Il virus in carcere e i conti del ministro che non tornano di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 15 maggio 2020 Bonafede zigzaga fra i numeri. Ma per Covid-19 i morti sono otto (non tre). Nel rivendicare quanto il ministero della Giustizia “si sia mosso per tutelare la salute nelle carceri” (tramite quel Dap di cui non si capisce allora perché abbia sostituito il vertice), il Guardasigilli Alfonso Bonafede aggiunge: “Certo mi dispiace tantissimo perché qualcuno è deceduto, un detenuto e due agenti”. Smarrimento. Perché per Covid-19 nel mondo-carcere i morti sono otto. Non uno ma quattro detenuti, tre non contati forse perché spirati in ospedale; e, oltre ai due ricordati agenti, due medici penitenziari, forse non indicati perché appartenenti all’amministrazione. Anche con le proprie leggi il ministro zigzaga fra i numeri. Esalta il decreto dell’8 marzo, ma (per respingere le strumentali accuse d’aver fatto scarcerare i mafiosi, anziché tra mille limitazioni solo detenuti comuni con scampoli di pene) assicura che “ha avuto una incidenza ridotta, 903 detenzioni domiciliari”. E poi però, lasciato quindi ai giudici il cerino di far calare i detenuti da 61.235 a 52.712, si intesta l’indiscutibile contenimento del virus, ottenuto in realtà solo perché questa mitigazione di illegalità nelle carceri (da 11.000 ad “appena” 5.000 stipati oltre i posti effettivi) ha liberato minireparti dove isolare via via i positivi (211 detenuti oltre a 320 agenti e sanitari). Appurato che 253 dei 376/498 inventati “boss” scarcerati erano in attesa di giudizio, e solo 4 i malati passati dal 41bis a casa in carenza di quelle terapie che solo ora il ministero corre ad assicurare, non si aggiunge che degli altri uno solo fosse in Alta Sicurezza 1, e tutti i restanti in AS3, non capimafia ma “inseriti - descrive il Garante - nel brodo di coltura della criminalità organizzata”. E inevasa resta l’attesa di conoscere, sui 13 morti nelle rivolte di cui il ministro in marzo indicò “cause per lo più riconducibili ad abuso di sostanze sottratte alle infermerie”, in cosa sia consistito il “per lo meno”. Bonafede dà i numeri: “498 scarcerati a causa dell’emergenza Coronavirus e un deceduto” di Simona Musco Il Dubbio, 15 maggio 2020 Ma in realtà i detenuti morti per Covid sono 4. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede dà i numeri sull’emergenza Coronavirus in carcere. In parte sbagliando e proprio nel punto più critico: il numero dei decessi. Uno per il Guardasigilli, quattro stando alle cronache, senza contare i 14 morti durante le rivolte. Una nota dolente passata in sordina durante l’audizione. Davanti alla Commissione giustizia della Camera, Bonafede rende conto delle misure adottate e della ratio alla base delle stesse. Attribuendo la responsabilità delle scarcerazioni, in parte, alla legge 199 del 2010, che anzi avrebbe trovato nel Cura Italia un limite e una semplificazione. “Le misure normative sanitarie adottate hanno permesso di scongiurare, nella cosiddetta Fase uno, la diffusione massiva del contagio nelle carceri italiane”, ha sottolineato Bonafede, che ha confermato la presenza attuale di 110 detenuti positivi, tre ricoverati e 98 guariti. Il dato certo è però questo: “la concentrazione di persone comporta un aumento del rischio di contagio”, anche se, spiega Bonafede, come confermato dal comitato tecnico scientifico il rischio di contagio al 41bis è “minimo”. Il governo ha deciso di intervenire “senza intaccare il principio della certezza della pena, evitando al contempo una congestione delle presenze dovuto al possibile malfunzionamento delle leggi vigenti”. Colpa delle norme passate, dunque. Il Conte bis, costretto a fare i conti con il sovraffollamento e la pandemia, si è limitato a concedere i domiciliari a tutti detenuti con un residuo di pena inferiore a 18 mesi, esclusi i condannati per delitti gravi e quelli coinvolti nelle rivolte. Dai 61.235 reclusi del 2 marzo, dunque, si è scesi ai 53.524 del 12 maggio. Un calo, ci tiene a precisare il ministro, sui cui “il decreto legge Cura Italia ha avuto un’incidenza molto ridotta”: 2.348 sono infatti usciti grazie all’applicazione della legge 199 del 2010 e solo 903 con il Cura Italia. Con l’inizio della fase due, l’amministrazione ha avviato le procedure per permettere la ripresa graduale dei colloqui di persona, mentre è stata disposta l’immissione anticipata di 1.100 nuovi agenti di polizia penitenziaria, di cui 300 hanno già preso servizio nella sede destinazione. Per quanto concerne i detenuti sottoposti al 41bis e gli appartenenti al circuito dell’alta sicurezza, sono 498 - di cui quattro al carcere duro - quelli finiti ai domiciliari. Di questi, 253 sono in attesa di giudizio, 195 già condannati e 35 in affidamento ai servizi sociali, mentre uno è tornato in carcere già martedì scorso. “La lotta alla mafia è prioritaria nell’azione di governo”, conclude Bonafede, ed è per questo che l’ultimo decreto legge ha previsto una rivalutazione delle scarcerazioni motivate da esigenze di carattere sanitario, tramite l’acquisizione del parere della Dda coinvolta e della Dna, sulla cui base l’autorità giudiziaria deciderà se sussistono le condizioni per rimanere fuori dal carcere, valutando inoltre la disponibilità di altre strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta “idonei ad evitare il pregiudizio per la salute del detenuto”. Bonafede: calo dei detenuti per meno ingressi, “Cura Italia” incide poco Redattore Sociale, 15 maggio 2020 Lo dice il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, durante l’audizione in Commissione Giustizia alla Camera sulla situazione nelle carceri a seguito dell’emergenza epidemiologica da Covid 19 e sui recenti provvedimenti di scarcerazioni disposti dalla magistratura di sorveglianza. “Ci tengo a sottolineare come la limitazione ai colloqui di persona sia stata una misura successivamente presa anche dagli altri Stati europei, come in Francia dal 18 marzo, in Spagna dal 15 marzo e in Gran Bretagna nell’ultima metà di marzo”. Lo dice il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, durante l’audizione in Commissione Giustizia alla Camera sulla situazione nelle carceri a seguito dell’emergenza epidemiologica da Covid 19 e sui recenti provvedimenti di scarcerazioni disposti dalla magistratura di sorveglianza. Chiusure a colloqui per chiudere le porte al virus - Vista la peculiarità degli istituti di reclusione, il primo obiettivo doveva necessariamente individuarsi nella chiusura delle porte del carcere al virus, intervenendo in maniera sistematica sui possibili veicoli di trasmissione dello stesso all’interno degli spazi detentivi. La limitazione dei colloqui si inseriva, quindi, naturalmente nel quadro complessivo dell’emergenza epidemiologica in atto, che già aveva condotto, a livello generale, un contenimento degli spostamenti sul territorio nazionale”. Graduale ripresa ai colloqui, fino a giugno contingentati - “Con l’inizio della Fase 2, l’Amministrazione, sempre inserendosi nel contesto nazionale relativo alle limitazioni negli spostamenti tra Regioni, ha iniziato le procedure per permettere la ripresa graduale dei colloqui visivi di persona. Fino al 30 giugno i colloqui con modalità in presenza saranno contingentati dal direttore del singolo istituto, previa interlocuzione necessaria con il Provveditore competente e con l’autorità sanitaria locale (art. 4 co. 1 e 2, Decreto Legge n. 29 del 10 maggio 2020)”. Ci saranno 1.100 nuovi agenti, 300 già in servizio - “Nel contesto della ripresa dall’emergenza si inseriscono quei piani programmati, in parte già attuati e in parte che troveranno la propria realizzazione nei prossimi mesi. È stata disposta l’immissione anticipata di 1.100 nuovi agenti di Polizia penitenziaria, di cui 300 hanno già preso servizio nella sede di destinazione. Circa due mesi fa, il 12 marzo ho disposto con decreto la conclusione anticipata del 177° corso di formazione per gli allievi, che porterà nei prossimi giorni all’ingresso di circa 800 nuove unità”. “La necessaria sinergia con l’autorità sanitaria, declinata anche attraverso l’istituzione di un tavolo interministeriale con il Ministero della Salute- sottolinea Bonafede- oltre a permettere una uniformità delle procedure su tutto il territorio nazionale ha portato all’assunzione straordinaria di 1000 operatori sanitari ripartiti tra i vari Provveditorati. Le risorse inerenti il personale sono fondamentali perché anche la c.d. Fase 2 possa essere affrontata con il massimo sforzo da parte dell’amministrazione, considerando il graduale ripristino dei regimi abituali proprio dell’universo penitenziario”. No a rischi maggiori su virus per i boss. lo dice il comitato - “Informo la Commissione sul fatto che in relazione ad alcune detenzioni o arresti domiciliari sono stati concessi per persone che erano soggette a regime di 41bis mi sono premurato di chiedere un parere al Comitato tecnico scientifico in ordine ai rischi di soggetti detenuti al 41bis rispetto al virus”. “In relazione al mio quesito - continua il Guardasigilli - relativo al potenziale maggior rischio di contagio rispetto a quello sussistente al di fuori del contesto detentivo, il Comitato tecnico scientifico ha risposto, all’unanimità, che ritiene, che tale rischio” di contagio da Sars Covid-2 “non sussista per i detenuti sottoposti a tale speciale regime detentivo”. Il Comitato “per maggiore tutela dei detenuti sottoposti al suddetto regime detentivo, il Comitato raccomanda che in occasione dei colloqui con i propri avvocati sia il detenuto che il legale indossino i dispositivi di protezione e che vengano informati sul rispetto delle norme del distanziamento fisico”. La lotta alla mafia è prioritaria, primi effetti con i dl - “La lotta alla mafia è prioritaria nell’azione del Governo ed è per questo che con il decreto legge n. 29, abbiamo previsto che per quanto riguarda i soggetti ristretti per delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso, terroristico e mafioso, o per delitti di associazione a delinquere legati al traffico di sostanze stupefacenti o per delitti commessi avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione mafiosa, nonché di detenuti e internati sottoposti al regime previsto dall’articolo 41bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, le scarcerazioni motivate da esigenze di carattere sanitario siano rivalutate alla luce del nuovo contesto epidemiologico, per verificare se permangano o meno le condizioni che hanno giustificato l’uscita dagli istituti detentivi” “Nel dettaglio - continua - si prevede che il Tribunale di sorveglianza che ha adottato il provvedimento, acquisito il parere del Procuratore distrettuale antimafia del luogo in cui è stato commesso il reato e del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo per i condannati e internati già sottoposti al regime di cui al predetto articolo 41bis, valuti la permanenza dei motivi legati all’emergenza sanitaria entro il termine di quindici giorni dall’adozione del provvedimento e, successivamente, con cadenza mensile. Si prevede tuttavia che la valutazione sia effettuata immediatamente, e quindi anche prima della decorrenza dei termini sopra indicati, nel caso in cui il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria comunichi la disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta adeguati alle condizioni di salute del detenuto (l’autorità giudiziaria provvede valutando se permangono i motivi che hanno giustificato l’adozione del provvedimento di ammissione alla detenzione domiciliare o al differimento di pena, nonché la disponibilità di altre strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta idonei ad evitare il pregiudizio per la salute del detenuto o dell’internato). Il provvedimento con cui l’autorità giudiziaria revoca la detenzione domiciliare o il differimento della pena è immediatamente esecutivo. Analogo meccanismo è poi previsto per coloro ai quali, ancora in attesa di giudizio, sia stata disposta la sostituzione della custodia cautelare in carcere con la misura degli arresti domiciliari sempre per motivi connessi all’emergenza sanitaria”. La norma, conclude il guardasigilli, “segue immediatamente il decreto legge n. 28 del 30 aprile 2020 contenente la prescrizione che impone ai Tribunali di Sorveglianza di consultare la Direzione nazionale e le Direzioni distrettuali antimafia su ogni richiesta di scarcerazione per motivi di salute di detenuti per uno dei delitti previsti dall’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale. Entrambe le norme hanno iniziato a dispiegare i loro effetti, dimostrando come lo Stato non indietreggi in alcun modo nella lotta alla criminalità organizzata”. Ieri una revoca dei domiciliari concessi per Covid - “Martedì 12 maggio già uno dei soggetti ammessi alla detenzione domiciliare ha visto revocata la misura ed è rientrato presso l’istituto di pena ai sensi dell’art. 2 Decreto legge n. 29 del 10 maggio 2020”. Calo dei detenuti per meno ingressi, il “Cura Italia” incide poco - “Si registra che alla data del 2 marzo 2020 (picco massimo) la popolazione carceraria era di 61.235 reclusi, mentre alla data del 12 maggio 2020 risultano in carico agli istituti di detenzione 53.524 persone, di cui 52.712 effettivamente presenti. Tale diminuzione è dovuta, principalmente, al calo notevolissimo di nuovi ingressi. In realtà, il Decreto Legge c.d. Cura Italia ha avuto un’incidenza molto ridotta: si consideri, ad esempio, che, mentre l’applicazione della L. 199/2010 ha portato alla detenzione domiciliare di 2348 detenuti, l’applicazione dell’art. 123 ha comportato soltanto 903 persone alla detenzione domiciliare”. “È evidente - ha spiegato Bonafede - che la concentrazione di persone comporta un aumento del rischio di contagio. Per questo motivo, abbiamo ritenuto fosse necessario intervenire senza intaccare il principio della certezza della pena ma evitando al contempo una congestione delle presenze dovuta al possibile malfunzionamento delle leggi vigenti. Per tale ragione, il governo ha deciso di intervenire nell’ambito del perimetro normativo già esistente (in particolare, quello della L. n. 199/2010), semplificandone l’applicazione. La strada intrapresa, dunque, ha inteso rendere maggiormente efficace l’impianto normativo già esistente e disciplinato dalla L. 199/2010 attraverso l’art. 123 del Decreto Legge 18/2020, che concerne tutti i detenuti con un residuo di pena da scontare pari o inferiore a 18 mesi di reclusione. È importante sottolineare subito che, dall’applicazione dell’art. 123, sono esclusi i detenuti condannati per taluno dei delitti indicati dall’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 e dagli articoli 572 e 612-bis del codice penale; i delinquenti abituali, professionali o per tendenza, i detenuti che sono sottoposti al regime di sorveglianza particolare, i detenuti che nell’ultimo anno siano stati sanzionati per alcune infrazioni disciplinari e i detenuti coinvolti nei disordini e nelle sommosse a far data dal 7 marzo 2020. La platea dei destinatari dell’art. 123 è dunque più ristretta rispetto alla L. n. 199/2010 e, a fronte di un’attuazione più agile, comporta un controllo di sicurezza maggiore grazie all’applicazione dei braccialetti elettronici, applicazione obbligatoria nel caso in cui la pena residua da scontare sia superiore a sei mesi”. Grazie alle misure prese, solo 110 detenuti positivi - “Le misure normative e sanitarie adottate hanno permesso di scongiurare nella cosiddetta Fase 1 la diffusione massiva del contagio nelle carceri italiane. Basti pensare che, alla data del 12 maggio, risultano accertati solo 130 detenuti contagiati, di cui 2 ricoverati in strutture sanitarie esterne. I detenuti guariti sono 77 e purtroppo deve essere segnalato il decesso di una persona. Il dato aggiornato di questa mattina è che ci sono 110 detenuti positivi, quindi un numero minore rispetto a quello del 12 maggio, 3 ricoverati e 98 detenuti guariti. Quindi abbiamo già 20 detenuti contagiati in meno”. “Segnalo, poi- aggiunge il Guardasigilli- che la quasi totalità di questi” casi di contagio “si trova nel territorio di competenza dei provveditorati delle tre aree geografiche più colpite (Provveditorato della Lombardia, Provveditorato del Piemonte, Liguria e Valle D’Aosta, Provveditorato del Triveneto), per un totale di 121 casi sui 128 attivi ristretti” al 12 maggio “a testimonianza dell’estrema efficacia delle soluzioni prese nella fase più acuta dell’emergenza”. Invece, continua, “risultano zero contagi in Calabria, Lazio, Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata e Sicilia, mentre ci sono 1 contagiato in Sardegna, Emilia-Romagna e nelle Marche”. Per quanto concerne il personale in servizio - spiega Bonafede - “sono, sempre al 12 maggio, 204 i soggetti accertati come positivi, di cui 28 tra il personale sanitario, quindi non afferente all’amministrazione penitenziaria, 6 tra il personale amministrativo e 170 con riferimento alla Polizia Penitenziaria. Delle 176 unità in carico all’amministrazione penitenziaria, cioè 6 del personale amministrativo e 170 la polizia penitenziari, 150 sono in isolamento presso la propria abitazione, 16 presso le caserme e 10 sono ricoverati in strutture sanitarie. I guariti sono 116 e purtroppo devono essere segnalati due decessi”. Fuori 498 detenuti in alta sicurezza, 4 al 41bis - “Per quanto concerne i detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41bis, co. 2 Ord. Pen. e gli appartenenti al circuito dell’alta sicurezza, gli ultimi aggiornamenti ci consegnano il risultato di 498 detenuti (di cui 4 relativi al regime 41bis) non più ristretti negli Istituti penitenziari”. “Di questi - continua - 253 in attesa di giudizio sono agli arresti domiciliari, 195 in detenzione domiciliare, 35 affidati al servizio sociale, 5 in forza della L. 199/2010 e 6 ai sensi del Cura Italia (in questi ultimi due casi previo c.d. “scioglimento del