Fine del lockdown, ma i volontari restano fuori dalle carceri di Luca Cereda Vita, 16 maggio 2020 Negli Istituti di pena del Paese, la Fase 2 si è fermata ai cancelli d’ingresso. Tutto è rimasto immobile. Ornella Favero (presidente Cnvg): “Riaprire al volontariato significherebbe riportare in cella la funzione riabilitativa della pena. Invece per noi il blocco rimane”. Lunedì 18 maggio riparte l’Italia, sostenuta dal decreto-rilancio che prevede tante misure per accompagnare la fase 2, ma “non riaprono le carceri, in modo particolare restano ancora fuori migliaia di volontari”. A dirlo è Ornella Favero, fondatrice e direttrice della rivista Ristretti Orizzonti e guida della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia (Cnvg). Negli istituti di pena del Paese, la fase 2 si è fermata ai cancelli d’ingresso. Tutto è rimasto immobile. “Riaprire al volontariato significa infatti riportare in carcere la funzione riabilitativa della pena. Le istituzioni hanno cercato la strada più semplice anche con le visite, aprendo ai parenti con il contagocce: noi dobbiamo lottare e muoverci”. Così, se il Governo cerca di scongiurare una grave crisi economica, non ferma nelle carceri l’emorragia di umanità. Carcere e volontariato: cosa succede dal 18 maggio? - Un colloquio con un familiare in presenza garantito ai detenuti tra il 19 maggio e il 30 giugno, il tutto sulla base della discrezionalità dei direttori degli istituti di pena, e la messa al bando dei volontari penitenziari che continua a tempo indeterminato. È questo il riassunto che Favero tratteggia dell’articolo 4 dell’ultimo decreto ministeriale approvato anche dal Parlamento. “Questo periodo ha messo a nudo una fragilità estrema e un’inefficienza del sistema carcere che già si palesava in tempi normali e che funzionava in qualche modo per la spinta del mondo del volontariato”. Questo il commento di Guido Chiaretti, membro del direttivo della Cnvg, coordinamento che rappresenta enti, associazioni e gruppi impegnati nel volontariato nell’ambito della giustizia, e presidente di Sesta Opera San Fedele, una delle più antiche associazioni di assistenza carceraria operanti in Italia. Inconcepibile e incomprensibile la scelta del Governo di lasciare ancora fuori dalle carceri il volontariato. Riavviare in sicurezza le attività e gli incontri, non solo con i familiari, ma anche con i volontari non è solo utile ma necessario, oggi. “Ce n’è bisogno più che mai. Le istituzioni e le amministrazioni hanno però un atteggiamento attendista e le regole sono dalla loro parte”, sottolinea invece Favero. Questo accade anche se ci sarebbero tutti i dispositivi di sicurezza. Anche perché ogni giorno, entrano in carcere circa 37 mila persone tra agenti, uomini del personale sanitario e amministrativo. “Sospendere all’infinito le attività dei volontari e delle associazioni rende il carcere un deserto”. E rende la vita dei detenuti un vero deserto. Il re è nudo: il volontariato è essenziale al sistema-carcere - “Se le istituzioni cercano sempre le strade più facili, il mondo dell’associazionismo, delle cooperative e del volontariato deve muoversi e lottare per tornare a fare ciò che facevano pre-covid”, afferma la guida del Cnvg. Tante sono le necessità di chi vive ristretto nella libertà a cui sopperisce il mondo del volontariato. “Escludere per tutti questi mesi i volontari e l’associazionismo dal carcere è stato come togliere un organo ad un corpo” sostiene Chiaretti. Sesta Opera all’ingranaggio-carcere in Lombardia “presta” centinaia di volontari. “Sono 55 nel solo carcere milanese di San Vittore, uno dei pochissimi che ha lasciato aperte le porte al volontariato anche durante la “Fase 1”. Anche se ad oggi sono solo due le persone che possono entrare: “Per distribuire gli abiti ai detenuti, e anche tutti quegli altri beni necessari che altrimenti gli istituti di pena non riescono a recuperare, come ad esempio il dentifricio o la pasta per le dentiere”. E ancora, a Bollate, carcere da oltre 1.200 detenuti, “al cibo per chi faceva il ramadan che gli istituti non riuscivano a recuperare, ci hanno pensato i volontari”. Questa è la condizione delle principali carceri lombarde, la regione più ferita dal virus e dove anche ad Opera, la casa di reclusione più grande delle 225 italiane, “è tutto fermo, lì nessun volontario può entrare”. Questo scenario si somma a quello pregresso: il sovraffollamento delle carceri e i collegamenti tecnologici difficili e impossibili in alcuni penitenziari, non sempre per volontà delle istituzioni o degli operatori. Se il volontariato fa un passo avanti, c’è chi ne fa due indietro - Mentre perfino l’Iran ha varato misure alternative al carcere, da noi le direttive parlano sin dall’inizio della pandemia, in caso di contagio, di porre i detenuti in celle singole per l’isolamento sanitario. Difficile, tuttavia, comprendere in che modo ciò possa essere organizzato, tenendo conto che secondo gli ultimi dati, in Italia abbiamo circa 53.139 detenuti per un totale di 47.231 posti effettivi. E non ci sono celle vuote, semmai ce ne sono di inagibili. Il sovraffollamento rimane ma è diminuito drasticamente da fine febbraio, quando i detenuti in carcere erano 61.230. È stato un risultato combinato: a una diminuzione degli ingressi, dovuta al minor numero di reati commessi durante il lockdown, si è aggiunto un maggiore ricorso alle misure alternative al carcere nelle sentenze emesse dai giudici negli ultimi due mesi. In Lombardia il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), il Tribunale di sorveglianza, il mondo del volontariato e la curia stavano studiando con la Regione un piano per accompagnare e facilitare le uscite dei detenuti dalle carceri regionali e l’accompagnamento sul territorio in modo controllato. “Tutto è però saltato perché la Regione ha rifiutato 900 mila euro della Cassa delle ammende che può finanziare programmi di reinserimento per i detenuti”, spiega Guido Chiaretti. E non è finita qui: a frenare in parte alcune scarcerazioni previste c’è la carenza di braccialetti elettronici. Carcere: idee e pratiche nuove per la fase 2 e non solo - A preoccupare chi si occupa del sistema carcerario italiano è principalmente cosa succederà una volta contenuta la diffusione del coronavirus: i protocolli sanitari precedenti all’epidemia si sono rivelati inadeguati, soprattutto al momento di applicarli, così come le strutture a disposizione. “Per usare una metafora, il carcere era una nave che imbarcava acqua quando il mare era calmo: con il coronavirus è arrivata la tempesta, e ha iniziato ad affondare”, dice Chiaretti. Se il Governo ha fatto la “scelta di comodo” di affidare alla discrezionalità dei direttori delle carceri la riapertura alle visite dei parenti, Favero non accetta la messa al bando del volontariato a tempo indeterminato. La presidente del Cnvg porterà avanti in queste settimane, regione per regione, colloqui con i garanti territoriali e con le istituzioni locali per ripristinare l’accesso dei volontari, per regolamentare le visite in presenza dei familiari dei detenuti. In moltissimi casi, però, non ci sono le condizioni strutturali per predisporre sale di attesa sufficientemente capienti, e percorsi protetti che separino gli ospiti dai detenuti, ma anche gli ospiti tra loro. “C’è però la volontà sostenuta del mondo del volontariato, di trovare idee e soluzioni nuove a cui seguono richieste imprescindibili”. Una è quella di mantenere le tecnologie per preservare il legame con gli affetti dei detenuti: “Ci sono persone che sono rinate perché hanno rivisto in videochiamata i luoghi di casa dopo 10 o 15 anni. Qualcuno non vedeva la madre da anni e ha avuto la possibilità di ritrovarla”. Non solo, questi strumenti andrebbero addirittura allargati. “Tutto questo lo abbiamo detto anche al garante nazionale dei detenuti Mauro Palma che abbiamo incontrato il 12 maggio ma che non ha saputo e potuto rassicurarci sul fatto che le nostre richieste sulle visite e sul reingresso dei volontari vengano accolte”. Il mondo del volontariato non è immobile, lavora anche da fuori - Se le tecnologie, entrate finalmente in carcere anche per far fronte alla rabbia dei detenuti, non devono uscire quando - e se - si tornerà alla normalità, Favero è preoccupata che il ripensamento dei modelli organizzativi delle carceri avvenga escludendo le decine di associazioni educative e di volontariato che operano, o meglio operavano, quotidianamente negli istituti italiani. Oltre alle visite, “di fatto quasi sospese in presenza fino a fine giugno”, dalle lunghe e monotone giornate dei detenuti, sono scomparse negli ultimi due mesi anche le attività educative e istruttive, dalle lezioni di lingua a quelle di teatro alle altre iniziative di cui si fanno carico i volontari. “Se in certe occasioni sono state ripristinate in videoconferenza, come a Rebibbia dove il teatro con i detenuti lo stanno facendo online, o come a Bergamo, dove sono le attività redazionali interne al carcere che sono andate in rete e vanno avanti lì, in molti casi non è stato possibile”. Riaprire al volontariato in carcere significa riportare in carcere la funzione costituzionale della pena, quell’articolo 27 che i detenuti del laboratorio di falegnameria del carcere di Busto Arsizio in Lombardia hanno continuato da soli, producendo dei crocifissi in legno con incastonato un cuore a metà, “perché l’altra metà si trova fuori”, racconta il cappellano Don David Maria Riboldi. Inoltre vanno riprese le attività con i ragazzi delle scuole “progetti come “A scuola di libertà”, tesi a fare prevenzione tra le giovani generazioni ma anche a spiegare loro che non si crea sicurezza facendo “marcire in galera” chi commette reati, ma accompagnandolo in un percorso di assunzione di responsabilità”, conclude Favero. Carceri, dal 18 maggio parte la “Fase 2” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 maggio 2020 Le direzioni decideranno le modalità dei colloqui in presenza. Si avviano alla Fase 2 anche le carceri italiane, partendo da una graduale ripresa dei colloqui visivi tra detenuti e familiari. Dal 18 maggio, con diverse misure di sicurezza onde evitare il contagio, le Direzioni di ogni carcere potranno decidere quante volte permettere i colloqui in presenza. Potranno limitare sino a uno il numero dei colloqui mensili consentiti e sempre sino ad uno il numero delle persone ammesse al colloquio. Sul punto, nell’ottica della tendenziale uniformità, in questa prima fase in cui si impone la massima prudenza, il Dap ritiene opportuno fornire, sia pure in modo orientativo, l’indicazione di due colloqui mensili ed una persona a colloquio. Resta salva la possibilità per il detenuto di chiedere di fruire di tutti i colloqui in “modalità a distanza” tramite gli strumenti telematici come skype. Conseguentemente, d’intesa con l’Autorità sanitaria, si provvederà a munire i locali colloqui con “mezzi divisori” adottati in relazione alle caratteristiche della singola sala. I mezzi divisori dovranno avere una altezza tale da coprire il viso delle persone a colloquio e non permettere contatti fisici interpersonali. Nel distanziare le sedute si terrà anche conto della necessità di evitare il possibile passaggio di oggetti. Il numero dei colloqui effettuabili contemporaneamente nella sala sarà individuato rispetto alle specificità di ogni istituto ed alla imprescindibile esigenza di massimizzare la prevenzione dal rischio di contagio. Tra i diversi “gruppi” di persone a colloquio dovrà comunque essere assicurata la distanza minima di due metri. Ove possibile dovrà essere attuata un’organizzazione dei colloqui (per piani, per sezioni...) che permetta di “confinare” un eventuale contagio. Nel consentire l’accesso dei familiari ai colloqui dovrà tenersi conto della necessità che i predetti mantengano continuativamente la distanza di sicurezza. Particolare prudenza dovrà essere adottata nell’ammettere l’ingresso di minori degli anni quattordici. Gli istituti che ne sono dotati, sempre d’intesa con l’Autorità sanitaria, potranno prevedere lo svolgimento dei colloqui nelle cosiddette “aree verdi”, ove esse, adeguatamente organizzate, consentano lo stesso livello di prevenzione del pericolo di contagio. Tra un turno di colloqui e l’altro si procederà, sempre secondo le indicazioni dell’Autorità sanitaria, sia a “disinfezione” sia ad “aereazione” tanto della zona colloqui, con particolare attenzione alle superfici che vengono frequentemente toccate e ai ‘ divisori’, quanto di quella di attesa. Altrettanto dicasi per gli arredi delle “aree verdi”. Si eviterà l’incontro tra persone “in entrata” e “in uscita” e si individueranno percorsi tali da evitare l’incontro con coloro che svolgono altre attività nell’istituto; percorsi la cui disinfezione/sanificazione sarà posta in essere secondo le indicazioni dell’Autorità sanitaria. Si eviterà la condivisione di superfici che possano essere toccate sia dai visitatori sia dalle persone detenute. Sia i detenuti che i familiari ovviamente dovranno essere dotati di mascherine. Al via la produzione industriale di mascherine in otto carceri di Antonella Barone gnewsonline.it, 16 maggio 2020 “Fin dall’inizio dell’emergenza, è stato deciso di indirizzare una parte importante del lavoro dei detenuti nella produzione di mascherine”. Lo ha sottolineato il Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, durante l’audizione di giovedì in Commissione Giustizia alla Camera. In quell’occasione il Guardasigilli ha ricordato le produzioni già avviate da tempo negli istituti penitenziari di Napoli, Reggio Calabria, Castrovillari, Bergamo, Milano-San Vittore, Milano-Opera, Milano-Bollate, Monza, Vigevano, Forlì, Piacenza e la sartoria della casa circondariale di Massa dove si confezionano 5000 mascherine al giorno.??”Abbiamo poi realizzato, con il Commissario straordinario del Governo per l’emergenza Covid dottor Domenico Arcuri, che ringrazio pubblicamente - ha aggiunto il Guardasigilli - un progetto per la produzione industriale di mascherine, che ha permesso di acquisire otto macchinari che saranno collocati negli istituti di Milano-Bollate, Salerno e Roma-Rebibbia già la prossima settimana”. Gli istituti che riceveranno le attrezzature acquistate dal commissario garantiranno la fornitura dei dispositivi di protezione a tutto il personale degli istituti penitenziari italiani e, in prospettiva, quando il relativo protocollo sarà concluso, anche ai dipendenti del Ministero della Giustizia. Tra i primi istituti a ricevere i macchinari, il 19 maggio, sarà la casa circondariale di Salerno-Fuorni “Antonio Caputo” dove già dall’inizio dell’emergenza era stata attivata una produzione artigianale con sei detenute che, a titolo di volontariato, hanno confezionato migliaia di mascherine utilizzando solo tre macchine per cucire. Con le nuove attrezzature la produzione diverrà industriale e vedrà coinvolti molti più detenuti. Secondo le previsioni dei tecnici e in considerazione del fatto che il ciclo produttivo comprende anche la sanificazione e lo stoccaggio del materiale, l’installazione degli impianti automatizzati dovrebbe consentire di produrre 400mila mascherine al giorno, che potranno progressivamente aumentare. Fondi europei per i Centri scolastici digitali in carcere di Ada Maurizio