“La prigione è l’extrema ratio”. Ardita, ti ricordi? di Franco Corleone Il Riformista, 14 maggio 2020 Oggi tra gli ultrà giustizialisti, il membro togato del Csm parlava dieci anni fa della “vergogna dei non luoghi di pena”. Se il carcere dev’essere opzione remota, nel rispetto della Carta, vanno liberati subito 30mila reclusi per piccoli reati. Il 29 luglio la Società della Ragione ricorderà Sandra Margara a quattro anni dalla sua scomparsa e mi auguro che sia l’occasione per ripartire dalla Costituzione e fissare i punti di una grande e ambiziosa riforma, venti anni dopo l’approvazione del nuovo Regolamento del 2000. Sono passati dieci anni dal Convegno su quali spazi per la pena secondo la Costituzione, che poi si è tradotto nel volume II corpo e lo spazio della pena (curato da Stefano Anastasia, Franco Corleone, Luca Zevi, edito da Ediesse) che rimane il punto di partenza per una riflessione su architettura vs edilizia, sulla città e sul welfare. Voglio concentrarmi su un intervento, quello di Sebastiano Ardita, magistrato, allora direttore generale Detenuti e trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e oggi componente del Consiglio Superiore della Magistratura. Il suo contributo aveva come titolo “La vergogna dei non luoghi di pena”. Sarebbe da pubblicare integralmente, mi limito per ragioni di spazio ad alcune frasi che aiutano un confronto importante. Diceva Ardita che “una delle grandi ambiguità della moderna gestione penitenziaria è quella di tener dietro alla emergenza e alle scelte emozionali di carcerazione”. Sottolineava che la scelta di carcerare obbedisce sempre meno a quella di extrema ratio. Aggiungeva che occorreva una grande opzione di architettura penitenziaria ripensando all’architettura del sistema penale, conferendo stabilità detentiva alle personalità devianti e ricorrendo a misure alternative per gli altri casi. Mostrava sincero sdegno per quelli che devono essere considerati dei non luoghi: “La recente esperienza della visita ispettiva conseguente al decesso di Stefano Cucchi mi ha portato a considerare come i “non luoghi” della giustizia siano estesi anche a situazioni diverse dal carcere. Ho visto - nelle celle del palazzo di giustizia - dei non luoghi, degli spazi assolutamente anonimi dove c’erano le tracce biologiche delle persone che vi passavano attraverso. In questi “non luoghi” si può iscrivere, ahimè, anche una larga parte del sistema “circuito giustizia” che è divenuto anche un non luogo culturale cioè uno spazio nel quale l’esperienza umana trascorsa senza libertà perde il suo senso e diviene sottrazione pura e semplice della vita”. La questione, diceva Ardita, rimbalza su chi decide la qualità della vita dei reclusi e in particolare sui magistrati che operano all’interno dell’Amministrazione penitenziaria e sono chiamati a svolgere un ruolo di garanzia costituzionale. “Non possiamo rassegnarci al governo dell’esistente, alla ineluttabilità del sovraffollamento, alla carenza di risorse”. Proponeva un modello di natura modulare sull’esempio spagnolo ove possa immaginarsi una permanenza stabile dei reclusi per l’intera giornata all’esterno della camera di pernottamento. “Un modello che riconosca alle famiglie ed alle entità affettivamente stabili tutte le opportunità per vivere in modo costruttivo il rapporto affettivo/familiare”. Infine affermava che “la questione penitenziaria non può ritenersi estranea ai magistrati che svolgono l’ordinaria funzione giurisdizionale, i quali per primi hanno interesse a che la pena che chiedono, la pena che irrogano, sia quella prevista dalla Costituzione e non altro. I procuratori della Repubblica devono conoscere la realtà dei loro penitenziari, i giudici farsi carico di conoscere lo stato delle condizioni di vita dei condannati”. Sebastiano Ardita appartiene ora al partito degli ultrà ma spero che sia ancora fedele a quelle idee. Allora bisogna tirare delle conclusioni e per quanto mi riguarda la soluzione passa attraverso l’abolizione delle leggi criminogene, per prima la legge sulle droghe che prevede pene severissime per un reato senza vittima. Sono anni che presentiamo i dati che testimoniano che la questione della legislazione proibizionista e punitiva pesa per il 50% sugli ingressi e sulle presenze in carcere (21.000 pari al 35% per violazione del Dpr 309/90 e oltre 16.000 pari al 28%, tossicodipendenti). Un carcere ridotto a una dimensione limitata ai reati gravi contro la persona, l’ambiente, i reati finanziari ed economici e di criminalità organizzata permetterebbe di giocare la sfida dell’art. 27 della Costituzione seriamente, non verso coloro che o non devono entrare in carcere o non ci devono stare (inutile ripetere la litania sui tossicodipendenti). Certo bisogna fare i conti con teste come quella della ministra Lamorgese che poco prima del Covid-19 minacciava un decreto per l’arresto automatico per i responsabili dei fatti di lieve entità. Invece che avere corpi ammassati avremmo persone a cui offrire le condizioni per ripensare il passato e ricostruire il futuro. Messa alla prova, alternative alla detenzione, luoghi di integrazione sociale nel tessuto urbano rappresentano una tastiera utile. I Garanti regionali hanno elaborato una proposta sul diritto alla sessualità che è stata approvata dal Consiglio regionale della Toscana e depositata in Parlamento come previsto dall’art. 121 della Costituzione. Il carcere dei diritti comincia da qui. Abbiamo chiuso i manicomi giudiziari, si può avere l’intelligenza di eliminare la detenzione delle donne e dei minori con soluzioni di responsabilità sociale. La scommessa va giocata oggi con intransigenza. Arriva la cura Gratteri: “Più in salute in carcere che al supermercato...” di Davide Varì Il Dubbio, 14 maggio 2020 “Ma quale emergenza, quale rischio pandemia tra i detenuti. Nelle carceri italiane si sta più al sicuro che allo Spallanzani. Di certo più che al supermercato”. Insomma, stavolta il procuratore Nicola Gratteri inforca stetoscopio e provetta e, da novello virologo - un po’ come la gran parte degli italiani in questi ultimi scorci di lockdown ci spiega che non c’è posto più sicuro dei nostri istituti di pena. Certo, il fatto che lo dica lo stesso giorno in cui il garante nazionale dei detenuti afferma l’esatto contrario, ovvero che la tempesta virale in carcere è ancora in atto, è un fatto assolutamente secondario. Il dottor Gratteri non ha dubbi e - stavolta da statistico medico - spiega nel dettaglio che “i detenuti avevano il 99,5% di possibilità di non infettarsi”. Soprattutto quelli al 41bis, le cui celle potrebbero essere paragonate a quella di una clinica di Lugano. Ma quello che più lo preoccupa sono le centinaia di scarcerazioni decise dai magistrati di sorveglianza che “hanno minato la fiducia nella giustizia e nello Stato che (noi magistrati, ndr) avevamo faticosamente conquistato”, spiega sempre Gratteri ignorando del tutto gli ultimi sondaggi di gradimento i quali, fonte Demos, piazzano la magistratura agli ultimi posti tra le istituzioni più autorevoli: solo il 36% degli italiani ha fiducia nelle toghe contro il 55% dei bistrattatissimi insegnanti, per dire. Ma la cosa che più colpisce è l’assoluta noncuranza nei confronti dei cittadini detenuti che rischiano la pelle a causa del Covid. Tra quelle 350 persone scarcerate, infatti, non solo la metà è in attesa di giudizio, ma i boss sono soltanto tre. Senza contare che l’autorevolezza e la forza di uno Stato, come ha spiegato l’avvocato Franco Coppi da queste pagine, si misura dalla capacità di rispettare i diritti anche dei mafiosi. Perché uno Stato che lascia morire i detenuti in cella, non solo viola l’articolo 27 della nostra Costituzione, ma trasforma la pena dell’ergastolo in pena di morte. E la pena di morte, almeno finora, qui in Italia, è vietata. Carcere, crolla il numero dei detenuti: in due mesi -7.300 presenze di Giovanni Augello Redattore Sociale, 14 maggio 2020 I dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aggiornati al 30 aprile parlano di 53.904, contri i 61.230 del 29 febbraio scorso. Mai così vicini ai dati della capienza regolamentare. Diminuiscono anche i detenuti stranieri. Crolla il numero dei detenuti presenti nelle carceri italiane. Dopo la diminuzione di circa 4mila presenze negli istituti di pena ad un mese dall’inizio del lockdown, annunciato dallo stesso Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, gli ultimi dati aggiornati sulla popolazione penitenziaria parlano di oltre 7,3 mila detenuti in meno al 30 aprile rispetto ai dati registrati dal Dap a fine febbraio. A fine aprile, infatti, i detenuti presenti nelle carceri di tutta Italia sono 53.904, contri i 61.230 del 29 febbraio scorso. Un dato, quello di aprile, mai così vicino alla capienza regolamentare comunicata dallo stesso Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: al 30 aprile i posti in carcere sono 50.438. L’emergenza coronavirus, quindi ha invertito una tendenza al rialzo dei numeri della popolazione carceraria. Dopo il picco di oltre 67 mila detenuti registrato nel 2010 sono dovuti passare ben cinque anni affinché i dati potessero scendere in modo significativo. Dal 2015, tuttavia, il numero dei detenuti è tornato a crescere costantemente portando la popolazione penitenziaria a superare quota 60 mila presenze già dalla fine del 2019. In calo anche il numero di detenuti stranieri presenti: a fine gennaio erano 19.841, mentre nell’ultimo dato comunicato dal Dap, ovvero il 30 aprile, sono 17.861. Boss ai domiciliari, 498 usciti finora. Zagaria tra i primi a tornare in carcere di Liana Milella e Salvo Palazzolo La Repubblica, 14 maggio 2020 Il vicecapo del Dap Tartaglia ha preparato l’elenco segreto dei 40 che dovranno rientrare subito. Il fratello del capo dei Casalesi sarà curato nella sezione 41bis dell’ospedale di Viterbo: udienza il 22 maggio. Ci sono 40 nomi nella prima lista segreta dei boss da rimandare in carcere. l camorrista Pasquale Zagaria, il capomafia palermitano Francesco Bonura e lo ‘ndranghetista Vincenzino Iannazzo, che stavano al 41bis. Poi anche l’ergastolano siciliano Antonio Sudato. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha già scritto ai giudici di sorveglianza per chiedere di revocare la detenzione domiciliare scattata nelle scorse settimane per motivi di salute legati al rischio Covid. “Sono disponibili delle adeguate strutture sanitarie protette”, scrive adesso il Dap. Per Zagaria è stato trovato posto nell’ospedale di Viterbo che ha una sezione attrezzata per i 41bis: il tribunale di sorveglianza di Sassari deciderà il 22 maggio. Per il boss palermitano Antonino Sacco, si sono invece già riaperte le porte del carcere di Livorno, dove c’è una struttura sanitaria con “ampia offerta specialistica”, ha scritto il magistrato di sorveglianza di Siena. È l’effetto del nuovo decreto proposto dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per mettere un freno alle scarcerazioni di mafiosi e trafficanti di droga, sono state 498 nella stagione dell’emergenza Coronavirus. Il caso è scoppiato il 6 maggio, quando Repubblica ha svelato la lista dei boss mandati ai domiciliari. E il ministro ha annunciato un provvedimento per il ritorno in cella. Intanto, mentre si lavorava al decreto, al Dap il nuovo vice capo Roberto Tartaglia, l’ex pm del processo “Trattativa”, programmava un piano per i ricoveri in strutture sanitarie protette. In parte dentro le carceri, in parte all’esterno. Quel piano che nella precedente gestione del Dap, affidata a Francesco Basentini, non si era predisposto. E ai giudici non era rimasto altro che concedere i domiciliari ai mafiosi con problemi di salute. Adesso, il piano dei ricoveri per i boss c’è. Ed è in continuo ampliamento. La settimana scorsa, Tartaglia ha avviato i contatti con la struttura del commissario straordinario per il rischio Covid, diretta da Domenico Arcuri, per aumentare ulteriormente la disponibilità di posti. Obiettivo del Dap, da martedì diretto dal magistrato Dino Petralia, quello di segnalare ai giudici di sorveglianza quanti più nomi della lista dei 217 detenuti con condanne definitive, gli altri sono ancora in attesa di giudizio, dunque fuori dalla competenza dell’amministrazione penitenziaria. Insorgono gli avvocati contro il decreto Bonafede. I legali del boss Bonura, Giovanni Di Benedetto e Flavio Sinatra, hanno presentato una questione di legittimità costituzionale al magistrato di sorveglianza di Milano: sostengono che il decreto non possa applicarsi retroattivamente e che siano lesi i diritti alla difesa e alla salute. Esultano invece i Cinque Stelle: “Il decreto funziona”. Il presidente della commissione antimafia, Nicola Morra, dice: “È nell’interesse di tutti che gli errori del passato vengano sistemati al più presto”. Centrodestra, invece, polemico, in vista della mozione di sfiducia per Bonafede, che si discuterà il 20 maggio: “Quei posti in ospedale non c’erano prima?”, dice la deputata di Fi Giusi Bartolozzi. Al Dap si lavora già ad altri nomi. E ad attivarsi, per la revoca dei domiciliari, sono stati anche alcuni magistrati, che hanno chiesto informazioni all’amministrazione penitenziaria. Si è aperta una fase 2 anche nelle carceri: “Si assiste a una relativa rimessione della diffusione dell’epidemia”, ha scritto il magistrato che ha revocato i domiciliari al boss Sacco. C’è invece chi è tornato in carcere perché da casa aveva ripreso i contatti con i fedelissimi: il capomafia trapanese Vito D’Angelo, uno dei fedelissimi dell’entourage del superlatitante Messina Denaro, è stato riarrestato dai carabinieri. Torna in cella il primo boss. Bonafede, mercoledì il Senato vota la mozione di sfiducia di Michela Allegri Il Messaggero, 14 maggio 2020 Dopo la raffica di scarcerazioni, ora cominciano gli ingressi in carcere. Dei quasi 400 boss usciti di prigione per l’emergenza Coronavirus, il primo a tornare dietro le sbarre è Antonino Sacco, della famiglia mafiosa di Brancaccio, e il secondo potrebbe essere Pasquale Zagaria, fratello del più noto Michele, e anche lui esponente di spicco dei Casalesi: il Dap gli ha trovato un posto nel carcere di Viterbo. Si tratta