In carcere l’emergenza Covid non è finita di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 maggio 2020 Il Garante nazionale in un convegno è stato chiaro: “La tempesta non è passata”. Mentre sta passando il messaggio, soprattutto a proposito delle fuorvianti polemiche sulla detenzione domiciliare date ai mafiosi, che l’emergenza Covid 19 in carcere sia passata, c’è il Garante nazionale Mauro Palma che avverte di non abbassare la guardia. Ad oggi ci sono 131 detenuti risultati positivi al coronavirus che sono attualmente in carcere. Un numero che non tiene conto di quelli che sono stati “scarcerati”, proprio per aver contratto il virus e dei 4 detenuti morti. Finora parliamo di numeri contenuti e che non creano allarme sociale nella comunità esterna. Ma in futuro ci si potrebbe ritrovare nel vortice di polemiche strumentali e controproducenti come quelle odierne. Le carceri proprio per il fatto che sono luoghi chiusi e con affollamenti sono predisposti per focolai improvvisi. Ed è quello che sta accadendo. Durante un interessante convegno online, organizzato dagli studenti universitari perugini dell’associazione Elsa, tra i vari ospiti (Patrizio Gonnella di Antigone, il magistrato di sorveglianza Fabio Gianfilippi, il garante regionale Stefano Anastasìa e Fiammetta Modena della commissione Giustizia senato) è intervenuto Mauro Palma, il Garante nazionale delle persone private della libertà. Palma ha spiegato che se fosse intervenuto solo quattro giorni prima, avrebbe detto che al carcere di Saluzzo risultavano zero contagi. “Invece oggi devo riferire - ha detto il Garante - che ce ne sono ben 20 di positivi al Covid”. Ha così sottolineato come possa bastare poco, nelle carceri, perché si sviluppi un focolaio. L’emergenza, quindi, non è passata e non bisogna abbassare la guardia sulla necessità di garantire il diritto alla salute. “La tempesta non è passata, ma bisogna attrezzarsi per un eventuale ritorno”, ha messo in guardia Mauro Palma. A proposito di ciò ha evidenziato una importante iniziativa e che dovrebbe essere replicata dappertutto per far fronte ai focolai che scoppiano all’improvviso. Si tratta dell’Hub del carcere milanese di San Vittore attrezzato per l’emergenza coronavirus. Parliamo di cinquanta posti su due piani, più altre 7 camere per detenuti addetti al lavoro nel reparto; un medico, due infettivologi, cinque medici di guardia e dieci infermieri che assicurano la copertura sanitaria 24 ore su 24, un operatore socio-sanitario. A supporto dell’Hub di San Vittore, è stato inoltre creato un reparto per i casi più leggeri, per gli asintomatici e i convalescenti presso l’Istituto penitenziario di Bollate. I due reparti sono destinati ad accogliere i detenuti positivi al Covid-19 provenienti dagli Istituti penitenziari della Lombardia. L’obiettivo dell’Amministrazione penitenziaria è stato quello di concentrare il rischio infettivo in poche aree particolarmente attrezzate e dotate di apparecchiature che consentono la diagnosi e la cura delle infezioni da coronavirus di lieve e media gravità. Perché è utile? “Ad esempio al carcere di Lecco, su 78 detenuti che vi sono ristretti, ben 25 sono risultati positivi al Covid e subito sono stati traferiti nell’Hub del carcere di San Vittore”, ha spiegato Palma durante il convegno. Quindi è necessario creare in tutte le altre regioni delle strutture di questo tipo proprio per allentare la densità dei contagiati all’interno delle carceri. Ma tutto questo basta? Ovviamente no se non si dovesse continuare a ridurre la popolazione carceraria. Ad oggi, secondo i dati del Garante, sono 52.838 detenuti. Un numero significativo visto che al 17 di marzo erano 60.176. Non basta, perché bisogna arrivare al di sotto della capienza regolamentare. “Se ci sono 100 posti disponibili - ha esemplificato il Garante - bisogna arrivare a meno di 90 detenuti, in maniera tale che ci siano posti liberi per ogni evenienza. E questo - sottolinea - deve esserci da sempre, proprio per non farci cogliere impreparati da eventuali emergenze come quella che viviamo oggi”. I circa 9000 detenuti in meno sono dipesi da tre diversi fattori. Ben 3116 sono coloro finiti in detenzione domiciliare (dato di sabato), di questi sono 835 coloro che hanno il braccialetto elettronico. L’altro fattore è la riduzione degli ingressi in carcere, mentre il resto sono i provvedimenti ordinari usati dalla magistratura. Su questo ultimo punto è interessante riportare anche l’intervento del magistrato di sorveglianza Fabio Ginfilippi, il quale ha sottolineato che molte di queste istanze accolte sono dovute da un’accelerazione sugli arretrati. “La riduzione - ha spiegato Palma -, quindi è dovuta a un fattore complessivo di cause che ha messo al centro della discussione la tutela della salute”. Una discussione che è stata messa al centro con il coronavirus che ha fatto irruzione, mentre il dibattito si divideva tra chi urlava di più speculando sul tema complicato del sistema penitenziario. Ora, con l’inesistente scandalo del differimento pena ai 400 detenuti in alta sorveglianza (e tre al 41bis) su un totale di 9000 persone recluse per reati di mafia, si rischia di abbassare la guardia su questo tema. Non per ultimo su quello dei 980 detenuti che attualmente stanno scontando una pena inferiore ad un anno. Molti di loro sono poveri, senza fissa dimora e privi di protezione sociale. “Un sistema non solo sovraffollato - ha denunciato sempre Mauro Palma - ma un sistema sbilanciato perché accoglie in sé le contraddizioni che il territorio non ha saputo risolvere: la riduzione delle reti protettive individuali ha avuto negli ultimi anni un effetto devastante sulla tipologia dell’affollamento all’interno del carcere”. In carcere sanità al collasso, ma il Governo se ne frega di Rita Bernardini Il Riformista, 13 maggio 2020 Bonafede si azzuffa con Di Matteo, lancia decreti intimidatori verso i magistrati di sorveglianza, racconta balle sui meriti del Dap che ha esposto reclusi e personale al rischio Covid. Intanto decine di migliaia di detenuti sono senza assistenza sanitaria. B.T. ha 48 anni, è paraplegico, ed è detenuto nel carcere di Cagliari dal novembre 2019. Soffre di assenza della mobilità degli arti inferiori, assenza del controllo sfinterale, rigidità e spasticità inveterata, insufficienza respiratoria con tracheo-bronchiti frequenti ed infine ha un vasto decubito sacrale. Per essere più espliciti, il detenuto non è in grado di defecare e urinare autonomamente e per questo motivo ha bisogno del catetere e di frequente svuotamento dello sfintere anale. Tutte queste operazioni che fanno parte della quotidianità della vita dovrebbero essere fatte in ambiente totalmente asettico onde evitare infezioni alle vie urinarie e alla piaga da decubito che potrebbero portarlo alla morte. L’avvocato Pasquale Striano, suo difensore, ha documentato che il paziente ha bisogno di trattamento kinesi-terapico, al fine di mitigare gli effetti della spasticità, mediante rinforzo del tono muscolare per favorire i gesti di vita quotidiana, verticalizzazione due volte al giorno nello stabilizzatore per ridurre la spasticità degli arti inferiori e favorire il transito intestinale, ginnastica respiratoria per fronteggiare la paralisi di alcuni muscoli respiratori. L’avvocato Striano non ha chiesto la scarcerazione del suo assistito ma il trasferimento in una struttura ospedaliera dove possa essere curato e dove possa fare l’indispensabile fisioterapia che a Cagliari-Uta non sono in grado di assicurare. Il detenuto in questione, già in passato dichiarato incompatibile con la detenzione in carcere, è stato ricoverato presso il Campolongo Hospital di Eboli (Sa) - struttura presso la quale è rimasto ai domiciliari per oltre 3 anni senza mai creare problemi, ossequioso del provvedimento reso dal Gip di Napoli. Oggi gli si rifiuta il ricovero nella struttura perché si dice che l’ospedale di Eboli non può più essere utilizzato allo scopo in quanto divenuto presidio Covid-19. Quello che però non viene chiarito è che l’immensa struttura ha previsto un piano riservato ai malati di coronavirus separato - a scompartimento stagno, con percorsi e personale medico dedicati - dagli altri reparti, ove tuttora sono ricoverati numerosissimi degenti. Ho voluto esordire con questa storia che definisco “infame” perché da sei mesi l’amministrazione penitenziaria non è in grado di trovare - come accaduto nel caso Zagaria - una soluzione di cura per questo detenuto privato anche del piantone d’ausilio nella sua vita in cella. Ora, in tutta l’indecorosa querelle che ci ammorba da giorni fra chi è più anti-mafioso tra Di Matteo e Bonafede, un argomento - cruciale - è rimasto fuori ed è lo sfascio della sanità penitenziaria che non è mai stata in grado di assicurare, non ad uno o quattrocento, ma a decine di migliaia di detenuti i livelli minimi di cura e assistenza che per legge dovrebbero essere garantite ad ogni cittadino. Si tratta del tradimento della riforma di 12 anni fa che prevedeva il passaggio della medicina penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale. Incredibilmente il ministro della salute Speranza non ha fiatato e in tutto l’evolversi della pandemia non ha mai presentato - come era suo dovere - un piano sanitario d’emergenza per le carceri i cui direttori sono stati lasciati letteralmente soli a gestire una condizione inedita senza mai avere un chiaro indirizzo sul da farsi. È così capitato che in alcune carceri - come ha denunciato il Dott. Francesco Ceraudo per il carcere di Pisa - si è arrivati al paradosso di non autorizzare il Personale Sanitario all’uso dei dispositivi di protezione perché ciò avrebbe potuto turbare psicologicamente i detenuti. Il risultato di questa demenziale direttiva è stato il contagio da Covid-19 di un medico, dello specialista di odontoiatra e di due Infermieri professionali ai quali occorre aggiungere almeno 15 Agenti della Polizia Penitenziaria. Roba da denuncia penale. Altre iniziative insensate che sono state effettuate dall’amministrazione penitenziaria riguardano le centinaia se non migliaia di trasferimenti compiuti con tanto di traduzione a centinaia di chilometri di distanza dei detenuti che avrebbero partecipato alle rivolte. Anche qui le conseguenze sono state nefaste, con il coronavirus “servito a domicilio”, come denunciato dal Sindaco di Tolmezzo che si è visto arrivare nel carcere della cittadina friulana cinque detenuti, poi rivelatisi positivi al Covid-19, provenienti dal carcere di Bologna. Si tratta di alcuni esempi - oggetto di interrogazioni parlamentari del deputato Roberto Giachetti - che evidenziano lo stato di vero e proprio collasso della sanità in carcere, deprivata nel tempo di risorse e di professionalità da parte delle regioni che sul carcere, per esclusivi motivi elettoralistici, preferiscono risparmiare. Ieri alla Camera il ministro Bonafede - chiamato a rispondere, ahi-noi, della mancata nomina a Capo del Dap della star Di Matteo che vede trattative mafia-stato dappertutto - oltre all’ennesima sfiancante ricostruzione della sua scelta, ha rivendicato le tante cose positive portate avanti dall’amministrazione penitenziaria diretta da Basentini (che se è stato così bravo non si capisce perché lo abbia costretto alle dimissioni). Fra queste balle ci sono i nuovi padiglioni da 200 posti (in due anni di sua reggenza non ne è entrato in funzione nemmeno uno) decisi, costruiti e finanziati dai governi precedenti. Ha accennato anche alle fantomatiche “caserme” da riconvertire in carceri. Insomma, una serie di fandonie che nulla hanno a che fare con l’indecente realtà del nostro sistema penitenziario. Due giorni fa ha dato in pasto all’opinione pubblica l’ennesimo decreto-legge per riconquistare punti sul suo livello di anti-mafiosità, ridottosi a causa delle sconsiderate dichiarazioni televisive di Di Matteo il quale si è ridestato a scoppio ritardato di due anni dalla sua mancata nomina. Un decreto intimidatorio nei confronti dei magistrati di sorveglianza, che hanno semplicemente fatto il proprio dovere riconoscendo i diritti inalienabili di chi per gravità di patologie è incompatibile con la detenzione in carcere. Senza il senso di responsabilità di alcuni di questi magistrati dell’esecuzione penale (ma anche dei Gip, per la custodia cautelare), in questi due mesi di pandemia la popolazione detenuta non sarebbe diminuita di quasi 8.000 unità come è accaduto facendo così respirare almeno un po’ un sistema al collasso. Per Bonafede (e il capo del Dap che si era scelto), ricordiamolo, il sovraffollamento non è mai esistito. Con il Partito Radicale e Nessuno Tocchi Caino siamo convinti che solamente con denunce a tutti i livelli giurisdizionali si può salvare l’onorabilità di quello che dovrebbe essere uno stato di diritto democratico. Dall’altra parte, da vomito, sono stati ieri i discorsi delle opposizioni di Lega e Fratelli D’Italia perché, come diceva Marco Pannella, sono semplicemente soci, al di là della quotidiana ammuina di contrapposizioni. Decreto inutile che umilia i giudici. Ma al ministro serviva uno spot di Gianpaolo Catanzariti* La Repubblica, 13 maggio 2020 Per salvare la poltrona, Bonafede ha consegnato i tribunali di Sorveglianza ai pm: creerà il caos. I decreti legge, come è scritto in un libro di recente pubblicazione, “Io sono il potere - confessioni di un capo di gabinetto anonimo”, sono il bordello della Repubblica. Poco importa se oramai non corrispondono alla codificazione voluta dai padri costituenti. Rappresentano la linea produttiva più efficiente della fabbrica delle leggi. Il più delle volte il ministro ci chiede di fare una legge non perché la ritiene giusta. Non perché glielo chiedono le categorie interessate. Non perché serve al partito. Ma soltanto perché è di moda. Perché c’è bisogno di battere un colpo, di emettere un suono. Lo Stato deve far vedere ai cittadini che se ne occupa, che sa fare qualcosa. Un’altra legge, che si aggiunga alle altre duecentomila esistenti. Il ministro se la intesterà e se ne rallegrerà con il suo staff. Nessuno ne verificherà l’efficacia o anche semplicemente la reale applicazione. E la vita andrà avanti… in attesa della prossima finta emergenza. Il ministro Bonafede doveva “battere un colpo, emettere un suono”, presentandosi alla Camera per l’informativa urgente sulla nomina del capo del Dap nel 2018, strattonato malamente nell’Arena mediatico-giudiziaria da Giletti e Di Matteo. Dinanzi al vuoto praticato nella gestione carceraria, “ci vuole un segnale”, avrà detto al suo staff in via Arenula. E segnale sia! Non uno. Ben due decreti legge; uno dopo l’altro, per frenare la bufala dell’anno: le scarcerazioni di massa dei boss della mafia. Poco importa se le misure adottate siano del tutto inutili. Poco importa se il linguaggio utilizzato per allontanare le ombre scaraventatagli addosso in tv o dagli organi ufficiali della stampa manettara rappresenti un attentato all’autonomia e indipendenza dei magistrati di sorveglianza o sia costituzionalmente sgrammaticato. Importava imprigionare le polemiche attraverso un dl inutile certo, ma con un chiaro monito: la difesa dei diritti dei detenuti in questo Paese non deve esistere. Siano essi condannati in via definitiva o siano in carcere ancora in attesa di giudizio. Il tentativo di imbrigliare l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati di sorveglianza è in atto da tempo. Come dimenticare, infatti, le bordate del solito Di Matteo sul Fatto Quotidiano o dei vertici istituzionali del Movimento 5 Stelle, all’indomani della sentenza “Viola” della Cedu, o ancora le insinuazioni di Davigo in tv, all’indomani della sentenza “Cannizzaro” della Corte Costituzionale, sulla natura arrendevole dei magistrati di sorveglianza dinanzi alle minacce mafiose, senza che un grido di protesta, tranne quello dei penalisti, si sia levato dai settori istituzionalmente preposti alla tutela dei magistrati. E oggi quei propositi si sono concretizzati. Con il dl 28 del 30 aprile si è stabilito l’obbligo, per la magistratura di sorveglianza, di chiedere il parere del procuratore della Repubblica del Tribunale che ha emesso la sentenza e, nel caso di detenuti sottoposti al regime previsto dall’articolo 41bis, anche a quello del procuratore nazionale antimafia. Un atto di sfiducia verso coloro che devono decidere, ma anche verso la stessa Procura Generale chiamata già ad esprimersi sul punto. Quindi, con il dl 29 del 10 maggio scorso, si è stabilita una farraginosa procedura di rivisitazione dei provvedimenti adottati nei confronti dei detenuti per mafia o sottoposti al 41bis, per gravi motivi di salute connesse alla attuale emergenza sanitaria, che paralizzeranno gli uffici di Sorveglianza già gravemente carenti di personale e risorse. Nei quindici giorni successivi, i magistrati o i tribunali di sorveglianza saranno chiamati ad acquisire il parere del Procuratore Distrettuale Antimafia o del Procuratore Nazionale Antimafia (per i 41bis) nonché sentire il presidente della Giunta regionale sulla situazione sanitaria locale, per verificare, così, la permanenza delle condizioni che hanno imposto la prosecuzione della detenzione presso il domicilio. Una interminabile filiera di pareri senza, però, alcuna interlocuzione con il difensore o con il detenuto gravemente ammalato. O ancora il potere del Pm, per i detenuti in attesa di giudizio ammessi ai domiciliari, di operare una indagine tesa a rinvenire una struttura sanitaria carceraria e chiedere, così, al Gip di rimandarlo dentro. Ovviamente senza l’interlocuzione con la difesa. Non a caso Bonafede, presentandosi alla Camera, ha ribattezzato il dl in questione come la migliore risposta dello Stato per garantire una stretta sulle richieste di scarcerazione, cancellando dall’art. 24 della Costituzione l’inviolabile diritto di difesa. *Responsabile Osservatorio Carcere Unione camere penali italiane Mafia, al via l’operazione rientro in cella. Una lista segreta del Dap con i nomi di venti boss di Salvo Palazzolo La Repubblica, 13 maggio 2020 Per effetto del decreto Bonafede, ieri pomeriggio il primo padrino è stato già trasferito dai domiciliari in una struttura sanitaria penitenziaria: è Antonino Sacco, capomafia palermitano del clan di Brancaccio. Il primo boss è tornato in cella ieri pomeriggio: il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha trovato un posto in una struttura sanitaria carceraria al capomafia palermitano Antonino Sacco, 65 anni. E così, sulla base del nuovo decreto voluto dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, sono stati revocati i domiciliari per motivi di salute a uno dei nomi di maggior rilievo nella lista dei 376 svelata da Repubblica il 5 maggio. Quel giorno, il Guardasigilli annunciò un provvedimento per riportare in cella i padrini tornati a casa nelle settimane dell’emergenza Covid, il decreto è stato pubblicato il 10 maggio. E il nuovo