epale.ec.europa.eu, 16 maggio 2020 Il 6 maggio 2020 il Ministero dell’Istruzione ha emanato un Avviso pubblico per la realizzazione di smart class per Centri provinciali per l’istruzione degli adulti (Cpia), sezioni carcerarie e scuole polo in ospedale. Le risorse messe a disposizione per l’allestimento dei centri scolastici digitali sono complessivamente di 5,2 milioni di euro nell’ambito del Programma Operativo Nazionale (Pon) 2014 - 2020. Ai 129 Cpia sono destinati fino a 20mila euro e sono 449 le sedi scolastiche funzionanti negli istituti penitenziari che potranno beneficiare di 5000 euro ciascuna per la fornitura di strumenti e dispositivi digitali per potenziare l’apprendimento a distanza. Tempi strettissimi, requisiti vincolanti, pena la non ammissione al finanziamento, per i Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti e gli istituti di secondo grado che hanno presentato la candidatura. Ai dirigenti, ai docenti e al personale amministrativo è stato richiesto un impegno di non poco conto, in un periodo di lavoro gestito quasi esclusivamente a distanza. La progettazione - si legge nell’Avviso - consiste nell’insieme delle attività propedeutiche all’emanazione dell’avviso pubblico/richiesta di offerta/ordine di acquisto e del relativo capitolato tecnico per l’acquisto dei beni. In questa fase, quindi, non è previsto il finanziamento di altre azioni che sono in realtà necessarie per sostenere la didattica a distanza nella scuola in carcere. La priorità è evidentemente la dotazione di strumenti e risorse tecnologiche in fase di emergenza. L’Avviso parla chiaro: si possono acquistare esclusivamente apparecchiature finalizzate alla partecipazione alle attività didattiche a distanza, software per un importo massimo pari al 20% delle forniture e arredi per la custodia dei beni. Non sono ammessi i costi dovuti al gestore del servizio per la connettività alla rete Internet. Le tante esperienze di didattica a distanza in corso in questo periodo negli istituti penitenziari italiani, costituiscono una prima risposta alla necessità di continuare a garantire l’istruzione in carcere in piena emergenza. Non ci sono dati ufficiali ma si può affermare che nessuno si è fermato. Tra dispense e materiali didattici consegnati agli educatori, vere e proprie lezioni via Skype o su altre piattaforme, teledidattica, si stanno concludendo i corsi avviati in questo difficile anno scolastico. La partecipazione degli studenti ristretti è stata attiva. Da quanto si è potuto cogliere nelle testimonianze di docenti, dirigenti e personale dell’amministrazione penitenziaria, le lezioni a distanza hanno rappresentato una risorsa anche per contenere l’ansia rispetto a quello che accadeva fuori. Ritrovare i professori, seppure davanti a uno schermo, è stato rassicurante. Tuttavia, si tratta di pratiche e soluzioni che dovranno essere collocate, riorganizzate e consolidate all’interno di un percorso formativo di lungo periodo e in linea con l’ordinamento scolastico introdotto dalla riforma del sistema di istruzione degli adulti dal 2015. I dubbi e le incertezze sul prossimo anno scolastico sono tanti. Non sarà facile ripartire senza una organizzazione strutturata dell’offerta formativa, né sarà possibile continuare con gli attuali assetti, nati in emergenza. Come si potrà rendere stabile l’apprendimento a distanza in carcere? In altri termini, chi dovrà farsi carico delle spese e della gestione della connessione? Sappiamo che questi sono i limiti di maggior peso nella possibilità di realizzare la fruizione a distanza nella scuola in carcere, prevista dall’ordinamento dei Cpia sin dal 2015. In vista della ripresa a settembre delle attività didattiche si attendono indicazioni operative nazionali. Sarà necessario ampliare e rinforzare le competenze digitali dei docenti, sarà vincolante l’assistenza informatica interna così come dovrà essere definito il ruolo del personale dell’area educativa degli istituti penitenziari. Inoltre, serviranno altre risorse, si dovranno definire accordi interistituzionali e protocolli per le procedure di utilizzo e gestione dei dispositivi e della rete. Inoltre, non devono essere dimenticati gli adulti e i giovani adulti in area penale esterna, laddove sono attivi percorsi scolastici: le Rems (residenze di massima sicurezza) che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari e i centri di recupero per tossicodipendenti. Se l’Avviso del Ministero rappresenta una prima risposta per sostenere la didattica a distanza in carcere, la complessità della sua realizzazione e standardizzazione non possono essere affrontate senza la condivisione con il Ministero della Giustizia. Va ricordato che i due ministeri hanno stipulato nel 2012 e rinnovato nel 2016 il Protocollo d’Intesa “Programma speciale per l’istruzione e la formazione negli istituti penitenziari (link is external)”, scaduto il 23 maggio 2019 e non ancora rinnovato. Riaprire il dialogo in questa direzione è un buon punto di partenza. Intercettazioni, si dimette il capo di Gabinetto di Bonafede di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 16 maggio 2020 Intercettato con l’ex capo dell’Anm: Baldi si dimette dal ruolo apicale di via Arenula. Le conversazioni con Luca Palamara, già presidente dell’Anm e leader di Unicost, sono state fatali a Fulvio Baldi, l’ormai ex capo di gabinetto del ministro della Giustizia Bonafede. Il Fatto Quotidiano aveva pubblicato nella serata di giovedì, sul proprio sito, alcuni stralci dei colloqui avuti da Baldi con Palamara nel giugno 2018, e contenuti nel fascicolo della Procura di Perugia dove l’ex leader dell’Associazione magistrati è indagato per corruzione. Le indagini sono state chiuse questo mese e gli atti sono ora pubblici. Palamara, a quel tempo consigliere del Csm, aveva chiesto a Baldi, pure lui di Unicost, di trovare un posto al ministero della Giustizia per due magistrate, Katia Marino, sostituto procuratore a Modena, e Francesca Russo, giudice del Tribunale di Roma. Baldi, già sostituto procuratore generale della Cassazione, era stato appena nominato da Bonafede ed era pronto ad esaudire le richieste di Palamara. Avrebbe preso, emerge dai colloqui, senza problemi le due magistrate, ma aveva terminato i posti disponibili al gabinetto del ministero. Suo vice era già Leonardo Pucci, compagno di studi a Firenze di Bonafede e poi giudice al Tribunale di Potenza. Decise, quindi, di rivolgersi al collega Mauro Vitiello, capo del Legislativo, ufficio dove alcuni posti erano ancora disponibili. Vitiello è uno storico esponente delle toghe di sinistra di Magistratura democratica e non aveva però voglia di assecondare le richieste di Baldi. Palamara, per sbloccare l’impasse, si rivolse, senza successo, anche ai suoi colleghi al Csm di Md. Baldi offrì, allora, la soluzione del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dove era stato appena nominato Francesco Basentini, altra toga di Unicost e come Pucci in servizio a Potenza, o il Dag, il Dipartimento degli Affari di Giustizia, diretto da Maria Casola, anche lei esponente di Unicost. Palamara non era fiducioso della riuscita di tale operazione. Baldi, sempre per non scontentarlo, propose anche l’Ufficio contenzioso del ministero degli Esteri. Un incarico, a differenza di quelli a via Arenula, senza indennità (circa 180mila euro). Tutte opzioni che non andarono a buon fine. Baldi, interpellato sul punto, ha riferito che tali colloqui non hanno comunque rilevanza disciplinare. Le sue dimissioni seguono quelle del capo dell’Ispettorato Andrea Nocera, indagato per corruzione a Napoli, e quelle di Francesco Basentini, travolto per la gestione dell’emergenza sanitaria nelle carceri. Il posto di Baldi è stato preso ad interim da Vitiello. La vicenda, al netto delle inevitabili polemiche politiche sulla scelta dei collaboratori del ministro della Giustizia, ha infiammato le chat delle toghe. Molto duri i commenti. Fra le proposte per uscire dalla cooptazione, quella di un interpello, come suggerito dalla presidente della Corte d’appello di Venezia Ines Marini, fra tutti i magistrati. Ad accendere gli animi delle toghe era stata anche la pubblicazione su La Verità di altre intercettazioni del fascicolo di Perugia riguardanti le nomine al Csm. In quel caso avevano riguardato la componente progressista, come emerso dai colloqui fra Palamara e l’allora capo delegazione di Area, Fracassi. Il posto in questione era quello di vice segretario del Csm. Tornado all’attività del Csm, ieri è stato votato nella commissione per gli Incarichi direttivi il nuovo procuratore generale di Roma. La scelta è caduta su Antonello Mura, attuale pg a Venezia. Sul quale dovrà ora decidere il plenum. Le spine di Bonafede. Tra mozioni di sfiducia, accuse dell’antimafia e nuove dimissioni di Rocco Vazzana Il Dubbio, 16 maggio 2020 Ancora grane per Alfonso Bonafede. Non bastava la mozione di sfiducia presentata dal centrodestra per la gestione delle carceri nella fase dell’emergenza Covid. E non bastavano neanche le parole di Nino Di Matteo sulla sua mancata nomina al Dap per pressioni mafiose sul ministero della Giustizia. A complicare la vita in via Arenula ci si mette anche il capo di gabinetto del Guardasigilli, Fulvio Baldi, che rassegna le dimissioni “per motivi personali” a poche ore dalla pubblicazione sul Fatto quotidiano di una serie di intercettazioni tra lui e il compagno di corrente (Unicost) Luca Palamara in cui si fa riferimento a magistrate da piazzare negli staff ministeriali. È il colpo che adesso rischia di mettere in seria difficoltà Bonafede, che se superasse lo scoglio della sfiducia, in programma al Senato mercoledì prossimo, dovrebbe pure presentarsi il giorno dopo in commissione Antimafia, convocato per un’audizione dal collega di partito Nicola Morra. È una slavina quella che si sta abbattendo sul ministro, già messo a dura prova dagli eventi delle ultime settimane. E a Palazzo Madama i numeri sono troppo ballerini per sentirsi al sicuro. Soprattutto perché un partito della maggioranza, Italia Viva, non ha ancora sciolto le riserve sul suo voto. Da giorni i renziani tengono sulla graticola il ministro, vincolando la propria “clemenza” alle argomentazioni di Bonafede. Ora l’ex premier avrà un’arma in più per convincere il Movimento 5 Stelle a cedere sul “piano shock” economico se non addirittura sulla prescrizione in cambio del “salvacondotto” per il Guardasigilli. E in questo quadro di isolamento e debolezza del ministro, le opposizioni si lanciano all’assalto di Via Arenula, convinte di poter dare una spallata a Conte. “Houston abbiamo un problema! Viene voglia di dire così al Governo”, dice ironico il forzista Maurizio Gasparri, prima di affondare il colpo: “Abbiamo chiesto le dimissioni di Bonafede, non del suo capo di gabinetto. Ci deve essere stato un equivoco nelle comunicazioni. Bonafede te ne devi andare tu”. Ancora più pesante il commento del vice presidente della Camera di Fratelli d’Italia, Fabio Rampelli, secondo cui “il sistema marcio della magistratura asservita al Pd che il M5S avrebbe dovuto distruggere ha trovato invece nel ministro “Malafede” un vero e proprio cavallo di Troia”, dice l’esponente meloniano. “Ora ci auguriamo solo che le dimissioni del suo capogabinetto, siano le penultime. Aspettiamo in giornata il giusto epilogo di una conduzione fallimentare del dicastero di Via Arenula”. Per la Lega, invece, prende la parola su Facebook il deputato Igor Iezzi, che scrive: “Bonafede anche umanamente è pessimo. Dopo la scarcerazione di decine di boss mafiosi sta facendo dimettere tutti coloro che hanno collaborato con lui pur di non lasciare la poltrona. Vile, il M5S ormai vive solo per mantenere il potere”. La difese d’ufficio del Movimento arriva dalla vice presidente del Senato Paola Taverna, che sui social sposta l’attenzione sulla notizia della richiesta di arresto per i parlamentari di forzisti Luigi Cesaro e Antonio Pentangelo: “Quando sfiduci un ministro della Giustizia e chiedono l’arresto di due tuoi parlamentari in un processo per corruzione! Eterogenesi dei fini”, scrive l’esponente grillina. Gli alleati di governo scelgono invece il basso profilo, la strada del silenzio che mette al riparo da qualsiasi attenzione. A dare una mano indirettamente a Bonafede, seppur nel contesto di una critica severa, ci pensa a sorpresa il presidente dell’Unione delle camere penali italiane Gian Domenico Caiazza, che invita ad accendere i riflettori sul meccanismo che consente ai magistrati di finire ai ministeri, più che sul ministro della Giustizia. “Lanciamo un allarme da 25 anni, quello dei magistrati fuori ruolo è un fatto unico dell’Italia, con qualunque governo. O ci vogliamo raccontare la storiella che Palamara sarebbe un’anima nera? In quel momento è soltanto quello che pesa di più nell’esprimere quegli equilibri”, spiega Caiazza. “Il capo di gabinetto si dimette senza che gli sia contestato alcunché di illecito. Si dimette perché è stato scoperto in modo documentale quali sono le dinamiche ordinarie di organizzazione del ministero della Giustizia, ma non solo, un fatto privato dell’Associazione nazionale magistrati”. E in questa prospettiva, il problema non si chiama Bonafede. Il ministro inamovibile che ha devastato carceri e tribunali di Pasquale Napolitano Il Giornale, 16 maggio 2020 Rivolte, boss in libertà e obbrobri giuridici: Bonafede scontenta tutti, ma non rischia. Dal processo a vita al “liberi tutti”: i primi due anni di Alfonso Bonafede alla guida del ministero della Giustizia sono stati un incubo. Per tutti: magistrati, agenti penitenziari, avvocati e cittadini. L’ex dj Fofò, baciato dalla fortuna grillina e promosso alla guida del dicastero di via Arenula, colleziona record (negativi): dimissioni in massa dei suoi collaboratori, evasioni, scontri nelle carceri, proteste degli avvocati e indignazione dei magistrati antimafia. Ma lui, il Guardasigilli confermato nel Conte 1 e Conte 2, sorride e va avanti. Bonafede non ha dubbi: mercoledì è sicuro di superare l’ostacolo della mozione di sfiducia in Senato presentata dal centrodestra. In soccorso arriverà l’aiuto renziano. Intanto, la giustizia (sotto la guida Bonafede) italiana esplode. Ripercorrere le gesta (gaffe, errori e mostri giuridici) del ministro grillino non è impresa semplice. L’ultima gatta da pelare arriva con le dimissioni del suo capo di gabinetto Fulvio Baldi. Il nome di Baldi è spuntato in alcune conversazioni intercettate nell’ambito dell’inchiesta di Perugia sul pubblico ministero Luca Palamara. Con l’addio di Baldi (estraneo all’indagine) lo staff del Guardasigilli è praticamente azzerato: sono già andati via il capo del Dap Francesco Basentini e il vertice dell’ispettorato del ministero Andrea Nocera. Ma il meglio di sé, in questi due anni, Bonafede l’ha dato quando ha provato a mettere le mani sulle leggi della giustizia. Il suo vanto è il processo a vita: una riforma che cancella la prescrizione dal sistema penale italiano introducendo una disparità di trattamento tra condannati e assolti in primo grado. Un mostro giuridico. La riforma Bonafede è un misto tra giustizialismo e improvvisazione: la norma prevede che la prescrizione si sospenda in caso di condanna dell’imputato in primo grado mentre il calcolo dei termini di