cumulo”). Queste sono cifre che potrebbero avere anche uno scostamento reale, con accertamenti che stiamo facendo, più o meno di 20 unità. A proposito proprio del c.d. scioglimento del cumulo, ricordo che si tratta di quell’interpretazione giurisprudenziale, in virtù della quale i detenuti in questione, in presenza di più condanne, avrebbero già espiato la parte di pena relativa ai reati ostativi e, dunque, con un residuo di pena non legato a quei reati, possono accedere ai benefici previsti per i detenuti comuni”. Bonafede ha ricordato che “una parte dei provvedimenti di concessione di arresti o detenzione domiciliare è stata motivata, non dall’applicazione della L. 199/2010 né tantomeno dell’art. 123 del D.L. c.d. “Cura Italia”, bensì da motivazioni sanitarie in virtù dell’applicazione degli istituti e delle normative sostanzialmente presenti, da sempre, nel nostro ordinamento”. Da me mai uno scaricabarile su magistratura di sorveglianza - “Rigetto totalmente l’accusa che da parte mia ci sia stato uno scarica barile sulla magistratura di sorveglianza, che non mi permetterei mai di fare. Dal primo giorno in cui ho giurato come ministro della Giustizia non sono mai intervenuto rispetto a singoli casi e ho avuto sempre massimo rispetto per la magistratura. Invece mi sembra che tale rispetto non ci sia tutte le volte che si ritiene di mortificare il nostro ordinamento costituzionale al punto tale da dire che la magistratura si fa dettare la linea da parte del ministero o del Dap. La verità è che quando arriva una pandemia come quella che è arrivata il problema delle carceri si è posto in tutto il mondo, non c’è Paese che non sia posto il problema di come diminuire” il sovraffollamento dei detenuti per evitare i contagi. No a collegamento tra scarcerazioni dei boss e Cura Italia - “Continuare a creare un collegamento tra l’articolo 123 del decreto Cura Italia e le scarcerazioni di boss è, dati alla mano, profondamente sbagliato”. “Questa non è una mia opinione - continua il guardasigilli - basta andare a vedere su che basi sono stati emessi quei decreti. Non si può dire che il decreto Cura Italia ha creato un collegamento con le scarcerazioni dei mafiosi. Non c’entra quell’articolo 123” sulle disposizioni in materia di detenzione domiciliare, “il dato normativo è sbagliato”, conclude. Progetto per la produzione industriale di mascherine - “Sottolineo che, fin dall’inizio dell’emergenza, è stato deciso di indirizzare una parte importante del lavoro dei detenuti nella produzione di mascherine. Ad oggi già gli Istituti penitenziari di Napoli, Reggio Calabria, Castrovillari, Bergamo, Milano-San Vittore, Milano-Opera, Milano-Bollate, Monza, Vigevano, Forlì e Piacenza producono mascherine per uso interno. Presso la Casa circondariale di Massa è presente una sartoria industriale capace di produrre 5.000 mascherine al giorno, da distribuire alla cittadinanza”. Lo dice il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, durante l’audizione in Commissione Giustizia alla Camera sulla situazione nelle carceri a seguito dell’emergenza epidemiologica da Covid 19 e sui recenti provvedimenti di scarcerazioni disposti dalla magistratura di sorveglianza. “Abbiamo poi realizzato, con il Commissario straordinario del Governo per l’emergenza Covid dr. Arcuri, che ringrazio pubblicamente- aggiunge il guardasigilli- un progetto per la produzione industriale di mascherine, progetto che ha permesso di acquisire otto macchinari che saranno collocati negli istituti di Milano-Bollate, Salerno e Roma-Rebibbia già la prossima settimana. La produzione sarà, come obiettivo, indirizzata a garantire la fornitura dei dispositivi a tutto il personale che opera negli istituti di detenzione sull’intero territorio nazionale, ma anche, nel momento in cui il relativo protocollo sarà definito, per dare supporto materiale anche al restante personale del ministero della Giustizia”. Stiamo incrementando i posti per maggiori spazi - “Accanto agli sforzi sul personale e le dotazioni di protezione, continua la indispensabile operazione volta ad incrementare i posti detentivi. Maggiori spazi equivale a maggior sicurezza anche in ottica preventiva. Sono già 400 i posti nuovi resi disponibili nelle Case circondariali di Lecce e Parma e, nel mese di maggio anche nuovi padiglioni a Trani e Taranto saranno attivi”. Lo dice il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, durante l’audizione in Commissione Giustizia alla Camera sulla situazione nelle carceri a seguito dell’emergenza epidemiologica da Covid 19 e sui recenti provvedimenti di scarcerazioni disposti dalla magistratura di sorveglianza. Ma allora è possibile rispettare la legge e non arrestare… di Piero Sansonetti Il Riformista, 15 maggio 2020 Il ministro Bonafede è andato ieri alla Camera dei deputati per rispondere su questo pasticcio delle scarcerazioni. In cosa consiste il pasticcio? Nel fatto che i magistrati, applicando la legge vigente (dal 1930) hanno scarcerato alcune centinaia di persone. Per ragioni di salute. Quasi tutti anziani, quasi tutti a fi ne pena, tutti malati. Giornali e politici si sono indignati, naturalmente, e hanno iniziato a litigare furiosamente tra loro. A litigare per conquistare la palma del più indignato. Senza conoscere bene né la legge, né l’elenco degli scarcerati. Hanno detto che erano 400 boss della mafia, ma poi si è scoperto che quelli condannati per mafia sono una decina e che nessuno di loro risponde di omicidio e quindi forse proprio boss non sono. Poi hanno detto che li aveva scarcerati il Dap, poi hanno detto che li aveva scarcerati il governo. (Naturalmente non è vero: il potere di scarcerare, per ora, spetta solo ai tribunali di sorveglianza o ai Gip). In ogni caso, litigando tra loro, hanno chiesto a Bonafede di riarrestarli tutti. Bonafede ha obbedito, scrivendo un decreto folle che travolge la Costituzione, il Diritto e la separazione dei poteri. E permette il riarresto e ostacola future scarcerazioni. Loro - giornali e politici, dico - hanno detto che va bene ma che Bonafede doveva fare di più. Lui, come dicevamo, ieri è andato alla Camera a giustificarsi. Ha chiesto: come faccio a riarrestarne più di 400 se i magistrati ne hanno scarcerati solo 400? Effettivamente, almeno per una volta, il ragionamento del ministro è inoppugnabile. Poi ha annunciato, con gioia, che grazie al decreto e grazie al rigore manettaro dei nuovi dirigenti del Dap - quelli che hanno sostituito Basentini, cioè l’uomo che aveva a tradimento strappato la poltrona a Di Matteo - è diventato probabile il rientro in cella di Pasquale Zagaria. Chi è Pasquale Zagaria? Un signore malato gravemente di cancro. Condannato per estorsione e truffa e che ha già scontato i quattro quinti della pena. Ci sono delle sentenze di tribunali e corti di appello che dicono che da almeno 10 anni non è più pericoloso e non ha più niente a che fare con la camorra. Qualunque altro detenuto, per i suoi reati (senza la modalità mafiosa) sarebbe già libero da un pezzo. Però Pasquale si chiama Zagaria. E Zagaria si chiama anche suo fratello, Michele, detto capastorta, considerato il capo del clan dei casalesi e anche lui in prigione al 41bis. Basta il nome per scatenare giornali e politici. Se si chiama Zagaria - dicono - è un boss. Deve stare in galera e creparci. Pensate che recentemente è stato riconsegnato il café de Paris, a Roma, al suo legittimo proprietario che si chiama, di cognome, Alvaro. Come il grande scrittore dell’Aspromonte. Ma chi ha sequestrato il caffè non conosceva lo scrittore, conosceva solo la cosca degli Alvaro e da buon investigatore ha dedotto: se si chiama Alvaro fa parte della cosca, leviamogli il bar. Figuriamoci se invece di chiamarsi Alvaro ti chiami addirittura Zagaria… E così succede che Bonafede recupera un pochino della credibilità perduta in questi giorni sotto l’attacco concentrico di destra, sinistra e Di Matteo - che lo ha accusato addirittura di prendere ordini dalla mafia, cioè di un reato grave almeno come quello di Pasquale Zagaria - e si prepara la settimana prossima ad affrontare con più serenità la mozione di sfiducia presentata dalla destra. Già, perché la sfiducia a Bonafede non è originata dai suoi atteggiamenti da Torquemada un po’ meno istruito, ma da un suo presunto e francamente irrintracciabile garantismo. Gli hanno imputato le scarcerazioni. E la mancata scelta di Di Matteo. Vogliono cacciarlo per questo. Chissà che non ci mettano Di Matteo al suo posto. Ieri invece Bonafede, dopo essersi difeso dall’accusa di essere garantista, ha snocciolato le cifre della sua azione che ha permesso di ridurre notevolmente il sovraffollamento delle carceri. Da più di 60mila a poco più di 50mila detenuti. Poi ha spiegato come è potuto succedere, visto che i famosi 400 scarcerati sempre 400 restano. È successo non grazie a Bonafede ma perché su indicazione prima del procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, e poi anche di alcuni procuratori delle grandi città, a partire da Milano, si è drasticamente ridotto il numero degli arresti. Salvi e i procuratori hanno detto ai Pm, in sostanza, di rispettare la legge. E cioè di ricorrere all’arresto preventivo dell’indiziato solo se davvero c’è un pericolo per la collettività, o il rischio che inquini le prove, o che scappi in un paese dove non c’è l’estradizione. I Pm hanno, almeno in parte, eseguito, e in due mesi gli arresti si sono ridotti di circa 9000 unità. Cosa possiamo dedurre da queste cifre? Che prima dell’intervento di Salvi i Pm arrestavano ogni giorno circa 150 persone senza che ci fossero sufficienti motivazioni. E lo facevano, quindi, violando la legge. E, violando la legge, vessavano e perseguitavano dei cittadini, la maggioranza dei quali, peraltro - sempre secondo le statistiche - risulterà innocente. Perché questi Pm arrestavano anche se non c’erano le motivazioni, e dunque anche bypassando la legge? Te lo spiega, sottovoce, qualunque Pm tu voglia interrogare: perché mettendo una persona in prigione ci sono molte probabilità che confessi, che tratti, che faccia delazioni, che accusi altri. Dicendo la verità o mentendo, non cambia molto. E questo rende assai più facili le indagini. Per capirci meglio: la pena, cioè lo stare in carcere, viene usualmente usata come strumento di indagine. Succedeva così anche un paio di secoli fa. La tortura era uno dei principali strumenti di indagine. Poi l’alta corte francese, e anche quella del Vaticano, stabilirono che in questo modo si violava il diritto. Magari prima o poi anche da noi se ne renderanno conto. Prima o poi, dico, perché con questo clima dove la bussola dell’etica pubblica sta nelle mani di Travaglio e Grillo… mammamia. P.S. La palma del più indignato alla fi ne l’ha vinta Repubblica. Il direttore ha anche istituito un premio settimanale di 500 euro che sarà assegnato, a suo insindacabile giudizio, al giornalista più indignato. Non ci credete? Giuro che è vero. Magistrati di sorveglianza: “sfiduciati da Bonafede” di Angela Stella Il Riformista, 15 maggio 2020 L’accusa del presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze. “Un atto di sfiducia nella magistratura, in particolare di quella di sorveglianza. E comunque un provvedimento superfluo”: è chiara la posizione di Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, in merito alle ultime decisioni del Ministro Bonafede. Secondo Lei il lavoro della magistratura di sorveglianza cambierà? Non nella sostanza. Siamo abituati da sempre a gestire detenuti di particolare pericolosità. Semplicemente di fronte ai diritti fondamentali quale quello alla salute, siamo tenuti a bilanciare la tutela del diritto con le esigenze della sicurezza sociale. Nella forma, e psicologicamente, ci sentiremo all’angolo, col fiato sul collo, tenuti con ogni nostro comportamento a dimostrare che la tutela dei diritti non significa un cedimento alla criminalità ma è anzi, come riteniamo, il miglior antidoto a quella. Ricordiamo che contro il terrorismo lo Stato ha vinto con le armi del diritto e del rispetto della Costituzione. Qual è il suo giudizio sui due decreti Bonafede? Un atto di sfiducia nella magistratura, in particolare di quella di sorveglianza. E comunque un provvedimento superfluo, posto che già i magistrati di sorveglianza sono tenuti a riesaminare i provvedimenti di differimento della pena basati su questioni di salute, sempre adottati “allo stato degli atti” e con un termine di scadenza tarato sulle esigenze terapeutiche del condannato. I magistrati si sentiranno sotto pressione? È palese il monito psicologico di questi interventi normativi: “di voi non ci si può fidare!”. Non escludo che qualche collega possa sentirsi intimorito ma voglio sperare che sappia assumere ogni decisione sempre nel pieno rispetto delle leggi che è il nostro unico vincolo. I magistrati di sorveglianza sono considerati diversamente dagli altri? È certamente così: immagini se un giorno, per decreto legge, si stabilisse che una sentenza di condanna o di assoluzione dovesse essere rivalutata al di fuori delle ordinarie impugnazioni, previste anche in questi casi. Se il motivo del legiferare fosse l’idea che della magistratura non ci si può fi dare, ci sarebbe una rivoluzione. Una legge non può dire che una decisione del giudice è sbagliata e dunque deve essere rivista un attimo dopo averla presa. Come nel caso Englaro: il decreto legge venne fermato dal Capo dello Stato. La timidezza delle reazioni è il segnale che il magistrato di sorveglianza non è percepito come un giudice. “Scarcerazione dei boss”: la narrazione data è che lo Stato abbia liberato numerosi criminali efferati… Lascio parlare i numeri: di 376 scarcerati, ben 195 non ancora condannati dunque presunti innocenti. Dei rimanenti 181, solo 3 erano sottoposti al 41bis dei quali uno è un 85enne malato ed un altro un 78enne con meno di 9 mesi di pena ancora da scontare. Tra tutti gli altri certamente alcune personalità di spicco, ma pensare che i giudici, sia del merito che della sorveglianza, non abbiano svolto con cura i necessari accertamenti prima di decidere è, appunto, un atto di sfiducia. Inoltre i numeri dei rigetti delle istanze è di gran lunga più elevato. Ieri il Guardasigilli ha detto: “mai scaricato nulla sulla magistratura di sorveglianza”… Dall’inizio della pandemia siamo tra i pochi uffici giudiziari che hanno continuato a lavorare a pieno regime, anche più di prima, pronti a rispondere alle migliaia di richieste dei detenuti. La legiferazione a raffica di questi ultimi mesi ha certamente scaricato sui nostri uffici, già gravemente provati da carenze di uomini e mezzi, una responsabilità ulteriore, spesso indotta dalla volontà politica di non affrontare una volta per tutte la questione carceraria. Il corpo e lo spazio della pena: quando l’architettura fa la differenza di Franco Corleone ilgiornaledellarchitettura.com, 15 maggio 2020 La grande riforma carceraria invocata e sempre rimandata va realizzata ora con obiettivi di bellezza e con ambizione. Scrivere questa nota nel momento in cui a causa della pandemia la detenzione è divenuta esperienza di massa può dare l’illusione che le riflessioni ripetute tante volte durante i decenni passati, siano accolte con maggiore attenzione. Milioni di uomini e donne sono prigionieri nelle loro case, senza libertà di movimento, senza possibilità d’incontrare amiche o amici, con il divieto di partecipare al funerale di una persona cara. Tutte esperienze che le detenute e i detenuti conoscono assai bene; con la differenza di conoscere il fine pena e di sognare la libertà e fare progetti per il futuro. Nel 2009 la Società della Ragione organizzò a Firenze, presso il Giardino degli incontri del carcere di Sollicciano, un seminario su quali spazi per la pena secondo la Costituzione. Voglio proprio partire dal ricordare la decisione che assunsi da sottosegretario alla Giustizia di realizzare l’ultimo progetto di Giovanni Michelucci [immagine di copertina; guarda il documentario ufficiale], messo a punto con i detenuti dell’area omogenea del carcere fiorentino e sono fiero di avere fatto entrare l’arte e la bellezza in un luogo ai margini della città. Dieci anni sono passati da quella intuizione di mettere al centro l’architettura versus l’edilizia, respingendo il parametro esclusivamente quantitativo legato all’ossessione di una risposta parossistica alla domanda di “più carcere”. Questa bulimica ricerca di “più posti” in cui accatastare corpi rappresenta bene l’abbandono dei principi della Costituzione; al contrario, l’evocazione dell’architettura metteva in campo la ricerca di risposte sulla qualità della vita, anche in un luogo di costrizione e di sofferenza come il carcere, a cominciare dai bisogni essenziali dei suoi ospiti. “Bisogna aver visto” era il monito di Piero Calamandrei nel numero speciale del “Ponte” (1949), analizzando la situazione delle carceri italiane dopo i venti anni della dittatura fascista e il peso del tallone di ferro del Codice Rocco, con la proposta di una “Inchiesta sulle carceri e sulla tortura”. Inizia da quel momento la lunga teoria di tentativi di riforme e di chiusure in nome di sempre risorgenti emergenze. Invece che immaginare un grande piano di ristrutturazione degli edifici storici, legati alla storia delle città, adeguandoli alle prescrizioni della riforma del 1975 e al Regolamento del 2000, si sono costruiti mostri di cemento armato, carceri d’oro in realtà, disegnati da oscuri esecutori del potere burocratico per annullare le soggettività e schiacciare la dignità. Da una parte scelte legislative criminogene nell’affrontare con ideologie repressive e moraliste fenomeni sociali come il consumo di sostanze stupefacenti e l’immigrazione, dall’altra prassi amministrative pigre e feroci nell’applicare le misure alternative alla detenzione, hanno provocato il fenomeno indecente del cosiddetto sovraffollamento, il superlativo di una situazione già intollerabile. Piani carceri e stati di emergenza si sono