vice capo del Dap Roberto Tartaglia, l’ex pubblico ministero del processo “Trattativa”, ha già predisposto una prima lista segreta con i nomi di una ventina di mafiosi a cui dovrebbero essere revocati i domiciliari per motivi di salute: il Dipartimento delle carceri ha trovato posto in strutture sanitarie penitenziarie. Il decreto prevede proprio la rivalutazione dei domiciliari nel caso in cui sopraggiunga la disponibilità a ospitare il detenuto in un reparto ospedaliero protetto. Così, in questi giorni, il Dap sta programmando quello che non era stato fatto prima, nel pieno dell’emergenza coronavirus, ovvero un piano per l’assistenza dei detenuti più pericolosi nei centri medici carcerari: un posto lo sollecitava il giudice di sorveglianza di Sassari per Pasquale Zagaria, detenuto con problemi di salute al 41bis, nelle scorse settimane il Dap diretto da Francesco Basentini aveva addirittura risposto in ritardo al magistrato, che si era visto costretto a concedere i domiciliari. Ora, è partito il piano di rientro dei mafiosi più pericolosi. Top secret i tempi e la lista dei boss interessati al provvedimento, al Dap c’è grande riservatezza attorno all’operazione. Di sicuro, nella lista dei 376 svelata da Repubblica c’erano tre mafiosi al 41bis (oltre Pasquale Zagaria, il palermitano Francesco Bonura e il calabrese Vincenzino Iannazzo), un detenuto proveniva invece dalla cosiddetta “Alta sicurezza 1” (l’ergastolano siracusano Antonio Sudato), tutti gli altri erano reclusi nei reparti dell’Alta sicurezza 3, il circuito che ospita l’esercito di mafie e gang della droga, 9.000 persone in totale. Fra loro, i “colonnelli” delle mafie italiane, che secondo le procure e le forze dell’ordine hanno in mano gli affari e i segreti dei clan. Fra questi c’era Antonino Sacco, come raccontavamo nel nostro servizio del 5 maggio è l’erede dei fratelli Graviano, gli uomini delle stragi del 1992-1993, per i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Palermo ha fatto parte del triumvirato che ha retto di recente il potente mandamento di Brancaccio. Un nome che ha alzato il livello delle polemiche. “Dopo aver letto sul giornale che Sacco era tornato in libertà ho avuto paura - ci ha detto l’ex killer Pasquale Di Filippo, oggi collaboratore di giustizia, in un’intervista pubblicata l’8 maggio - I boss di Palermo hanno di sicuro festeggiato per quelle scarcerazioni, so come ragionano, sono stato anch’io un mafioso. Hanno festeggiato per la disorganizzazione dell’antimafia”. La disorganizzazione del Dap nella gestione dell’ex capo Francesco Basentini, che si è dimesso nei giorni delle polemiche sulle scarcerazioni, ma il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede lo ha difeso anche ieri, nel corso dell’informativa urgente alla Camera sulla mancata nomina del magistrato Nino Di Matteo al Dap. Ora, al ministero della Giustizia le attenzioni sono tutte concentrate sui mafiosi da far tornare in carcere. Uno dei casi più eclatanti resta quello dei tre killer ergastolani che da qualche giorno sono in Sicilia, fra Catania e Siracusa: si tratta di Carmelo Terranova, Antonio Sudato e Francesco La Rocca. Tre esponenti di una mafia sanguinaria che negli anni Ottanta si riconosceva nei padrini palermitani Riina e Provenzano. Finiti in carcere, gli eredi dei loro clan continuano a esercitare ricatti su commercianti e imprenditori, per imporre il pizzo. Questi e altri scarcerati sono nomi carismatici del crimine organizzato, che spesso sono rimasti un punto di riferimento per i giovani boss. Un altro nome simbolo è quello del capomafia trapanese Vito D’Angelo, uno dei fedelissimi dell’entourage del superlatitante Matteo Messina Denaro: non ha perso tempo una volta ritornato nella sua abitazione sull’isola di Favignana, ha incontrato alcuni suoi fedelissimi. E i carabinieri lo hanno già riarrestato. Cari Colombo e Violante, benvenuti al tavolo con Montesquieu di Tiziana Maiolo Il Riformista, 13 maggio 2020 In due interviste all’Huffington Post, i due ex magistrati attaccano l’istituzione carceraria. Potremmo sottolineare le contraddizioni con il passato, ma intanto applaudiamo. “Il carcere così come è oggi in Italia è da abolire”. “Possiamo, anzi dobbiamo, liberarci dal carcere in maniera relativa, rompendo il monopolio della pena carceraria”. Non è una discussione immaginaria tra Michel Foucault e Cesare Beccaria, ma tra due ex magistrati, Gherardo Colombo e Luciano Violante. Sono stati due accusatori, due repressori. Hanno svolto ruoli politici importanti, anche nel loro impegno di magistrati. Lo negherebbero con forza, qualora fosse loro attribuita quella veste. Ma è difficile non ricordare all’uno le modalità nelle inchieste di Mani Pulite e all’altro la vicenda di Edgardo Sogno. Ma oggi non è il momento delle contestazioni. Al contrario, ci pare importante dare valore a quel che due importanti intellettuali vanno pensando e dicendo. Pubblicamente. In due separate interviste rilasciate a Nicola Mirenzi per l’Huffington Post osano lanciare il sasso in una piccionaia di quella subcultura che attraversa disordinatamente il mondo politico, quello giudiziario e gran parte del sistema di informazione. Quello del “devono marcire in galera”, “buttare la chiave”, “sbattere dentro i mafiosi scarcerati”, quello stesso mondo che poi si dà appuntamento la domenica sera da Giletti su La7. L’argomento non è di gran moda, neppure tra gli intellettuali, si sa. Ma proprio per questo la provocazione val la pena di essere ascoltata e rilanciata. Con l’occhio della memoria. Dai discorsi di Montesquieu sulla pena fino a tutto il settecento illuministico e al pensiero di Foucault negli anni Settanta del Novecento, il carcere è stato interpretato come violenza in sé, con la sua sola esistenza. Ma, fuori dai cenacoli degli intellettuali e dei filosofi, il pensiero di una pena che non fosse di necessità legata alla restrizione, alla privazione della libertà, alla mortificazione del corpo prima ancora che della personalità, non ha mai attraversato il mondo dei “carcerieri”. Già nella scelta di indossare la toga di pubblico ministero o di giudice c’è un dogma violento: la presunzione di poter disporre del corpo e della mente di altri esseri umani attraverso l’uso di una pena corporale, la detenzione in carcere. Pena di morte, ergastolo e carcere - scriveva in un prezioso libretto (Delitto, pena e storicismo, Marco Editore) nel 1994 un grande giurista, Luigi Gullo - in fondo rispondono alla stessa esigenza, quella di privare la persona della libertà, quindi della vita. Gherardo Colombo ha avviato una lunga macerazione personale nel corso degli anni. Un percorso da credente, (anche se oggi si definisce solo “cristiano filosoficamente”), da persona che ha sempre provato disagio nel dare o nel chiedere la reclusione. Pure ci credeva, nella funzione rieducativa della pena, anche attraverso il carcere. Poi ha capito che l’unica funzione della detenzione è in realtà l’asservimento della persona: “in una società senza perdono, la pena educa solo a obbedire”. Certo, sorvegliare e punire. Riecco Foucault che si insinua tra i due ex magistrati. “Il carcere non educa a niente. Instaura solo un rapporto di soggezione tra il detenuto e il potere”, gli fa eco Luciano Violante. Il quale non parla mai di perdono, al contrario di Colombo. Usando criteri che oggi paiono un po’ arcaici, quello virtuale tra i due pare il dialogo tra un cattolico e un marxista. Ma tutti e due trattano la persona che commette un reato come colui che spezza il rapporto con la comunità. Ed è quello strappo che occorre ricucire. Non mettendo l’uomo o la donna in cattività, ma con altri strumenti. Ferma restando la necessità comunque di isolare chi è pericoloso per l’incolumità altrui, l’ex pm di Mani Pulite vede il perdono come il recupero della relazione tra il trasgressore e la società. Ma continua a mancare un pezzo, nella sua analisi, quasi avesse lui timore a distaccarsi del tutto da una visione della “società dei puri” che permea oggi più che mai la mentalità di tanti pubblici ministeri (e non solo) e che fu in passato anche la sua. Non per rinfacciare (questo mai), ma solo per aiutare la memoria: come dimenticare quella sua intervista al Corriere nel 1998 in cui aggredì la Bicamerale presieduta da ma ricostruendo la storia d’Italia come storia criminale? “C’è in Italia una società del ricatto - aveva sillabato - frutto degli opachi compromessi degli ultimi vent’anni della Repubblica”. Una visione moralistica, prima ancora che morale. Luciano Violante, che ha sulla coscienza la proposta di impeachment nei confronti del presidente Francesco Cossiga, nel suo percorso va al galoppo. Sentite questa: “Negli ultimi anni ha preso piede, non solo in Italia, una cultura politica che concepisce la società come un mondo da purificare. Dal quale gli impuri, le persone che commettono reati e i sospettati vanno radiati, con il diritto penale e con il carcere. La purezza però è un fantasma che si sporca facilmente. Questo alimenta il sospetto e intorno a esso costruisce un apparato di repressione capillare. Un dispositivo autoritario pericoloso”. Sta pensando al procuratore Nicola Gratteri o al consigliere del Csm Nino Di Matteo, presidente Violante? O a qualche leader politico, di maggioranza o opposizione, magari anche del suo ex partito? Ringraziando i partecipanti alla tavola rotonda, i signori Montesquieu, Voltaire, Beccaria, Foucault, Colombo e Violante, ci permettiamo di lasciare l’ultima parola a Luigi Gullo, nella conclusione del suo libro: “Riflettiamo per un attimo: anche uomini di specchiato sentire accettarono tanti secoli fa la schiavitù. Chi sarebbe oggi d’accordo con loro? Proprio allo stesso modo si può ragionare per il carcere e la carcerazione”. Raffaele Cutolo resta in carcere. “Non è in pericolo di vita e viene seguito dai medici” di Titti Beneduce Corriere del Mezzogiorno, 13 maggio 2020 Dopo le polemiche feroci per la scarcerazione dei boss, l’invio degli ispettori a Sassari per il caso Zagaria e il decreto che prova a riportare in cella quanti ne sono usciti per l’emergenza sanitaria la notizia non giunge inattesa: Raffaele Cutolo resta in carcere. Il magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia, Cristina Ferrari, ha infatti respinto l’istanza di sospensione di esecuzione della pena con applicazione provvisoria della detenzione domiciliare, avanzata per motivi di salute dalla difesa del fondatore della Nuova camorra organizzata. Cutolo, che ha 78 anni, da circa 25 è detenuto al 41bis, attualmente nel carcere di Parma; a febbraio era stato trasferito per un periodo dal carcere all’ospedale, in modo da garantire le migliori terapie per i suoi problemi respiratori. Per il giudice, come si legge nelle motivazioni della decisione, Raffaele Cutolo non ha una malattia di “gravità tale da potersi formulare una prognosi infausta quoad vitam”, e “l’ampia documentazione acquisita comprova una situazione detentiva rispettosa della dignità personale, in cui il paziente può contare su presenza e monitoraggio costante degli operatori sanitari”. Se anche le sue condizioni di salute dovessero aggravarsi, argomenta il giudice, il detenuto potrebbe contare “sulle strutture territoriali esterne”, dove appunto è stato già temporaneamente ricoverato a febbraio. Quanto al rischio Covid, le patologie di cui soffre non vengono ritenute “esposte a rischio aggiuntivo” per l’attuale emergenza, visto che il regime di 41bis gli permette “di fruire di stanza singola, dotata dei necessari presidi sanitari” e lo tutela anche perché il boss di Ottaviano “da anni ha rinunciato ai momenti di socialità, così di fatto riducendo ulteriormente i contatti interpersonali e le vie di contagio”. Nelle motivazioni si legge poi che “la condotta oppositiva di Cutolo all’esecuzione di esami e accertamenti giustifica il rigetto dell’istanza. Per maggior tutela dei detenuti sottoposti al regime detentivo, si raccomanda che, in occasione dei colloqui con i propri avvocati, sia il detenuto che il legale indossino dispositivi di protezione e che vengano informati sul rispetto delle norme di distanziamento fisico”. Il giudice dà anche conto del sostegno dato al carcere di Parma dal Dap, con l’invio l’8 maggio scorso di otto operatori socio-sanitari che si occupano anche del boss della camorra, cui sono stati forniti anche un letto dotato di sponde e un materasso anti-decubito. Cutolo soffre di diverse patologie, a cominciare da una cardiopatia ipertensiva e dal diabete. Quando, l’8 marzo scorso, era rientrato in carcere dall’ospedale, i sanitari avevano sottolineato la necessità per lui di un care giver 24 ore su 24, o in alternativa di un operatore sociosanitario, figura professionale però non presente in quel momento nel carcere di Parma. Motivo, le sue “limitate autonomie” e il suo “pervicace rifiuto” di utilizzare le attrezzature messe a sua disposizione, come il bastone a tre piedi per gli spostamenti, con il “rischio concreto di cadute accidentali”. Di qui la decisione del Dap di assegnare operatori socio-sanitari al carcere di Parma. Nel provvedimento si dà conto anche del parere negativo alla concessione del beneficio della Dna e della Dda competenti vista la “caratura criminale” del boss. Il difensore di Cutolo, Gaetano Aufiero, ha già annunciato che farà ricorso contro la decisione: “Rispetto il provvedimento del magistrato, sebbene non lo condivida. Andrò a Bologna davanti al Tribunale di sorveglianza per portare avanti la mia difesa e l’idea che le patologie molto gravi di cui soffre Cutolo siano incompatibili con il sistema carcerario. Nelle ultime settimane - spiega Aufiero - ho ascoltato e letto tanti commenti di persone che hanno gridato allo scandalo per scarcerazioni più o meno rilevanti, ma soprattutto ho sentito commenti di chi ritiene che il sistema giudiziario, penale e penitenziario italiano debba esprimere un’idea di morte, cioè che una persona malata deve morire in carcere. Io appartengo a una schiera spero non minoritaria che ritiene che invece la Costituzione sia ancora vigente e che l’articolo 27 meriti rispetto. Prendo atto che Cutolo appartiene a quella categoria di detenuti destinata a morire in carcere, di questo prendo atto con estrema delusione”. Sul tema delle scarcerazioni è intervenuto l’ex ministro dell’Interno Enzo Scotti: “Il vero pericolo è che la mafia mostri ai suoi e ai cittadini tutti che, alla fine, il suo potere è forte. Ecco perché cose di queste genere non possono capitare. La preoccupazione è quella di non sfilacciare lo Stato, di avere una reazione unitaria e composta. C’è bisogno di una forte coesione dello Stato. Non conosco la vicenda ma dico soltanto che bisogna rivolgere una grande attenzione a questi problemi”. Il sindaco di Ercolano, Ciro Buonajuto, ha intanto scritto al prefetto, Marco Valentini, per manifestare la sua preoccupazione per il possibile ritorno dei boss in città. Caso Dap, Bonafede: “Non mi sono fatto intimorire nella nomina”. Iv critica: “Ricostruzione parziale” di Liana Milella La Repubblica, 13 maggio 2020 Il ministro della Giustizia interviene sulle polemiche per la mancata nomina di Di Matteo alla guida dell’amministrazione penitenziaria. E replica: “Il fronte antimafia rimane compatto”. Sulle scarcerazioni: “Lo Stato ha risposto con due decreti in una settimana”. Oggi insedia il nuovo capo delle carceri Petralia. “Nel 2018 non vi fu alcuna interferenza, né diretta né indiretta, sulla nomina del Dap. Punto. Non sono disposto a tollerare ancora allusioni per me stesso e per la carica che ricopro”. È questa la frase centrale dell’autodifesa del Guardasigilli Alfonso Bonafede alla Camera sul caso Di Matteo. Un’informativa di quindici minuti che fornisce la versione del ministro su quanto l’ex pm Nino Di Matteo ha detto a “Non è l’arena”, in una telefonata di domenica 3 maggio. Che in sintesi diceva: Bonafede mi promise il Dap, poi fece marcia indietro. Caso esploso nel pieno delle polemiche sulle scarcerazioni di 376 mafiosi che il ministro della Giustizia affronta, ma in estrema sintesi perché non sono oggetto dell’informativa a Montecitorio: “Sono state prese in piena autonomia dai magistrati senza condizionamenti né del ministero né del governo”. Alla Camera Bonafede annuncia anche che oggi si insedia il nuovo capo delle carceri, Dino Petralia. Il fatto e le “illazioni” - Il Guardasigilli parte da tre punti: “È stata fatta una nomina; avevo diritto alla più alta discrezionalità; non ci sono stati condizionamenti”. Poi Bonafede attacca: “La trasparenza è l’antidoto contro vergogna e malafede”. E parte da qui la sua ricostruzione di quei tre giorni del giugno 2018, il 18, il 19, il 20. Ma prima il ministro grillino vuole sgombrare il campo dalle accuse che gli sono state rivolte, le chiama “congerie di vergognose illazioni e suggestioni che sono personalmente e istituzionalmente inaccettabili. C’è un limite a tutto. Il confine è stato superato. C’è un alone di mistero sul nulla senza alcun rispetto per le vittime”. La minuziosa ricostruzione - Ma ecco i fatti nella ricostruzione che ne fa il ministro. “Nel 2018 mi misi al lavoro per formare la mia squadra. Feci circa 50 colloqui fra altrettanti magistrati. Pensai a Di Matteo. Il 18 giugno lo chiama al telefono. Non nascondo che, passati due anni, ho ricostruito con fatica quei colloqui informali”. Bonafede racconta che già in quel primo confronto con Di Matteo “evocò” il ruolo che Giovanni Falcone ebbe al ministero della Giustizia tra il 1989 e il 1992, cioè quello di direttore degli Affari penali. Prosegue: “In quella telefonata gli dissi che avevo tempi strettissimi, che in due giorni dovevo chiudere. Mi disse che mi avrebbe risposto in 48 ore. Gli chiesi di venire il giorno dopo”. “Fui intimidito? La risposta è no” - Bonafede torna sul punto dolente di tutta la vicenda, una sua eventuale marcia indietro frutto di una pressione, di “un veto” dall’esterno come dice Di Matteo nell’intervista rilasciata a Repubblica. Bonafede è netto: “La domanda è sempre la stessa, se mi feci intimorire o condizionare da qualcuno. La mia risposta è no”. Una pressione dei boss mafiosi? - Il Guardasigilli affronta la questione della mafia. Le cosiddette “esternazioni” dei boss in cella riportate in un rapporto del Gom, la struttura che ha al vertice il generale Mauro D’Amico e che monitora il comportamento dei detenuti ristretti al 41bis e redige dei rapporti. Non si tratta di intercettazioni vere e proprie ma di scambi di messaggi tra i detenuti raccolti dagli agenti. Dice Bonafede su questo punto molto delicato: “Quelle esternazione dei boss erano note dal 9 giugno, quindi prima della telefonata, nella quale lo stesso Di Matteo mi parlo delle frasi dei boss. Tant’è che lo stesso Di Matteo ha chiarito a Repubblica che “il ministro era informato della questione”. Aggiunge Bonafede a questo punto: “Non vi fu alcuna interferenza né diretta, né indiretta sul