della prima applicazione del decreto approvato qualche giorno fa dal Consiglio dei ministri, su proposta del Guardasigilli, Alfonso Bonafede. In sostanza, la nuova norma impone di rivalutare le loro decisioni a tutti i magistrati che, alla luce del rischio contagio all’interno delle carceri, hanno disposto i domiciliari per detenuti sottoposti al 41bis o al regime di alta sicurezza. Una vicenda, quella delle scarcerazioni, che ha portato alle dimissioni da capo del Dap di Francesco Basentini - Dino Petralia è stato nominato al suo posto - e che costa a Bonafede una mozione di sfiducia che sarà discussa a Palazzo Madama mercoledì. L’accusa delle opposizioni riguarda infatti la gestione delle carceri, dalle liberazioni di mafiosi e narcotrafficanti alle rivolte scoppiate nelle prigioni di tutta l’Italia a inizio marzo. Al centro della mozione ci sono anche le dichiarazioni del magistrato Nino Di Matteo sulla sua mancata nomina al Dap dopo che i boss si erano detti contrari. Ieri le reazioni alla prima applicazione del decreto sono state contrastanti. “Il decreto antimafia funziona: i mafiosi tornano in carcere”, hanno sottolineato i grillini con sul Blog delle Stelle. Un concetto ribadito dal capo politico Vito Crimi: “Il decreto comincia a dare risultati positivi”. Ma per Fratelli d’Italia, che con Forza Italia sostiene la mozione di sfiducia presentata dalla Lega, la situazione resta gravissima: “Gli arresti domiciliari concessi a circa 8.000 detenuti, dei quali 375 boss mafiosi, con la risibile motivazione del rischio contagio, non sono stati attenuati con il decreto correttivo deliberato dal Consiglio dei Ministri”, lamenta il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli. Sul voto di mercoledì resta l’incognita di Italia Viva: pur essendo tra le forze che sostengono l’esecutivo, è tra i partiti più critici nei confronti del Guardasigilli, che oggi proprio sul caso delle scarcerazioni sarà ascoltato dalla Commissione Giustizia della Camera. “Abbiamo chiesto chiarezza, se ci ascoltano sulle questioni poste non vedo perché sfiduciarlo” dice il capogruppo al Senato Davide Faraone. La polemica, insomma, è ancora aperta. Nei prossimi giorni, intanto, ci dovrebbero essere nuovi ingressi in carcere. Per il momento è stato il turno di Sacco, condannato per mafia ed estorsioni, con fine pena nel 2027. Il 6 aprile scorso aveva lasciato il carcere di San Gimignano: il magistrato di sorveglianza di Siena gli aveva concesso i domiciliari in una Casa di accoglienza parrocchiale. Il boss ha avuto un infarto, soffre di una cardiopatia ipertensiva e ha 65 anni: circostanze che, secondo il giudice, lo rendono “soggetto a rischio”. Due giorni fa, però, il Dap ha comunicato che Sacco poteva essere trasferito nel carcere di Livorno, che è dotato di “ampia offerta specialistica” e all’occorrenza può avvalersi “delle strutture sanitarie del territorio”. Sarà invece riesaminato il 22 maggio dal tribunale di sorveglianza di Sassari il caso della scarcerazione di Zagaria. Il Dap ha individuato una possibile collocazione a Viterbo, in un reparto di medicina protetto. La rivalutazione avverrà in base a quanto previsto del nuovo decreto: il giudice di sorveglianza dovrà valutare se sussistano ancora i presupposti per la scarcerazione. Di Matteo - Bonafede: hanno torto entrambi. Scarcerati detenuti al 41bis? Una fake news di Valter Vecellio lindro.it, 14 maggio 2020 In automatico il pensiero va a “don Rafae”, l’amara canzone di Fabrizio De André: quel passaggio dove dice: “Prima pagina venti notizie/ventuno ingiustizie e lo Stato che fa?/Si costerna, s’indigna, s’impegna/poi getta la spugna con gran dignità”. Ecco fotografato in modo sintetico, ma preciso quello che accade in questi giorni, lo scontro tra il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, e il pubblico ministero, attualmente membro del Consiglio Superiore della Magistratura Nino di Matteo. Per capirci qualcosa (c’è molto di non detto e che si lascia all’immaginazione, in questa storia), conviene riavvolgere il nastro, ricapitolare brevemente come si è dipanata la polemica. Una “piazzata”. Di nome, dal momento che si svolge nell’arena di Massimo Giletti su La 7. Di fatto, anche, per i toni assunti. Di Matteo accende la miccia; racconta che un paio d’anni fa il ministro gli offre di essere il capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ma - a scelta - anche di dirigere l’ufficio Affari Penali, l’ultimo incarico istituzionale di Giovanni Falcone, per capirci. Di Matteo vuole pensarci su. Quando scioglie la riserva dice che il Dap gli va bene. Ma il ministro ha cambiato idea: quel posto è per un altro magistrato, Francesco Basentini. Niente più Dap, e neanche gli Affari Penali, questa volta è Di Matteo che rifiuta. Da Giletti non collega esplicitamente il cambio di idea del ministro con i “rumors” provenienti dalle carceri (specificatamente dagli affiliati alla Cosa Nostra). Però chiunque assiste alla trasmissione ricava l’impressione che per Di Matteo questo nesso ci sia, che di fatto il ministro abbia “ceduto” a innominabili, inquietanti pressioni. Impressione che deve aver avuto lo stesso ministro: interviene telefonicamente per dirsi sdegnato, stupito. Si entra così in una pochade dell’assurdo. Di regola chi muove l’accusa, è tenuto a provarla, a esibire le pezze d’appoggio per quello che sostiene. Accade il contrario: è al ministro accusato, o quantomeno sospettato, che si chiedono spiegazioni; nei suoi confronti si presentano (o si minaccia di farlo) individuali mozioni di sfiducia. Da che mondo è mondo è l’accusatore, non l’accusato, che dovrebbe dare spiegazioni. Dunque il primo che dovrebbe chiarire il senso delle sue affermazioni è Di Matteo; una volta accertato e compreso che cosa intende davvero dire, allora sarà il ministro a dover e poter replicare; e giustificarsi, se c’è qualcosa di cui giustificarsi. Ancora: il Dap è un incarico prettamente politico, dipende direttamente dal ministro, che a sua volta, evidentemente è soggetto a regole e riti politici; può piacere o no, ma così è. Di Matteo queste regole, questi riti, certo non li ignora. Aver manifestato una disponibilità a riflettere se rispondere positivamente o meno all’invito è di per sé esplicita accettazione di queste regole, di questi riti. Il responsabile del Dap guadagna tre volte lo stipendio di un magistrato, esce dal ruolo, si trasforma il braccio esecutivo del ministro, ne attua le direttive, frutto di scelte politiche. Il ministro sceglie, sulla base di criteri e valutazione che gli appartengono, e non sono sindacabili. Il ministro - siamo tutte persone di mondo - ovviamente sceglie sulla base di considerazioni e di criteri che possono esulare dalla specifica competenza, e cedere a pressioni ed interessi che non sono direttamente collegabili alla funzione da ricoprire; questo appartiene alla forza contrattuale di cui dispone da una parte il ministro, e agli equilibri che lo hanno portato al vertice del ministero. Un conto sono “bilancini” e compromessi politici; altro se la decisione è il risultato di impostazioni che possono prefigurare un possibile reato. Se così fosse, la cosa non dovrebbe essere “denunciata” nel corso di una “piazzata” televisiva; e comunque non dopo che sono trascorsi due anni. Per come si è svolta tutta la vicenda, dovrebbe intervenire il Consiglio Superiore della Magistratura, per fare ed esigere un minimo di chiarezza; e, sia pure nelle forme e nelle modalità compatibili con la delicatezza dei tempi che viviamo, il primo a volerlo dovrebbe essere il capo del Csm, il presidente della Repubblica; o almeno dovrebbe sollecitare un intervento del suo vice. Al momento non sembra sistia muovendo nulla; un quieta non movere che costituisce senz’altro la cosa più deleteria. Chiudere la vicenda a ‘tarallucci e vino’ senza fare chiarezza, costituirebbe l’ennesimo contributo al discredito delle istituzioni. Non ce n’è davvero bisogno. Su questa vicenda, si innesca poi una ulteriore polemica, le cosiddette scarcerazioni facili. Un bel polverone. Bonafede, riferendone alle Camere, spiega che sono disposte dai giudici, non sono riferibili a lui o al Dap. Ha ragione. Sono i magistrati che decidono, e i recenti decreti sul Coronavirus non c’entrano nulla. Anche la famosa circolare del Dap è tirata in ballo a sproposito: si limita a chiedere ai direttori delle carceri la situazione dell’istituto che dirigono. Una sorta di censimento. Il Dap e lo stesso ministro non possono disporre nulla; i giudici hanno disposto le scarcerazioni applicando una legge e delle normative preesistenti, e i decreti del Governo riguardano altro. I giudici hanno solo applicato la legge che disciplina i casi di incompatibilità tra regime carcerario e salute del detenuto. Si può trovare discutibile la decisione assunta, se le loro valutazioni siano o no fondate. Ma è discorso completamente diverso dal polverone che si è voluto sollevare. Qui occorre essere chiari. In buona fede (ma molti in pessima fede) pongono una questione che si può così riassumere: con la scusa del Coronavirus, e sotto il ricatto di rivolte carcerarie sapientemente alimentate, 376 pericolosi affiliati alla Cosa Nostra, alla ‘ndrangheta, alla camorra, sottoposti al regime 41bis, vengono scarcerati. È opportuno chiarire: al regime 41bis non erano sottoposti il 376, ma in tre. I tre risultano affetti da tumori e da cardiopatie che mettono a rischio la loro vita e la loro incolumità. Non possono (lo dice la legge, non un magistrato) restare dove erano reclusi. Il sistema penitenziario, così come è strutturato attualmente, non è in grado di assicurare a quei tre le garanzie e le tutele che la legge garantisce loro. I casi a questo punto sono due: ai giudici che si sono limitati ad applicare la legge, si chiede (anzi, si impone) di disattenderla. Oppure si cambi la legge, stabilendo che per delinquenti come mafiosi, ‘ndranghetisti, camorristi e affini, certi diritti, certe garanzie non hanno valore. C’è poi una terza possibilità: dotarsi di un sistema penitenziario che non sia quello che abbiamo, e dotarlo di quelle strutture e di quelle risorse che consentano a chi è malato di potersi curare. Per ora si preferisce puntare il dito accusatorio contro i magistrati di sorveglianza. A parte i tre, gli altri? Qui viene il bello, cioè il brutto. Sono boss presunti. Nel senso che pur se ristretti in carcere da anni, il loro iter giudiziario non è concluso, sono in attesa di sentenza definitiva. Magari può pure essere che siano assolti? E comunque, il problema è: perché i processi ci mettono così tanto tempo a essere celebrati? Può anche essere che la malavita organizzata abbia sobillato le rivolte violente delle settimane passate. Rivolte che hanno avuto vasta eco mediatica, servizi su servizi in televisioni, radio, giornali. I detenuti - sobillati o meno che siano stati - protestavano per le condizioni in cui sono costretti a vivere. È dal 2016 che hanno protestato in modo civile e nonviolento; ci sono stati accorati appelli del Papa e del presidente della Repubblica. Niente, non una parola scritta o parlata che fosse. Disinteresse totale. Poi, quest’anno alcune rivolte violente in alcune carceri; ed ecco che si sono versati fiumi di inchiostro, un oceano di parole. Cosa deve mai pensare chi vuole che la sua causa sia conosciuta? Qui si entra nel vivo di una questione di cui Bonafede è direttamente responsabile; su questo dovrebbe essere chiamato a rispondere, e vai a capire perché nessuno gli chiede o gli rimprovera nulla. Il ministro avrebbe potuto e dovuto predisporre infermerie e settori che garantiscano la salute dei detenuti e tutto il mondo che ‘abita’ e frequenta il pianeta carcere, senza dover ricorrere alle scarcerazioni. Certo: è una situazione di cui Bonafede non è responsabile, è una “eredità” che viene da lontano, anni e anni di inerzia e incapacità di governare la situazione. Ma la responsabilità di Bonafede è di non aver fatto nulla da quando è ministro della Giustizia. Nulla quando era ministro della Giustizia del primo governo Conte. E nulla ora. Semplicemente non fa parte del suo dna, del suo “orizzonte”. Molti sostengono che la Cosa Nostra in queste ore si fa delle belle risate. La migliore risposta è nelle parole di Roberto Saviano: “I domiciliari hanno destato scandalo, ma i magistrati hanno agito nel rispetto del diritto e quindi hanno realizzato l’atto antimafia più potente. Garantire la salute del detenuto, di qualunque detenuto, dall’ex boss al 41bis al detenuto ignoto, è fondamentale, è un atto che ha una efficacia antimafia immediatamente misurabile, perché un carcere che non è democratico, diventa immediatamente un carcere dove comandano le mafie”. Anche Saviano verrà additato come complice e connivente? Si consiglia, come contravveleno, la rilettura (o la lettura) de “Il giorno della civetta” di Leonardo Sciascia. La pagina dove il capitano Bellodi respinge la tentazione di seguire le orme di Cesare Mori, al di là e al di sopra della legge, e raccomanda di combattere la mafia con le armi del diritto e della legge. Il nuovo decreto legge in materia di scarcerazioni è l’occasione per accumulare consensi di Alessia Lambazzi 2duerighe.com, 14 maggio 2020 È stato approvato sabato, durante il Consiglio dei Ministri presieduto da Giuseppe Conte, il decreto legge presentato su proposta di Alfonso Bonafede che precisa le condizioni in merito alla scarcerazione di persone detenute per reati legati alla criminalità organizzata di stampo mafioso, terroristico o connessi al traffico di stupefacenti. Il decreto, accolto positivamente dalla maggioranza al governo, ha fatto seguito alle polemiche scoppiate dopo la scarcerazione - sarebbe meglio parlare di differimento della pena - di alcuni boss detenuti in regime di 41bis, considerati da gran parte dell’opinione pubblica e dell’opposizione politica immeritevoli di beneficiare della detenzione domiciliare. Scarcerazioni, cosa prevede il nuovo decreto legge - “Nessuno può pensare di approfittare dell’emergenza sanitaria determinata dal Coronavirus per uscire dal carcere”, è con queste parole che il ministro della Giustizia ha commentato