susseguiti; poi è giunta la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo per trattamenti crudeli e degradanti. Che cosa è cambiato? Il sovraffollamento ultimamente aveva ripreso a mordere e nulla si stava facendo. Il pericolo del contagio da Covid-19 nelle galere ha fatto immediatamente esplodere l’improvvisazione: cancellazione dei colloqui e dei permessi premio. L’Amministrazione penitenziaria è riuscita in un’impresa eccezionale: fare scoppiare una serie di rivolte come non accadeva da cinquant’anni, contraddicendo una valutazione di Adriano Sofri: “Non ci saranno rivolte e grandi scioperi delle carceri perché il loro è oggi un popolo di vinti e di divisi, di schiacciati; in pochissimi hanno la forza di rivendicare un diritto, fosse anche solo una branda al posto di un materasso lurido sul suolo. Intanto chiederanno qualche goccia in più di psicofarmaco o si tagliuzzeranno le braccia o la pancia. Non c’è da preoccuparsene dunque, per il momento”. Il momento invece è arrivato. La grande riforma invocata e sempre rimandata va realizzata ora con obiettivi di bellezza e con ambizione. Va dato un mandato agli architetti in sintonia con questo cambio di paradigma di ridisegnare gli spazi della pena, cominciando a concepire case delle donne e case per i minori da inserire nel contesto urbano, insieme alle case della semilibertà (magari inventando un nuovo nome) e housing sociale. Si è riusciti in una vera rivoluzione, la chiusura dei manicomi giudiziari; nulla è dunque impossibile. Una nuova legge sulle droghe e un sistema di welfare riconcepito può far dimezzare le presenze e rendere irriconoscibile il carcere, applicando finalmente il Regolamento di Alessandro Margara. Una concezione nuova deve prevalere: si è affermato spesso che il carcere deve essere un luogo di privazione della libertà senza altre afflizioni; ho qualche dubbio, se il fine è il reinserimento sociale attraverso la conquista di autonomia e responsabilità, questi obiettivi non possono essere raggiunti senza l’esercizio della libertà che ne è il presupposto. Certamente la limitazione è dettata dal non poter varcare il muro di cinta, ma all’interno si devono esplicare i diritti e la consapevolezza dei doveri della convivenza. Il carcere dei diritti deve scommettere anche sui tabù, come quello della sessualità, cioè sulla rottura di dispositivi proibizionisti, per la liberazione dei corpi incatenati. Ridisegnare le prigioni partendo dai luoghi e dagli spazi dell’affettività sarà una scommessa di civiltà, dopo avere abbattuto i banconi di separazione per i colloqui. L’altra priorità che invoco è di ridisegnare le celle con arredi meno miserabili e con servizi igienici che rispettino la privacy e l’igiene. Se il principio della democrazia era “una testa, un voto”, nel carcere non si è neppure riusciti a garantire la misura di “una persona, un cesso”. Ecco, si potrebbe partire da qui. Contagi in carcere, l’operazione trasparenza del Dap di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 maggio 2020 Resi noti i dati in un incontro con i Sindacati. Attualmente sono 164 gli agenti penitenziari contagiati, mentre 28 i sanitari e 6 delle Funzioni Centrali. Poi ci sono i detenuti attualmente contagiati che salgono a 130 (di cui 2 ricoverati in strutture sanitarie), quattro però quelli morti e 77 sono i guariti. Molti di questi dati, tranne i morti, sono stati indicati durate la riunione di ieri presso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) su sollecitazione delle Organizzazioni Sindacali rappresentative, rispetto all’emergenza pandemica ancora in corso e alle misure di prevenzione e ristoro da adottare in favore degli operatori del Corpo. L’occasione di ieri è stata propizia solo per poter dare alcuni, principali, input all’Amministrazione, formalizzare richieste e acquisire primissime informazioni, anche se i tempi sono stati contingentati per sopraggiunti impegni istituzionali di Massimo Parisi della direzione del personale e risorse. La Uil-pa della polizia penitenziaria ha reso pubblico lo svolgimento dell’incontro e, considerato il poco tempo a disposizione, ha in premessa chiesto l’aggiornamento della riunione a una prossima data ravvicinatissima e indicato, per punti, alcuni temi prioritari da affrontare, molti basati sulla trasparenza. Ad esempio, nel corso della riunione, ha avuto modo di invitare il Vice Capo del Dap, Roberto Tartaglia, a fare in modo che qualsiasi circolare e direttiva (non riservata) venga sistematicamente e tempestivamente inviata alle Organizzazioni Sindacali rappresentative (o altrimenti resa disponibile online) e che si ponga fine alla diffusione di notizie di “prima mano” nell’ambito di ristretti “cerchi magici”. Altri punti richiesti e da approfondire è la comunicazione sistematica dei dati completi sullo stato dei contagi, perché a detta della Uil non è sufficiente fornire il numero dei positivi se non si conosce il numero dei soggetti sottoposti a tampone. Chiede anche informazioni e organizzazione dei cosiddetti reparti Covid, anche con previsione di analisi cliniche periodiche al pari di quanti operano nei reparti ospedalieri dedicati alle malattie infettive. La Uil chiede anche di discutere su un eventuale emanazione di un “decreto carceri”, per una serie di misure urgenti in favore della PolPen, tra cui anche l’istituzione dei medici del Corpo, attese le gravi penalizzazioni che derivano dall’assenza di tali figure. Sono solo alcune dei punti che la Uil chiede di affrontare. Prima che la riunione fosse aggiornata a una prossima data sia Tartaglia che Parisi del Dap hanno condiviso la rilevanza delle problematiche poste e dei temi trattati, mostrando anche grandi aperture circa le richieste di trasparenza come la trasmissione dei dati del contagio e circolari. Far morire i detenuti nel loro letto. Osare immaginarlo di Iuri Maria Prado Il Riformista, 15 maggio 2020 La morte del condannato fuori dal carcere racconta l’ingiustizia della vita in cella. Ecco perché una riforma simile sarebbe considerata oscena. È proprio inimmaginabile che un detenuto, a prescindere dai motivi che lo hanno condannato al carcere, possa morire in casa propria e col conforto dei propri familiari? Oggi pare inimmaginabile. Semmai il nostro sistema prevede limitate e complicatissime ipotesi di differimento della pena quando uno sta molto male e a patto che non sia tra quelli che devono star dentro per forza, per quanto moribondi, perché hanno commesso delitti gravi. Ma, nell’attesa dell’improbabilissima soppressione del carcere a vita, un provvedimento che per altezza civile e portata simbolica assomiglierebbe molto all’abolizione della pena di morte, della tortura, della schiavitù, del servaggio, insomma all’eradicazione dall’ordinamento delle più barbare forme di sopraffazione che l’uomo tanto facilmente predispone e cosi difficilmente, e a costo di esperimenti di riforma sempre assai impopolari, riesce a dismettere, sarebbe appunto questo: prevedere il diritto dei detenuti di morire, come si dice, nel proprio letto. Nessuna ragione diversa rispetto al puro accanimento vendicativo impedisce che si approvi questa elementare guarentigia: la possibilità di entrare nella morte fuori dal chiuso di una cella. Nessuna motivazione diversa rispetto all’inumana assenza anche del più tenue trasalimento di misericordia si oppone a questa piccolissima revoca dell’inflessibilità penale: che l’ultimo sguardo del condannato sia in una camera familiare e verso quello di un parente, di un amico. E tu che mi leggi, qualsiasi cosa tu possa pensare della pena e del carcere, sai perché sarebbe tanto più pericolosa, tanto più oscena, tanto più inaccettabile, questa minuscola riforma rivolta solo a permettere che la persona obbligata vivere in carcere possa almeno non morirci? Ecco perché: perché la morte del condannato fuori dal carcere racconta l’ingiustizia della vita dentro il carcere; perché la morte in libertà del condannato rimprovera la società che gli ha imprigionato la vita. E peggio per chi non capisce. Per tornare a essere cittadini a pieno titolo di Davide Dionisi L’Osservatore Romano, 15 maggio 2020 In carcere la didattica a distanza sta consentendo il prosieguo dei corsi di formazione. In carcere si incontrano uomini e donne con storie particolari. A tanti di loro, prima di varcare la soglia di una casa di reclusione, sono state negate alcune possibilità. Prima fra tutte, quella di studiare. I loro destini passano attraverso strane combinazioni che esaltano alcuni tratti del carattere e ne sacrificano altri. In più di un caso ci si trova di fronte a detenuti che hanno rivelato doti intellettuali molto alte che, però, non avevano sfruttato prima per varie ragioni. E questo è possibile rilevarlo soprattutto grazie alla scuola. L’istruzione, infatti, ha un ruolo fondamentale all’interno del sistema penitenziario soprattutto perché contribuisce ad abbattere la recidiva e aiuta il reinserimento. Il circuito virtuoso e la possibilità di mantenere vivo un costante rapporto con l’esterno attraverso l’insegnamento, avrebbe potuto registrare una importante battuta d’arresto a causa della diffusione del Covid-19. I detenuti che nel corso dell’anno avevano costantemente seguito con interesse le lezioni si sono ritrovati improvvisamente nell’impossibilità di terminare un loro percorso didattico, che con l’aiuto della scuola avrebbe contribuito al proprio accrescimento culturale. Ma il problema è stato tempestivamente affrontato nei diversi istituti di pena e grazie alla didattica a distanza (Dad) sono tanti i detenuti che hanno ripreso a studiare. Secondo Mauro Palma, Garante nazionale dei detenuti e delle persone private della libertà personale, “le nuove tecnologie possono essere un elemento di riavvicinamento di quella società che è oltre il muro del carcere. Le videochiamate, ad esempio, hanno offerto la possibilità agli ospiti di poter parlare con i propri cari in un tempo in cui le visite sono state sospese. Questo è accaduto anche con la scuola”. Palma rileva che “attualmente in Italia sono 926 i ristretti iscritti ai corsi universitari, per parlare del segmento alto, a cui corrisponde un segmento bassissimo di circa 1000 persone analfabete. L’auspicio è che dopo l’emergenza non si torni più indietro e che la Dad diventi parte integrante dell’approccio formativo. Così come avverrà in tutte le scuole del territorio. Non dimentichiamo - chiarisce il Garante - che il tempo carcerario scorre con un ritmo molto diverso rispetto all’esterno. Fuori il tempo è molto più veloce e c’è il rischio che un anno di pena faccia perdere tutta una serie di mutamenti che nel frattempo il mondo libero ha conosciuto. Mi riferisco ovviamente alla tecnologia e noi” ribadisce “un analfabeta tecnologico, una volta scontata la pena, non potremo mai reinserirlo”. Tra i primi istituti che hanno agevolato la ripresa dell’attività scolastica mediante l’utilizzo della didattica a distanza, c’è quello di Bergamo. Ai docenti del Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti e dell’Istituto Alberghiero “Sonzogni” di Nembro è stata data la possibilità di proseguire il percorso scolastico interrotto dal virus. I detenuti, dal loro canto, hanno positivamente accolto la ripresa scolastica e gli incontri formativi. Ovviamente anche il personale di Polizia penitenziaria ha contribuito alla riuscita del progetto. “Per noi è stato un cambiamento epocale”, rivela Maria Teresa Mazzotta, direttrice della Casa di reclusione di Bergamo. “Stiamo utilizzando la sala teatro per garantire la distanza di sicurezza e permettere più facilmente ai ragazzi di interagire con gli insegnanti”. Anche Mazzotta è convinta: “Si tratta di un punto di non ritorno per l’intero sistema e a beneficiarne sarà la continuità. Con la rete anche i docenti che non avevano sempre la possibilità di raggiungere l’istituto, da oggi potranno farlo accendendo il pc”. Da Bergamo a Porto Azzurro. Grazie ad accordi tra la Casa di reclusione locale e due scuole di Portoferraio, il liceo scientifico “Foresi” e l’istituto tecnico-commerciale e per geometri “Cerboni”, è stata, infatti, attivata la didattica a distanza tramite una modalità che poco si discosta da quella utilizzata dalle scuole di tutto il territorio nazionale. I risultati sono stati sorprendenti. Il direttore, Francesco D’Anselmo, parla con soddisfazione dei “suoi” 110 studenti che, grazie alle lezioni on line, non hanno smesso di studiare: “Possono inviare messaggi e formulare domande”, racconta D’Anselmo. “Inoltre hanno la possibilità di chiedere anche che vengano rispiegati argomenti più ostici. Indietro non si potrà tornare. Il sistema classico verrà per forza di cose affiancato dall’insegnamento a distanza. L’istruzione è il migliore investimento per il Paese anche per coloro che, deviando dalla legalità, sono finiti in carcere. La strada che riconduce al reinserimento sociale passa dalla cultura. Ben vengano gli strumenti che ne potenziano e agevolano la sua diffusione”, aggiunge il direttore della Casa di reclusione “Pasquale De Santis” di Porto Azzurro. Anche agli studenti di Viterbo, attraverso le piattaforme più utilizzate in campo scolastico e grazie alle risorse messe in campo da scuola e carcere, è stato garantito il diritto allo studio. “Le difficoltà organizzative legate all’utilizzo di una tecnologia diversa da quella utilizzata con studenti liberi, sono state pienamente superate”, rivela Nadia Cersosimo, reggente del carcere di Viterbo-Mammagialla e direttrice della Casa di reclusione di Rebibbia. “Ci siamo dovuti riorganizzare, ma avevamo già sperimentato l’efficacia della rete con i colloqui on line. Le nuove modalità didattiche hanno avuto evidenti risvolti positivi perché hanno completamente sconvolto l’idea di scuola, così come hanno sconvolto l’uomo detenuto che, grazie alla tecnologia, riesce a stare al passo con i tempi, a muoversi e a pensare così come accade all’esterno. E questo, fino a qualche mese fa, era impensabile”, rileva Cersosimo. Già da un mese sono riprese le lezioni anche per i 30 studenti detenuti del carcere di Massa Marittima, allievi dei percorsi formativi di prima alfabetizzazione, scuola media e primo biennio delle superiori. Gli iscritti si collegano via Skype a gruppi, due volte a settimana con gli insegnanti del Cpia di Follonica. Ai percorsi di istruzione scolastica si sono affiancati i corsi di formazione professionale a distanza del laboratorio per la trasformazione dei prodotti agroalimentari del territorio, progetto sostenuto dal “Pulmino contadino” in collaborazione con Slow Food Monteregio. Grazie ai collegamenti a distanza, è stato possibile riprendere le lezioni teoriche. Ma come è possibile spiegare a distanza le modalità di trasformazione dei prodotti della terra e renderli vendibili? “Parlando di sicurezza alimentare e illustrando tutti i processi a partire dal seme fino alla vendita di ciò che si è piantato”, spiega Sauro Pareschi di Pulmino Contadino. “Devono capire e far capire, una volta usciti dal carcere e avviati a questo tipo di lavoro, ciò che si mangia e cosa contengono gli alimenti. Abbiamo un prodotto biologico? Bene, ma come è arrivato fin qui? Quali energie sono state impiegate? Chi ci ha lavorato? Insomma la nostra didattica a distanza, in assenza di materia su cui lavorare, punta proprio a responsabilizzare il futuro imprenditore agricolo”, aggiunge Pareschi. “Punta soprattutto a quella formazione lavorativa e a quell’istruzione che aiuta a migliorare la vita dei detenuti a partire proprio dalle mura degli istituti penitenziari”. “Più pericoloso fare la spesa al market che stare in carcere”. Gratteri, ma che stai a dire? di Claudio Cerasa Il Foglio, 15 maggio 2020 Cosa non dice il pm quando descrive le carceri come hotel a 5 stelle. Anche il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, è intervenuto sulla vicenda dei detenuti scarcerati durante l’emergenza coronavirus. “Era più pericoloso fare la spesa al supermercato che stare in carcere”, ha dichiarato il pm al Fatto quotidiano, come a dire che, fosse per lui, si potrebbe pure pensare di arrestare più persone in modo tale da garantire loro maggiore protezione dall’epidemia. “Due mesi fa avevo detto che era più facile essere contagiato in piazza Duomo a Milano che non nelle carceri di San Vittore o di Opera. Sono stato criticato e attaccato. Oggi i fatti mi danno ragione: i contagiati in carcere sono 159 su 62 mila detenuti”, ha spiegato. Peccato che Gratteri, nella sua rappresentazione delle carceri come hotel a 5 stelle, abbia dimenticato di dire che fino a oggi quattro detenuti sono morti per Covid-19, che ai 159 detenuti contagiati si aggiungono 215 agenti di polizia penitenziaria positivi al virus (dati del 1° maggio e sottostimati), che la situazione di costante sovraffollamento e promiscuità negli istituti di pena italiani (certificata e condannata innumerevoli volte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo) rende impossibile ogni forma di distanziamento sociale, e infine che se si è riusciti a evitare un’ecatombe ciò è stato dovuto anche alla concessione dei domiciliari a circa settemila detenuti con bassi residui di pena, cosa che ha portato il numero di reclusi a 53.174 (e non 62 mila, come riferito dal pm). Tutte queste dimenticanze sono servite a Gratteri per rinfocolare la polemica sui cosiddetti “boss scarcerati”, che però, come già abbiamo fatto notare, in realtà non sono 400, ma soltanto tre, di cui un 78enne con patologie plurime che tra otto mesi avrà comunque scontato la sua pena, un malato di tumore che non può ricevere le cure nel territorio di reclusione e un condannato non definitivo. Gratteri non ha dubbi: “Le scarcerazioni hanno minato la fiducia nella giustizia e nello Stato che avevamo faticosamente conquistato negli ultimi anni”. Peccato anche qui che, secondo un sondaggio Ipsos dello scorso anno, la fiducia degli italiani nella magistratura sia ai minimi storici (35 per cento). Non