Dap”. Quindi tantomeno quella dei mafiosi. L’incontro con Di Matteo - Sono le 11 del 19 giugno quando in via Arenula s’incontrano Di Matteo e il Guardasigilli. Riferisce Bonafede alla Camera: “Mi ero convinto che il ruolo per Di Matteo dovesse essere quello che era stato di Falcone, richiedeva più tempo, ma ne valeva la pena, perché avrebbe lavorato al mio fianco. Con un ruolo che avrebbe inciso su tutta la legislazione. In quel momento non ragionai in termini gerarchici. Ma sul fatto che la mafia, che vive di segnali, non avrebbe certo guardato all’organigramma del ministero, ma alla presenza di Di Matteo accanto alla mia”. Bonafede spiega perché allora non ritenne congrua per Di Matteo la poltrona del Dap: “Quel direttore non si occupa solo del 41bis, ma di amministrazione delle carceri, di edilizia penitenziaria, del personale civile, delle relazioni sindacali, di tutti i detenuti”. Molta burocrazia, insomma. Il passo indietro - Bonafede si avvia verso la fine della sua ricostruzione. “Ero convinto che il progetto fosse completo, ma Di Matteo mi chiamò e mi chiese di vedermi il giorno dopo. Ero convinto che volesse entrare nel merito del progetto. Ma tornò e disse che non era più disponibile, perché preferiva il Dap. Lo appresi con sorpresa, ma gli dissi che avevo già inviato al Csm la richiesta di fuori ruolo per Basentini. Gli spiegai anche chi fosse Basentini. Un magistrato alla quinta valutazione di professionalità di cui la procura nazionale antimafia diceva che aveva saputo far fronte alla mole di lavoro per l’esperienza maturata proprio sulla mafia”. Bonafede chiude così: “Ovviamente nessuno vieta a Di Matteo di non condividere mia scelta”. Il Pd sta con Bonafede, Italia viva accusa - Dura 45 minuti il dibattito sull’informativa di Bonafede. Il Pd lo difende. Italia viva è molto fredda. Questo fa pensare che Renzi pensi tuttora di votare sì alla mozione di sfiducia presentata dalla Lega (e firmata anche da Fdl e Forza Utalia) contro Bonafede al Senato in cui si legano il caso dei boss scarcerati alle parole di Di Matteo. Mozione che, per il momento, non è stata ancora messa nel calendario e potrebbe essere discussa assieme a quella del ministro del Mef Gualtieri. Il gelo sul Guardasigilli arriva dalla deputata renziana Lucia Annibali che accusa: “Se questa vicenda fosse avvenuta a un nostro esponente, M5S avrebbe richiesto le dimissioni con manifestazioni di piazza. Noi scegliamo la serietà contro uno stile giustizialista che non ci appartiene”. Aggiunge subito dopo: “Lei, ministro, ci ha dato la sua ricostruzione dei fatti. Ricostruzione che noi giudichiamo parziale. Avrebbe potuto approfondire meglio e di più per rispetto di questo Parlamento”. Una bacchettata anche per Di Matteo che “dovrebbe dare un chiarimento nella sede opportuna”. È l’annuncio di una sfiducia che Renzi minaccia da giorni? Autorevoli fonti renziane della Camera non confermano l’intenzione e parlano di “libere interpretazioni di chi ascolta”. Ma resta l’atteggiamento critico, del tutto opposto a quello del Pd che con Michele Bordo che invece critica Di Matteo perché “dopo due anni non può andare in tv a insinuare che il ministro sia stato condizionato dalla mafia”. “In un Paese normale - dice Bordo - un magistrato se ha in mano elementi concreti non va in tv, ma apre un’indagine o denuncia il fatto, o diversamente evita di parlare”. Ovviamente dura la reazione della Lega che con l’ex sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone parla di “autodifesa che fa acqua da tutte le parti” e aggiunge che “la scarcerazione di boss mafiosi, in altri tempi, avrebbe fatto cadere ministri e governo”. Il responsabile giustizia di Forza Italia Enrico Costa chiede una speciale sessione del Parlamento sulla giustizia e a Bonafede dice: “Ci divide tutto da lei, ma facciamo fatica a consideralo colluso con la mafia, ma chissà se lei, a parti invertite, avrebbe fatto lo stesso”. Bonafede sbotta: “Con Di Matteo eravamo d’accordo” di Eleonora Martini Il Manifesto, 13 maggio 2020 Informativa del Guardasigilli alla Camera: “Tutto già discusso”. La versione del ministro: “Ci lasciammo con l’idea di affidargli gli Affari penali. Poi lui ci ripensò”. Era tutto chiaro, detto, trasparente. Tra i due c’era pieno accordo, già dal 19 giugno 2018. È quanto sostiene il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che con un colpo di reni cerca di levarsi definitivamente da quel pantano pericoloso che è l’accusa di essersi piegato ai desiderata dei detenuti mafiosi quando, due anni fa, preferì come capo del Dap Francesco Basentini (al suo posto ieri si è insediato Bernardo Petralia) all’ex pm della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo. Usa tutto il tatto possibile, il Guardasigilli grillino, ma stavolta, nella sua informativa alla Camera, mostra di aver perso la pazienza e si toglie tutti i sassolini che il consigliere del Csm gli ha infilato nelle scarpe quando una settimana fa è intervenuto in tv a “Non è l’arena” (La7) per raccontare una versione molto diversa dei fatti. Quando, “martedì 19 giugno alle ore 11” si videro al ministero, i due si intrattennero a lungo. “Mi convinsi dopo la prima telefonata e, in occasione di quel primo incontro, che l’opzione migliore sarebbe stata quella di riproporre al dott. Di Matteo un ruolo equiparabile a quello che era stato di Giovanni Falcone. Avrebbe richiesto certamente più tempo e avrebbe implicato probabilmente una riorganizzazione del Ministero ma ne sarebbe valsa la pena perché, nel progetto che avevo in mente, gli avrei consentito di lavorare in Via Arenula, al mio fianco”, afferma Bonafede. “Come dissi al dott. Di Matteo, che avrebbe preferito quel ruolo, il capo del Dap non si occupa soltanto del fondamentale tema della gestione dei detenuti mafiosi”. In quell’occasione parlarono anche delle esternazioni dei detenuti mafiosi registrate in carcere. Ma “la mafia, che vive di segnali, - sottolinea Bonafede - non sarebbe andata a guardare l’organigramma del ministero per verificare quale ruolo fosse più in alto o più in basso. La mafia avrebbe constatato una sola circostanza: Di Matteo, dentro le istituzioni, lavorava al fianco del ministro della Giustizia”. “Non ragionai, lo ammetto, in termini di peso gerarchico del ruolo da ricoprire - osa il ministro rivolgendosi indirettamente al guru dell’antimafia, effige sacra del pantheon grillino - bensì di buon funzionamento del progetto”. “Accennai anche alla possibile nomina del dott. Basentini” e, “dopo un lungo colloquio ci lasciammo proprio con questa idea”. Ma quello stesso giorno Di Matteo chiese un nuovo incontro. Il giorno dopo, “credevo volesse approfondire il nostro progetto, ma invece mi disse che non era più disponibile perché preferiva il Dap e io gli comunicai che avevo già avviato la nomina di Basentini”. Cosa ha spinto dunque, la sera del 3 maggio 2020, Di Matteo a rivangare una storia già digerita due anni fa? Forse lo si capirà del tutto quando sarà discussa la mozione di sfiducia presentata al Senato dalla Lega con FdI e FI. Di sicuro però non sarà questa settimana, come ha deciso ieri l’Aula respingendo la richiesta delle opposizioni di procedere subito (105 sì, 129 no, 3 astenuti). Bonafede intanto è atteso domani a Palazzo Madama (in giornata sarà ascoltato anche in commissione Giustizia, alla Camera) per un’informativa ancora sul caso Di Matteo e sulle cosiddette “scarcerazioni” dei detenuti. Che, ha spiegato ieri, sono state disposte “in piena autonomia dai magistrati competenti, nella maggior parte dei casi per ragioni di salute, e non c’è stato alcun condizionamento da parte del ministero o del governo”. Così come nessun condizionamento ci sarà a causa delle norme contenute nel recente decreto legge che Bonafede ha voluto come salvagente. A confermarlo è nientemeno che il presidente emerito della Corte costituzionale, Giovanni Maria Flick: “Il testo non serve - afferma intervistato da Il Foglio - Stimola solo i magistrati a fare delle verifiche che già erano tenuti a svolgere. È un modo per cercare di salvare la faccia”. Per salvare Bonafede dalla sfiducia Italia Viva rivuole la prescrizione di Giulia Merlo Il Dubbio, 13 maggio 2020 Lo chiede Lucia Annibali, dopo l’informativa del guardasigilli alla Camera: “Non abbiamo condiviso l’abrogazione della prescrizione, vogliamo riprendere un dibattito mai concluso”. Così il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, si è trovato stretto in un attacco a tenaglia. Da una parte, la mozione di sfiducia annunciata a gran voce e ora anche presentata al Senato da parte dei partiti del centrodestra. Dall’altra, la pressione degli alleati di governo di Italia Viva, che ammiccano alle opposizioni non avendo ancora sciolto la riserva sul voto di sfiducia, e presentano il conto sulla prescrizione. Una e l’altra mossa, prese autonomamente, sarebbero state certo fastidiose ma innocue. Insieme, invece, creano un cortocircuito potenzialmente fatale in via Arenula. La più insidiosa è quella dei renzani, perché è stata preparata con calcoli sottili durati settimane. Il primo tassello, la pressione per le dimissioni del direttore del Dap dopo i domiciliari ai boss, che ha gettato le fondamenta per sostanziare le critiche al ministro. Il secondo tassello, invece, è stato posato quando la ministra dell’Agricoltura, Teresa Bellanova, ha minacciato le dimissioni e guadagnato un incontro della delegazione di Italia Viva con il premier Conte. In quella sede, si è parlato non solo di regolarizzazione temporanea dei migranti, ma anche - più sommessamente - dei nodi sulla giustizia. E da allora è ricominciata a filtrare con insistenza la parola “prescrizione”, anche se nessuno dei fedelissimi di Renzi la ha mai pronunciata pubblicamente: proprio la legge sullo stop alla prescrizione tanto voluta da Bonafede e dai grillini, anche a costo di scontentare buona parte del mondo accademico e giuridico e con loro Italia Viva che si era da subito detta contraria. Oggi, col ministro infragilito dal micidiale uno-due che è stata la polemica sul carcere e lo scontro televisivo con il pm Nino Di Matteo, i renziani puntano a dare il pugno del ko. A caricare il colpo è stata Lucia Annibali (all’epoca del dibattito sullo stop alla prescrizione, era stata firmataria dell’emendamento contrario di Iv), dopo l’informativa di ieri di Bonafede alla Camera. “Le chiediamo di fare il ministro della Giustizia, non del giustizialismo”, che è “la negazione stessa della giustizia”, ha esordito Annibali, definendo quello con Di Matteo “uno scontro istituzionale gravissimo che se fosse capitato a un ministro della nostra parte politica avrebbe indotto il Movimento 5 stelle a manifestazioni di piazza”. Poi ha affondato, pronunciando di nuovo in aula il nome del provvedimento mai digerito: “Noi non abbiamo condiviso molte norme che lei hai messo in campo, una fra tutte, l’abrogazione della prescrizione, e su questa vogliamo riprendere il prima possibile un dibattito mai concluso”. La sintesi è stata impietosa: sulla giustizia “ora serve una fase 2”. Come a dire, o cambia il passo o trarremo le conseguenze. Tanto è bastato ad aprire l’autostrada in cui si è subito infilato un’altra vecchia conoscenza del dibattito sulla prescrizione. Il forzista Enrico Costa, infatti, è tornato sul tema a lui caro grazie proprio alla sponda renziana: “Secondo il suo schema di processo senza fine la vera sentenza non la pronuncia il giudice a fine dibattimento ma il pm durante le indagini non in un’aula di tribunale ma dal pulpito di una conferenza stampa”, ha detto, chiedendo che si dia avvio “ad una grande sessione parlamentare sulla giustizia, un patto sulla giustizia in cui le Camere tornino ad essere protagoniste, isolando gli estremisti. Conosco i dubbi dei colleghi di maggioranza che temono di compromettere la vita del governo ma se avranno il coraggio di isolare i giustizialisti noi non proveremo a strumentalizzare questo coraggio”, ha concluso. E non a caso la mozione di sfiducia contro Bonafede, definito “inadeguato” per la gestione delle rivolte nelle carceri e del nodo della scarcerazione dei boss, è stata strutturata proprio per intercettare il malcontento di Italia Viva, ieri palesato anche in Aula. Con il ministro alle corde e il Pd in posizione di attenta neutralità (il dem Michele Bordo ha difeso il ministro dagli attacchi mediatici subiti e ribadito la contrarietà del Pd alla mozione di sfiducia, ma nulla più), le traiettorie di Italia Viva e centrodestra si sono incontrate, ma presto la tattica potrebbe portarle di nuovo a dividersi, visti i diversi obiettivi di fondo. Che quello dei renziani sia un gioco pericoloso, lo sanno anche i diretti interessati. Votare la sfiducia individuale al Guardasigilli vorrebbe dire aprire la crisi di governo, dunque la tattica dovrebbe essere quella di calcare la mano abbastanza da strappare una revisione della prescrizione ma non tanto da far crollare il castello di carte dell’Esecutivo. Un obiettivo ambizioso, che rischia di incrinare l’equilibrio fragile di un governo già impegnato su molti fronti. I dilettanti dell’antimafia di Claudio Cerasa Il Foglio, 13 maggio 2020 La gogna in Parlamento di Bonafede, vittima del suo stesso giustizialismo. C’erano una volta i professionisti dell’antimafia, e ci perdonerà Sciascia se lo trasciniamo in certe bassezze, ma ieri alla Camera si è assistito a una rissa delle comari, a un teatrino di dilettanti dell’antimafia. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha reso una informativa sulla vicenda della nomina del capo del Dap nel 2018. In pratica il ministro - esponente di spicco di un partito che ha contribuito a diffondere la cultura del sospetto e della gogna, e che ha sventolato la retorica anti-mafiosa fino al goffo decreto per far tornare in galera i boss per altro mai usciti - ha dovuto rispondere alle insinuazioni fatte tramite televisione da un tardo epigono dell’antimafia, di meno talento dei suoi predecessori: il dottore Di Matteo. E all’accusa infamante del dottore Di Matteo di non averlo nominato a capo del Dap a causa di pressioni della mafia. In un paese normale di fronte a queste accuse o il ministro si dimette o - e sembrerebbe la via più logica - il dottore che ora sta al Csm va in tribunale a rispondere di diffamazione. Nella politica attuale, Bonafede è di fatto inamovibile, altrimenti precipita il governo: ma questo è lo sfondo della farsa. La tragedia era invece che nel paese della politica inginocchiata davanti ai pm, che Bonafede incarna, ora è lui a dover difendere la sua “onorabilità” contro “verità e menzogne”. Faceva quasi tenerezza. Il punto più esilarante, anzi rivelatore, è stato quando si è scagliato contro “i chiacchiericci” di “improvvisati esperti antimafia”. Cioè in pratica contro il dottore Di Matteo stesso e la sua claque. Lui, Bonafede, provava ad atteggiarsi come un servitore dello stato a schiena dritta. Peccato che il percorso delle repliche sia stato per lui un doloroso gioco del soldato: a schiena girata, a cercare di indovinare da chi gli arrivavano i ceffoni più forti. Scontati quelli della Lega (ma da che pulpito) e di Forza Italia, è stata invece notevole la scudisciata di Michele Bordo del Pd, che ha rinfacciato al ministro del governo di cui è azionista, e al M5s, di aver contribuito a diffondere la cultura del pregiudizio di cui ora è vittima. Da ultimo lo scappellotto di Maurizio Lupi alla tragica figura del giustizialista messo alla “gogna mediatica”. Dai professionisti ai dilettanti. Giù le mani dai magistrati di sorveglianza di Carmine Alboretti La Discussione, 13 maggio 2020 Le polemiche relative ad alcune “scarcerazioni” facili hanno riattivato lo scontro tra politica e magistratura. Mentre al Ministero della Giustizia, dopo il corto circuito ai vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, si cerca di studiare misure ad hoc, c’è chi come Giuseppe Cioffi - magistrato di lungo corso attualmente in servizio presso il Tribunale di Napoli Nord, tra i primi in Italia ad occuparsi delle cd. “ecomafie” nel territorio che sarà poi definito Terra dei fuochi, già consulente della Commissione parlamentare antimafia - invita al rispetto dei ruoli e a non svilire la funzione dei magistrati di sorveglianza che maturano una esperienza ed una sensibilità sul campo ed hanno modo di conoscere il percorso carcerario che compie ogni singolo detenuto. Continua a tenere banco la vicenda delle cosiddette “scarcerazioni facili”. Lei, da magistrato con tanti anni di carriera nella giurisdizione penale, come giudica le varie posizioni in campo? “Il clamore è scaturito da due/tre posizioni particolari di detenuti al regime del 41bis, la cui sottoposizione, come è noto, è a cura del Ministero, nel senso che il provvedimento in questione è valutato e stabilito dal Guardasigilli e i giudici di sorveglianza non fanno altro che, con la loro particolare sensibilità, prendere atto e gestire queste posizioni all’interno delle strutture carcerarie”. Possiamo dire che qualcosa non ha funzionato? “I casi emersi riguardano detenuti non ergastolani; molti sottoposti a procedimenti ancora in corso le cui condizioni di salute, alla luce di quanto emerso, non potevano essere tutelate nelle strutture di detenzione. Qui non si tratta di garantismo esasperato ma di senso di umanità a cui tante volte l’Italia è stata richiamata dalle Corti sovranazionali. Ricordiamo che Papa Francesco l’anno scorso ha invocato una maggiore umanizzazione della pena senza alzare il polverone cui abbiamo assistito nei giorni scorsi”. Tutto questo però genera un allarme sociale difficile da controllare? “Ecco questo è un tema fondamentale. Spesso chi parla di questi temi in tv, conduttori, giornalisti e opinionisti, non ha contezza della realtà così come appare a chi invece la vive tutti i giorni. E questa esasperazione degli animi rende ancora più faticoso il già difficile momento che stiamo vivendo in cui siamo tutti più vulnerabili rispetto al clamore montato da informazioni imprecise. Ciò detto, dobbiamo innanzi tutto precisare che non ci sono state remissioni in libertà, come farebbero credere i toni adoperati da certuni, ma i detenuti di cui si è tanto parlato sono stati collocati in detenzione domiciliare, non solo per ragioni di salute ma la grandissima parte perché prossimi al fine pena e non avendo imputazioni ostative. E, comunque, non si tratta di ergastolani o persone imputati di reati di omicidio o fatti gravissimi, seppure molti sono stati considerati ad alta sicurezza per implicazioni in fatti di mafia. Mi viene in mente quello che accadde nel 1996”. Si riferisce alla proposta legislativa che fu all’epoca presentata in materia carceraria e che provocò un’autentica sollevazione? “Ci fu chi scrisse che ci sarebbero state scarcerazioni di massa. La pressione mediatica fu così elevata che i firmatari della legge si affrettarono a fare marcia indietro. Di lì a poco