l’approvazione del nuovo dl in materia di scarcerazioni. Il decreto legge prevede che i Magistrati di Sorveglianza continuino a prendere decisioni in merito alla concessione della detenzione domiciliare o differimento della pena con l’obbligo di richiedere il parere del Procuratore distrettuale antimafia del luogo in cui è stato commesso il reato e, nel caso di condannati al regime di 41bis, del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. I provvedimenti devono essere rivalutati ogni 15 giorni con cadenza mensile. Inoltre, affinché gli effetti delle decisioni emanate dal Magistrato di Sorveglianza permangano, si fa necessario monitorare il quadro sanitario per comprendere se le misure disposte continuino ad essere legittimate dall’emergenza Coronavirus e se ci sia la possibilità di trasferire il detenuto all’interno di strutture protette nelle quali ricevere le cure opportune. Nel caso in cui il Dap individui e comunichi la presenza di strutture penitenziarie o reparti di medicina protetta adeguate ad ospitare il detenuto, la valutazione viene effettuata immediatamente senza rispettare il termine dei 15 giorni precedentemente indicato. Parla di “sinergia” Alfonso Bonafede, specificando che “saranno chiamati in causa l’autorità sanitaria e il dipartimento amministrazione penitenziaria, affinché diano ai giudici, cui rimane ovviamente l’ultima parola, un quadro sulla disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta in cui il condannato, o chi si trova in custodia cautelare, può riprendere la detenzione, chiaramente senza alcun pregiudizio per le sue condizioni di salute”. Le reazioni al decreto legge: vittoria, disfatta o bluff? “Il decreto del Governo è un segnale importante di contrasto alle mafie. Davanti a falle evidenti verificatesi nel sistema, lo Stato reagisce con fermezza rispettando la Costituzione, l’autonomia della magistratura, il diritto alle cure di ogni detenuto malato grave, senza rischi però per la sicurezza dei cittadini”, queste le parole del deputato e responsabile Giustizia del Pd Walter Verini riportate da La Repubblica, a cui si aggiunge la dichiarazione di Nicola Morra, presidente della Commissione parlamentare Antimafia, il quale ha commentato sul proprio profilo Facebook il giorno seguente l’approvazione del decreto “se qualcuno ha avuto dei dubbi sulla volontà del M5S e del Governo Conte di contrastare con la massima determinazione possibile le mafie, bene ieri sera è stato aiutato a capire da che parte sia il M5S”. Dal canto loro, gli esponenti della Lega sono tornati a manifestare il proprio dissenso nei confronti del ministro della Giustizia, affermando quanto segue in una nota: “il danno è fatto: 500 mafiosi, assassini e delinquenti usciti, nonostante le nostre denunce, altrettanti in attesa. Senza contare le rivolte con morti ed evasi. E ogni giorno nuove ombre sul ministero. Nessuna soluzione nel provvedimento: bisogna revocare subito tutti i permessi, gli sconti e le uscite concesse”. Insomma: non sembra possibile discutere di carcere attraverso gli strumenti del pensiero critico. La sola via praticabile a quanto pare è la disumanizzazione del condannato, che urge distaccare in maniera netta e definita dai cittadini irreprensibili come a voler scongiurare qualsiasi contaminazione, il rischio di un altro tipo di contagio. Di tutt’altra opinione gli avvocati dell’Unione delle Camere penali, secondo cui il decreto legge appena approvato “è volto a sottomettere l’indipendenza e l’autonomia dei magistrati di Sorveglianza alle esigenze propagandistiche dell’esecutivo ed al controllo delle procure distrettuali antimafia”. La nota attraverso la quale i penalisti si sono espressi sottolinea che il dl “oltre ad imporre un insensato obbligo di rivalutazione legato ad improbabili criteri cronologici, prevede il parere degli uffici dell’accusa, ma ignora del tutto il titolare del diritto alla salute a tutela del quale è stato assunto il provvedimento, ed il suo difensore. Tutti hanno voce, fuorché il detenuto e la sua difesa tecnica. Una vergogna”. C’è anche chi mette in dubbio la necessità di un nuovo decreto legge relativo al carcere - ricordiamo che se ne sono succeduti tre dallo scoppio della pandemia - come nel caso di Pasquale Bronzo, docente di diritto penitenziario all’Università Sapienza di Roma, il quale interpellato da Huffington Post dichiara che “tutti i provvedimenti che riguardano la salute dei detenuti vengono adottati tenendo in considerazione la situazione del momento, peraltro sulla base di norme del codice penale. E, chiaramente, sono a termine. Soprattutto per i ristretti al 41bis il magistrato ha quindi la possibilità di rivedere il provvedimento. Anzi, se le condizioni cambiano, deve farlo”. Affermazioni sostenute da Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale, secondo cui “il decreto legge ha voluto sottolineare con maggior forza qualcosa che era già presente nella disciplina precedente, vale a dire la necessità per il giudice di sorveglianza di valutare ogni quindici giorni i motivi alla base della concessione al detenuto della detenzione domiciliare per motivi di salute, tenendo inoltre in considerazione il parere del procuratore nazionale antimafia o del procuratore distrettuale”. Le nuove regole proposte per disciplinare le scarcerazioni rischiano di sollevare il dubbio che si tratti di una mossa strategica tesa a lanciare un messaggio fortemente simbolico: l’esecutivo sta dalla parte dell’antimafia. Il rischio, come scrive Elisabetta Zamparutti, Tesoriera dell’associazione Nessuno tocchi Caino, è di rendere “più gravosi per alcuni magistrati i compiti che già avevano”, facendo notare che la novità del decreto è di tipo politico più che normativo, poiché costituisce “un atto intimidatorio nei confronti della magistratura di sorveglianza per quanto riguarda i detenuti condannati e dei giudici ordinari per quanto riguarda quelli in attesa di giudizio”. “Nominare in maniera corretta le cose è un modo per tentare di far diminuire la sofferenza e il disordine che ci sono nel mondo” Massimo Giletti, durante l’ultima puntata di Non è L’Arena, ha letto una parte della lista di boss mafiosi appena usciti dal carcere. “È l’elenco che ho voluto fare - ha affermato il conduttore rivolgendosi al pubblico - perché forse qualcuno si è dimenticato cos’è la mafia e cosa fa la mafia. Perché quel famoso 41bis venne fortemente voluto da Falcone”. Al discorso hanno fatto seguito le immagini della strage di Capaci. Quel 23 maggio 1992 che, secondo Giletti, qualcuno avrebbe dimenticato. Siamo ormai abituati a una politica che fa della propaganda il proprio stile comunicativo puntando alla reazione emotiva e non rendendo giustizia alla complessità delle cose, ma l’informazione dovrebbe guardare ad altri scopi e sperare di raggiungere altri risultati. “Nominare in maniera corretta le cose - diceva Albert Camus - è un modo per tentare di far diminuire la sofferenza e il disordine che ci sono nel mondo”. E allora ridimensioniamo il lungo elenco di uomini spaventosi e proviamo a fare spazio nella confusione. Alcuni organi di informazione hanno sostenuto nei giorni scorsi la tesi secondo cui 376 detenuti in regime di 41bis sarebbero stati scarcerati. Abbiamo scoperto che i boss condannati al carcere duro ai quali è stato concesso il differimento di pena sono 3, gli altri erano detenuti nel circuito di alta sicurezza. La differenza tra il 41bis e l’alta sicurezza risiede nel fatto che nel primo caso ci troviamo di fronte ad una modalità di scontare la pena che prevede limitazioni di gran lunga maggiori rispetto alle altre soluzioni detentive; nel secondo caso parliamo di un tipo particolare di condanna alla quale sono destinati coloro che commettono reati riconducibili alla criminalità organizzata e, in ragione dell’ostatività, non avranno la possibilità di ottenere benefici a meno che non scelgano di collaborare con la giustizia. A proposito di questo, è opportuno ricordare che Giovanni Brusca, il boss che viene ricordato per aver ordinato l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, tra un anno uscirà di galera dopo aver ottenuto dei benefici a seguito della scelta di collaborare con la giustizia. Bene, molti penseranno che la conseguenza di questa decisione sia il ravvedimento - non a caso pentiti è il secondo nome dei collaboratori - ma quando la smetteremo di credere che una condizione interiore possa essere indagata? Tra un anno Giovanni Brusca tornerà nella società civile e, invece di auspicare un ravvedimento del quale mai verremo a conoscenza, dovremmo pretendere per lui come per tutti gli altri che il carcere sia un percorso umanizzante. Sarebbe opportuno smettere di fare riferimento costantemente alla morale come se fosse un’entità trascendente e concentrarsi sugli esseri umani, quelli che stanno sulla terra, perché un carcere inteso come percorso di revisione critica e non come una condanna per la vita rende un buon servizio all’intera comunità. Tornando per un momento ai numeri e alla necessità di mettere ordine, va detto che tra i detenuti scarcerati 196 erano in attesa di giudizio, quindi presumibilmente innocenti, mentre i condannati trasferiti ai domiciliari perché incompatibili con il regime penitenziario per ragioni di infermità fisica sono stati 155. Onorare il ricordo di un uomo non implica la condanna perenne di un altro. E soprattutto la memoria non comporta - non deve - la distorsione della realtà, in questo caso meno sensazionalistica di quanto vogliano farci credere. Citando ancora Camus, “nessuno di noi, in particolare, è autorizzato a disperare di un uomo, chiunque egli sia, se non dopo la morte che ne trasforma la vita in destino, e consente allora il giudizio definitivo, ma pronunciare il giudizio definitivo prima della morte, decretare la resa dei conti quando il creditore è ancora vivo, non spetta a nessun uomo. Su questo limite, per lo meno, chi giudica in maniera assoluta si condanna in maniera assoluta”. Boss a casa: il danno c’è stato. Ma la sfiducia a Bonafede sarebbe pretestuosa di Daniela Gaudenzi Il Fatto Quotidiano, 14 maggio 2020 L’elenco dei 456 boss mafiosi, di cui 225 detenuti con condanna definitiva, che intendono essere scarcerati per l’emergenza Coronavirus redatto dal neo vice capo del Dap e inoltrato al ministro della Giustizia Bonafede è impressionante per il numero e la caratura criminale dei richiedenti, sconcertante perché arriva mentre il preteso rischio di contagio in carcere, già esiguo in regime di alta sicurezza durante il picco della pandemia, appare pressoché inesistente nella fase 2. Come ha detto il procuratore antimafia Cafiero De Raho la strategia mafiosa è molto semplice e attenta più che mai ai segnali da lanciare sul territorio: “I boss ora escono a ondate: vogliono riprendere il potere” approfittando della confusione e del disagio. Il nuovo cumulo di richieste è la prosecuzione della precedente ondata dei 370 boss approdati ai domiciliari a seguito delle rivolte sincronizzate, degli orientamenti pro-decarcerazione di molti giudici di sorveglianza, dei silenzi prolungati e del modus operandi iperburocratico del Dap. Gli effetti sono fin troppo noti e si possono riassumere nel caso del boss del clan dei Casalesi Pasquale Zagaria, ritenuto “non pericoloso” dal giudice di sorveglianza e “a rischio Covid sia in carcere che in ospedale”, trattato con ordinaria lentezza dall’amministrazione penitenziaria, che si attiva fattivamente troppo tardi, e finito “felicemente” agli arresti domiciliari a Brescia, epicentro del virus. Ma purtroppo non c’è stato “solo” il danno oggettivo delle scarcerazioni per i boss della criminalità organizzata, che come ha sottolineato Luca Tescaroli, procuratore aggiunto a Firenze e già pm a Caltanissetta nel processo per la strage di Capaci, costituiscono un segnale alle vittime e ai testimoni di giustizia di “riaffermazione della forza della criminalità mafiosa e danno l’impressione di una concessione da parte dello Stato”, mentre “il sistema penitenziario deve essere efficace per tutelare le garanzie dei cittadini, soprattutto quelli esposti alle aggressioni mafiose” altrimenti pure con i migliori intenti umanitari “si rischia che la mafia ottenga quello che voleva a suon di bombe nel 92-93”. C’è stato il disvalore aggiunto di una polemica di cui il sistema giustizia non aveva davvero bisogno, nata nel salotto-arena di Massimo Giletti e strumentalizzata nel modo più spregiudicato dal partito vastissimo e trasversale dei nemici storici di Nino Di Matteo e di Alfonso Bonafede, ai quali non è parso vero di schierarsi dalla parte del magistrato antimafia, ora al Csm, che ha rappresentato l’accusa nel processo sulla trattativa Stato-Mafia, oggetto di attacchi e delegittimazioni raccapriccianti, pur di sferrare l’attacco definitivo al ministro della Giustizia. Della contrapposizione tra Nino Di Matteo, comprensibilmente risentito per la mancata nomina al Dap, e il ministro Bonafede - che nel 2018 lo avrebbe preferito in via Arenula accanto a lui agli Affari Penali dopo avergli inizialmente prospettato il primo incarico - si è fatto un capo d’accusa infamante contro il Guardasigilli più odiato in Parlamento dell’intera storia repubblicana: Alfonso Bonafede non avrebbe nominato Nino Di Matteo capo del Dap e gli avrebbe preferito il più defilato e molto meno titolato Francesco Basentini su input dei boss mafiosi. Il progetto di svergognare senza prove, con l’accusa in aula di cedimento ai diktat dei boss, il ministro della Giustizia che ha portato a casa misure indigeribili come la Spazza-corrotti e la prescrizione finalmente interrotta non è andato a segno, perché nel frattempo, lo scorso sabato, è stato approvato in Consiglio dei ministri il dl Bonafede, per far rientrare in carcere i 376 detenuti in regime di 41bis o di “alta sicurezza” scarcerati nelle ultime settimane. Tra i punti più rilevanti del provvedimento c’è la norma che impone ai giudici di sorveglianza di rivalutare entro 15 giorni se sussistano ancora i motivi legati all’emergenza sanitaria, e quella che prevede il coinvolgimento del procuratore nazionale nelle decisioni