proprio una conquista. “Idea: sbattiamo dentro solo i colletti bianchi” di Tiziana Maiolo Il Riformista, 15 maggio 2020 Dopo Gratteri anche il procuratore generale di Palermo fa la sua fantasiosa proposta sul “Fatto” per ridurre il sovraffollamento. Che le carceri italiane siano sovraffollate, quindi invivibili e oggi anche molto pericolose per il rischio di contagio da Coronavirus, nessuno ha più il coraggio (o la faccia tosta) di negarlo. Poi ognuno ha la sua ricetta per affrontare e magari risolvere il problema. La palma per l’originalità - dopo la bacchetta magica del procuratore Gratteri che in dieci giorni ne costruirebbe tre o quattro di nuove - va oggi a un altro (e alto) magistrato, il dottor Roberto Scarpinato. Procuratore generale presso la corte d’appello di Palermo, sessantotto anni (quindi non ha bisogno di emendamenti di sostegno, lui in pensione va tra due anni), ama illustrare di suo pugno il pensiero, piuttosto che scendere al livello di un Gratteri qualsiasi e invocare l’intervista. Tanto l’ospitata sull’organo di famiglia, pardon, di Casta, è sempre garantita. E lui si fa scrittore. E ci stupisce. La ricetta è semplice. E come mai non ci avevamo pensato? Prima della soluzione l’alto magistrato fa la premessa, che centra il vero problema. Dalle statistiche del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ci informa, risulta che “in carcere a espiare la pena finisce quasi esclusivamente chi occupa i piani più bassi della piramide sociale. Il numero dei colletti bianchi è talmente esiguo da non essere neppure statisticamente quotato”). Conclusione: “Forse questo è uno dei motivi dell’eterna irresolubilità della questione carcere”. Chiarissimo. Se ci fossero in carcere più politici e imprenditori e meno proletari, le prigioni sarebbero almeno pensioncine romagnole con distanziamento sociale. Ora, noi sappiamo come ragiona il dottor Scarpinato. Lo conosciamo da moltissimi anni, ma in particolare il suo pensiero, fin dai magnifici tempi in cui era sostituto insieme a Ingroia e Tartaglia alla procura di Caselli a Palermo, si era manifestato con l’intuizione investigativa dell’inchiesta “Sistemi criminali”. Pur non usando ancora l’espressione “colletti bianchi” (una raffinatezza da procuratore generale), il giovane pm aveva già individuato delle cricche di padroni sfruttatori che tramavano contro lo Stato e la classe operaia: “una sorta di tavolo dove siedono persone diverse... il politico, l’alto dirigente pubblico, l’imprenditore, il finanziere, il faccendiere, esponenti delle istituzioni, e non di rado il portavoce della mafia”. Purtroppo gli uomini di questa super cupola non andarono mai in carcere, perché l’inchiesta finì in una bolla di sapone. Come la successiva, il primo tentativo di processo “trattativa” tra malia e Stato. Solo al terzo colpo, e siamo ormai al 2008, le parole del fantasioso Massimo Ciancimino consentirono ai suoi colleghi di imbastire il più grande processo-farsa della storia. Scarpinato, che nel frattempo aveva fatto carriera, con il consueto sprezzo del pericolo, non si è però tirato indietro, e nella sua veste di procuratore generale, è riuscito con rocambolesche giravolte e portare il pluri-assolto Calogero Mannino fino alle soglie della cassazione. Il suo stile non è cambiato. Rimane un sognatore. Da pubblico ministero non amava la veste di repressore di reati che si fossero già verificati. Ha invece sempre preferito andarne alla ricerca, sapendo che in certi ambienti, magari quelli dei “colletti bianchi”, scavando scavando, e attraverso una lettura degli eventi di tipo storico-sociologica, qualcosa avrebbe trovato. Partendo da verità prestabilite e attraverso investigazioni molto estese si finisce spesso con l’andare a cercare la punizione più per condotte ritenute amorali che non illecite. È il modo di procedere dei pubblici ministeri cosiddetti “antimafia”, per i quali tutto è mafia e le carceri dovrebbero essere grandi assembramenti di 41bis. È anche un po’ la stessa sub-cultura del ministro Bonafede, che ha messo a dirigere il Dap due magistrati la cui prevalente esperienza è orientata alla repressione delle cosche. Forse il dottor Scarpinato non si rende conto del fatto che molti detenuti che oggi sono ai domiciliari, e che lui vorrebbe far tornare in galera, fanno proprio parte di quella base della piramide sociale la cui sorte gli sta così tanto a cuore. Dovrebbe però spiegarsi meglio. Se, come ha scritto, la prigione è “specchio fedele delle diseguaglianze e delle ingiustizie sociali fuori dal carcere” la sua soluzione è quella di svuotarle del proletariato in catene (magari fatto di picciotti) e riempirle di amici di Berlusconi? Sì, in cella troppi disperati, ma la mafia esige rigore di Sebastiano Ardita Il Riformista, 15 maggio 2020 Il magistrato risponde all’articolo pubblicato ieri dal Riformista: “Caro Franco Corleone, il carcere è extrema ratio: lo pensavo ieri, lo ribadisco oggi”. In un articolo di oggi (ieri per chi legge, ndr) sul Riformista Franco Corleone ricorda la mia posizione sul carcere, che ho sempre ritenuto l’extrema ratio, con i suoi “non luoghi” che impediscono spesso il recupero della personalità. Ricorda il mio rammarico per una carcerazione che ha spesso obbedito a scelte emozionali facendo finire dietro le sbarre tossicodipendenti ed extracomunitari insieme a una grande parte che viene definita della “sottoprotezione sociale”. Sono le mie idee di sempre, quelle che ribadisco in ogni convegno e in ogni pubblicazione ricordando come questo sistema abbia spesso favorito mafiosi, capi e favoreggiatori di Cosa Nostra col colletto bianco che l’hanno fatta franca. Quindi è un argomento di stragrande attualità. Quando ero direttore dell’ufficio detenuti mi sono battuto per la civiltà della pena e come ricorderà Franco Corleone, ho diramato le circolari - tuttora vigenti - che hanno istituito e regolato per la prima volta l’area educativa. Nel 2007 avviai una indagine statistica da cui emergeva che in quell’anno erano entrate in carcere circa 97.000 persone e ne erano uscite 90.000. Una gran parte erano disperati. Ho stimolato la legislazione per limitare il fenomeno delle cosiddette porte girevoli - gli arresti per pochi giorni per gli autori di piccoli reati, che diventano occasione di reclutamento criminale - mi sono battuto perché il carcere riguardasse la criminalità organizzata e i personaggi pericolosi. Ed anche per questi ultimi ho preteso che si applicassero tutte le regole dell’ordinamento penitenziario senza abusi e senza sconti: non ricordo un mafioso o un personaggio di spicco uscito dal carcere solo perché l’amministrazione penitenziaria non fosse riuscita ad assicurare assistenza sanitaria, ovvero non avesse compiuto ogni sforzo per assicurarla. Perché so bene che nel sistema di democrazia ogni mancanza o abuso nei confronti di un detenuto provoca un contraccolpo che va dalla sua scarcerazione fi no alla messa in stato di accusa, per inciviltà, dell’intero sistema penitenziario. Perché sicurezza e civiltà della pena si tengono insieme in un perfetto equilibrio. Ed è la rottura di questo equilibrio che ha prodotto quello che è accaduto in questi giorni. Franco Corleone sa bene che chi beneficia del caos e dell’assenza delle regole sono i vertici delle associazioni mafiose, come si può capire bene leggendo la sua pregevole indagine sulla mafia di Catania negli anni 80, quando era componente della commissione antimafia. Si tratta di un bel documento di cui lui certamente avrà memoria. La cultura della prevenzione della mafia, caro Franco, è amore per la libertà, solidarietà, condanna di ogni prevaricazione, difesa dei deboli che sono le vere vittime della mafia, dentro e fuori dal carcere. Se escono i capi mafia perde lo Stato, perde la solidarietà, perdono gli ultimi, non perde solo l’antimafia Questo riguarda anche gli spazi. Aprire gli spazi interni al carcere dentro le regole è una battaglia di civiltà. Aprire nel caos consegnando le carceri ai detenuti e alle loro gerarchie criminali, significa amplificare il dominio dei forti sui deboli, dei capi della criminalità sui detenuti alla prima esperienza, della dannazione sulla speranza di tornare alla vita normale. Significa condannare alla frustrazione il personale penitenziario che crede nella rieducazione e nella questione penitenziaria. Ed è quello che ha portato al cedimento del sistema carcerario con le conseguenze che tutti possono notare. Le rivolte in cui sono stati esposti i più emarginati, hanno portato con un effetto domino alla liberazione di 400 mafiosi. Adesso chi è salito sui tetti ne pagherà le conseguenze; i mafiosi hanno incassato la deficienza del sistema: le rivolte sono cessate. Il sistema ha ceduto ma la responsabilità non può essere addossata tutta alla ultima gestione. Sarebbe il caso che una commissione d’inchiesta si impegnasse per capire quanto siano complesse, radicate e antiche le responsabilità di quanto è accaduto. Il carcere si governa con la civiltà e col rispetto, avendo cura dei deboli che vogliono essere recuperati, ma senza fare sconti ai mafiosi, perché ciò significa solo mandare in fumo la vera ragione per cui esiste: proteggere la società dalla devastante azione della criminalità organizzata. La replica di Franco Corleone La risposta di Sebastiano Ardita è in controtendenza rispetto al tempo tetro di insulti e di mancanza di confronto. Ho grande interesse per il dialogo e mi aspetto che Ardita acconsenta sulla proposta di rivedere la legge sulle droghe che è la causa dell’affollamento delle carceri. Mi aspetto anche un pensiero per 13 detenuti morti. La giustizia senza pietà non è umana. Tecnologia, progresso e processo penale da remoto di Franco Villa* Ristretti Orizzonti, 15 maggio 2020 In questi giorni di pandemia si fa un gran parlare di smaterializzazione del processo penale. Con tale termine si allude alla modalità di celebra-zione dei processi consistente nel tenere le udienze da remoto mediante programmi software di videoconferenza (Skype for business e Teams), modalità che ha consentito in questo momento di emergenza da covid-19 di evitare i contatti, riducendo i rischi di contagio, ed evitando al contempo la paralisi totale della macchina della giustizia. L’utilizzo è stato limitato alle udienze considerate indifferibili, quali per esempio le udienze di convalida dell’arresto e gli interrogatori di garanzia in carcere a seguito di emissione di ordinanza cautelare. Secondo i soste-nitori della “remotizzazione” è stata l’occasione per testare tale strumento tecnologico e, considerando positiva la sperimentazione, gli stessi hanno ritenuto necessario l’utilizzo di tale strumento anche per il futuro, facendo leva su un asserito risparmio di tempo e di risorse (si pensi soltanto al risparmio di uomini e di mezzi determinato dall’eliminazione di tutte le traduzioni degli imputati). Nelle fila degli “smaterializzatori” abbiamo ovviamente il governo, il quale ha trovato una formidabile sponda nella maggior parte della magistratura, si pensi a Gratteri e Davigo, che difficilmente si sottraggono dalle luci della ribalta per attaccare la funzione difensiva, ma anche a magistrati più moderati come Albamonte che ri-tengono capziosa e pregiudiziale l’opposizione degli avvocati dell’Unione delle Camere Penali Italiane alla partecipazione a distanza. In sostanza, si vuol far credere che gli avvocati strumentalmente siano contrari alla tecnologia, che si oppongano al progresso o, peggio, che non riescano ad adattarsi alla modernità. Nulla si dice sul fatto che i penalisti da anni richiedono la possibilità di utilizzare la pec per il deposito di me-morie, di istanze e liste testi. Nessun cenno al fatto che gli avvocati non hanno la possibilità di accedere telematicamente dal proprio studio agli atti contenuti nel fascicolo del pm, oppure ai verbali di udienza, utilizzando dei semplici software. Nessuno condivide infine la battaglia dell’Ucpi per video documentare la fase delle indagini preliminari ed in particolare l’escussione dei sommari informatori. La tecnologia piace a costoro solo se va a detrimento della funzione difensiva. Inutile ricordare che all’esito di un travagliato iter, è stato emesso il decreto legge 30 aprile 2020 n. 28 che ha registrato la scomposta reazione della magistratura associata, quando la stessa ha appreso con sdegno che finalmente la politica ha ascoltato l’avvocatura ed in particolare l’Ucpi. In-fatti in tale provvedimento si consente, derogando parzialmente al regime “generalizzato”, la celebrazione da remoto delle “udienze di discussione finale, in pubblica udienza o in camera di consiglio, e a quelle nelle quali devono essere esaminati testimoni, parti, consulenti o periti” solo e sol-tanto con il consenso delle parti. Non voglio entrare nel merito del decreto e non voglio approfondire in questa sede la questione relativa all’opportunità che tale scelta, la quale può effettivamente compromette-re l’esercizio del diritto di difesa, possa essere demandata all’avvocato; però è indubbio che il solo poter impedire l’udienza da remoto è sicura-mente una vittoria dei penalisti, ma non solo, è vittoria del giusto processo. D’altro canto possiamo davvero affermare che l’utilizzo della tecnologia corrisponda sempre al progresso? Pongo questa domanda perché è sempre bene distinguere tra la scienza e la tecnologia, laddove la scienza in-daga i fenomeni naturali e la tecnologia utilizza le conoscenze scientifiche per creare o migliorare i prodotti e gli strumenti a disposizione dell’uomo. Nella nostra prospettiva l’utilizzo della videoconferenza per celebrare le udienze da remoto comporta l’utilizzo della tecnologia per risolvere nell’immediato un problema di distanziamento sociale e nel futuro per ot-tenere un risparmio di tempo e di risorse. Ma siamo sicuri che l’utilizzo di questa tecnologia corrisponda realmente ad un progresso? Per rispondere a questo quesito bisogna far riferimento ai principi di oralità, immediatezza e contraddittorio che devono permeare il processo penale. Si impone cioè lo svolgimento del processo con una comunicazione del pensiero mediante la pronuncia di parole destinate ad essere udite. Si ha dunque il pieno rispetto dell’oralità e dell’immediatezza solo quando coloro che ascoltano possono porre domande ed ottenere risposte a viva voce dal dichiarante, senza una intermediazione tra l’assunzione della prova e la decisione finale sulla sussistenza della responsabilità penale. Sostanzialmente è necessario che il giudice prenda contatto diretto con la fonte di prova e che sia la stessa persona fisica che ha assistito, nel contraddittorio delle parti, all’assunzione della prova a prendere la decisione finale. Questi principi rendono manifesto il fatto che il processo sia un fenomeno comunicativo ed in quanto tale soggetto alle regole che governa-no tale manifestazione del pensiero. Quindi è necessario far riferimento alle scienze sociali che studiano la comunicazione umana. Ma se il processo penale ha come obiettivo la ricerca della verità e il processo è un fenomeno comunicativo, i principi di oralità e di immediatezza corrispondo-no alla miglior scienza ed esperienza per il raggiungimento di tale obietti-vo? La risposta a tale domanda è sicuramente positiva, nel senso che per ricercare la verità, ovvero per stabilire se un determinato fatto storico indicato nell’imputazione sia avvenuto o meno, è necessario procedere all’assunzione della prova nel contraddittorio delle parti, rispettando i principi anzidetti dell’oralità e dell’immediatezza. Tali principi infatti sono funzionali al focus in quanto a livello scientifico si ritiene necessario valutare la comunicazione su due livelli: la comunicazione verbale e la comunicazione non verbale e para-verbale. Per comunicazione non verbale si in-tende il cosiddetto linguaggio del corpo (la prossemica, la postura, la gestualità, le espressioni facciali eccetera), mentre la comunicazione para-verbale attiene al tono della voce. La comunicazione verbale costituisce il contenuto del messaggio, le parole che vengono dette (definita anche comunicazione digitale in quanto la lingua è un codice); mentre la comunicazione non verbale e quella para-verbale attengono al modo in cui si comunica (comunicazione analogica). Pertanto ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto, cioè quello che si vuole dire, e un aspetto di relazione che indica il tipo di relazione che si vuole instaurare con la persona destinataria del messaggio stesso. Sostanzialmente conta sia quello che viene detto, ma anche come viene detto. In questo senso gli studi della scuola di Palo Alto (per tutti Paul Watzlawick) ci dicono addirittura che conta di più il modo in cui diciamo le cose rispetto al contenuto della comunicazione e a livello percentuale la comunicazione non verbale e para-verbale vale il 93% (55% non verbale e 38% la para-verbale) mentre quella verbale soltanto il 7%. Ovviamente tali percentuali sono soltanto indicative e soprattutto vanno modificate in relazione al contesto dell’interazione. Ma ritornando appunto al contesto del processo, arricchiti da queste semplici nozioni di comunicazione interpersonale, ci rendiamo conto che nell’interazione fra giudice, pm, avvocato e testimone durante la cross examination la presenza in aula diventa fondamentale. Come può infatti essere valutata la credibilità di una testimonianza attraverso il filtro di un monitor? Le parti processuali potranno comprendere, solo laddove la connessione internet sia ottimale, la comunicazione digitale, il messaggio verbale, ma non potrà essere apprezzata quella non verbale e para-verbale. Si pensi alla gestualità complessiva, al piede che si agita nervosamente, alla sudorazione, alle sfumature del tono della voce, ovvero a quel livello di comunicazione che diventa determinante proprio per valutare la credibilità. Tali argomenti diventano spendibili anche in relazione all’altro momento del processo in cui gli aspetti