venne fuori che solo un numero esiguo di detenuti comuni aveva riconquistato la libertà. E, comunque, di lì a poco avrebbero terminato l’espiazione della pena. Ecco cosa significa creare allarmismi ingiustificati”. Ciò nonostante, il ministero sta valutando di intervenire per correggere il tiro… “Senza entrare nel merito, bisogna stare molto attenti a non svilire il ruolo e la funzione dei giudici di sorveglianza, i quali devono poter decidere liberamente sulla scorta della particolare esperienza, sensibilità e cultura specifica maturata sul campo e sulla conoscenza del percorso carcerario che compie ogni singolo detenuto. Questo è il lavoro che sono chiamati a svolgere”. Cosa dovrebbe fare la politica se davvero volesse aiutare i magistrati e, più in generale, la giustizia? “Predisporre investimenti in strutture, mezzi e risorse per consentire ai giudici di adempiere ai propri doveri con professionalità e decoro. Se tutti tornassero al ruolo che la Costituzione assegna a ciascuno ne avremmo tutti giovamento”. In conclusione, tornando al tema carcere: è opportuno rivedere il sistema? “Certamente sì. Lo affermo anche sulla scorta della esperienza maturata in ambito internazionale. Grazie alla mia collaborazione con la Commissione parlamentare antimafia ho avuto modo di conoscere e studiare le carceri in Belgio, Olanda, Germania e Austria. Lì, innanzitutto, il segmento dei detenuti in attesa di giudizio è assai esiguo. Il condannato sconta la pena in condizioni che, rispetto a quelle di penitenziari come Napoli, Roma, Milano o Palermo, sembrano quasi di lusso, ma in quei paesi viene garantita l’effettività della pena. E poi tutti concorrono con il lavoro alla compensazione dei costi che la società si sobbarca per la loro permanenza in cella”. Fase 2: i Tribunali ripartono tra ritardi, controlli e file Il Sole 24 Ore, 13 maggio 2020 Lunghe code, obbligo di mascherine, in alcuni casi misurazione della temperatura all’ingresso, ma anche contingentamento delle aule ed udienze a porte chiuse. Sono queste le caratteristiche ricorrenti della Fase 2 iniziata questa ieri mattina anche per i Tribunali italiani. Lentamente e tra mille difficoltà dunque la Giustizia cerca di riguadagnare una “normalità” che però è ancora di là da venire. Milano, ripresa lenta - Una ripresa lenta, piena di accortezze, con poca gente nelle aule, nei corridoi e negli uffici e una lunga coda, che si snoda all’esterno del Palazzo di Giustizia, dovuta alla riapertura di alcuni sportelli, come quello per i certificati penali. In più, problemi tecnici in particolare in un processo d’appello per un collegamento in videoconferenza col carcere di Opera e le lamentele di alcuni avvocati anche per la “sporcizia” dei banchi su cui devono sedere e per la “mancanza dei dispenser con i disinfettanti”. La fase 2 al Tribunale di Milano dopo la fine del periodo di sospensione prevede lo svolgimento delle udienze anche per i casi non urgenti (ma comunque solo quelli più ‘semplici’), ma a ‘porte chiusè e senza la convocazione dei testimoni per osservare il rispetto delle norme di sicurezza anti-Covid, almeno fino a fine luglio. Bologna, sono 5 le aule penali aperte - Ripartono le udienze penali al Tribunale di Bologna tra ingressi contingentati dalle 9 alle 11, misurazione della temperatura all’ingresso e mascherine obbligatorie. All’apertura, ieri mattina, si è creata subito una lunga fila che arrivava sotto al portico di via Farini, suscitando l’irritazione di qualche avvocato, ma dopo un’ora la situazione era già migliorata con al massimo di 6-7 persone in coda. Cinque le aule penali aperte, che secondo l’Ausl garantiscono la giusta sicurezza per far svolgere le udienze, tutte a ‘porte chiusè fino al 30 giugno, anche se in realtà le porte sono aperte per far arieggiare gli ambienti. Dislocati davanti alle stanze e nei corridoi del Tribunale di via Farini sono stati installati dei dosatori con liquido igienizzante, ma la maggior parte sono vuoti. “Facciamo quello che possiamo - spiega un addetto alla vigilanza - misuriamo la temperatura a tutti e gli ingressi sono scaglionati. In poco meno di due ore saranno entrate una settantina di persone”. Bari, avvocati in coda - Coda di avvocati all’ingresso del Palagiustizia di piazza De Nicola, a Bari. Nel palazzo dove hanno sede Tribunale civile e Corte di Appello un centinaio di persone, soprattutto legali, hanno affollato il cortile antistante dalle prime ore della mattina in attesa di entrare. Tutti con mascherina e sottoposti, all’ingresso, a misurazione della temperatura da parte di un operatore della Croce Rossa. La stessa cosa avviene nel palazzo di via Dioguardi, al quartiere Poggiofranco, dove si svolgono le udienze penali e ha sede la Procura, ma dove l’affluenza è stata meno rilevante. Agli ingressi ci sono anche cartelli informativi che ricordano l’obbligo di indossare la mascherina e la distanza interpersonale minima di un metro da mantenere. Negli uffici giudiziari si entra, oltre che per le udienze convocate scaglionate per orari e con un numero di limitato di persone in base alla capienza delle aule, previo appuntamento telefonico o telematico. Napoli, file per il Casellario - Lunghe file si sono registrate anche agli ingressi del Nuovo di Palazzo di Giustizia di Napoli. La maggior parte delle persone in coda si è recata in Tribunale per richiedere certificati al Casellario Giudiziario. All’ingresso sono attivi i termo-scanner e chi accede deve compilare una autocertificazione. In sostanza per ogni ingresso si impiegano 4-5 minuti. Ieri sono riprese le cause che vedono imputate persone detenute o persone per le quali la scadenza dei termini custodia cautelare è imminente. Contagio in azienda? È infortunio sul lavoro. L’imprenditore e rischia processo penale e risarcimento di Isidoro Trovato Corriere della Sera, 13 maggio 2020 I datori di lavoro rischiano un processo penale nel caso in cui un loro dipendente si ammalasse di Covisd-19 sul posto di lavoro. Ma attenzione, a rischiare non solo saranno i furbi o i negligenti ma anche i datori di lavoro che abbiano diligentemente posto in essere tutte le misure necessarie per contrastare e contenere la diffusione del Covid-19 dettate dai protocolli di sicurezza del 14 marzo e del 24 aprile 2020. A evidenziarlo sono i Consulenti del Lavoro. “È un problema non da poco che rischia di bloccare la riapertura di molte piccole e micro aziende - commenta Marina Calderone, presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine - intimorite da questo rischio. Riterrei urgente avviare una riflessione con le parti sociali per arrivare a una norma”. Il contagio è infortunio sul lavoro - L’equiparazione fatta dall’articolo 42 del D.L. n. 18/2020 tra infortunio sul lavoro e contagio da Covid-19, meritevole di ricevere la copertura assicurativa Inail, potrebbe portare al coinvolgimento dell’imprenditore sul piano penale per i reati di lesioni o di omicidio colposo, nel caso di decesso. E questo anche nel caso che la responsabilità del datore di lavoro non sia oggettiva, ma abbia adempiuto a tutto quanto previsto da norme e regolamenti. Infatti, restano ancora molti i punti critici; tra questi, ad esempio, la verifica che il contagio sia effettivamente avvenuto in occasione di lavoro, considerando che il lungo periodo di incubazione del virus non permette di avere certezza sul luogo e sulla causa del contagio. Così come di escludere con sufficiente certezza l’esistenza di altre cause di contagio. Senza poi contare i casi dei soggetti asintomatici. Il tutto al netto di cause civili per risarcimento danni. Lo scudo penale - Sarebbe necessario, dunque, introdurre una norma che escluda la responsabilità del datore di lavoro, qualora lo stesso abbia dotato i propri dipendenti di protezioni individuali, mantenuto i luoghi di lavoro sanificati, vigilato sulle distanze interpersonali e assicurato il contingentamento, così come previsto dalla normativa nazionale. La proposta dei Consulenti del lavoro è quella di prevedere garanzie certe per tutti gli imprenditori, già pesantemente colpiti in termini economici da questa emergenza sanitaria, che nella fase di riapertura si sono ritrovati a sostenere un costo elevatissimo in termini di messa in sicurezza di lavoratori e luoghi di lavoro. Milioni di imprese rischiano di non reggere i costi che potrebbero anche derivare da eventuali sanzioni correlate all’inosservanza delle misure anti-contagio. Diverse interpretazioni - E già si muove qualcosa in questa direzione con iniziative parlamentari di opposizione e maggioranza. Il Governo si è espresso sul coinvolgimento penale del datore di lavoro con il sottosegretario al Ministero del Lavoro Stanislao Di Piazza: “Una responsabilità sarebbe, infatti, ipotizzabile solo in via residuale, nei casi di inosservanza delle disposizioni a tutela della salute dei lavoratori e, in particolare, di quelle emanate dalle autorità governative per contrastare la predetta emergenza epidemiologica”. E anche l’Istituto competente per materia si è espresso con il Direttore Generale dell’Inail, Giuseppe Lucibello, che nel corso della trasmissione “Diciotto minuti” della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro ha dichiarato che lo scudo penale “non sembra una scelta irragionevole, anzi. L’Istituto sarà a disposizione del decisore politico per suffragare una scelta del genere”. Droghe leggere, aggravante oltre 2 chili di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 maggio 2020 Corte di cassazione - Sentenza 14722/2020. L’aggravante dell’ingente quantità scatta con il possesso di oltre 2 chili di principio attivo; per le droghe pesanti quando è superato il limite fissato dal valore soglia della sostanza moltiplicato per 2mila, espresso in milligrammi (per esempio, 750 milligrammi per la cocaina, 250 milligrammi per l’eroina). In questi termini conclude la sentenza delle Sezioni unite penali n. 14722 depositata ieri, con la quale è stato sciolto un nodo interpretativo che aveva visto dividersi le Sezioni semplici. Difficoltà comunque emersa dopo che nel 2014, per effetto dell’intervento della Corte costituzionale, tornò di attualità la distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti. Per la sentenza va confermato in linea di massima quanto affermato dal precedente intervento sempre a Sezioni unite (sentenza n. 36258), con la necessità però di precisarne meglio le conclusioni per quanto riguarda le droghe leggere e in particolare l’individuazione puntuale dei fattori della moltiplicazione il cui prodotto determina il confine dell’ingente quantità, discrimine per l’applicazione dell’aggravante. Tutto nasce infatti da un’imprecisione della sentenza del 2012 che, individuato in 2mila il moltiplicatore del dato numerico (costituito dal valore soglia di principio attivo, cioè la quantità massima detenibile) da utilizzare come primo fattore dell’operazione per determinare il livello ponderale minimo dell’ingente quantità, ha indicato per le droghe leggere un valore soglia espresso in milligrammi pari a mille. Ieri le Sezioni unite hanno sposato l’orientamento maggioritario, in base al quale, per essere coerente con il ragionamento del 2012, che viene peraltro confermato nei presupposti, il quantitativo minimo di principio attivo di sostanza stupefacente del tipo “leggero” al di sotto del quale non scatta l’aggravante deve essere necessariamente pari al doppio di quanto venne indicato e dunque a 4mila volte il quantitativo di principio attivo che può essere detenuto in un giorno, pari a due chili. Valore economico dei file al test delle regole privacy di Andrea Monti Il Sole 24 Ore, 13 maggio 2020 Corte di cassazione - Sentenza penale 11959/2020. La sentenza 11959/2020 della Cassazione riconosce la natura di “cosa mobile” a un file e amplia le fattispecie astrattamente contestabili per condotte di “sottrazione” elettronica. Nello stesso tempo, però, crea un contrasto con la posizione, più volte espressa dall’Autorità garante per la protezione dei dati personali, sulla natura non patrimoniale dei dati in questione. Questo orientamento della Cassazione rende possibile contestare all’imputato anche la violazione dei reati contro il patrimonio in tutte quelle condotte che attingono oggetti informatici. Dunque, un capo di imputazione potrebbe estendersi ben oltre l’appropriazione indebita (caso di cui si occupa la sentenza), fino a raggiungere anche il furto, il riciclaggio, la ricettazione, la rapina e - da non sottovalutare - l’aggravante per danno patrimoniale di rilevante gravità (articolo 61, comma 1, numero 7 del Codice penale). Questa possibilità è estremamente utile negli innumerevoli casi di violazioni della proprietà intellettuale che la legge sul diritto d’autore sanziona blandamente ma che - come nella vicenda dei gruppi Telegram che fanno circolare copie illecite di periodici e quotidiani - provocano danni molto ingenti. La sentenza è giustamente orientata a evolvere la lettura della nozione penalistica di “cosa mobile” che risale a un periodo che non si poneva il problema naturalistico della separazione fra supporto e contenuto. Anche se spazi interpretativi per sostenere la tesi c’erano già nell’ultimo comma dell’articolo 392 del Codice penale, il percorso argomentativo è alquanto arduo e, a volte, non convince fino in fondo. È il caso, per esempio, della parte della sentenza in cui il giudicante “forza” argomenti di teoria dell’interpretazione per giustificare l’utilizzo di nozioni extra-penali per non incorrere in violazione del principio di legalità. Suscita anche qualche dubbio il ruolo attribuito alla cancellazione dei file come elemento naturalistico che integra la perdita di disponibilità degli stessi. La sentenza, infatti, non spiega come - e soprattutto perché - in situazioni del genere dovrebbe escludersi la possibilità di contestare piuttosto i reati di accesso abusivo a sistema informatico o telematico e danneggiamento informatico. Quest’ultimo passaggio introduce il tema del ruolo del valore economico dei dati oggetto della condotta illecita ai fini della qualificabilità come cosa mobile. In altri termini: rientrerebbero nella nozione di res tutti i dati o solo quelli suscettibili di valorizzazione economica? Se l’opzione fosse (come parrebbe ragionevole) la seconda, allora si dovrebbe risolvere un’altra questione: la possibilità di considerare i dati personali definiti tali dal Regolamento Ue 679/2016 come cosa mobile suscettibile di avere un valore economico. Se la risposta fosse positiva, da un lato ci sarebbe una ulteriore possibilità di sanzionare condotte fraudolente di acquisizioni di dati personali da parte di piattaforme e fornitori di servizi di comunicazione elettronica. Dall’altro, però, si cristallizzerebbe una nozione di dato personale come “cosa commerciabile” che il Garante privacy ha, con più di qualche ragione, ritenuto non accettabile. Modena. Nove morti in carcere che aspettano la verità dirittiglobali.it, 13 maggio 2020 Intervista a Marcello Marighelli, Garante delle persone private della libertà della Regione Emilia Romagna. Subito dopo le proteste avvenute nel carcere di Modena l’8 marzo scorso, nove reclusi di quel penitenziario sono morti in cella o durante il trasferimento ad altri istituti. A oggi non esiste ancora una versione ufficiale e definita sulle cause dei decessi. Secondo il ministro e la stampa sarebbero avvenuti “perlopiù” per overdose di farmaci. Una spiegazione troppo generica per essere accettabile. Come Garante dell’Emilia-Romagna ha potuto raccogliere direttamente informazioni? Il quadro che lei si è fatto è chiaro e sufficiente? Cosa ne emerge? Ho visitato l’11 marzo 2020 la Casa Circondariale di Modena, gli edifici della struttura principale e del “nuovo padiglione” erano devastati dal fuoco e dai danneggiamenti praticati evidentemente con ogni mezzo disponibile. Le parti più danneggiate erano quelle comuni, gli ambulatori, i locali per il personale di vigilanza, le cucine, ma soprattutto le zone di accesso e uscita. L’odore di bruciato era insopportabile. Dappertutto fuliggine e altri resti di combustione di materiali di tutti i tipi, dagli arredi agli impianti elettrici completamente distrutti. Non posso considerare quello che ho visto l’effetto di una protesta, ma semmai di una rivolta che ha coinvolto un certo numero di persone, probabilmente prese dalla paura di una doppia segregazione per la detenzione e per l’epidemia. Una paura di perdere ogni contatto e ogni aiuto che, insieme alla paura del contagio, in un ambiente ristretto e affollato, ha fatto da detonatore a un’esplosione di disperata violenza. Non conosco la base documentale della versione del Ministro della Giustizia e non conosco le fonti delle versioni sull’accaduto apparse sulla stampa, quindi non esprimo giudizi, ma non posso farle mie. Occorrerà attendere una verità giudiziaria, senza per questo rinunciare a una analisi degli aspetti politici e sociali di un tale disastro. Secondo quanto ci ha dichiarato l’avvocato della famiglia di una delle vittime, le autopsie sono state da tempo effettuate ma i risultati non sono ancora stati comunicati. Lei ha al proposito notizie aggiuntive o più recenti? È normale vi siano tempi così dilatati per un episodio così tragico (non era mai accaduto che un numero così alto di detenuti perdessero la vita contemporaneamente)? La morte di una persona in carcere desta sempre seria preoccupazione, e richiama l’attenzione dell’Ufficio di Garanzia che rappresento, ma quanto è accaduto a Modena, per il numero di vittime, l’arco temporale in cui sono avvenuti i decessi e i diversi luoghi interessati a causa dei trasferimenti intercorsi, non si era mai visto e pone molteplici interrogativi sulle cause e le circostanze che richiedono risposte non semplici e proporzionate alla dimensione, alla gravità e drammaticità degli eventi. Ancora non conosco lo stato dei procedimenti aperti dalla Magistratura, ma sono fiducioso che la vicenda sarà oggetto di tutti gli approfondimenti che merita. All’indomani di quei gravi fatti, numerosi detenuti sono stati trasferiti da Modena ad altre carceri. Lei ne conosce il numero e le destinazioni? In virtù delle sue prerogative, ha avuto la possibilità di raccoglierne le testimonianze o comunque ha ricevuto versioni sull’accaduto da reclusi trasferiti o tuttora presenti a Modena, o da loro famigliari? A Modena il 29 febbraio erano presenti 562 persone detenute, rispetto ad una capienza regolamentare di 369 posti. Alla fine di aprile erano rimaste poco meno di 100, recluse nei pochi spazi ancora idonei. I trasferimenti sono stati molti e hanno impegnato diversi giorni, una parte è stata verso gli istituti del distretto e un numero maggiore per quelli fuori distretto. Gradualmente è ripresa la corrispondenza con alcuni trasferiti, e con persone rimaste a Modena, anche il volontariato ha riallacciato diversi contatti con detenuti e le loro