prescrizione riprendano in caso di assoluzione. Il sistema penale italiano si poggia su tre gradi: basta questo per comprendere che per un imputato che arriva in Corte di Cassazione (dopo un’assoluzione e una condanna) il processo si trasforma in un incubo a vita. Dal processo a vita al “liberi tutti”, è un attimo: Bonafede compie la giravolta in piena emergenza coronavirus, varando misure che favoriscono l’uscita dal carcere dei detenuti. La motivazione, per rimettere in libertà delinquenti e boss, è il rischio contagio coronavirus nei penitenziari. I mafiosi ringraziano. Il Guardasigilli prova a ritornare sui propri passi. Ma è tardi. Le conseguenze sono pesantissime: in 50 giorni le porte delle carceri sono state aperte a 376 fra mafiosi e trafficanti di droga. Di cui 61 a Palermo, 67 a Napoli, 44 a Roma, 41 a Catanzaro, 38 a Milano e 16 a Torino. In un solo colpo vanificati inchieste e anni e anni di lavoro della magistratura. Escono dal carcere boss di primo piano della realtà mafiosa palermitana. Tra cui figura Francesco Bonura, il “colonnello” di Bernardo Provenzano, ma anche Antonino Sacco, reggente del potente mandamento di Brancaccio, feudo dei boss stragisti Giuseppe e Filippo Graviano. Tra gli altri 376 nomi spicca anche quello di Gino Bontempo, uno dei padrini della mafia dei pascoli che fino a pochi mesi fa dettava legge sui Nebrodi, e Francesco Ventrici, uno dei più importanti broker del traffico internazionale di cocaina. E poi i capi mafia di primo piano di camorra e ‘ndrangheta come Pasquale Zagaria e Vincenzo Iannazzo. Le scarcerazioni spingono alle dimissioni il capo del Dap Basentini. Ma sulle carcerazioni si consuma (in diretta al programma Non è L’Arena di Massimo Giletti) lo strappo con Nino Di Matteo, pubblico ministero di punta dell’antimafia a lungo simbolo delle battaglie grilline. Di Matteo accusa il ministro Bonafede di avergli sbarrato la strada per la guida del Dap, preferendogli Basentini. L’imbarazzo è fortissimo. Soprattutto tra gli sponsor (come Marco Travaglio) della politica sulla giustizia del Guardasigilli. Tra gli insuccessi della gestione Bonafede va annoverata la protesta (dall’8 al 10 marzo) negli istituti penitenziari dei detenuti. Le scene delle evasioni fanno il giro del mondo. Altra figuraccia. Altro bilancio drammatico: 12 morti e centinaia di fughe. Ma Bonafede resta il ministro intoccabile. Grazie al suo ex prof Giuseppe Conte. Ferraresi (M5S): “Accuse ridicole al Guardasigilli. La lotta alla mafia è una priorità” di Carmine Gazzanni lanotiziagiornale.it, 16 maggio 2020 Parla il sottosegretario alla Giustizia: “La mozione di sfiducia? Solo un atto irresponsabile”. “La lotta alla criminalità organizzata è una priorità per questo Governo”. Tanto basta per capire quanto sia “immeritata e irresponsabile” la mozione di sfiducia avanzata dalle opposizioni nei confronti di Alfonso Bonafede. Non ha dubbi il sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi sul “suo” ministro e sull’operato dell’intero esecutivo in merito al contrasto alle mafie, specie considerando dal “pulpito” da cui arrivano alcune delle critiche piombate sul Guardasigilli. “E l’ultimo decreto legge approvato - spiega ancora Ferraresi - è la dimostrazione del nostro continuo impegno sul tema”. Da mercoledì in effetti i primi boss mafiosi scarcerati per l’emergenza Covid, come Antonino Sacco, sono tornati in cella. Allarme rientrato? È certamente un ottimo segnale che arriva a poche ore dall’approvazione del nuovo decreto legge voluto dal Ministro Bonafede, con il quale rispondiamo alle criticità tempestivamente e con fatti concreti, e dimostra che la lotta alla criminalità organizzata è una priorità del Governo. Il “decreto antimafia” sancisce che i magistrati rivalutino le detenzioni domiciliari per ragioni sanitarie concesse a condannati per reati di criminalità organizzata di tipo terroristico o mafioso, alla luce del mutamento delle condizioni esterne connesse all’emergenza Covid. Tra le altre misure il decreto che prevede l’obbligo per i giudici di sorveglianza di acquisire il parere della Direzione nazionale antimafia e delle procure distrettuali sulle decisioni che riguardano i rinvii di esecuzione per motivi sanitari relativi ai detenuti per reati di mafia e terrorismo. Il ministero ha disposto un’ispezione per accertare eventuali errori o distorsioni all’interno della macchina giudiziaria proprio in relazione alle scarcerazioni di personaggi legati al crimine organizzato. Ci sono dei primi riscontri? Le ispezioni e gli accertamenti, anche interni, sono stati disposti e si attendono i risultati. Questo ovviamente non significa andare a ledere la piena autonomia e indipendenza delle decisioni che spettano unicamente alla magistratura. Proprio a La Notizia, all’indomani delle proteste nei penitenziari, lei aveva parlato di una regia dietro le rivolte. Cos’è emerso di nuovo a riguardo? Anche queste indagini sono ad oggi in corso, attendiamo fiduciosi l’operato della magistratura. Le opposizioni hanno annunciato una mozione di sfiducia per il ministro Bonafede. I numeri, specie al Senato, sono risicati, nonostante Italia Viva abbia assicurato, pur criticando il Guardasigilli, che non farà venir meno il suo appoggio. Crede che il governo sia a rischio? In generale dico che dovrebbe prevalere il senso di responsabilità, di tutti. L’Italia è forse l’unico Paese in cui, in un momento tanto delicato e per certi tratti drammatico, si cerca di far cadere il governo, peraltro su accuse ridicole fatte a un Ministro, Bonafede, con cui abbiamo portato avanti leggi contro la corruzione e per la legalità fin dal primo momento, con grandi difficoltà, ma anche con grandi risultati: dalla “Spazza-corrotti” al Codice Rosso, dalla legge per colpire i grandi evasori a quella sulla prescrizione, per citarne alcune, fino agli ultimi due decreti antimafia passando per investimenti epocali nel campo della giustizia. La mozione di sfiducia dunque è un atto immeritato e irresponsabile. Le critiche più pesanti al ministro Bonafede sono arrivate da partiti che abbondano di indagati anche per reati mafiosi (Forza Italia) o devono restituire milioni di euro allo Stato (Lega). Non è un paradosso? L’opposizione lo ha criticato in modo surreale, accusandolo di tutto e del suo contrario, da garantista esagerato che libera detenuti a “manettaro”. Non è arrivata una sola critica sensata, costruttiva e nel merito delle azioni intraprese. Questo fa capire che il fine non è dare il proprio contributo per trovare soluzioni, ma gettare il paese nello scompiglio e racimolare consensi. È ovvio che il vero paradosso però rimane, proprio dal pulpito da cui arrivano le critiche. Da partiti che hanno distrutto e affamato la giustizia, fatto leggi “ad personam” per garantire l’impunità ai propri appartenenti, nonché proprio il fatto di avere al proprio interno soggetti impresentabili per aver commesso fatti gravi. Annibali (Iv): “Ministro-disastro. Sfiduciarlo? Certo così non va” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 16 maggio 2020 “Lo ascolteremo e decideremo, ma quanta incapacità e sottovalutazioni...”, dice la capogruppo di Italia viva in Commissione giustizia alla Camera. “Ora va riaperto il dossier prescrizione”. Lucia Annibali, diventata avvocato a 28 anni, ha una vita segnata da un “prima” e un “dopo”. E vale anche per la professione è passata dalle aule di giustizia a quelle parlamentari, ed è oggi capogruppo di Italia Viva in commissione Giustizia a Montecitorio. Il suo partito, più volte in contrasto con il resto della maggioranza sulla giustizia, sarà determinante per le sorti di Alfonso Bonafede. Mercoledì 20 Palazzo Madama mette ai voti la mozione di sfiducia individuale presentata dal centrodestra contro il ministro-capodelegazione dei Cinque Stelle nel governo e Italia Viva controlla 14 voti. Decisivi: se cade Bonafede, cade tutto. Avete già deciso? No. Ascolteremo prima il ministro e decideremo di conseguenza. Siamo stati molto chiari: non abbiamo un pregiudizio per partito preso. Ci riserviamo di ascoltare e di fare le nostre valutazioni. Una cosa è certa: così non va. La gestione Bonafede è stata caratterizzata da sottovalutazioni e incapacità. Un giudizio tondo, e dunque? Cerchiamo di avere una posizione dialettica su tutto, siamo una forza di maggioranza che dà il suo contributo e vorremmo che Italia Viva fosse valutata alla stregua degli altri. Cosa c’è sul tavolo? Due cose. Il nostro piano shock per le infrastrutture che rilancia anche posti di lavoro. 120 miliardi di lavori da sbloccare. E chiediamo di riaprire la partita della prescrizione, che non si è concluso, il dibattito è stato interrotto dal virus. È un’altra battaglia di bandiera M5S… Non condividiamo l’approccio ideologico dei Cinque Stelle, sempre improntato al giustizialismo, alla retorica delle manette facili. Hanno una visione carcerocentrica della vita, questa dialettica del “marcire in galera” non la sopporto. Con Bonafede come sono i rapporti personali? Mah. Ci siamo parlati pochi giorni fa in Commissione Giustizia. Non mi ha convinta più di tanto. Del giallo Di Matteo, che idea si è fatta? Che è una pagina bruttissima per la giustizia. Di Matteo ha fatto affermazioni che hanno una loro gravità. E se fosse vero quanto afferma Di Matteo, è grave che lo stesso abbia taciuto per anni. Purtroppo temo che non conosceremo mai la verità. Dopo il capo del Dap, via anche il capo segreteria di Bonafede, intercettato insieme a Palamara. A via Arenula il ministro è rimasto solo… È un’altra brutta pagina, su cui spero venga fatta piena luce. Ci dà il segno che i Tribunali del Popolo poi si dimostrano molto meno impermeabili di quel che professano. È un redde rationem tra anime giustizialiste? Non so. Faccio un appello: abbandonate l’ideologia, abbracciate la Costituzione senza paura di sopperire nel consenso. I populisti trattano la giustizia in modo superficiale, spettacolarizzano emotività, paura e dolore. Tema che lei conosce bene… Sì. E trovo fastidiosa e strumentale la leva dell’emotività, su cui poi plana anche la televisione. Il diritto di cronaca dovrebbe incontrare qualche limite quando si parla dei diritti delle persone, e delle vittime soprattutto. Calpestare i sentimenti e inquinare la verità sono cose che non dovrebbero far parte del servizio di informazione pubblica. Perché tanta violenza verbale e non solo, contro le donne? Fa parte del retaggio di una società ancora maschilista. È una arretratezza culturale. Ma se penso a Silvia Romano, anche lì questa sovraesposizione politica andava evitata. Sulle vicende personali e di dolore non è tollerabile che la politica entri in modo così dirompente e irrispettoso. Manca il senso delle istituzioni. Perfino sulla Ministra Bellanova… Guardi, una donna così coraggiosa che vince la sua battaglia e si commuove, meriterebbe doppio rispetto. Qualsiasi cosa attiene alle donne, viene subito riferita alla sfera del corpo… È così. Un uomo viene attaccato per le sue idee, una donna per il suo corpo. E sempre in modo molto volgare. Ha visitato carceri femminili? Sì, Rebibbia. E molti altri in tutta Italia. Al di là dell’emergenza carceraria c’è una gestione fallimentare della politica detentiva. La popolazione carceraria nel suo complesso non può più sottostare a una visione carcerocentrica. Che cosa le chiedono i detenuti? È sempre un confronto reciproco. Uno scambio di esperienza di vita, sono persone e provo a mettermi nei loro panni. Molti di loro intraprendono un percorso di consapevolezza Chi sbaglia, deve essere messo in condizione di correggersi. Vale anche per Bonafede? Vedremo mercoledì. Che scandalo il ministero in mano ai pm di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 16 maggio 2020 Altro che caso Palamara, il sistema dei “fuori ruolo” sovverte il principio della separazione dei poteri. Come era del tutto prevedibile, le intercettazioni depositate dalla Procura di Perugia a conclusioni delle indagini su quello che si è voluto fino ad oggi spacciare come “il caso Palamara”, terremotano da subito gli assetti e gli equilibri della magistratura italiana: si è appena dimesso il capo di Gabinetto del Ministero di Giustizia, e ne vedremo ancora delle belle. Intanto, sarebbe il caso di piantarla con questa definizione di comodo della inchiesta, che non riguarda una persona ma, come è del tutto evidente, un sistema ben radicato e strutturato, da sempre al centro dell’attenzione e dell’impegno associativo della magistratura italiana. È il sistema dei “fuori ruolo”, cioè del massiccio trasferimento di centinaia di magistrati dal ruolo per il quale hanno vinto il concorso a ruoli di primo piano nei vari Ministeri, in primis quello di Giustizia ovviamente, per i quali non è ben chiaro quali titoli possano esattamente vantare più di un pubblico funzionario che abbia invece vinto uno specifico concorso nella Pubblica Amministrazione. Il sistema funziona benissimo da anni, è strutturato ed oliato a puntino per riprodurre in questo organigramma di vero e proprio sconfinamento tra poteri dello Stato i tumultuosi equilibri correntizi della magistratura. Come tutti i sistemi di potere, esso esprime di volta in volta uno o più protagonisti, uno o più leader, con connotazioni e qualità personali diversi, con inciampi o degenerazioni più o meno evidenti e gravi: ma il sistema resta, ed è quello il problema, non le persone che lo interpretano meglio o peggio. Siamo un caso unico nel mondo, e non c’è verso che qualcuno ce ne spieghi la ragione in modo convincente. Soprattutto perché si tratta di un sistema che letteralmente sovverte il principio fondamentale della separazione dei poteri. O vogliamo forse sostenere che la foglia di fico della collocazione fuori ruolo risolva questo scandalo costituzionale? Le intercettazioni depositate dalla Procura perugina dovrebbero finalmente porre fine alla sceneggiata delle solite anime belle che ora trasecolano, e dell’esercito di ipocriti o di pavidi che da sempre fingono di non capire. Il Ministero di Giustizia nel nostro Paese è consegnato mani e piedi alla Magistratura associata, che lo occupa con scientifica precisione quale che sia il colore del governo democraticamente eletto […] Questo quadro di alterazione del rapporto tra poteri costituzionali è aggravato e reso ancora più inquietante dal peso davvero abnorme che la giurisdizione penale ha, come è a tutti noto, assunto da venticinque anni a questa parte sull’ordinario fluire della vita politica ed amministrativa nel nostro Paese. La Politica, sia locale che nazionale, è sempre più evidentemente ridotta ad un ruolo ancillare rispetto al potere giudiziario. D’altronde, non potrebbe essere diversamente, visto come in questo Paese possa essere sufficiente la iscrizione nel registro degli indagati per segnare le sorti politiche di un Ministro, di un sindaco, di un Governatore, e delle rispettive maggioranze politiche […] Dunque, quello che va in scena a Perugia non è il caso Palamara ma è il caso Italia: una democrazia malata, con un potere giudiziario strabordante ed incontrollabile, dentro e fuori dai propri ambiti funzionali, ed una classe dirigente che, da ultimo, conquistato il potere proprio con le armi della criminalizzazione dell’avversario politico e la santificazione della