comunicativi diventano preponderanti, ovvero la discussione finale. Infatti, nell’arringa del difensore, come nella requisitoria del pm, la comunicazione deve essere persuasiva. Quindi si devono utilizzare argomenti e modalità comunicative che devono convincere e persuadere il destinatario della comunicazione, il ricevente, cioè il giudice. Ma se la convinzione si riferisce a ragionamenti logici volti a di-mostrare la fondatezza degli argomenti utilizzati, la persuasione passa soprattutto sul piano emotivo e mediante la comunicazione analogica. In questo senso, non può essere neutra neanche l’interazione tra l’emittente, ovvero colui che discute rispetto al ricevente ovvero il giudice. Infatti la comunicazione è un processo circolare e quindi ogni comunicazione è a sua volta influenzata dal comportamento verbale e non verbale del destinatario della stessa. Dunque l’avvocato o il pubblico ministero moduleranno la propria discussione in virtù del feedback che riceveranno dal giudice, il quale addirittura a sua volta potrebbe essere influenzato dal pubblico in aula o comunque dal resto dell’uditorio. Non si può pensa-re che sia irrilevante discutere davanti ad un giudice che ti guarda attento e prende appunti rispetto ad un altro che distrattamente conferisce con un collega o con il cancelliere. Dunque anche per la discussione valgono le stesse conclusioni rassegnate in relazione alla cross examination, ovvero per dare effettiva applicazione ai principi di oralità ed immediatezza è assolutamente necessaria la presenza in aula degli attori del processo. In definitiva i suddetti principi, oltre ad avere un fondamento costituzionale e convenzionale, sono funzionali anche da un punto di vista scientifico al perseguimento dell’obiettivo del processo, ovvero la ricerca della verità. Dunque il processo penale da remoto e l’utilizzo della tecnologia per la partecipazione a distanza, non corrispondono al progresso in quanto incidono in senso negativo su tali principi. È auspicabile quindi che gli avvocati non acconsentano mai alla celebrazione dei processi smaterializza-ti, perché tale scelta mortificherebbe il ruolo dell’avvocato, riverberandosi ineluttabilmente sul diritto di difesa del proprio assistito. *Avvocato, Responsabile per la Sardegna dell’Osservatorio Carcere Ucpi Sia concessa la grazia a Domenico Papalia, da mezzo secolo in carcere e ammalato di Elisabetta Zamparutti Il Riformista, 15 maggio 2020 Domenico è in carcere da oltre quarantatré anni. È entrato nel marzo del 1977, a 32 anni. Oggi ne ha 75. È nato in uno di quei comuni della Calabria che pone un marchio indelebile sulla carta d’identità. Segni particolari: nato a Platì. È già una condanna, preventiva, che attende solo il timbro di un tribunale per diventare una pena, detentiva. Se, poi, al luogo di nascita associ un cognome, la pena diventa ostativa a ogni istanza di grazia e giustizia. E Domenico, di cognome, fa Papalia. Quarantatré anni sono tanti. E sono ancora di più, oltre cinquanta, se si contano anche gli anni di “liberazione anticipata” per buona condotta che lo Stato - conscio della realtà delle sue prigioni - calcola come sofferti e somma al “presofferto” effettivo. Si può dire che Domenico è in carcere da una vita, da mezzo secolo, da due generazioni. Una vita in galera merita una riflessione. Su chi è diventato Papalia dopo mezzo secolo e su cosa diventa uno Stato quando priva un uomo della libertà per mezzo secolo. Tutte le relazioni comportamentali danno atto del suo miglioramento e della rottura con logiche criminali. Entra in carcere analfabeta e arriva a frequentare l’Università. Mezzo secolo, due generazioni. Una, Domenico la vede sfumare per una disgrazia peggiore della perdita della libertà: la morte del figlio Pasqualino, colpito da un proiettile rimbalzato sulla campana della chiesa di Platì la notte di Capodanno del 1993. È la prova che nessuno vorrebbe mai vivere e di fronte alla quale ogni ingiustizia subita e ogni sofferenza patita sono poca cosa. Domenico si libera da un dolore insopportabile facendo del bene. Il padre onora la morte del figlio con un gesto d’amore. Decide di donare gli organi dell’unico figlio maschio. Da allora, la conversione del male per sé in bene per altri diventa pratica quotidiana. La nonviolenza diventa la sua religione. Il partito di Marco Pannella diventa la sua fede politica. Papalia è tra i pochi iscritti al Partito Radicale quasi ininterrottamente dal 1990. Oggi Domenico testimonia la nonviolenza, anima e incarna il suo cambiamento nei laboratori “Spes contra spem” di Nessuno tocchi Caino nel carcere di Parma, nei quali continua la sua opera di conversione, fa emergere una coscienza totalmente orientata ai valori umani, al bene, all’amore da offrire come arma di riscatto. Sono testimoni del suo cambiamento direttori, agenti, detenuti che lo hanno conosciuto e che ci hanno detto di lui nei vari istituti dove ci siamo recati. La loro parola allontana ogni ombra che possa far pensare a una sua attuale pericolosità. Per questo, una richiesta di grazia parziale, volta alla commutazione della pena dell’ergastolo in quella di anni trenta di reclusione, è stata presentata il 29 gennaio 2018. Ma, dopo oltre due anni, ancora non sappiamo nulla dello stato della istruttoria al Ministero della Giustizia mentre siamo a conoscenza del fatto che quella del magistrato di sorveglianza di Cagliari, cui l’istanza è stata presentata, è stata completata. Leggi anche Già nel 1993, Ferdinando Imposimato, convinto della innocenza dell’uomo che ha rinviato a giudizio, leva la sua voce a favore della grazia per Domenico Papalia. Imposimato sostiene l’iniziativa assieme a Francesco Catanzariti, storico sindacalista della Cgil e una vita in prima linea nella lotta alla ‘ndrangheta. Voci profetiche che preludono all’assoluzione, decisa tre anni fa alla Corte d’Appello di Perugia, dalla condanna all’ergastolo per l’omicidio di Antonio D’Agostino, una delle tre condanne definitive per omicidio che lo hanno tenuto in carcere per tutti questi anni. Condanne che si riferiscono a fatti antecedenti al 1990 ma che, per interpretazione giurisprudenziale retroattiva, ricadono nell’ostatività introdotta nell’ordinamento penitenziario nel 1991. Così, l’uomo che per buona condotta esce in permesso premio, rispetta sempre le prescrizioni, va in ospedale senza scorta e lavora all’esterno senza mai porre alcun problema, si vede imporre all’improvviso un blocco automatico a ogni progressione trattamentale. Un blocco che, però, nel tempo si trasforma in un lasciapassare alla progressione dell’aggravamento delle sue condizioni di salute. Una relazione medica illustra un quadro clinico generale compromesso e peggiorato nel corso della sua lunga detenzione: concreto rischio di arresto cardiaco con esito infausto, apnee notturne di natura ostruttiva, riduzione delle basi polmonari, cardiopatia ischemico ipertensiva come ulteriore complicanza di diabete mellito. Un quadro clinico che rende Papalia, non solo specificamente vulnerabile all’eventuale contrazione del coronavirus, ma anche assolutamente bisognoso di interventi urgenti e non più derogabili, che possono essere assicurati solo fuori dal carcere, essendo la sua detenzione - conclude la relazione medica - “un deterrente alle cure dovute”. Sono consapevole dell’attuale clima, mediatico e politico, che inquina l’idea di giustizia con quella di vendetta al punto da diventare intimidatorio rispetto a ogni atto di buon senso. Ma sono convinta che ci sono momenti nel corso dell’esistenza tanto degli esseri umani quanto delle istituzioni, che gli uomini - tutti! - rappresentano, in cui anche le prove di forza più dure, quelle che trascinano tutto e tutti negli inferi, arrivano ad un momento in cui l’evoluzione si impone. Vale per la storia di un Paese che ha vissuto solo di stati di emergenza, in cui a emergere - soprattutto in Calabria - è stato un regime pieno e incontrollato di leggi, processi e carceri speciali. Vale per la storia di un uomo indiscutibilmente cambiato nel corso della pena, ma che rischia oggi di morire nelle mani di uno Stato che ha abolito la pena di morte ma che continua a praticare la morte per pena e la pena fino alla morte. E allora, la concessione della grazia, seppur parziale per Domenico Papalia, diventa il momento propizio per far guadagnare allo Stato la forza propria dello Stato di Diritto, per far esprimere allo Stato tutto il suo talento, parola greca che richiama la bilancia, simbolo della Giustizia, equilibrata dalla clemenza. Con la riduzione dei contagi il boss torna in cella di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 maggio 2020 Ufficio di Sorveglianza di Siena - Decreto 10 maggio 2020. Una “fase di relativa rimessione della diffusione dell’epidemia, con riduzione dei nuovi contagi e delle infezioni”. Una riga, associata alla disponibilità presso la struttura sanitaria di un istituto penitenziario, per fare rientrare in carcere dagli arresti domiciliari il boss mafioso Antonino Sacco. Per Sacco la detenzione domiciliare è durata poco più di un mese, essendo stata disposta il 6 aprile. Il primo effetto del decreto legge 29 approvato sabato scorso dal Consiglio dei ministri per arginare l’effetto scarcerazioni, dovute a ragioni di salute, preesistenti, ma aggravate dall’emergenza sanitaria. Il provvedimento dell’ufficio di sorveglianza, il primo in assoluto e destinato a costituire un prototipo di quelli che verosimilmente saranno assunti nelle prossime ore, è scarno e, nelle motivazioni, valorizza 2 elementi. Il primo è rappresentato dalla comunicazione del Dap sull’individuazione di un posto disponibile in una struttura carceraria “dotata di ampia offerta specialistica anche avvalendosi, se del caso, delle strutture sanitarie del territorio”. L’altro è determinato dall’attenuarsi degli effetti del Covid-19. Immediati i tempi del decreto dell’ufficio di sorveglianza, il giorno stesso dell’arrivo della segnalazione del Dap, e nessuna possibilità per la difesa di fare sentire la propria voce. Punto sul quale, tra l’altro si concentrano le contestazioni delle Camere penali, per la quali si tratta di un nuovo esempio di un’ormai diffusa “infedeltà alla Costituzione”. E ieri, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha fatto il punto della situazione in audizione davanti alla commissione Giustizia della Camera, dichiarando che sono 498 il numero dei detenuti in alta sicurezza usciti dal carcere per ragioni di salute e destinati agli arresti domiciliari, la cui condizione ora sarà possibile riconsiderare sulla base del decreto. Bonafede ha anche tenuto a sottolineare “di non avere mai scaricato nulla sui magistrati di sorveglianza, ma mente chi dice che potevo influenzare quelle decisioni”. In carcere, ha annunciato Bonafede, a oggi ci sono 110 detenuti positivi al coronavirus, 3 ricoverati e 98 guariti. Critiche le opposizioni. Per la deputata di Forza Italia Giusi Bartolozzi, ex Gip, Bonafede è stato costretto a intervenire ripetutamente con decreti legge, quando avrebbe per tempo potuto disciplinare per tempo il problema del reato ostativo e lo scioglimento del cumulo delle pene, come pure procedere alla riforma dei benefici penitenziari. Falsificazione di moneta anche per la banconota fotocopiata di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 15 maggio 2020 Corte di cassazione - Sentenza n. 15122 del 14 maggio 2020. Anche la semplice fotocopia di una banconota può far scattare il reato di spendita di monete false qualora le circostanze - scambio veloce ed al buio - siano tali da non permettere all’interlocutore un immediato riconoscimento della contraffazione. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza n. 15122 di ieri, respingendo il ricorso di un uomo condannato (ex art. 455 c.p.) per aver consegnato a un fattorino di una pizzeria 100 euro falsi per pagare un conto di 17,30 euro. “Benché la falsificazione fosse rudimentale - scrive la Quinta Sezione penale - in quanto la banconota contraffatta consisteva in una semplice fotocopia, priva di filigrana e tagliata in modo irregolare”, cionondimeno “il contesto in cui la stessa era stata consegnata in pagamento: per strada, in maniera frettolosa, in condizioni di luce precarie ha reso la condotta concretamente idonea ad ingannare il ricevente, che ha nutrito soltanto qualche sospetto, poi dissolto soltanto dall’esame attento della cassiera della pizzeria, che aveva altresì una maggiore consuetudine con le banconote”. Per la Suprema corte va dunque ribadito il principio secondo cui, “in tema di falso nummario, la grossolanità idonea ad integrare gli estremi del reato impossibile (art. 49 cod. pen,) ricorre solo quando il falso sia riconoscibile ictu oculi dalla generalità dei consociati, espressa dall’uomo qualunque di comune esperienza, ed il relativo giudizio va riferito non solo alle caratteristiche oggettive della banconota, ma anche, in considerazione del normale uso delle stesse, alle modalità di scambio ed alle circostanze nelle quali esso avviene”. In definitiva, il reato è impossibile per inidoneità della condotta soltanto “allorché la grossolanità della contraffazione renda il falso così evidente da escludere la stessa possibilità, e non soltanto la probabilità, che lo stesso venga riconosciuto da una qualsiasi persona di comune discernimento e avvedutezza”. Lombardia. Quasi un milione di euro per dare casa agli ex detenuti di Gino Rigoldi Corriere della Sera, 15 maggio 2020 La buona notizia è che la Cassa delle Ammende ha proposto alla regione Lombardia 900.000 euro da destinare ad alloggi per detenuti che non possono uscire dal carcere, in permesso temporaneo o per aver concluso la pena, perché non hanno una casa dove andare. La Cassa delle Ammende, che raccoglie le somme derivanti da alcune multe statali, ha come compito istituzionale il loro utilizzo per progetti a favore delle carceri e dei detenuti. La regione Lombardia, nella persona dell’assessore alla famiglia, ha rifiutato la somma, affermando che avrebbe voluto utilizzarla per assicurare presidi sanitari più efficaci alla Polizia Penitenziaria. Ovviamente, se la Regione rifiuta quei 900.000 euro, come ha fatto, la somma non arriva a nessuno: né ai detenuti per trovare casa, né agli agenti per acquistare presidi sanitari. Per fortuna, il Consiglio di Amministrazione della Cassa Ammende ha trasmesso la cifra stabilita al Provveditorato per le Carceri della Lombardia, molto saggiamente amministrato da un funzionario dello Stato. È possibile, mi rendo conto, che alcuni dei miei lettori non provino la stessa soddisfazione che provo io e, credo, tutti i miei colleghi cappellani. Allora provo a spiegarmi. La premessa ovvia è che la casa è un bene del quale non si può fare a meno, sia da liberi che da ex detenuti. Questo affitto provvisorio, pagato grazie alla Cassa delle Ammende, vuole essere un periodo “coperto” e accompagnato da una decisa ricerca di lavoro. Quelli che hanno fede nella mia religione sanno che la beneficenza senza progetto è sciocca, e che aiutare un fratello o una sorella che ha sbagliato è comandato dal Vangelo. E tutto scritto nel capitolo 25 del Vangelo di Matteo. Ma lasciamo perdere la religione: sapete perché il carcere di Bollate, in parte anche quello di Opera, i Beccaria, ma credo anche Padova e Verona, insomma, sapete perché alcune carceri hanno una bassa recidiva? Per chi non l’avesse chiaro, “recidiva” significa ritornare in carcere perché si sono nuovamente commessi dei reati. Una bassa recidiva, per esempio del 20/30% invece che del 60/70%, è legata al fatto che dentro il carcere qualcuno si è occupato delle persone, ha insegnato loro un mestiere e, a fine pena, ha attivato per loro un minimo di “paracadute” sociale, il cui elemento principale è la casa. Meno ritorno in carcere significa meno criminalità, più persone che hanno trovato la via per una vita onesta, un colossale risparmio economico, visto il costo di ogni carcerato, e la fine del sovraffollamento delle carceri. Se vi sembra poco vi prego di pensarci. Per un cristiano, questo consiglio mi pare inutile. Livorno. Lo rimandano in un carcere simile al precedente, ma l’emergenza non è finita di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 maggio 2020 Tutti in attesa della rivalutazione, da parte del giudice di Sorveglianza di Sassari Riccardo De Vito il prossimo 22 maggio, dello stato di detenzione domiciliare concesso a Pasquale Zagaria per gravi motivi di salute. Ma la notizia di questi giorni è che Antonino Sacco, condannato per mafia oltre a vari reati come l’estorsione, è rientrato in carcere perché il magistrato di Sorveglianza ha - entro 15 giorni - emesso il provvedimento a seguito dell’indicazione data dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) come prevede il recentissimo decreto Bonafede. Prima era al carcere di San Gimignano dove c’è comunque una normalissima assistenza sanitaria, come in ogni istituto penitenziario dovrebbe avere, ora dietro indicazione del Dap - è stato tradotto nel carcere di Livorno dove sarebbe garantita l’identica assistenza sanitaria. Parliamo di un uomo che sta scontando la sua pena dal 2011. Ufficialmente uscirà dal carcere nel 2027, ma con la liberazione anticipata potrebbe essere libero molto prima. Sacco soffre di una patologia cardiaca, una di quelle malattie considerate fatali se dovesse contrarre il Covid 19. Proprio per questo motivo, la magistratura di Sorveglianza aveva assunto il provvedimento urgente di differimento pena nella forma di detenzione domiciliare ex art. 47- ter comma 1 ter dell’Ordinamento penitenziario. Da ricordare che è una forma provvisoria, soggetta quindi a revisione, tant’è vero che è stato fissato un termine di durata dell’applicazione. Prima di quella data - a prescindere dal nuovo decreto - è comunque possibile che il provvedimento sia revocato anticipatamente. Proprio sotto suggerimento dell’avvocata Giuliana Falaguerra, legale di Sacco, il magistrato