riguardanti la scarcerazione dei mafiosi, affinché venga tenuto nel dovuto conto il profilo della pericolosità e sia considerato in rapporto con le altre esigenze. Se alla Camera in un quarto d’ora di intervento Bonafede ha potuto rivendicare le misure per rimediare in tempi brevi alle scarcerazioni forse evitabili con un intervento più tempestivo del Dap - ma non imputabili al ministro della Giustizia, che non può e non deve intervenire sulla decisione di un magistrato - e ha ribadito in modo definitivo che la scelta per la direzione del Dap non fu oggetto di nessuna interferenza diretta o indiretta, all’orizzonte rimane la mozione di sfiducia individuale al Senato chiesta compattamente dal trio Salvini-Meloni-Berlusconi per regolare i conti sospesi, dalla “spazzacorrotti” alla “prescrizione spezzata”. I numeri al Senato per la maggioranza sono risicati e la convergenza sotterranea, ma nemmeno tanto, con i renziani che già sulla prescrizione reclamavano lo scalpo di Bonafede, pressoché scontata. A scongiurare che tale “sinergia” porti a sfiduciare Bonafede per sostituirlo con un giureconsulto della levatura della Boschi o di Enrico Costa potrebbe essere, più che di qualsiasi altra considerazione, l’avvertimento ai partiti del Presidente della Repubblica che in caso di crisi si va dritti al voto. Il rientro dei boss dimostra che il guaio è firmato Bonafede di Maurizio Tortorella La Notizia, 14 maggio 2020 I primi mafiosi tornano in cella e il ministro esulta. Ma è la prova che le strutture sanitarie c’erano. E tutto questo si poteva evitare. Il boss palermitano Antonino Sacco torna in carcere dalla detenzione domiciliare, e forse è il primo di una lunga serie di rientri in cella. Merito del decreto “Riacchiappa mafiosi” varato il g maggio dal ministro grillino della Giustizia, Alfonso Bonafede? Per nulla. Il merito va alla nuova gestione del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che è riuscito a trovargli un posto in una “struttura sanitaria protetta”. Questo è accaduto perché, dopo le dimissioni cui è stato costretto a fine aprile Francesco Basentini, l’uomo che Bonafede nel giugno 2018 aveva preferito al magistrato antimafia Nino Di Matteo, ora il Dipartimento ha un nuovo capo, Dino Petralia, e un vice, Roberto Tartaglia. Che evidentemente hanno fatto bene il loro lavoro, che, durante una pandemia, consiste anche nel trovare soluzioni alternative peri detenuti in condizioni sanitarie incompatibili con il rischio contagio. Insomma, se già in aprile il Dap avesse adottato comportamenti congrui e tempestivi, non sarebbero mai andati ai domiciliari né Sacco, né soprattutto boss di Cosa nostra come Francesco Bonura, di ‘ndrangheta come Vincenzo Iannazzo, o di camorra come Pasquale Zagaria. Per quest’ultimo ieri sera si è liberato un posto nell’ospedale di Viterbo ed è stata fissata una nuova udienza il 22 maggio. Ma il suo nome faceva parte della lista dei “pezzi da go” le cui scarcerazioni avevano travolto in uno tsunami il ministero della Giustizia, che Bonafede ha poi elegantemente dirottato su Basentini. Il problema, in realtà, nasce proprio dall’inadeguatezza del Dap e del ministero. Nel caso proprio di Zagaria, malato di cancro e recluso nel carcere di Sassari, il 3o aprile era stata La Verità a rivelare l’incredibile sequenza di ritardi ed errori di valutazione del Dipartimento, e perfino l’assurdo particolare di un recapito di posta elettronica sbagliato, cui l’ufficio di Basentini ha spedito le email che voleva indirizzare al tribunale di sorveglianza di Sassari. Soltanto per quei ritardi e quegli errori, alla fine, i giudici hanno dovuto concedere a Zagaria di uscire da una cella di alta sicurezza per trasferirsi a casa della moglie, aprendo così il rischio di una disastrosa evasione, lo stesso che purtroppo riguarda molti degli oltre 376 scarcerati. E incontrovertibile, però, che la responsabilità politica cada tutta su Bonafede. E anche per questo, del resto, se il centrodestra ha chiesto le sue dimissioni con una mozione di sfiducia che il Senato dovrebbe discutere i120 maggio. Ora il M5S e i media filogovernativi celebrano il rientro in cella del mafioso Sacco come se fosse il clamoroso risultato dell’impeccabile azione del ministro. In realtà proprio il caso Sacco dimostra che ad aprire le celle agli oltre 376 detenuti “pericolosi” non sono state né leggi sbagliate, né la manica larga dei tribunali di sorveglianza. È stata solo la disattenzione del ministero della e del suo Dipartimento. Perché il “nuovo” Dap ha dimostrato di poter fare tutto quel che gli veniva chiesto: Sacco, 65 anni, condannato per mafia ed estorsione, era uscito dal carcere di San Gimignano per una cardiopatia dopo un infarto, cui si sommava il rischio di un’infezione da Covid-19. Da circa un mese, il mafioso era in una casa d’accoglienza parrocchiale. È bastato che il nuovo vicecapo del Dap, Tartaglia, facesse monitorare le strutture penitenziarie con annesso reparto ospedaliero: è stato individuato il carcere di Livorno, dove c’è la possibilità di “avvale r si all’occorrenza delle strutture sanitarie del territorio”. Così il tribunale di sorveglianza ha potuto rinchiudere Sacco in quel carcere, dove potrà essere curato, e non solo perché “si assiste a una fase di relativa rimessione della diffusione dell’epidemia”. Allo stesso modo, il Dap ha trovato posto in “strutture sanitarie protette” per un’altra ventina di condannati pericolosi, ai quali ora potranno essere revocati i domiciliari. Di strutture di quel tipo ce ne sono, in Italia: per esempio a Milano, Parma, Roma, Viterbo, Catania e Agrigento. E sono sicure. Non per nulla, quando direttore del Dap era Roberto Piscitello, alcune di queste strutture hanno ospitato boss del calibro di Bernardo Provenzano e Totò Riina, il capo dei capi. Nel frattempo, in attesa del dibattito sulla sfiducia, rimbalzano polemiche sulle parole che Bonafede ha pronunciato alla Camera martedì. Il ministro ha fatto di tutto per neutralizzare i veleni sparsi dal magistrato Di Matteo, che dal 3 maggio lo accusa di non averlo nominato a capo del Dap, nel giugno 2018 (e di avergli preferito Basentini), ipotizzando possa essere accaduto per paura delle reazioni dei mafiosi detenuti: “Non c’è stato alcun tipo di condizionamento”, ha protestato Bonafede. Che poi, a sorpresa, ha difeso a spada tratta proprio Basentini: “Era stato procuratore aggiunto a Potenza”, ha ricordato, “si era distinto nel lavoro e nel colloquio aveva dimostrato di essere all’altezza del suo curriculum”. Parole strane, sulla bocca di un ministro che soltanto due settimane fa ha deciso di sacrificare proprio l’ex capo del Dap come unico responsabile del disastro scarcerazioni. Udienze virtuali? No, la giustizia è affare pubblico di Nicolino Zaffina Il Riformista, 14 maggio 2020 L’emergenza sanitaria in atto e i conseguenti provvedimenti adottati dal Governo, volti a contenere l’epidemia da Covid-19, vedono messa in “quarantena” anche la Giustizia, a torto considerata meno “essenziale” rispetto alle attività di edicolanti e tabaccai. In uno Stato di diritto, tuttavia, la Giustizia non si può fermare: i diritti non possono essere “sospesi”. Per tale motivo, tra i vari attori della giurisdizione, si è aperto un dibattito, a tratti aspro, che vede coinvolti, da un lato, chi sollecita una digitalizzazione sempre più spinta e, dall’altro, chi, rischiando di apparire retrivo, pone l’accento sulle regole del contraddittorio e sulle garanzie delle parti coinvolte nel processo, che rischiano di rimanere irrimediabilmente compromesse da una necessitata quanto affrettata rivoluzione digitale. Da una parte e dall’altra, tuttavia, il “processo” sembra essere considerato alla stregua di una “vicenda privata”, che riguarda esclusivamente le parti e i rispettivi difensori. Non è così, a ricordarcelo è l’art. 101 della Carta Costituzionale che, con un incipit breve quanto solenne, ammonisce tutti: “La giustizia è amministrata in nome del popolo”. Le letture date dai costituzionalisti a tale precetto sono assai diverse fra loro, tutte, però, convergenti nel ritenere che il grande significato democratico della norma si traduca nel dovere dei giudici di “rendere conto” del loro operato all’opinione pubblica. Ciò non contrasta con l’austera riservatezza e la lontananza dalla vita politica che devono caratterizzare l’azione del giudicante, anche al fine di garantirne l’autonomia e l’indipendenza: tra giudici, politica e società, deve mantenersi il giusto distacco. In tale contesto, mirabilmente disegnato dalla nostra Costituzione, il “punto di contatto” tra il giudice e il popolo è garantito dalla pubblicazione delle sentenze, dal deposito delle motivazioni, nonché e soprattutto, dalla partecipazione del pubblico alle “udienze di discussione”, alle quali il “popolo sovrano” deve essere messo in condizione di poter partecipare, al fine di verificare come, in suo nome, viene amministrata la giustizia. In qualsiasi democrazia queste sono guarentigie fondamentali. Il potere giudiziario non può essere esercitato senza che se ne renda conto ai cittadini, i quali hanno il diritto-dovere di conoscere e accertare cosa abbia voluto dire il giudice. La pubblicità delle udienze di discussione e delle sentenze, il deposito della motivazione, dunque, assolvono a una funzione essenziale: garantiscono un percorso che “renda conto” di quanto è accaduto in quella determinata aula d’udienza. Solo cosi il dettato dell’art. 101 della Costituzione può assumere quel significato concreto che, a ben vedere, costituisce l’essenza stessa della democrazia. Per nessun altro potere dello Stato la nostra Carta Costituzionale prevede un collegamento così immediato e diretto con il popolo sovrano, nemmeno per il Palamento che è organo elettivo: le Leggi non sono emanate in nome del popolo, le pronunce dei giudici sì. Per i cittadini che ascoltano il giudice pronunziare una sentenza, l’articolo 101 della Costituzione ha un chiaro significato: quel giudice ha deciso in nostra presenza e in nome di tutti noi, di talché quella sentenza andrà rispettata ed eseguita perché è espressione della volontà popolare. La partecipazione del pubblico al processo, dunque, consente un effettivo controllo dell’opinione pubblica sull’amministrazione della giustizia e crea, al contempo, quel filo rosso, simbiotico e indissolubile, che lega la Giustizia al Popolo. Attraverso il processo, fatto di udienze aperte al pubblico (lo sono quelle di “discussione”), di sentenze e motivazioni pubbliche, i giudici comunicano con l’opinione pubblica rinforzando e rinnovando questo legame virtuoso che legittima l’amministrazione della giustizia. La Giustizia deve essere una casa di vetro: amministrarla al chiuso, in privato o, comunque, senza la partecipazione del pubblico, la allontanerebbe dai cittadini, svilendola e degradandola a mera amministrazione, fino a farle perdere, in definitiva, la possibilità di dar voce alla “sovranità popolare”. Il “distanziamento sociale” imposto dal Covid-19 potrà “giustificare” il ricorso alle c.d. “udienze da remoto” e, “legittimare”, così, uno stravolgimento così profondo della Giustizia e della stessa Democrazia? Potrà amministrarsi la Giustizia da “remoto” senza che si spezzi definitivamente quel filo rosso che lega il giudice alla sovranità popolare? Il Paese ha sicuramente bisogno di fare un salto in avanti, di spingere l’acceleratore sull’informatizzazione di ogni pubblica amministrazione e la Giustizia non può certo rimanere indietro. Non bisogna, tuttavia, lasciarsi prendere dall’emotività del momento, dettata dalla congiuntura sanitaria, né dalla fretta di tornare a una normalità soltanto apparente. È necessario che il Legislatore acquisisca piena consapevolezza che una riforma organica del processo richiederà un percorso lungo e tortuoso, i cui tempi non potranno essere dettati dai picchi della pandemia. Sono in gioco conquiste democratiche, destinate a durare per sempre e che non possono essere vilipese da meri protocolli o da linee guida dettate dall’emergenza. C’è bisogno, in definitiva, che il Legislatore rifletta sui valori in gioco e sia prudente, perché è in discussione la democrazia. La Giustizia, amministrata in nome del popolo, non può celebrarsi in assenza del popolo: salvo ripensare il nostro modo di essere Stato e comunità. Sequestro esteso per autoriciclaggio di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 maggio 2020 Sequestro per autoriciclaggio confermato anche sui reati presupposto non c’è stato alcun accertamento di responsabilitä. Anzi, sono ancora nella fase delle indagini preliminari oppure neppure in questa. Lo afferma la Corte di cassazione con la sentenza n. 14800 della sesta sezione penale depositata ieri. La pronuncia, che annulla l’ordinanza del tribunale con la quale era stato rimodulato il provvedimento di sequestro finalizzato alla confisca per il reato di autoriciclaggio con a monte una maxievasione fiscale da 25 milioni. Un’ordinanza oggetto di impugnazioni incrociate sia da parte della pubblica accusa sia dell’imputato che lamentavano ragioni diverse quanto alla determinazione della somma da sottoporre alla misura cautelare. La Cassazione da una parte ricorda quanto affermato assai di recente con la sentenza n. 45052 dell’anno scorso. E cioè che in materia di riciclaggio e autoriciclaggio non è necessario che l’accertamento del reato presupposto sia cristallizzato in una sentenza di condanna passata in giudicato. È invece necessario che il fatto costitutivo di questo reato non sia stato giudizialmente escluso, nella sua materialità, in via definitiva e “che il giudice che procede per il riciclaggio ne abbia incidentalmente considerato l’esistenza. In difetto, venendo meno uno dei presupposti del delitto di riciclaggio, l’imputato deve essere assolto perché il fatto non sussiste”. Di più, ora la Cassazione mette in evidenza come, trattandosi di un procedimento di natura cautelare e quindi caratterizzato dall’individuazione non di prove certe sulla commissione del delitto, la circostanza che alcuni dei reati presupposto non fossero ancora oggetto di indagini preliminari, in assenza della necessaria