuti, mentre il padiglione nuovo ha stanze che ospitano al massimo 4 detenuti. Da anni, tuttavia, si palesa il cronico problema del sovraffollamento di detenuti, cui fa da contraltare la carenza di personale nell’organico della Polizia Penitenziaria; una “miscela” che talvolta si è rivelata esplosiva, causando non pochi problemi, facendo venire meno la sicurezza per gli agenti ma anche la vivibilità per i detenuti. Roma. Rebibbia: la scuola cambia anche qui tra dispense, videoconferenze e lezioni online di Giovanni Iacomini* Il Fatto Quotidiano, 17 maggio 2020 Al via la scuola on-line nella Terza Casa Circondariale di Rebibbia. Si tratta di un settore particolarmente dinamico del complesso penitenziario romano. Vi sono recluse persone con trascorsi di tossicodipendenze, con limiti di età e di residuo pena. È stato uno dei primi istituti a sperimentare la “custodia attenuata”, con i detenuti che mangiano tutti insieme in un’apposita sala e possono godere di un’ampia offerta di attività culturali: cineforum, corsi di teatro, poesia, serigrafia, mosaico, rivista, varie discipline sportive. Ma il percorso di reinserimento sociale, che qui funziona molto più che altrove con un tasso di recidiva relativamente basso, passa soprattutto per i due capisaldi della funzione rieducativa della pena: lavoro, con importanti opportunità occupazionali dentro e fuori dal carcere, e istruzione, con i corsi del nostro istituto scolastico J. von Neumann e l’attività di volontariato dei tutor a sostegno degli studenti iscritti all’università Sapienza di Roma. Com’è noto, l’emergenza del coronavirus che ha colpito tutti noi ha avuto risvolti drammatici all’interno dei penitenziari. Una volta di più, il carcere si è rivelato l’estremità più esposta della nostra società, dove le ripercussioni di vicende e congiunture si avvertono con la massima intensità. La preoccupazione dei contagi in ambienti che, per usare un eufemismo, definiamo promiscui ha portato alla rapida, progressiva chiusura di tutte le relazioni con l’esterno, dal volontariato fino alle attività scolastiche. Com’era facilmente prevedibile, la chiusura dei colloqui con i familiari - cui i detenuti tengono enormemente, oltre ogni misura che da fuori si possa immaginare - non poteva che essere la goccia che ha fatto traboccare il vaso della sopportazione, purtroppo sfociata nei notori episodi di ribellione e violenza con tragici epiloghi, anche fomentati da soggetti esterni. Comunque, anche nell’attuale complicatissima contingenza, il regime particolare e le attenzioni cui sono sottoposti i detenuti della Terza Casa ha contribuito a evitare che la situazione, di per sé ovunque esplosiva, trascendesse. Si è partiti da subito a mettere in atto misure decongestionanti e attrezzarsi per assicurare un minimo possibile di comunicazioni: utilizzando diverse piattaforme digitali, i detenuti hanno potuto rivedere e parlare con genitori, mogli, figli, in questa fase così difficile. Nel contempo, sia il mondo dell’istruzione che l’amministrazione della giustizia cercavano di attrezzarsi per la ripresa dell’attività didattica, che tanto ha dimostrato di poter contribuire al trattamento e rieducazione dei condannati. Assicurare il diritto allo studio a tutti, a prescindere dall’età e dalle condizioni, si riconferma come modo estremamente efficace per offrire concrete opportunità di revisione critica del proprio vissuto e fornire prospettive alternative ai percorsi devianti. Da qualche anno, a partire da un’attività di volontariato di alcuni di noi docenti, la nostra scuola ha avviato un vero e proprio corso di Istituto tecnico economico all’interno della Terza Casa. Quest’anno avevamo un secondo periodo didattico e una classe terminale, con ragazzi che devono sostenere gli esami di Stato per ottenere il diploma nel prossimo giugno. Dopo la chiusura per il Covid-19, in perfetta intesa con la Direzione e l’Area educativa, ci siamo adoperati per far recapitare dispense su cui gli studenti potessero proseguire la propria preparazione. Nel frattempo, mettendo in sinergia le poche risorse tecniche e informatiche a disposizione, abbiamo cercato di superare tutte le immaginabili difficoltà anche giuridiche per predisporre la connessione ed effettuare vere e proprie lezioni da remoto, per meglio soddisfare il bisogno espresso dai detenuti studenti di potersi confrontare con i docenti, per ottenere spiegazioni e delucidazioni. Finalmente, la buona notizia è che si può cominciare: la scuola si adegua, si trasforma ma la trasmissione, la condivisione e l’apprendimento di conoscenze e competenze conserva intatto tutto il suo valore. *Professore di Diritto ed Economia nel carcere di Rebibbia Bergamo. “Don Fausto più di un semplice cappellano”. Bonafede: il carcere intitolato a lui L’Eco di Bergamo, 17 maggio 2020 Il ministro della Giustizia Bonafede in un documento del Ministero si è detto favorevole all’intitolazione del carcere di Bergamo a don Fausto Resmini, morto a causa del covid tra il 22 e il 23 marzo scorsi. Accolta la richiesta dei parlamentari bergamaschi Carnevali e Martina. Bonafede accoglie la proposta di intitolare il carcere bergamasco a don Fausto Resmini, storico cappellano della casa circondariale e sacerdote che ha dedicato la sua vita agli ultimi. Don Fausto è deceduto dopo aver contratto il covid il 23 marzo scorso e la sua scomparsa aveva destato grandissima commozione in tutta la nostra comunità. I deputati bergamaschi Maurizio Martina e Elena Carnevali avevano sottoposto al ministro un’istanza, appoggiata anche dalla direttrice del carcere di via Gleno Teresa Mazzotta, proprio perché gli venisse intitolata la casa circondariale. Una proposta accolta di buon grado dal ministro che proprio sabato 16 maggio ha risposto con una lettera che annuncia anche una prossima visita in città. Ecco le parole del ministro. “Don Fausto Resmini era più che un semplice cappellano, era un punto di riferimento per l’intera comunità di Bergamo e per chi ha avuto la fortuna di incontrarlo sulla propria strada. Una guida morale, un padre spirituale, un uomo sempre pronto all’ascolto e al dialogo. Per oltre