aveva disposto la detenzione domiciliare non nel suo luogo di origine, ma in una località del nord. Con il nuovo decreto qualcosa pero è cambiato. Ha introdotto varie disposizioni tra le quali spicca la rivalutazione a strettissimo giro dei provvedimenti concessivi di misure domiciliari emessi “per motivi connessi all’emergenza sanitaria da Covid-19”, da effettuarsi entro quindici giorni. Nei confronti di Sacco, il Dap in brevissimo tempo ha trovato un posto dove, a parer suo, potrebbe essere assistito. Lo ha scritto nero su bianco in una nota mandata al magistrato di Sorveglianza. “Ai sensi dell’articolo 2 comma 1 si comunica che - scrive il Dap - a Sacco Antonino potrebbe essere associata la casa circondariale di Livorno, sede dotata di ampia offerta specialistica e all’occorrenza delle strutture sanitarie pubbliche della città di Livorno”. Questo è tutto, non è annotata nessuna valutazione da parte dell’azienda sanitaria e si usa un condizionale. “Potrebbe essere associato”, è infatti un suggerimento. La magistratura di Sorveglianza l’ha accolto, tendendo anche conto che “attualmente si assiste ad una fase di relativa rimessione della diffusione dell’epidemia, con riduzione del numero dei nuovi contagi e delle infezioni”. Ovviamente il riferimento è all’esterno, dove indubbiamente c’è un forte calo dei contagi. Cosa ben diversa nei penitenziari dove i focolai si possono “accendere” da un momento all’altro, come recentemente ha spiegato il garante nazionale Mauro Palma durante un convegno. Ma il punto è un altro. A ribadirlo è l’avvocata Falaguerra, legale di Antonino Sacco: “Le due carceri, sia quello di San Gimignano dove era precedentemente recluso il mio assistito che quello di Livorno dove attualmente è stato trasferito, - spiega l’avvocata - garantiscono più o meno la stessa identica assistenza sanitaria”. Ma allora perché Sacco è stato mandato in detenzione domiciliare nonostante che al carcere di San Gimignano era presente un’area sanitaria che riesce a garantire il servizio? “Infatti la questione non era, ed è, se ci sono o meno i medici, ma se c’è il rischio infezione”, risponde l’avvocata. “Non c’entra quindi nulla l’aver trovato un altro luogo, tra l’altro simile, - prosegue Falaguerra - salvo che riescano ad assicurare il distanziamento per evitare l’infezione e la sua propagazione”. Il punto, nel caso di Sacco, non è tanto il discorso sanitario visto che non presenta gravissime patologie, come ad esempio nel caso di Bonura o di Zagaria, ma è l’emergenza Covid 19 che in luoghi chiusi e dove non esiste il distanziamento sociale è tutt’altro che rientrata. La sua è una patologia che si può benissimo monitorare, ma è inevitabilmente mortale se dovesse contrarre il virus. Non è un caso che - a differenza del mondo libero - nei penitenziari si inizia a superare, con prudenza, la fase 1, prevedendo che i colloqui dei detenuti con i familiari fino al 30 giugno si svolgano ancora tramite Skype, garantendo almeno un colloquio in presenza a tutti i detenuti e con almeno un congiunto o altra persona una volta al mese. Parma. In arrivo 200 detenuti in più, monta la protesta: “Manca il personale” parmatoday.it, 15 maggio 2020 Il sindacato: “Tutto a discapito del personale di Polizia Penitenziaria che denuncia uno stato di abbandono nel segno della più bieca ed egoistica soluzione dell’arrangiarsi da solo. Si apprende dell’imminente apertura del nuovo padiglione della Casa Circondariale di Parma che dovrebbe ospitare 200 detenuti. In più e svariate circostanze, le organizzazioni sindacali rappresentative del Corpo di Polizia Penitenziaria, hanno manifestato le proprie preoccupazioni per la totale assenza dei dovuti requisiti in grado di assicurare alla struttura il rispetto dei livelli minimi di sicurezza che, a fronte degli attuali numeri, risulta assolutamente impossibile garantire. Le piante organiche di cui al decreto Madia del 2017 prevedevano un organico composto da 313 agenti/assistenti, 76 Sovrintendenti, 65 Ispettori e 4 Commissari. Oggi, in barba alle previsioni ministeriali, in organico ci sono 349 agenti/assistenti, 3 Sovrintendenti, 18 Ispettori e 3 Commissari. Occorre, per di più, precisare che dai 349 agenti/assistenti, vanno sottratti quelli in forza al Gom che, artificiosamente, vengono conteggiati nell’organico complessivo. L’apertura di un nuovo padiglione in grado di accogliere 200 detenuti, richiede l’inevitabile invio di nuovo personale, fermo restando che dall’ultimo corso di formazione sono stati assegnati alla struttura 17 nuovi agenti ma in partenza (mobilità ordinaria) ce ne sono ben 20. A fronte di questi dati, la Casa Circondariale di Parma, registra una carenza di oltre 100 unità di personale, di cui almeno 50 nel ruolo agenti/assistenti, senza tralasciare l’aliquota del personale da assegnare al locale n.t.p. il cui organico non è stato ancora determinato. La locale caserma agenti, di cui le OO.SS. hanno a più riprese denunciato lo stato fatiscente in cui versano la maggior parte delle camere, che non appaiono in condizione tale da essere assegnate al personale di Polizia Penitenziaria fino a quando non saranno definiti i lavori mai iniziai di circa 30 stanze. Ed in presenza di un organico non in grado di assicurare il rispetto dei livelli minimi di sicurezza, con un’Amministrazione che non ha considerato la necessità di rivedere le piante organiche non più attuali ai riferimenti del citato decreto Madia del 2017, alla luce dell’apertura di un nuovo padiglione detentivo che appare, dunque, illogica ed irrazionale, tutto a discapito del personale di Polizia Penitenziaria che, attraverso i suoi rappresentanti, denuncia uno stato di abbandono nel segno della più bieca ed egoistica soluzione “dell’arrangiarsi da solo”. Caltagirone (Ct). Detenuti, ma anche genitori: come curare dal carcere il rapporto con i figli di Serena Termini Redattore Sociale, 15 maggio 2020 Valorizzare la genitorialità mentre si è reclusi per migliorare la relazione con i figli anche nel dopo-carcere. L’esperienza del carcere di Caltagirone. La pedagogista Sara Vassallo: “Progetto fermo per l’emergenza, va ripreso al più presto”. Oltre ad essere detenuti che scontano una pena, sono anche padri di figli e figlie con cui vorrebbero rafforzare il legame affettivo, soprattutto in vista di un dopo-carcere più sereno. È il desiderio forte di 20 delle 500 persone detenute, recluse all’interno della Casa circondariale di Caltagirone, che hanno partecipato al progetto sulla genitorialità “No neet - Il principale problema che ha la scuola sono i ragazzi che perde”, della durata di tre anni, portato avanti dalla pedagogista Sara Vassallo e dalla psicologa Anna Gentile. Per il momento su decisione del Ministero di Grazia e Giustizia, a causa della pandemia, sono state sospese tutte le attività trattamentali curate da associazioni e operatori. “Per il bene delle persone detenute - dice Sara Vassallo - bisogna riprendere al più presto il progetto per non vanificare il percorso svolto fino a questo momento. Da circa un anno e mezzo, infatti, affrontiamo con i detenuti padri la tematica della genitorialità dietro le sbarre. Con questo progetto, finanziato dal Fondo per il contrasto della povertà educativa e minorile, avendo una somma destinata ad attività dedicate al sostegno della genitorialità, abbiamo scelto - appurando la sensibilità al tema della direttrice - di dedicarci alla Casa Circondariale di Caltagirone. L’intenzione è quella di creare le condizioni per attuare interventi concreti che permettano al genitore recluso di riappropriarsi del suo ruolo educativo. Nonostante la sua condizione di detenzione si può lavorare con loro per promuovere e valorizzare una relazione genitori/figli sempre più autentica”. Il progetto va a supportare l’impegno svolto pure dagli educatori che operano in carcere. “In questo modo, in qualità di operatori esterni, supportiamo anche il personale educativo nelle loro attività volte a incentivare la relazione genitore-figlio - spiega ancora Sara Vassallo -. Il fine è quello di potenziare le risorse di ogni genitore, sostenendo, formando e riqualificando le sue capacità attraverso attività atte a favorire una migliore accoglienza a misura di minore con l’allestimento pure spazi ludico-ricreativi pensati dagli stessi detenuti”. Il progetto si articola in alcune fasi. La prima, durata fino allo scorso gennaio, ha riguardato interamente i detenuti nel delicato percorso conoscitivo di sé stessi. “Si lavora sui vissuti di persone in uno stato di delicata fragilità - continua Sara Vassallo. La prima cosa è stata quella di conoscersi per conoscere e poi di fidarsi dell’altro per potersi aprire attraverso la narrazione. Durante gli incontri si è puntato, prima di tutto, ad aumentare nelle persone detenute la consapevolezza del significato della genitorialità, riconoscendo il valore della relazione in famiglia ovvero della relazione genitore-figlio/a, accrescendo l’autostima nel recupero degli elementi sani che caratterizzano la dimensione personale e genitoriale. In altri incontri, invece, sono stati analizzati i vari stili genitoriali secondo alcuni studiosi sul tema che hanno stimolato la riflessione su come la relazione genitoriale sia mutata negli anni”. “Successivamente ci si è confrontati sui desideri, sulle paure e sulle mancanze che influiscono nella relazione con gli altri e in famiglia. Ricorrendo anche a testi di canzoni e poesie il gruppo ha dato vita a un confronto sul cambiamento che il rapporto tra padre e figlio subisce quando la coppia genitoriale si disgrega”. Nella seconda fase è stata allestita una stanza dedicata agli incontri familiari. “Qualche mese prima dell’interruzione delle attività avevamo iniziato a progettare e allestire una saletta destinata ai colloqui con i figli. Ci stavamo inoltre muovendo per trovare qualcuno disposto a donarci arredamenti per questa stanza. La Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti riconosce il diritto dei minori alla continuità del proprio legame affettivo con il proprio genitore detenuto e, al contempo, ribadisce il diritto alla genitorialità dei detenuti. Sono numerosi i bambini che entrano in carcere per incontrare un familiare detenuto. L’incontro, generalmente, avviene in un luogo estraneo e per loro potenzialmente traumatico, sottoposto a regole e tempi che non sono pensati per loro. La sfida, allora, è quella di riuscire a creare degli spazi di accoglienza e di cura in carcere, tutelando il diritto del minore a mantenere un legame affettivo con il genitore detenuto. Questo è un legame fondamentale per la loro crescita che dovrebbe rimanere intatto e non essere legato al reato commesso dal genitore”. “Se la separazione, dal genitore recluso, diventa una rottura improvvisa e non accompagnata da parole che la spieghino, allora produce una separazione traumatica. Poter lavorare su questa separazione permette di ridurre il rischio di esporre il minore a un’esperienza di grave disagio psico-sociale. Inoltre la visita in carcere può diventare anche un incontro con la legalità, se passa attraverso un’esperienza di rispetto della persona e dei suoi diritti umani. Se invece il bambino si sente non trattato adeguatamente viene meno la possibilità di offrirgli l’occasione di poter fare una scelta di stile di vita diverso da quello che ha portato il genitore in carcere”. “Sulle pareti della nuova stanza, il gruppo ha scelto di dipingere un albero che è stato un tema simbolico che abbiamo affrontato insieme - aggiunge ancora -. L’albero rappresenta la vita con le radici che affondando nel terreno assimilano da esso sostanze nutritive. Per essere ben salde devono avere profondità. Tra i desideri, inoltre, emersi, durante il confronto con loro ci sono quelli espressi dalle loro parole quando dicono di iniziare una nuova vita per rimediare perché tutti pensano che ho perso da quando sono qui dentro, ma secondo me questa è una partita molta dura ma che riuscirò a superare con dignità. La mia famiglia è la mia forza. Ciò che accomuna un po’ tutti è pure la paura per il tempo sprecato “perché il tempo passa e purtroppo il tempo perso non ritorna. Se si creano oggi - conclude infine Sara Vassallo - le condizioni per lavorare bene, molto probabilmente, si getteranno le basi per quello che poi sarà una loro maggiore autonomia nella valorizzazione della relazione con i figli proprio nel dopo carcere. Non appena riprenderemo il progetto, considerato che alcuni sono, nel frattempo, usciti dalla Casa di reclusione, integreremo il gruppo con nuovi inserimenti. In questo caso, però, le persone del vecchio gruppo faranno da peer-tutoring ai nuovi arrivati”. Velletri (Rm). La salute è un diritto anche in carcere, ecco come tutelarla retisolidali.it, 15 maggio 2020 Emanuela Falconi racconta come l’emergenza è stata affrontata nel carcere di Velletri. Ma serve un piano complessivo per l’emergenza. Emanuela Falconi, ematologa di formazione, dirige l’Unità Operativa Semplice Dipartimentale per la Sanità Penitenziaria dell’Asl Roma 6 ed è vice-presidente dell’associazione di volontariato Conosci, il Coordinamento nazionale degli Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane che lavora, fra l’altro, nella formazione del personale sanitario e degli operatori socio-sanitari. Una lunga esperienza nell’ambito della sanità in carcere, oggi si occupa della salute dei 600 detenuti del carcere di Velletri, dove, spiega, “l’amministrazione penitenziaria ha ceduto alla Asl 22 locali e ci sono 13 ambulatori, anche specialistici”. Emanuela Falconi dirige l’Unità Operativa per la Sanità Penitenziaria dell’Asl Roma 6 ed è vice-presidente dell’associazione Conosci... Il Coronavirus si è inserito in un quadro già difficile. I dati del Dap, appena usciti, parlano di 54mila detenuti, rispetto ai 61mila di febbraio. Ma le carceri italiane rimangono comunque troppo piene e, in un recente dossier, il sindacato di polizia penitenziaria sottolinea che 2 detenuti su 3 sono malati. “Alcuni anni fa il Lazio ha partecipato a uno studio epidemiologico che coinvolgeva 5 regioni italiane. Emerse, tra l’altro, che il 70% di chi è in carcere ha una patologia, che in molti casi è di tipo psichiatrico o lo lambisce. Mi riferisco a forme di ansia, depressione, disadattamento, che il carcere acuisce o che vengono determinate dalla condizione carceraria. Sui soggetti che manifestano questi sintomi, come ho potuto riscontrare in questi mesi, il Covid-19 ha fatto da amplificatore”. Si parla di 133 positivi fra i detenuti, 200 fra gli agenti di polizia penitenziaria e 2 decessi in tutta Italia. Quale è stata la situazione della salute nelle carceri in piena emergenza? “Dati ufficiali definiti ancora non ce ne sono. Noi operatori sanitari, insieme alle direzioni di istituto e alla polizia penitenziaria, ci siamo trovati a dover declinare rapidamente i decreti e le misure che si susseguivano in un contesto molto particolare come quello carcerario, e non è stato semplicissimo. Banalmente: chiudere l’ambulatorio di un Distretto non è come intervenire in quello di un carcere, perché i detenuti hanno esigenza di scendere in infermeria anche solo per prendere un farmaco da banco. A Velletri abbiamo contenuto le visite meno urgenti, che avvengono su prenotazione, e incrementato invece, per le urgenze, il numero dei medici durante la giornata, per fare in modo che non ci fossero file negli ambulatori e siamo riusciti a continuare, rispettando le misure di sicurezza, prelievi ed esami. Non sono mai mancati a noi, alla polizia penitenziaria e ai detenuti i dispositivi di protezione individuale. Più in generale, c’è stata la necessità di chiudere i colloqui con le famiglie e la cosa ha avuto un forte impatto. Le rivolte si sono dovute anche a questo”. Rispetto ai dispositivi di protezione individuale immagino che sul pia-no nazionale non sia stato sempre così... “Non ho elementi di quadro. Posso ipotizzare una situazione a macchia di leopardo, legata a specifiche situazioni”. Quali sono stati problemi più stringenti da affrontare dal punto di vi-sta sanitario? Chi si occupa di carcere fa notare che una delle questioni è stata reperire spazi per consentire la quarantena ai positivi e garantire la sicurezza di tutti. “A Velletri, con il direttore dell’istituto di pena abbiamo individuato stanze per isolare chi mostrava sintomi che potessero prospettare la malattia. Su tutti i nuovi ingressi abbiamo fatto i dovuti screening, il pre-triage. Nei casi sospetti abbiamo predisposto l’isolamento e eseguito i due tamponi. E a oggi non c’è alcun positivo. Sul piano nazionale è possibile che sia stato difficile individuare spazi appositi: non tutti gli istituti li hanno. Attualmente mi risulta che alcune carceri non accettino nuovi detenuti prima che abbiano effettuato i tamponi”. C’è qualche episodio che in questi mesi l’ha colpita particolarmente? “Guardi, la situazione di chi viene arrestato è già di per sé complicata, soprattutto se si tratta del primo arresto. Sono casi in cui si evita l’isolamento, che può essere pericoloso. A volte non è stato possibile evitarlo, proprio per ragioni di tutela della salute, ma la sofferenza psicologica aumenta. E poi fino a quando non è stata attivata Skype, l’impossibilità di vedere le famiglie ha avuto una ricaduta pesante sui detenuti. Ma anche quando è stato possibile usare Skype, non tutti familiari avevano gli strumenti per accedere: nessun tablet, nessun pc, magari solo un telefono con una connessione insufficiente. E questo vale anche per gli stranieri. Un quadro aggravato dal fatto che molte attività, penso alla scuola, ai laboratori di pittura, alle attività formative, si sono bloccate”. Come va affrontata la fase 2? Servirebbe un Piano complessivo per superare l’emergenza e convivere con i cambiamenti dettati dal virus? Le associazioni ritengono comunque necessario un alleggerimento dei numeri, per evitare che il carcere diventi un luogo di propagazione... “Sarebbe importante varare