magistratura, ora raccoglie i cocci di questo disastro e ne viene travolta [...] *Presidente dell’Unione camere penali italiane Nel barbaro Paese di Travaglio Enzo Tortora sarebbe morto in cella di Francesca Scopelliti Il Riformista, 16 maggio 2020 Nell’anniversario della sua morte si impone una riflessione dolorosa. Si dice che il caso di Enzo resta attuale, ma l’attualità è degna di lui? “Chi vive nella libertà ha un buon motivo per vivere, combattere e morire”. In questa massima di Winston Churchill si può riassumere la vita di Enzo Tortora, quella di giornalista prima, di politico poi. E sullo sfondo la guerra la seconda guerra mondiale per Io statista inglese, quella personale per Tortora. Una guerra vinta, la sua, che però gli ha provocato ferite mortali, nel fisico, non certo nell’anima. Enzo è rimasto fino alla fine un uomo perbene, morto il 18 maggio del 1988 a causa di una giustizia malata i cui sintomi non si sono voluti studiare e la terapia nemmeno ipotizzare. Si dice che il caso Tortora sia sempre attuale. È vero. Ma l’attualità è degna del caso Tortora? È degna della sua grande e nobile battaglia per la giustizia giusta, che fu anche di Marco Pannella e dei Radicali? A seguito delle nefandezze della procura di Napoli con Felice Di Persia e Lucio Di Pietro, c’era un Paese in grado di reagire e interagire. C’erano fior di quotidiani che scrivevano malvagità, infamie, con la firma anche di autorevoli giornalisti, ma che venivano letti e dibattuti. All’epoca c’erano Leonardo Sciascia, Enzo Biagi, Giorgio Bocca, intellettuali capaci di “sporcarsi le mani”: chi c’è oggi? Marco Travaglio! Il direttore del maggior quotidiano governativo, il quale - consumata la sua dose di garantismo per sé stesso e per qualche amico - etichetta tutti come colpevoli. A prescindere da ogni principio giuridico. E lo fa con la sicumera di chi - tronfio del proprio pensiero - non accetta critiche e repliche. Oggi abbiamo i social che intossicano il Paese: parole e immagini che uccidono la dignità, la reputazione, il buon nome di chicchessia e che sfociano nella sguaiatezza delle inchieste televisive. Programmi popolari e pomeridiani, rivolti alla famosa casalinga di Voghera che assunte la verità mediatica come verità vera. E così l’esortazione volterriana “calunniate calunniate, qualcosa resterà” diventa indispensabile, un “must”. E di conseguenza, il garantismo non è più negoziabile. Abbiamo una politica penale che vuole le carceri sempre più piene e gli avvocati sempre più silenti e sottomessi, perché, come dice il ministro Bonafede, non ci sono innocenti che vanno in carcere, ma - come precisa Pier Camillo Davigo - “solo colpevoli che la fanno franca”. Una politica che vuole i processi da remoto, violando il diritto alla difesa, che vuole abolire la prescrizione (un male necessario) violando il principio costituzionale della ragionevole durata del processo. Insomma, nonostante gli anni Ottanta abbiano siglato la vergognosa vicenda del maxi blitz napoletano, vero caso di macelleria giudiziaria, oggi mancano quelle munizioni capaci di neutralizzare questo diffuso populismo giustizialista. Banalizzando: se nell’87 ci avessero fatto il tampone sul giustizialismo saremmo risultati negativi. Non a caso in quell’anno il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati fu vinto con oltre 1’80% di sì, non a caso qualche anno prima lo stesso Tortora, agli arresti domiciliari e in attesa di giudizio, fu eletto al Parlamento Europeo con oltre 500mila voti di preferenza. Esprimendo, così, anche un giudizio di innocenza. Oggi quello stesso tampone risulterebbe positivo al virus del giustizialismo, perché mancano gli anticorpi, manca la cultura. Manca la politica. Oggi mancano Tortora, Pannella, portatori sani di quella sacrosanta battaglia per la giustizia giusta. Oggi manca il coraggio della politica di convocare intorno a un tavolo tutte le parti in causa, magistratura, avvocatura e - perché no - media, per la gestazione di una riforma non più rinviabile, destinata a ristabilire gli equilibri democratici e costituzionali. Oggi manca al Ministero della Giustizia una donna come Teresa Bellanova, capace di commuoversi per aver ottenuto una legge che difende il diritto e la legalità. Giuliano Ferrara nella prefazione del libro che raccoglie le lettere inviate dal carcere. scrive: “... ogni tanto penso che morendo di passione e di dolore il tuo Enzo ha perso tutto, e si è perso a tutti, ma ha guadagnato l’oblio su quel che sarebbe accaduto”. E a noi che invece viviamo “quel che sarebbe accaduto”, con ancora maggiore tristezza, ricordiamo che sono passati 32 anni dalla morte di Enzo Tortora e 4 da quella di Marco Pannella e che, semplicemente, ci mancano. Lo scudo penale sui contagi da Covid è una bufala: anche l’Inail lo conferma di Massimo Franchi Il Manifesto, 16 maggio 2020 La richiesta di impunità di Confindustria. “Dare copertura al lavoratore va distinto dalla responsabilità penale del datore”. È la regola del pendolo. Finché la paura di morire e ammalarsi dominava i ragionamenti dell’opinione pubblica gli infermieri erano eroi, si piangeva per le cassiere e i postini che morivano essendosi beccati il Covid-19 sul lavoro. E ci si indignava per i rider e gli addetti della logistica e di Amazon che si contagiavano perché sprovvisti di mascherine. Ora che è tutto un “Aprire subito perché sennò si muore di fame”, di chi si ammala non frega più niente a nessuno e anche le grandi multinazionali gridano allo scandalo e chiedono uno “scudo penale” contro il rischio di essere chiamate a rispondere di contagi-infortuni sul lavoro dovuti al mancato rispetto delle prescrizioni di legge. L’obiettivo di Confindustria però è più alto e neanche tanto celato: sfruttare il vento contrario alla burocratizzazione per ridiscutere tutto il Testo unico sulla sicurezza sul lavoro, avendo mani libere per non poter mai essere responsabile di infortuni e morti. Da ormai una settimana i giornali vicini agli industriali portano avanti una martellante campagna, naturalmente subito colta dai loro amici di Italia Viva: “Gli imprenditori hanno già abbastanza problemi, non possono rischiare di essere trascinati in tribunale”, dichiarava ieri il capogruppo renziano al senato Davide Faraone. Solo il manifesto, citando il giudice di Corte di cassazione Roberto Riverso, ha spiegato come si trattasse di una bufala totale: il decreto Cura Italia ha previsto infatti una depenalizzazione della responsabilità penale dei datori di lavoro ed anzi li ha esentati dall’aumento dei premi Inail previsti nel caso di aumento di infortuni nella propria azienda. Ieri lo ha confermato - sebbene con una nota degna di circonlocuzione - la stessa Inail. Se qualche giorno fa il suo direttore generale Giuseppe Lucibello si era detto favorevole allo scudo penale, l’istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro ha dovuto precisare che “i criteri applicati per l’erogazione delle prestazioni assicurative ai lavoratori che hanno contratto il virus sono totalmente diversi da quelli previsti in sede penale e civile, dove è sempre necessario dimostrare dolo o colpa per il mancato rispetto delle norme a tutela di salute e sicurezza”. “La nota Inail è molto chiara - commenta il giudice Riverso - e riprende una base del diritto: dallo stesso fatto - il contagio per Covid-19 - possono ricadere conseguenze diverse dal punto di vista assicurativo, civile e penale. L’accordare al lavoratore copertura Inail non significa che ci sia responsabilità penale del datore di lavoro”. La campagna di stampa per lo scudo penale alle imprese si basa infatti sull’articolo 42 della legge di conversione del Cura Italia (legge 18/2020) che “ha previsto come la contrazione del virus dia luogo ad infortunio piuttosto che a malattia - continua Riverso. Ma ciò è stabilito solo ai fini della sua protezione indennitaria nell’ambito del sistema dell’assicurazione obbligatoria Inail e non si occupa della responsabilità datoriale. Per perseguire penalmente un’infezione da coronavirus contratta sul lavoro - osserva Riverso - non c’è alcuna necessità di verificare se essa dia luogo ad una malattia piuttosto che ad un infortunio professionale. La lamentazione di parte datoriale tende a ottenere un più generale salvacondotto rispetto alla eventuale sottoposizione alle normali azioni civile e penali. Una richiesta di protezione che è totalmente ingiustificata dal momento che già i principi in vigore e la loro prassi applicativa non consentono di condannare nessun imprenditore per omicidio o lesioni colpose quando egli rispetta le regole precauzionali. Il fronte datoriale agita questioni strumentali, inesistenti, che nascondono la realtà e che mirano ad ottenere un privilegio incostituzionale”, conclude Riverso. Anche la Cgil commenta la nota Inail che “riafferma i corretti profili di responsabilità nel contesto dell’epidemia, già presenti e ben consolidati nel nostro ordinamento e nel testo Unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Comprendiamo che la nota sia stata determinata da campagne a volte strumentali, ma è stato opportuno farla”, sottolinea la segretaria confederale Rossana Dettori. La Cgil si dice invece “sorpresa” dalla dichiarazione del presidente dell’Inail Franco Bettoni - “per riconoscere l’infortunio si richiede documentazione molto precisa dell’occasione e modalità del contagio” - e chiede “all’Inail di essere coerente con il meccanismo di presunzione semplice con un riconoscimento pressoché automatico annunciato appena dopo il Cura Italia”. Marche. “La parola ai detenuti”, nasce il coordinamento regionale dei giornali in carcere regione.marche.it, 16 maggio 2020 Un giornale dalla copertina rossa, per raccontare le vite e le speranze che ci sono dietro le sbarre di un carcere. Si intitola “Ci siamo anche noi” l’edizione speciale che mette insieme le esperienze editoriali nate all’interno del carcere, capofila la casa di reclusione di Fermo con ‘L’Altra chiave news’ con la responsabile Angelica Malvatani che ha coinvolto la redazione di Pesaro con ‘Penna libera tutti’, Ancona Montacuto con ‘Fuori riga’ e Fossombrone con ‘Mondo a quadretti’. È il primo risultato del coordinamento dei giornali supportato dalla Regione all’interno del progetto ‘La parola ai detenuti’, 10 mila euro per il 2017, 13 mila per il 2018 per incentivare l’attività di giornalisti e volontari che riescono a dare voce ai detenuti e costruire progetti di legalità destinati alle scuole. L’assessore al Bilancio Fabrizio Cesetti parla di un impegno che rientra nell’ambito della legge regionale 28/2008, di supporto alle fragilità e per sostenere tutte quelle attività che possono gestire i soggetti che a vario titolo sono destinatari di provvedimenti restrittivi, di carattere preventivo o definitivo. L’obiettivo è consolidare il ponte che ci deve essere tra gli istituti di pena e la società esterna, da consolidare perché è la precondizione affinché l’espiazione stessa abbia un senso, per tendere alla rieducazione dei soggetti condannati e al loro reinserimento. Il dirigente Giovanni Santarelli ha sottolineato che in 18 anni la Regione ha destinato risorse per 6 milioni di euro per attività di supporto agli istituti marchigiani, per sostenere i giornali, per le attività teatrali, per la gestione delle biblioteche e di ogni attività che potesse ricostruire un percorso di vita interrotto. Importanti anche i progetti di gestione dei crimini particolari come quelli dei sex offender ma anche il servizio di mediazione dei conflitti, per provare a conciliare l’autore del reato e la vittima. Le esperienze editoriali sono fondamentali all’interno degli istituti di pena, lo ha ribadito Marco Bonfiglioli, dirigente del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria di Emilia Romagna e Marche: “Il sogno sarebbe pensare che si parli di carcere non solo quando ci sono fatti eclatanti di cronaca ma anche nella normalità perché quella dobbiamo presidiare, le esperienze dei giornali sono utili ponti per abbattere pregiudizi e difficoltà, per costruire ponti e dare possibilità di recupero alle persone. L’impegno deve essere quello di assicurare progetti di lavoro e supporto abitativo a chi prova a ricostruirsi dopo un periodo in carcere”. Il progetto di coordinamento dei giornali è stato presentato dall’Ambito sociale XIX di Fermo, coordinato da Alessandro Ranieri, il sindaco di Fermo Paolo Calcinaro si è detto orgoglioso del lavoro fatto, soprattutto nella costruzione di rapporti stabili con le scuole, progetti reali di educazione alla legalità. La direttrice del carcere di Fermo, Eleonora Consoli, con il responsabile dell’area tratta mentale Nicola Arbusti e l’operatrice Lucia Tarquini, hanno sottolineato il valore degli incontri periodici nella redazione del carcere, con i detenuti coinvolti che si sentono responsabili di un progetto dalle forti valenze educative. Ogni redazione lavora con una media di dieci detenuti alla volta, negli anni centinaia le persone coinvolte nel raccontare storie, sollevare problemi, parlare per risolvere. Le conclusioni sono del Garante dei Diritti, Andrea Nobili, secondo il quale il nostro territorio nonostante le difficoltà riesce a dare risposte di sistema. C’è un dialogo che in altre regioni non si esprime allo stesso livello. È l’esempio di quello che si può fare in ambito carcerario, la rete delle redazioni carcerarie ha un valore aggiunto nel fare sistema. Milano. Scarcerazioni, la presidente della Sorveglianza: “Abbiamo solo seguito la legge” di Salvatore Garzillo milano.fanpage.it, 16 maggio 2020 Nel solo distretto di Milano sono state 1.200 le scarcerazioni dall’inizio dell’emergenza. Il Covid-19 è il vero decreto svuota-carceri? A leggere i numeri sembra proprio di sì ma la questione non è così semplice. Il coronavirus ha svelato tutte le falle del sistema carcerario italiano, i problemi (a partire dal sovraffollamento), le polemiche (per la scarcerazione dei boss al 41 bis) e le ipocrisie (il diritto alla risocializzazione negato ad alcuni detenuti “speciali”). “La verità è che non si può stabilire per nessuno che debba espiare tutta la pena in carcere fino alla morte, questo è il succo giuridico del discorso”, commenta a Fanpage.it Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano ed ex membro del Consiglio Superiore della Magistratura. “La questione dei 41 bis è molto complessa ma bisogna uscire da questa macedonia disinformativa e capire che è stata solo applicata la legge. Niente di più”. Il Tribunale di Sorveglianza è una creatura strana, lavora per la maggior parte del tempo nell’ombra salvo poi diventare il centro dell’attenzione mediatica al primo problema che coinvolge il mondo-carcere. Eppure è fondamentale perché da qui passano le decisioni sulle misure alternative e l’ultima parola sulle scarcerazioni. “Noi facciamo la giustizia ‘buona’, e con questo non intendo dire che ce n’è anche una cattiva, semplicemente che interveniamo quando la condanna è stata già emessa e quindi al massimo possiamo migliorare la condizione di una persona - continua Di Rosa, che ci accoglie in un tribunale di Milano ancora spettrale per le misure di distanziamento - Tenga presente che le condanne a volte arrivano anche a distanza di 10-15 anni dal fatto. È un tempo in cui le