un trentennio cappellano dell’istituto della città, Don Fausto ci ha lasciati nella notte tra il 22 e il 23 marzo all’età di 67 anni, dopo essere risultato positivo al Covid-19. Padre Resmini era diventato un elemento portante della vita all’interno della struttura di Bergamo, tanto che alla sua morte i detenuti e gli agenti di polizia penitenziaria lo hanno voluto ricordare e ringraziare con parole che arrivano dritte al cuore. In particolare, in una lettera gli uomini e le donne in servizio a Bergamo hanno scritto: “Caro Don Fausto, per gli anni che hai dedicato a questo istituto penitenziario, per noi sei sempre stato un punto di riferimento: nel quotidiano, nell’emergenza, nei momenti di lutto e di buio, nei momenti di festa e di gioia. Con queste poche righe vogliamo salutarti stringendoti nei nostri cuori, con la consapevolezza che da lassù saprai guidare i nostri passi e continuerai a pregare per noi e le nostre famiglie. Non appena la situazione sanitaria lo permetterà voglio visitare personalmente Bergamo e l’istituto che sarà intitolato a don Fausto, per esprimere vicinanza agli agenti e a tutti gli operatori. Mi piace pensare che questo, seppur semplice, atto sia un modo per far continuare a vivere l’esempio di don Fausto”. Frosinone. Solidarietà dal carcere: agenti e detenuti donano beni per famiglie in difficoltà ciociariaoggi.it, 17 maggio 2020 Il materiale raccolto è stato consegnato alla Caritas di Frosinone che provvederà alla distribuzione a chi ha più bisogno attraverso la sua rete di assistenza. La solidarietà oltrepassa anche i muri del carcere. Questo il forte messaggio che arriva dalla casa circondariale di Frosinone. Gli agenti di polizia penitenziaria dell’istituto hanno organizzato una colletta alimentare per l’acquisto di beni di prima necessità per le famiglie indigenti del territorio. Anche i detenuti non hanno voluto far mancare il loro sostegno, contribuendo all’iniziativa benefica. Nei giorni scorsi è avvenuta la consegna dei beni raccolti, consegnati ai volontari della Caritas della Diocesi di Frosinone-Veroli-Ferentino che provvederanno alla distribuzione. L’ente pastorale della Diocesi di Frosinone-Veroli-Ferentino, attivo in questi mesi nel sostegno delle famiglie in condizioni di necessità, è stato infatti individuato per distribuire i beni donati attraverso la sua rete di centri di ascolto parrocchiali, diffusi su tutto il territorio diocesano. La consegna è avvenuta alla presenza della Direttrice della Casa Circondariale, Teresa Mascolo, del comandante di Reparto della Polizia Penitenziaria Elio Rocco Mare, del cappellano don Guido Mangiapelo e del Direttore della Caritas Marco Toti. Le parole di Teresa Mascolo - “La Casa Circondariale di Frosinone ha dato voce - attraverso un gesto di solidarietà da parte degli operatori e da parte dei detenuti - ad un messaggio di vicinanza alle persone che, ancor più in questo periodo di emergenza, soffrono un disagio sociale. Il carcere viene alla ribalta spesso per episodi negativi: questa stessa Casa Circondariale è balzata alle cronache per la rivolta dell’8 marzo u.s.; ma dal carcere possono venire fuori anche iniziative positive: la raccolta e la donazione di beni di prima necessità è testimonianza di generosità e solidarietà alla comunità esterna. Ed io ne sono particolarmente contenta e fiera. Grazie a tutti coloro che hanno contribuito e grazie alla Caritas che ci ha permesso di esprimere valori importanti di aiuto, altruismo e fratellanza”. Le parole di Marco Toti - “Come Caritas diocesana di Frosinone-Veroli-Ferentino ringraziamo la Direttrice della Casa Circondariale, gli agenti e la popolazione ospitata per averci affidato l’importante compito di distribuire la loro donazione. In questi mesi di emergenza non abbiamo fatto mancare il nostro sostegno a chi era in difficoltà, e grazie alla rete diocesana siamo riusciti a distribuire a centinaia di famiglie beni di prima necessità. La donazione è particolarmente significativa perché arriva anche dai detenuti. È un ulteriore tassello di quello che il nostro Vescovo mons. Spreafico chiama “contagio positivo del bene” che ci fa sentire tutti uniti”. Napoli. Viaggio con i volontari tra gli invisibili e i nuovi poveri del Coronavirus di Ciro Cuozzo e Rossella Grasso Il Riformista, 17 maggio 2020 Tra le vittime che si porta dietro la pandemia non ci sono solo morti e malati ma anche i “nuovi poveri”. Persone che l’impossibilità a lavorare per la quarantena e la chiusura delle attività hanno iniziato ad avere serissime difficoltà a mettere il piatto a tavola. Purtroppo di persone che già dormivano in strada ce ne erano già prima della pandemia ma con il lockdown queste sono aumentate. Ad aiutarle ci pensano i volontari della Comunità di S. Egidio, che ultimamente hanno anche intensificato le attività. E raccontano da un lato una parte di Napoli abbandonata a sé stessa, dall’altra quella che risponde all’emergenza con la solidarietà. “Se da una parte sono aumentate le difficoltà in quest’ultimo periodo - dice Massimiliano Nappi, della Comunità di S. Egidio e Fondazione Grimaldi - dall’altra è aumentata anche la voglia di dare una mano e offrire il proprio aiuto a chi più ne ha bisogno. Abbiamo sempre fatto gruppi per la consegna dei pasti ai senza tetto il mercoledì ma se prima eravamo in 10 adesso ne siamo in 20 ed è molto bello”. Eccezionalmente in questo periodo di necessità la distribuzione avviene 2 volte alla settimana, il mercoledì sera e la domenica a pranzo. “Ci eravamo accorti che la domenica c’era un vuoto e abbiamo deciso di intervenire in aggiunta a quello che facciamo di solito”, spiega Francesca, 29 anni, psicologa, da 10 anni con la Comunità di S. Egidio, che di solito si occupa del gruppo degli adolescenti del centro storico con cui fanno volontariato con le persone anziane. Il gruppo è organizzatissimo: prima si passa casa per casa a raccogliere il cibo preparato da persone che si offrono volontarie, poi si divide il tutto in buste. “Di solito la consegna del pasto è un pretesto per stare vicino a chi vive in strada e offrirgli anche un supporto umano, una chiacchiera, un