iscrizione nel Registro delle notizie di reato, o che comunque per alcuni di questi fossero in corso le indagini preliminari, non impediva di accertarne incidentalmente la configurabilità, giustificando in questo modo la legittimità del sequestro. Ma l’ordinanza era stata fatta oggetto di censura da parte della cassazione anche tenendo conto delle ragioni dell’imputato, che da alcuni dei reati presupposto era invece stato assolto. Per questo la Corte rinvia al tribunale del riesame la necessità di una nuova valutazione nel merito della somma da sottoporre a sequestro che dovrà tenere conto del verdetto di proscioglimento invece del tutto trascurato. Le chat decriptate all’estero sono trattate come intercettazioni in Italia di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 14 maggio 2020 Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 13 maggio 2020 n. 14725. L’intercettazione di una chat equivale a quella telefonica con tutte le conseguenze che ne derivano soprattutto in termini di accessibilità delle parti al materiale grezzo della captazione. Per la Cassazione l’equivalenza deriva dall’incontestabile sovrapponibilità di un dialogo che si volge in una chat - anche se con tempi morti tra un messaggio e un altro - a una conversazione telefonica che fluidamente accade. Con la sentenza di ieri n. 14725 la terza sezione penale della Cassazione ha respinto il ricorso con cui si lamentava l’illegittima acquisizione di uno scambio di messaggi tramite blackberry in quanto il contenuto veniva decriptato dall’azienda produttrice Rim Black berry Canada, che lo trasmetteva alla Rim Italia per l’ulteriore passaggio di mano alla procura. Si trattava dello scambio di messaggi pin to pin (possibile solo se si conosce il pin dell’altro utente) all’interno del sistema di messaggistica blackberry che transita dall’operatore italiano alla società canadese l’unica che ha la chiave di decriptazione per la messa in chiaro. Da ciò i ricorrenti ritenevano trattarsi di prova acquisita all’estero illegittimamente perché al di fuori delle tutele che offre il rispetto della procedura di rogatoria internazionale. Inoltre, facevano notare che il mancato accesso delle difese al materiale captato nelle diverse fasi di trattamento dei dati (dalla società italiana a quella canadese e da questa nuovamente a quella italiana per finire in Procura) non garantiva la genuinità della prova. La Corte risponde che le regole di captazione di un flusso di messaggi equivale a intercettare una conversazione telefonica su dispositivi mobili, diversamente dall’apertura di un cellulare per consentire l’acquisizione di dati ai fini di un controllo invece statico. E secondo la Cassazione, nella vicenda specifica, l’autorità giudiziaria aveva correttamente emesso il decreto di intercettazione trasmesso alla Public Security Office italiano e garantito alla società Rim Italia che il terminale fosse presente su suolo italiano e utilizzasse una sim italiana. A questo punto la black berry faceva giungere in procura il flusso dei messaggi. Senza che rilevi la necessaria intercessione della società canadese unica depositaria delle chiavi di decriptazione. L’operazione ha invece solo rilevanza nazionale non messa in discussione dal passaggio in Canada dei dati per la decriptazione. Indebita compensazione a largo raggio di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 14 maggio 2020 Corte di cassazione, Terza sezione penale, sentenza 13 maggio 2020 n. 14763. Il reato d’indebita compensazione riguarda qualsiasi tributo o contributo di cui è stato omesso il versamento e non soltanto le imposte sui redditi e l’Iva. A confermare questo rigoroso orientamento è la Cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 14763/2020, depositata ieri. La vicenda trae origine dal provvedimento di sequestro preventivo nei confronti del legale rappresentante di una società perché era stato omesso il versamento di debiti fiscali utilizzando indebitamente in compensazione crediti. La misura cautelare veniva confermata anche in sede di riesame e pertanto l’indagato ricorreva in Cassazione, lamentando in estrema sintesi l’errata interpretazione della norma, poiché nella valutazione del superamento della soglia erano stati considerati debiti sia tributari, sia di altro genere (previdenziali, contributivi e per imposte locali). La Corte di legittimità, confermando un recente orientamento sul punto, ha respinto il ricorso. In particolare, la Cassazione ha ritenuto che sebbene la norma sia introdotta nella disciplina sui reati in materia di imposte sui redditi e Iva, ha la finalità di tutelare il versamento di tributi pregiudicato dalla violazione della procedura di compensazione. Con la riforma del 2015 sono state differenziate, sul piano sanzionatorio, le compensazioni di crediti inesistenti (punite più severamente) rispetto a crediti non spettanti. La Consulta (sentenza n. 35/2018) ha ritenuto, diversamente dagli altri reati di omesso versamento (per Iva e ritenute), che per la condotta penalmente rilevante occorra un disvalore di azione consistente nella redazione di un documento ideologicamente falso, abusando così dell’istituto della compensazione. Da ciò consegue che la condotta rilevante non è l’omesso versamento di per sé, bensì l’utilizzo indebito di un credito inesistente o non spettante. La Cassazione per tali ragioni ha così ritenuto che la soglia di punibilità (50mila euro) non debba essere riferita solo alle imposte sui redditi o all’Iva, ma all’ammontare dei crediti non spettanti o inesistenti indebitamente utilizzati in compensazione. L’operatività della norma è quindi legata proprio all’istituto della compensazione in tutte le sue forme e quindi sia “verticale”, afferenti cioè crediti e debiti della medesima imposta, sia “orizzontale”, relativa cioè a imposte di natura differenti. La decisione conferma una recente pronuncia (13149/2020), ma è in contrasto con un precedente orientamento (38042/2019) secondo il quale il reato era riferibile solo alle indebite compensazioni relative alle imposte dirette e all’Iva. Allo stato attuale, quindi, qualunque compensazione superiore a 50mila euro effettuata con crediti inesistenti o non spettanti potrebbe costituire reato. Peraltro, sebbene nella pronuncia non sia stato espressamente affrontato, dovrebbe altresì desumersi che il delitto è consumato a prescindere dall’utilizzo del modello F24. La compensazione “verticale”, infatti, non necessita di alcun modello. Lombardia. La Regione ostacola i programmi di housing per ex carcerati di Emanuela Colaci thesubmarine.it, 14 maggio 2020 A due mesi dalle rivolte nei penitenziari di tutta Italia, le misure alternative alla detenzione sono ancora poco applicate, anche a causa della mancanza di alloggi per gli ex detenuti che non hanno una casa dove andare. Una protagonista della serie tv ambientata nel carcere femminile di Litchfield sta per tornare a casa: è felicissima di iniziare una nuova vita ma ha molta paura perché non sa cosa troverà oltre il carcere. Fuori non c’è una famiglia che la attende, non ha soldi né un posto dove stare. Dopo aver provato ad arrangiarsi, finisce di nuovo dentro. Litchfield è un luogo inventato dalla regista Jenji Kohan per la serie Orange is the new black, ma non è così lontano dalla realtà. Recentemente, in piena emergenza coronavirus, la Regione Lombardia ha bloccato il finanziamento di un progetto di housing per i detenuti delle carceri di Milano. Gli amministratori penitenziari insieme al terzo settore e al Comune di Milano stanno cercando un modo per alleggerire la pressione sulle carceri sovraffollate, dopo le proteste che hanno scosso le carceri di tutta Italia a inizio marzo. Il progetto di housing, ostacolato dalla Regione, è una delle possibili soluzioni. Il Comune ha già individuato 20 alloggi disponibili se dovessero arrivare i finanziamenti. Vista la posizione della Regione, Cassa Ammende ha deciso di affidare i finanziamenti direttamente al Provveditorato regionale. Il progetto di housing si farà anche se il Pirellone, rifiutandosi di deliberare, ha allungato i tempi di una situazione al collasso. “Il progetto di housing ha una lunga storia, insieme all’inserimento lavorativo e al trattamento della salute mentale delle persone detenute,” spiega Corrado Mandreoli dell’Osservatorio carceri della Cgil. I fondi per finanziarlo sono previsti da Cassa Ammende, l’ente economico del ministero della Giustizia che finanzia progetti per il reinserimento sociale dei detenuti, per attuare le misure alternative alla detenzione nelle carceri. “La Lombardia dice no!”, ha dichiarato Stefano Bolognini, assessore regionale alle Politiche Sociali, Abitative e Disabilità. Un indirizzo in contrasto con la legge regionale 25/2017 sulla tutela dei detenuti e la riduzione della recidiva, approvata dalla stessa giunta presieduta da Attilio Fontana. Non si tratta infatti di “regalare case popolari ai detenuti”, come sostiene l’assessore leghista: “Con l’emergenza coronavirus diventano molto importanti le politiche abitative che permetterebbero di far uscire chi ha i criteri per farlo, alleggerendo il peso sugli istituti penitenziari. Stiamo parlando di persone che potrebbero uscire ma non possono perché non hanno i soldi per vivere. Non c’entra assolutamente niente con le famiglie in cerca di casa,” spiega Mandreoli. L’Emilia Romagna ha già messo a bando i fondi di Cassa Ammende per finanziare 90 posti per accogliere i detenuti che possono proseguire la pena fuori dal carcere, con precedenza alle donne con figli. Altre regioni, come il Lazio, hanno attuato altre soluzioni. “Le misure alternative che si stanno utilizzando sono la detenzione domiciliare per le persone che hanno patologie a rischio indicate dall’Istituto Superiore della Sanità, l’affidamento ai servizi sociali provvisorio e la detenzione domiciliare per pene fino a due anni,” spiega Antonella Calcaterra, avvocata della Camera Penale di Milano ed esperta di diritto penitenziario. La detenzione domiciliare è prevista dall’articolo 123 del decreto “Cura Italia,” che sospende le licenze previste per i detenuti in semilibertà ma permette di eseguire la detenzione nella propria residenza fino al 30 giugno per le condanne fino ai 18 mesi. Questo articolo esclude che possano di beneficiare del 123 detenuti condannati per associazione mafiosa e criminale, compreso il 41bis. Sulla scarcerazione dei detenuti che sono stati condannati in via definitiva decidono i tribunali di sorveglianza, competenti per territorio. Su chi è in attesa di giudizio, decide il gip competente. I tribunali non decidono in modo uniforme, spiega l’avvocata: “Vigono pensieri diversi. Per alcuni magistrati il carcere è più sicuro di altri posti in questo momento.” Diventa così cruciale la partita sulle politiche abitative: “Molti potrebbero uscire dal circuito penale ma non possono perché non hanno una casa. In questo momento anche il terzo settore è in difficoltà perché tutti i posti sono pieni.” Ma il problema non riguarda solo gli alloggi. Come scrive l’avvocata Calcaterra, la fornitura di 4700 braccialetti elettronici indispensabili per l’accesso alla detenzione domiciliare avverrà solo entro fine maggio. Il tema delle scarcerazioni è tornato sulle prime pagine di tutti i giornali con la polemica della “lista dei 376 boss mafiosi” scarcerati negli ultimi due mesi. È ancora poco chiaro quale sia il grado di pericolosità sociale di molti dei soggetti in questione, ma le decisioni sono state prese in modo indipendente dai tribunali di sorveglianza in attuazione delle norme previste dal decreto Cura Italia, come ha affermato il ministro della Giustizia Bonafede. Il Garante per le persone detenute della Regione Lazio, con un editoriale su Il Riformista, fa sapere che i boss scarcerati dal 41bis sono 3 e non 376. “Comunque, certo è che - afferma il Garante - nonostante i profili criminali tratteggiati nell’articolo citato, nessuno di questi 373 detenuti scarcerati dal circuito di alta sicurezza è stato considerato da Ministro e Procura nazionale antimafia così pericoloso per l’ordine e la sicurezza pubblica da stare in 41bis”. Il governo ha approvato comunque un nuovo decreto che risponde alle critiche di lassismo contro la lotta alla mafia: ogni 15 giorni i magistrati di sorveglianza dovranno verificare le condizioni che hanno consentito la concessione degli arresti domiciliari ai detenuti condannati o accusati di reati connessi all’associazione mafiosa che ne hanno fatto richiesta. Com’è la situazione a due mesi dalle rivolte - L’emergenza sanitaria ha portato al pettine tutti i nodi del sistema carcerario, e in particolare il sovraffollamento degli istituti. Secondo l’associazione Antigone, i detenuti presenti, alla fine di febbraio, erano 61.230, circa 11 mila in eccesso, con un tasso di affollamento del 190% in alcune carceri. Secondo il Garante nazionale per i diritti delle persone detenute, nelle carceri italiane, dopo due mesi, le presenze sono diminuite a circa 53 mila detenuti. Attualmente in tutta Italia sono 159 casi positivi al coronavirus tra i detenuti e 215 tra il personale (dato aggiornato al 29 aprile). A Milano, poco prima delle rivolte del 9 marzo, il carcere di San Vittore registrava 945 presenze su 749 posti regolamentari. Nel corso della sottocommissione consiliare sulla situazione delle carceri milanesi, il direttore di San Vittore ha riferito che “ci sono stati circa 300 ingressi a marzo e aprile. 