un Piano che si articoli secondo alcune priorità. La prima: individuare forme di protezione che facciano in modo che chi arriva dall’esterno non porti il contagio. Questo vale per gli operatori sanitari e la polizia penitenziaria, ma anche per le famiglie. È fondamentale che ripartano i colloqui, ma devono ripartire in modo “sicuro”. Ci vuole poi la continuità dei dispositivi di protezione individuale e la disponibilità di test sierologici e tamponi. So che la Regione Lazio sta lavorando su questo e per quanto riguarda il carcere di Velletri sono già in programma test sierologici per tutti i sanitari i detenuti e gli agenti di polizia penitenziaria. E poi, in sicurezza, vanno ripresi i laboratori, la formazione, le attività che supportano chi è in carcere. Quanto all’affollamento: peggiora sempre le cose, anche a prescindere dal Covid-19”. A proposito di affollamento. Le cifre rimangono alte, ma i dati rilevano 7.000 detenuti in meno nei due mesi del lockdown. Secondo lei perché? “Per lo sforzo della Magistratura, che ha deciso di applicare le misure consentite. Per esempio dare licenze straordinarie a chi già fruiva del beneficio della semilibertà, concedere gli arresti domiciliari considerando tutti gli stati patologici che esponevano a rischio maggiore di contagio con conseguente pericolo di vita e anche scarcerare i detenuti con più di 70 anni. In questo periodo ci sono infatti arrivate moltissime richieste di relazioni sullo stato di salute di questi pazienti”. Alcune scarcerazioni legate al Covid-19 hanno generato polemiche e sono un caso politico. Una questione delicata che tocca direttamente il tema della tutela del diritto alla salute: di tutti, anche dei detenuti. Lei che cosa ne pensa? “La salute è un diritto di tutti, e in relazione alle polemiche credo bisognerebbe conoscere nel dettaglio ogni vicenda, caso per caso. Ogni singola situazione dev’essere comunque approfondita”. Torino. La Casa di Carità Arti e Mestieri ai detenuti: “vi siamo vicini” di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 15 maggio 2020 “Sentiteci vicini a voi in questo periodo che vi mette a dura prova e affrontiamo insieme la sfida del domani… perché il domani arriverà e ci troverà tutti più forti di prima”. Sono parole di incoraggiamento che gli insegnanti della Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri di Torino, da anni impegnata nell’erogazione di corsi di formazione professionale all’interno del carcere torinese, hanno inviato a tutti gli allievi “dietro le sbarre” in un messaggio fatto pervenire alla Direzione. “A causa dell’emergenza coronavirus le nostre attività sono ancora bloccate, primi tra tutti i corsi nelle carceri, dove non possiamo arrivare nemmeno con la formazione a distanza”, spiega Alessia Bondone, responsabile Area Comunicazione e Risorse Umane della Fondazione. “Per questo abbiamo ritenuto importante comunicare ai nostri allievi ristretti che questa pausa forzata, che obbliga a interrompere un percorso formativo in cui docenti e allievi mettono in campo molto di più del classico processo di apprendimento, non sia tempo perduto. Al centro dei corsi di formazione in carcere infatti c’è la scommessa di trasformare per i detenuti e le detenute le competenze acquisite in strumento di riscatto, di ripartenza, di rilancio verso una vita diversa”. E proprio in quest’ottica, come specifica Claudia Ducange, referente per la Fondazione dei progetti in carcere, nell’ambito del progetto “Lei”, finanziato dalla Compagnia di San Paolo, coordinato da tre anni dalla Casa Carità con l’obiettivo dell’inserimento lavorativo di donne detenute, è nata l’iniziativa di produrre mascherine all’interno dei laboratori sartoriali del progetto e di sostenerne i costi di produzione per i pezzi destinati al carcere. Le 1600 mascherine già prodotte saranno utili per garantire la sicurezza all’interno del penitenziario dove si sono registrati numerosi casi di contagio Covid-19 e per contribuire a rendere il lavoro di tutti più sicuro. “Terminata la fornitura per il carcere di Torino, il progetto “Lei” si sta impegnando per trasformare la linea di prodotti sanitari in un progetto di sviluppo per la vendita all’esterno delle mascherine”, sottolineano dalla Casa di Carità, “in modo che diventi un’opportunità lavorativa per le detenute impegnate nella sartoria”. Il progetto “Lei” infatti è finalizzato a costruire percorsi di lavoro, di emancipazione e di inclusione: prima del lockdown il percorso seguiva 40 recluse e 9 donne all’esterno del carcere. 10 lavorano presso le tre Cooperative partner del progetto (Extraliberi, Impatto Zero e Patchanka), 16 sono allieve dei corsi della Casa di Carità. Per informazioni e per sostenere il progetto scrivere a: progettolei@casadicarita.org. Ferrara. “La città è sprovvista di un sistema di reinserimento sociale” estense.com, 15 maggio 2020 La posizione del direttivo e dell’osservatorio della Camera Penale Ferrarese. “Ferrara, diversamente da quanto sta accadendo in altre realtà territoriali della regione, risulta sprovvista di un sistema di reinserimento sociale, che costituirebbe una occasione importante di contrasto alla marginalità sociale, al fine di favorire una piena rieducazione”. È quanto osservano il direttivo e l’Osservatorio carcere della Camera Penale Ferrarese. La questione è quella delle misure alternative alla detenzione, soprattutto in un periodo storico in cui “l’emergenza Covid-19 ha messo nuovamente in luce il problema del sovraffollamento carcerario e dei rischi che questo comporta per la salute dei detenuti”. Per attuarle però, è necessario un domicilio idoneo e per questo, ricordano dalla Camera Penale, “nel mese di aprile, è stato sottoscritto un accordo fra la Regione Emilia-Romagna e l’Uepe ai sensi del quale è stato indetto un bando di gara destinato ad enti e associazioni del Terzo Settore per accogliere nelle proprie strutture o in quelle messe a disposizione dalle amministrazioni comunali alcuni detenuti richiedenti, così da fornire un supporto abitativo e di sostegno al reinserimento sociale a favore dei beneficiari”. Il bando non ha avuto alcun seguito: “Un consorzio di cooperative congiuntamente ad una Ats - ricordano dalla Camera Penale, che riprende notizie di stampa - aveva richiesto di partecipare al bando e l’Amministrazione comunale ne ha respinto la candidatura, ritenendo che non fosse pervenuto alcun progetto dettagliato, ma solo una richiesta generica e incompleta, peraltro a pochissimi giorni dalla scadenza del bando (fissata al 4 maggio 2020). All’esclusione sono seguite svariate polemiche e proteste, culminate con una interpellanza alla Giunta”. Polemiche a parte, “l’unico effetto concreto è che - attualmente, a bando scaduto - Ferrara, diversamente da quanto sta accadendo in altre realtà territoriali della regione, risulta sprovvista di un sistema di reinserimento sociale, che costituirebbe una occasione importante di contrasto alla marginalità sociale, al fine di favorire una piena rieducazione”. La richiesta e quella di una “pronta ricerca di una soluzione che sia concretamente idonea a rispondere alle esigenze che ci si propone di realizzare: un più ampio ricorso alla misura extra muraria, che consenta la fuoriuscita dal circuito carcerario di condannati con pene residue minime, specie in un momento emergenziale come quello in atto”. Lecce. Lavori in corso “a distanza” per i murales del carcere di Antonella Barone gnewsonline.it, 15 maggio 2020 Il progetto di arte terapia Arte in libertà… Oltre le sbarre, ideato dagli studenti del Dipartimento di Storia, Società e Studi sull’Uomo, dell’Università del Salento, per la realizzazione di murales all’interno del carcere di Lecce, era iniziato a gennaio con un gruppo di detenuti del reparto infermeria. Poi l’emergenza Covid-19 ha determinato il blocco di tutte le attività all’interno degli istituti penitenziari. Da qualche giorno, come accaduto per le attività scolastiche e culturali in molte carceri, anche questo progetto ha intrapreso la via telematica per continuare i suoi lavori e aggiungere persino ulteriori occasioni di visibilità e condivisione di quanto realizzato nei laboratori. Saranno documentati in un video, infatti, gli incontri online tra persone detenute in particolari condizioni di fragilità (alcune ricoverate in Infermeria), studenti coinvolti nel progetto, quattro volontari di servizio civile dell’Ufficio Integrazione Disabili “Università senza frontiere” e dieci studentesse del Dipartimento di Storia, Società e Studi sull’Uomo. Le idee grafiche emerse e condivise nel ciclo d’incontri diventeranno murales non appena sarà cessata l’emergenza e possibile riprendere le attività interne al carcere. Intanto è già possibile vedere il primo video sui lavori in corso “a distanza”, con l’intervento di Vanessa De Donatis, neolaureata in Psicologia all’Università del Salento sul canale youtube dell’Ateneo. Ritratto di Teresa Bellanova, la ministra che ha reso visibili gli invisibili di Aldo Torchiaro Il Riformista, 15 maggio 2020 Lacrime della forza, quelle versate da Teresa Bellanova in diretta, parlando della regolarizzazione dei migranti. Lacrime di gioia e di dolore per una battaglia - “rendere visibili gli invisibili”, che ha segnato la vita del Ministro delle Politiche agricole. Segno prorotto e prorompente della soddisfazione politica e umana di chi ha vinto la sua battaglia dentro e fuori il governo, dentro e fuori la politica. “Se noi facciamo emergere questo lavoro di regolarizzazione dei permessi di soggiorno non saranno costi per l’Italia, saranno entrate: perché i rapporti di lavoro irregolare privano lo Stato anche della contribuzione, oltre che togliere alle persone i loro diritti e la loro dignità. Quindi io non mi spaventerei dei numeri: se saranno 500-600 mila saranno i benvenuti, perché saranno persone che noi avremo tirato fuori dai ghetti e li avremo portati a vivere nella condizione della legalità e del riconoscimento della loro identità”, dice a coronamento del decreto. E a chi la prende in giro perché ha pianto, risponde a muso duro: “È vero. Ho pianto. Ho faticato, ho combattuto, e alla fine ho pianto. Hanno accostato le mie lacrime ad altre lacrime: le hanno riportate ad un genere, quello femminile. Io invece ho avuto la forza di piangere - sì, la forza - perché ho fatto una battaglia per qualcosa in cui credevo sin dall’inizio, perché ho chiuso il cerchio di una vita che non è soltanto la mia, ma è quella di tantissime donne e uomini che come me hanno lavorato nei campi”. Bellanova quei ghetti di campagna, in cui il caporalato dà vita al nuovo schiavismo dei braccianti, lo conosce molto da vicino: a 14 anni usciva di casa all’alba per andare a raccogliere l’uva nelle campagne del brindisino. Dall’incassettamento dell’uva da tavola alle prime riunioni sindacali, il passo è stato breve. Già adolescente divorava tutti i libri e i giornali che le capitavano a tiro. Le sue coetanee si innamoravano delle celebrities di Hollywood, lei guardava a Giuseppe Di Vittorio. Va a scuola fino alla terza media. “Non ne sono orgogliosa”, dirà alla Gruber. La disciplina l’ha imparata prima nei campi, dove la fatica per le donne raddoppia, poi alla Camera del Lavoro di Brindisi. Lì trovava sempre una copia de L’Unità, che a fine riunione portava a casa. Un modo per imparare a leggere non solo il testo ma il contesto. A trent’anni diventa segretaria provinciale della Federazione Lavoratori Agroindustria (Cgil) di Brindisi. Prima donna, per giunta giovane, a capo di un sindacato tutto al maschile, nel Mezzogiorno. Oggi si presenta alle porte del Ministero alle 7.30 del mattino, spesso prima che siano arrivati gli uscieri. La sveglia a casa suona alle 5.30, la colazione si riduce a un caffè. E si immerge nelle rassegne stampa, poi nella lettura avida, assetata dei quotidiani. “Ne legge almeno dieci ogni mattino”, ci racconta la sua Capo segreteria, Alessia Fragassi, che la accompagna da anni. Mette un’energia assoluta in tutto quel che fa, credendoci tanto da coinvolgere chi la circonda. “Non si rimanda mai a domani quello che si può fare oggi”, ripete sempre. È una stakanovista. Al Ministero non erano preparati ai suoi ritmi. Negli ultimi giorni sono rimasti tutti convocati fino alle due di notte. Raramente si torna a casa prima delle 23. Un foglio bianco, pronto a essere firmato con le dimissioni, è rimasto sulla sua scrivania tutta l’ultima settimana. Al suo staff ha detto “Siamo in una partita esiziale, vinciamo o andiamo a casa”. Fa sempre sul serio. Come quando ha deciso di lasciare il Pd - lei che colleziona tutte le sue vecchie tessere Pci - per seguire Matteo Renzi. Un incontro di affinità incredibile tra due anime dalla storia molto diversa. Mai avuto un ripensamento. “Ascolta Renzi, ma decide da sola e non cambia idea”, dicono di lei. L’uomo con cui si confida è un altro. Si chiama Abdellah El Motassime, marocchino di Casablanca. È stato il suo interprete durante un viaggio nel 1988 con la Flai Cgil in tema agroalimentare, ed è stato subito colpo di fulmine. Convolati a nozze nel marzo 1989 e da allora profondamente uniti. “Vivono in connessione profonda”, dice chi li conosce più da vicino. “È un punto di forza: lei sa di essere sostenuta in qualsiasi momento da un uomo umanamente esemplare, che ha una cura e un accudimento fortissimo nei suoi confronti”. Il loro unico figlio, Alessandro, studia medicina e non vuole saperne di fare politica: “È un modo diverso per dedicarsi agli altri”. Era lui ad accompagnarla al Quirinale per il giuramento da ministro, quello con l’abito blu costato indecenti polemiche. “Che non la feriscono”, ci raccontano i suoi. “Ne ha viste e sentite tante, nella vita. Sa come rispondere a tono”. E a proposito di risposte, ne ha per tutti. Il cerimoniale del Ministero le ha contestato i biglietti da visita. “Ministro, lei non può far stampare il suo numero di cellulare personale, altrimenti la chiamerà chiunque”, le hanno fatto notare. Lei non ha fatto una piega. “Chi vuole chiamarmi, mi chiami”. E ha messo il suo numero, senza schermi. Eletta deputata, trasferitasi da Lecce a Roma, si è trovata una casa vicino alla fermata del tram. E per andare a Montecitorio lo ha preso tutti i giorni. Sale sul tram con la mazzetta dei giornali e qualche libro. Ha finito da poco di leggere la trilogia di Elena Ferrante. Storie di miseria e di riscatto, di ragazze del Sud. Storie che le ricordano le cicatrici che ha addosso. Con il tram che prende passa accanto al Nuovo Sacher di Nanni Moretti, di cui conosce i film a memoria, come quelli di Ken Loach. L’altra sera è tornata a casa, dopo la conferenza stampa di Palazzo Chigi, senza festeggiamenti. Ha abbracciato il figlio e il marito. Lo staff che ha lavorato dietro le quinte conosce la cifra della sobrietà: “Ci ha detto di riposare per tornare l’indomani pronti, il lavoro non è ancora finito”. I Cinque Stelle masticano amaro e sembra che Di Maio sia pronto, a partire dagli Stati Generali, a sfidare lo stesso Conte pur di rovesciare l’intesa sulla regolarizzazione. Ma ieri il cellulare di Teresa Bellanova non ha mai smesso di squillare. L’hanno chiamata in tanti, per congratularsi, da Beppe Sala alla ministra Lamorgese, con cui questo successo è condiviso. E Emma Bonino l’ha voluta con sé per una diretta Facebook, entrambe emozionate. Una marea di messaggi le è arrivata dai vertici del Pd: “Brava, non hai mollato”. Quello che le ha detto anche Giuseppe Conte, come lei pugliese, nato a mezz’ora di strada dalla Cerignola di Giuseppe Di Vittorio. Nel suo segno, è nata una nuova leader. Turchia. Nel regno di Erdogan si muore e nessuno si indigna di Franco Corleone L’Espresso, 15 maggio 2020 La prima manifestazione che si organizzerà a Roma con uomini e donne in carne e ossa, dovrà essere davanti alla Ambasciata della Turchia con il fazzoletto giallo del Grup Yorum al collo. Davvero grazie a Roberto Vecchioni che su Repubblica di domenica 10 maggio ha scritto un pezzo straziante sulla morte di un musicista del Grup Yorum dopo uno sciopero della fame di 323 giorni per protestare contro il divieto di tenere concerti, di suonare, di cantare che durava da cinque anni. La libertà fa paura alle dittature, la Turchia di Erdogan vive sulla costruzione di complotti e di nemici perfetti. Ibrahim Gokcek, il bassista del gruppo musicale accusato di essere contiguo a movimenti di opposizione ha lasciato un messaggio tremendo di accusa: “ci avevano lasciato solo i nostri corpi per combattere”. Prima di lui sono morti Helin Bolek e Mustafa Kocak, dopo mesi di digiuno. Sono sconvolto, come è possibile che io, persona mediamente informata, non sapessi nulla di questa tragedia incombente? Ha ragione Vecchioni, il nostro Occidente è vile, indifferente e ora si culla nello spot demenziale del “tutto andrà bene”. Non sa, o finge di non sapere, che questo non è un caso isolato, poiché la Turchia negli ultimi anni è diventato un grande carcere, dove si può finire senza aver commesso alcun reato. Basta la generica accusa di “terrorismo”, che lì (ma è lo stesso in tanti altri paesi) viene appioppata a migliaia di insegnanti, giornalisti, sindaci, parlamentari di opposizione. E chi non finisce in prigione viene estromesso dagli impieghi pubblici. Dopo il tentato golpe del 2016 sono stati licenziati anche 4.279 magistrati, 3.000 di loro arrestati. È così che, come riferisce nell’ultimo numero il magazine internazionale Global Rights, che da anni denuncia e informa anche sui diritti umani nel regno di Erdogan, secondo i dati dello stesso governo, a gennaio vi erano ben 298.000 persone nelle 355 prigioni del paese, che però dispongono di soli 218.000 posti. Vi sono almeno 1.334 prigionieri malati di cui 457 in gravi condizioni. Vi si trovano persino 780 bambini, in prigione con le loro madri globalrights.info). Del resto, basterebbe avere un po’ di memoria per sapere delle condizioni delle carceri e dei diritti in quel paese, dove troppo spesso lo sciopero della