conforto - continua Francesca - adesso non possiamo trattenerci troppo in strada con loro ma loro sono sollevati nel vederci”. A partecipare alla distribuzione ci sono studenti universitari, tra cui anche Vincent, uno studente Erasmus venuto a Napoli dalla Germania, comunicatori, e manager che, costretti a casa dalla quarantena hanno deciso di rendersi utili. Dopo aver velocemente diviso il cibo i volontari si dividono in vari gruppi per coprire il territorio cittadino: una parte Morelli, Feltrinelli, Mergellina e piazza Sannazaro, un altro gruppo via Medina, Molosiglio e il Porto, infine un altro gruppo ancora porterà il cibo nella zona di Piazzale Tecchio e del Mercato ittico. È questo uno dei luoghi più emblematici della città, a ridosso del parco della Marinella, simbolo di degrado e inerzia delle istituzioni che fanno e non-fanno, curano e abbandonano a fasi alterne. Qui circa 40 persone vivono ammassate all’esterno dell’ex mercato Ittico. Sono per lo più migranti, uomini e donne, che hanno toccato il fondo e non riescono più a risalire. Tra loro ci sono anche donne polacche che sono state per una vita al servizio di anziani, giorno e notte, e poi sono rimaste senza lavoro, senza nulla, costrette a dormire in strada. “Molti sono quelli che incontriamo ai semafori a chiedere l’elemosina o a pulire i vetri - racconta Alessandro Brancaccio della Comunità di S. Egidio - Quello che qui ci chiedono molto è sicuramente il cibo poi vestiti e a volte anche di fare una telefonata i loro parenti. Qualcuno ci chiede di trovargli un lavoro, qualcun altro di trovare una soluzione”. La situazione è ancora peggiore se si pensa che questo “non-luogo” abbandonato, alle soglie della città è lontano dagli occhi e dal cuore di tutti. La distribuzione continua a Piazzale Tecchio. Tra una chiacchiera e l’altra i volontari danno supporto ai senza tetto che vivono tra il piazzale e i binari della metropolitana. Tra loro si trovano persone di tutti i tipi e storie di ogni genere. C’è che è laureato, che è scappato dal proprio paese, chi semplicemente si è divorziato e non ce l’ha fatta con i soldi a mantenere due vite in piedi dignitosamente. E la pandemia è stata la mazzata finale. Le attività per i senza tetto della Comunità di S. Egidio continuano nel centro storico di Napoli con il supporto della Fondazione Grimaldi. Durante l’emergenza sono state chiuse le docce a San Giovanni a Teduccio per evitare gli assembramenti. Così i giovani volontari hanno subito attrezzato un altro punto docce a Montesanto, presso l’ex istituto Bianchi. “Qui diamo ai senza fissa dimora la possibilità di lavarsi e trovare un cambio di vestiti puliti - racconta Alessandro Corazzelli, 23 anni, studente di architettura, da 10 anni al servizio della Comunità - Sono tante le persone che hanno bisogno di aiuto e che stiamo intercettando, aumentano sempre di più. Pensiamo che solo insieme possiamo cambiare le cose”. La Comunità ha saputo riorganizzarsi per sopperire alle nuove difficoltà, come ha fatto ad esempio Francesco Sarubbi, 22 anni, studente di ingegneria alla Federico II. Fino a poco tempo fa dava supporto ai bambini dei Quartieri Spagnoli con attività di doposcuola e ludiche. Oggi alle famiglie di quegli stessi bambini consegna pacchi alimentari e offre supporto di ogni tipo. “All’inizio erano le 30 famiglie dei bambini che già conosciamo - racconta Francesco - Poi sono quasi raddoppiate perché si sa nei Quartieri c’è tanta solidarietà: ognuno ha una vicina o una cugina che ha bisogno. Dopo il primo mese siamo arrivati a consegnare pacchi alimentari a 100 nuclei familiari. Penso che sia importante aiutare perché ci aiuta davvero a capire chi siamo e cosa vogliamo dalla vita. Se non si aiutano gli altri non si riuscirà mai a essere felici. Da quando ho giocato per la prima volta con i bambini dei bassi mi sono sentito così felice e realizzato e ho capito che non li avrei più lasciati”. Napoli. 1000 colombe ai detenuti del carcere di Poggioreale e 500 alle famiglie indigenti Il Mattino, 17 maggio 2020 La Comunità di Sant’Egidio di Napoli ha voluto destinare 1.000 colombe ricevute dal pasticciere Sal Di Riso ai detenuti della Casa Circondariale “Giuseppe Salvia - Poggioreale”. Un gesto di vicinanza e di attenzione ai detenuti che stanno vivendo giorni difficili, lontani dalle famiglie, per l’interruzione dei colloqui resi necessari per preservarli dal rischio del contagio da Covid-19. Oggi a Poggioreale sono reclusi circa 1790 carcerati e fino ad oggi non si è registrato nessun caso di coronavirus. Il pasticciere della costiera amalfitana, già a Natale, in occasione dei pranzi organizzati dalla Comunità di Sant’Egidio, aveva voluto regalare le sue prelibatezze agli ospiti di diversi istituti di pena della Campania. Le altre 500 colombe sono state distribuite ai senza fissa dimora durante le cene itineranti che in questi mesi di isolamento sociale sono continuate per non lasciare da solo chi vive per strada, e alle tante famiglie in difficoltà che hanno chiesto aiuto, e a cui la Comunità di Sant’Egidio continua a fornire un sostegno alimentare. La solidarietà è la risposta che incoraggia e restituisce umanità e speranza a chi non riesce a intravedere un futuro davanti a sé. Silvia, quelle mail crudeli e il nostro lato oscuro di Myrta Merlino Corriere della Sera, 17 maggio 2020 In mezzo a tanto odio social abbiamo perso un’occasione per dimostrare che siamo cambiati in meglio dopo il Covid. In principio erano storie di quarantena, belle e brutte, commoventi e drammatiche. Da un lato la vita quotidiana al tempo del virus, dall’altro la richiesta incessante e imponente di chiarimenti sanitari. Erano mail disorientate, sbalordite, spaventate che affollavano e affollano la casella di posta “Dilloamyrta”. Poi sono arrivate le richieste, incessanti e imponenti, di chiarimenti legali: dalla corsetta sotto casa fino alla grande confusione sugli “affetti stabili”. Di nuovo mail disorientate, incredule ma soprattutto arrabbiate. Da qualche settimana sono invece sommersa da richieste d’aiuto, grida d’allarme: sono tutti quelli che non hanno visto un soldo e che sono sul lastrico. Poco importa se si tratta di cassa integrazione sparita nei meandri burocratici, dei 600 euro che si trasformano in pochi spiccioli, o di buoni spesa “erogati” ma non “distribuiti” (Dio solo sa cosa voglia dire...). Mail molto ma molto incazzate, scusate ma non trovo termine migliore. Eppoi, da qualche giorno, la grande sorpresa: cominciano ad arrivare mail diverse da tutte le altre, con un oggetto nuovo: “Silvia Romano”. “Ma perché abbiamo pagato un riscatto di 4 milioni di euro per liberarla e io intanto aspetto la cassa integrazione dal 20 febbraio?”