100 detenuti sono stati trasferiti e 150 scarcerati. Una sezione è stata chiusa per un mese e riaperta il 21 aprile. Stiamo cercando di portare a 2 le camere da 3, a 4 quelle da 8, a 5 quelle da 11”. Sono invece 60 i detenuti che hanno cominciato a scontare ai domiciliari le loro pene residue - inferiori ai 18 mesi - dopo essere usciti dal carcere di Opera, che a fine febbraio 2020 ospitava, però, 1.347 persone per 915 posti letto regolamentari. A Bollate, il secondo carcere più grande della città, dal 10 marzo al 24 aprile sono stati scarcerati in 122, “soprattutto affidamenti provvisori ai servizi sociali e differimenti della pena. Ci sono pochissime scarcerazioni domiciliari anche per la difficoltà di trovare alloggi. La questione del domicilio è prevalente. Solo qualcuno dei detenuti è stato accolto nelle case accoglienza della Caritas,” ha detto la direttrice Buccoliero. Il 9 marzo è una data importante per capire i limiti delle carceri italiane. La prima “rivolta” è avvenuta nel carcere di Salerno il 7 marzo, dove 200 detenuti sono saliti sui tetti a protestare. Contro cosa? Probabilmente era trapelata la notizia della sospensione dei colloqui settimanali delle famiglie dei detenuti, che ne hanno diritto a seconda dei casi da 4 a 6 volte al mese. Notizia confermata dal decreto “Cura Italia” annunciato il giorno successivo. Da quel momento scoppiano le proteste in tutte le carceri italiane, da Trento a Palermo. Il bilancio parla da sé: 14 morti tra i detenuti a Modena, Rieti e Bologna, 76 evasi (ad oggi tutti all’interno del carcere) decine di agenti feriti e interi reparti devastati. Dopo le rivolte del 9 marzo, a San Vittore l’ala cosiddetta della “nave,” che ospita il reparto di trattamento delle tossicodipendenze, è tornata operativa solo da fine aprile. Tutte le carceri hanno subito danni, materiali e tra il personale, e hanno dovuto attuare politiche di trasferimento complicate dal rischio contagio. C’è chi ipotizza una concertazione delle rivolte ma l’ipotesi più probabile resta la reazione spontanea al rischio di contagio e la sospensione dei colloqui. “In risposta all’emergenza sanitaria uno dei primi interventi è stato di bloccare le visite e questa cosa ha innescato un processo forte perché le visite sono l’unica modalità di contatto che i detenuti hanno con la loro sfera affettiva. Da sempre questa sfera è fondamentale per la rielaborazione della pena. In Italia le telefonate sono possibili in sostituzione delle visite solo una volta alla settimana e sono sempre legate a una laboriosa procedura di richiesta,” spiega Mandreoli. Le disposizioni del Dipartimento di amministrazione penitenziaria escludono l’utilizzo di Skype in modo sistematico. Dopo le rivolte, molti istituti si sono attrezzati per avviare colloqui con le famiglie su Skype ma la carenza delle infrastrutture non permette la continuità dei servizi e l’uniformità di trattamento. Lo stesso problema vale per gli operatori sociali che lavorano all’interno delle carceri, cui è affidato il compito di redigere la relazione, la cosiddetta sintesi, che permette l’accesso alle misure di alternative di detenzione. A San Vittore ci sono 638 agenti di polizia penitenziaria di polizia e 13 educatori effettivi. Durante l’emergenza coronavirus nessuno di loro ha potuto accedere al carcere, alcuni colloqui sono proseguiti su Skype. “Il carcere deve essere rieducativo. Un detenuto in carcere costa di più di una presenza in comunità,” afferma Mandreoli. La sentenza Torreggiani del 2013, ha sanzionato l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani, cioè per il sistematico trattamento inumano e degradante di sette detenuti nelle carceri di Piacenza e Busto Arsizio. Questa sentenza è diventata una “sentenza pilota” proprio perché le pessime condizioni di detenzione dei sette ricorrenti sono sistematiche e comuni a tutti i detenuti d’Italia, cioè derivano dal modo in cui il sistema penitenziario è stato pensato e organizzato. Nell’ottobre 2018 si è concluso l’iter di riforma del sistema penitenziario che ha applicato la sentenza Cedu, ma non ha preso in considerazione molti aspetti critici del sistema. I nodi della salute, del sovraffollamento e dell’esclusione sociale sono ancora irrisolti. Asti. Suicida in carcere l’uomo arrestato dopo la spaccata nel negozio di telefonia di Daniela Peira lanuovaprovincia.it, 14 maggio 2020 Si è tolto la vita poche ore dopo essere stato portato in carcere. Conclusione tragica per l’ultimo arresto di un pregiudicato di 48 anni che nella notte fra venerdì e sabato è stato arrestato dalla Polizia in un negozio di telefonia di corso Alfieri. La Volante era intervenuta dopo l’allarme, aveva notato i segni dell’intrusione e aveva trovato l’uomo nascosto in bagno. Arresto per flagranza di reato e trasferimento, intorno alle 13 di sabato, al carcere di Quarto in attesa dell’udienza di convalida. Che non è mai arrivata perché l’uomo, poco dopo la mezzanotte, si è tolto la vita nella sua cella. Parma. Il Centro clinico di con appena 29 posti e quella lista “nera” dei 41bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 maggio 2020 La lista che ha fatto scattare dei malumori in alcuni ambienti dell’antimafia è anche quella dell’Azienda sanitaria locale di Parma dove compaiono diversi detenuti di grosso calibro al 41bis. Ma non si è detto del contenuto, che “racconta” una storia ben diversa e drammatica dove emergerebbe una gestione - secondo la Asl - inadempiente da parte del Dap. Una lunga serie, quasi infinita, di detenuti reclusi nel carcere di Parma che presentano gravissime patologie per le quali, la maggioranza di loro, vengono “curati” nelle sezioni “normali” e non nel centro clinico (Sai) per ché i posti sono occupati da altrettanti malati. Alcuni di loro sono over settantenni e reclusi al 41bis o in Alta Sorveglianza. Tutti pazienti gravemente malati e a rischio. Ci sono nomi importanti come quelli del 74enne Giuseppe “Piddu” Madonia, colui che aveva ricoperto la carica di reggente provinciale di Cosa nostra, oppure il boss 78enne Salvatore Giovanni Lo Piccolo o il 75enne Antonino Cinà, l’ex medico legato a Cosa nostra ai tempi di Totò Riina e sotto processo nella presunta trattativa Stato-mafia. Tanti sono i nomi di “grosso peso”, ma sono tutti pazienti a rischio per l’età e per la presenza di importanti patologie. Ma ciò che finora non è stato detto è che la Asl ha avanzato una vera e propria denuncia sulla gestione - quella precedente - da parte dell’amministrazione penitenziaria (Dap) che ha reso ancora più difficile l’assistenza sanitaria a tutti quei detenuti che non riescono a curarsi. Il centro clinico di Parma ha solo 29 posti, tutti occupati e parliamo del punto di riferimento delle carceri di mezza Italia. Detenuti con trapianti, immunodepressi, diabetici scompensati, carcinomi, lesioni ossee. Un vero e proprio lazzaretto. A tutto questo però si aggiunge un elemento che aggraverebbe la situazione già drammatica di suo. “Tuttavia preme segnalare - si legge nel documento - che sono state disposte allocazioni inappropriate direttamente dall’amministrazione penitenziaria, senza alcuna certificazione o parere medico”. Ma non solo. Oltre a sottolineare l’inadeguatezza della sezione paraplegici (9 posti) dove ci sono pazienti cronici, la Asl locale di Parma denuncia che si era “verificata un’allocazione disposta direttamente dal Dap senza il parere del medico”. Ma la denuncia più forte deve ancora arrivare e che - inevitabilmente - ha come conseguenza l’unica alternativa possibile: ovvero il differimento pena per garantire la salute dei detenuti più a rischio. Di cosa parliamo? La Asl parte dal presupposto che il centro clinico - secondo l’accordo Stato - regioni del 2015 - ospita in ambienti penitenziari detenuti che, per situazioni di rischio sanitario, possono richiedere un maggiore e più specifico intervento clinico non effettuabili nelle sezioni comuni, restando comunque candidabili per una misura alternativa o per il differimento o la sospensione della pena per motivi di salute. Quindi cosa significa? L’inserimento in tali strutture risponde a valutazioni strettamente sanitarie e il venir meno delle motivazioni cliniche che giustificano la presenza nel Sai (il centro clinico), certificate dal medico, dovrebbero essere sufficienti di per sé a portare la direzione degli Istituti penitenziari alla tempestiva ritraduzione del paziente all’istituto di provenienza. Invece accadrebbe il contrario. A denunciarlo è sempre la Asl. “Spiace constatare - si legge nel documento - che ciò purtroppo avviene solo sporadicamente, senza contare tutte le innumerevoli richieste di trasferimento presso il carcere di provenienza inoltrate da questo Ufficio Sanitario e che, ad oggi (24 marzo, ndr), sono rimaste senza seguito”. Tutto questo cosa comporta? Secondo la Asl “questa mancanza di turn over crea disfunzioni organizzative e funzionali tra cui l’allocazione inappropriata nelle sezioni comuni di pazienti che, per condizioni cliniche, sarebbero invece candidabili ad un posto letto al Sai o alla sezione per paraplegici”. Ciò che si denuncia non fa altro che aggravare la situazione sanitaria dell’intero carcere di Parma che è pieno di vecchi e malati. Tanti di loro al 41bis o in Alta sorveglianza. La Asl è chiara su questo punto. “Tali disfunzioni portano a considerare il carcere di Parma nel suo insieme come un contesto ad “Alta complessità sanitaria”, con elevatissima intensità assistenziali anche nelle sezioni cosiddette “normali”. Tutto ciò, con l’emergenza Covid 19 attuale, ha necessariamente portato a porre maggiore attenzione a diversi pazienti a causa della vulnerabilità degli stessi legata per età e condizioni patologiche associate. La Asl non poteva fare altrimenti visto che la salute dei detenuti è sotto la sua responsabilità. Ed ecco che - anche per la oramai nota circolare del Dap - la Asl ha inviato una lunga lista di persone detenute a “maggior rischio di infezione Covid 19 come exitus - si legge nel documento - presumibilmente peggiore rispetto alla restante popolazione detentiva”. Se non ci fosse stata quella circolare del Dap del 21 marzo, molto probabilmente tutto questo non sarebbe emerso ufficialmente. Come detto, in quella lista, compaiono anche nomi di grosso calibro. Nomi storici di Cosa nostra, ma anche della ‘ ndrangheta come l’ergastolano ostativo Domenico Papalia che è detenuto ininterrottamente dall’ 8 agosto del 1977 e recluso da anni al carcere di Parma dal 1992 in alta sorveglianza, non manca ovviamente il nome di Raffaele Cutolo, con una grave patologia polmonare e al quale recentemente gli è stata rigettata l’istanza per il differimento pena. Una lista lunghissima, la prima più urgente di 51 nominatavi classificati a rischio per l’età e presenza di importanti comorbidità (la coesistenza di più patologie diverse in uno stesso individuo ndr.). La seconda lista solo per gravi patologie è composta da 152 nominativi, mente sono 5 quelli che sono solo a rischio per l’età ma in assenza di importanti patologie. Se vogliamo solo considerare le prime due liste dove ci sono detenuti in età avanzata e/o con gravi malattie, vuol dire che ci sono 203 persone a rischio e bisognose di cure. Tolte le 29 persone che sono assistite nel centro clinico (posti letto disponibili), vuol dire che ci si sono 174 persone (su 600 attualmente ristretti) che sono “curate” nelle sezioni normali e quindi non adibite per l’assistenza sanitaria di cui necessitano. Genova. Agenti e detenuti positivi al test sierologico nel carcere di Pontedecimo genovatoday.it, 14 maggio 2020 Secondo quanto riferisce il sindacato Osapp, sarebbero stati effettuati tamponi solo sui detenuti risultati positivi e non sugli agenti della polizia penitenziari. Il 5 e 6 maggio 2020, presso il carcere di Pontedecimo, sono stati effettuati test sierologici per la ricerca del virus Covid-19 su personale di polizia penitenziaria e detenuti ristretti presso tale istituto. Alcuni poliziotti e alcuni detenuti sono stati segnalati come positivi al test. “Il giorno seguente - fa sapere l’Osapp - alla segnalazione nei confronti dei detenuti sono sati effettuati controlli più accurati con tampone, nei confronti dei poliziotti penitenziari non è stata effettuata alcuna procedura di controllo con tampone anzi, pare che il direttore dell’istituto, alle giuste doglianze del personale abbia risposto che, non è sua competenza attivare la procedura per il controllo con tampone”. “L’Osapp ritiene che tale procedura, di attivare/segnalare agli organi competenti la positività del test sierologico, ricada sulla direzione della casa circondariale di Pontedecimo dato che, proprio il medico del lavoro di tale istituto, ha segnalato al direttore la positività dei test nei confronti dei detenuti e dei poliziotti penitenziari”. “Ancora una volta - dichiara il sindacato - l’amministrazione penitenziaria abbandona i poliziotti in una situazione delicata come è quella di conoscere di essere positivo a un test sierologico, personale preoccupato per i propri famigliari, abbandonato agli eventi, davvero vergognoso. Mascherine che sembrerebbero non conformi, mancati approvvigionamenti di detergenti/disinfettanti per il contrasto del virus, personale allo sbando, e in ultimo in un momento così delicato dove il personale ha riscontrato di essere positivo a un test sierologico, abbandonato a sé stesso”. Caserta. Suore realizzano 2.500 mascherine per i detenuti: “È un gesto d’amore” casertanews.it, 14 maggio 2020 La donazione agli istituti penitenziari della Campania, suor Anna: “Nessuno deve essere dimenticato, soprattutto gli ultimi”. Nasce da un incontro d’amore e dal bisogno di aiutare il prossimo, il progetto “Dentro le mura”, per la realizzazione di mascherine da donare agli istituti penitenziari della Campania ed altre regioni. Perché al “grido” disperato di una richiesta d’aiuto, c’è chi proprio non sa dire di no e piuttosto che voltarsi dall’altra parte, si adopera per dare concretamente una mano. Le suore della comunità della “Piccola Casetta di Nazareth - La stella degli Angeli” di Pescopacognano di Mondragone, in collaborazione con “Rosa dell’Amore” di Castellammare di Stabia, hanno svolto il loro “servizio” realizzando e donando ai carcerati 2500 mascherine. Mascherine intrise di amore e sacrificio. “Stiamo vivendo un periodo della nostra vita che mai avremmo pensato di vivere - raccontano suor Anna e le consorelle - Noi suore ferme proprio non sappiamo stare e dunque abbiamo cercato di ricreare la nostra quotidianità fatta di bambini, educatori, condivisione, allegria. Nessuno però deve essere dimenticato, soprattutto gli ultimi. In questo tempo abbiamo riscoperto il valore dei piccoli ma grandi gesti”. Gli odiatori e il sessismo sullo sfondo di Antonio Polito Corriere della Sera, 14 maggio 2020 Nell’ultimo anno e mezzo