famiglie. Non ho ricevuto racconti da parte dei protagonisti di quanto è accaduto, per ora emerge il disagio per i danni e i trasferimenti. La maggior parte delle richieste delle persone detenute che sono arrivate direttamente, o per il tramite di famigliari riguardano l’accesso alla detenzione domiciliare e le recenti modifiche alla normativa. Molte le aspettative, con risultati ancora non esattamente quantificabili, ma non trascurabili. La Regione Emilia-Romagna e l’UEPE stanno realizzando il progetto di Cassa Ammende per consentire a chi non ha disponibilità di un proprio domicilio di poter accedere alla detenzione domiciliare. A lei risultano, o lei stesso ha avuto modo di richiederli e prenderne visione, accertamenti dello stato di salute dei detenuti trasferiti da Modena, per come dovrebbe essere obbligatoriamente registrato al momento dell’ingresso negli istituti di destinazione e per come risulta dalle cartelle cliniche? Il mio primo intervento è stato sui casi che mi sono stati segnalati, di interruzione delle comunicazioni con le famiglie. Ho chiesto il rispetto del diritto a comunicare delle persone detenute, trasferite da Modena e Bologna in altri istituti della Emilia- Romagna a seguito dei fatti dell’8 marzo e di garantire la possibilità di effettuare la comunicazione epistolare, telegrafica o telefonica prevista dall’art. 62 del D.P.R. del 30 giugno 2000, per informare della propria sede di destinazione. Ho anche chiesto che il relativo costo fosse posto a carico dell’Amministrazione, in caso di mancanza di fondi personali, come previsto dal regolamento. Per i trasferimenti in altre regioni la rete dei Garanti regionali si è attivata e al momento non ho più avuto richieste di aiuto per il ripristino delle comunicazioni con le famiglie. La maggior parte delle donne detenute nella sezione femminile di Modena sono state trasferite a Trento e sono seguite dalla Garante della Provincia Autonoma con cui sono in contatto. Per quanto riguarda le condizioni di salute dei trasferiti, le visite ed i referti effettuerò i riscontri non appena riprenderò le visite negli istituti. L’attenzione alle visite di ingresso, anche alla luce della recente riforma dell’ordinamento penitenziario e delle raccomandazioni del Cpt (Comitato Prevenzione Tortura), è una questione cruciale per garantire la trasparenza e la tutela dei diritti fondamentali delle persone detenute. Nel 2019 ho cominciato a confrontarmi sul tema con i responsabili della salute delle carceri della mia regione e fino ad ora ho sempre avuto risposta alle richieste di accesso alla documentazione sanitaria. A distanza di tempo da quei tragici fatti, ha avuto modo di accertare quali siano attualmente le condizioni di detenzione nel carcere di Modena, di Bologna e più in generale in quelli della sua Regione? Vi sono state limitazioni o irrigidimento di spazi perduranti a seguito delle proteste? Non sono ancora tornato nel carcere di Modena con cui mantengo comunque una corrispondenza e contatti con il volontariato. Le persone che sono rimaste sono alloggiate in quella che era la sezione femminile e nella sezione semiliberi. Per Bologna la situazione è molto problematica, il numero dei detenuti è sceso dalle 891 presenze di fine febbraio alle circa 700 di fine aprile. È un discreto risultato, ma ancora lontano dal numero regolamentare di presenze di 500 unità. I casi di positività al virus tra il personale e tra le persone detenute hanno richiesto l’organizzazione di diversi locali per l’isolamento sanitario, ma che hanno consentito la comunicazione con i famigliari e anche la corrispondenza con i garanti che sono intervenuti su alcune situazioni. In generale il regime detentivo in regione ha ridotto le situazioni a “celle aperte” e ha escluso i colloqui sostituendoli con un’ampia disponibilità di videochiamate. Dal 27 aprile è ripresa la scuola con il progetto “non è mai troppo tardi”, una serie di video lezioni sul canale regionale Lepida TV. Non mi nascondo il rischio di un ritorno alla “normalità” molto lento e la possibilità di passi indietro. Ad esempio, è impensabile un ritorno al “telefono a gettoni” dopo questo periodo di apertura alle comunicazioni via Skype. A mio parere già da tempo una parte delle persone detenute si sente esclusa dall’accesso alle misure alternative e dalle opportunità di ritorno nella società, sia per il proliferare dei reati ostativi, sia per la riduzione delle possibilità di accoglienza per i più vulnerabili. Gran parte dei cittadini stranieri detenuti non ha concrete speranze di avere un permesso di soggiorno a fine pena ed è destinata a subire un’espulsione o a vivere una condizione di marginalità. Le leggi sulle droghe, anche dopo il vaglio della Corte Costituzionale, continuano a portare un gran numero di persone in carcere, allontanandole da vere possibilità riabilitative che dentro sono scarsissime. Credo quindi che se si continuerà a ridurre la speranza di una vita migliore per tutti i detenuti sarà sempre più difficile governare il carcere. Quali sono invece le condizioni e le misure prese riguardo il rischio di contagio del coronavirus, e come le valuta? I primi provvedimenti per fronteggiare il rischio di contagio hanno riguardato i nuovi ingressi con l’individuazione di ambienti per l’isolamento preventivo e l’installazione di strutture per il pre-triage. Sono stati predisposti protocolli per la gestione del rischio, quello di Parma è un esempio di un buon lavoro soprattutto per l’informazione ai detenuti. Da aprile la Sanità regionale ha fatto partire un programma di test sierologici su tutto il personale dell’Amministrazione penitenziaria per ridurre ulteriormente i rischi di permeabilità al virus delle carceri. Penso che complessivamente in regione si sia fatto molto per la prevenzione, anche se ci sono ancora criticità da risolvere e spazi di miglioramento che devono essere colmati. Padova. “Nessun contagio nel nostro carcere. Tanta responsabilità da tutti i detenuti” di Enrico Ferro Il Mattino di Padova*, 13 maggio 2020 Il direttore Claudio Mazzeo racconta l’emergenza sanitaria “Hanno reagito con consapevolezza e ce l’abbiamo fatta”. Dopo mille tamponi, una rivolta, dopo aver trascorso notti insonni e consegnato 550 mascherine, oggi posso dirlo: nel carcere di Padova i detenuti sono tutti negativi”. Claudio Mazzeo, direttore del carcere di Padova, indossa la mascherina ma non può nascondere le profonde occhiaie. È felice, commosso, c’è ancora l’adrenalina che scorre. Non sono stati giorni facili, con la bomba sociale che minacciava di esplodere in quella che Erving Goffman definisce istituzione totale: il penitenziario. “Il 21 aprile scorso portiamo in ospedale un detenuto che aveva tentato il suicidio, gli fanno il tampone: positivo. Da quel giorno ho smesso di dormire la notte”. Comincia da quell’esito il racconto del direttore, perché è da quel momento che la situazione pericolosa e delicata si fa drammatica. Quel tampone si rivelerà poi un falso positivo ma si saprà solo dopo parecchie settimane. Un detenuto positivo. Come avete gestito quella notizia? “L’ho data io personalmente ai detenuti della casa di reclusione. Ho sempre impostato il rapporto sulla trasparenza e così ho fatto anche stavolta”. Come hanno reagito? “Ovviamente si è diffuso il panico ma con il lavoro di squadra siamo riusciti a limitarlo, a calmarli, a contenere la loro rabbia”. Venivate anche da una furiosa protesta. “Sì, l’8 marzo scorso quaranta detenuti del quarto piano si sono barricati in sezione. Hanno messo tutti gli arredi davanti alla cancellata, hanno appiccato il fuoco e iniziato a lanciare qualsiasi cosa. Io mi sono preso un’arancia in testa, il comandante della polizia penitenziaria Carlo Torres un sacco di farina in faccia. Sono state due ore difficili ma, alla fine, li ho convinti a calmarsi”. Avete preso qualche provvedimento nei confronti dei rivoltosi? “Abbiamo isolato i promotori e li abbiamo trasferiti per motivi di sicurezza”. Torniamo al tampone positivo, quello che poi si è rivelato negativo. Cosa avete fatto nell’immediatezza? “Lì per lì abbiamo dovuto spostare 50 detenuti”. Com’è possibile il distanziamento sociale in una struttura sovraffollata come il carcere Due Palazzi? “In Casa di reclusione, a inizio emergenza, c’erano 605 detenuti. Tra chi ha usufruito della licenza, gli scarcerati per fine pena e quelli messi ai domiciliari, siamo scesi a 558. I 60 ergastolani stanno in camera da soli, gli altri sono in stanze da due. Quindi non più di due per ogni cella”. Quali precauzioni avete adottato? “Innanzitutto quelle base: lavarsi le mani con il sapone più volte, usare il gel igienizzante, evitare abbracci e contatti nelle zone comuni. Poi abbiamo distribuito loro 550 mascherine in tessuto, sono lavabili fino a cento volte. All’inizio è stato difficile, perché non se ne trovavano. Abbiamo ricevuto qualche donazione e per questo ringrazio Comune e Protezione civile”. Come avete fatto a calmare la rabbia? “Ho concetto alcune elargizioni, come da regolamento disposto dal dipartimento centrale. Possono fare una videochiamata al giorno ai familiari, cosa che prima non potevano fare. Ci sono 14 smart-phone che gli agenti di polizia penitenziaria fanno usare loro, ovviamente sorvegliandoli. È un lavoro molto impegnativo ma serve a tenere calmi gli animi”. Anche per voi inizia la Fase 2. Come funziona in un carcere? “Bisogna restare in sicurezza garantendo i diritti fondamentali: alla difesa, con collegamenti Skype con gli avvocati, allo studio, riavviando la didattica e anche a professare il culto. Il 18 maggio riprenderanno le messe di don Marco Pozza. È stato una figura chiave in questo difficile momento. Era sempre con me e mi ha dato tanta forza. Ieri (giovedì) poi...”. Cos’è successo? “Mi ha chiamato Papa Francesco”. E cosa vi siete detti? “Ci eravamo già visti un mese fa a Roma per la Via Crucis. Quando giovedì mi ha telefonato l’ho invitato a venire qua a Padova, per una visita al carcere”. Cos’ha risposto? “Mi ha detto: ma io sono prigioniero. E poi mi ha detto anche: non dimenticate di pregare per me”. Quando ricomincerete con i colloqui dei familiari? “Ammetto, è un nervo scoperto. Al momento non c’è una data ma quando lo faremo dovremo attuare il distanziamento sociale. Tuttavia, c’è un altro aspetto che mi preme di rimarcare”. Quale? “Il senso di responsabilità di questi detenuti. Abbiamo spiegato loro il problema e loro hanno capito perfettamente si sono convinti che rimanere isolati sia la cosa migliore in questa fase. Ho detto loro: siete uguali a noi, comportatevi come noi. Hanno capito, con grande maturità”. Anche le attività del carcere di Padova sono ferme? “La pasticceria della cooperativa Giotto sta riaprendo dopo un periodo di chiusura, il call center non ha mai chiuso e l’altra coop che fa assemblaggi di plastica ha lavorato a fasi alterne. Ora hanno riconvertito una parte della produzione e fanno mascherine lavabili da vendere fuori”. Il lavoro, per i detenuti che hanno la fortuna di averlo, è uno dei pochi punti di contatto con la vita normale. Pensa che ci sia stato un contraccolpo psicologico con questi due mesi di stop? “Ne risentiranno sicuramente ma è prevalso un sentimento di consapevolezza che li ha portati a capire quanto il momento è critico e delicato. Il primo obiettivo era quello di fronteggiare il virus e posso finalmente dire che ce l’abbiamo fatta, tutti insieme. Ora ci aspetta un’altra fase molto complessa ma è giusto celebrare questo successo collettivo nel modo migliore. Insieme ce l’abbiamo fatta e ce la faremo anche da qui in avanti”. *Articolo pubblicato dal quotidiano il 9 maggio 2020 Milano. Primi pazienti guariti nella zona Covid realizzata a San Vittore e Bollate di Federica Bosco sanitainformazione.it, 13 maggio 2020 Lari (Direzione medica penitenziaria Asst Santi Paolo e Carlo): “Diagnosi precoci e cure specifiche per contenere i contagi”. Ranieri (responsabile UO sanità penitenziaria Regione Lombardia): “Per la fase 2 tamponi rapidi e parziale ritorno all’attività didattica”. Primi pazienti guariti dal Covid ai penitenziari San Vittore e Bollate. La rete delle carceri milanesi ha contenuto bene l’onda d’urto del coronavirus grazie al dialogo tra personale sanitario e detenuti e a misure stringenti messe a punto dall’ASST Santi Paolo e Carlo che, in collaborazione con Regione Lombardia, ha gestito l’emergenza nei quattro istituti penitenziari milanesi (San Vittore, Bollate, Opera e Beccaria). In questo modo è stato possibile assistere complessivamente 80 detenuti positivi al Covid. “A livello progettuale si è creata una sinergia tra i due istituti - spiega Cesare Lari, direttore della Direzione Medica Area Penitenziaria dell’ASST Santi Paolo e Carlo - nel senso che i casi più rilevanti sono stati curati nell’hub di San Vittore, mentre a Bollate sono stati destinati i detenuti paucisintomatici o in fase di guarigione. C’è poi un altro tassello che ha permesso di realizzare questo progetto: il carcere di Opere in questo periodo ha accolto i detenuti anziani patologici ma non Covid che si trovavano a San Vittore, nella circostanza dedicato esclusivamente ai pazienti Covid. La cosa più importante - sottolinea il dottor Lari - era tenere fuori dal carcere il virus. Si è fatto di tutto, con controlli all’ingresso, triage a tutti, misurazione della temperatura, attenzione particolare con tamponi a tutti i nuovi giunti con conseguente isolamento prima dell’immissione ai reparti comuni”. Un lavoro di squadra che ha visto impegnati 300 tra medici ed operatori sanitari, oltre al personale Serd Penale e Penitenziario per garantire assistenza a tutti i 3.200 detenuti. Se oggi sono ancora 45 i positivi al Covid-19 tra San Vittore e Bollate, nessun caso è presente nelle carceri della zona rossa di Brescia e di Bergamo, pochi tra Voghera e Pavia, segnale di un’ottima organizzazione, come ci spiega Roberto Ranieri, responsabile Unità operativa sanità penitenziaria di Regione Lombardia. “Con il tampone abbiamo fatto un’azione più estensiva rispetto a quelle che erano le direttive nazionali. A San Vittore abbiamo fatto anche tamponi di sorveglianza ai detenuti e al personale di polizia penitenziaria, soprattutto quelli che fanno servizi esterni, o che abitano all’interno delle caserme. I test sierologici, allo stesso modo, sono fatti al personale sanitario in questa settimana, a breve li faremo anche ai nuovi detenuti e agli agenti di polizia penitenziaria secondo una proposta che ho fatto di recente. Sempre in tema di tamponi - aggiunge - abbiamo poi un progetto che dovrebbe essere autorizzato e prevede di fare i tamponi rapidi, ovvero quelli con risposta in un’ora, con un apparecchio collocato all’ingresso di San Vittore in modo da identificare subito chi eventualmente è positivo. Per la fase due abbiamo preparato un documento già approvato e che sarà divulgato nelle prossime ore dalla Regione, che prevede di anticipare un po’ i tempi rispetto alle altre comunità. La fase 2 è più complessa rispetto alla fase 1 perché occorre mantenere precauzioni pur garantendo alcune aperture che avverranno in maniera graduale, come i colloqui oggi ancora in via telematica, ma è previsto a breve il colloquio con i famigliari e il ritorno degli educatori per alcune attività didattiche. Quindi è fondamentale gestire lo stato virologico delle persone che faranno accesso all’istituto: tutti gli operatori ed educatori saranno sottoposti a tampone prima di riprendere l’attività, mentre invece per i detenuti e per il personale di polizia penitenziaria si stanno organizzando dei corsi di formazione sia in sede, tenendo le dovute misure di distanziamento, sia per via telematica. Devo dire che i detenuti sono stati bravi perché si sono messi a produrre mascherine e quindi, avendoli coinvolti nel progetto, abbiamo avuto buoni risultati”. Parma. Via Burla, pronto ad aprire il nuovo padiglione da 200 detenuti Gazzetta di Parma, 13 maggio 2020 Entro due settimane sarà aperto il nuovo padiglione da 200 detenuti nel carcere di via Burla. Ad annunciarlo, alla Camera, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Il progetto è stato oggetto di polemiche, in particolare per le carenze di organico che i sindacati della polizia penitenziaria lamentano da tempo. Bonafede ha parlato di via Burla, intervenendo sulla vicenda Dap e spiegando perché avesse scelto Francesco Basentini e non Nino Di Matteo a guidarlo. “Basentini si era distinto nel proprio lavoro” e “nel colloquio mi aveva fatto un’ottima impressione. Aveva raggiunto considerevoli risultati a livello di efficienza”. “Ora, ciascuno potrà fare le sue valutazioni in ordine al lavoro portato avanti dal Dap in questi due anni”, ha aggiunto, ricordando che con Basentini “è stato avviato un piano di riconversione in istituti penitenziari di una serie di complessi ex militari; in queste due settimane, è prevista l’apertura di 3 padiglioni da 200 posti ciascuno a Trani, Lecce e Parma, ed è inoltre previsto, sempre nel 2020, il completamento di altri 2 padiglioni da 200 posti detentivi a Taranto e Sulmona. È stato predisposto un piano per la realizzazione di 25 nuovi padiglioni modulari da 120 posti, per un totale di altri 3000 nuovi posti detentivi”. Non solo: “sono state realizzate oltre 250 sale per videoconferenze giudiziarie in 62 istituti penitenziari ospitanti detenuti in regime di alta sicurezza con una sala regia nazionale”. E in materia di assunzioni, “sono stati immessi in ruolo un totale complessivo di 3931 nuovi agenti. È stato definito il riordino delle carriere con una equi-ordinazione della Polizia Penitenziaria con le altre Forze di Polizia”. In questi quasi due anni, inoltre, sono stati firmati circa 70 protocolli di lavoro di pubblica utilità per i detenuti”. Napoli. Fase 2 anche a Poggioreale, i detenuti sanificano il carcere Il Mattino, 13 maggio 2020 Saranno i detenuti “di buona condotta”, opportunamente preparati, a sanificare gli ambienti di lavoro del carcere di Napoli Poggioreale, istituto penitenziario tra i più grandi d’Europa. Lo rende noto Luigi Castaldo, vice segretario regionale del sindacato Osapp. L’iniziativa prenderà il via a breve, su decisione del direttore Carlo Berdini e del dirigente medico Vincenzo Irollo. I detenuti, protagonisti di un recupero educativo, saranno dotati di idonea attrezzatura e le operazioni più complesse, così come è avvenuto finora, saranno eseguite da ditte esterne specializzate. Inoltre sarà regolarizzata la distribuzione dei dispositivi protezione individuale e aggiornato il protocollo di sicurezza locale in funzione alle nuove disposizioni dipartimentali inerenti la fase 2 della lotta al coronavirus. Castaldo loda l’operato dei dirigenti “competenti e di spessore” che gestiscono la casa circondariale “nell’interesse del Corpo di Polizia Penitenziaria e per tutelare i ristretti la collettività”. Lodi. La “fase due” della giustizia è fatta di udienze