. E ancora “è tornata bella sorridente, forse incinta, tutt’altro che sofferente. Perché sprecare tutti quei soldi...”. E poi sul governo. “Mi sono indignato vedendo in tv i nostri governanti accoglierla con tutti gli onori, come un’eroina. Vestita così non è più un’italiana vera”. Centinaia di mail, nel grande imbuto della nostra casella di posta, con tutta la gamma dei sentimenti: il disorientamento per quel vestito che ci ha spiazzati, in qualche caso la solidarietà per una ragazza vittima di un rapimento, la critica verso il governo e - con mio sommo dispiacere - la cattiveria, la feroce cattiveria nei confronti di Silvia. Tanti i sospetti e tante le allusioni, un ingorgo di umori rabbiosi che si snoda tra dubbi legittimi - “Ma secondo lei è giusto che una ragazza così giovane e inesperta vada in una zona così pericolosa?” - e accuse inaccettabili: “Cara Myrta non continuare a dire che il vestito verde è delle donne islamiche, è il vestito di Al Shaabab e Silvia è una fiancheggiatrice dei terroristi!”. E ancora: “venduta”, “schifosa musulmana”, “si è pure sposata un terrorista”, “ci metto la mano sul fuoco che avrà avuto rapporti sessuali là”. E, come troppo spesso capita alle donne, basta un attimo per trasformarsi da vittime in colpevoli. E ancora una volta riecheggia quel “Se l’è andata a cercare...”. Accuse schifose. Su tutta questa vicenda, lo dico con chiarezza, ci sono molti punti interrogativi e molte zone d’ombra. Ma ci sono anche un paio di certezze: dopo 536 giorni in mano ai rapitori in troppi non hanno atteso neanche 5 giorni per sputare sentenze su Silvia. Non buttiamola nel tritacarne dei pregiudizi e delle lotte politiche. Io ho ancora negli occhi l’abbraccio di Silvia con sua madre. In quella scena non ho visto una musulmana e una cattolica (tra l’altro non so se sua madre è cattolica e non me ne importa niente), non ho visto una camicia blu e una tunica verde, non ho visto la violazione delle regole di distanziamento senza mascherina, non ho visto lo scontro tra civiltà e barbarie che qualcuno oscenamente vuole rappresentare. In quell’abbraccio ho visto solo Amore. Una Madre e una Figlia. Ho visto il ritorno a casa, il sollievo, il miracolo di avercela fatta, la consolazione di una salvezza non scontata. E in mezzo a tanto odio social passo lunghi minuti a incantarmi sui fotomontaggi che su Facebook accostano il sorriso di Silvia nel giorno della laurea a quello del giorno della liberazione. Gli occhi di ragazza, senza abito e senza trucco, sono gli stessi. La luce di allora rimane. Datemi tempo, ha detto Silvia. Fate silenzio, hanno ripetuto parenti e amici. Due richieste sulle quali dovremmo metterci sull’attenti. Sospendendo il giudizio e accendendo l’ascolto. Fermandoci per adesso a far brillare gli occhi di ragazza che hanno resistito a tutto questo. Silvia è Aisha, è viva (è questo il significato della parola in arabo). Per oltre 500 giorni abbiamo chiesto solo questo. E ancora oggi è davvero solo questo che conta. E conta cosa questa vicenda ci dice di noi. Di questo Paese che a volte ci appare trasparente e luminoso e altre ci mostra il suo fondo limaccioso. Abbiamo perso un’occasione per dimostrare che eravamo cambiati in meglio, dopo il Covid. Se va bene, si fa per dire, siamo gli stessi, gli stessi di sempre... Nell’era del Covid la vita dei tossicomani è un inferno al quadrato di Rita Rapisardi L’Espresso, 17 maggio 2020 L’emergenza sanitaria e i controlli sugli spostamenti hanno cambiato il mercato. Rendendolo più pericoloso. Tra punti di assistenza chiusi, “roba” tagliata male, crisi di astinenza e overdose. “Non sono un corpo maledetto, non certo martire senza difetto, ma scrivo per l’amore e per l’odio che porto dentro”. Le pareti della “camera” sono ricoperte di poesie in rima, ricordano dei testi rap, leggendoli si immagina un ritmo che le accompagni. Nei 20 metri quadri di quella che è l’unica stanza del consumo in Italia si respira un’aria strana, altalena tra un senso di prigione e libertà. Siamo al drop in PuntoFermo di Collegno, a ovest di Torino. Qui dal 2007 i tossicomani trovano un rifugio per bucarsi in sicurezza, in uno spazio pulito, autogestito insieme agli operatori, pronti a intervenire in caso di overdose. Sia la polizia sia la cittadinanza hanno imparato a convivere con questa realtà. La struttura era la camera mortuaria dell’ex manicomio di Collegno, smantellato negli anni 90. Anche con l’emergenza, è rimasta aperta 24 ore al giorno. “Una volta nella stanza ho salvato un ragazzo dall’overdose: per lavoro ho seguito un corso di pronto soccorso. Da dieci anni ho a che fare con l’eroina e da dieci anni vengo qui”, racconta Toni 45 anni. L’ultimo lavoro che ha avuto risale a due anni fa, guardia giurata. Con forte accento pugliese, ma nato in Piemonte, si sente “meridionale al 100 per cento”. Ha iniziato a 19 anni con Lsd, “è stata la mia rovina”, ha smesso da solo dopo tre anni ed è passato al bere, “una bottiglia di scotch mi durava un giorno e mezzo, ora sono pulito dal 2003”, poi l’ecstasy, ora l’eroina “riesco a controllarla, mi faccio al massimo quattro volte a settimana”. “Le risorse sono quelle che sono. Alla finestra distribuiamo materiale sterile”, racconta Volfango Maria Coppola, di PuntoFermo. Da 15 persone al giorno però si è scesi a cinque. “A chi segue una terapia medica il SerD fornisce l’autocertificazione per venire qui, ma sappiamo che molti li abbiamo persi”. Il caso di Torino ha permesso a chi è dipendente da stupefacenti di non impazzire durante la quarantena, ma nel resto d’Italia il