sono tornati altri tre ostaggi per i quali è stato pagato un riscatto, in un caso con analoga conversione all’Islam, e non hanno suscitato alcuno scandalo. Eppure non dovrebbe essere difficile distinguere il reato dalla vittima. E invece il deputato della Lega Alessandro Pagano l’ha fatto, descrivendo alla Camera la sfortunata Silvia Romano come una “neo-terrorista”. In base a quale criterio non sappiamo. Forse gli è parso di intravedere un kalashnikov sotto il velo, o più semplicemente ha dedotto da una conversione religiosa all’Islam un’adesione militante alla Jihad. Di certo ha dimenticato che Silvia Romano ha subìto, non organizzato, un rapimento e una degradante detenzione. La confusione mentale ha subito trovata un’eco, anche se con migliori intenzioni, sui banchi opposti dell’emiciclo, dove il deputato del Pd Enrico Borghi ha replicato con sdegno: “È un’italiana, non una neo-terrorista”; frase dalla quale si deduce che anche lui confonde l’appartenenza etnica con la politica, sebbene al contrario. Purtroppo il deputato leghista non è solo. Anche prima del giallo della bottiglia, che potrebbe oppure no essere stata lanciata contro la finestra della casa dove abita Silvia, sui social si è scatenata da giorni una vera e propria muta di odiatori da tastiera. Un consigliere comunale leghista di Milano, Alessandro Morelli, è arrivato a postare una vecchia foto di Silvia in minigonna, pur di istigare alla condanna del suo nuovo look. Ce n’è abbastanza per dire che, sotto l’islamofobia di certa destra ultrà, si intravede con chiarezza anche l’iceberg di un sessismo profondo, ancestrale, quasi antropologico: nell’ultimo anno e mezzo sono tornati altri tre ostaggi per i quali è stato pagato un riscatto, almeno in un caso anche con analoga conversione all’Islam, e non hanno suscitato alcuno scandalo. Forse perché erano uomini (e non sono stati esposti in una goffa cerimonia trionfale di Stato, come è invece capitato a Silvia Romano). Per fortuna subito Giorgia Meloni con parole chiare, poi ieri anche Salvini, hanno invitato tutti, compresi i loro più zelanti sostenitori, a distinguere tra la vittima di una banda di tagliagole e i suoi aguzzini. Ma, ancor prima di questo sensato giudizio politico, dovrebbe funzionare un elementare riflesso di umanità, nei confronti di una ragazza di 24 anni che ha patito ciò che ha patito. Oppure il Covid-19 ha ucciso definitivamente anche la pietà? Migranti. Regolarizzazioni, alla fine è accordo. I 5 Stelle debbono dire di sì di Daniela Preziosi e Carlo Lania Il Manifesto, 14 maggio 2020 Le nuove norme per migranti e italiani. Regolarizzazioni anche di colf e badanti. Una telefonata Provenzano-Crimi sblocca lo stallo. Il ministro del Sud: “Un compromesso non semplice né scontato. Ma dovevamo portarlo a casa. Non solo per la discontinuità con i tempi di Salvini ma per portare diritti e legalità a chi li chiede da tempo”. Miraglia, Arci: “Un primo passo ma le mediazioni nella maggioranza lasceranno fuori decine di migliaia di persone”. Alla fine i 5 stelle devono accettare. Non solo perché dire no all’emersione del lavoro nero nei campi e nelle case sarebbe stato difficilmente sostenibile anche per l’ex alleato della Lega, ma anche perché un no avrebbe infilato il governo in una condizione pericolosa e pericolante. Che è quella in cui però ora si ritrova il “movimento”, dilaniato da giorni di battaglia intestina. Il testo di un solo articolo e 22 commi che prevede la regolarizzazione di braccianti, colf e badanti, migranti ma anche italiani, c’è ed è nel decreto Rilancio, il treno che consente l’approvazione più veloce e il rapido utilizzo delle norme nei campi dove le raccolte sono già iniziate. Dopo giorni di fibrillazione e attacchi alla maggioranza da parte dei 5 stelle, a sbloccare lo stallo è stata una telefonata alla mezzanotte fra martedì e mercoledì tra il ministro Provenzano e il reggente grillino Crimi. L’impianto della legge resta quello concordato da giorni fra i quattro ministri interessati al provvedimento; Bellanova (Agricoltura), Catalfo (Lavoro), Lamorgese (Interno) e Provenzano (Sud). Ma per rimangiarsi le accuse di “condono” e “sanatoria” i grillini ottengono di esplicitare i nomi dei reati che non consentiranno di accedere alle regolarizzazioni ai datori che hanno subìto una condanna (sono molti, indicati con gli articoli del codice sin dal principio, connessi e non con il caporalato e il favoreggiamento di immigrazione clandestina). E soprattutto ottengono di “raddoppiare” le sanzioni già previste dalla legge contro il caporalato e dal codice penale per il datore che impiegherà al nero il lavoratore provvisto di permesso. È il comma 11bis, raddoppia le sanzioni e consente ora a Crimi di rivendicare il successo. “La misura per i lavoratori stagionali, colf e badanti è diventata finalmente soddisfacente e condivisibile: non si fanno sconti o regali a chi non li merita”, scrive sui Facebook, “Il M5s sta dando con responsabilità un contributo fondamentale al Paese in questa fase così difficile e importante”. Soddisfatte anche la titolare del Viminale e la ministra del Lavoro (grillina ma favorevole alla norma sin dall’inizio). La ministra Bellanova, che aveva scatenato le reazioni dei 5s calando in piena trattativa le dimissioni sul tavolo, al question time del senato, canta vittoria: “Quelli che voi chiamate clandestini sono lavoratori che si è fatto finta di non sapere che stavano raccogliendo nei campi prodotti che finiscono per fare concorrenza sleale alle tante imprese sane”. A sera, alla conferenza stampa del governo, si emoziona. È composto e sorvegliato invece il commento di Peppe Provenzano, il ministro Pd che ha tenuto ostinatamente aperto il dialogo con i 5 stelle anche nelle ore di scontro ruvido: “È un compromesso onorevole”, spiega al manifesto, “Non era semplice né scontato averlo in questo decreto. Per questo non mi sono mai alzato da quel tavolo. Dovevamo portarlo a casa. E non solo e non tanto per affermare la discontinuità con i tempi Salvini, ma per portare diritti e legalità a chi da tempo li chiede. Non per le braccia, per le persone”. La legge prevede due canali di regolarizzazione. Il primo, che ricalca le sanatorie Monti e Maroni, è la possibilità dei datori di assumere stranieri “presenti sul territorio nazionale” o - qui l’emersione del lavoro nero - “per dichiarare la sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare, tuttora in corso, con cittadini italiani o cittadini stranieri” segnalati in Italia prima dell’8 marzo 2020 o che abbiano soggiornato in Italia, comunque senza aver lasciato il territorio nazionale dall’8 marzo 2020. Ma la norma che fa impazzire le destre - che gridano contro la messa in regola dei migranti, parlano di “follia ideologica” (Meloni) e promettono reazioni a furor di popolo - è la novità contenuta nel “comma 2”. È la possibilità per i singoli migranti “con permesso di soggiorno scaduto dal 31 ottobre 2019, non rinnovato o convertito in altro titolo di soggiorno” di richiedere essi stessi un permesso “temporaneo” di sei mesi al termine del quale se avranno trovato lavoro sarà convertito in “permesso di soggiorno per motivi di lavoro”. Sospiro di sollievo per il governo. “Una battagli di civiltà” la definisce Conte in serata. “Non ho fatto uno studio esatto dei numeri ma se ci abbandonassimo alle comparazioni, credo che i governi di centrodestra abbiano regolarizzato 877 mila migranti, quelli di sinistra oltre 500mila. Ma non è un problema di numeri, è di sostanza”. Dal mondo dell’agricoltura arrivano segnali differenziati. Per l’Alleanza cooperative agroalimentari la soluzione “è parziale”, le Coldiretti regionali si dividono: soluzione “importante” per quella piemontese, “tardiva” per quella pugliese. Di “primo passo” parla Miraglia, dell’Arci, ma aggiunge che “le condizioni emerse dalla mediazione nella maggioranza” lasceranno fuori “decine di migliaia di persone che un lavoro ce l’hanno”. Delusi gli esperti di immigrazione dell’associazione Grei250: “Consentire l’emersione dal lavoro nero solo per alcune categorie lavorative”, scrivono, “è una scelta priva di ogni razionalità giuridica”. Coronavirus, l’Oms sollecita i leader politici a proteggere i detenuti askanews.it, 14 maggio 2020 “Sollecitiamo i leader politici a garantire che la preparazione e le risposte al coronavirus in contesti chiusi siano identificate e attuate in linea con i diritti umani fondamentali e le raccomandazioni dell’Oms per proteggere la salute umana”. Lo ha detto il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus al briefing quotidiano sul coronavirus. “Il sovraffollamento nelle carceri mina l’igiene, la salute, la sicurezza e la dignità umana, una risposta sanitaria al Covid-19 da soli in ambienti chiusi è insufficiente”, ha aggiunto. “Noi, leader della salute globale, dei diritti umani e delle istituzioni di sviluppo, ci riuniamo per attirare con urgenza l’attenzione dei leader politici sull’elevata vulnerabilità dei prigionieri”, ha proseguito Tedros. “Insieme alla guida dell’Oms sulle carceri, esorto i leader politici a rafforzare tutte le misure di prevenzione e controllo nei confronti delle popolazioni vulnerabili nei luoghi di detenzione”. Venezuela. Direttore carcere Los Llanos e cinque soldati accusati dell’uccisione di 47 detenuti ilpost.it, 14 maggio 2020 Cinque soldati della Guardia Nazionale venezuelana e il direttore del carcere di Los Llanos sono stati messi sotto accusa per la strage di 47 detenuti, avvenuta lo scorso primo maggio. La strage era avvenuta a seguito di una rivolta dei detenuti, che chiedevano che i loro parenti potessero portare loro del cibo. Il direttore è accusato di aver contribuito alla strage perché ha permesso la circolazione di armi da fuoco nella struttura, usate poi dai detenuti. I cinque soldati sono accusati di omicidio volontario. Il carcere si trova vicino alla città di Guanare, 450 chilometri a sud-ovest di Caracas, e ha circa quattromila detenuti. Molte carceri in Venezuela, secondo le organizzazioni per i diritti umani, sono sovraffollate e vi avvengono spesso episodi di violenza. Il governo venezuelano non ha ancora commentato la strage del carcere di Los Llanos. Nicaragua. Scarcerati 2.800 detenuti, ma non c’è epidemia da coronavirus nelle carceri ilpost.it, 14 maggio 2020 Il governo del Nicaragua ha ordinato la scarcerazione di 2.800 detenuti dopo che mercoledì un carcerato è morto in seguito a problemi respiratori. Non è chiaro se il detenuto avesse contratto la Covid-19 e il governo ha negato che la scarcerazione sia stata dovuta alla diffusione del coronavirus nelle carceri del paese, sostenendo che sia stato un gesto di clemenza in vista della Festa della Mamma, che in Nicaragua si celebra il 30 maggio. Quasi la metà dei detenuti scarcerati provenivano dal carcere di Tipitapa, dove secondo quanto riferito dall’avvocato Yonarqui Martínez, che si occupa dei diritti dei detenuti, si trovano diverse persone che hanno riportato sintomi da Covid-19. Tra di loro ci sono anche diverse persone incarcerate in seguito alle proteste contro il governo del 2018, ma non ci sarebbe nessuno di loro tra i 2.800 scarcerati. Il Nicaragua finora ha riportato solamente 25 casi di contagio da coronavirus e 8 morti, molti meno che negli altri stati dell’America Centrale, ma si pensa che possano essere in realtà molti di più: il governo finora però ha negato che ci sia un’epidemia in corso e ha evitato di imporre misure restrittive. Siria. Alla sbarra i primi ex-ufficiali del presidente Bashar al-Assad di Giovanna Gagliardi sentichiparla.it, 14 maggio 2020 In una stanza di cinque metri quadri sono stipate più di trenta persone, i corpi seminudi si toccano. Alcuni sono tumefatti perché sono stati percossi per ore e forse non supereranno la notte, altri sono infettati per via delle ferite non curate, dello sporco, dello strofinio tra pelle e pelle. Durante gli interrogatori, gli uomini della sicurezza picchiano così forte gli stivali pesanti contro il viso dei detenuti, che molti non reggono ed entrano in uno stato di delirio. Nel gergo carcerario lo chiamano “la disconnessione”. Si somigliano tutte le testimonianze dei sopravvissuti alla reclusione tra le mura di Al-Khatib, la sezione 251 dell’intelligence siriana, nella centralissima via Baghdad di Damasco. Qui “negli anni sono stati condotti oppositori politici e manifestanti, lontano dalla luce e da qualsiasi forma di diritto e assistenza legale. Giovani uomini e donne cui, attraverso la tortura, sono state estorte confessioni”, dichiara Asmae Dachan, giornalista e scrittrice di origini siriane, ai microfoni di Radio3 Mondo, pochi giorni dopo quella che sarà ricordata come una tappa storica verso il riconoscimento e la condanna penale degli abusi commessi durante la guerra in Siria. Il 23 aprile 2020 presso l’alta corte regionale di Coblenza, nella Germania centrale, ha avuto inizio il primo processo penale al mondo contro due ex funzionari dei servizi segreti siriani, accusati di crimini contro l’umanità. I due imputati sono Anwar Raslan, 57 anni, ex alto ufficiale della sicurezza militare, e Eyad al-Gharib, suo sottoposto, di anni 43. Raslan è accusato di complicità nelle torture inflitte, tra il 2011 e il 2012, a 4000 detenuti rinchiusi nella sezione 251 della sicurezza militare di Damasco. Stupro, aggressione sessuale aggravata e 58 omicidi sono le altre imputazioni a suo carico. Al-Gharib era addetto all’individuazione e all’arresto dei manifestanti nelle piazze anti-regime. È perseguito per tortura e complicità in 30 assassinii. Il processo rappresenta un momento epocale nel cammino verso il riconoscimento legale dei diritti umani e apre una breccia nell’impunità entro cui per decenni ha operato il regime del presidente Bashar al-Assad, responsabile della detenzione arbitraria di centinaia di migliaia di cittadini, della distruzione di intere città e dell’utilizzo di armi chimiche dall’inizio della guerra civile in Siria. Dal 2008 Raslan dirigeva l’unità delle investigazioni nella sezione 251, attiva a Damasco e dintorni. Durante il suo mandato ha esercitato il suo controllo su 4000 casi di tortura che