persone cambiano, e sta a noi cogliere quel cambiamento e decidere sulla misura adatta al condannato”. Finché si parla di un piccolo furto tutto è chiaro e condivisibile, la situazione si complica quando il protagonista è un boss al regime di 41 bis, il cosiddetto carcere duro. Nelle ultime settimane quasi 400 detenuti in questo stato, in tutta Italia, hanno beneficiato della scarcerazione per vari motivi legati al rischio di contagio da Covid-19. Anche reggenti di clan, capibastone di ‘ndrangheta e padrini di mafia. “Al 41 bis ci sono tutte persone estremamente anziane e molte con problemi di salute gravi che non sempre possono essere gestiti in carcere - prosegue il presidente Di Rosa - Teorizzare che non si possa mai intervenire in queste situazioni vuol dire rivalutare la legge esistente. Il 41 bis è una scelta legislativa nella cornice costituzionale e, con questa Costituzione vigente, è previsto che lo Stato tuteli il diritto alla salute di queste persone. Ma è sempre stato così, ben prima del Covid”. Sono circa 30 i casi di detenuti positivi al Covid, un numero davvero basso se consideriamo le condizioni di sovraffollamento delle celle e la promiscuità continua. Un risultato, forse, merito proprio di quelle scarcerazioni che hanno alleggerito le tensioni scoppiate all’inizio di marzo nei vari penitenziari. “Il 9 marzo mi trovavo a San Vittore quando è scoppiata la rivolta - racconta per la prima volta Di Rosa - Ero lì proprio per una riunione sul coronavirus quando ho sentito battere sulle porte delle celle, poi urlare e infine puzza di fumo. In pochi minuti è scoppiato l’inferno. Ho visto gente salire e scendere dal tetto, c’erano capi che guidavano l’azione e richiamavano altri. Mi è sembrato tutto così irragionevole, la problematica del Covid era sullo sfondo, una scusa. Poi, dopo tantissime ore di dialogo, si sono arresi”. La mattina di sabato 28 marzo un incendio ha distrutto il settimo piano del tribunale milanese. Il rogo è partito dalla stanza del gip e si è rapidamente allargato a quelle adiacenti, tra cui l’ufficio del Tribunale di Sorveglianza, distruggendo un numero indefinito di atti e costringendo a correre ai ripari in una situazione lavorativa già compromessa dall’emergenza. C’è un’indagine in corso per accertare le cause, al momento sembra si sia trattato di un cortocircuito. Di Rosa e i suoi collaboratori si sono trovati d’un tratto senza “casa”, hanno raccolto tutto ciò che era sopravvissuto a fiamme e fumo e si sono trasferiti al piano terra, in un’aula normalmente utilizzata per i processi. Migliaia di fascicoli sono appoggiati sulle panche, 3-400 cartelline verde riguardano le liberazioni anticipate. In fondo campeggia la scritta “la legge è uguale per tutti”. “È un’aspirazione ideale a cui bisogna assolutamente tendere. Ma le storie non sono uguali per tutti. Ci sono storie di persone che sono arrivate in condizioni di marginalità sociale da cui è derivata la marginalità che ha portato al crimine. Bisogna dare interpretazione a quell’essere ‘uguale per tutti’, per tutti coloro che sono nelle stesse condizioni. Che non è un tutti assoluto. Ecco - conclude il magistrato - la legge sarebbe uguale per tutti”. Parma. L’avvocato di Cutolo: ma il giudice ha avuto la relazione della Ausl? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 maggio 2020 Partito un esposto alla Procura da parte dell’avvocato di Raffaele Cutolo, recluso al 41 bis del carcere di Parma, dopo l’esclusiva de Il Dubbio che ha reso pubblici alcuni passaggi del documento della Ausl locale che dipinge il penitenziario parmense ad “alta complessità sanitaria”. L’avvocato Gaetano Aufiero chiede alla Procura di aprire un’indagine per omissioni d’atti di ufficio per accertare, se nel corso dell’istruttoria per la decisione sulla detenzione domiciliare per motivi di salute a Cutolo, sia stata inviata la nota dell’Ausl relativa ai pazienti critici del carcere parmense. Ma andiamo con ordine. Molti sono i passaggi del documento della Ausl dove viene evidenziata una presunta inadempienza da parte della precedente amministrazione penitenziaria sulla collocazione di alcuni detenuti al centro clinico (ora denominato Sai) del super carcere di Parma. Un documento dove viene indicata una lunga lista di persone over settantenni e con varie patologie che sono “curate” nelle sezioni “comuni” e non nel Sai (Servizio di assistenza integrata - ex centro clinico), tanto che la stessa Ausl consiglia di valutare un differimento pena per la tutela della loro salute. C’è una prima lista, la più urgente, che è composta da 51 nominativi classificati a rischio per l’età e presenza di importanti comorbidità (la coesistenza di più patologie diverse in uno stesso individuo ndr). Tra i nomi compare anche Raffaele Cutolo al quale, com’è noto, è stata recentemente rigettata l’istanza per la detenzione domiciliare richiesta per le sue drammatiche condizioni di salute. Ed è proprio su questo punto che il legale di Cutolo, l’avvocato Aufiero, chiede che siano svolte immediate e mirate indagini finalizzate a verificare se, nell’ambito del procedimento di sorveglianza conclusasi con il rigetto, sia stato consumato il reato di omissione in atti di ufficio. Su che base si fonderebbe questa denuncia? Nel decreto di rigetto (in data 12 maggio) viene riportato il dato secondo il quale il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), con comunicazione del 9 aprile, evidenziava che “nell’ambito del circuito 41 bis non vi sono strutture con presidi sanitari in grado di assicurare al detenuto standard assistenziali più elevati rispetto a quelli garantiti presso la Casa di Reclusione di Parma”. In sostanza il Dap ha espresso un giudizio di piena idoneità dell’Istituto penitenziario di Parma a fronteggiare le patologie sofferte Cutolo. Peccato però che il documento della Ausl locale di Parma - datato 24 marzo e quindi prima della nota del Dap - dice tutt’altro. Ma nel decreto del rigetto non se ne fa menzione. Per questo l’avvocato sollecita una indagine, da parte della Procura, per verificare se tale documento della Ausl sia stato messo a disposizione del magistrato (in quel caso, non si profilerebbe alcun reato). Se risultasse che la trasmissione della nota non è avvenuta, si prefigurerebbe una omissione atti d’ufficio, reso ancora più grave dal fatto che si parla del diritto alla salute. Come già anticipato da Il Dubbio, oltre a segnalare presunte inadempienze da parte dell’allora amministrazione penitenziaria, l’azienda sanitaria locale ha segnalato che numerosi detenuti sono collocati in maniera inappropriata nelle sezioni comuni che, per condizioni cliniche, sarebbero invece candidabili ad un posto letto del centro clinico. In sintesi, la valutazione della Ausl sembrerebbe in netto contrasto con quanto invece evidenziato dalla nota del Dap menzionata nel decreto del rigetto. Secondo l’avvocato Aufiero, la trasmissione della nota dell’Ausl al magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia è doverosa in ragione del fatto che l’istanza presentata nell’interesse di Cutolo si fonda sulle sue condizioni di salute e sulla idoneità del carcere di Parma per fronteggiarle. Ma è stata trasmessa o no al magistrato di sorveglianza? Solo una indagine potrà risolvere questo enigma. Nel frattempo il 29 maggio ci sarà la discussione del provvedimento di rigetto presso il tribunale di sorveglianza di Bologna. Sicuramente non passerà inosservata la nota della Ausl che racconta una storia diversa quanto riferito dal Dap. Roma. Città Metropolitana, Gabriella Stamaccioni nuova Garante dei detenuti cinquequotidiano.it, 16 maggio 2020 La Sindaca della Città metropolitana di Roma Capitale, Virginia Raggi, con decreto del 27 aprile 2020 ha nominato il Garante delle persone limitate nella libertà personale nel territorio della Città metropolitana di Roma Capitale. L’incarico, in forma associata con Roma Capitale, è stato affidato alla Dr.ssa Gabriella Stramaccioni, che ricopre l’incarico per Roma Capitale dal 2017. A supporto delle attività del Garante, figura centrale per la tutela dei diritti dei detenuti e promotrice di attività di reinserimento lavorativo e sociale, è stato individuato l’ufficio di riferimento all’interno del Segretariato Generale della Città metropolitana. Al Garante dell’ente metropolitano non spetta alcuna indennità al di fuori di quella prevista da Roma Capitale. Il decreto, n. 45 del 27.4.2020, è pubblicato all’albo pretorio dell’ente metropolitano fino al 19.05.20. Bergamo. Nella Casa Circondariale 387 detenuti, mai un numero così basso ecodibergamo.it, 16 maggio 2020 L’effetto “svuota carceri” a Bergamo: zero contagi. 387 Detenuti alla Casa Circondariale di Bergamo, mai un numero così basso nell’ultimo ventennio. L’emergenza coronavirus ha determinato scelte difficili, ma anche necessarie per evitare di ritrovarci in una situazione ancora più grave. E così il discusso decreto svuota carceri ha permesso di riorganizzare le presenze nelle celle e dove è stato possibili, ma soltanto se c’erano i requisiti, di procedere con misure alternative al carcere. Il risultato non è stato solo numerico, meno detenuti nella struttura penitenziaria, ma anche di effetti importanti: ad oggi zero contagi. Sassari. Carcere di Bancali, riprendono visite ai detenuti La Nuova Sardegna, 16 maggio 2020 Entro la fine del mese riprendono i colloqui dei detenuti con i familiari nel carcere di Bancali che erano stati sospesi quando è scattata l’emergenza Covid-19. La notizia è stata anticipata dal Garante per la tutela dei diritti delle persone private della libertà Antonello Unida. Le visite dei familiari riprenderanno nel rispetto di alcuni misure imposte direttamente dal Ministero: distanziamento sociale, nella sala colloqui non potranno entrare più di 16 persone, un solo familiare per detenuto. Abbracci vietati. Per i parenti che entreranno a Bancali, “sarà allestito un triage (una tenda), dove verrà monitorato lo stato di salute. Invece già da tempo esiste - grazie alla Protezione civile di Uri -, una tenda per i nuovi ingressi, e una sezione appositamente riservata a coloro che devono osservare un periodo di quarantena di 14 giorni”, ha concluso il Garante. E a proposito di emergenza Covid, ieri è intervenuto il delegato nazionale per la Sardegna del Sappe Antonio Cannas, in riferimento proprio alla situazione del carcere di Bancali. “Ci sono decine di poliziotti che non sono stati coinvolti e che neppure hanno sentito parlare di tamponi e analisi sierologiche. Noi ci auguriamo, ovviamente, che Bancali sia Covid free, ma come si può affermare che non c’è stato alcun poliziotto o detenuto positivo se ci sono decine di casi di persone che non sono state sottoposte a test? A cosa serve fare arrivare questi messaggi se ciò non è vero?” E Donato Capece, segretario generale del Sappe, denuncia i ritardi sulla prevenzione e contrasto del Covid-19 in carcere: “La realtà è che non ci sono stati sufficienti dispositivi di protezione quando servivano, ossia a ridosso della pandemia. Ci sarebbero stati se si fosse raccolto per tempo il nostro appello a dotarne tempestivamente il Corpo di polizia penitenziaria. Scoppiata la pandemia, infatti, ci siamo trovati nella difficoltà di avere a disposizione mascherine, guanti, occhiali, sovra scarpe ed ogni altro Dpi utile. E quando sono arrivate le prime mascherine c’è persino stata qualche direzione che ha detto agli agenti di non indossarle, per non spaventare i detenuti”. Verona. Il flash mob online degli avvocati “Vogliamo tornare in udienza” di Laura Tedesco Corriere di Verona, 16 maggio 2020 Aperta anche una pagina Facebook: mascherine e cartelli “contro il lockdown dei tribunali”. Il capofila della protesta: “Chiediamo solo di poter lavorare”. “Fate ripartire i processi”. Contro il lockdown della Giustizia, la protesta degli avvocati veronesi viaggia on line e in poche ore è già diventata virale. Un flash mob con un video postato sul web, a cui in meno di due giorni hanno aderito in 148, che “ci hanno messo la faccia” con tanto di mascherine, colonna sonora (“Don’t worry, be happy”) e cartelli per far sapere a tutti che “vogliamo tornare in udienza”. Ideatore e capofila dell’iniziativa è l’avvocato Stefano Gomiero: “La nostra - mette subito in chiaro - non è una protesta “contro” qualcuno, bensì “per” qualcosa. E il nostro scopo è unicamente quello di poter ricominciare a fare il nostro lavoro, di poter riprendere a dare giustizia ai cittadini che la aspettano senza sapere quando la potranno finalmente avere, di sbloccare la paralisi che da marzo affligge tutti i tribunali d’Italia”. Verona non fa eccezione: in questa “fase 2 della Giustizia” alle prese con l’emergenza Covid, si stanno trattando quasi esclusivamente i procedimenti che riguardano detenuti e soggetti con misure cautelari in corso. Per la stragrande maggioranza delle udienze, quelle che prevedono la presenza di testimoni in aula, i giudici stanno rinviando al 2021, se non addirittura oltre. “È tutto bloccato, tutto fermo” accusano i penalisti, sia alla sezione gip che in quella dibattimentale: fino al 31 luglio, di fatto, si potranno celebrare unicamente le udienze che prevedono la sola discussione, quelle del Riesame reale e quelle con incidenti di esecuzione. E solo “evitando assembramenti e con le dovute cautele”. Il risultato, però, è che “così salta la quasi totalità dei processi - obiettano gli avvocati scaligeri -. È giusto proteggere la salute pubblica, ma adesso che tutte le attività stanno riaprendo dopo oltre due mesi di stop nazionale, i tribunali non posso restare ancora fermi. Uno Stato non può chiamarsi tale se abdica, di fatto, alla funzione giurisdizionale; basta con le udienze da remoto; vogliamo ritornare nelle aule e ricominciare a lavorare per garantire i diritti dei nostri clienti”. Per questo, hanno anche aperto una pagina Facebook: “Ritorniamo in udienza!”, è il motto del gruppo, che ieri, nel primo giorno di attivazione, ha fatto il pieno di “like” e visualizzazioni. Aggiunge l’avvocato Gomiero: “Siamo stanchi di sentirci dire di non preoccuparci che andrà tutto bene, la nostra è una spontanea iniziativa gioiosa per tornare quanto prima a lavorare. Perché noi legali non possiamo farlo e, per esempio, le cassiere invece sì? - chiede. Abbiamo mutui, figli, dipendenti e finché non torneremo attivi non ricominceremo a guadagnare. E poi, lo ripeto, non possono rimanere sospesi i diritti e gli interessi dei nostri assistiti per così tanto, troppo tempo”. Anche perché, esaurita la “Fase 2”, dal 31 luglio scatterà la pausa estiva e il tribunale si rimetterà in moto solo da settembre. A conti fatti, dunque, il “lockdown della Giustizia” rischia di protrarsi per oltre sette mesi. Con l’incubo che, in autunno, il virus possa tornare e scatti una nuova serrata: di qui, l’appello dei legali veronesi a “farci riprendere a lavorare subito, nell’interesse dei diritti dei nostri assistiti. Con la toga nelle spalle e nel cuore”. Genova. “Con la tecnologia abbattiamo le distanze tra figli e genitori detenuti” Vita, 16 maggio 2020 Progetto “La Barchetta rossa e Zebra”. Come cambia la relazione tra un bambino e il genitore detenuto? Quali nuove paure e fragilità emergono con l’emergenza Covid19 e come si fa fronte a questa ennesima distanza? Il progetto “La Barchetta Rossa e la Zebra” nella Casa Circondariale Marassi di Genova, risponde a queste nuove fragilità promuovendo per i detenuti incontri via Skype con educatori, formatori ed assistenti sociali. Non hanno il telefono. E in questi mesi di emergenza mentre schizzavano i numeri delle persone contagiate dal Coronavirus, in loro schizzava anche la paura: “Come sta mio figlio? E mia moglie? O i miei familiari?”