mercato della droga ha dovuto cercare canali più nascosti, lontano dalle strade e dalle piazze. Sono spuntate pagine su Instagram per la vendita, ma è stato il dark web la fonte principale; i pusher poi, muniti di guanti e mascherine, hanno iniziato a fare delivery a casa o si sono trovati nelle stazioni della metro. “La consegna a domicilio la fanno solo dai 50 euro in su, sennò non vedi niente, e la mia spesa è triplicata”, dice Sofia, 22 anni, della provincia di Roma, riferendosi alla cannabis: “Il mercato delle droghe pesanti ha risposto subito, meno quello del fumo: in giro sono rimasti pochi pusher, quelli meno affidabili”. In Italia otto milioni di persone consumano droga, per una spesa di 15 miliardi di euro l’anno, metà dei quali finiscono in cocaina. E 800 mila hanno provato l’eroina almeno una volta. Ci sono voci contrastanti su quello che sta girando adesso, alcune dicono che le sostanze costano di più, soprattutto marijuana e hashish. Un aumento dovuto al maggiore rischio di spacciare con i controlli diffusi. Si dice che la qualità sia peggiorata. È possibile poi che la gente si improvvisi e usi tagli strani: la variazione del mercato è sempre pericolosa per chi consuma, i periodi più a rischio sono infatti le feste o l’estate, quando ci sono meno spacciatori. Solo in Piemonte è possibile fare il drug checking, il controllo della sostanza. Nella “casetta” avviene anche prima dell’utilizzo attraverso le reazioni colorimetriche: a maneggiare la droga è chi l’assume, indirizzato dall’operatore. Grazie a una tabella dettagliata con colori e sostanze, si stabilisce cosa c’è dentro e le combinazioni possibili. Si trova di tutto: vitamina C, paracetamolo, caffeina, ma anche agenti pericolosi come il Levamisolo, uno sverminatore veterinario che “tira su la coca stanca”: in pratica l’effetto della sostanza diventa più immediato e dà la percezione che sia di buona qualità, invece il Levamisolo è molto tossico e a chi se lo inietta compaiono enormi bubboni. “Mi è capitato più volte di dover dire di non farsi tutta la dose in una volta o di dividerla in quattro per evitare il rischio overdose”, spiega Coppola. Con la Fase 2 infatti si fa avanti anche questo rischio: dopo un periodo di astinenza o di basso dosaggio dovuto alla quarantena, non si può tornare ai livelli di prima come se nulla fosse: il corpo rischia di cedere. A Roma in dieci giorni si sono verificate sette casi di overdose. “Dal 1992 a oggi ho salvato quasi 600 persone, per questo facciamo molta campagna a riguardo”, dice Giancarlo Rodoquino, 63 anni, che opera con l’unità mobile di Villa Maraini nella più grande piazza di spaccio a Roma: Tor Bella Monaca. “Qui si va avanti 24 ore su 24. Molti smontano dal lavoro e si vengano a farsi in pausa pranzo. Non sono tossicomani da strada, una casa ce l’hanno. Vediamo anche 70 persone al giorno, ma non sono mai le stesse”. I primi giorni c’erano controlli a tappeto, sempre verso le tre del pomeriggio, ma i consumatori venivano prima. “Ci vuole una politica umanitaria sulle droghe”, incalza Massimo Barra, direttore Villa Maraini. Le associazioni lamentano la mancanza di mascherine da distribuire e l’assenza di tamponi ai senza fissa dimora. Il camper distribuisce ogni giorno 300 siringhe solo a Tor Bella Monaca. La situazione non è facile da prima del coronavirus, c’è tutta una vita sommersa che comprende la droga, ma anche la mancanza di lavoro: “A Napoli hanno buttato giù le Vele per risolvere il problema, per loro è stata quella la soluzione”, conclude Rodoquino. “Molti a Scampia prima della quarantena vivevano di espedienti, facevano i parcheggiatori, qualche lavoretto, ora c’è un peggioramento complessivo, che con la chiusura dei centri diurni può solo aggravarsi”, spiega Stefano Vecchio responsabile degli 11 SerD di Napoli, con a carico 4.500 persone. Alla città manca un piano per i senza fissa dimora, a fronte di un aumento di richieste per i servizi essenziali prima garantiti: “Abbiamo registrato un aumento dell’uso di alcool e sedativi legali come le benzodiazepine, che possono avere un effetto molto pericoloso se mischiate con l’eroina: neanche l’iniezione di Narcan basta in caso di overdose”. Tra chi fa uso di droghe ci sono anche molti migranti, per strada a causa della soppressione delle strutture di accoglienza. Qui l’unità continua con il suo lavoro, conquistato non con poche difficoltà, in un quartiere dove la camorra è padrona e si sono dovuti fare accordi per farsi accettare. Con la chiusura dei drop in (104 in Italia, concentrati al Nord), sono scomparsi alcuni servizi per i tossicomani, ma anche per i senza fissa dimora o immigrati: come la possibilità di farsi una doccia, ricevere un pasto a pranzo o avere un posto dove trascorrere la giornata. “Se prima si poteva vivere con lo “scollettamento” - piccole elemosine per raggiungere una somma per comprare la dose - o con piccoli lavoretti, tutto questo è scomparso”, spiega Lorenzo Camoletto del drop in del gruppo Abele, il primo ad aprire a Torino nel 1997. “Noi raccogliamo i più problematici, perché chi non lo è non passa da qui. Sono i primi a non farcela, spesso vivono in strada e molti di loro, prima di essere tossicomani, hanno problemi con la legge o disturbi psichici”, spiega Luigi Arcieri, del drop in di Torino, che a oggi mantiene i passaggi costanti a 70. Anche il CanGo, l’unità mobile, è bloccato perché non dispone di lavandino. Sostava tutti i giorni in una delle piazze principali della città, quella di porta Palazzo, che ospita il mercato all’aperto più grande d’Europa. Distribuiva materiale sterile e un kit di sopravvivenza (siringhe, tamponi, disinfettanti, fiale d’acqua, lamine di alluminio per fumare) che comprende anche il Narcan (o naloxone), il medicinale da prendere in caso di overdose. Negli anni unità come questa hanno determinato il progressivo ridursi delle scene di consumo. Con l’emergenza i SerT sono stati dichiarati servizi essenziali e hanno continuato a lavorare garantendo la terapia a base di metadone e aumentando la copertura fino a una settimana, con il rischio però che il farmaco sia consumato tutto insieme o si