prevedevano pestaggi ed elettroshock. L’uomo ha poi abbandonato la sicurezza generale, dopo il sanguinoso massacro di Houla, sua città natale, ad opera degli Shabiha, la milizia civile del regime siriano. Fuggito in Germania nel 2014, ha qui ricevuto protezione internazionale, arrivando persino a rappresentare l’opposizione antigovernativa nei negoziati di pace per la Siria organizzati dall’Onu. Al-Gharib dichiara di aver disertato nel 2012, in seguito alla morte di alcuni suoi colleghi durante scontri a Damasco e dopo aver aver ricevuto l’ordine di aprire il fuoco su dei civili. Entrambi i coimputati sono in stato d’arresto da febbraio dello scorso anno. Tra i principali artefici del processo che li vede alla sbarra, Anwar Al-Bunni, avvocato siriano impegnato sin dai tempi di Assad padre nella difesa dei diritti umani. Per decenni ha patrocinato la causa di centinaia di attivisti perseguitati dall’autorità centrale, finché nel 2006 la sottoscrizione di un appello a favore dei diritti civili non gli è costata la reclusione nei sotterranei di al-Khatib. Dopo cinque anni, la liberazione e la fuga in Europa, dove ha riconosciuto Raslan, il suo aguzzino, ospitato all’interno di un centro per rifugiati tedesco. Nel marzo 2017, grazie al supporto della Ong European Center for constitutional and human rights, Al-Bunni e altri ex detenuti siriani hanno sporto una denuncia penale contro sei alti ufficiali del regime per crimini contro l’umanità. L’accusa, presentata presso la procura federale tedesca, è stata il primo passo verso la realizzazione dell’attuale procedimento. Già prima delle indagini che hanno condotto all’azione legale a suo carico, Raslan aveva catturato l’attenzione delle autorità tedesche. Nel 2015 aveva denunciato a un commissariato locale le minacce ricevute da emissari della polizia segreta russa e siriana, rendendo nota la sua collaborazione con l’intelligence militare della sezione 251. Il nome di Raslan era poi emerso durante le interviste ai richiedenti asilo siriani passati per i vari mattatoi del regime. Cambogia. Conseguenze catastrofiche della “guerra alla droga”, segnata da tortura e corruzione amnesty.ch, 14 maggio 2020 La triennale campagna di “guerra alla droga” del governo cambogiano ha alimentato un aumento delle violazioni dei diritti umani, riempiendo pericolosamente le strutture di detenzione e provocando una situazione allarmante dal profilo della salute pubblica - aggravata dalla pandemia Covid-19. È inoltre un fallimento rispetto all’obiettivo dichiarato, ovvero la riduzione del consumo di stupefacenti nel paese. Questa la conclusione di un nuovo rapporto di Amnesty International. Il nuovo rapporto, Substance abuses: The human cost of Cambodia’s anti-drug campaign (Abuso di sostanze: Il costo umano della campagna antidroga in Cambogia), documenta come le autorità prendano di mira i poveri e gli emarginati, eseguano arresti arbitrari e sottopongano regolarmente i sospetti a tortura e altre forme di maltrattamento. Inoltre, chi non può comperare la propria libertà viene mandato in prigioni già sovraffollate e in pseudo “centri di riabilitazione” in cui i detenuti si vedono negare l’assistenza sanitaria e sono sottoposti a gravi abusi. “La “guerra alla droga” della Cambogia è un vero e proprio disastro poiché si basa su sistematiche violazioni dei diritti umani. Ha pure creato molte opportunità per funzionari corrotti e mal pagati del sistema giudiziario, senza fare nulla di buono per la salute e la sicurezza pubblica”, ha dichiarato Nicholas Bequelin, direttore regionale di Amnesty International. Il primo ministro della Cambogia, Hun Sen, ha lanciato la propria campagna antidroga nel gennaio 2017. Qualche settimana prima, durante la visita di Stato del presidente filippino Rodrigo Duterte, i due leader si erano impegnati a cooperare nella lotta agli stupefacenti. Secondo i funzionari del governo, la campagna mira a ridurre il consumo di droghe e i danni correlati, anche ricorrendo ad arresti di massa di persone. Nel marzo 2020, il ministro degli Interni Sar Kheng ha chiesto un’azione legale contro tutti i “tossicodipendenti e spacciatori in casi di uso e distribuzione di droga su piccola scala”. Come la cosiddetta “guerra alla droga” delle Filippine anche questa campagna è costellata di violazioni dei diritti umani che colpiscono in modo sproporzionato i poveri e gli emarginati - indipendentemente dal fatto che facciano o meno uso di stupefacenti. “Un approccio violento per punire le persone che fanno uso di droghe non solo è sbagliato, ma è del tutto inefficace. È ora che le autorità cambogiane tengano conto delle prove scientifiche che dimostrano come le campagne di repressione a tappeto non fanno altro che aggravare i danni sociali”, ha aggiunto Nicholas Bequelin. Due sistemi paralleli, una campagna devastante e nessun giusto processo - Nel corso dell’indagine, Amnesty International ha parlato con decine di vittime della disumana campagna antidroga in atto in Cambogia. Queste persone hanno raccontato di essere state sottoposte a due sistemi di punizione paralleli: alcune sono state arbitrariamente detenute senza accuse nei centri di disintossicazione, mentre altre sono state condannate attraverso il sistema giudiziario penale e mandate in prigione. Le loro testimonianze rivelano una notevole coerenza nelle violazioni del diritto a un giusto processo che portano alla detenzione delle persone, e nessun metodo coerente nel determinare se le persone sono perseguite penalmente o inviate in centri di disintossicazione. I singoli agenti di polizia - a volte influenzati dalle tangenti - hanno un importante potere discrezionale per determinare il destino delle persone. Il caso di Sopheap, 38 anni, dimostra la natura arbitraria della campagna. Ha iniziato a fare uso occasionale di metanfetamine all’inizio del 2017. Sei mesi dopo, nell’ottobre 2017, è stata arrestata in un raid antidroga insieme a due vicini di casa, di 16 e 17 anni. “Non c’era più droga quando è arrivata la polizia, solo una bottiglia, un accendino e altri oggetti in giro”, ha spiegato. “Hanno detto che ci avrebbero mandati in un centro di riabilitazione... ma in realtà ci hanno mandati in tribunale e poi in prigione”. Molte persone hanno descritto come sono state arrestate a seguito di incursioni della polizia in quartieri poveri o di retate di “abbellimento” delle città che espongono i poveri, i senzatetto e le persone che lottano contro la tossicodipendenza a rischio di arresto. Sreyneang, una donna di 30 anni di Phnom Penh, ha raccontato ad Amnesty International come è stata torturata dopo il suo arresto arbitrario durante un raid antidroga a Phnom Penh: “Mi hanno chiesto quante volte ho venduto droga... Il poliziotto ha detto che se non avessi confessato, avrebbe usato di nuovo il taser su di me”. Le persone sottoposte a procedimenti penali hanno descritto in modo coerente procedure che hanno negato il diritto a un processo equo, comprese le condanne basate su prove inconsistenti e inadeguate e i processi sommari condotti in assenza di avvocati della difesa. Molti accusati avevano una comprensione molto limitata dei loro diritti, fatto che li ha esposti a un rischio ancora maggiore di violazioni dei diritti umani. Un intervistato, Vuthy, aveva solo 14 anni al momento dell’arresto. Dopo essere stato arrestato in un raid antidroga, è stato picchiato da diversi agenti di polizia e accusato di traffico di droga. Ha raccontato: “Non ho capito il processo e cosa significassero le diverse visite in tribunale. La prima volta che ho capito cosa mi stava succedendo è stato quando mi hanno detto della mia condanna. Nessuno mi ha mai chiesto se avessi un avvocato o me ne ha dato uno”. Condizioni di detenzione disumane - La campagna, tutt’ora in corso, è stata presentata come un’operazione della durata di sei mesi, a partire da gennaio 2017, ed è la causa principale dell’attuale crisi di grave sovraffollamento delle altre strutture di detenzione cambogiane. Questa crisi di sovraffollamento provoca gravi violazioni del diritto alla salute dei detenuti. Spesso equivale a un trattamento crudele, disumano o degradante ai sensi della legge internazionale sui diritti umani. Secondo i dati di marzo 2020, la popolazione carceraria nazionale è salita del 78% dall’inizio della campagna, raggiungendo oltre 38.990 persone incarcerate. La più grande struttura carceraria della Cambogia, la CC1 di Phnom Penh, ha superato i 9.500 prigionieri - quasi cinque volte la sua capacità stimata a 2.050 detenuti. Questa situazione avrebbe dovuto portare le autorità ad alleviare urgentemente il sovraffollamento estremo nei centri di detenzione del Paese nel contesto della pandemia Covid-19, anche rilasciando chi è detenuto senza un’adeguata base legale - come le persone detenute nei centri di detenzione per reati legati agli stupefacenti - e perseguendo la libertà condizionale, il rilascio anticipato o condizionale, e altre misure alternative non detentive per i prigionieri, specialmente quelli più a rischio di Coronavirus. Maly ha descritto come lei e sua figlia di un anno sono state detenute nella prigione CC2 di Phnom Penh: “Era così difficile crescere mia figlia lì dentro. Voleva muoversi, voleva più spazio, voleva vedere l’esterno. Voleva la libertà... Spesso aveva la febbre e l’influenza. Poiché non avevamo spazio, mia figlia normalmente dormiva sdraiata sul mio corpo”. Mentre la popolazione totale dei centri di detenzione per reati legati agli stupefacenti in Cambogia non è un dato pubblico, tutte le testimonianze ottenute da Amnesty International suggeriscono che il sovraffollamento all’interno di questi centri è grave quanto nelle prigioni. Tutti i centri di detenzione sono ad alto rischio di gravi epidemie di Covid-19, e molti detenuti hanno malattie preesistenti come l’HIV e la tubercolosi. Long, un ex detenuto della CC1, ha detto ad Amnesty International: “Se una persona ha un’infezione respiratoria, nel giro di pochi giorni tutti in cella si ammalano. È un terreno fertile per le malattie”. Riprese video esclusive dall’interno di una prigione cambogiana, pubblicate da Amnesty International il mese scorso, hanno mostrato un sovraffollamento estremo e condizioni di detenzione disumane. In risposta, un portavoce del dipartimento carcerario ha ammesso che “ogni giorno è come una bomba a orologeria” per un’epidemia di Covid-19 nelle strutture detentive. Eppure, ad oggi, le autorità cambogiane non sono riuscite a intraprendere alcuna azione per ridurre la popolazione carceraria, anche se altri paesi della regione, tra cui la Tailandia, il Myanmar e l’Indonesia, hanno rilasciato decine di migliaia di persone a rischio, tra cui persone detenute con accuse legate agli stupefacenti. Tortura nei centri di disintossicazione - Anche se i centri di disintossicazione affermano di fornire cure alle persone tossicodipendenti, in pratica operano come luoghi di abuso. Ogni persona intervistata da Amnesty International ha fornito resoconti dettagliati di abusi fisici che equivalgono a torture o altri maltrattamenti commessi dal personale del centro o dai cosiddetti “capi stanza” - detenuti incaricati dal personale di far rispettare la disciplina. Thyda, detenuta nel centro di disintossicazione Orkas Khnom a Phnom Penh nel 2019, ha detto ad Amnesty International: “Questa [violenza] l’hanno subita tutti ed è normale. Violenze come questa erano parte della routine quotidiana; parte del loro programma”. Un altro, Sarath, ha descritto il suo primo giorno in un centro di disintossicazione, dove è stato mandato all’età di 17 anni: “Appena la guardia se n’è andata, il “capo stanza” ha cominciato a picchiarmi. Sono rimasto privo di sensi, quindi non ricordo cosa è successo dopo”. Anche i centri di detenzione per tossicodipendenti sono stati oggetto di denunce di violenze sessuali e di decessi durante la detenzione. L’indagine di Amnesty International ha portato alla luce numerose nuove accuse in questo senso. Phanith, un ex capo stanza, ha raccontato ad Amnesty International di aver visto un detenuto “incatenato per le mani e i piedi in modo da non potersi muovere”. E il capo dell’edificio lo ha picchiato in quel modo fino alla morte”. Basta approcci punitivi verso i tossicodipendenti - L’approccio duro delle autorità cambogiane nei confronti delle persone tossicodipendenti non ha raggiunto il suo obiettivo primario di ridurre il consumo di droga e i danni correlati. Ha però scatenato una crisi di salute pubblica e dei diritti umani catastrofica, che ha colpito le fasce più povere e a rischio della popolazione. Eppure esistono alternative chiare e basate su prove scientifiche. La politica internazionale sugli stupefacenti è cambiata negli ultimi anni e ha portato a riforme radicali a favore di alternative che proteggano meglio la salute pubblica e i diritti umani, compresa la depenalizzazione dell’uso e del possesso di droghe per uso personale. Il Ministero della Salute cambogiano ha recentemente fatto alcuni passi nella giusta direzione, aumentando la disponibilità di trattamenti la cui efficacia è stata testata in contesti comunitari. Tuttavia, è essenziale che tutti i centri di disintossicazione vengano chiusi tempestivamente e permanente. Le persone che vi sono detenute devono essere rilasciate immediatamente, con la disponibilità di sufficienti servizi sanitari e sociali. Inoltre, le autorità cambogiane dovrebbero procedere senza indugio verso l’attuazione delle misure che si sono impegnate ad adottare al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite nel 2019, così da mettere in atto una nuova politica sulle droghe che si allontani dal proibizionismo e protegga pienamente i diritti delle persone tossicodipendenti e delle altre comunità colpite. “In Cambogia, e in tutto il mondo, la cosiddetta “guerra alla droga” è fallita. Ma ci sono chiare alternative già sperimentate che proteggono meglio i diritti umani. Le autorità cambogiane devono consegnare alla storia le politiche abusive, la detenzione arbitraria e la criminalizzazione, e abbracciare una nuova politica all’insegna di efficacia e compassione”, ha detto Nicholas Bequelin.