a porte chiuse di Carlo Catena Il Cittadino, 13 maggio 2020 Ripartono tribunale e giudice di pace ma non entrano in aula neppure i testimoni. Udienze senza pubblico almeno fino al 31 luglio - quando poi di fatto la giustizia, salvo urgenze, sarà in ferie fino alla prima settimana di settembre - e rinvio dei processi che richiedono la presenza di testimoni: è la “fase 2” della giustizia lodigiana, che da martedì ha ricominciato a celebrare i processi penali, ma principalmente solo quelli che coinvolgono persone sottoposte a misure cautelari. “Altri tribunali, ad esempio Pavia, stanno rinviando tutto d’ufficio, perché non sono in condizioni strutturali tali da poter celebrare processi neppure con un numero ridotto di persone - spiega la presidente dell’Ordine degli avvocati di Lodi Angela Maria Odescalchi. Da noi invece la presidente vicaria del tribunale ha voluto ricominciare con la celebrazione dei processi in presenza, e su questo mi trova personalmente d’accordo, perché ritengo che i tempi non siano maturi per applicare in modo generalizzato la telepresenza”. I sistemi di videoconferenza vengono utilizzati solo per i processi con detenuti. In aula, previo test col termo-scanner che la Procura ha fatto avere ormai da un paio di mesi alle guardie giurate all’ingresso del palazzo di giustizia, entrano solamente gli avvocati, i magistrati e gli addetti ai lavori. Le finestre sono state rese il più possibile apribili, per assicurare il ricambio d’aria continuo e tra un’udienza e l’altra, e, mentre settimana scorsa i rinvii erano praticamente generalizzati, da ieri c’è un calendario che prevede in anticipo quali saranno le udienze che si celebrano. Basta che ci sia anche un solo testimone da sentire, e viene programmato il rinvio. Regole stringenti anche per le udienze dal giudice di pace, dove le finestre aperte sono un diktat. Così come in Procura, anche se le presenze del personale sono aumentate di 4 unità rispetto alle scorse settimane, persino i pm non possono entrare più di 3 giorni la settimana, sempre allo scopo di assicurare il “distanziamento sociale” che è l’unica medicina ufficialmente nota contro la diffusione del covid-19. Le regole della Procura valgono fino al 31 maggio, quelle per il tribunale civile e penale invece per tutto luglio. “Siamo in attesa delle pareti di plexiglass che abbiano ordinato per l’aula dell’Ordine dedicata alle mediazioni - conclude la presidente Odescalchi - e abbiamo messo a disposizione mascherine, guanti e salviettine igienizzanti per gli avvocati che devono andare in aula. E al più presto, a cura della presidenza del tribunale, sarà sanificato tutto l’impianto di areazione”. Bergamo. Detenuto scrive a Mattarella: “Temiamo il contagio, ci aiuti lei” bergamonews.it, 13 maggio 2020 “La soluzione alle problematiche emergenziali delle carceri esiste, lo prevede la nostra giurisprudenza e la nostra costituzione”. Dopo le proteste, a Bergamo pacate, delle settimane scorse, un detenuto del carcere di via Gleno scrive una lettera al presidente della Repubblica Sergio Mattarella per portarlo a conoscenza della situazione all’interno della struttura bergamasca, comune a quella di altre realtà italiane, e per chiedergli di fare qualcosa per prevenire possibili contagi. Illustrissimo Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in questo momento difficile che il nostro paese vive a causa di questa grave emergenza epidemiologica, tutti noi siamo chiamati al senso di responsabilità civile, rispettando disposizioni che hanno stravolto la vita di tutti, comportando restrizioni e limitazioni alla vita quotidiana di ognuno di noi. Stiamo combattendo un nemico invisibile, un nemico che non fa alcuna distinzione di etnia, età, religione o posizione sociale, un nemico invisibile e silenzioso che avanza imperterrito senza pietà alcuna, come un invasore che vuole appropriarsi del mondo intero. Abbiamo in prima linea persone coraggiose, temerarie come il personale medico che opera senza sosta come un soldato in trincea, con paura ma con estremo coraggio, assistendo i cittadini che vengono inesorabilmente colpiti dal Covid-19, il nemico invisibile. Abbiamo il personale scientifico, la protezione civile che ogni giorno lavora al fine di rendere il nemico invisibile più visibile e vulnerabile, per poterlo sconfiggere. Abbiamo le forze dell’ordine che giornalmente sono impegnate ai controlli e a far rispettare le disposizioni per evitare il diffondersi del nemico invisibile, anch’essi in prima linea. Abbiamo i mass media, la stampa, i mezzi di informazione, utili alla popolazione per capire, combattere questo terribile male. Abbiamo tanto signor Presidente, tutti uniti al grido di “insieme ce la faremo”. Ma in questo senso di unione abbiamo dei luoghi dimenticati, spesso dimenticati, luoghi ove il Covid-19 è arrivato, luoghi per natura pieni di sofferenza, miseria, tristezza, adesso ancor più a causa di questa emergenza. Questi luoghi si chiamano carceri. Le carceri sono state abbandonate alla propria mercé, le disposizioni imposte al paese per sconfiggere questo male hanno comportato ulteriori restrizioni e privazioni alla popolazione detenuta, disposizioni che sono state accettate dai detenuti della Casa circondariale di Bergamo per il bene comune, per evitare il diffondersi dell’epidemia nell’istituto, senza alcuna forma di protesta violenta, manifestando semplicemente perplessità e dissenso in modi civili e corretti. Nulla o poco è stato fatto per lenire la già pesante situazione nelle carceri sovraffollate, per ovviare a una condizione di vita già di per sé drammatica causa privazione della libertà, unica privazione che dovrebbe comportare una pena, stante l’art. 27 della nostra costituzione. In questi luoghi, nella fattispecie la casa circondariale di Bergamo ove mi trovo detenuto, abbandonati dalle istituzioni e da un governo gonfio di ipocrisie e retoriche, abbiamo trovato un essere uniti singolare e paradossale stante i luoghi comuni. La popolazione detenuta, la direzione dell’istituto, la polizia penitenziaria si sono confrontati dialogando e comunicando tra loro costantemente, con proposte reciproche al fine di trovare delle soluzioni per ovviare ai problemi dati dall’emergenza. Con una linea soft e pacifica, i detenuti con richiesta e il consenso della direzione, hanno formulato proposte, espresso perplessità e chiesto risposte alle varie istituzioni del paese, ricevendo ben poche risposte, lacunose, illogiche ed enigmatiche, se non in certi casi, il silenzio assoluto. Signor Presidente, lei stesso più volte ha ribadito che più che mai in questo momento bisogna essere uniti, anche nella solidarietà. Da detenuto, ma pur sempre cittadino, le esprimo lo sconforto e il senso di impotenza per l’attuale situazione in cui versano le carceri italiane a causa dell’assenza di un governo e delle istituzioni a esso connesse. Ai giorni nostri, sapere che l’emblematico dettato costituzionale dell’articolo 3 che ogni cittadino ha pari dignità sociale, viene perennemente violato e che, solo perché si è detenuti, si è considerati cittadini di serie B, non aiuta di certo chi nella vita ha commesso degli errori ma è in cerca di un proprio riscatto nella società. Penso che ciò sia il pensiero degli oltre 55.000 detenuti delle carceri italiane; si è consapevoli che tutto il Paese sta vivendo un’emergenza senza precedenti che ha cambiato e cambierà il modo di vivere di ogni cittadino, un male che ha causato migliaia di vittime, ma anche le carceri sono il nostro Paese e non vanno dimenticate. Signor Presidente, mi rivolgo a lei che è il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale, che possa rivolgere un messaggio al governo, alle camere, di porre interventi incisivi al grave sovraffollamento delle carceri italiane che, ora più che mai, con l’emergenza epidemiologica in corso, si trovano in difficoltà e il pericolo di un contagio è costante. Non è tempo, non c’è tempo per diatribe inutile, battaglie di partito, discorsi elettorali, le carceri sono parte della società; Governo e opposizioni mettano da parte screzi e malumori, intervengano prima che sia troppo tardi, un’emergenza come quella attuale va oltre ogni demagogia, il nemico da combattere è uno solo, uguale per tutti. Covid-19. La soluzione alle problematiche emergenziali delle carceri esiste, lo prevede la nostra giurisprudenza e la nostra costituzione; bisogna avere il coraggio e la forza di prendere decisioni immediate, decisioni delicate e per molti scomode, ma decisioni da prendere prima che sia troppo tardi. Con la speranza che questa mia lettera, conoscendo il suo lato umano, le giunga come una riflessione della realtà, la ringrazio e le porgo doverosi ossequi. K.G., detenuto presso la Casa circondariale di Bergamo Roma. I prodotti dal carcere nel mercato rionale del IV Municipio di Antonella Barone gnewsonline.it, 13 maggio 2020 A breve a Roma sarà possibile acquistare in un mercato rionale prodotti a Km 0 provenienti da coltivazioni e allevamenti interni al Polo penitenziario di Rebibbia e da altre realtà del territorio. È quanto previsto dal progetto “Mercato aperto”, condiviso tra la Presidente del IV Municipio Roberta Della Casa e il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria del Lazio Abruzzo e Molise Carmelo Cantone. L’iniziativa intende proporre ai consumatori prodotti delle attività agricole presenti negli istituti penitenziari di Rebibbia e offrire opportunità di reinserimento socio-lavorativo delle persone detenute. I prodotti saranno esposti e venduti in un locale, concesso in comodato dal IV Municipio, all’interno del mercato rionale di via Locke, vicino al complesso di Rebibbia mentre la gestione delle vendite sarà curata da cooperative attive nelle lavorazioni penitenziarie con spese a proprio carico. La collaborazione tra Provveditorato e IV Municipio si è concretizzata oggi in un primo accordo quadro della durata di un anno, rinnovabile per altri tre, siglato dal provveditore Carmelo Cantone e dal presidente della Cooperativa sociale “Men at Work”, Luciano Pantarotto. “La prima esperienza di collaborazione che sarà avviata - spiega Carmelo Cantone - prevede la concessione d’uso di un banco vendita coperto all’interno del mercato di Casal dei Pazzi. La vendita sarà gestita in outsourcing dalla cooperativa “Men at work”, con manodopera detenuti lavoranti all’esterno. Saranno affidate in vendita le produzioni ortofrutticole, le uova e il pollame di Rebibbia Femminile, i prodotti del Centro cottura di Rebibbia Nuovo Complesso, l’olio di Velletri e Viterbo, il vino di Velletri, ma nel tempo si rafforzeranno altre produzioni con Rebibbia III Casa e Rebibbia Reclusione”. Sarà compito delle direzioni degli istituti penitenziari selezionare e formare le persone detenute addette alla vendita dei prodotti. “È importante in questa fase di drammatica recessione - conclude Cantone - che due istituzioni pubbliche si siano incontrate per dare propulsione al lavoro penitenziario, oltre che un riconoscimento alla qualità del lavoro che porta a sviluppare queste produzioni”. Lecce. “Arte in libertà… Oltre le sbarre”: online i video del progetto di arte-terapia corrieresalentino.it, 13 maggio 2020 Si spostano online le attività ricreative e culturali di “Arte in libertà… oltre le sbarre”, progetto di arte-terapia coordinato dall’Ufficio Integrazione Disabili dell’Università del Salento e promosso in collaborazione con la Casa Circondariale di Borgo San Nicola (Lecce). Ideato dagli studenti del Dipartimento di Storia, Società e Studi sull’Uomo, il progetto prevede la realizzazione di alcuni laboratori di arte-terapia, appunto, che porteranno alla realizzazione di murales all’interno del carcere. Dopo i primi incontri in presenza, che si sono tenuti nel mese di gennaio con un gruppo di detenuti del reparto infermeria, il programma è stato interrotto per il subentrare dell’emergenza. I lavori, ripresi in modalità telematica, da oggi si arricchiscono di una playlist sul canale You Tube dell’Ateneo (https://www.youtube.com/playlist?list=plqn0q-k1fkmso9p6v6pcijceqkwl64msl), dove ogni martedì gli studenti protagonisti del progetto ne racconteranno i dettagli e condivideranno la propria esperienza; online il primo video con l’intervento di Vanessa De Donatis, neolaureata in Psicologia all’Università del Salento. Sono coinvolti quattro volontari del progetto di servizio civile dell’Ufficio Integrazione Disabili “Università senza frontiere” e di dieci studentesse del Dipartimento di Storia, Società e Studi sull’Uomo selezionate con apposito avviso pubblico: “Lavoriamo con detenuti particolarmente fragili”, spiegano, “ed è proprio per questo che la Direzione e gli operatori della casa Circondariale hanno voluto “osare” e destinare a loro le attività del progetto. Al termine del ciclo di incontri, a partire dalle idee grafiche emerse, realizzeremo assieme alcuni murales documentando tutto il percorso con riprese video da presentare in un evento pubblico. Speriamo sia possibile molto presto”. Pensiamo bene alle limitazioni delle libertà che stiamo accettando. Oppure ce ne pentiremo di Massimo Cacciari L’Espresso, 13 maggio 2020 In questi giorni abbiamo accettato necessarie riduzioni dei diritti. Ma occorre vigilare perché non dilaghino. E ricordare come per alcuni poteri politici ed economici questa situazione sia estremamente vantaggiosa. Sembra essere legge di natura che nei momenti di svolta o di crisi, quando “cresce il pericolo”, e massimamente dovremmo impegnarci per comprenderne cause e conseguenze, la nostra attenzione, la nostra voglia di pensare, invece, vadano rapidamente affievolendosi. La fatica del giorno per giorno, il duro mestiere di tirare avanti in qualche modo, divorano lo spazio che, in momenti più normali, destiniamo qualche volta anche all’esercizio dell’analisi e della critica. E diventiamo propensi ad affidarci ai cosiddetti “dati di fatto”, a volte comunicati da esperti veri, altre volte decretati a mo’ di dogmi dal Condottiero di turno e dalle sue “task force”. Non si vuole tornare qui ora su ciò che è stato scritto e detto, anche dal sottoscritto, in questi mesi sulla gestione dell’”emergenza” coronavirus. Sul fatto (questo sì incontestabilmente tale!) che l ‘”emergenza” è anche dovuta ai continui tagli per ricerca, strutture, personale subiti dalla sanità nel corso degli ultimi decenni; che la crisi ha evidenziato ancora una volta l’assenza di ogni sistema di efficace collaborazione tra poteri centrali, Regioni e Autonomie locali; che nessuna strategia si va definendo sul modo di “convivere” con l’epidemia nel medio-lungo periodo, dal momento che è verosimilmente impossibile bloccare sine die l’attività di settori fondamentali e il movimento delle persone. Aggiungo che non mi interessa neppure spigolare sui recenti provvedimenti, se non per quegli aspetti che si connettono a tendenze culturali-antropologiche di fondo; le palesi illogicità, contraddizioni, improvvisazioni che li caratterizzano potrebbero apparire, alla fine, dettagli trascurabili, fonte solo di molti fastidi e disagi (e per certuni, ahimè, di fallimento economico). Ciò che andrebbe davvero pensato è la prospettiva storica generale in cui questa crisi si colloca e quale ruolo essa sia destinata a giocare al suo interno. Circola un documento-manifesto della Fondazione Vargas Lllosa, che ha avuto larga eco in Spagna, Francia e Oltreoceano, da noi pressoché ignorato, che ci ricorda un’ovvia “regolarità” storica: la situazione di emergenza (reale o fatta vivere per tale) genera per sua natura spinte “autoritarie”. In alcuni Paesi queste possono essere assunte all’interno di consapevoli strategie politiche. Il manifesto - che è firmato da numerosi ex-premier di Stati latino-americani - si riferisce in particolare a quanto accade in Venezuela, Cuba, Nicaragua, Messico. In altri casi, di democrazia più “matura”, la tendenza può procedere inavvertita, perché, in fondo, non si presenta che come il naturale palesarsi di quanto in atto da tempo. Esautorato il Parlamento? Ma da quanti anni è in quarantena? Da quanti anni non svolge sostanzialmente altra funzione che quella di ratifica dei decreti dell’esecutivo? Una volta lo si diceva anticamera dei partiti, che almeno erano organismi politici - ma ora? E chi non ha invocato task force, che nessuna assemblea democratica ha nominato, per risolvere le perenni emergenze? Non vedo alcun segnale nella gestione di questa crisi di un possibile cambio di punto di vista. Nessun segnale che se ne voglia uscire con riforme radicali del Parlamento e del rapporto tra i diversi livelli dello Stato. All’opposto, proprio la crisi viene nei fatti interpretata come dimostrazione della necessità di accelerare il processo di “liberazione” degli esecutivi, dei governi e dei loro capi da ogni impedimento “assembleare”. Se nel mondo contemporaneo l’emergenza è endemica, al Sovrano, chiunque esso sia, e solo al Sovrano tocca decidere. Ritornano le antiche metafore della nave in tempesta e del suo nocchiero: è bene che uno solo comandi. Prima che sia troppo tardi, prima di adottare poco alla volta, mitridatizzandoci con giudizio, modelli cinesi o putiniani, prima di diventare tutti sostenitori convinti di Trump e dei suoi nipotini europei, pensiamoci. La crisi genera pulsioni che possono diventare irresistibili verso soluzioni burocratico-centralistiche. Il populistico appello alla pseudo-sovranità degli staterelli si fonda su tali oggettive pulsioni. O insicurezza e, magari, morte, oppure bisogna affidarsi alla Madre-patria antica; lei vi vuol bene, i suoi politici vi amano. Fuori dalle sue mura regna l’anonimo nemico senza volto dei Poteri Forti. Queste mura non esistono più, ma la tendenza a nuove forme di statalismo, contrabbandate magari per stato di necessità, possono dilagare. Pensiamoci, ora, non dopo. Pensiamo a come già vengono interpretate certe trasformazioni dei nostri comportamenti in questo periodo in cui ragionevoli limitazioni dei nostri diritti sono ovviamente comprensibili. Perfino queste limitazioni sembrano essere considerate da certuni un preambolo a una sorta di obbligo giuridico della salute, a introdurre norme per cui sia lecito essere seguiti, “tracciati” e interrogati sulle proprie condizioni fisiche. Vi è poi la scoperta della bellezza del lavoro a distanza. Quanto sarebbe economico “stare a casa” sempre: un professore potrebbe magari servire mille classi, niente traffico, niente tempi e spazi sprecati. Convegni, conferenze, uffici, che arcaica organizzazione del lavoro! Che bisogno abbiamo del contatto personale? Dal contatto al contagio il passo è breve; questa esperienza lo insegna, non è vero? Impariamo da essa e proseguiamo sulla sua strada. L’informazione è tutto, la comunicazione (che avviene soltanto attraverso il rapporto diretto, il guardarsi in volto) un lusso. Tutti mezzi-busto tv. Lo “stare a casa”, il muoversi solo col