venda al mercato grigio. Ma non in tutta Italia è così, molti centri sono chiusi e i servizi di riduzione del danno limitati, come denuncia ItaNPUD, un’associazione di consumatori di droghe. Al momento sono fermi i colloqui psicologici, le attività in gruppo delle comunità e molti SerD non accettano più nuove persone. Per questo chi non riesce a soddisfare la propria dipendenza ripiega su altre sostanze, soprattutto alcool e farmaci. “Ci sono tante persone scoperte, soprattutto al Sud che sono ricadute”, spiega Anna, ex alcolisti e narcotici anonimi, che ora organizza gruppi di sostegno online: “Prima ci sentivamo una volta a settimana, ora anche tre al giorno”. La ItaNPUD ha prodotto, tradotto e distribuito un vademecum per il consumo sicuro durante il coronavirus, con consigli su cosa fare in caso di astinenza e le norme igieniche da seguire, come disinfettare con l’alcol le “palline” trasportate in bocca dai pusher. “Ci sono consumatori che hanno uno stipendio e fanno una vita “normale”, una condizione protetta che gli permette di fare grandi scorte. Altri sono senza fissa dimora e rischiano una maggiore repressione da parte della polizia”, racconta Alessio Guidotti, presidente della ItaNPUD. La polizia ha ormai praticamente annullato i controlli sui senzatetto. Ma non sempre c’è stata comprensione. Al dormitorio di Rivoli, un paese vicino Torino, aperto dalle otto di sera fino alle otto del mattino, le forze dell’ordine ordinavano ai tossici di andare a casa: “Ma io non ce l’ho una casa”, racconta un ragazzo, “devo spostarmi, prendere la terapia, pensare a come fare per il pranzo. Pretendevano che non mi allontanassi più di 200 metri”. E si sono registrate anche alcune denunce per chi era in giro alla ricerca di droghe: “Anche problema di non trovare sostanze non è stato considerato, i servizi non hanno risposto in tempo, anzi hanno contratto i loro orari”, spiega Maria Teresa Ninni, operatrice al drop di Torino. La polizia infatti non si è data un codice a livello nazionale: “I primi giorni temevamo ci fosse una strage, è stato traumatico per loro, come per noi operatori, evitare il contatto fisico o non poter più fermarsi a fare due chiacchiere, poi hanno recepito le norme da rispettare”, aggiunge Arcieri. Almeno metà dei consumatori del drop in di Torino sono infatti sieropositivi e quindi immunodepressi. In zona Milano Rogoredo i prezzi restano invariati: 20 euro la dose di eroina, 30 quelle di cocaina. Fino a settembre qui il via vai giornaliero era alto, sopra le 150 persone. Ma dopo lo smantellamento della rete dello spaccio c’è stato un drastico calo. Il giro però non si ferma: “Dopo il famoso boschetto è esploso in pochi mesi il parco delle Groane: prima della quarantena siamo arrivati ad avere 90 contatti al giorno”, racconta Rita Gallizzi dell’associazione Lotta contro l’emarginazione. Ora i treni che li portavano lì sono stati sospesi e così cresce di nuovo Rogoredo, ma senza più un drop in di riferimento, chiuso anche per mancanza di fondi. “Notiamo un forte aumento dell’incuria, anche persone denutrite”. E tra loro ci sono molte donne, le più esposte: “Sono in numero sempre maggiore, molto più massacrate nel fisico rispetto agli uomini, ma sono quelle che si fidano di meno e alcune si prostituiscono”. Chi ha paura della marijuana legale di Roberto Saviano L’Espresso, 17 maggio 2020 Nessun guadagno per i trafficanti. Meno danni alla salute. Incassi fiscali per lo Stato. Sono tanti i vantaggi di liberalizzare le droghe leggere. Un video incredibile mostra un camion, di quelli comunissimi che d’estate affollano le autostrade, stracarico di angurie. Niente di strano, starete pensando, e invece no, in quelle angurie, decine di angurie dall’aspetto assolutamente normale, non c’era polpa rosa, succosa e costellata da semi neri. Aperte, quelle angurie nascondevano chili e chili di marijuana perfettamente inserita all’interno. Chi ha fatto il lavoro è riuscito a imbottire le angurie senza intaccare in alcun modo la buccia. È stato praticato un solo foro al lato e, dopo aver eliminato tutta la polpa, è stata inserita una sottile carta come involucro protettivo a foderare l’intera cavità che poi è stata farcita con l’erba. L’anguria è stata poi richiusa con il tappo di buccia del frutto. Quando ero bambino, dalle mie parti, d’estate si facevano grandi feste all’aperto e la vera attrazione erano le angurie, che venivano servite per ultime. Erano fredde, freddissime e servivano a dare un po’ di sollievo in quelle estati roventi senza aria condizionata. Ma non erano angurie comuni: erano angurie corrette con un liquore dolcissimo che non sono mai riuscito a bere. Per noi bambini c’erano le angurie senza liquore, ma i più svelti riuscivano a sottrarre qualche fetta di quelle “truccate” che mangiavamo, dividendo il bottino, a piccolissimi morsi, per farla durare più a lungo. Questo video mi ha portato indietro negli anni e allo stesso tempo mi ha dato da pensare a come, nonostante tutte le evidenze possibili, esattamente come quando io ero bambino, non è possibile oggi parlare di legalizzatone delle droghe leggere, nonostante ormai sia un dato appurato che non siano l’anticamera di nulla di più pericoloso per la salute. Non se ne può parlare e ogni volta che ci si prova c’è sempre qualcuno che ti salta al collo dandoti dell’Anticristo e dicendo la più inutile delle fesserie, ovvero che legalizzare le droghe è un regalo alle organizzazioni criminali (non sanno perché, ma giurano sia così) e che la legalizzazione farebbe aumentare i consumatori. Anche questa affermazione è falsa ed è priva di fondamento poiché chi oggi studia le mafie e i loro mercati sa bene che non esistono dati certi sul consumo. Dal momento che il mercato è illegale e quindi sommerso, ci si basa sulla quantità di sostanze sequestrate, che è solo una percentuale minima rispetto a quella in circolazione. Legalizzare marijuana e hashish, al contrario, significherebbe infliggere un colpo durissimo al narcotraffico, ma non solo. Renderebbe disponibili sul mercato legale sostanze meno dannose per i consumatori che oggi, invece, assumono sostanze tagliate