. E allo stesso tempo per chi stava fuori si faceva largo la stessa paura per quel padre, compagno e a sua volta figlio detenuto. L’emergenza Coronavirus è una paura condivisa, ci ha resi tutti più fragili. Ma sarebbe una bugia dire che è stata difficile per tutti allo stesso modo. Si dice che un bimbo con la mamma o il papà in carcere sia “un bimbo con un segreto”. Il genitore in prigione diventa, nelle parole del bambino, “malato”; “in viaggio”; “assente per lavoro”. “La Barchetta rossa e la Zebra” è un progetto genovese di Rete che coinvolge il Privato Sociale e le Istituzioni Pubbliche ed è sviluppato in sinergia con l’Amministrazione penitenziaria locale e dell’esecuzione penale esterna e con il Comune di Genova. È finanziato dal Bando Prima Infanzia (0-6 anni) ed approvato dall’Impresa Sociale Con i Bambini. Il Cerchio delle Relazioni è capofila del Progetto coordinato, in prima linea, dalle Associazioni territoriali genovesi del Terzo Settore: la Cooperativa Sociale Il Biscione, Veneranda Compagnia di Misericordia, il Centro Medico psicologico pedagogico LiberaMente, Arci Genova e Ceis Genova. La Fondazione Francesca Rava N.P.H. Italia Onlus, a cui è stata affidata l’opera di riqualificazione delle aree dedicate all’incontro dei bambini con i genitori detenuti nelle due Case Circondariali, è partner e promotore del Progetto. L’obiettivo della “Barchetta Rossa e la Zebra” è duplice: da una parte, favorire e rafforzare la relazione dei figli che hanno un genitore in carcere o sottoposto a misure penali alternative. Dall’altra, promuovere la cultura della centralità indiscussa del bambino che, improvvisamente, si trova a vivere in una dimensione adulta e critica come quella carceraria. “In questo periodo di grave emergenza sanitaria e di distanza sociale”, spiega Elisabetta Corbucci, coordinatrice Cerchio delle Relazioni, “la relazione tra figli e genitori detenuti è stata messa particolarmente a dura prova. Proprio in questo difficile scenario abbiamo scoperto e sperimentato, per la prima volta, l’importanza strategica della tecnologia quale mezzo essenziale per salvaguardare, mantenere e consolidare le relazioni. Paradossalmente, la distanza imposta dall’emergenza Covid-19, ha fatto provare anche agli operatori il disagio provocato dalla rarefazione dei contatti, dal non sapere, dall’incognita del futuro. Spero ci abbia reso operatori migliori”. Dopo una prima fase del Progetto che prevedeva la ristrutturazione di alcuni spazi, la seconda fase, dove i bimbi possono attendere il momento del colloquio in un ambiente bello, sereno, adatto alla loro esigenze, prima che scoppiasse l’emergenza era in atto una terza fase che fa da collante tra le prime due dove si sono organizzati dei momenti di formazione per i genitori detenuti, per gli assistenti sociali, e per la polizia penitenziaria per spiegare qual è la strada più idonea per entrare in relazione con i minori che vivono un momento delicato del loro percorso di crescita accentuato dall’assenza di uno o di entrambi i genitori. Con il diffondersi del Coronavirus il progetto, pur andando avanti, ha dovuto rivedere le modalità di lavoro e far fronte a quelle nuove paure e fragilità che nelle carceri si sono amplificate. “Il momento della separazione”, spiega Livia Botto coordinatrice del lavoro degli operatori, “è diventato ancora più pesante. Più drammatico. Il lavoro sui genitori mira proprio a rafforzare le competenze genitoriali “recluse” e a far chiarezza sulle zone d’ombra: “cosa penserà mio figlio di me? Sarò ancora autorevole? fin dove e cosa, posso raccontare a mio figlio?” Queste domande che ogni genitore si pone, se affrontate nella solitudine, generano una situazione di ansia che a sua volta è portata in sede di colloquio con i figli, innescando un ingorgo nella comunicazione che in molti casi viene poi interrotta dall’una o dall’altra parte. Il grande merito del progetto Barchetta nei confronti dei bambini, io credo, è quello di rimettere al centro il tema della cura, dell’attenzione e dell’ascolto dei bambini figli di detenuti. È un progetto di accoglienza in un luogo le cui inevitabili regole risultano respingenti e spaventose per i più piccoli”. L’emergenza Coronavirus tutto si è amplificato. “Già da prima quello che ogni genitore libero poteva fare (e spesso dava per scontato)”, spiega Botto, “per il genitore detenuto è interdetto: sa che un figlio, per esempio, è malato, non può però sapere se è guarito o è peggiorato se non con la telefonata programmata o il colloquio, quindi possono passare giorni. Se, alla base, la capacità genitoriale del genitore recluso (al di là del comportamento deviante) è buona o anche molto buona, il carcere devasta la relazione innescando sentimenti di abbandono nel bambino e auto-colpevolizzazione nell’adulto che spesso non vengono affrontati né tantomeno risolti. Nel caso di genitori fragili e poco “attrezzati” a crescere il proprio figlio, talvolta la carcerazione è l’evento che interrompe il rapporto. Il lavoro sull’adulto non è quindi finalizzato ad un generico benessere del genitore, ma fortemente incentrato a restituire al minore un genitore il più possibile capace di interloquire con lui”. “In questa emergenza”, aggiunge Mariavittoria Rava, Presidente Fondazione Francesca Rava e Project Manager del Progetto, “La Barchetta rossa e la Zebra si è dimostrata, ancora una volta, un solido Progetto di Rete. Sin dalle prime ore del lockdown, infatti, i Partner si sono attivati in maniera tempestiva e concreta per consentire ai bambini e ai loro genitori detenuti di poter trovare soluzioni efficaci per restare in contatto e non vanificare il lavoro fatto sulla relazione genitoriale prima di questa grave emergenza”. Non si sono fermati né i colloqui né la formazione alla genitorialità “Nella Casa Circondariale Marassi”, racconta Livia Botto, “abbiamo messo in piedi un sistema di incontri via Skype. Le modalità sono le stesse di quelle utilizzate prima dell’emergenza: incontri frequenti e approccio multidisciplinare, educatori, assistenti sociali, formatori. Solo tutto è stato spostato su una piattaforma digitale. C’è bisogno ancora di più di sostenere la genitorialità in questo momento così difficile sia per i detenuti che per i loro figli”. Il progetto ad oggi ha aiutato circa 152 nuclei familiari e 145 minori (fascia 0-6). E nelle ultime settimane ha incrementato il suo impegno anche all’esterno delle carceri: “Sosteniamo anche le famiglie dei detenuti e i loro figli”, spiega Botto. “In questi giorni però, insieme ai percorsi classici che stavamo seguendo, ci siamo accorti che sono necessari moltissimi interventi di tipo “pratico” come supportare la famiglia in tutti i passaggi burocratici per la richiesta di un sostegno economico di cui possono essere beneficiari”. Proroga dell’emergenza ambigua, il Colle “persuada” Conte a non farlo di Massimo Villone Il Manifesto, 16 maggio 2020 La fase in avvio il 18 maggio vede un deciso cambio di passo. A quel che si apprende, si abbandona la strategia dei Dpcm, i decreti del presidente del Consiglio dei ministri, per passare ai decreti-legge, lasciando le scelte concrete sul cosa, come e quando riaprire alle regioni. Sostanzialmente, è quel che chiedevano i governatori, minacciando il “faccio da me” su larga scala. Avremmo preferito una scelta diversa. Ma è fatta, e conviene interrogarsi sui problemi nuovi ora posti. Una premessa. Secondo la Costituzione vigente, il garante dei nostri diritti e delle nostre libertà è lo Stato, con i suoi organi costituzionali: Parlamento, Governo, Presidente della Repubblica, Corte costituzionale. Parimenti, lo Stato può comprimere quei diritti e quelle libertà in situazioni previste e per scopi stabiliti: sanità, sicurezza, incolumità pubblica, fini sociali. Segue, ancora, che è responsabilità ultima dello Stato la compressione in emergenza di libertà e diritti. Solo in via derivata e per quanto consentito possono intervenire autorità locali. Fin qui la premessa è stata in sostanza osservata, sia pure con un corposo dubbio sul troppo ampio ricorso ai Dpcm e la parallela emarginazione del parlamento. Ne veniva un regime tendenzialmente uguale per tutti, salvo un più o un meno territorialmente diverso, ma consentito da un atto statale di riferimento. Ora si cambia. La decisione spetta all’autonomia, entro linee-guida determinate da algoritmi. Dall’eguaglianza con limature locali si passa alla diseguaglianza generalizzata, con il minimo comune denominatore dell’algoritmo. In concreto, d’ora in poi, i diritti e le libertà di tutti gli italiani sono rimessi alla decisione delle autorità locali. Non, come sarebbe stato possibile anche in passato, per eventi emergenziali delimitati nello spazio e nel tempo. Ma per una situazione che investe tutto il paese, per un tempo che è impossibile al momento definire. Tutto ha origine nella situazione di emergenza, e può durare fino alla fine della stessa. È perciò essenziale capire cosa l’ultimo decreto-legge cosiddetto “Rinascita” dispone sull’emergenza. Questo giornale ha fatto molto bene a mettere in luce (Andrea Fabozzi, il 14 maggio scorso) il tema della “proroga” per sei mesi delle emergenze in scadenza al 31 luglio 2020. Così dispone l’art. 16 del decreto Rinascita, nella stesura fin qui nota. La formulazione è ambigua, non è chiaro a quali emergenze si riferisca, ed in specie se comprenda o meno anche quella dichiarata per il Covid-19 dal consiglio dei ministri il 31 gennaio 2020. A nostro avviso, non c’è bisogno di disporre con legge per quella emergenza una proroga, possibile già in base alla specifica norma (art. 24 Codice protezione civile) che ne è fondamento. Qualunque proroga in termini ambigui ed incerti crea inevitabilmente il rischio che la compressione di libertà e diritti continui al di fuori dei criteri di necessità e proporzionalità che dottrina e giurisprudenza pongono come parametro insuperabile per la legittimità costituzionale dei limiti, comunque e da chiunque imposti. È dunque comprensibile e giusto che si alzino nel paese attenzione e proteste. L’Osservatorio permanente sulla legalità costituzionale istituito presso il Comitato Rodotà scrive al Capo dello Stato argomentando ampiamente la illegittimità costituzionale dell’art. 16. Lo sollecita ad impegnarsi in via di moral suasion per una correzione. L’invito va condiviso, perché il terreno di libertà e diritti è troppo sensibile costituzionalmente per essere trascinato sul terreno franoso di una norma ambigua nella formulazione e incerta nell’applicazione. Una moral suasion dapprima in via riservata, poi laddove necessario nella forma rafforzata di una lettera di accompagnamento all’emanazione, sarebbe opportuna. In assoluto preferibile sarebbe che Palazzo Chigi, melius re perpensa, correggesse il testo già nella stesura finale del decreto, in corso in queste ore. Espungendo l’art. 16, o correggendolo per chiarirne e limitarne la portata. L’appello a intervenire vale anche per le forze parlamentari. Ma è possibile che nelle Camere si giunga a una questione di fiducia preclusiva di modifiche. Bisogna intervenire prima. Non crediamo a rischi di derive autoritarie e antidemocratiche ad opera del governo in carica. Ma il terreno è sdrucciolevole, ed è bene esser cauti. Come direbbero gli inglesi, better safe than sorry. Migranti. Cpr di Gradisca, silenzi e contraddizioni intorno ai casi di Covid-19 di Marinella Salvi Il Manifesto, 16 maggio 2020 Succede che a inizio marzo un cittadino marocchino, recluso nel Cpr di Gradisca da mesi, nomini un difensore di fiducia per cercare di ottenere un obbligo di dimora; è stanco, e non poco, di restare rinchiuso in attesa di un rimpatrio che appare sempre più lontano e suo fratello, regolarmente in Italia, è ben disposto a ospitarlo. L’udienza per la proroga della detenzione amministrativa viene fissata a ridosso del 25 aprile e l’avvocato vi partecipa determinato a cercare di toglierlo da quella galera dove la noia quotidiana è interrotta soltanto dal rancio riscaldato arrivato, come ogni mattina, da Padova. L’udienza si svolge dentro il CPR, come avviene sempre, in una stanza neanche tanto grande dove si riuniscono tutti: il Giudice di Pace, qualcuno degli uffici interni, altri avvocati. Non dura pochissimo perché l’avvocato le prova tutte per convincere il giudice a lasciare che il suo assistito raggiunga il fratello ma non c’è niente da fare. Non resta che dare la brutta notizia al ragazzo marocchino: parlano, vogliono capirsi bene e meno male che c’è un mediatore culturale a dare una mano. Qualche giorno dopo l’avvocato impara sgomento che il suo assistito è positivo a covid-19. Chi glielo dice? Il fratello del ragazzo che gli telefona allarmato. Nessun altro lo contatta. L’avvocato trasecola: non c’è nulla nel fascicolo sullo stato di salute del suo assistito, nessun esame diagnostico né alcun riferimento a covid-19. Perché nessuno lo ha avvisato? Quando e chi ha rilevato la positività al virus? Cerca di avere più notizie ma il ragazzo marocchino, al telefono, ha capito poco anche lui se non che sì, è positivo a covid-19. Forse gli avevano fatto il tampone il lunedì prima, forse era quell’infermiera gli aveva messo un batuffolino in bocca e lui non aveva capito cosa fosse. Proprio in quei giorni era comparso in televisione l’assessore regionale alla salute Riccardi: “Sono stati confermati tre casi di positività al Covid-19 tra le persone trattenute all’interno del Cpr di Gradisca d’Isonzo. I soggetti si trovano in un’area isolata e non risultano casi di infezione tra le Forze dell’ordine e gli operatori della struttura”. Sembrava una conferma, almeno dei tempi. Ma perché lui, l’avvocato, non aveva saputo subito della contagiosità del suo assistito? E con lui tutti gli altri, tutti quelli che avevano partecipato alle udienze per tutta la settimana, per esempio? Non si capisce. E non si capisce nemmeno quale sia la situazione reale. La sindaca di Gradisca ricorda che c’è già stato un allarme Covid a inizio aprile con un migrante nigeriano arrivato positivo da Cremona. Linda Tomasinsig, in contemporanea all’intervista televisiva di Riccardi, riferisce quello che risulta a lei (dalla Prefettura, dice): “Ieri un detenuto è stato rilasciato per aver terminato il suo periodo di trattenimento. Oggi sono pervenuti i risultati dei tamponi effettuati nei giorni scorsi che hanno rivelato la presenza di cinque positivi tra i detenuti. Tra questi, anche il detenuto già rilasciato. Dopo le ricerche delle autorità è stato rintracciato a Pistoia nel pomeriggio e lì gli è stata notificata la quarantena. La notizia della presenza di cinque detenuti positivi a Covid-19, in aggiunta al caso dello scorso mese, ha alimentato la protesta all’interno della struttura” Vero, gli incidenti, i materassi in fiamme, ci sono stati e si sono ripetuti per un paio di