web, non va vissuto come una triste necessità imposta dal virus, immaginiamolo come il nostro radioso futuro. Formidabile prevenzione a ogni pandemia. Pensiamoci - perché queste pulsioni, corrono ovunque, si esprimono sempre più nettamente, e si esprimono nei fatti. Pensiamo anche alle grandi potenze che le sostengono, che ne condividono l’implicita visione del mondo. Ogni giorno di crisi per Amazon, Google e compagnia sono miliardi di utile. Il colossale sistema dei big data raccoglierà miliardi di ulteriori informazioni, “conoscerà” ciascuno di noi, smantellerà ogni residua privacy. E continuerà a non pagare tasse o per l’impotenza dei piccoli Stati o per la sua simbiosi con i grandi sistemi politici. La libertà dello “stare a casa” avrà questo prezzo inevitabile. Vi è nell’uomo una “naturale servitù”, dicevano i saggi, e può darsi perciò che questo prezzo lo si voglia pagare. Pensiamoci. Perché l’odio si scatena contro Silvia Romano di Nadia Terranova La Stampa, 13 maggio 2020 Il problema è sempre la narrazione. Aderire o divergere, tradire o assecondare, smentire o compiacere, la domanda che più ci riguarda resta quella: come vogliamo comportarci rispetto alla storia che, alle nostre spalle, il mondo si sta raccontando su di noi? Silvia Romano, insultata, svalutata, bersagliata, minacciata di morte al suo rientro si è macchiata della più imperdonabile fra le colpe: non obbedire al rassicurante racconto costruito e proiettato su di lei, o meglio sull’unica certezza che avevamo, la sua immagine. Il viso fresco, l’aspetto mite, lo sguardo fiducioso e giovane combaciavano senza dissonanze con la brava ragazza, svagatamente idealista, rimasta un po’ bambina, ingenua e inconsapevole, bisognosa in fondo di un abbraccio o di due scapaccioni, due declinazioni solo in apparenza divergenti del medesimo sguardo paternalista. Quell’immagine involontaria nell’ultimo anno e mezzo ha spaccato l’Italia, fin dal giorno del rapimento: Romano era odiata dagli odiatori e difesa dai difensori per gli stessi motivi, assurta a simbolo suo malgrado, identificata in istantanee che già appartenevano a un altro mondo, a un’altra era. La foto di Silvia in mezzo ai bambini, con il viso imbrattato di colori e il sorriso schivo, veniva riproposta ogni giorno sulle bacheche dei social network, mentre la vera Silvia viveva rapimenti, nascondigli, fughe, il trascorrere inevitabile dei giorni. Il tempo, semplicemente, passava: per noi in modo normale, per lei vertiginoso, per la sua foto indifferente. Fino al suo rientro e all’insorgere della complessità, la parola che i social network peggio sopportano. Come si è permessa la ragazza di non essere fedele al ritratto che ci aveva lasciato e sulla base del quale l’avevamo scelta come bandiera o come bersaglio? Come si è permessa, lei che era dalla nostra parte, di scegliersi un’altra storia? Come ha potuto disobbedire a noi che la volevamo vittima, a noi che la volevamo colpevole? Come le è saltato in mente di sparigliare le nostre manichee litigate su Twitter, tradire quel suo aspetto che ci aveva promesso ingenuità da idolatrare o distruggere? Silvia, dovevi restare a casa, tanto più che noi ci stiamo da mesi per un virus che continua a sfuggirci mentre ci spinge sempre più in cattività; e tu cosa facevi mentre noi immobili perdevamo abitudini, affetti, amori, lavori? Come ti sei permessa di trasformarti, amare, cambiare idea o fartene una, usare o farti usare, mentre noi chiusi nei nostri pochi metri quadri non facevamo che ringhiare? E poi ancora: se sei una donna con l’aspetto di bambina perché non abbassi la testa e ringrazi, e se proprio non vuoi allora perché non ti travesti da aggressiva e rispondi a quell’altro cliché? La venticinquenne sorridente e provata ma senza nemico, che addirittura osa sottrarsi all’idea di confermarcene uno, è troppo per un’umanità spiazzata da un virus che da mesi ci insidia dicendoci: il nemico non esiste, anzi potresti essere tu, forse nemico è il tuo stesso corpo di asintomatico positivo. A essere minacciata di morte non è Silvia Romano, perché di lei, di ciò che davvero le è successo e di ciò che davvero sta pensando non sappiamo proprio niente, e, senza una gestione violentemente voyeuristica del suo rientro, avremmo saputo ancor meno. Il bersaglio dell’odio non è una persona, sono certe difficili parole: complessità, pudore, pazienza, dubbio. Scomparse da anni dietro gli schieramenti e le gogne da social, la fame di sangue e quella di eroi, e all’improvviso ricomparsi nel viso di Aisha, la ragazza che ci guarda enigmatica e distante, e, dopo aver sofferto in un modo a noi ignoto, sempre a noi inafferrabilmente sorride. Non regolarizzare i migranti nei campi è un favore alla mafia di Roberto Saviano La Repubblica, 13 maggio 2020 Dire che in questo modo si favorirebbe la schiavitù è falso: sarebbe come dire che distribuire acqua aumenterebbe il numero degli assetati o che più ambulanze farebbero crescere il numero di incidenti. LE fragole stanno marcendo, i pomodori penzolano con la polpa ormai sfatta, le ciliegie sono a terra, come tappeti intorno ai tronchi degli alberi, gli asparagi muoiono tra le foglie ingiallite, le fave hanno i baccelli anneriti e così anche i piselli. Le nespole sono infestate di mosche mentre le zucchine, in genere pronte per giugno, sono compromesse: nell’ultimo mese non sono state innaffiate con continuità. Ecco cosa ha significato non intervenire negli anni per fermare il caporalato e regolarizzare i lavoratori immigrati (e non) delle campagne. La più grande menzogna che in queste ore viene pronunciata declama che regolarizzare i lavoratori immigrati clandestini sia un modo per diffondere lo schiavismo. Falso! È nell’assenza di regole, di diritti che si crea il ricatto, il ricatto della sopravvivenza che obbliga ad accettare paghe bassissime, condizioni disumane e orari senza limiti o straordinari. Dire che regolarizzare i lavoratori immigrati senza documenti e diritti genera schiavitù è come dire che distribuire acqua aumenta gli assetati o che più autoambulanze provocano incidenti. Una politica civile non avrebbe dubbi: legalizzerebbe immediatamente il lavoro nero. La bugia del lavoro immigrato che lo toglie agli italiani è facilmente smentita, perché purtroppo molti sono gli italiani sfruttati, che cadono lavorando. Come Paola Clemente, 49 anni, italiana, morta nel 2015 mentre raccoglieva l’uva nei campi di Andria, schiantata da un carico di lavoro abnorme per due euro l’ora, o come Paolo Fusco, 55 anni, a cui scoppia il cuore mentre nelle campagne di Giugliano carica cocomeri, senza sosta, in piena estate. I diritti dati ai migranti sono diritti che arrivano a tutti. L’appello lanciato dal British medical journal e da Medici con l’Africa Cuamm che chiedeva di la regolarizzazione per rendere il lavoro nelle campagne dignitoso è rimasto inascoltato nonostante i dati terribili: 1500 persone morte in sei anni nei campi italiani. Nelle campagne del sud Italia (ma anche in molte aree del nord funziona ormai così) i proprietari terrieri affidano ai caporali la gestione del reclutamento dei lavoratori. I caporali pagano alla giornata, reclutano carne umana scegliendo il lavoratore in base alla “portata fisica”, ma in mancanza di braccia forti prendono tutto, purché il lavorante sappia stare in silenzio riempendo più cassette possibili. Questi lavoratori vengono pagati da 1 a 3 euro all’ora, più spesso il “contratto” è stipulato sulle cassette che riempiono: 50 centesimi a cassa di arance, 3 euro e 50 per le cassette di pomodori da 300kg. Vale la pena ricordare come funziona il meccanismo: la frutta e la verdura raccolte passano a un distributore, il distributore le porta ai banchi dei grossisti dell’Ortomercato, i mercati generali delle grandi città. Quindi, da qui, passa al venditore (supermercato o piccola distribuzione) e arriva sulle nostre tavole. Dove guadagnano le mafie? In ogni singolo passaggio. I clan guadagnano dalle terre spesso di loro proprietà, oppure dai camion e dalla percentuale che richiedono sulla frutta raccolta e sulla movimentazione delle cassette di frutta e verdura che vanno ai mercati delle grandi città. Quelli più importanti d’Italia sono Fondi (nel Lazio), Milano e Vittoria (in Sicilia). Sapete in quali mercati le organizzazioni criminali hanno sempre avuto un’influenza egemone? Fondi, Milano e Vittoria. A Fondi dove c’è una forte ingerenza dei Casalesi e di Cosa Nostra (inchiesta Gea 2015), anche l’Ndrangheta ha voluto la sua parte (operazione damasco 2009). Nel mercato ortofrutticolo di Milano prima comandavano le ndrine dei Morabito, Palamara Bruzzaniti, poi è arrivato, incontrastato, il potere dei Piromalli a controllare il commercio di frutta e verdura (inchiesta For a King 2006 - Operazione Provvidenza 2017). Il business degli ortomercati è così importante che più volte i boss di camorra, cosa nostra e ndrangheta si sono incontrati e hanno pianificato una spartizione del mercato per evitare conflitti (Sud Pontino 2006). La sceneggiata salviniana e dei Cinque Stelle contro la regolarizzazione dei lavoratori immigrati è un atto di complicità con l’imprenditoria mafiosa: eppure, nonostante tutto, in questo momento lo Stato ha un’occasione unica. I caporali sono allo sbando, hanno paura del contagio e non hanno più commesse: per questo è l’ora in cui si può agire. Non con un permesso stagionale di pochi mesi, perché alla scadenza di questo una massa di lavoratori tornerebbe nelle mani dell’illegalità, peraltro in una forma ancora più spietata perché “autorizzata” da uno Stato che confermerebbe la legittimità del lavoro nero salvo in epoca d’emergenza. Sul piano politico, in questa vicenda, emerge per ambiguità Luigi Di Maio: l’ambizione rischia di renderlo la negazione vivente dei principi (per quanto sconclusionati) del Movimento da lui guidato fino a qualche mese fa. Mi appello, dunque, alla dignità dei parlamentari del M5S perché diano, almeno oggi (il voto sulla Diciotti non lo dimenticheremo), una dimostrazione di intelligenza e umanità. Se dite che regolarizzare il lavoro nero significa fare il gioco di Salvini, dite una sciocchezza a cui non credete nemmeno voi. E se qualcuno di voi pensa davvero che sia una strategia vincente inseguire a destra Salvini, ricordo che per averlo fatto avete rischiato l’estinzione. Dimostrate, piuttosto, di avere una reale conoscenza delle dinamiche mafiose, perché altrimenti avrà ragione chi tra poco vi chiederà di non osare più nominare le vittime della criminalità organizzata, la cui memoria sconta già l’offesa di essere divenuta la ragione sociale di tanti inadeguati. Siamo già in ritardo: quello su cui oggi state facendo opposizione doveva già essere legge nel nostro Paese da decenni. Non è tollerabile aspettare un minuto di più. Siate seri, per quanto mi riguarda potete anche tenere tutto lo stipendio da parlamentari, purché facciate qualcosa per risolvere questo drammatico problema. Migranti. Regolarizzazioni, l’ultimo muro grillino di Daniela Preziosi Il Manifesto, 13 maggio 2020 Crimi e misfatti. Braccianti, Crimi insiste: niente sanatoria, non cedo di un millimetro. Poi arriva l’accordo. Dopo la giornata di stallo, oggi il testo nel decreto Rilancio. È un’altra lunga giornata di stallo quella che vive il governo sulle regolarizzazioni dei migranti. Fino alla sera, quando finalmente, dopo ore di muro contro muro, il reggente Crimi si siede a un tavolo con il ministro Provenzano. A notte la notizia è che la quadra è trovata. Ma il preconsiglio sul decreto Rilancio era iniziato alle dieci di mattina. I ministri restano incollati agli schermi senza soluzione di continuità, giusto la pausa pranzo. E poi di nuovo dalle 23. Non è solo la vicenda dell’agricoltura a rallentare i lavori. Ma certo la regolarizzazione dei braccianti è il conflitto più rumoroso che vive la maggioranza in queste ore. L’accordo raggiunto domenica dalla maggioranza, Conte presente e officiante, con il sì di Crimi e Bonafede, da lunedì è sconfessato. Le versioni divergono. Martedì sera, ieri, tutte le fonti non grilline concordano sul fatto che il testo su braccianti, badanti e colf - fortissimamente voluto dai ministri Bellanova, Provenzano e Lamorgese, e subìto ma approvato sotto condizione dalla ministra Catalfo - sarà nel decreto. Quelle grilline invece scommettono sul no. Per tutto il giorno i vertici 5s avvertono, avvisano e minacciano: le regolarizzazioni non s’hanno da fare. In mattinata Palazzo Chigi provare a mediare solo ricapitolando i fatti: domenica “è stata raggiunta una sintesi politica rimettendo alla ministra Lamorgese il compito di tradurla sul piano tecnico-giuridico”. La nota aggiunge che il M5s “si sta legittimamente interrogando” ma che il premier resta fedele all’accordo: “Regolarizzare per un periodo determinato immigrati che già lavorano sul nostro territorio significa spuntare le armi al caporalato, contrastare il lavoro nero, effettuare controlli sanitari e proteggere la loro e la nostra salute tanto più in questa fase di emergenza sanitaria”. Da Facebook Crimi lo smentisce. Ma deve smentire anche il sé stesso della domenica: sono molti i testimoni che riferiscono il suo via libera all’accordo. La replica del reggente 5s: “Forzature maldestre, i testi anche migliorati non hanno ancora incontrato la mia approvazione”. A quella riunione di maggioranza sono presenti i quattro ministri, il sottosegretario Fraccaro, la vice ministra Castelli, il ministro Patuanelli. C’è anche il vicesegretario del Pd Andrea Orlando, che twitta: “Domenica notte abbiamo concluso una riunione di maggioranza nella quale si sono sciolti tutti i nodi politici. La mattina dopo sono sorti dubbi, legittimi per carità, nel M5s. Chi è che tiene fermo il decreto?”. A quella riunione ciascuno ha chiesto il suo, Crimi ha chiesto e ottenuto che i permessi di lavoro durassero sei mesi dalla richiesta di regolarizzazione. Il capogruppo Iv al senato Faraone spiega che anche i renziani hanno fatto qualche passo indietro: “Teresa (Bellanova, ministra dell’Agricoltura che aveva minacciato le dimissioni, ndr) è stata molto responsabile, aveva una proposta originaria, ha accettato una buona mediazione su richiesta di Conte che non può essere più messa in discussione. Da lì non ci muoviamo, per noi il discorso è chiuso”. Altro che chiuso, per Crimi: “Purtroppo l’ultima bozza visionata ieri sera (lunedì, ndr) riporta ancora la sanatoria dei reati penali e amministrativi per chi denuncia un rapporto di lavoro irregolare”, “sul punto non arretreremo di un millimetro”. Il reggente sciorina il linguaggio della casa per le grandi occasioni, descrive la legge come un “colpo di spugna”, una “sanatoria” con “effetti morali devastanti sul Paese”. Tutta questa enfasi si riferisce a una frase dell’art.1 del testo secondo cui i datori possono presentare istanza per concludere un contratto di lavoro “ovvero per dichiarare la sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare, tuttora in corso, con cittadini italiani o stranieri”. Questo sarebbe lo “scudo ai caporali”. In realtà è la possibilità di far emergere il lavoro nero. Possibilità cui non possono accedere datori pregiudicati per questi e altri reati come dettagliatamente prescritto al comma 7. Precisano dal Viminale: “Il testo concordato è pronto; ed è il frutto della sintesi raggiunta domenica tra le forze di maggioranza e il governo per rispondere alle esigenze di sicurezza, anche sanitaria, e alle pressanti richieste del mondo produttivo e delle famiglie italiane”. L’accordo c’era. Lo scontro nei 5 Stelle c’è. L’ala “destra” vicina a Di Maio ieri non ha smesso di tenere alta la fibrillazione di tutto il gruppo. È persino circolata una bozza con ampie ed esibite cancellature, come fosse una nuova versione dell’accordo. Ma è un fake. Del resto una sanatoria che non sana nulla è una legge senza senso. Fino a ieri sera le manovre 5S hanno avuto come obiettivo stralciare la legge dal decreto oggi al varo dei ministri verso un “provvedimento successivo”. Tradotto: su binario morto. Anche perché ogni giorno che passa il provvedimento perde di efficacia: “L’emergenza è adesso: se non troviamo subito una soluzione chi ne pagherà le conseguenze saranno gli italiani ancora una volta, pagando i prodotti delle nostre terre a carissimo prezzo, e le nostre aziende agricole”, avverte Faraone. Fino a ieri notte il provvedimento era in salvo nel dossier del decreto Rilancio. Forum Droghe, 25 anni di politica come passione di Susanna Ronconi e Stefano Vecchio Il Manifesto, 13 maggio 2020 Nel 1995 il Forum Droghe avviava la sua battaglia per una politica alternativa alla legge Jervolino-Vassalli. In questi anni si sono moltiplicate le realtà che lavorano per politiche diverse, dando vita a una molteplicità di luoghi e ambiti. Era il 1995, Forum Droghe (FD) avviava la sua battaglia per una politica sulle droghe alternativa a quella varata con la legge Jervolino-Vassalli, sull’onda della war on drugs importata in Italia dal governo Craxi. Una affollata assemblea, a Roma, il 13 maggio 1995, convocata da Stefano Anastasia e da Grazia Zuffa (prima Presidente del Movimento), annunciava i temi di quella che sarebbe stata la lunga, tenace e ricca esperienza di FD, fino ai nostri giorni: la riforma della legge per decriminalizzare il consumo (con le prime proposte al Parlamento), la legalizzazione della canapa, la riduzione del danno (RdD) come strategia e intervento (è di allora la proposta di somministrazione controllata di eroina), i temi del carcere e della pena, i diritti di chi consuma. FD nasce allora come luogo di incontro di persone, associazioni, movimenti e personalità della politica, un Forum appunto, capace di sviluppare un programma alternativo per il governo di un fenomeno che, intanto, era cresciuto e diversificato rispetto a quello che aveva dato vita alla riforma del 1975: il nodo politico era non solo opporsi alla legge 309, ma anche non pensare di poter tornare semplicemente alla normativa antecedente. Il nodo era disegnare una politica radicalmente alternativa, che imparasse dai fallimenti della war on drugs, ma che soprattutto sapesse individuare tendenze e prospettive, con proposte all’altezza della sfida. Lo spazio politico era quello della vittoria del referendum del 1993, che aveva espresso una maturità degli italiani contro l’approccio iperpunitivo, e una alleanza tra “non punizionisti” e “antiproibizionisti”, di cui la RdD, come politica strategica, da subito era apparsa un terreno comune. A leggere oggi i materiali di quella assemblea ritroviamo tutti i temi costitutivi che per 25 anni e ancora oggi caratterizzano la proposta di FD, che su leggi, politiche di RdD, legalizzazione, lavoro sul “senso comune” sulle droghe, continua e si sviluppa, in contesti via via mutati. Ma troviamo anche quanto - nel bene nel male - è cambiato, e oggi ci sfida. Per esempio, nel male: colpisce del 1995 la presenza