e trattate con ogni genere di schifezza, dalla paraffina all’ammoniaca. Ma se è vero che non conosciamo con esattezza il numero dei consumatori, sappiamo però che si tratta di un mercato miliardario. Per capirne l’entità vanno incrociati dati e va tenuto presente che ogni stima è fatta per difetto. L’Istat ha quantificato intorno ai 14 miliardi la spesa dei consumatori per tutte le tipologie di droga. Un terzo (il 28%), ovvero quasi 4 miliardi, rappresenta il mercato di hashish e marijuana. Una curiosità: secondo uno studio diffuso da Aqua Drugs, analizzando i residui dei principi attivi presenti nelle acque, si stima che il consumo annuo di cannabis e derivati si aggiri intorno agli 800mila kg. Divertitevi a calcolare il giro d’affari. Ma c’è di più, secondo uno studio dell’Università di Messina, applicando alla cannabis la stessa aliquota delle sigarette, lo Stato potrebbe incassare fino a 6 miliardi di euro l’anno. Ovviamente persisterebbe una fetta di mercato nero che pratica prezzi inferiori, ma sarebbe notevolmente ridotta rispetto a oggi perché parte dei consumatori preferiranno assumere sostanze controllate anche se meno economiche. Sostanze che, del resto, avrebbero anche il vantaggio di essere legali, che si possono acquistare cioè senza rischiare sanzioni penali. Diminuirebbero le spese di repressione, di ordine pubblico, di sicurezza e sempre l’Università di Messina quantifica questa riduzione in quasi 800milioni di euro. Per finire, secondo Coldiretti, la legalizzazione della marijuana potrebbe portare alla creazione di 10mila posti di lavoro. E dove c’è lavoro le mafie sono più deboli. È chiaro che legalizzare conviene in termini di salute pubblica, di guadagno e di risparmio per lo Stato ed è un potentissimo atto antimafia. Come mai non se parla concretamente? Lascio a voi la risposta e mi piacerebbe che - tramite l’Espresso - mi facciate avere le vostre opinioni. L’Iran condanna a cinque anni l’accademica Adelkhan di Farian Sabahi Il Manifesto, 17 maggio 2020 Franco-iraniana, in carcere dal giugno 2019, è accusata di cospirazione. Da dicembre a febbraio scorsi ha rifiutato il cibo per protesta. In cella da quasi un anno, ieri la studiosa franco-iraniana Fariba Adelkhah - direttrice di ricerca presso il Ceri-SciencesPo di Parigi - è stata condannata da un tribunale di Teheran a cinque anni di carcere per cospirazione contro la sicurezza nazionale” dell’Iran “e a un anno per propaganda contro la Repubblica islamica”. Lo ha annunciato il suo avvocato su Twitter, spiegando che ricorrerà in appello. Adelkhah non è un’attivista, non criticava la Repubblica islamica e non si occupava di violazioni dei diritti umani. Sessantuno anni, viene arrestata attorno al 5 giugno 2019. I suoi colleghi si accorgono della sua scomparsa solo il 25 giugno, quando le mandano una mail ricevendo una risposta che li insospettisce. Il 24 dicembre, d’intesa con l’australiana Kylie Moore-Gilbert detenuta anche lei nella prigione di Evin, Adelkhah inizia uno sciopero della fame, terminato il 12 febbraio 2020 con una serie di strascichi di salute. Autrice di numerosi volumi sulla società iraniana e sulla questione femminile, Adelkhah era andata a studiare in Francia nel 1977, aveva studiato sociologia a Strasburgo per poi conseguire nel 1990 il dottorato in antropologia all’Ehess. Terminati gli studi viene assunta da Sciences Po e decide di restare a Parigi, anche per motivi personali. Fin dalla metà degli anni Novanta i suoi interessi di ricerca si concentrano sul ruolo della mobilità nella società iraniana. Per questo inizia a occuparsi di molteplici forme di mobilità tra Iran e Afghanistan: spostamenti migratori, commerciali, religiosi. Le sue missioni di ricerca in Hazarajat, la regione occidentale dell’Afghanistan confinante con l’Iran, le hanno permesso di continuare questo filone di studi anche nei momenti in cui le era negato l’accesso in Iran. In occasione dei tanti viaggi a Teheran, Adelkhah si è vista confiscare più volte il passaporto. Nel 2009 aveva scritto una lettera aperta al presidente conservatore Mahmoud Ahmadinejad affermando di voler smettere di occuparsi di Iran perché dopo l’arresto della dottoranda francese Clotilde Reiss la situazione era diventata troppo pericolosa per i ricercatori indipendenti: le tante difficoltà l’avevano portata a concentrarsi maggiormente sulla società afghana, su cui aveva sempre lavorato. Con l’insediamento del moderato Hassan Rohani alla presidenza, aveva ripreso a interessarsi delle istituzioni clericali sciite e si era stabilita nella città di Qum, sede di seminari religiosi e mausolei. Nel giugno 2019 con Adelkhah veniva arrestato anche il suo compagno e collega francese Roland Marchal, appena atterrato a Teheran da Parigi. Sociologo specializzato sulle guerre civili in Africa, era accusato di collusione con lo scopo di attentare alla sicurezza nazionale. Marchal è stato liberato il 20 marzo scorso e, in concomitanza, la Francia ha rilasciato l’ingegnere iraniano Jalal Rohollahnejad, 41 anni, che rischiava l’estradizione negli Stati uniti perché accusato di avere violato le sanzioni americane contro la Repubblica islamica. Filippine. Emergenza carceri di Paolo Affatato L’Osservatore Romano, 17 maggio 2020 Nelle Filippine presuli e organizzazioni cattoliche denunciano la precarietà del sistema detentivo minacciato dalla pandemia. L’emergenza Covid-19 rischia di far esplodere il già precario sistema carcerario filippino. Anche perché “l’atteggiamento poco compassionevole ed eccessivamente severo delle forze dell’ordine, nel far rispettare il blocco totale imposto dal governo per il covid-19, non fa che aggravare la situazione. I poveri, esasperati e in cerca di cibo, vengono etichettati e trattati come criminali”, riferiscono all’Osservatore Romano i sacerdoti lazzaristi che a Manila hanno organizzato un servizio di assistenza e consegna di alimenti agli indigenti e sono testimoni di fermi e arresti operati dalle forze dell’ordine. A Quezon City, una delle città che compongono la Metro Manila, fioccano arresti di persone che hanno infranto le regole della quarantena imposta dal