giorni. Poi un altro distinguo arriva da No-Cpr: “Il 24 aprile, da dentro il Cpr ci fanno sapere che ci sono almeno cinque persone positive al Coronavirus. Sono rinchiuse nelle celle comuni, con altri. La Regione dichiara che ci sono tre persone positive in isolamento: è falso. Abbiamo le fotografie. Tutte le persone trovate positive hanno portato i materassi fuori dalle celle, per dormire nelle gabbie all’aperto e non infettare i propri compagni.” Un bel casino, ma le proteste si sono calmate e il problema può essere archiviato. L’avvocato, in quarantena volontaria, raccoglie elementi come può: probabilmente, il 20 di aprile, sono stati fatti i tamponi a tutti i migranti. Probabilmente tutte le risposte sono arrivate il 24. Chi l’ha deciso? Quando? Perché? Perché quella totale mancanza di informazioni? Secondo l’assessore Riccardi è tutto sotto controllo ma, sotto la rassicurazione, alcune domande restano sospese senza risposta. E poi c’è un secondo migrante assistito dal nostro avvocato che risulta positivo al coronavirus: anche questo lo impara a posteriori ma, almeno questa volta, è una notifica che gli arriva dal Cpr. L’ansia aumenta, manco a dirlo: anche con questo era andato a colloquio proprio la settimana precedente. Intanto le informazioni continuano a sbattere una contro l’altra. La sindaca di Gradisca, pochi giorni dopo, scrive su fb: “Ho chiesto alle autorità competenti più sicurezza per chi lavora in questo centro, forze dell’ordine, operatori della cooperativa e della giustizia che gravitano attorno alla struttura, affinché vengano eseguiti i tamponi a tutti. Al momento questo non mi risulta sia stato fatto”. Tamponi fatti, tamponi non fatti, tre positivi, cinque, sei, migranti, polizia, avvocati … l’unica cosa certa è che non si capisce, che come la giri qualcosa non torna. Come funziona la gestione del Cpr? Come funziona l’informazione sui contagi? Chi sa esattamente cosa sta succedendo? L’avvocato ottiene un tampone negativo. Meglio così, ma resta il problema e non è un caso personale. Avviene così che l’avv. Giovanni Iacono (perché questa è una storia vera, ahimè) decide di inviare un esposto alla Procura della Repubblica di Gorizia perché sia questa a valutare “gli eventuali profili d’illiceità penale”. Ci mette la sua faccia, ma fa domande che riguardano tanti: le cose non dette, le contraddizioni, una struttura securitaria e la fitta nebbia che la nasconde. Servono risposte. All’avv. Iacono, ai suoi colleghi, a chi abita o lavora intorno e dentro il Cpr. Ma anche ai migranti, perché no?, non sono mica pacchi da buttare da un carcere all’altro, da custodire e spedire e chissenefrega: sono persone. Turchia. Altri oppositori morti e un testimone ritratta: 18 avvocati sperano nella Cassazione di Ezio Menzione* Il Dubbio, 16 maggio 2020 Come purtroppo era facilmente prevedibile, un terzo musicista, Ibrahim Gokcek, del gruppo musicale turco Grup Yorum è morto il 7 di maggio dopo che due giorni prima aveva deciso di sospendere lo sciopero della fame: era al 323mo giorno di digiuno ed il suo fisico, il suo metabolismo non ce la hanno fatta a riprendersi. Alcuni giornali e notiziari, anche qui da noi, o forse più da noi che in Turchia, ne hanno dato notizia. Lo sciopero della fame era stato sospeso perché il governo aveva concesso al gruppo di riprendere a fare qualche concerto, dopo avere bandito i loro concerti dal 2015. Ma Ibrahim, il chitarrista del gruppo, anche ammesso che il governo mantenga l’impegno dato, non potrà prendervi parte. Ciò che a malapena è trapelato da alcune agenzie di stampa è che la polizia in assetto di guerra il giorno 9 maggio ha fatto irruzione nel luogo di preghiera per i morti (la celevi) del culto alewita, quanto mai inviso ad Erdogan e al suo partito di governo. I presenti sono stati picchiati e dispersi e tre avvocati sono stati fermati e poi, dopo quattro giorni, rilasciati (ma la Procura ha fatto appello): uno di tre è l’avvocata di Ibrahim stesso, Didem Baydar Uysal. La salma di Ibrahim è stata sottratta dalla polizia e trasferita a Kaiseri, città natale di Ibrahim, dove due giorni dopo si sono celebrati i funerali veri e propri, con nuovo intervento violento della polizia. Evidentemente, non c’è pace per gli oppositori del regime, neanche da morti. Didem Baydar Uysal, come si è detto, era difensore di Ibrahim, ma è anche la moglie di Atac Uysal, altro avvocato, detenuto e oggi al novantesimo giorno di sciopero della fame, assieme alla collega Ebru Timtik, questa al centoventesimo giorno di sciopero e al trentaduesimo di “sciopero fino alla morte”, senza integratori né supporti. Ebru Timtik, che appartiene all’Associazione degli Avvocati Progressisti (Chd), ha avuto una condanna a più di 15 anni nel giudizio di merito che la vedeva imputata di terrorismo assieme ad altri 17 colleghi, rei in realtà di avere sempre fatto bene il loro mestiere di difensori. Ora sta aspettando il giudizio di Cassazione. Ma è notizia proprio di ieri che il principale “teste anonimo” che ha suffragato l’ipotesi accusatoria ha ritrattato le sue dichiarazioni (che in due giorni portarono in carcere 43 persone) per essere state estorte con la tortura. “Mi hanno messo in bocca frasi che avevano tutt’altro senso e addirittura dichiarazioni che io non avevo fatto”, ha scritto in una lunga lettera questo “teste anonimo”, spedita prima di trovare rifugio all’estero. La lettera è stata prontamente inoltrata dal presidente del Chd, Selgiuk Kosaacli, anche lui detenuto e condannato, alla Cassazione perché sia allegata al ricorso pendente per tutti i 18 avvocati accusati e condannati. Basterà questa ritrattazione- chiave a ribaltare il risultato del processo di merito e mandare assolti i 18 colleghi condannati a pene che vanno dai 5 ai 18 anni? *Osservatore Internazionale per l’Ucpi Egitto. Come l’Italia arma gli assassini di Giulio Regeni di Umberto De Giovannangeli globalist.it, 16 maggio 2020 Nonostante la repressione e nonostante le bugie sulla morte del nostro ricercatore l’Italia continua a rifornire di armi il regime di Al Sisi. L’Italia arma gli assassini di Giulio Regeni. Incurante che quelle armi finiscono per rafforzare uno Stato di polizia che ha riempito le carceri di oppositori, che fa della tortura una pratica quotidiana. Questo è l’Egitto ai tempi del “faraone” al-Sisi. Pecunia non olet, dicevano i latini, anche se quell’olet è odore di morte. “Riteniamo gravissimo e offensivo che sia stata autorizzata la vendita di un così ampio arsenale di sistemi militari all’Egitto sia a fronte delle pesanti violazioni dei diritti umani da parte del governo di al- Sisi sia per la sua riluttanza a fare chiarezza sulla terribile uccisione di Giulio Regeni. Chiediamo al Governo di riferire il momento del rilascio di tali autorizzazioni per stabilirne la paternità e comunque di sospendere ogni trattativa di forniture militari in corso finché non sia stata fatta piena luce dalle autorità egiziane sulla morte di Regeni”. È questo il primo commento di Rete Italiana per il Disarmo e Rete della Pace ai dati aggregati dell’export militare italiano per il 2019, che le organizzazioni hanno potuto visionare e sono in grado per primi di diffondere e vedono l’Egitto ai vertici della lista di Paesi destinatari. Nei giorni scorsi è stata infatti trasmessa al Parlamento la Relazione governativa annuale sull’export di armamenti (con un grave ritardo rispetto ai termini di legge solo parzialmente derivante dall’emergenza Covid-19, poiché anche l’anno scorso i tempi di pubblicazione sono stati del tutto simili). Tale documento ufficiale è richiesto dalla Legge 185/90 che regola la vendita estera dei sistemi militari italiani e riassume l’attività del comparto industriale della difesa per l’anno scorso. Rete Italiana per il Disarmo e Rete della Pace sono venuti in possesso del capitolo introduttivo di tale Relazione, che viene redatto dalla Presidenza del Consiglio a partire dai documenti elaborati dai singoli dicasteri partecipanti al processo di autorizzazione per l’esportazione di materiali di armamento (coordinato dall’Autorità Nazionale Uama, in seno al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale). Tali dati preliminari aggregati dovranno poi essere ulteriormente analizzati sulla base della documentazione più specifica di ciascun Ministero. Nel corso del 2019 - rimarcano le organizzazioni pacifiste si sono registrate autorizzazioni di movimenti in uscita dall’Italia di materiale d’armamento per un controvalore di 5.174 milioni di euro, sostanzialmente in linea con il 2018 (lieve decremento pari a -1,38%) stabilizzandosi quindi su un livello costante di export dopo i picchi di autorizzazioni iniziati con il 2015 (8,2 miliardi in quell’anno e poi 14,9 miliardi nel 2016 e 10,3 nel 2017). Si tratta comunque dell’80% in più rispetto ai valori del 2014 per cui si può affermare che le esportazioni record del triennio 2015-2017 hanno trascinato le commesse per l’industria militare italiana su un livello medio superiore a quello di inizio secolo, con ben 84 Paesi destinatari (dal 2015 sono ormai stabilmente oltre 80 le destinazioni complessive). Un effetto che si farà sentire sempre di più nei prossimi anni sulle effettive spedizioni e fatturazioni. A questo riguardo, l’Agenzia delle Dogane registra avanzamenti annuali di consegne definitive per complessivi 2.899 milioni di euro (2.388 milioni per licenze singole e 511 milioni per licenze globali di progetto). Tornando alle autorizzazioni per nuove licenze, che costituiscono il dato politico saliente, i numeri evidenziano immediatamente alcune decisioni altamente problematiche. Il Paese destinatario del maggior numero di licenze risulta infatti essere l’Egitto con 871,7 milioni (derivanti in particolare dalla fornitura di 32 elicotteri prodotti da Leonardo spa) seguito dal Turkmenistan con 446,1 milioni (nel 2018 non era stato destinatario di alcuna licenza). Al terzo posto si colloca il Regno Unito con 419,1 milioni complessivi. Fra le prime 10 destinazioni delle autorizzazioni all’export di armi italiane nel 2019 troviamo 4 Paesi Nato (2 dei quali anche nella UE) insieme a 2 dell’Africa Settentrionale (l’Algeria oltre al già menzionato Egitto), 2 asiatici (Corea del Sud insieme al già citato Turkmenistan) ed infine Australia e Brasile. Complessivamente il 62,7% delle autorizzazioni per licenze all’export ha come destinazione Paesi fuori dalla Ue e dalla Nato. Per quanto riguarda le imprese, ai vertici della classifica delle autorizzazioni ricevute troviamo Leonardo Spa con il 58% seguita da Elettronica spa (5,5%), Calzoni srl (4,3%), Orizzonte Sistemi Navali (4,2%) e Iveco Defence Vehicles (4,1%). Le importazioni totali registrate sono state pari a 214 milioni di euro, per il 68% con origine negli Usa e per il 14% provenienti da Israele (va notato che in queste cifre non compaiono gli import da Ue e area economica europea non più soggetti a controlli Uama). “Continuiamo ad esportare armi verso Paesi autoritari o zone problematiche del mondo - dice a Globalist Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Italiana per il Disarmo -. Oltretutto, con scarsi ritorni, perché 3 miliardi di euro di esportazione reale sono meno del’1% dell’export complessivo italiano annuale. Dal Governo - sottolinea Vignarca - ci aspettiamo un cambio di rotta sia per quanto riguarda i Paesi destinatari che complessivamente: vogliamo che vengano sostenute produzioni civili e non favoriti affari armati”. Affari armati. Come quelli con l’Egitto di al-Sisi. Uno Stato di polizia in cui i “desaparecidos” si contano ormai a migliaia. E più della metà dei detenuti nelle carceri lo sono per motivi politici. Per contenerli, il governo ha dovuto costruire 19 nuove strutture carcerarie. Il generale-presidente esercita un potere che si ramifica in tutta la società attraverso l’esercito, la polizia, le bande paramilitari e i servizi segreti, i famigerati Mukhabarat, quasi sempre più di uno. Al-Sisi si pone all’apice di un triangolo, quello dello Stato-ombra: esercito, Ministero degli Interni (e l’Nsa, la National Security Agenc.) e Gis (General Intelligence Service, i servizi segreti esterni). Se lo standard di sicurezza si misurasse sul numero degli oppositori incarcerati, l’Egitto di al-Sisi I° sarebbe tra i Paesi più sicuri al mondo: recenti rapporti delle più autorevoli organizzazioni internazionali per i diritti umani, da Human Rights Watch ad Amnesty International, calcolano in oltre 60mila i detenuti politici (un numero pari all’intera popolazione carceraria italiana): membri dei fuorilegge Fratelli musulmani, ma anche blogger, attivisti per i diritti umani, avvocati...Tutti accusati di attentare alla sicurezza dello Stato. Lo Stato di polizia all’ombra delle Piramidi. Le autorità egiziane tengono i detenuti minorenni insieme agli adulti, in violazione del diritto internazionale dei diritti umani. In alcuni casi, sono imprigionati in celle sovraffollate e non ricevono cibo in quantità sufficiente. Almeno due minorenni sono stati sottoposti a lunghi periodi di isolamento. Un quadro agghiacciante è quello che emerge da un recente rapporto di Amnesty International. “Le autorità egiziane hanno sottoposto minorenni a orribili violazioni dei diritti umani come la tortura, la detenzione in isolamento per lunghi periodi di tempo e la sparizione forzata per periodi anche di sette mesi, dimostrando in questo modo un disprezzo assolutamente vergognoso per i diritti dei minori”, denuncia Najia Bounaim, direttrice delle campagne sull’Africa del Nord di Amnesty International. “Risulta particolarmente oltraggioso il fatto che l’Egitto, firmatario della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, violi così clamorosamente i diritti dei minori”, denuncia Bounaim. Minorenni sono stati inoltre processati in modo iniquo, talvolta in corte marziale, interrogati in assenza di avvocati e tutori legali e incriminati sulla base di “confessioni” estorte con la tortura dopo aver passato fino a quattro anni in detenzione preventiva. Almeno tre minorenni sono stati condannati a morte al termine di processi irregolari di massa: due condanne sono state poi commutate, la terza è sotto appello. Sotto la presidenza al-Sisi e col pretesto di combattere il terrorismo, migliaia di persone sono state arrestate arbitrariamente - centinaia delle quali per aver espresso critiche o manifestato pacificamente - ed è proseguita l’impunità per le amplissime violazioni dei diritti umani quali i maltrattamenti e le torture, le sparizioni forzate di massa, le esecuzioni extragiudiziali e l’uso eccessivo della forza. Dal 2014 sono state emesse oltre 2112 condanne a morte, spesso al termine di processi iniqui, almeno 223 delle quali poi eseguite. La legge del 2017 sulle Ong è stata il primo esempio delle norme draconiane introdotte dalle autorità egiziane per stroncare la libertà di espressione, di associazione e di manifestazione pacifica. La legge consente alle autorità di negare il riconoscimento delle Ong, di limitarne attività e finanziamenti e di indagare il loro personale per reati definiti in modo del tutto vago. Nel 2018 sono state approvate la legge sui mezzi d’informazione e quella sui crimini informatici, che hanno esteso ulteriormente i poteri di censura sulla stampa cartacea e online e