della politica, dei parlamentari, il loro “lavorare con” quel pezzo di società civile che attraversava il laboratorio FD, una presenza che nel contesto attuale non esiste più, tranne rare eccezioni, e che è uno dei nodi per noi più problematici. Nel bene, molte cose: la RdD in 25 anni è diventata realtà e approccio sconosciuto solo alla vecchia e asfittica politica attuale, appunto, ma non alla società civile, sebbene FD ancora oggi debba battersi perché ne venga colta la portata strategica; il senso comune sulle droghe, nella società, è mutato, nonostante i media mainstream continuino a demonizzarle, e la legalizzazione della cannabis è oggi un dibattito aperto e diffuso. Abbiamo capito che fare ricerca e proporre sguardi inediti sta alla base della proposta politica, e oggi più di prima lavoriamo su questo e sulla comunicazione, grazie al sito di fuoriluogo.it, luogo di informazioni e dibattito sempre più aperto e che ha raccolto l’eredità del mensile di carta, uscito dal 1995 al 2008 come supplemento del manifesto: abbiamo aumentato la nostra presenza nelle reti internazionali. Da allora si sono moltiplicate in modo esponenziale le realtà che lavorano per politiche alternative, dando vita a una molteplicità di luoghi e ambiti: questo ha modificato in parte i modi del nostro essere “forum”, ma non ci ha fatto perdere il nostro essere un laboratorio sulle droghe aperto, mai autoreferenziale. È quello che intendiamo continuare a essere: 30 anni di guerra alla droga sono davvero troppi. Noi, l’Africa e i volontari. Il vuoto riempito dalle Ong di Goffredo Buccini Il Manifesto, 13 maggio 2020 La vicenda di Silvia Romano ripropone la questione delle organizzazioni non governative e del loro ruolo di fronte all’immigrazione e alla povertà. La gazzarra attorno a Silvia Romano mostra purtroppo una nazione spaccata che non trova tregua neppure nella gioia per il ritorno a casa di una sua cittadina. Ma, soprattutto, è solo una spia della vera questione: che non è, o non è soltanto, “quanto ci è costato” liberare la ragazza; e neppure quanto valga quella “conversione” all’Islam all’esito di 18 mesi di prigionia sulla quale sarebbe decente stendere un velo di riserbo e sobrietà piuttosto che accapigliarsi con ferocia. La vera, semplice questione è: cosa pensiamo delle Ong di fronte ai problemi che il nuovo secolo ci pone sull’immigrazione, sull’Africa, sulle povertà? A cosa servono le organizzazioni non governative? E qual è la loro natura? Sono associazioni per delinquere che, ammantandosi di buonismo, fanno soldi sulla pelle degli ultimi? Sono, al contrario, raggruppamenti di eroici giovani che rispondono con coraggio alle sfide del tempo? Sono pirati o salvatori? Attraggono i migranti o evitano la morte in mare di chi partirebbe comunque? Su queste domande il Paese è diviso lungo una linea di frattura che non sempre corrisponde agli schieramenti di partito e alle maggioranze governative. In ballo ci sono sensibilità, cultura, fede, convinzioni. Le Ong non sono la luna ma sono il dito che la indica. L’esempio più facile da capire si trova in mare, nel tratto di Mediterraneo che più ci è familiare per le baruffe politiche di questi anni. E la questione nasce il 3 ottobre 2013, quando in un naufragio a poche miglia da Lampedusa annegano 366 migranti davanti ai nostri occhi. Sotto il forte impatto emotivo di quei morti (riemergono cadaveri di bambini e di mamme col feto ancora in grembo…) il governo di Enrico Letta vara la missione Mare Nostrum, interamente gestita dalla nostra Marina militare. L’obiettivo è spingersi fin sotto le coste libiche per salvare vite umane. I nostri marinai lo fanno così bene che dal 18 ottobre 2013 al 31 ottobre 2014 salvano 156.362 vite in 439 interventi Sars (Search and rescue), arrestano 366 scafisti, catturano 9 navi madri (quelle che abbandonano i profughi su barche più piccole), controllano coi loro medici di bordo il 99% dei migranti prima dello sbarco (con grande beneficio per la salute di tutti noi). Un successo. Ma i tempi cambiano. La missione costa 9 milioni al mese: troppi, si dice. Il nuovo governo Renzi è virato sull’efficientismo, cancella la missione mentre il ministro degli Interni, Angelino Alfano, vende come un successo la nuova missione Triton, gestita stavolta da Frontex, l’agenzia europea che controlla le frontiere. Si tratta di una bufala. Triton non ha, chiariranno i nostri partner europei, alcun obiettivo di salvataggio. Le nostre navi devono arretrare di decine di miglia. Non più pattugliato dalla Marina, il nostro mare torna mare di nessuno, di scafisti e banditi libici, di morti. È in questo vuoto che si inseriscono le Ong. Possono piacerci o meno, possono mandarsi o meno segnali d’intesa coi barconi, ma stanno lì perché noi non ci siamo più, perché l’Italia si è ritirata e l’Europa non ci pensa proprio a prenderne il posto. Al netto delle accuse lanciate da Matteo Salvini e Luigi Di Maio (il copyright sui “taxi del mare” è del giovane grillino attualmente al governo con il Partito democratico), è inevitabile rilevare due dati di fatto: nessuna delle inchieste aperte finora (talune con grande clamore mediatico) ha dimostrato un “cartello” tra Ong e organizzazioni degli scafisti; i ricercatori dell’autorevole istituto Ispi (con quasi 90 anni di reputazione internazionale) hanno invece dimostrato dati alla mano come non esista alcunpull factor, ovvero come la presenza in mare delle navi Ong non sia un fattore di attrazione per ulteriori partenze: i migranti sono spinti da guerre, fame, terrore o più banalmente speranza; e partono comunque. Silvia Romano non andava per mare. Ma esercitava anche lei un’opera di sostituzione, minuscola e preziosa, nel villaggio keniota di Chakama. Si occupava, con attività di strada, di piccoli orfani. Aveva messo su una “Ludoteca nella Savana”, nel libro dei sogni c’era un orfanotrofio in muratura per dare un’istruzione ai bimbi. Perché sostituzione? Perché la formazione dei giovani africani non è faccenda di cui noi europei possiamo disinteressarci. Un continente che si trova di fronte a noi nel Mediterraneo e nel 2050 avrà due miliardi e mezzo di abitanti, metà dei quali con meno di 25 anni, ci interpella fortemente, ben al di là delle chiacchiere sul piano Marshall per l’Africa che ogni leader europeo usa per coprire il proprio vuoto di idee. C’è chi sostiene che la piccola Ong di Silvia abbia omesso le debite precauzioni: lei non era neppure assicurata. Di certo la cooperazione va gestita senza improvvisare, le Ong fai-da-te sono un pericolo prima di tutto per chi ci lavora, servirebbe qualche regola. Ma a Chakama, al posto di Silvia o accanto a lei, dovevano esserci maestri e funzionari dell’inesistente Unione europea, ingegneri a costruire orfanotrofi, soldati a proteggerli. Come in mare, al posto di Carola Rackete, dovevano starci ancora i nostri marinai. Non è così? Ci pare un’utopia da anime belle? D’accordo. Ma allora non stupiamoci della supplenza, non infastidiamoci per questi cerotti sulle nostre coscienze. Forse, a guardar bene, deve essere per quello che ci fanno tanta antipatia i volontari: perché, solo con le loro azioni, evidenziano la nostra inazione. Col solo loro entusiasmo, denunciano il nostro cinismo. Oxfam: “Due miliardi di persone tra bombe e pandemia” di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 13 maggio 2020 In un nuovo rapporto diffuso oggi Oxfam denuncia le catastrofiche conseguenze del mancato raggiungimento di un “cessate il fuoco globale” e di uno stop alla vendita di armi dirette a Paesi in conflitto, che renderà impossibile contenere la pandemia in tantissimi aree del mondo, dove decine di milioni di persone sono in fuga dalla violenza. “Uomini, donne e bambini che devono fare i conti con sistemi sanitari fatiscenti e ospedali distrutti, mentre a milioni si trovano in campi profughi, dove contenere il contagio è ancora più difficile, per la mancanza di servizi igienico sanitari adeguati e lo spazio vitale necessario a mantenere le norme di distanziamento sociale”. Le situazioni più gravi - In Yemen si stanno registrando decine di contagi da Covid19 con solo metà delle strutture sanitarie in funzione e oltre 100mila casi sospetti di colera registrati dall’inizio dell’anno. E questo in un panorama di scontri nonostante sia stato proclamato un cessate il fuoco. In Myanmar centinaia di migliaia di persone vivono in campi sovraffollati con scarsissimo accesso a strutture sanitarie, con 1 milione di persone che non ha accesso a internet, diventato essenziale per ricevere informazioni sul virus. Nella Repubblica Centrafricana l’Onu ha appena annunciato la sospensione della sua risposta umanitaria a causa della rottura del cessate il fuoco e dell’aumento esponenziale della violenza nel Paese, nonostante a febbraio 2019 i gruppi armati in conflitto avessero firmato una tregua con il Governo. In Burkina Faso le crescenti violenze riducono drammaticamente l’accesso a cibo, acqua e servizi sanitari di base per la popolazione, mentre le restrizioni adottate per prevenire la diffusione del virus hanno peggiorato condizioni di vita già impossibili. La vendita di armi - L’anno scorso, fa notare Oxfam, la spesa militare ha raggiunto i 1.900 miliardi di dollari, una cifra che supera di 280 volte l’appello delle Nazioni Unite per una risposta globale al coronavirus. “Per questo Oxfam lancia un appello urgente a tutti i Paesi, che stanno continuando a esportare armi destinate a raggiungere zone di conflitto a interrompere immediatamente ogni vendita ed esportazione. Lavorando al contrario per fare pressione sulle parti in conflitto perché accettino un cessate il fuoco globale, che porti ad una pace duratura” si legge nel comunicato stampa. Anche l’Italia può fare la sua parte, per affrontare la pandemia nei Paesi più vulnerabili. Oxfam lancia una petizione per chiedere al Governo, di sostenere in sede internazionale il “cessate il fuoco”, cessando la vendita di armi verso tutte le parti in conflitto che non lo rispetteranno. Libia. L’Onu contro le autorità libiche: “Abusi e traffico di persone” di Nello Scavo Avvenire, 13 maggio 2020 Stavolta per Antonio Guterres è stato come fare i nomi. Nero su bianco, con un dossier al Consiglio di Sicurezza. La Corte penale dell’Aia lo ha già acquisito. Una plateale sconfessione verso chi persevera nei rapporti opachi con Tripoli: dai ministeri coinvolti nel traffico di persone agli esecutori degli stupri, fino a quei governi, come Italia e Malta, che tra memorandum e accordi segreti cooperano nei respingimenti illegali. “La situazione dei migranti e dei rifugiati, compresi quelli detenuti nei centri di detenzione ufficiali, rimane fonte di grave preoccupazione”. Nel rapporto del segretario generale è scritto che la missione Onu a Tripoli (Unsmil) “e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite peri diritti umani hanno continuato a ricevere segnalazioni di detenzione arbitraria o illegale, tortura, sparizioni forzate, sovraffollamento”. Non solo nelle prigioni clandestine dei trafficanti, ma “nelle strutture di detenzione sotto il controllo del Ministero dell’Interno”. Una chiamata in causa per l’apparato di Fathi Bashaga, il ministro degli Affari interni a cui sono affiliate diverse milizie. A conferma Guterres segnala come dal 15 gennaio al 5 maggio 2020 siano stati intercettati in mare 3.115 “tra migranti e rifugiati”. Ma circa “1.400 sono detenuti nelle prigioni sotto il controllo del ministero dell’Interno”. Che fine hanno fatto tutti gli altri? La risposta la suggerisce il dossier. Mesi fa, quando Avvenire rivelò la presenza del guardacoste e trafficante Abdurhaman al Milad in Italia nel 2017, il ministro Bashaga assicurò che quel Bija sarebbe stato arrestato e rimosso dal comando della Guardia costiera e del porto di Zawiya, il principale snodo di ogni contrabbando: esseri umani, petrolio, armi. Non solo Bija è rimasto al suo posto - e in questi giorni non manca di autopromuoversi divulgando immagini che lo vedono impegnato in battaglia - ma attraverso la milizia Al Nasr decide della vita e della morte di centinaia di internati. Guterres è chiaro: “Eunsmil ha ricevuto notizie credibili circa il contrabbando e il traffico di richiedenti asilo e rifugiati nei centri di detenzione ufficiali di Abu Isa e al Nasr a Zawiyah”. Si tratta proprio delle prigioni governative affidate alla milizia Al Nasr. Confermando anni di inchieste giornalistiche e denunce delle agenzie umanitarie, il segretario generale chiede di interrompere la cooperazione per la cattura dei migranti in mare: “La Libia non è un porto di sbarco sicuro”. Nonostante questo Paesi come Italia, Malta e agenzie europee come Frontex, hanno intensificato il sostegno alla cosiddetta Guardia costiera libica a cui vengono segnalati i barconi da intercettare. “Donne e ragazze detenute nelle carceri e nei centri di detenzione hanno continuato a essere esposte alla violenza sessuale”, si legge ancora. Il libero accesso ai campi di prigionia ufficiali resta precluso ai funzionari Onu. Tuttavia nelle ultime settimane gli osservatori “hanno potuto documentare otto casi di donne e ragazze che erano state stuprate da trafficanti e personale di sicurezza libico”. La riprova della connessione diretta tra uomini delle istituzioni e contrabbandieri di vite umane. Di ottenere giustizia nei tribunali locali non c’è speranza. Con il pretesto della pandemia “i casi penali sono stati rinviati”, si legge nel rapporto. Solo una scusa: “I membri della Procura della Repubblica non erano disposti o non erano nelle condizioni di indagare, a causa della paura di ritorsioni da parte di gruppi armati”. C’è solo una cosa fare subito. Antonio Guterres lo dice senza girarci attorno: “Esorto gli Stati membri a rivedere le politiche a sostegno del ritorno di rifugiati e migranti in quel Paese”. Bolivia. Muore un detenuto per coronavirus, isolati oltre duecento carcerati agenzianova.com, 13 maggio 2020 La polizia boliviana ha messo in isolamento oltre duecento reclusi del carcere di Palmasola, nella provincia di Santa Cruz, dopo aver constatato che uno dei due decessi registrato la scorsa settimana era da attribuirsi alla Covid-19. Pur non essendoci prove di contagio, le autorità hanno preferito isolare chi ha avuto contatti con la vittima. “Abbiamo già iniziato ad applicare il protocollo medico, si stanno isolando le persone, facendo le analisi e al momento si registra una situazione di calma nel carcere di Palmasola”, ha detto il direttore generale della polizia, Rodolfo Montero, alla testata “El Deber”. Immagini diffuse più tardi da “Bolivia Tv” mostrano però l’avvio di una serie di proteste dei reclusi, preoccupati del possibile propagarsi della malattia dentro le mura carcerarie. La stessa catena televisiva ha mostrato l’ingresso in carcere di non meno di 50 agenti di polizia, per rafforzare la sicurezza nel perimetro. Il carcere di Palmasola è noto per essere uno dei più delicati dal punto di vista della gestione interna. Secondo statistiche riportate dai media locali, al suo interno si trovano circa seimila prigionieri, il 70 per cento dei quali una attesa di un processo. La struttura, che ospita quasi un terzo della popolazione carceraria nazionale, è tornata più volte al centro delle cronache per gli scontri tra le fazioni rivali. Uno degli episodi più problematici si è avuto ad agosto del 2013, quando almeno una trentina di persone sono morte proprio a seguito di uno scontro tra bande criminali per la supremazia all’interno del carcere. Violenze sviluppatesi nel padiglione di massima sicurezza, saldate con il ferimento di altre decine di carcerati. A tutto l’11 maggio, in Bolivia si contano 2.831 casi di contagio e 122 morti. A inizio maggio la presidente ad interim Jeanine Anez ha firmato un decreto di indulto e amnistia per alleggerire il peso della popolazione nelle carceri. Un provvedimento valido per i detenuti con un’età superiore ai 58 anni e per le donne dai 55 anni in su con uno o più figli. La legge ha però suscitato critiche sulla sua reale efficacia. Secondo quanto scrive il quotidiano “El Deber”, la legge impone dei requisiti che i potenziali beneficiari non possono mettere in pratica da dietro le mura, a meno di non affrontare spese legali difficilmente compatibili con il reddito della popolazione carceraria. Camerun. Sant’Egidio porta aiuti nelle carceri. Amnesty. situazione allarmante per Covid-19 onuitalia.com, 13 maggio 2020 Per sostenere la crisi umanitaria e sanitaria che si è sviluppata in seguito alla pandemia di Covid-19 la Comunità di Sant’Egidio in Camerun ha organizzato in questi giorni distribuzioni di generi alimentari e coperte in quattro prigioni nell’estremo nord del paese africano. In tutta l’Africa la situazione delle carceri sta continuando ad aggravarsi, ma in Camerun la Comunità ha inoltre promosso la liberazione di 12 prigionieri che avevano diritto ad essere liberati, ma che secondo Sant’Egidio erano stati “dimenticati” in prigione per motivi burocratici. Dalle prigioni del Camerun arrivano notizie confuse e allarmanti sulla diffusione del virus, secondo quanto scrive Riccardo Noury di Amnesty International. Almeno un detenuto della prigione centrale Kondengui di Yaoundé è risultato positivo al tampone ed è stato trasferito in ospedale. Altri due detenuti sono morti pochi giorni dopo il rilascio. Ma i numeri - afferma Noury - potrebbero essere molto alti. Un detenuto della stessa prigione ha detto ad Amnesty International che ci sono molti ammalati e non si capisce da dove parta il contagio. I detenuti hanno paura di recarsi nell’infermeria perché lì ci sono molti positivi. A chi presenta sintomi viene somministrata una bevanda a base di zenzero e aglio. In una lettera inviata al ministero della Giustizia, un gruppo di detenuti ha denunciato che l’infermeria è ‘satura di prigionieri’ e il personale medico non riesce a gestire la situazione. Il decreto emanato dal governo il 15 aprile ha favorito il rilascio di centinaia di prigionieri: 831 solo nella regione dell’Estremo Nord. Ma il sovraffollamento resta una realtà spaventosa: 432 per cento a Kondengui, 729 per cento nella prigione di Bertoua, 481 per cento in quella di Sangmelima e 567 per cento in quella di Kumba. Come in molti altri casi, scrive ancora la ong, il provvedimento non ha riguardato i prigionieri politici e di coscienza. Tra questi Mamadou Mota, vicepresidente del partito di opposizione Movimento per la rinascita del partito del Camerun; Mancho Bibixy Tse, che sta scontando una condanna a 25 anni solo per aver preso parte a proteste pacifiche contro l’emarginazione delle province anglofone del paese; Amadou Vamoulke, 70 anni, in cattive condizioni di salute, ex direttore della tv di stato, in detenzione preventiva dal 2016; e il più recente, Franck Boumadjieu, un attivista politico che aveva denunciato il silenzio del presidente Paul Biya all’inizio della pandemia.