fame sino alle estreme conseguenze è l’unica possibilità di protestare. Come avvenne, ad esempio, nel 2001, con decine di reclusi morti a seguito di un lungo digiuno e altre decine uccisi dall’assalto dei militari alle prigioni in lotta. Ne scrisse il compianto Sandro Margara, per un troppo breve periodo a capo delle nostre carceri dopo essersi recato in Turchia con una delegazione di osservatori internazionali su Fuoriluogo nel gennaio 2001. La sua testimonianza si può leggere nella Antologia dei suoi scritti “La giustizia e il senso di umanità” che ho curato nel 2015. Ora dunque sappiamo. Si può morire anche di indifferenza. La prima cosa da dire, forte, è che la prima manifestazione che si organizzerà a Roma con uomini e donne in carne e ossa, dovrà essere davanti alla Ambasciata della Turchia con il fazzoletto giallo del Grup Yorum al collo. Un silenzio agghiacciante dovrà far crollare i muri dell’intolleranza e della violenza. E solo allora come chiedeva Ibrahim potremo cantare “Bella ciao”. Per prepararci a quell’appuntamento potremmo iniziare una catena umana, di 323 persone di cuore, tante quanti i giorni del digiuno mortale, per uno sciopero della fame collettivo. Occorre dare corpo alla speranza di giustizia e libertà. Una democrazia non può vivere a lungo senza diritti, senza sorrisi, senza amore, senza fraternità. Covid o non Covid. Turchia. Ambizioni pericolose: il gioco di Erdogan di Franco Venturini Corriere della Sera, 15 maggio 2020 Alla nostra politica estera, o a quel che ne resta, si pone una questione latente da tempo che la liberazione di Silvia Romano ha plasticamente riassunto: dobbiamo essere alleati o rivali di chi ci aiuta ma ci pesta anche i piedi sull’uscio di casa? Non c’è stata soltanto la liberazione di Silvia Romano, che ha richiesto il fondamentale aiuto dei servizi turchi presenti in Somalia come un tempo lo eravamo noi. Non c’è soltanto la presenza militare turca in quella Tripolitania dove l’Italia ha cruciali interessi, e non ci sono soltanto le esplicite ambizioni di Ankara sui giacimenti energetici del Mediterraneo. La Turchia del “Sultano” Recep Tayyip Erdogan, sulla scena internazionale a noi più prossima, si muove ormai come una potenza che non esita a usare la forza. Si pone allora alla nostra politica estera, o a quel che ne resta, una questione latente da tempo che la liberazione di Silvia Romano ha plasticamente riassunto: dobbiamo essere alleati o rivali di chi ci aiuta ma ci pesta anche i piedi sull’uscio di casa? Gli elementi dell’equazione che dobbiamo risolvere sono noti, ma fanno impressione quando vengono considerati tutti insieme. La Turchia di Erdogan, anche in questo periodo di pandemia, non ha ceduto un centimetro delle sue ambizioni e talvolta della sua arroganza militare. Ankara alimenta una politica di penetrazione nei Balcani occidentali come fa la Russia, in competizione con quella della Ue e della Nato, pur essendo la Turchia un socio di rilievo dell’Alleanza. Ancora più spinti e costosi sono i suoi insediamenti in Africa, dove comincia a rivaleggiare seriamente con Cina e Russia. In Siria la Turchia si è dovuta parzialmente piegare ai voleri di Putin, ma l’interdipendenza è reciproca come si è visto anche nella crisi di Idlib. Erdogan ha sfidato persino l’America acquistando missili antiaerei russi S-400, in via di consegna anche se la loro attivazione è stata rinviata come è stato di fatto rinviato il castigo Usa (l’esclusione della Turchia dal programma degli aerei F35). In tempi di coronavirus la “diplomazia degli aiuti” della Turchia ha rivaleggiato con quella cinese e quella russa. E poi ci sono le periodiche minacce all’Europa che usano come arma impropria i migranti siriani. Profughi senza più speranza che la Grecia è sin qui riuscita a contenere, anche grazie alla contro-minaccia del Covid-19. E ci sono, soprattutto, la Libia e il Mediterraneo. Le navi militari turche che allontanano dalle acque di Cipro chi ha titolo (come l’Eni) per effettuare prospezioni. Le mire non dissimulate sulle ricchezze energetiche della Tripolitania (dove gli interessi prevalenti sono di nuovo italiani) e anche delle acque contigue. Risulta evidente da questo schematico riassunto che mentre su temi come i flussi migratori è l’Europa a dover scegliere una linea con i soliti tormenti che fanno il gioco di Erdogan, su altre questioni sono gli interessi nazionali a prevalere e quelli italiani sono, o dovrebbero essere, in cima alla lista. Serve una linea politico-economica e anche militare che non c’è, si viaggia sull’onda degli episodi alternando casualmente, senza una strategia complessiva, mani tese e linee rosse da non superare. S’intende che siamo ormai abbondantemente fuori gioco nel Corno d’Africa come, colpevolmente, in molte altre contrade del Continente Nero. Ma qualche richiesta turca di restituzione di favori dopo la vicenda Romano potrebbe riguardare piuttosto Cipro e la Libia, e se ciò accadesse l’Italia deve essere pronta a rispondere nell’ambito di una visione strategica coerente e oggi mancante. A Tripoli in particolare, quale è la nostra linea? Quando i principali giocatori della partita tenevano un piede con Serraj e l’altro con il cirenaico Haftar, noi eravamo schiacciati su Serraj per essere fedeli alla linea Onu. Ora che Serraj ha trovato nella Turchia un padrino ben più convincente e prontissimo a usare la forza o a fornire armamenti moderni, noi ci siamo collocati nella terra di nessuno in posizione equidistante, fedeli stavolta a un “Processo di Berlino” già morto e sepolto. Eppure la partita italo-turca, e la credibilità reciproca, si giocano in Libia e nel futuro delle sue ricchezze energetiche. Mentre Erdogan spara volentieri e sogna una rivincita neo-ottomana, l’Italia balbetta, non crea proposte che non siano inutili conferenze, e non ha un fronte politico interno in grado di appoggiare un uso intelligente (come in verità è stato fatto a Misurata) dello strumento militare. Silvia Romano ci ha aiutati a sollevare un coperchio che la politica estera italiana preferiva tenere chiuso. Ora si tratta di affrontare quel che bolle in pentola. Stati Uniti. Guanti, alcool e mascherina: dopo la pausa Coronavirus il boia torna al lavoro di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 15 maggio 2020 Il primo giustiziato col “distanziamento”. “Non vedo dove sia il problema, tutto verrà eseguito seguendo le regole del distanziamento e solidi protocolli di sicurezza, la finirei qui”. Nelle raggelanti parole di Karen Pojmann, portavoce del Dipartimento carceri del Missouri “tutto” significa l’esecuzione di Walter Barton prevista per martedì prossimo tramite iniezione letale, la prima negli Usa del Covid. Nelle raggelanti parole di Karen Pojmann, portavoce del Dipartimento carceri del Missouri “tutto” significa l’esecuzione di Walter Barton prevista per martedì prossimo tramite iniezione letale, la prima negli Stati Uniti dallo scoppio della pandemia. Gli avvocati di Barton hanno tentato, senza successo, di ottenere un rinvio dell’esecuzione sostenendo che sia incompatibile con le regole della sicurezza in quanto implica l’assembramento di diverse persone (il condannato, il boia e gli assistenti, i consulenti spirituali, le guardie penitenziarie, i parenti della vittima e quelli del giustiziato). Non c’è stato nulla da fare: lo scorso aprile la Corte suprema ha rifiutato la richiesta di Barton, argomentando che il governatore repubblicano Mike Persons, fervente sostenitore della pena di morte, non ha mai interrotto le esecuzioni per l’emergenza Covid-19. Il Missouri è l’unico Stato a non averlo fatto. Il governatore dell’Ohio Mike DeWine ha infatti spostato le esecuzioni previste per luglio e agosto al 2022. La Corte suprema del Tennessee ha rimandato un’esecuzione programmata a giugno al 2021. Stessa linea in Geogia, lo Stato in cui il lasso di tempo tra una condanna e un’esecuzione è più breve, dove il procuratore generale Chris Carr ha dichiarato che “tutti gli sforzi delle autorità devono concentrarsi per fronteggiare l’allarme sanitario”. Persino il Texas, noto per la sua antica passione per il boia, le ha sospese fino a che la pandemia non sarà, se non debellata almeno contenuta. È stata la stessa alta Corte texana a stabilire che “salvare le vite degli americani dal Covid-19 richiede ingenti risorse ed è molto più urgente e importante che giustiziare un condannato”. Ma questo non vale per il Missouri, ancorato alla secolare tradizione per la quale il cruento corso delle esecuzioni non deve mai fermarsi, non importa cosa accada all’esterno. Un tempo negli Usa facevano tutti così. Tra il 1918 e il 1920, quando l’epidemia di influenza Spagnola gettò l’America nel panico ci furono quasi 250 persone giustiziate, una metà per impiccagione, l’altra a friggere sulla sedia elettrica. Nel 1957 l’influenza H2N2 uccise circa 120mila persone oltreoceano e 70 persone vennero uccise dal castigo di Stato, di cui 15 nelle terribili camere a gas che all’epoca erano giunte ad arricchire ed ammodernare il macabro armamentario del boia. Barton, 64 anni, è stato condannato per l’omicidio dell’80enne Gladys Kuehler, avvenuto nel 1991. L’anziana fu picchiata, aggredita sessualmente e pugnalata più di 50 volte nella città di Ozark, vicino a Springfield. Un crimine efferato che secondo i suoi difensori Barton non ha mai commesso. In questi trent’anni si è infatti sempre dichiarato innocente e ci sono voluti cinque processi, di cui due di appello perché il jury non era mai unanime, per arrivare alla condanna definitiva. Le tracce di sangue trovate sul luogo del delitto sono compatibili con quelle di Barton, ma per i suoi legali non possono costituire una prova. Inoltre l’emergenza Covid ha limitato in modo grave il lavoro dei difensori che si occupano di far sospendere la pena a un detenuto nel braccio della morte. L’avvocato, Frederick Duchardt Jr. dallo scorso marzo non ha potuto ascoltare nuovi testimoni, riesaminare le prove contestate e presentare qualsiasi nuovo reclamo legale, visto che i tribunali del Missouri hanno ridotto all’osso le procedure a causa dal lockdown. Come ha commentato amaramente Robert Dunham, direttore del Death Penalty Information Center: “Quando i tribunali non sono nemmeno in grado di gestire gli affari ordinari, non è realistico aspettarsi che saranno in grado di gestire affari straordinari”. Così, salvo colpi di scena, fra tre giorni Barton verrà ucciso con un’iniezione di veleno, ma “in tutta sicurezza”, per citare la portavoce Karen Pojmann. La prigione di Jefferson city La prigione in cui Barton sarà giustiziato ha tre stanze di osservazione separate per i testimoni: una per la famiglia della vittima, una per la famiglia dei condannati e una terza per giornalisti e altri curiosi. Pojmann ha spiegato che ogni stanza dei testimoni sarà limitata a dieci persone, in conformità con le linee guida dello stato in materia di distanza sociale. Ha poi concluso spiegando: “Abbiamo un ampio accesso al disinfettante per le mani, alle maschere in tessuto e ad altri materiali di consumo, se necessario”. Di fronte a tanto zelo i margini di manovra per far valere i diritti del condannato sono ridotti a zero: “Il Missouri è pronto a mettere a morte un uomo innocente, questo è un caso di scuola per tutti coloro che credono che la pena di morte debba essere abolita”, ha commentato Duchardt Jr. Dal 2015 Barton riceve continua assistenza psichiatrica, il suo stato mentale è pietoso mentre in prigione ha subito un ictus e le severe lesioni cerebrali lo hanno costretto a deambulare su una sedia a rotelle. Perù. Coronavirus, una sessantina di detenuti morti in carcere agensir.it, 15 maggio 2020 Sono già una sessantina i detenuti nelle carceri peruviane che sono morti per il coronavirus, mentre tra il personale penitenziario sono quasi una decina. “È una situazione molto grave, nella quale i diritti umani sono violati - spiega al Sir mons. Jorge Enrique Izaguirre, vescovo della prelatura di Chuquibamba e presidente della Commissione episcopale di azione sociale (Ceas) della Chiesa peruviana. Come Ceas abbiamo chiesto al Governo, lo scorso 11 marzo, di fare fronte a questa emergenza, ma le risposte sono state molto lente. In generale, il Governo ha ben operato, ma su questo punto, pur essendo stati ascoltati, si è agito in modo poco tempestivo”. Il Covid-19, come accade in molti Paesi sudamericani, ha trovato nelle carceri terreno fertile, a causa di problemi mai risolti. Prosegue mons. Izaguirre: “C’è, innanzitutto un sovraffollamento che mediamente, a livello nazionale, raggiunge il 130% della capienza. Il problema tocca 54 istituti penitenziari su 69 e arriva a punte del 200% o addirittura del 500%. È praticamente impossibile attuare misure di isolamento sociale. Il 40% dei detenuti è ancora in attesa di giudizio, per la lentezza del sistema”. Eppure, dare un po’ di respiro alla presenza nelle carceri sarebbe possibile: “Il 10% dei detenuti è composto da persone accusate di omissione di assistenza familiare, un tipo di reato per il quale sarebbero auspicabili forme alternative di pena”. Ancora, aggiunge il vescovo, “assistiamo a un abuso della detenzione preventiva. Insomma, la situazione era già molto grave prima dell’arrivo della pandemia”. Burkina Faso. Indagine su 12 detenuti morti in carcere nella stessa notte di Chiara Gentili sicurezzainternazionale.luiss.it, 15 maggio 2020 Un procuratore del Burkina Faso ha avviato un’indagine dopo che 12 persone sono morte, nella stessa notte, nel carcere della città di Fada N ‘Golma, nella parte orientale del Paese, poche ore dopo essere state arrestate per presunti reati di terrorismo. Il caso è uscito allo scoperto dopo che l’ONG per la difesa dei diritti umani, Human Rights Watch, ha accusato le forze di sicurezza del Burkina Faso di compiere esecuzioni sommarie di detenuti disarmati al termine delle loro operazioni contro sospetti militanti islamisti. Il procuratore burkinabè, Judicael Kadeba, ha dichiarato in una nota, mercoledì 13 maggio, che almeno 25 persone sono state arrestate, nella notte tra l’11 e il 12 maggio, dalle forze di sicurezza e di difesa del Burkina Faso, in un villaggio nella zona di Fada N’Gourma, per sospetto terrorismo. “Sfortunatamente 12 di loro sono morti, nella stessa notte, nelle celle in cui erano stati rinchiusi”, ha aggiunto Kadeba. Human Rights Watch ha sottolineato che, ad aprile, i militanti islamisti hanno ucciso oltre 300 civili in Burkina Faso, e, in risposta agli attacchi, le forze di sicurezza hanno giustiziato centinaia di uomini per il loro presunto sostegno ai gruppi terroristici. I funzionari di Ouagadougou hanno promesso di indagare su accuse simili in passato, ma l’Ong sostiene che il governo non abbia ancora fatto abbastanza per condannare i responsabili di tali esecuzioni extragiudiziarie. Il 9 aprile, i corpi di 31 uomini dell’etnia Fulani sono stati scoperti nella città settentrionale di Djibo, poco dopo essere stati arrestati dalle forze di sicurezza e portati via in un convoglio. Secondo le ricerche di Human Rights Watch, rese note il 20 aprile, le vittime sarebbero state giustiziate dall’esercito burkinabè nel corso di un’operazione antiterrorismo. “Il governo dovrebbe fermare l’abuso, indagare a fondo su questo terribile incidente e impegnarsi in una strategia antiterrorismo rispettosa dei diritti umani”, aveva affermato il direttore di HRW per la regione del Sahel, Corinne Dufka, nel rapporto dell’organizzazione. Le autorità del Burkina Faso lottano da anni per contenere i gruppi jihadisti della regione che, sempre più spesso, tentano di alimentare i conflitti etnici associandosi ai pastori dell’etnia Fulani. In questo modo, secondo quanto affermano le organizzazioni per la difesa dei diritti umani, i civili si ritrovano coinvolti nelle rappresaglie dei soldati e delle forze di sicurezza, diventando il doppio bersaglio dei terroristi e dell’esercito. Il Country Report on Terorrism 2018 del governo americano afferma che, a partire dal 2017, si è registrata nel Paese una lenta ma continua crescita delle attività jihadiste, specie lungo i confini con il Mali. Lo stesso anno, Al Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqim) si è unito ad al-Mourabitoun, Ansar al-Dine e al Macina Liberation Front per formare il Jamàat Nusrat al-Islam wal Muslimin (Jnim), gruppo attualmente molto attivo in Burkina Faso, insieme ad Ansarul Islam e all’ISIS in the Greater Sahara. Dal 2018, militanti jihadisti affiliati a diverse organizzazioni hanno condotto omicidi mirati, raid contro postazioni militari e di sicurezza, attentati con esplosivi improvvisati. Per lungo tempo risparmiato dai gruppi armati attivi nel Sahel, il Burkina Faso, uno dei Paesi più poveri del mondo, è divenuto bersaglio dei movimenti jihadisti in seguito alla caduta dell’ex presidente Blaise Compaore, nell’ottobre 2014. I militanti, alcuni legati ad al-Qaeda, altri allo Stato Islamico, hanno cominciato a infiltrarsi nel Paese dalle regioni del Nord, al confine con il Mali e con il Niger. Da lì, si sono poi spostati in altre direzioni, soprattutto a Est. Uno degli attentati di maggior impatto è stato condotto il 15 gennaio 2016, a soli due giorni di distanza dall’inaugurazione del nuovo governo, presieduto dal premier Paul Kaba Thieba. In tale occasione, alcuni militanti hanno sequestrato un hotel e un bar nel centro di Ouagadougou, causando la morte di 28 persone e il ferimento di altre 56, evidenziando le difficoltà della nuova amministrazione nell’attuare una risposta antiterroristica efficace. L’assalto era stato rivendicato da al-Qaeda nel Magreb Islamico (Aqim), un’organizzazione terroristica islamista affiliata di Al Qaeda e attiva nell’Africa nord-occidentale. Il Burkina Faso è, insieme al Mali e al Niger, uno dei Paesi più colpiti dalla furia dei jihadisti nella regione del Sahel. Secondo i dati delle Nazioni Unite, circa 4.000 persone sono rimaste uccise in attentati perpetrati lo scorso anno nei tre Paesi.