sulle emittenti radio-televisive conclude Bounaim. Questo è l’Egitto ai tempi di al-Sisi. Va ricordato al nostro Governo, in nome di Giulio Regeni, vittima di un assassinio di Stato che a distanza di anni è rimasto impunito. Va ricordato perché nelle carceri egiziane non finisca per “marcire” Patrick Zaki, attivista e ricercatore iscritto a un master dell’Università di Bologna Per lui si è creata una mobilitazione internazionale per chiederne la scarcerazione sostenendo che le accuse a suo carico “sono false e illegali”. Ma Zaki resta in galera. E cresce di giorno in giorno la preoccupazione per le sue condizioni psico-fisiche e per la sua stessa vita. Armare il “faraone” è un insulto alla memoria di Giulio e dei tanti egiziani che come lui sono scomodi al regime. Tanto scomodi da essere eliminati. Egitto. Dorme in strada davanti alla prigione dove è detenuto suo figlio di Pierfrancesco Curzi Il Fatto Quotidiano, 16 maggio 2020 La protesta della scienziata contro il regime di al-Sisi. Laila Seif ha 64 anni, insegna alla facoltà di Scienze dell’università del Cairo e ha una lunga storia di attivismo politico. Da aprile il figlio, oppositore politico tra le figure più importanti della rivoluzione di piazza Tahrir, ha iniziato lo sciopero della fame nel carcere di Tora per manifestare contro le condizioni di detenzione. A 64 anni e con una carriera professionale importante alle spalle, docente di matematica alla facoltà di Scienze dell’Università del Cairo e tra le attiviste più note d’Egitto, Laila Seif da alcuni giorni dorme su un marciapiede davanti alla prigione di Tora, alla periferia sud della capitale. La sua forma di protesta ha colpito tutto il Paese e la foto di lei con addosso abiti sporchi, distesa sopra dei cartoni, la testa appoggiata sulla sua borsa e la mascherina a coprirle naso e bocca, ha fatto il giro dei social diventando un manifesto del dissenso contro le autorità egiziane. Dentro quel carcere, in particolare nella famigerata Sezione II “Scorpion” dedicata in parte ai prigionieri politici e ai reati di coscienza, dalla fine del settembre scorso è recluso suo figlio, Alaa Abdel Fattah, programmatore informatico e tra i leader più influenti della Rivoluzione di Piazza Tahrir del gennaio 2011. Una famiglia di rivoluzionari anti-regime la loro. Laila Seif, infatti, incontrò suo marito, Ahmed Seif al-Islam, negli anni ‘70 proprio negli ambienti universitari dove lui era già leader di una cellula studentesca comunista. Alaa Abdel Fattah, 39 anni, dal 12 aprile scorso ha avviato uno sciopero della fame per protestare contro le condizioni imposte dai vertici della prigione e dal ministero dell’Interno. Celle fatiscenti, condizioni igieniche pessime, ma soprattutto l’impossibilità di accedere all’aria aperta, ricevere lettere, giornali, libri e altri beni di conforto dall’esterno. A tutto questo, dal febbraio scorso, si è unita la minaccia pandemica e il rischio di contagio da Sars-Cov-2 che di fatto ha azzerato visite e contatti: “L’autorità carceraria ci impedisce di consegnare ad Alaa qualsiasi bene di conforto, comprese vitamine, soluzioni per la deidratazione dopo che lui ha avviato lo sciopero della fame. Siamo tutti molto preoccupati per la sua sorte”, attacca Mona Seif, sorella di Alaa e figlia della docente di matematica e rivoluzionaria. Laila e Mona Seif nei mesi scorsi hanno manifestato davanti alla sede del ministero della Giustizia chiedendo di poter incontrare il loro congiunto, senza purtroppo ottenere alcuna risposta. La paura del coronavirus ha spinto le autorità a bloccare l’attività della giustizia. Quindi stop ai processi, addirittura alle udienze di rinnovo della custodia, e giro di vite pure per le visite in carcere e qualsiasi contatto con l’esterno. Questo vale per tutti i detenuti, ma per quelli politici c’è l’aggravante di non poter ricevere neppure beni di supporto, tra cui denaro, cibo, medicinali. Mercoledì il Procuratore generale del Cairo, Hamada al-Sawy, ha affermato che ogni precauzione necessaria è stata assunta per proteggere i detenuti dalla diffusione del coronavirus: “Presto i detenuti potranno partecipare alle sessioni di rinnovo delle detenzioni in videoconferenza per limitare i contatti”, ha aggiunto al-Sawy. Di Alaa Abdel Fattah, così come di Patrick George Zaki, familiari e amici sanno poco o nulla. Le uniche, scarse, informazioni arrivano tramite i rispettivi avvocati. Una situazione esplosa con la morte del giovane regista Shady Habash, ad inizio maggio, proprio dentro la prigione di Tora. Prima di questo evento tragico, il 12 aprile scorso, Alaa Abdel Fattah ha avviato lo sciopero della fame, nutrendosi solo di liquidi, prettamente acqua e succo d’arancia o soluzioni vitaminiche quando possibile. Così come accaduto nelle prigioni dell’Irlanda del Nord tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80 con la protesta degli hunger-strikers di Bobby Sands, la scelta dello sciopero della fame ha spinto altri detenuti ad unirsi alla protesta. Mohamed Amashah, uno studente egiziano-americano, è uno di questi. Come lui anche Hamad Seddiq, detenuto nell’ala di massima sicurezza di Tora II, ha iniziato lo sciopero della fame il 18 aprile scorso. Bangladesh. Il Covid arriva nel campo profughi Rohingya di Giuliano Battiston Il Manifesto, 16 maggio 2020 L’Unhcr e il governo bangladese assicurano che appena fuori dai campi, a Ukhiya e Teknaf, sono già allestiti circa 1.200 posti letto per il trattamento di eventuali casi, ma la preoccupazione è enorme. Temuto da esperti sanitari, operatori umanitari e dai Rohingya, il coronavirus è ufficialmente entrato nei campi profughi del Bangladesh, nel distretto di Cox Bazar. Ieri l’Alto commissariato delle Nazioni per i rifugiati (Unhcr) ha annunciato che sono stati riconosciuti ufficialmente due contagiati, un residente di Cox Bazar e un Rohingya, residente invece nel più grande campo di rifugiati al mondo, in una stretta fascia di territorio collinoso che dal confine con il Myanmar si spinge verso l’interno. Si tratta in realtà di 34 campi, in cui vive quasi un milione di Rohingya: i circa 750.000 scampati nell’estate 2017 al tentativo di pulizia etnica da parte dei militari birmani e quelli arrivati in precedenza. L’Unhcr e il governo bangladese assicurano che appena fuori dai campi, a Ukhiya e Teknaf, sono già allestiti circa 1.200 posti letto per il trattamento di eventuali casi, ma la preoccupazione è enorme. Nei campi rifugiati non c’è un solo posto letto di terapia intensiva e le condizioni materiali potrebbero favorire una diffusione capillare e veloce. Uno scenario da incubo, secondo le Ong che operano nel territorio. Le condizioni igienico-sanitarie sono scarse, decine di migliaia di persone non hanno accesso ad acqua potabile o a latrine funzionanti. A seconda delle aree, nei campi vivono dalle 40.000 alle 70.000 persone per chilometro quadrato, almeno 40 volte di più della densità abitativa del Bangladesh, uno dei Paesi al mondo con la densità più alta. Il distanziamento sociale nei campi Rohingya non si può fare: nelle semplici capanne, costruite una adiacente all’altra, vivono fino a 12 membri della stessa famiglia. E le decisioni del governo di Dacca hanno peggiorato le condizioni: lo scorso 8 aprile, per contenere la diffusione del virus, il governo ha imposto alle organizzazioni non-governative la riduzione dell’80% delle loro attività non essenziali. Non solo i 34 campi profughi, ma l’intera area (in cui vivono circa 3,5 milioni di persone) è stata isolata. Secondo Human Rights Watch le restrizioni del governo hanno già compromesso i servizi fondamentali nei campi, in alcuni dei quali non sono più forniti regolarmente cibo e acqua. La stagione dei monsoni è alle porte e i lavori di messa in sicurezza del territorio, indispensabili per evitare smottamenti, morti e diffusione di malattie come il colera, sono stati interrotti. Molte Ong e gli stessi Rohingya chiedono inoltre che Dacca rimuova il blocco totale delle comunicazioni e dell’accesso a internet nei campi, in vigore dal settembre 2019. La mancanza di informazione ha già provocato serie conseguenze: le Ong, tra cui Medici senza frontiere, segnalano una riduzione significativa dei Rohingya che accedono ai servizi sanitari. Senza informazione, si rafforzano le dicerie: c’è chi è convinto che, se dovesse rivolgersi a una clinica e denunciare sintomi riconducibili al virus, verrebbe portato via, fatto sparire, ucciso. Anche per questo nelle ultime settimane alcuni residenti dei campi hanno fatto ricorso ai trafficanti per tentare la fortuna altrove. Come raccontato dal manifesto, la Guardia costiera del Bangladesh ad aprile ha tratto in salvo circa 400 migranti che avevano tentato di raggiungere la Malesia, per esserne poi respinti. Sono rimasti in mare aperto, senza acqua né cibo, per giorni e giorni. Decine e decine sarebbero morti in mare. Altri, una volta recuperati dalla Guardia di costiera, sono stati trasferiti nell’isola di Thengar char, o Bhashan char. Un’isola sperduta nel Golfo del Bengala, in uno dei luoghi più vulnerabili a cicloni e inondazioni, divenuta un’isola-prigione per la quarantena. Perù. Una sessantina di detenuti morti in carcere per coronavirus agensir.it, 16 maggio 2020 Mons. Izaguirre (Ceas): “far uscire almeno le donne incinte o con figli”. Oltre all’affollamento, le carceri del Perù, dove sono già morti per il Covid-19 circa 60 detenuti, sono caratterizzate da carenza di attenzione sanitaria e igienica. Lo denuncia, al Sir, mons. Jorge Enrique Izaguirre, vescovo della prelatura di Chuquibamba e presidente della Commissione episcopale di azione sociale (Ceas) della Chiesa peruviana: “Mancano medici, infermieri, al di là del Covid-19, nelle carceri circolano la Tbc, l’anemia, molte altre patologie. Spesso manca l’acqua o ci sono poche ore di luce. Mancano pure prodotti per l’igiene personale. Spesso sono i familiari a portare qualcosa ai loro congiunti che sono in prigione: alimenti, medicina, prodotti per l’igiene di base. Ma ora le visite non sono possibili e così non arrivano neanche cibo e generi di prima necessità”. Il sovraffollamento raggiunge livelli al di fuori di ogni immaginazione a Lima, per esempio nel carcere di “Castro Castro”: 8mila detenuti, mentre la capienza sarebbe di 1.500. Qui, nelle scorse settimane, c’è stata una rivolta che ha causato più di dieci morti. Nel vicino istituto “San Pedro” ci sono stati vari contagi, anche per alcuni trasferimenti di detenuti positivi. “Ma a volte la situazione è anche peggiore sulla sierra, nelle piccole località di provincia - denuncia mons. Izaguirre - con carceri piccole, isolate, dimenticate, con poco personale”. Il vescovo conclude con un ulteriore appello: “Il nostro sistema carcerario non rispetta le donne, non ci sono a volte distinzioni negli istituti con quello che ciò comporta in termini di violenza e abusi. Chiediamo al Governo di scarcerare le donne incinte o con figli. Speriamo di essere ascoltati almeno su questo”. Messico. Le contraddizioni della politica migratoria, tra rimpatri, sfratti e parole di solidarietà di Vittoria Romanello La Repubblica, 16 maggio 2020 Tra gennaio e marzo di quest’anno c’è stato un aumento del 34% del numero di domande di asilo da parte di migranti dall’Honduras, Guatemala, Nicaragua, Salvador rispetto allo stesso periodo del 2019. Sfrattati dalle stazioni migratorie: il Ministero dell’Interno (Segob) ha confermato che l’Istituto Nazionale delle Migrazioni (Inm) ha ordinato lo sfratto delle 65 stazioni migratorie nel Paese, per prevenire lo scoppio del nuovo ceppo del coronavirus Sars-CoV2. Sulla base delle raccomandazioni sanitarie delle autorità messicane e delle organizzazioni nazionali e internazionali, e per prevenire un focolaio di contagio, nelle stazioni migratorie che metterebbe a rischio la vita dei migranti che vi soggiornano, L’istituto Nazionale delle Migrazioni ha incaricato la partenza di un buon numero di persone. Il rimpatrio di migranti dall’Honduras e Salvador. “Nelle 65 stazioni migratorie INM e nei rifugi presenti su tutto il territorio nazionale, esiste una capacità totale di 8.524 posti e nel mese di marzo sono stati ospitati 3.759 migranti”, ha affermato l’INM, aggiungendo che l’Istituto e il Ministero degli Affari Esteri (SRE) hanno gestito il rimpatrio assistito di 3.653 persone provenienti dall’Honduras e dal Salvador, che hanno scelto di tornare nei loro Paesi d’origine, privilegiando ragazze, ragazzi, adolescenti, adulti più anziani, famiglie, donne in gravidanza e persone con malattie croniche. Le domande di rifugio continuano. Per quanto riguarda le domande di rifugio in Messico, il Ministero degli Interni ha indicato che tra gennaio e marzo di quest’anno c’è stato un aumento del 34% del numero di domande rispetto allo stesso periodo del 2019. “In molti casi, le persone in cerca di rifugio fuggono da situazioni di persecuzione e violenza così gravi da essere state costrette a lasciare i loro paesi nonostante il rischio di contrarre Covid-19”, aggiunge. Ha sostenuto che queste persone sono una priorità per il Governo federale, “ancora di più nel contesto di una contingenza sanitaria che ha effetti sproporzionati sulle persone più vulnerabili. Per questo motivo, la Commissione messicana per l’assistenza ai rifugiati Comar garantirà l’assistenza ai rifugiati, ai richiedenti asilo e alle persone con protezione complementare che lo richiedono: un’attività essenziale”. Programma di regolarizzazione. Le richieste di asilo non diminuiscono, anche perché non esistono alternative per poter risiedere in Messico legalmente, attraverso una offerta di lavoro è complicato e costoso, richiede l’uscita dal Paese e iniziare un processo attraverso il consolato messicano, e comunque non esistono molte altre opzioni tranne il ricongiungimento familiare. Le rivolte nelle stazioni migratorie. Nella notte del 31 marzo c’è stata una rivolta nella stazione di immigrazione di Tenosique, Tabasco, nella frontiera Sud, che ha provocato un incendio. Le persone stavano protestando contro le condizioni indecenti del centro, in cui erano detenute senza possibilità di poter uscire, e poi il sovraffollamento, la mancanza di cure mediche e l’assenza di misure di prevenzione e informazione contro l’emergenza sanitaria. La stazione migratoria conteneva 170 migranti e richiedenti asilo, in uno spazio abilitato per 100 persone. Le condizioni sanitarie delle stazioni migratorie. La situazione segnalata dai rifugiati e dai migranti detenuti è particolarmente allarmante nell’attuale contesto della pandemia, in quanto in varie stazioni migratorie nel Sud del Messico, in questi spazi non erano garantite cure mediche regolari né servizi di base, come l’acqua ad esempio: tutti fattori che hanno resi ideali focolai di malattie, Covid-19 compreso. Impossibile il rimpatrio volontario. Oltre a questa situazione, i migranti detenuti nelle stazioni di migrazione che desiderano il loro rimpatrio volontario non sono in grado di tornare nei loro Paesi di origine perché il Governo del Guatemala ha chiuso il confine e ha chiesto al Messico di annullare il rimpatrio dei suoi compatrioti e i migranti provenienti da El Salvador, Honduras e Nicaragua che devono attraversare il territorio guatemalteco per poter tornare nelle loro case.