governo. Ma in celle di cinque metri per cinque, si arriva ad ammassare fino a 30 detenuti, denunciano gli attivisti. Nelle stanze di detenzione temporanea, alle stazioni di polizia, quanto nelle carceri, il distanziamento risulta impossibile, come è problematico l’accesso ai servizi igienici, il lavaggio frequente delle mani, e vi è carenza o assoluta mancanza di disinfettanti o mascherine protettive. Oltre 20.000 arresti sono stati effettuati dalle forze di polizia in poche settimane, per violazione della quarantena e del coprifuoco. “Se la polizia continua a compiere arresti indiscriminati, la popolazione di detenuti continuerà a crescere e peggiorerà la sua situazione”, nota Raymund Narag, docente filippino alla Southern Illinois University negli Stati Uniti e studioso del sistema carcerario nel suo paese di origine. “I nostri centri di detenzione della polizia sono estremamente congestionati e non hanno la capacità di separare, tanto meno di isolare, le persone infette”. La lente di ingrandimento delle istituzioni si è spostata sulle prigioni di stato perché gli istituti rischiano di diventare cluster incontrollati per la diffusione del coronavirus. I peggiori focolai finora si sono verificati in due carceri nell’isola di Cebu, nelle Filippine centrali, dove sono stati denunciate 348 infezioni tra gli oltre 8000 detenuti. Per cercare di contenere il fenomeno, la Corte suprema delle Filippine ha impartito una direttiva ai tribunali, ordinando di disporre il rilascio dei detenuti in attesa di processo e tuttora in carcere perché impossibilitati a pagare una esigua cauzione. In seguito al provvedimento, 9731 detenuti sono stati rilasciati nella speranza di limitare il sovraffollamento. Tuttavia, nonostante i recenti interventi, i cronici problemi strutturali rischiano di vanificare ogni sforzo: nelle carceri filippine, secondo l’Institute for Crime & Justice Policy Research (Icpr) della University of London il tasso di sovraffollamento è il più alto al mondo: tocca il 500 per cento e risulta in crescita dal 2016, quando il presidente Rodrigo Roa Duterte ha dato il via alla violenta “guerra alla droga”, che ha contribuito a congestionare ulteriormente gli istituti di pena. Le strutture già versavano in condizioni insostenibili: edifici rudimentali, carenze di cibo e assistenza sanitaria, brutalità, maltrattamenti denunciati dalle organizzazioni per i diritti umani come l’Ong filippina “Karapatan” (“Alleanza per il progresso dei diritti del popolo”). Va notato che il codice penale nazionale risale agli anni 30 del secolo scorso, mentre il sistema carcerario è improntato a una logica essenzialmente punitiva. Numerosi penitenziari sono plurisecolari, costruiti dai colonizzatori spagnoli a partire dal XVI secolo. “Inoltre, i ragazzi dai 15 anni in su sono ospitati in carceri con gli adulti, e il governo vorrebbe perfino abbassare l’età della responsabilità penale, comminando pene carcerarie a ragazzi dai 12 anni in su. La mescolanza di adulti e ragazzi rende più facili gli abusi sessuali sui minori”, segnala preoccupato il missionario cattolico irlandese padre Shy Cuellen, che ha creato nelle Filippine la Fondazione “Preda”, impegnata per la tutela dei minori. Si aggiunga, poi, che oltre il 90 per cento dei detenuti (la popolazione carceraria complessiva supera i 200.000 elementi) proviene dagli strati più poveri della popolazione e che, data la corruzione endemica, prosperano dietro le sbarre il traffico di droga e alcolici. Oggi, allora, la diffusione della pandemia di covid-19 è un elemento che può far potenzialmente deflagrare l’intero sistema. Gli attivisti per i diritti umani e i religiosi cattolici impegnati nel ministero della pastorale carceraria concordano nel chiedere al governo di mettere in atto misure per decongestionare il sistema. “Si potrebbero in primis liberare tutti i prigionieri politici e di coscienza”, afferma Karapatan, mentre Human Rights Watch chiede di liberare i detenuti in carcere per reati minori e quelli in precarie condizioni di salute per creare spazio. La preoccupazione è confermata dal gesuita padre Eli Rowdy Y. Lumbo, direttore esecutivo della Fondazione della Compagnia di Gesù per la pastorale dei detenuti e cappellano alla New Bilibid Prison, a Muntinlupa City, nella Metro Manila. Nell’istituto, lo scorso gennaio vi erano oltre 29.000 detenuti, su una capacità dichiarata di 6400 posti. “Le condizioni sono difficili - afferma il religioso al nostro giornale - ma vediamo anche segni di speranza: ho appena ricevuto da anonimi donatori 500 materassini per i detenuti che dormono per terra, 250 mascherine protettive e flaconi di disinfettante. La nostra certezza è che Dio ama i carcerati. Dio conosce le loro difficoltà e il loro dolore. Sono suoi figli. Così li consideriamo e diamo loro ogni attenzione”. Sulla paura per la diffusione del coronavirus, il gesuita afferma: “Nelle carceri si deve fare il possibile, ma la precaria situazione è sotto gli occhi di tutti. Quanto possiamo fare ora è aspettare e pregare. Facciamo del nostro meglio, ma sappiamo che Dio provvede davvero. Avverto - prosegue il cappellano - la loro paura e le loro ansie. Ma sento anche che Dio non li abbandonerà. Ho spesso detto loro durante la celebrazione eucaristica che i momenti in cui hanno fame, provano paura o tristezza sono in realtà occasioni di grazia. Questi sono i momenti in cui Dio darà loro conforto e forza, asciugherà le loro lacrime e restituirà loro una speranza”. “La nostra attenzione e solidarietà, in questo tempo difficile - afferma monsignor Joel Z. Baylon, vescovo di Legazpi e presidente della Commissione per la pastorale carceraria della Conferenza episcopale filippina - si concentra sulle condizioni dei nostri fratelli e sorelle che sono in prigione, privati della libertà e dei più elementari diritti umani. Siamo tutti consapevoli del fatto che in molti dei penitenziari le condizioni di vita sono disumane. Chiediamo ai nostri leader di adottare misure per alleviare le sofferenze, garantire protezione, rispettare la dignità umana dei detenuti. A loro doniamo la misericordia e la compassione di Dio”.